La strage silenziosa: un suicidio in cella ogni cinque giorni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 novembre 2023 Un giovane detenuto di 28 anni si è tolto la vita domenica 29 ottobre nella Casa circondariale di Caltanissetta, dove era recluso dal luglio del 2021. Sarebbe uscito dal carcere tra sei mesi. La sua morte porta il numero dei suicidi nelle carceri italiane nel 2023 a 54, creando una media spaventosa di un suicidio quasi ogni cinque giorni, con alcune tragedie che si sono succedute in modo rapidissimo, come dimostrato dai due recenti casi che sono avvenuti nel giro di sole 24 ore. A comunicarlo è il Garante nazionale delle persone private della libertà. Questo oscuro trend, che sembra non mostrare alcun segno di declino, non può essere ignorato. Dati allarmanti già emersi dal precedente documento del Garante Nazionale, che mettono in evidenza una situazione critica: dal 2018, escludendo il picco tragico del 2022 con 85 suicidi, si è mantenuta una costante di circa 60 suicidi in carcere ogni anno. Questo segnale inquietante, soprattutto alla fine di ottobre, rischia di superare questa già spaventosa cifra. Oltre ai suicidi confermati, bisogna considerare anche i “morti per causa da accertare”, che spesso risultano essere casi di suicidio. Finora, nel 2023, come riporta il comunicato del Garante Nazionale, ne sono stati registrati 21. Questi numeri non sono semplici statistiche, ma rappresentano persone, ognuna con una storia di disperazione e vulnerabilità trascurate dalla società. Lo studio condotto dal Garante nazionale delle persone private della libertà ha già messo in luce una verità sconvolgente: il tasso di suicidi in carcere è stato superiore di 18 volte rispetto a quello della società esterna. Questo fenomeno, lontano dall’essere marginale, è un problema sociale profondo. Molte vittime si tolgono la vita nelle prime settimane di detenzione o poco dopo il rilascio, segnalando una mancanza di prospettive e uno stigma sociale che aspetta coloro che lasciano il carcere, di cui la società è collettivamente responsabile. Questa situazione solleva interrogativi profondi sulla nostra società nel suo complesso. Affrontare questo problema richiede una risposta collettiva. Le soluzioni non sono semplici e coinvolgono l’intera collettività e i suoi fondamenti culturali. Il Garante nazionale ha riportato che delle 54 persone che si sono tolte la vita in carcere quest’anno, tre avrebbero potuto uscire entro la fine dell’anno, cinque nel 2024, tre entro i primi mesi e due alla fine. Collegare questi atti di disperazione alle condizioni della vita detentiva è complesso e spesso improprio. Piuttosto, è cruciale considerare la mancanza di prospettive e lo stigma sociale che affligge chi esce dal carcere. Il Garante nazionale richiama l’attenzione su queste tragiche realtà e sottolinea l’importanza di non abbassare la guardia. L’andamento dei suicidi in carcere nel 2023, pur essendo leggermente inferiore rispetto all’anno precedente, richiede un impegno costante. Le autorità, la politica ed ogni persona coinvolta nel sistema penitenziario e giudiziario è chiamata a riflettere su queste tragedie umane. Riflessioni “in grate” di Enrico Sbriglia* L’Opinione, 2 novembre 2023 La curiosa proposta di riutilizzare le caserme dismesse come carceri, Mentre il ministro Carlo Nordio, forse consigliato da quanti non hanno una visione realistica del mondo penitenziario, ipotizza un riutilizzo delle caserme, dismesse tanti anni fa, per fronteggiare lo straripamento delle già stressate carceri italiane, in modo irriverente, mese dopo mese, prendono invece forma tante carceri “virtuali”, tutte piene di persone detenute con i propri nomi e cognomi, le quali si vanno a aggiungere a quelle già tronfie di ristretti. I dati che ho analizzato non hanno personalità politica e non conoscono la dimensione del pregiudizio. Le persone detenute nelle carceri italiane, al 31 gennaio 2023, a fronte di una cosiddetta e mistificatoria capienza “regolamentare”, cioè ricettiva, di 51.403 “posti”, erano 56.127 unità. Al 30 settembre dello stesso anno, non solo la capienza si è ridotta a 51.285 unità, ma la popolazione è aumentata, giungendo al numero di ben 58.897 unità (dati estrapolati dal sito del Ministero della Giustizia). Perciò, mentre il ministro ipotizza l’impiego di caserme, da individuare e riadattare come nuove carceri, allo scopo evidentemente di soddisfare una esigenza che è alle sue spalle, innanzi a lui, mese dopo mese, si vanno materializzando altre analoghe emergenze, dovendo trovare delle idonee sistemazioni per allocare i detenuti cosiddetti “nuovi giunti”. Da gennaio a settembre 2023, la popolazione detenuta è, infatti, cresciuta di ben 2.770 persone; all’incirca il corrispettivo della capienza “sold out” di almeno altri 10 istituti che, però, non ci sono, dove si considerasse una capienza media per ogni struttura, solo immaginata, di 277 detenuti, oppure di un numero maggiore, visto che al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria si preferisce parlare di nuovi “padiglioni penitenziari”. I quali, normalmente, accolgono circa 200 detenuti. Talché sarebbero già occorsi almeno tredici complessi detentivi all’interno delle aree penitenziarie esistenti. Francamente, non mi piace l’idea di carceri che gemmano altre carceri al proprio interno; mi ricorda l’anatocismo bancario, dove gli interessi producono altri interessi. Occorrerebbe infatti pensare che le carceri già realizzate, ancorché non belle e perfette, comunque rispondevano a un minimo di logica architettonica, spesso dotate di spazi verdi e campetti sportivi, con la previsione di una qualche, seppure modesta, distanza tra un manufatto e l’altro, onde ridurre la sensazione di oppressione che produce effetti negativi pure nell’umore di quanti vivano quei contesti, compresi gli stessi operatori penitenziari. Insomma, un tentativo di composizione residenziale urbana “sui generis”, dove non prevalesse la cupa sovrapposizione di cemento su cemento, infarcito di telecamere, barriere, filo spinato, garitte, impianti antintrusione e anti-scavalcamento. Inoltre, edificare nuovi padiglioni penitenziari, dentro altre carceri, richiede pure tanta attenzione nell’accordo con i servizi e sottoservizi esistenti, per prevenire il formarsi di pericolosissime criticità: si pensi agli impianti tecnologici di gestione del calore, alle fognature, agli impianti e centrali elettriche, a quelli idraulici ed alla fornitura costante di acqua potabile e dei relativi allacciamenti anche per gli impianti antincendio, idem per le linee dati e i cablaggi dedicati, le linee telefoniche. Tutti aspetti rilevanti dove si minaccino l’ordine e la sicurezza degli istituti, specie nel caso di evacuazione della popolazione detenuta nel caso in cui vi fossero incendi, inondazioni, scosse telluriche, rivolte. Ed un tanto anche a doverosa tutela di quel bene prezioso che è il capitale umano penitenziario. Non tenere conto dell’accresciuto carico antropico, fatto cioè di persone e non di cose inanimate da stivare, non aiuta certamente a favorire una più adeguata e ordinata gestione del tutto. Ma se pure si volesse insistere nell’idea, occorrerà immaginare una media temporale per le nuove realizzazioni, sempre che tutto sul piano amministrativo risulti disponibile e perfezionato (fondi già assegnati, progetti preliminari, definitivi ed esecutivi approvati, gare d’appalto esperite e che abbiano superato il rischio di ricorsi di sorta, conforto degli enti locali e delle aziende sanitarie, di regola colpevolmente poco coinvolte, previsione certa delle tempistiche e delle autorizzazioni, soprattutto in materia di allacci di utenze telefoniche, del gas, dell’acqua, dell’energia elettrica, delle reti informatiche intranet e di quelle ordinarie, della rimozione rifiuti, della logistica, da prevedere e assicurare, per dei nuovi servizi pubblici o per il loro ampliamento, come quello del trasporto urbano per i visitatori e familiari dei detenuti, nonché per lo stesso personale, al fine di prevedere l’installazione di nuove fermate di autobus e metro), di almeno altri cinque anni. Previsione comunque davvero ottimistica, di fronte a storie di carceri, ancora da realizzare, che datano almeno trenta se non più anni di gestazione e di altri previsti istituti penitenziari, i cui lavori sono stati avviati ma ancora non conclusi, per ragioni diverse e spesso sub iudice. Il florilegio di errori e orrori di diversa natura compiuti negli ultimi decenni è formidabile. Mentre, però, non ricordo azioni di responsabilità, pure perché in tanti potrebbero avere contribuito al danno, ma poi occorre anche tener conto dell’impatto negativo che si determina sugli stessi operatori penitenziari, già stressati e in forte fibrillazione, a motivo di antiche e persistenti carenze di risorse umane di polizia penitenziaria, di direttori, di comandanti, di funzionari giuridico-pedagogici, di psicologi, di assistenti sociali. Insomma, di “tutto”. Per cui, parallelamente all’ideazione di nuove strutture, andrebbero assicurate le risorse di personale necessario, essendo amorale continuare a varare, quando davvero si riesca, delle nuove navi senza equipaggio e comandante. A peggiorare la situazione, poi, si aggiungono gli effetti devastanti della costante e progressiva creazione di nuove fattispecie penali da parte di tutti i governi, criticità che aumentano lì dove dei partiti se ne facciano una “spilletta” da esibire, per fare accouplé con uno slang politico composto da slogan muscolari. Ogni novità penale che si traduca in nuovi arresti e poi, ancora, condanne, inevitabilmente, oltre a far gonfiare il nostro catalogo dei reati, determinerà il rigonfiamento della popolazione detenuta, aggravando la situazione delle carceri esistenti. A poco servirà affermare che ciò sia pure dovuto da una eredità ricevuta senza beneficio d’inventario, dono dei precedenti Esecutivi e delle loro curiose maggioranze, perché la palla, oggi, è comunque tra i piedi del Governo Meloni. Per questo auguro alla presidente del Consiglio e al ministro della Giustizia di diffidare di quanti propongano soluzioni miracolose, irrealizzabili “rebus sic stantibus”. Si abbandoni, perciò, quantomeno per il medio periodo, l’idea delle caserme, le quali, proprio perché avevano ospitato, fino al momento delle loro dimissioni, mezzi e armamenti, oltre che essere state, luogo di addestramento ed esercitazioni, potrebbero essersi trasformati in siti con sedimi inquinati (zolfo, piombo, infiltrazione di idrocarburi e falde inquinate), la cui bonifica richiederà altre risorse finanziarie e provocherà l’allungamento dei tempi per la riqualificazione e la conversione ad uso penitenziario. Altre soluzioni, quelle sì di natura politica, andranno perciò immaginate: sarà inevitabile, è solo questione di tempo! Una su tutte, la più facile e controllabile: l’amnistia. Lo Stato, rinunciando all’applicazione della pena, con la legittima giustificazione dell’acclamato grave stato delle carceri perché (e diciamolo senza reticenza) mancano le celle, le brande e i materassi a norma, i cortili di passeggio coperti e scoperti, le aule scolastiche e per la formazione professionale, i refettori, le docce, i gabinetti e i bidet, i luoghi di culto e di svago, e perfino il personale necessario, evita di violare sistematicamente e intenzionalmente l’articolo 27, comma 3° della Costituzione (ma in verità sono tanti altri gli articoli della Carta che pure verrebbero violati); il Governo e lo Stato, infatti, non sono “legibus solutus”, non possono agire illegalmente. Non si tratterebbe, quindi, di apparire deboli di fronte alla criminalità, soprattutto quella organizzata, ma del suo perfetto contrario, perché è serio e forte lo Stato che imponga anche a se stesso il rispetto delle proprie leggi e in primo luogo di quelle costituzionali, nonché le ulteriori derivanti da accordi e patti internazionali. Accanto all’amnistia, come è intuibile, occorrerà, però, predisporre un serio piano straordinario di riqualificazione delle vecchie e/o usurate carceri e per la realizzazione di quelle nuove, nominando un Commissario straordinario ad hoc. In caso contrario, ci dicano davvero come intendano affrontare il problema non fra un anno, cinque o dieci, ma ora, perché adesso le carceri rischiano di tirare l’ultimo respiro. Un’amnistia, ripeto, è non l’indulto, perché quest’ultimo farebbe lavorare inutilmente i tribunali e le carceri, servirebbe a rilanciare per davvero il nostro sistema giudiziario e penitenziario, concedendo a esso il tempo di sollevarsi e di tirare un sospiro. Insomma, una tregua per recuperare forze, coraggio e capacità di prospettazione, nel tentativo di risolvere finalmente i tanti drammatici problemi ereditati dagli impuniti venditori di fumo legislativo. *Penitenziarista, presidente dell’Osservatorio internazionale sulla legalità di Trieste, presidente onorario del Cesp-Centro europeo di studi penitenziari Garante dei detenuti, via libera alla Camera. Negata fino alla fine l’audizione dei candidati di Valentina Stella Il Dubbio, 2 novembre 2023 Felice Maurizio D’Ettore, Irma Conti e Mario Serio saranno i nuovi componenti del collegio nazionale del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Ormai manca solo la firma del Quirinale e poi, avendo ricevuto il placet dalle commissioni Giustizia di Senato e Camera, Felice Maurizio D’Ettore, Irma Conti e Mario Serio saranno i nuovi componenti del collegio nazionale del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. In particolare sulla nomina di D’Ettore come presidente sono arrivati 20 voti favorevoli e 5 contrari, su quella relativa a Conti 20 voti favorevoli e 5 contrari, mentre sulla nomina di Serio 19 voti favorevoli e 6 contrari. Si sono espressi per l’ok alle proposte i gruppi di maggioranza e il Movimento 5 stelle, visto l’accordo raggiunto con la maggioranza sulla loro proposta del nome di Serio. “Abbiamo votato contro il parere sulla nomina del nuovo Garante dei detenuti: nessuna preclusione personale, ma ci è stato impedito di poter audire i soggetti in commissione, anche per la massima trasparenza. Questa blindatura da parte della maggioranza è stata incomprensibile. Auguriamo comunque un buon lavoro, per un ruolo così importante e delicato”, ha commentato Devis Dori, capogruppo di Alleanza verdi- sinistra in commissione Giustizia alla Camera. Stessa linea quella adottata dal Partito democratico: “Abbiamo votato contro la nomina dei nomi designati dal governo per il ruolo di garante e stigmatizzato duramente la scelta della maggioranza di rifiutare le audizioni che avrebbero consentito un approfondimento più rigoroso sulla scelta delle figure individuate che andranno a ricoprire un ruolo così delicato. Da una prima analisi dei curricula si è constatato che questi profili non si sono occupati delle tematiche che sono oggetto del lavoro del garante per i detenuti e per le persone private della libertà personale. In più, non abbiamo avuto risposte circa i rischi di incompatibilità previste dalla legge che impediscono di ricoprire il ruolo. Eravamo in presenza di una scelta estremamente delicata che andava gestita diversamente. Per questo il Partito democratico ha espresso un voto contrario”, hanno dichiarato Federico Gianassi, Debora Serracchiani, Marco Lacarra, Alessandro Zan, Michela Di Biase. La domanda resta allora: perché non farli audire davanti ai Commissari? Nelle commissioni delle due Camere spesso si sprecano le audizioni su ogni possibile argomento e adesso invece la maggioranza ha detto no. Viene da pensare che le scelte compiute non siano basate sul merito, ma sulla spartizione politica della posizione del Garante, come sospetta più di qualche parlamentare. Anche perché lo stesso ministro Carlo Nordio aveva proposto Rita Bernardini, presidente di “Nessuno tocchi Caino” e le era stato fatto un colloquio, a seguito del quale ha ricevuto una email dal ministero in cui leggeva che era stata scelta per essere parte del Collegio. Improvvisamente, però, tutto è stato annullato. Chi ha preso la decisione di questa marcia indietro? E poi, tutti i designati hanno fatto il colloquio dinanzi al capo di gabinetto Rizzo? Da via Arenula nessuna risposta dettagliata. Intanto siamo già a 53 suicidi nelle carceri, come denunciato dal Garante uscente Mauro Palma. I nuovi membri sono pronti ad affrontare le grandi sfide che li attendono con la stessa capacità e caparbietà della terna uscente? Abuso d’ufficio e intercettazioni, blitz per accelerare il ddl Nordio di Liana Milella La Repubblica, 2 novembre 2023 L’ordine di Carlo Nordio era stato perentorio: “Il mio disegno di legge che cancella l’abuso d’ufficio è bloccato al Senato, deve andare avanti”. Vertice di maggioranza sulla giustizia una settimana fa a palazzo Chigi, presente la premier Giorgia Meloni. Il tema caldo è la prescrizione, e il ministro della Giustizia riesce in corner a mettere il cappello sul ddl Costa. Ma poi eccolo chiedere alla presidente della commissione Giustizia del Senato Giulia Bongiorno di “accelerare” il suo disegno di legge che oltre a cancellare l’abuso d’ufficio, vieta ai giornalisti di pubblicare le intercettazioni se non sono contenute nei provvedimenti dei giudici e impone anche il gip collegiale anziché il giudice unico per decidere sugli arresti chiesti dai pm. Inesperto di regole parlamentari, evidentemente ignorate anche dai suoi più stretti collaboratori, Nordio non sa che durante la sessione di bilancio non si possono discutere testi che comportino una spesa. E nel suo ddl c’è proprio un costo “impossibile”, quello per l’assunzione dei 250 giudici per far partire il gip collegiale. Una previsione che ha già funestato l’iter del ddl, approvato il 15 giugno a palazzo Chigi, ma bloccato per due mesi alla Ragioneria dello Stato proprio per via della mancata copertura, tant’è che è arrivato a fine luglio in Parlamento. Come non bastasse proprio Nordio chiede espressamente che il suo ddl venga inviato al Senato, anche se la commissione Giustizia della Camera sta già affrontando, perfino con numerose audizioni (che poi saranno replicate a palazzo Madama), il tema politicamente sensibile dell’abuso d’ufficio, visto che sono stati presentati molti disegni di legge, a partire da quello di Enrico Costa di Azione. Infatti il ministro per i Rapporti con il Parlamento, il meloniano Luca Ciriani, prima annuncia che il ddl Nordio partirà dalla Camera, ma poi rimbrottato da Nordio, è costretto a dire che sarà inviato al Senato. Nordio si fida di Bongiorno che nel frattempo si sta occupando anche lei dell’inchiesta sulle intercettazioni. E siamo oggi alla polemica infuocata, tuttora in corso nonostante una proposta di mediazione del capogruppo meloniano Gianni Berrino, di spostare la scadenza degli emendamenti, dapprima fissata per questo giovedì, al 10 novembre. Per non contrariare Nordio, già contestato per la sua scarsa produzione legislativa e per i suoi continui viaggi, anche nel weekend per tornare nella “sua” Treviso, FdI propone un compromesso, si fa la discussione generale sul ddl, e poi ci si ferma, dando almeno un segno di “esistenza in vita”. A sua volta la presidente Bongiorno, non solo per il ddl Nordio, ha già inoltrato al presidente del Senato Ignazio La Russa, che sta per aprire formalmente la sessione di bilancio, la richiesta di deroga per i suoi provvedimenti, tra cui oltre al Nordio, anche la violenza sessuale. Ma proprio dallo staff del Guardasigilli insistono, pretendono che la discussione si apra, almeno con la discussione generale, giusto mentre fondate indiscrezioni ipotizzano che Nordio potrebbe traslocare a breve alla Corte costituzionale. Ma la reazione dei Dem - in commissione ci sono il capogruppo Alfredo Bazoli, Anna Rossomando, Walter Verini e Franco Mirabelli - è Indignata, tant’è che Bazoli dice a Repubblica: “Si tratta di una pretesa assurda e del tutto inaccettabile perché viola una regola fondamentale dei lavori parlamentari, per cui nella sessione di bilancio non si trattano ddl che comportano una spesa, proprio come in questo caso”. Ma Bazoli dice di più: “Una richiesta a cui ci opponiamo fermamente soprattutto dopo che la maggioranza ci ha tenuto bloccati in commissione per una settimana per il decreto Caivano, un testo complesso, e su cui poi è stata messa pure la fiducia. Chiederci di fare gli emendamenti in due giorni suona come una provocazione. E anche l’ipotesi di andare alla prossima settimana si scontra con un’altra data, quella dell’8 novembre, in cui scadono le modifiche alla legge sulla diffamazione”. Politicamente, dice Bazoli, “l’accelerazione del ddl Nordio è inaccettabile perché comunque non potrà essere esaminato prima di gennaio proprio per via della sessione di bilancio”. La prassi parlamentare, del resto, è molto chiara. Il regolamento del Senato, all’articolo 126 comma 11, recita così: “Non possono essere iscritti all’ordine del giorno delle commissioni disegni di legge che comportino variazioni di spese o di entrate…”. Ed è proprio il caso del ddl Nordio. Norma aggirabile solo se, nella conferenza dei capigruppo, c’è l’unanimità. Che in questo caso non c’è. Né basta un eventuale accordo nell’ufficio di presidenza della commissione. Dove peraltro i dem non intendono assolutamente demordere. Combattere la mafia senza colpire gli innocenti: la sfida di Forza Italia di Valentina Stella Il Dubbio, 2 novembre 2023 In commissione Giustizia la proposta degli azzurri che cambia le (folli) regole sulle misure di prevenzione. FdI e Lega permettendo. Appena alla Camera si chiuderà, a inizio settimana prossima, il capitolo della nuova prescrizione, in commissione Giustizia potrebbe iniziare la discussione, su pressing di Forza Italia, della proposta di legge di iniziativa dei deputati azzurri Pittalis, Mulè, Calderone e Patriarca che punta a modificare la normativa sulle misure di prevenzione. Come spiega al Dubbio proprio il vicepresidente della commissione Pietro Pittalis, “approvata in prima lettura la legge sull’estinzione dei reati, avremmo da dibattere su due temi molto importanti: la questione intercettazioni e quella della modifica del codice antimafia. La proposta relativa a quest’ultima materia venne presentata già nella scorsa legislatura dall’attuale sottosegretaria di Forza Italia Matilde Siracusano, che aveva fatto propria la battaglia portata avanti dalla famiglia di Pietro Cavallotti. Da lì tutto è partito, ma adesso ricevo molte lettere di altri imprenditori nella stessa situazione”. Il problema, ci spiega il parlamentare, è che bisognerà prima valutare i provvedimenti già in calendario, così come andrà messa in conto l’inevitabile fase di stallo del lavoro delle commissioni legata alla sessione di Bilancio. Ma cosa prevede la proposta di FI sulle modifiche al codice antimafia? Il presupposto da cui si parte, leggiamo nella relazione illustrativa, è che “la peculiarità della disciplina delle misure di prevenzione, giustificata in chiave di politica criminale dalla necessità di strumenti straordinari per contrastare il crimine organizzato, ha compromesso in maniera significativa il sistema delle garanzie e delle tutele delle persone. Nella pratica giudiziaria sono sempre più frequenti e numerosi i casi in cui le misure di prevenzione vengono applicate nei confronti di soggetti che, per gli stessi fatti, vengono assolti in sede penale”. I punti principali di riforma sono i seguenti: prevedere come presupposto per l’applicazione della misura di prevenzione non un mero sospetto ma la sussistenza di indizi gravi, precisi e concordanti, e non semplicemente generici; non estromettere l’imprenditore dall’azienda ma farlo affiancare da un esperto, così da risolvere anche i problemi della tutela dei terzi creditori e della continuità aziendale con la doverosa conservazione dei posti di lavoro e del patrimonio oggetto della misura; introdurre, per tutti i destinatari di misure di prevenzione comunque riconosciute illegittime, il diritto al risarcimento del danno, perché, osserva Pittalis, “se lo Stato ha sbagliato deve prendersene la responsabilità e risarcire chi viene spesso letteralmente rovinato da questa normativa. Pertanto ipotizziamo la creazione di un fondo per le vittime”. Infatti, come si legge sempre nella relazione, “togliere a una persona tutto il patrimonio, finanche la casa familiare, significa privare il soggetto interessato e il suo nucleo familiare di ogni mezzo di sostentamento; significa travolgere il suo passato e distruggere il suo futuro”. “Proprio per questo - sottolinea Pittalis - è nostro interesse mettere questo provvedimento in agenda”. Ancora non ci sono state interlocuzioni con gli altri partiti del centrodestra, ma il vicepresidente della commissione Giustizia assicura: “Vorremmo sottoporre il testo, in via preliminare, alle altre forze di maggioranza e poi aprire anche ai contributi di tutte le opposizioni”. Peraltro, anche la Lega aveva presentato una proposta di legge in materia, che si occupava in particolare della professionalità degli amministratori giudiziari. “Anche per questo credo sia utile - ribadisce Pittalis - un confronto con gli alleati, in modo da far convergere in un unico provvedimento tutte le esigenze, come avvenuto finora a partire dall’ergastolo ostativo”. Va anche considerato che, sulle misure di prevenzione antimafia, c’è un’incognita e non da poco: entro il 13 novembre il nostro governo dovrà rispondere ai quesiti posti dalla Cedu in seguito al ricorso, già giudicato ammissibile, proposto dalla prima generazione dei Cavallotti. In particolare, Vincenzo, Salvatore e Gaetano Cavallotti, assolti nel 2010 dall’accusa di 416 bis in Corte d’appello a Palermo, nel 2016 si videro infliggere dalla Cassazione, nell’ambito di un procedimento di prevenzione, la confisca definitiva dei loro beni, tra cui diverse società, di proprietà loro o di loro familiari. La Cedu, tra l’altro, chiede al nostro Paese: “Nel caso di un’assoluzione in un processo penale, la confisca dei beni viola la presunzione di innocenza?”. Sarebbe paradossale se nella propria risposta il governo difendesse l’assetto attuale della normativa a fronte di una discussione parlamentare orientata in chiave garantista. Comunque Pittalis tiene a dire che “questa nostra iniziativa non rappresenta affatto un indebolimento degli strumenti di lotta alla criminalità organizzata, ma vuol essere una forma di tutela delle vittime di una legislazione che costituisce una scorciatoia attraverso la quale si perseguono, con elusione dei principi garantistici propri della materia penale, intenti punitivi e afflittivi”. Sindaci indagati, sospesi e poi assolti. I danni della legge Severino di Ermes Antonucci Il Foglio, 2 novembre 2023 Numerose sono state nel corso degli anni le vittime della legge Severino, che prevede la sospensione degli amministratori locali per sentenze di condanna non ancora definitive. Così la democrazia è stata compromessa. L’incredibile vicenda che ha visto per protagonista il sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà (sospeso dalle sue funzioni in seguito a una condanna in primo grado e in appello per abuso d’ufficio, e poi reintegrato in ruolo dopo due anni in seguito all’assoluzione di fronte alla corte di Cassazione), ha riportato a galla il tema dei danni causati dalla legge Severino, che prevede la sospensione per 18 mesi degli amministratori locali per sentenze di condanna non ancora definitive. Un obbrobrio giuridico che, pur essendo stato salvato dalla Corte costituzionale (in nome della “tutela dell’immagine dell’amministrazione”), ha attribuito di fatto alla magistratura un ulteriore potere di condizionamento sul funzionamento di organi democraticamente eletti, sulla base di sentenze di condanna soltanto provvisorie. Numerose sono state nel corso degli anni le vittime di questo meccanismo infernale. Nel 2014, ad esempio, il sindaco di Agrigento, Marzo Zambuto, fu condannato a due mesi e venti giorni per abuso d’ufficio. Si dimise immediatamente ancor prima che arrivasse la sospensione dalla carica per effetto della legge Severino. Pochi mesi più tardi venne assolto in appello da tutte le accuse. Tra il 2014 e il 2015 la legge Severino rischiò di decapitare i vertici della regione Campania e della città di Napoli. Il governatore Vincenzo De Luca fu sospeso dalla carica per effetto della legge Severino alla luce di una condanna in primo grado per abuso d’ufficio. Lo stesso avvenne all’allora sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, anche lui condannato in primo grado (per quale reato? Abuso d’ufficio ovviamente). Entrambi riuscirono a “salvarsi” grazie alla decisione dei tribunali di sospendere a loro volta i provvedimenti di sospensione, in attesa che la Corte costituzionale si pronunciasse su eventuali profili di incostituzionalità della legge Severino. Nei mesi successivi, ancor prima che la Consulta si pronunciasse, vennero entrambi assolti in appello, facendo quindi svanire il rischio di una loro rimozione sulla base di accuse poi rivelatesi infondate. A tanti altri amministratori, con nomi meno noti, non è andata altrettanto bene. Il sindaco di Norcia, Nicola Alemanno, per esempio, è stato sospeso per effetto della legge Severino, a seguito della condanna per abuso d’ufficio per la realizzazione di una casetta della pro loco dopo il terremoto del 2016. La guida della città è passata al vicesindaco. Il sindaco di Avezzano, Giovanni Di Pangrazio, è stato sospeso per un anno e mezzo a causa di una condanna in primo grado per peculato, poi annullata in appello. Al sindaco era stata contestata una spesa di circa 150 euro risalente a otto anni prima. Camillo Rosset, sindaco di Nus, piccolo comune della Valle d’Aosta, è stato sospeso per nove mesi a causa di una condanna per abuso d’ufficio poi ribaltata in appello. C’è poi chi i 18 mesi di sospensione previsti dalla legge Severino se li è fatti interamente, come il sindaco di Alassio, Marco Melgrati, condannato in primo grado per il caso “spese pazze” in regione. Nel marzo 2021 Melgrati è stato assolto dalle accuse: in altre parole, è stato sospeso per 18 mesi dalla carica di sindaco ingiustamente. Analogo il destino di numerosi consiglieri regionali condannati in primo grado, sospesi dalla carica e sostituiti dai primi dei non eletti, infine assolti e rispediti in Consiglio regionale al posto dei ripescati. E’ stato il caso, tanto per citarne alcuni, di Antonello Peru in Sardegna, Michele Iorio in Molise, Francesco Cascio in Sicilia (reintegrato all’Assemblea regionale siciliana dopo l’assoluzione in appello, quando però ormai mancavano quattro giorni alla fine della legislatura). Paradossale la storia di Alberico Gambino, eletto al Consiglio regionale campano nel 2010, ma sospeso prima in virtù di una misura cautelare, poi per una condanna in primo grado per scambio politico-mafioso. Dopo sei anni è stato assolto da ogni accusa: su 62 mesi di attività consiliare è rimasto sospeso per 57 mesi. Zaccaro: “Attaccano i giudici perché non sono addomesticati” di Mario Di Vito Il Manifesto, 2 novembre 2023 Il nuovo segretario di Area democratica per la giustizia: “Se dovesse passare la riforma del premierato, aumenterebbe ancora di più il peso del governo di turno in danno degli altri poteri dello Stato. E questo è un pericolo”. A un mese di distanza dal suo congresso di Palermo, Area Democratica per la Giustizia (il centrosinistra dell’Anm, per così dire) ha designato la sua nuova dirigenza: la presidente è Egle Pilla, il segretario Giovanni Ciccio Zaccaro e la tesoriera Barbara Benzi. Zaccaro, lei diventa segretario in un momento in cui sembra essersi riacutizzato lo scontro tra politica e giustizia. Qual è il ruolo di Area in questa fase? La magistratura italiana non vuole scontrarsi con nessuno. In questi mesi stiamo assistendo però ad un fenomeno diverso, non solo italiano. Ai tempi berlusconiani le polemiche erano contro i pm che facevano indagini e l’obiettivo era l’impunità. Ora invece il bersaglio sono i giudici che adottano decisioni non gradite alle maggioranze di turno. L’obiettivo è addomesticare la magistratura, perché non interferisca con il disegno del governo. Le regole sono viste come intralci, i diritti fondamentali delle persone come un lusso. Area cerca di promuovere, al contrario, un modello di giudice consapevole del suo ruolo nel sistema di tutela dei diritti, un giudice che ogni tanto alzi la testa dai fascicoli per comprendere la realtà socioeconomica in cui opera, un giudice che non si adegui alla soluzione più comoda ma che trovi quella che dia tutela effettiva a chi chiede giustizia. Cosa ne pensa del caso Apostolico? La critica alle decisioni dei giudici è importante e aiuta la giurisdizione a crescere. Ma non si possono denigrare le persone che adottano quelle decisioni, indagare sul loro passato, sui loro affetti. È sacrosanto tutelare la collega e il Csm non può sottrarsi dal farlo. Spero anzi che ci sia unanimità sul punto. Invece come vede la riforma delle intercettazioni ormai a un passo dalla sua approvazione? A me pare che tradisca i suoi obiettivi. Si assegna un grande potere alla polizia, che può non verbalizzare, neppure in modo sommario, le conversazioni che ritiene irrilevanti. Ma così sarà la polizia a selezionare quel che è rilevante e quel che non lo è, magari disperdendo elementi che potrebbero giovare alla difesa. In generale, poi, mi preoccupano le proposte che escludono l’utilizzo di questi strumenti investigativi per i reati contro la pubblica amministrazione. Non mi pare che il diritto alla privacy dei criminali di strada sia meno importante di quello dei colletti bianchi. Se passasse il principio, sarebbe un’altra prova che questa maggioranza è garantista solo con i potenti. Aspettiamo anche una riforma della giustizia più complessiva, almeno a dire del ministro Nordio... Alla giustizia, servono risorse. Servono assunzioni. Servono investimenti che portino a termine la rivoluzione digitale. Ed invece si torna a parlare di separazione delle carriere come se fosse la panacea dei mali della giustizia. Teme che venga attaccata l’indipendenza della magistratura? Lo dicevo prima. C’è ovunque una grande insofferenza verso gli organi di garanzia, che tutelano i diritti e le libertà di tutti. Se passasse la riforma del premierato, aumenterebbe ancora di più il peso del governo di turno in danno degli altri poteri dello Stato. A prescindere da eventuali riforme costituzionali, mi preoccupa il clima culturale. Si richiama la sovranità della legge: è scontato che i magistrati sono soggetti alla legge votata dal Parlamento, ma sono soggetti anche alla Costituzione repubblicana e sono tenuti a rispettare quel nocciolo di diritti fondamentali previsti dalle carte sovrannazionali. Si vogliono, invece, magistrati conformisti e burocrati, che non disturbino il manovratore. Così però a pagare saranno i cittadini, soprattutto quelli indifesi, che possono avere tutela solo da un giudice indipendente e non preoccupato di dispiacere il potente di turno. Sono certo che anche l’avvocatura, l’accademia, l’associazionismo democratico siano consapevoli di questo pericolo. Siamo alla vigilia del congresso di Magistratura Democratica. Che rapporti pensa di avere con questa corrente? Magistratura democratica è patrimonio della cultura giuridica italiana. Continua a fornire stimoli con i suoi convegni e la sua rivista. Area è nata per riunire tutti i magistrati che praticano una giustizia orientata ai principi costituzionali. Dopo qualche tempo, Magistratura Democratica ha deciso di lasciare questo percorso e, inevitabilmente, nelle competizioni elettorali interne, è diventata nostra avversaria, pur avendo il medesimo patrimonio ideale e la stessa concezione della giurisdizione. Caso Cucchi, così la prescrizione ha cancellato le condanne dei due carabinieri di Giulia Merlo Il Domani, 2 novembre 2023 Il processo, diviso in filoni e durato molti anni, è finito in prescrizione per due carabinieri accusati di falso, Roberto Mandolini e Francesco Tedesco. Se la Cassazione non avesse accolto il ricorso, sarebbe invece diventata definitiva la condanna della Corte d’Assise d’appello. Il caso di Stefano Cucchi, il ragioniere romano morto nel 2009 dopo un pestaggio da parte dei carabinieri dopo un fermo per ragioni di droga, aggiunge un nuovo tassello processuale. La Cassazione, infatti, ha dichiarato prescritto il reato di falso per i carabinieri Roberto Mandolini e Francesco Tedesco, accusati di avere falsamente attestato, nel verbale di arresto di Cucchi, la rinuncia da parte del giovane romano alla nomina del difensore di fiducia. I due - Mandolini era il comandante della stazione dei carabinieri dove Cucchi venne portato, Tedesco invece il carabiniere grazie al quale iniziò a sbriciolarsi il velo di omertà intorno al caso - erano stati condannati nel processo di appello bis di luglio 2022. La sentenza era arrivata in extremis, nel giorno in cui sarebbe altrimenti scattata la prescrizione del reato, e Mandolini era stato condannato a tre anni e sei mesi, Tedesco a due anni e quattro mesi. La prescrizione - Nel caso del processo davanti alla Cassazione, a determinare la prescrizione è stato l’accoglimento del ricorso. L’accusa e le parti civili, infatti, avevano chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso per Cassazione così da rendere definitiva la sentenza d’appello. L’accoglimento invece del ricorso proposto dalle difese dei due carabinieri ha prodotto l’effetto di far scattare il termine di prescrizione sul reato. In altri termini, la Cassazione ha dichiarato estinto il procedimento per sopravvenuta prescrizione, ma questo non comporta che nel merito i due siano da considerarsi assolti. Bisognerà tuttavia attendere le motivazioni della Suprema corte, per capire sulla base di quali presupposti il ricorso degli imputati è stato accolto. Ilaria Cucchi, sorella di Stefano che in questi anni si è fatta carico di seguire la lunghissima vicenda processuale che ha portato la condanna per omicidio preterintenzionale a 13 e 12 anni per i due carabinieri materialmente colpevoli del pestaggio, ieri non era in aula. Tuttavia dopo la decisione ha scritto su Facebook: “Roberto Mandolini. Colpevole e salvato dalla prescrizione”. Con la nuova riforma il caso Cucchi non si sarebbe prescritto di Errico Novi Il Dubbio, 2 novembre 2023 Le norme volute da centrodestra ed ex Terzo polo avrebbero allungato di 3 anni il giudizio (troncato dalla Cassazione) sui carabinieri Mandolini e Palumbo. È talmente dolorosa, la vicenda di Stefano Cucchi, che le sue ultime propaggini processuali non possono ascriversi né alle rivendicazioni di sua sorella, la senatrice Ilaria, e del resto della famiglia, né al presunto sollievo degli imputati. Ma una cosa è certa: con la legge sulla prescrizione che la settimana prossima sarà licenziata in prima lettura alla Camera, i reati di falso contestati al maresciallo Roberto Mandolini e al carabiniere Francesco Tedesco non sarebbero stati dichiarati estinti, come ha invece dovuto fare la Cassazione nella pronuncia di due sere fa. Il che non vuol dire, intendiamoci, che i due militari dell’Arma “usciti” definitivamente dal processo sull’occultamento delle percosse subite da Stefano si siano avvalsi della prescrizione in modo ingiusto, o che quella prescrizione sia una conclusione indegna. Niente di tutto questo: parliamo comunque di un fatto avvenuto più di quattordici anni fa, e sarebbe fuori luogo ritenere scandaloso che dopo tredici anni (la prescrizione, per Mandolini e Palumbo, è stata dichiarata ieri ma era sopraggiunta nel 2022) un reato di falso si estingua. Ma in mezzo al conflitto sul senso della decisione assunta dalla Suprema corte - che ha annullato per prescrizione, appunto, le condanne dell’appello-bis (3 anni e mezzo per Mandolini, 2 anni e 4 mesi per Palumbo) - c’è anche questo non trascurabile rilievo politico-giuridico: la riforma del centrodestra avrebbe impedito la prescrizione di quei delitti. E non c’è da inerpicarsi in calcoli complicati, per dirlo. Basti considerare, innanzitutto, che i fatti contestati a Mandolini e Palumbo risalgono com’è noto, al 15 ottobre del 2009, cioè alla notte stessa del pestaggio inflitto a Cucchi da altri due carabinieri, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro (già condannati a 12 anni per omicidio). Ebbene, nel 2009 le norme in vigore in materia di prescrizione erano, ovviamente, quella della legge ex Cirielli. Solo nel 2017 sarebbe stata approvata la riforma Orlando, che peraltro neppure fece in tempo a entrare in vigore e già venne soppiantata dalla Bonafede. Ma a parte l’incredibile carambola di riforme che la lotta politica ha prodotto sul nodo dell’estinzione dei reati, qui interessa un’altra cosa, semplice semplice. La riforma del centrodestra utilizza come base di partenza proprio la ex Cirielli, la disciplina della prescrizione a cui la Cassazione ha dovuto riferirsi nel processo per il falso su Cucchi. Su quella base, il testo condiviso dalla maggioranza, da Azione e da Italia viva innesta un meccanismo per cui il decorso della prescrizione si interrompe per due anni dopo la condanna in primo grado e per un anno nel caso in cui la condanna sia confermata in appello. Considerato che per i carabinieri Mandolini e Palumbo, la prescrizione è intervenuta nel 2022, la doppia sospensione prevista dalla riforma del centrodestra sarebbe abbondantemente bastata per tenere in vita il processo e determinare dunque un esito completamente diverso: non l’annullamento, per prescrizione del reato, della precedente condanna, ma la condanna nel merito, tenuto conto che, nel merito appunto, la Suprema corte non ha accolto i ricorsi dei due carabinieri. A che serve rilevare tutto questo? Ad alimentare la rabbia della senatrice Cucchi e della sua famiglia? No. Ad affermare il consumarsi di un’ingiustizia? Nemmeno: 13 anni per accertare un reato di falso sono tantissimi. Può darsi sia vero che, come afferma l’avvocato Diego Perugini, difensore di una delle parti civili del processo, “proprio grazie ai depistaggi la giustizia non è arrivata in tempo”: ma le norme, e anche quelle della prescrizione, tengono conto di tutto, incluso questo genere di fattori. È un altro il motivo per cui è importante rilevare che, se la nuova legge fosse stata in vigore all’epoca del pestaggio del povero Stefano, le cose sarebbero andate diversamente. Non più di due giorni fa il Movimento 5 Stelle si è scagliato contro la riforma con dichiarazioni del tipo “si torna alla giustizia denegata”, “tanti processi andranno in fumo”, “nei giudizi penali torneranno in pompa magna tutte le tecniche dilatorie per allungare i tempi” (detto, peraltro, da deputati contiani che sono pure avvocati). Altro che: quella appena approvata in commissione Giustizia e attesa per lunedì in aula a Montecitorio è una legge molto pesante, in base alla quale un processo per falso come quello ai carabinieri Mandolini e Palumbo potrebbe durare almeno tre anni in più. Anziché 13, ben 16 anni da imputati per un falso. E dicono che è una legge che lascia impuniti. Mah. A parte la durata, che nel caso specifico oscilla evidentemente sul precipizio dell’irragionevolezza, resta il discorso sul merito. Ilaria Cucchi ha duramente attaccato il maresciallo Mandolini, “colpevole ma prescritto”. La pensa in modo assai diverso l’avvocato Giosuè Bruno Naso, difensore del militare: a suo giudizio la Cassazione avrebbe dato “un colpo al cerchio e uno alla botte”, la pronuncia sarebbe “pilatesca” giacché il giudice di legittimità avrebbe dovuto, piuttosto, “annullare senza rinvio per insussistenza del fatto” la sentenza di condanna dell’appello bis. Interpellato dal Dubbio, Naso aggiunge: “Bastava riferirsi a quanto sancito dalla V sezione della stessa Suprema corte, secondo cui un verbale di arresto come quello compilato dal maresciallo Mandolini deve solo riguardare la privazione della libertà, e si sarebbe dovuto motivare meglio da cosa si desumerebbe che il mio assistito quella sera aveva già contezza del pestaggio”. Ecco, se l’avvocato Naso avesse ragione, e se dunque in realtà Mandolini fosse innocente, riterreste tollerabile che un innocente debba restare sotto processo, per un reato di falso, più di tredici anni? Si troverà il modo di assolvere gli alti ufficiali dei Carabinieri perché le loro carriere sono più importanti della nostra vita di Ilaria Cucchi La Stampa, 2 novembre 2023 Tre Corti di Assise diverse hanno condannato il maresciallo Roberto Mandolini per i reati commessi al fine di proteggere e nascondere i responsabili di quel “violentissimo pestaggio” che portò a morte Stefano Cucchi. Ventiquattro giudici diversi e in tempi diversi lo hanno condannato al di là di ogni ragionevole dubbio. Ad essi aggiungiamo quelli della Suprema Corte di Cassazione che ieri lo hanno ritenuto responsabile confermando la affermazione delle sue responsabilità ma dichiarando i reati commessi, oggetto di giudizio, prescritti. È passato troppo tempo dall’omicidio di mio fratello e quindi, per legge, i reati sono cancellati. Dichiarati sussistenti ma non più perseguibili. La notte tra il 15 e 16 ottobre 2009, nella stazione Casilina, Stefano veniva preso a calci e pugni da due carabinieri che lo avevano appena arrestato. Un terzo, Francesco Tedesco, aveva tentato di fermarli ma troppo tardi. Era preoccupato per la salute di quel ragazzo piccolo di statura ed esile. Aveva udito il rumore sordo della sua testa mentre sbatteva al suolo. Tedesco chiamò il suo comandante di Stazione. Roberto Mandolini, appunto. Le condizioni di quell’arrestato lo preoccuparono tanto da fare di tutto per evitare che le responsabilità dei suoi sottoposti potessero essere soltanto sospettate. Venne aiutato dai suoi superiori ma il suo contributo a depistare le indagini fu determinante. Tra verbali rifatti, annotazioni non veritiere e telefonate a chi di dovere, riuscì nell’intento. Stefano Cucchi è stato affidato alla polizia penitenziaria di Piazzale Clodio in perfette condizioni fisiche. Era soltanto molto magro e aveva due eritemi sotto gli occhi. All’udienza di convalida del suo arresto “il soggetto” si presentò molto sofferente, tanto da doversi scusare per le sue difficoltà a parlare. Aveva due vertebre fratturate. Una frattura di base cranica. Nel suo piccolo cadavere sarà poi trovato, in autopsia, sangue nei polmoni. Sangue nei bronchi. Sangue in tutto il midollo spinale. Sangue nello stomaco. Sangue nella vescica. Sangue dietro e intorno le orbite. Non voglio andare oltre. Fatto sta che nessuno ci fece caso perché i magistrati non lo guardarono in faccia e la cancelliera era abituata a vedere “gli arrestati della notte” in quelle condizioni. Ma ci pensò Mandolini e vennero processati per sei anni, al posto dei carabinieri, tre agenti della penitenziaria. Erano loro i mostri responsabili di tanto scempio perché Stefano Cucchi, fino a che era nelle mani dei CC, stava bene. Il 28 aprile 2011 il maresciallo Mandolini testimoniò di fronte ai giudici affermando, sotto giuramento, che vide Stefano Cucchi come “persona tranquilla, spiritosa”. Sostenne di aver fatto “quattro chiacchiere con lui”, di aver “scherzato” con lui “con linguaggio romanesco, simpatico insomma”. Aveva la sua divisa con tutte le varie decorazioni e parlava sfoderando l’arroganza di una tranquillità che solo i superiori potevano dargli mentre faceva processare degli innocenti. Oggi chiedo che l’Arma gli tolga quella divisa. Sono passati 14 anni dall’uccisione di mio fratello. Prescritto. E sono prescritti anche i reati per i quali sono stati condannati gli alti ufficiali della scala gerarchica. Ma per loro si troverà modo di assolverli perché le loro carriere e i loro lustrini sono più importanti della nostra vita. Mi auguro di essere smentita. Me lo auguro davvero perché devo aver fiducia nella Giustizia. Devo. “Come può una pena inumana essere una pena davvero utile?” Il Dubbio, 2 novembre 2023 Pubblichiamo di seguito l’appello firmato da 104 detenute del carcere di Torino che denunciano le condizioni inumane all’interno degli istituti penitenziari italiani. Le detenute lamentano il sovraffollamento, la obsolescenza delle strutture e la mancanza di spazi adeguati per attività responsabili, e si chiedono se sia possibile scontare una pena utile in un ambiente così inadeguato. Il testo sottolinea che la situazione carceraria, contraria alle norme, è la negazione dello Stato stesso. Nonostante gli appelli e le iniziative nonviolente, la situazione peggiora, come evidenzia il numero dei suicidi, del sovraffollamento, dei detenuti con problemi psichiatrici e degli indigenti. Le “ragazze di Torino” sostengono la proposta di legge del deputato Roberto Giachetti di Italia Viva per l’aumento della liberazione anticipata come una misura deflattiva necessaria. Esse ribadiscono che la liberazione anticipata speciale non significa un “liberi tutti”, ma un beneficio premiale per i detenuti con buona condotta. ----------------------- “Una pena utile non si può scontare in un carcere che non sia adeguato. I nostri istituti nella maggior parte dei casi sono sovraffollati, vecchi, hanno troppe sbarre, pochi spazi per attività responsabili. È compatibile tutto ciò con l’irrogazione di una pena utile? A stabilire come debba essere un carcere è la norma, non è la mia idea, tanto meno quella del politico che fa propaganda (...). Io mi devo sforzare affinché il dettato del legislatore sia attuato, perché una norma non attuata è la negazione dello Stato (…). “Non posso pretendere il rispetto delle regole se come Stato non riesco a rispettarle”, citazione estratta da “Di cuore e di coraggio” di Giacinto Siciliano, direttore del carcere milanese San Vittore. Siamo le “Ragazze di Torino”, quelle detenute ancora nella casa circondariale di Torino! Nonostante le perenni emergenze del “Pianeta Carcere” e gli appelli di molte personalità tra cui giuristi, politici (pochi), professori universitari, garanti dei detenuti, la situazione non cambia, anzi per la popolazione ristretta negli ultimi tre anni è peggiorata. Lo dicono i fatti, i numeri dei suicidi, del sovraffollamento, dei soggetti psichiatrici e degli indigenti. Peggiora perché invece di tendere al reinserimento la pena produce recidiva, rabbia e ulteriore ingiustizia sociale. Per anni, abbiamo lanciato appelli, raccolte firme e portato avanti iniziative Non Violente, proprio perché l’attenzione su questo “terzo mondo” non calasse e soprattutto perché venisse varata una misura deflattiva come l’aumento della liberazione anticipata e/ o la liberazione anticipata speciale, che riportasse un minimo di “norma” in queste carceri in cui lo Stato stesso non rispetta la legge. Non lo diciamo solo noi: è probabile che un gruppo di donne “peccatrici” non smuova molto visto che quella proposta di legge del deputato Giachetti e Nessuno Tocchi Caino proprio per l’aumento della liberazione anticipata giace ancora nei cassetti. Lo dice persino un Direttore, illuminato, come Giacinto Siciliano che questa situazione rende la pena inutile. Vorremmo spiegare a tutti i giustizialisti che la liberazione anticipata speciale e la proposta di legge Giachetti per cui ci batteremo finché non sarà approvata, non rappresentano un “liberi tutti”, ma un beneficio premiale per i ristretti con buona condotta. Andrebbe a migliorare in parte un sistema che è nocivo per la società stessa e per noi, ci chiamate o giudicate come “fuori legge” ma non ci date il buon esempio. Napoli. A Poggioreale la “lezione” sul perdono di Fiammetta Borsellino di Antonio Mattone Il Mattino, 2 novembre 2023 C’era una grande attesa tra i detenuti del carcere di Poggioreale per l’incontro con Fiammetta Borsellino. Un appuntamento organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, preceduto dalla proiezione delle due puntate della miniserie televisiva andata in onda qualche anno fa, dove il giudice ucciso dalla mafia è stato interpretato da Giorgio Tirabassi. Oltre tre ore di visione seguiti con grande attenzione e qualche occhio lucido. “Io l’ho incontrata dodici anni fa a Monreale - esordisce un po’ per rompere il ghiaccio un giovane recluso - stavo in vacanza con i miei e ci siamo incrociati mentre lei partecipava a una conferenza”. Fiammetta Borsellino comincia a raccontare della sua famiglia di origine, una bella squadra che ha sostenuto e accompagnato quel padre che amava la giustizia e voleva liberare la Sicilia dal male e dall’oppressione del potere criminale. “Lui non era contento di far arrestare i mafiosi, ma sperava di entrare in relazione con loro e suscitare così una reazione umana che avrebbe potuto produrre un cambiamento”, ha rivelato la figlia del giudice, che ha ricordato una frase della madre: “Paolo faceva venire la luce anche nel peggiore degli uomini”. Subito si è creata una forte empatia con i quindici detenuti presenti, che hanno fatto molte domande personali sulla vita familiare e sul rapporto così complicato con un genitore che viveva sotto scorta tutte le ore del giorno. “Suo padre chiedeva consigli alla famiglia, vi faceva partecipe delle sue scelte?”. Fiammetta ha ricordato che l’esempio del papà li coinvolgeva, trasmettendo la passione per la giustizia e il suo lavoro. “Noi lo capivamo e lo seguivamo, ci trascinava come un’onda del mare che ti trasporta e tu ti lasci andare. Tanto che quando dovevamo uscire insieme, spesso mi avviavo davanti a lui e lo precedevo per le scale di casa, un po’ per gioco che voleva essere però un senso di protezione”. Poi si è lasciata andare a qualche confidenza: “Io ero un po’ discola e certe sere tornavo a casa alle due di notte. Arrivata sotto il portone lo scorgevo affacciato in canottiera, con la sigaretta tra le mani che in ansia mi stava aspettando. E, appena la porta si apriva, ero pronta a ricevere i suoi rimproveri”. Altre volte era il giudice che trasgrediva: “andava in garage, prendeva il motorino di Lucia e se ne andava in giro senza avvisare la scorta”. C’è chi si sofferma sulla solitudine di Borsellino con la scena che lo vede in un salone immenso del tribunale senza nessuno accanto, e chi ricorda quando venne a sapere per caso che era arrivato il tritolo per lui. Ma è il perdono il tema più sentito dai detenuti. La figlia del giudice racconta che ha incontrato colui che rubò la macchina dove poi venne collocato l’esplosivo che causò la strage di via D’Amelio, un mafioso di Brancaccio che poi si pentì. “Dopo aver visto il documentario sono tornato in cella e mi sono sentito triste”, racconta un recluso. Poi chiede: “io nella mia vita ho perdonato, ma piccole cose non vicende così atroci. Come è possibile perdonare chi ha commesso un crimine così crudele? Io credo che non meriti di essere perdonato”. Fiammetta Borsellino è risoluta nella risposta. “Il dolore non va tenuto dentro altrimenti è come una prigione come quella che vivete voi. La violenza genera altra violenza e coltivare rabbia non fa bene, non è costruttivo. il perdono non fa resuscitare i morti ma non può prescindere da un incontro e da una relazione. Deve avere contenuti, altrimenti è una cosa fine a sé stessa. Il pentito di Brancaccio rinunciò ai figli la cosa più bella che aveva perché la moglie non lo seguì e fu il primo a far emergere il depistaggio. Lui ha allargato le braccia e mio padre ci ha insegnato a trovare risorse in ogni essere umano. Siamo anche noi Borsellino e abbiamo voluto vivere con lo stesso suo amore”. C’è chi ricorda la scena del documentario quando un killer chiede parlare con il giudice svelandogli che era stato incaricato di ucciderlo. E poi lo abbraccia. Fiammetta rivela che quel mafioso avrebbe poi chiamato i suoi tre figli Lucia, Manfredi e Fiammetta. Parole che suscitano grande attenzione e generano un forte applauso spontaneo. “Mio padre - conclude Fiammetta - diceva che la principale lotta alla mafia si fa con la cultura e non con le pistole”. Alla fine dell’incontro i detenuti le regalano un quaderno che hanno realizzato nella tipografia del carcere, con le loro firme. All’interno sono stampate diverse foto della vita di Paolo Borsellino. Poi un saluto caloroso e tornano pensierosi nelle loro celle. Milano. Il teatro dei detenuti: in scena lo spettacolo che nega l’essenza malvagia dell’uomo di Fabio Postiglione Corriere della Sera, 2 novembre 2023 La compagnia Opera Liquida, formata anche da ex carcerati, debutta il 9 e 10 novembre con “Extravagare. Rituale di reincanto”. Rappresentazione aperta al pubblico. Una storia poetica sulla civiltà della Grande Madre. La compagnia Opera Liquida debutta con “Extravagare. Rituale di reincanto” il 9 e il 10 novembre, alle ore 21.00, nel teatro del carcere, in collaborazione con la Direzione della casa di reclusione Milano Opera, il patrocinio del ministero della Giustizia e quello del comune di Milano. Lo spettacolo, a firma di Ivana Trettel e Alex Sanchez, è una storia poetica e intensa che approfondisce la civiltà della Grande Madre, società non belligerante, in perfetta parità tra i generi e dedita alla ricerca di cultura e bellezza, per ribaltare con forza l’idea di un male insito nella natura umana. Fulcro della drammaturgia scenica, che traccia le nuove strade da percorrere, è un’installazione ispirata all’opera “Grande oggetto pneumatico”, realizzata a Milano nel 1959 a firma del Gruppo T, nata dalla collaborazione straordinaria della compagnia con l’artista cinetico Giovanni Anceschi, Compasso d’Oro alla carriera 2022, tra i fondatori del Gruppo T. Il “Grande oggetto pneumatico” è inserito nelle scenografie di Marina Conti e Ivana Trettel, realizzate dai detenuti scenografi. Come nelle precedenti produzioni di Opera Liquida, presentate con successo anche in teatri esterni al carcere, nel nuovo progetto sono quindi mescolati linguaggi provenienti da discipline diverse. Nella narrazione della preistorica civiltà, lo spettacolo incontra le danze antiche, in particolare Orissi e Kathakali, che contaminano le partiture fisiche degli attori, restituendo una formalizzazione attenta e viva, grazie alla collaborazione con Mario Barzaghi del Teatro dell’Albero. I costumi, nuovamente firmati da Salvatore Vignola, designer di alta moda, sono realizzati dai detenuti costumisti sotto la guida di Tommaso Massone. L’allestimento tecnico è a cura di Silvia Laureti, Mario Pinelli con i detenuti tecnici audio luci. Il brano Strange days, prodotto all’interno del carcere, è di Brian Storm. In scena Michel Alvarez, Alessandro Arisio, Alessandro Bazzana, Sohaib Bouimadaghen, Carlo Bussetti, Alfonso Carlino, Eleonora Cicconi, Vittorio Mantovani, Papa Mor Tham, Nicolae Stoleru. La cura del progetto è affidata a Nicoletta Prevost. Opera Liquida fa parte della rete nazionale “Per Aspera ad Astra - come riconfigurare il carcere attraverso cultura e bellezza” promossa da Acri con il contributo di Fondazione Cariplo e altre dieci fondazioni di origine bancaria. “Interrogandoci sull’esistenza dell’umanità, sulle sue vuote e devastanti dinamiche e approfondendo le riflessioni di Aryun Appadurai e di Byung-Chul Han sulla deresponsabilizzazione e la deritualizzazione, abbiamo incontrato inaspettatamente - racconta Ivana Trettel, che firma regia e drammaturgia dello spettacolo - la società della Grande Madre: dimostrazione che l’essere umano ha vissuto per 20.000 anni in armonia con il cosmo. Per mano ci hanno accompagnato Marija Gimbutas, Raine Eisler, Giuditta Pellegrini. E mentre aumentava lo stupore e la gioia per questo affascinante viaggio, un nuovo interrogativo ci ha invaso. Perché molte persone non ne sanno nulla? Perché non studiamo fin dall’infanzia questa straordinaria civiltà? Perché continuiamo a giustificare gli orrori del mondo affermando che è nella natura umana? Ecco, ci opponiamo a questa idea certi della possibilità di Extravagare, di trovare nuove strade, nuove prospettive, anche grazie ad un Rituale di reincanto. Questo l’augurio”. Il debutto di “Extravagare. Rituale di reincanto” nel teatro da 400 posti della Casa di reclusione Milano Opera, arriva dopo oltre un anno e mezzo di ricerca e lavoro da parte della compagnia composta da detenuti ed ex detenuti attori e coincide con l’avvio della seconda edizione della Masterclass “L’officina di Opera Liquida: un incrocio di sguardi tra teatro e accademia” (9, 10, 11 novembre) sostenuta dall’8 per Mille Chiesa Valdese, offerta a titolo gratuito a 30 studenti universitari e operatori. Con il coinvolgimento della direttrice artistica Ivana Trettel, delle professoresse Laura Mariani, Rossella Mazzaglia e Cristina Valenti del Dipartimento delle Arti, Università di Bologna e del professor Filippo Giordano della Lumsa di Roma, dei docenti dei laboratori di formazione professionale sui mestieri del teatro e delle persone detenute che vi partecipano: attori, scenografi, costumisti e tecnici audio luci coinvolti nella realizzazione dello spettacolo. Informazioni e biglietti acquistabili sul sito operaliquida.org entro il 5 novembre 2023. Cesena. “Domani faccio la brava. Donne e madri nelle carceri italiane” cesenatoday.it, 2 novembre 2023 A un mese dall’inaugurazione in Malatestiana, la mostra del fotoreporter ravennate Giampiero Corelli “Domani faccio la brava. Donne e madri nelle carceri italiane” si sposta dagli spazi interni della Biblioteca all’esterno, nella rinnovata piazza Almerici. L’appuntamento è per sabato 4 novembre, alle ore 10:30. L’evento di chiusura della mostra sarà un vero e proprio inno alla libertà e alla donna, un momento pubblico in cui poter riflettere sulla condizione delle carceri femminili in Italia. Interverranno l’Assessore alla Cultura e ai Diritti e politiche delle differenze Carlo Verona, il fotoreporter Giampiero Corelli e il Presidente del Rotary Cesena Massimo Cicognani, insieme ad alcune rappresentanti del gruppo consorti del Rotary club Cesena, ai rappresentanti della Comunità Papa Giovanni XXIII e alla Società San Vincenzo de Paoli. La mostra, nata dalla collaborazione tra Comune di Cesena, Diocesi di Cesena-Sarsina, ordine degli avvocati di Forlì-Cesena, Rotary club di Cesena, Urcofer, Ipazia Libere Donne, Fisc Emilia-Romagna e Ucsi Emilia-Romagna, è il frutto di un reportage durato due anni con racconti inediti delle detenute di tredici istituti di pena femminili italiani, da Rebibbia alla Dozza di Bologna, dalla Giudecca (Venezia) a Messina, Reggio Calabria, Trani, Torino e Palermo: l’ultima parte di una lunga indagine iniziata più di vent’anni fa. Nel foto-racconto di Corelli “non ci sono buone o cattive - scrive Renata Ferri nel libro della mostra - ma semplicemente donne recluse: a ognuna la sua colpa, per tutte la costrizione”. Una collezione di ritratti di donne in carcere, si legge ancora nella presentazione: “Sono storie di donne assassine. Hanno ucciso per caso, per sbaglio. Si sono pentite e mai assolte. Tutte consapevoli di aver commesso un errore o tanti. Fuori c’è il passato: figli lasciati e figli che le hanno ripudiate. In entrambi i casi il dolore taglia la carne, incide l’anima. Storie che si somigliano. Storie da immaginare oltre la periferia, dove la città sprofonda in luoghi senza nome, dietro ai muri perimetrali delle case circondariali, pensate per infliggere e costruite per privare”. La mostra negli spazi della Malatestiana sarà fruibile fino a domenica 5 novembre: il lunedì dalle ore 14:00 alle ore 19:00, dal martedì al sabato dalle ore 09:00 alle ore 19:00 e domenica dalle ore 15:00 alle ore 19:00. L’ingresso alla mostra è libero. Per informazioni: www.malatestiana.it oppure contattare lo 0547 610892. Maupal, l’eroe dei detenuti delle carceri italiane di Edoardo Marcenaro nsideart.eu, 2 novembre 2023 Lo street artist Maupal organizza e partecipa a workshop realizzando murales con i detenuti nelle carceri italiane. Dal 2011 organizza e partecipa a workshop con i detenuti nelle carceri italiane (Catanzaro, Padova, Milano, Napoli), dove lavora con persone di ogni età, minorenni e settantenni, condannati per reati e crimini di ogni tipo, che diventano artisti per uno o più giorni e realizzano murales sotto la guida di uno dei maestri della street art italiana. All’inizio tutti lo guardano con diffidenza. Chi è questo? Cosa vuole da me? Perché devo mettermi a disegnare, proprio io che non so neanche tenere in mano un pennello? Alla fine sono tutti entusiasti di aver preso parte a un’opera d’arte collettiva e partecipativa nel vero senso della parola, un po’ di colore sulle grigia mura del carcere, una sorta di apertura a quella perenne sensazione di chiusura e limitazione della libertà personale. Come fa Maupal a entrare in sintonia con i detenuti nel breve tempo che ha a disposizione per fare il workshop, alle volte un giorno, alle volte tre giorni? Innanzitutto abbatte ogni pregiudizio, non si chiede cosa abbiano fatto il ragazzino o l’uomo anziano che gli stanno davanti, non si lascia condizionare in alcun modo dal motivo della detenzione. In secondo luogo si limita a chiedere i nomi di battesimo, nessuna altra domanda. E poi trasmette tutta la sua passione per arrivare insieme a un risultato finale, che non si limita alla realizzazione del murales trasferendo su muro il bozzetto da cui nasce l’opera, ma consiste nel recuperare persone che hanno commesso un reato e lavorare per reintegrarle nella società al termine della pena detentiva. Tutto questo non è banale, avendo a che fare con ragazzi cresciuti troppo in fretta, persone che ne hanno viste di tutti i colori. “Non li inganni, devi crederci davvero se vuoi dare un senso al tuo lavoro all’interno delle carceri”, questo il pensiero di Maupal. Il fattore psicologico e il fattore tempo giocano entrambi un ruolo fondamentale, ma la soddisfazione è grande quando vedi realizzata l’opera e i neo - artisti ti ringraziano per la nuova esperienza. Pia illusione? Senza provarci non si potrà mai sapere. E così nel 2011 Maupal fa il suo primo ingresso in autodetenzione nel carcere minorile di Catanzaro, con il progetto “Maker”, che nasce da un’idea della regista Maria Pezzolla, vivendo un mese con i detenuti per realizzare il murales “Stereotipi” e una storia a fumetti, che scrive e illustra con i ragazzi: una rapina in un tabacchi per pagarsi il biglietto aereo alla volta degli Stati Uniti, fare un match di pugilato sfidando un grande campione, vincerlo e incassare i soldi delle scommesse, diventare improvvisamente ricco e rientrare in Calabria, provvedendo per prima cosa a restituire il maltolto al tabaccaio. Nel 2022 è la volta di Milano, carcere di Opera, invitato dal gruppo di scout “Talenti all’opera” e da “Caparol”, dove realizza in un giorno un murales di 30 metri quadrati e festeggia insieme ai detenuti i suoi cinquant’anni. Nello stesso anno visita il carcere “Due Palazzi” di Padova, grazie all’Associazione “Jeos”, dove in soli tre giorni viene alla luce “Hope”, un murales di 100 metri quadrati, oggetto di un laboratorio con otto ergastolani (o quasi tutti ergastolani) che decidono insieme il tema e come fare il disegno, con la supervisione ed assistenza di Maupal. Nel 2023 ritorna nel carcere di Opera a Milano, per la presentazione del periodico #Mabul, ideato e scritto dai detenuti con una sua copertina, e l’inaugurazione di una sua esposizione permanente di stampe all’interno del carcere. Ma non solo: è in via di pubblicazione “Il profumo del legno”, un libro illustrato che, con immagini e parole, racconta ai figli dei detenuti dove si trova il loro papà. Accanto all’attività artistica, vengono ristrutturati palestra e ludoteca all’interno del carcere, sempre in un’ottica di migliorare la vita dei detenuti. Sempre nel 2023 prende vita il progetto “Sole in Mezzo”, con protagonisti i ragazzi del carcere minorile di Nisida di Napoli (set della serie “Mare Fuori”) ai quali la Onlus Ripartiamo dedica il murales di Maupal, dal titolo “Ero, ora sono”. “Uscendo dall’Istituto penitenziario, anche se con percorsi di reintegrazione, si resta comunque legati al mondo delle carceri. Ci si trova di fronte ad un bivio: chi ero e chi voglio diventare?” spiega Maupal. La prossima tappa sarà il progetto “Arte senza confini”: nel carcere di Massa Marittima, una iniziativa che si terrà assieme alla Onlus “Operazione Cuore” il prossimo gennaio 2024. Una serie di esperienze vissute da Maupal che dimostrano la potenza dell’arte come strumento di cambiamento e riscatto: “L’arte ha il potere di superare le barriere”. Basta colpevolizzare la scuola per tutto quello che non funziona in Italia di Anna Maria Ajello* Corriere della Sera, 2 novembre 2023 La ex presidente dell’Invalsi Anna Maria Ajello a proposito del saggio “Non sparate sulla scuola”: “Sbagliato attribuire il blocco dell’ascensore sociale al malfunzionamento della scuola. Superficiale rimpiangere la scuola del passato”. Capita di rado di leggere un testo, che non sia un romanzo, e proseguire sino alla fine come se lo fosse: è quello che succede con il bel libro di Gianna Fregonara e Orsola Riva “Non sparate sulla scuola” (Milano, Solferino, 2023). Il testo, articolato in 10 capitoli, tocca i temi più rilevanti che riguardano il mondo della scuola, dalle bocciature, ai voti e ai compiti a casa, alla dispersione, esplicita e implicita, ai rapporti scuola-famiglia, alla “fragilità” degli studenti attuali, agli insegnanti e alla loro formazione, agli strumenti digitali e al loro uso nella didattica, anche in seguito alla pandemia, alle innovazioni educative realizzate dalle scuole, alle diverse e periodiche riforme introdotte ogni volta che si insedia un nuovo governo. Rispetto a ciascun tema, è presentata la ricostruzione delle proposte avanzate per farvi fronte, con riferimento alle leggi, alle linee guida ministeriali, quando ci sono, e indicando i tentativi riformistici naufragati, con le ragioni che hanno causato i naufragi. Accanto a questa prospettiva centrata sulle questioni interne, per così dire, del “palazzo”, sono richiamate sia le vicende della scuola reale che a quel tema si possono riferire, sia ricerche e studi internazionali, non solo delle istituzioni più note - Ocse, Unesco, Oms- ma anche quelle realizzate da ricercatori del nostro o di altri Paesi e indagini sociologiche riferite a studenti e/o a docenti; inoltre, nei casi in cui una innovazione viene proposta nel dibattito italiano come potenzialmente risolutiva, almeno in parte, si riferisce l’esito nei Paesi che l’hanno adottata: è il caso per esempio delle zone di educazione prioritaria in Francia. Altra caratteristica del testo è quella di sfatare miti; quella dei miti, una sorta di leggenda metropolitana che aleggia sulla scuola, è evidentemente una caratteristica del dibattito italiano tanto che anche Andreas Schleicher (2020) nel suo Una scuola di prima classe (Bologna, Il Mulino) ne riporta alcuni, diversi da quelli richiamati dalle due autrici; così, ad esempio, si indica il numero complessivo dei giorni trascorsi a scuola in Italia (200) e in Paesi come Finlandia (186) e Francia (162), sfatando l’idea che da noi si stia per meno tempo a scuola. Proprio a partire da idee diffuse e quindi agganciando più immediatamente l’interesse del lettore, le autrici puntualizzano alcune questioni più generali, come ad esempio il blocco dell’ascensore sociale la cui responsabilità viene attribuita spesso al malfunzionamento della scuola. “La scuola- scrivono Fregonara e Riva (p.19) - riusciva ad essere un trampolino di classe quando anche il Paese era in crescita. Pensare che oggi possa farcela da sola a estrarre talenti e passioni dai giovani, soprattutto da quelli meno fortunati, senza introdurre anche altre forme di welfare, equivale a raccontarsi una favola. Di solito le scuole funzionano male dove tutto il resto funziona male, a partire dalle istituzioni. Al contrario sono fucine di innovazione dove società e istituzioni funzionano bene”. Ho riportato questo periodo perché, pur sottolineando aspetti che incidentalmente capita di osservare, centra in modo inequivocabile la questione di come inquadrare i problemi delle scuole poste in contesti economicamente svantaggiati in cui è molto difficile anche la vita quotidiana delle persone. In questa prospettiva è implicitamente sottolineata la superficialità di quanti rimpiangendo la scuola di un tempo, attribuiscono alla scarsa severità, all’abbassamento della soglia di aspettativa dei docenti le ragioni della minore efficacia della scuola che, come si vede, va invece connessa a questioni ben più complesse. Un altro elemento particolarmente interessante è quello riferito agli studenti perché si indica il loro attaccamento alla scuola, proprio quando richiedono che sia diversa, come nel caso della lettera degli studenti del Liceo Berchet di Milano, dopo che 56 studenti si erano ritirati dalla scuola per stress; chiedevano che la scuola fosse “un luogo e un tempo di cura” dove non si vuole “studiare meno, ma studiare meglio in un ambiente sereno e fertile” (Fregonara e Riva, p.74). Citando ricerche dell’Organizzazione mondiale della sanità, le autrici sottolineano il senso di malessere diffuso e il contrasto con quella immagine di spensieratezza irresponsabile dedita al divertimento che circola diffusamente; durante la pandemia, ad esempio, i giovani si sono recati responsabilmente a vaccinarsi, senza opposizioni. Anche qui, citando lo psicologo Matteo Lancini intervistato dal Corriere della Sera (p.81), Fregonara e Riva mettono in luce la difficoltà degli adolescenti a manifestare il loro dolore “perché non vogliono farci sentire in colpa o deluderci. In un certo senso sono loro che si fanno carico di noi adulti, delle nostre fragilità, non il contrario”. Questa riflessione, proveniente dalla consolidata esperienza clinica di Lancini, risulta complementare alle osservazioni di una docente, Anna Rosa Besana di un istituto di scuola secondaria di secondo grado, Greppi di Monticello in Brianza, per cui “alcuni genitori piuttosto che accettare che il figlio non sia all’altezza delle loro aspettative irrealistiche, arrivano a farsi fare una diagnosi che certifichi un qualche disturbo specifico di apprendimento, anche quando non c’è” (p.82). Ancora una volta con riferimento a fonti diverse - esperti e persone impegnate a scuola - si delinea con tratti molto incisivi un quadro che rende ragione di una maggiore complessità della condizione giovanile, ben diversa da quell’immagine che confina gli studenti in un tutto indistinto e infantilizzato. Il riconoscimento dei problemi connessi alla pandemia ha indotto il Ministero dell’Istruzione e del Merito a siglare un protocollo di intesa con l’Ordine degli Psicologi in base al quale il servizio aveva raggiunto il 70 per cento delle scuole (5.500 su 8000), ma nella legge di Bilancio per il 2023 non è stato più rifinanziato. In tal modo le scuole frequentate da studenti provenienti da famiglie più abbienti continueranno ad usufruire del servizio mediante il contributo delle famiglie per supplire a quella carenza, mentre ciò non avverrà nei contesti più difficili ed economicamente svantaggiati; così facendo inoltre, si introduce un’ulteriore ragione di diseguaglianza nel nostro sistema formativo. C’è da evidenziare come questa misura indichi la mancanza di una prospettiva generale, sia nel riconoscere la persistenza degli aspetti psicologici, che non si possono trattare come una influenza stagionale, sia nel frustrare le esigenze dei giovani che ancora una volta hanno avuto aspettative positive (altrimenti non avrebbero fatto ricorso allo psicologo) nei confronti degli adulti. Ci sarebbero molti altri temi che il libro tratta con efficacia; la ragione di tale efficacia va in primo luogo ricondotta non solo allo stile agile e incisivo che caratterizza il testo ma anche alla solidità delle argomentazioni che in modo leggero vengono richiamate di volta in volta superando il frequente costume di chiacchiere da bar dello sport che connota ancora molti discorsi sulla scuola. *Professore ordinario di Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione, Presidente dell’Invalsi dal 2014 al 2021 Quanti altri Domenico Livrieri? “Persone come i nostri figli per la società non esistono finché non uccidono” di Chiara Daffini fanpage.it, 2 novembre 2023 “Non voglio che mio figlio diventi un nuovo Domenico Livrieri”. Lo dicono due mamme i cui figli, malati psichiatrici, sono sottoposti a misure cautelari. “Per la salute mentale non c’è un sostegno adeguato adeguato sul territorio”, alla loro voce si affianca quella di una terza famiglia, che ha dovuto farsi carico da sola di un figlio malato e potenzialmente aggressivo. Gianluca (nome di fantasia) ha 23 anni, è cresciuto nell’hinterland milanese ed è affetto da disturbo borderline di personalità. Matteo (nome di fantasia) ha la stessa età e la stessa diagnosi, solo che vive in Veneto. Anche Valerio (nome di fantasia), 26 anni, calabrese, ha il disturbo borderline. Ma questi tre ragazzi non sono accumunati solo da una scritta sulla cartella clinica. Tutti e tre, fin da adolescenti e parallelamente all’insorgere del loro disagio psichico, hanno avuto comportamenti aggressivi e nei primi due casi sono arrivati a compiere reati. A Fanpage.it parlano Maria, Marta (nome di fantasia) e Gina, le loro mamme. Queste donne, riunite nell’associazione Famiglie in rete - salute mentale, nei giorni scorsi hanno letto i giornali su cui campeggiava la notizia della morte di Marta Di Nardo, per cui è accusato e reo confesso Domenico Livrieri, 46enne schizofrenico che da marzo 2022 non era dove lo avevano collocato i magistrati, cioè in una Rems, ma a piede libero “per mancanza di disponibilità nonostante i ripetuti solleciti del pm alle autorità di competenza”, come ha constatato nella convalida dell’arresto la gip Alessandra Di Fazio. Maria, Marta e Gina, i cui figli in tre diverse situazioni sono stati sottoposti a misure cautelari, si sono sempre prese cura dei loro ragazzi e continuano a farlo, smentendo l’idea comune secondo la quale soggetti così pericolosi sono privi di un sostegno familiare. “Il problema - lo sottolineano tutte e tre - è che la loro malattia psichica non è stata sufficientemente presa in considerazione dai servizi territoriali quando ancora potevano non macchiarsi di reati”. E la paura è unanime. “Io - afferma Maria - convivo con il terrore che quando avrà il doppio degli anni che ha ora, o forse anche prima, mio figlio possa fare quello che ha fatto Livirieri”. “Il mio - aggiunge Marta - non è un timore, ma una certezza: se non viene accolto, aiutato, supportato e portato a una condizione che gli consenta di condurre una vita normale, arriverà di nuovo a fare del male. A se stesso e agli altri”. Quella nella foto è Maria che mostra a Fanpage.it la porta del bagno presa a testate da suo figlio. “Prima che, a dicembre 2022, Gianluca venisse detenuto in un carcere milanese per uno dei venti procedimenti penali a suo carico - spiega la donna - al posto del suo letto avevamo dovuto mettere un materasso per evitare che lo distruggesse”. “Un tempo - continua - Gianluca era diverso, giocava a basket, frequentava gli scout. Dall’adolescenza ha iniziato a dimostrare difficoltà a controllare la propria rabbia e frustrazione, gli è stato diagnosticato il disturbo borderline di personalità, ma nessuna comunità terapeutica né tanto la Uonpia (Unità operativa di neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, ndr) e poi il Cps (Centro psico sociale, ndr) della zona sono riusciti a garantirgli l’assistenza di cui aveva bisogno, così a 17 anni è arrivato il procedimento per maltrattamenti in famiglia e quindi il carcere, proseguito a singhiozzo fino a oggi”. E lì, racconta Maria “c’è un generico supporto psichiatrico, perché ci sono psicologi e psichiatri che gli battono una pacca sulla spalla e lo ascoltano, però non è previsto un percorso di cura strutturato e basato sulle tecniche psicoterapeutiche riconosciute e specifiche per questo tipo di disturbo psichico”. Ma se Gianluca non è più il ragazzino che gioca a basket e va agli scout, potrebbe peggiorare ancora: “Uno psichiatra che aveva in cura mio figlio - ricorda Maria - mi ha detto che il disturbo borderline, curabile, può evolvere in disturbo antisociale, a cui invece non c’è rimedio”. “Gli ho chiesto - continua la donna - come sia possibile passare dal provare le emozioni in modo troppo intenso (disturbo borderline della personalità, ndr) a non provarne più (disturbo antisociale, ndr) e quindi a non avere neanche compassione per gli altri, rischiando di far loro del male. La risposta del dottore è stata: ‘Con disturbo borderline non curato, le emozioni diventano talmente forti e intollerabili che diventa necessario gettare su di esse una colata di cemento. Così si diventa antisociali’“. Il problema quindi è a monte: “Pochi giorni dopo il diciottesimo compleanno di Gianluca sono andata al Cps chiedendo un colloquio e mi hanno detto che non mi avrebbero ricevuta perché mio figlio era maggiorenne, avrebbe dovuto venire lui, che ovviamente, proprio perché malato, se ne guardava bene dal chiedere aiuto. Sono rimasta quattro ore ad aspettare in sala d’attesa, poi, per sfinimento, la direttrice mi ha ricevuta. Ricordo ancora le sue parole: ‘Signora, o suo figlio viene qui, facendo naturalmente tutta la trafila, chiedendo al medico di base l’impegnativa, fissando un appuntamento nel giorno e all’orario che diciamo noi, oppure per noi suo figlio non esiste’“. “Ecco - conclude Maria - persone come mio figlio per la società non esistono, appaiono solo quando ammazzano qualcuno. Ma non bisogna porre il problema dell’anti socialità a 46 anni, perché Domenico Livrieri ne avrà avuti 23 come mio figlio e non si sa che cosa è stato fatto in quel momento di quel giovane uomo, allora magari ancora recuperabile”. La storia di Marta e Matteo - “Mio figlio - racconta Marta a Fanpage.it - fino ai 14 anni era un ragazzino normale: tranquillo, educato, senza grossi problemi. Poi, di punto in bianco, ha iniziato ad avere atteggiamenti aggressivi. Mio marito e io abbiamo cercato aiuto prima tramite la scuola, poi con uno psicoterapeuta privato e infine siamo approdati al Centro di salute mentale della nostra zona. Nessuno però, mentre i mesi e gli anni passavano, ha saputo prendere in mano la situazione”. “Così - continua Marta - Matteo è arrivato a compiere atti violenti in famiglia: ci minacciava con il coltello, una volta mi ha tirato i capelli e ha spinto con forza mio marito. Impauriti da questa situazione, siamo stati costretti a denunciarlo, ha girato diverse comunità, ma nessuna sembrava in grado di aiutarlo e aiutarci. Diventato maggiorenne ha iniziato a commettere reati anche fuori casa e dallo scorso ottobre è in una Rems in provincia di Verona”. “Siamo stati noi genitori a denunciarlo - ricorda la mamma di Matteo -, perché avevamo paura che ci fosse un’escalation di violenza: in casa rompeva porte, telefoni, divani, buttava bottiglie di vetro dal balcone, con il rischio che cadessero in testa a qualcuno… Non volevamo che arrivasse a compiere reati più gravi”. Oggi il ragazzo è al sicuro: “Mi sembra una buona struttura - dice Marta riferendosi alla Rems in cui si trova Matteo -, vedo che è seguito, ma il problema doveva essere risolto molto prima: per evitare che si arrivi ad avere bisogno di una Rems serve un sistema sanitario che funzioni a livello territoriale, anche per le malattie psichiatriche, invece non è così: basti pensare che solo nella mia provincia negli ultimi quattro anni due Csm sono stati accorpati a quello del capoluogo, che ora è in grave difficoltà per carenza di personale rispetto al bacino di utenti”. “Si continua ad attaccare il sistema giudiziario - commenta Marta -, ma io personalmente in esso ho trovato accoglienza per mio figlio, hanno cercato di dare una pena che fosse consona al problema del ragazzo. È invece in ambito sanitario che ho trovato lacune paurose. Si sono persi anni, fino a che non è più stato possibile averlo con noi a casa”. La storia di Gina e Valerio - “I primi segnali che qualcosa non andava si sono manifestati intorno ai 12-13 anni. Abbiamo cercato di impedirgli in ogni modo di frequentare brutte compagnie, ma con gli anni la situazione è peggiorata, tanto da fargli lasciare la scuola per la troppa aggressività. A 16 anni gli è stato diagnosticato il disturbo borderline di personalità”. “Da subito abbiamo capito che per questa categoria di malati esiste nella sanità un ‘buco’ - dice Gina - abbiamo cercato un sistema per contenerlo, lo abbiamo anche denunciato per maltrattamenti in famiglia e ha trascorso quattro anni in varie comunità terapeutiche a doppia diagnosi per il recupero anche dalla tossicodipendenza. Valerio però continuava ad allontanarsi, nonostante il divieto di farlo imposto dal giudice tutelare”. “Proprio per questo - continua Gina - gli è stata imposta la Rems, a cui però non ha mai avuto accesso per mancanza di posti. Visto che nel contempo era invece caduto l’obbligo di risiedere in comunità, Valerio ha fatto ritorno a casa”. Sono passati tre anni da allora e Gina, insieme al marito e agli altri familiari, hanno voluto sostenere in ogni modo il figlio. “Abbiamo cercato di fare comunità per lui e di curarlo sia con una terapia farmacologica sia creando attorno a lui una rete di relazioni sociali positiva e inclusiva. In questa nostra lotta, però, siamo stati soli e aiutati esclusivamente da una rete di amicizie e conoscenze che lo hanno accolto offrendogli anche saltuariamente lavoro”. Oggi Valerio sta meglio, a detta della famiglia non è socialmente pericoloso e riesce a stare con gli altri, ma su di lui pende ancora la condanna alla Rems: “Questa possibilità - commenta la madre del ragazzo - ci spaventa molto ed è ormai diventata anacronistica e fortemente dannosa, poiché noi familiari abbiamo sopperito e supplito a quello che la sanità avrebbe dovuto fare. Valerio non è guarito naturalmente, purtroppo la sua è una patologia che difficilmente verrà superata, ma riesce a stare in società con il nostro aiuto”. Tra sanità e giustizia - Ma che cosa sono le Rems e perché se ne parla? Dall’aprile del 2008 le competenze in materia di assistenza sanitaria alla popolazione detenuta sono passate dal Ministero della Giustizia al Sistema sanitario nazionale e, dal 2014, con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, gli autori di reato affetti di malattia mentale vengono indirizzati alle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems). Queste strutture forensi sono gestite dal Servizio sanitario (delle Regioni e delle Province Autonome di Trento e Bolzano) e sono concepite con una funzione terapeutica e riabilitativa pura proprio per gli autori di reato con malattia psichiatrica. Al loro interno opera solo personale sanitario (e non più misto sanitario-penitenziario, come avveniva negli ospedali psichiatrici giudiziari e come continua ad accadere nel resto del mondo). Solamente l’attività perimetrale di sicurezza e vigilanza esterna sviene eseguita, su accordo con la Prefettura, dalle forze dell’ordine. Secondo la legge 81/2014 la Rems è considerata come extrema ratio rispetto alla possibilità di una gestione del paziente reo all’interno dei servizi di salute mentale sul territorio. Il giudice, infatti, per giustificare la custodia del paziente in questo tipo di struttura per un periodo di tempo considerevole, dovrà accertare la sussistenza di tre presupposti tra loro interdipendenti: la probabilità che il soggetto sospenda volontariamente le cure, in assenza di misura di sicurezza o se sottoposto a misura non detentiva; la probabilità che la sospensione delle cure induca a scompensi comportamentali; la probabilità che da tali squilibri comportamentali scaturiscano agiti tali da determinare dei fatti reato. Secondo il XVIII Rapporto sulle condizioni di detenzione dell’Associazione Antigone, le Rems attive sul territorio nazionale sono una trentina, con un limite massimo di venti posti ciascuna fissato per legge. “È la prima volta - si legge nel rapporto - che nel sistema dell’esecuzione penale italiano viene introdotto il ‘numero chiuso’. Un principio tanto banale, quanto rivoluzionario: il numero di ospiti in Rems non può mai derogare la capienza massima e dunque le Rems non possono essere “sovraffollate”. Ciò ha prodotto una ‘lista di attesa’ di persone che attendono di essere ricoverate in Rems. I casi più critici, sono coloro che trascorrono questa attesa in carcere”. Proprio sulle Rems alla fine del 2019 la Rivista di Psichiatria riteneva “non impellente, per il momento, la necessità di un aumento del numero dei posti letto totali, ma, al contrario, necessario un potenziamento dei servizi psichiatrici territoriali, per garantire percorsi adeguati di cura e riabilitazione”. Intelligenza artificiale per far diventare i social veri costruttori di pace di Antonio Palmieri* Corriere della Sera, 2 novembre 2023 Mentre a Londra è in corso il primo summit globale sulla Intelligenza Artificiale, ecco alcuni consigli per un uso corretto di social e messaggistica. Come avviene per ogni evento rilevante, il crudele e sanguinario attacco terroristico di Hamas contro la popolazione israeliana e la crisi che ne è derivata sono state accompagnate anche da una massa di fake news. In particolare Twitter/X e Tik Tok sono entrati nell’occhio del ciclone. A partire dal suggerimento (poi cancellato) di Elon Musk di seguire, per capire gli eventi in corso, due account che erano in realtà noti spacciatori di fake news e odio antisemita per arrivare alle clip diventate virali su Tik Tok di alcuni predicatori e imam radicali che hanno spinto l’Ufficio tedesco per la protezione della Costituzione a lanciare l’allarme sulla “Tiktokizzazione del Salafismo”, come ha riportato sul Corriere Micol Sarfatti. La proiezione social dei drammatici eventi in Israele sembrano quindi confermare la convinzione secondo cui la forza degli algoritmi ci imprigiona in una bolla comunicativa autoreferenziale e polarizzata. Ma insistere sulla “onnipotenza” dell’algoritmo rischia di avere come esito ultimo rinuncia, rassegnazione, deresponsabilizzazione. Ne avevo ragionato ai primi di ottobre con il professor Walter Quattrociocchi, docente alla Sapienza, dove dirige il Centro di Data Science and Complexity for Society. Il libro da lui scritto con Antonella Vicini, “Polarizzazioni. Informazioni, opinioni e altri demoni nell’infosfera”, conferma con i dati di approfondite ricerche sulle conversazioni social le caratteristiche delle echo chamber (o “camere dell’eco”). Tendiamo ad aggregarci e a interagire tra persone con idee che confermano quanto già riteniamo giusto o vero. Lo facevamo anche prima dei social. Si tratta di “meccanismi tribali” che online spingono a concentrarsi su un piccolo numero di account, a dare visibilità a temi polemici che generano maggiori interazioni e per questo vengono resi più visibili dalle piattaforme. Siamo quindi in un vicolo social senza via d’uscita? No. Le straordinarie possibilità della tecnologia nell’era digitale esigono un di più di responsabilità, che è poi da sempre l’altra faccia della medaglia della libertà. È vero: l’algoritmo è lo strumento su cui si fonda l’economia dell’attenzione: più tempo stiamo sulle piattaforme più dati utili a profilarci per il mercato pubblicitario regaliamo. È però altrettanto vero che l’algoritmo lo “educhiamo” noi, con le nostre scelte. Se facciamo buon uso della nostra libertà e scelte intelligenti (chi seguire, in quali discussioni intervenire e come) l’algoritmo sarà al nostro servizio, non noi al suo. Si tratta di saper usare a nostro vantaggio quegli stessi strumenti che se usati passivamente ci condannano alla tribalizzazione della comunicazione. Questo vale in modo particolare per le realtà del Terzo settore, la cui missione sotto certi aspetti è proprio questa: forzare i limiti di una visione angusta di economia e di società, proponendo un modo diverso di agire e di fare comunità. Vale anche online. Social e messaggistica possono essere adoperati in modo asocial(e) oppure social(e), per costruire relazioni significative tra gruppi omogenei di persone che non si ritengono migliori degli altri e che perseguono scopi di mutuo sostegno e di utilità sociale. Da diversi anni, ad esempio, la Fondazione FightTheStroke, che supporta bambini e giovani sopravvissuti all’ictus e con una disabilità di paralisi cerebrale infantile e le loro famiglie, usa i gruppi chiusi di Facebook per consentire a genitori e caregivers di confrontarsi e sostenersi tra loro. Possiamo usare gli stessi algoritmi che ci imprigionano nelle camere dell’eco per creare comunità digitali. Per esempio creando in Twitter/X liste di account “giusti” e scegliendo di visualizzare solo i loro contenuti. Nulla ci vieta di usare i meccanismi dei social per valorizzare le caratteristiche positive di noi esseri umani, per essere costruttori di ambienti digitali più sani, per essere anche in questo modo costruttori di pace. Se ne dialogherà il 9 e 10 novembre a Milano, ai Techsoup Days. In conclusione, non consegniamoci a un uso passivo delle piattaforme, che peraltro stanno trasformandosi in piattaforme di intrattenimento, sempre più simili ai media broadcast tradizionali. Usiamole come strumenti utili per dare più consistenza a noi stessi e alle nostre realtà associative. Come diceva il “patrono di Internet”, il beato Carlo Acutis, “tutti nascono originali, ma molti muoiono come fotocopie”. Adoperiamo i social in modo adeguato e non saremo fotocopie. Men che meno fotocopie digitali. *Fondazione Pensiero Solido Quei giornalisti morti, crimini senza colpevoli di Paolo Fallai Corriere della Sera, 2 novembre 2023 Oggi si celebra, per la decima volta, la “Giornata mondiale per mettere fine all’impunità per i crimini contro i giornalisti”, indetta dall’ONU. Le “Giornate mondiali” proclamate dalle Nazioni unite non servono a niente. Il loro scopo non è mai pratico, vogliono sensibilizzare, richiamare l’attenzione su temi come la salute, l’ambiente, i diritti umani. Altrimenti potremmo perderli di vista nella nebbia delle emergenze quotidiane. Come la libertà e il diritto di essere informati. Oggi si celebra, per la decima volta, la “Giornata mondiale per mettere fine all’impunità per i crimini contro i giornalisti”, indetta dall’ONU nel 2013 in memoria dell’omicidio di due giornalisti francesi nel Mali. La Giornata visse un momento di grande emozione nel 2017 quando Daphne Caruana Galizia venne uccisa da un’autobomba a Malta. Anche se i numeri dei giornalisti uccisi nel mondo sono tornati ad aumentare, dopo i sanguinosi record di dieci anni fa (più di 140 nel 2013, 80 nel 2022) l’incandescenza dei fronti di guerra riporta in primo piano cifre impressionanti: decine di reporter, fotografi e operatori tv hanno perso la vita in Ucraina. Dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas, secondo Reporter Senza Frontiere, sono stati uccisi 34 giornalisti, di cui almeno 12 nel corso del loro lavoro. Anche molti italiani compaiono nel lungo elenco dei lutti: dal 1980 a Beirut al 2014 a Gaza, sono 19 i giornalisti e gli operatori tv uccisi perché svolgevano in prima linea il loro lavoro. E non dobbiamo pensare che sia un tema vivo solo oltre confine o sui fronti di guerra. Il sito meritorio dell’associazione “Ossigeno per l’informazione” riporta i nomi e i casi di 6912 giornalisti minacciati in Italia dal 2006 al 2023. Quasi mai gli assassini dei giornalisti vengono individuati, anche per questo la Giornata mondiale di oggi parla di “mettere fine all’impunità per i crimini contro i giornalisti”. Morti per aver tenuto fede al loro ruolo nella società, da Ilaria Alpi e Miran Hrovatin alla nostra Maria Grazia Cutuli uccisa in Afghanistan il 19 novembre 2001. Il ritorno degli incubi peggiori di Danilo Taino Corriere della Sera, 2 novembre 2023 Il dato di fatto è che il carattere politico delle manifestazioni, come degli slogan più risonanti, è stabilito da chi punta ad attaccare Israele, idealmente a distruggerlo, in solidarietà e comunanza con Hamas. È vero che non tutti i manifestanti pro Palestina sono antisemiti. È anche vero che oggi tutti gli antisemiti sono pro Palestina: è la loro occasione. Coloro che hanno riempito le strade delle città italiane ed europee con un desiderio sincero di giustizia e di pace dovrebbero tenerne conto. Non tanto perché si sono trovati, e si troveranno, nella peggiore compagnia. No, soprattutto per sapere in quale direzione porta la vicinanza a chi di quelle giustizia e pace non importa, anzi le vorrebbe usare per trascinare il mondo agli anni più bui del Novecento. Gli Stati Uniti, l’Europa e molti altri Paesi cercano di non ampliare il conflitto, gli antisemiti puntano ad allargarlo, anche al di là del Medio Oriente. Non è una buona idea dare loro copertura, anche involontaria. Dicevano alcuni slogan della manifestazione inglese: “Da Londra a Gaza, faremo un’intifada” e “Palestina dal fiume al mare” (cancellazione dello stato israeliano). A Birmingham, un cartello citava l’articolo 7 della Carta fondativa di Hamas, nel quale si invita a uccidere gli ebrei. Il dato di fatto è che il carattere politico delle manifestazioni, come degli slogan più risonanti, è stabilito da chi punta ad attaccare Israele, idealmente a distruggerlo, in solidarietà e comunanza con Hamas. La leadership è loro, gli altri sono numerose comparse. Nel Daghestan, si cerca di massacrare gli ebrei via via che atterrano. A Roma si oltraggiano le pietre d’inciampo dei deportati dai nazisti. In Francia e in Belgio si spara. A Parigi si segnano con la Stella di Davide case e negozi di ebrei. A Vienna si dà fuoco a un cimitero ebraico. Nel Regno Unito si eleva l’allarme antiterrorismo. Ovunque, persino nelle università degli Stati Uniti, molti ebrei vengono attaccati. All’ombra delle bandiere palestinesi, prospera la voglia di dare, come minimo, una lezione definitiva agli israeliani. Non al loro governo: agli israeliani, donne, uomini, anziani, bambine. E agli ebrei. Nei dibattiti in Italia e non solo si dice che le armi non risolveranno la questione palestinese, che ci vuole un obiettivo politico. Molto ovvio. C’è il problema che un obiettivo politico fatto di umanità, di civiltà, di convivenza deve contrapporsi all’obiettivo della distruzione dello Stato ebraico, punto irrinunciabile di Hamas come dei suoi padrini iraniani. Possibile trovare una prospettiva politica? Si dice che la questione è complessa: storia drammatica, errori palestinesi e israeliani, occasioni mancate, diritti conculcati, violenza e odio. Vero. Ma ci sono almeno un paio di punti niente affatto complicati ma essenziali per individuare un traguardo politico. Il primo è la chiarezza morale, necessaria quando si è di fronte a una guerra e si chiede la pace. Ci sono un aggressore e un aggredito. Il governo israeliano addirittura credeva, sbagliando tragicamente, che Hamas avesse rinunciato alla violenza omicida: non pensava affatto di invadere la Striscia di Gaza, aveva anzi ridotto le difese. Ora, come ha il dovere di fare ogni Stato che viene attaccato, deve ripristinare la maggiore sicurezza possibile per i propri cittadini: cercando di provocare il minore numero di morti civili. Il corollario è che l’equivalenza molto amata nei cortei e nei talk-show è una mistificazione. Certamente un bambino ucciso dai terroristi di Hamas è un dramma come lo è un bambino ucciso dalle bombe di Israele. Ma la responsabilità delle morti è di chi la guerra l’ha voluta, dichiarata e ottenuta. Vale per le vittime israeliane e per gran parte di quelle palestinesi. Come in Ucraina, nel dramma non c’è equivalenza tra aggressore e aggredito. Altro punto chiaro: Israele non è un Paese che si nutre e si è nutrito del sangue dei palestinesi, come sembrano pensare molti dei manifestanti. Ha fatto errori in alcuni casi tragici, come con gli insediamenti indiscriminati in Cisgiordania. Ma è un Paese pienamente democratico da decenni sotto attacco per il fatto stesso di esistere: se non avesse un esercito di difesa potente, non esisterebbe più e il popolo ebraico sarebbe di nuovo esule per il mondo, esposto come in passato a pogrom e discriminazione. È amaro constatare che le migliaia di manifestanti, soprattutto i più giovani, non considerano questi semplici ma determinanti punti prima di invocare confusamente la “complessità della questione israelo-palestinese”. E che, tra l’altro, non si facciano domande su ciò che lega la barbarie dei terroristi alla misoginia, all’oscurantismo, alla crudeltà, al trattamento delle donne, al Medioevo che è il Dna dei regimi di Hamas e degli ayatollah di Teheran. A un certo punto, si dovrà arrivare a una proposta di soluzione politica del dramma di questi giorni. Quando, per quel che è possibile, la sicurezza di Israele sarà ristabilita e magari Netanyahu se ne sarà andato. Ma quel momento sarà più lontano se i manifestanti continueranno a coprire, anche non volendolo, i peggiori antisemiti tornati in attività piena dopo ottant’anni. Non manifestiamo assieme a loro. Perché, come piace dire al segretario generale dell’Onu ma a rovescio, “ciò che accade, non accade nel vuoto”. Austria. A fuoco il cimitero ebraico di Vienna, svastiche, scritte sui muri: il morbo dilaga di Uski Audino La Stampa, 2 novembre 2023 L’allarme antisemitismo si fa di giorno in giorno più concreto in Europa. La brace che covava sotto la cenere è pronta a riaccendersi. Anche fuor di metafora. A Parigi tornano le stelle di David sulle case degli ebrei, gli slogan antisemiti alle manifestazioni, gli attacchi alle sinagoghe. La notte di Ognissanti, quella di Halloween per alcuni, “è stato appiccato un incendio nella parte ebraica del cimitero centrale di Vienna”, ha twittato il presidente della comunità ebraica della città Oskar Deutsch su X ieri mattina. La camera antistante alla sala delle cerimonie, dove vengono celebrati i funerali, è bruciata mentre “svastiche sono state disegnate con lo spray sui muri esterni”. Quando le forze dell’ordine sono intervenute, intorno alle 8 di mattina, l’incendio si stava spegnendo da solo, ha riferito il portavoce dei vigili del fuoco. Non c’è stato nessun ferito, ma sono bruciati diversi libri antichi di grande valore e l’armadio sacro (Aron), ha specificato più tardi il presidente della comunità ebraica. Le indagini sulle cause dell’incendio ora passano agli inquirenti, ma ci sono pochi dubbi sull’origine dolosa. Il cancelliere austriaco Karl Nehammer è intervenuto a stretto giro per “condannare fermamente l’attacco”. “L’antisemitismo non ha posto nella nostra società. Spero che i colpevoli vengano rapidamente identificati”, ha scritto su X. Anche il presidente della Repubblica Alexander Van der Bellen si è detto “profondamente scioccato” dall’incendio nel cimitero ebraico e ha sottolineato che “il numero di episodi di antisemitismo in Austria è aumentato in modo significativo nelle ultime settimane” e “gli ebrei austriaci devono poter vivere in sicurezza e pace”, ha postato sullo stesso social media. Dal massacro del 7 ottobre in Israele ad oggi, in effetti, sono stati registrati in Austria 165 attacchi a sfondo antisemita, riporta Deutsch. Nei primi tredici giorni del conflitto “c’è stato un aumento del 300% di aggressioni rispetto a quanto avvenuto in tutto il 2022”, riassume il segretario generale della comunità israelitica di Vienna, Benjamin Nägele. Non solo a Vienna, ma anche a Salisburgo e a Linz sono state strappate le bandiere di Israele, così come una vetrina di un negozio ebraico è finita in frantumi mentre i ristoranti ebraici rimangono deserti nel timore di attentati. La piccola repubblica alpina, riuscita nell’impresa leggendaria di far credere al mondo che Beethoven è austriaco e Hitler tedesco, si riscopre facile preda dei fantasmi del passato. Un passato che ora riemerge colorato di nuove sfumature. Secondo uno studio del Parlamento austriaco condotto la primavera scorsa, l’antisemitismo è ampiamente diffuso tra gli studenti e le studentesse di origine araba, tanto che più della metà di loro afferma che “se lo Stato di Israele non esistesse, regnerebbe la pace in Medio Oriente”. Antisemitismo di importazione? Anche qualche parallelo più a Nord, in Germania, la paura cresce. Dopo che Thomas Haldenwang, il capo dei servizi di intelligence interna, ha detto di “aspettarsi attacchi mirati”, martedì il presidente dell’associazione sportiva ebraica tedesca, la Maccabi Deutschland, ha dichiarato a nome dei giocatori: “Abbiamo paura”. Già in passato quando “le cose sono degenerate in Medio Oriente siamo stati considerati corresponsabili dello Stato ebraico”, ha detto il presidente Alon Meyer. Ma “dal 7 ottobre tutto è sfuggito di mano, alcuni allenamenti e partite sono stati cancellati”. Anche il Papa ha sentito la necessità di lanciare l’allarme: “Purtroppo l’antisemitismo rimane nascosto. Lo si vede, nei giovan,i per esempio, di qua e di là che fanno qualche cosa. L’Olocausto non è bastato, questi 6 milioni di uccisi, schiavizzati... Purtroppo, non è passato”, ha detto Francesco nell’intervista al Tg1. All’antisemitismo originario di matrice cristiana, si somma dal 7 ottobre una recrudescenza dell’antisemitismo di importazione di matrice arabo-musulmana, che va a sua volta a sommarsi ad un antisemitismo politico di destra, alimentato di nuova linfa a partire dalla pandemia con le sue derive complottiste (vedi QAnon e i suoi fratelli), ampliate dai ripetitori social della composita galassia no-vax. E se tutto questo non bastasse, si aggiunge ora la durissima reazione di Israele agli attacchi di Hamas. Et voilà, l’incendio è servito. Stati Uniti. Doppio allarme: antisemitismo e islamofobia spaccano il Paese di Alberto Simoni La Stampa, 2 novembre 2023 Dopo il 7 ottobre vertiginoso aumento delle denunce di discriminazioni da parte di musulmani. E a New York primo arresto per minacce di morte a studenti ebrei della Cornell University. Sono due facce distinte dell’odio razziale. Antisemitismo e islamofobia condividono un identico sentiero di minacce, soprusi, insulti e violenze fisiche nell’America che osserva da migliaia di miglia lo svilupparsi del conflitto in Medio Oriente ma che ne sente le schegge schizzare pericolosamente nella sua società già lacerata su tanti temi. Il Council on American-Islamic Relations (Cair) ha diffuso i dati delle richieste di aiuto e di denunce di discriminazioni che ha ricevuto fra il 7 e il 24 ottobre da parte di musulmani in tutti gli States: 774 episodi, in aumento del 182% rispetto a qualsiasi altro periodo di 16 giorni dello scorso anno. Per fare un esempio, la media delle denunce spalmate su circa due settimane nel 2022 è stata di 274. Segnali preoccupanti che si uniscono alla crescita dell’antisemitismo, già in aumento da un decennio ma sino all’attacco di Hamas “confinato” negli ambienti della destra bianca suprematista e oggi invece allargatosi a macchia d’olio. Martedì sera uno studente 21enne della Cornell University è stato arrestato - e oggi è comparso davanti al giudice - dopo aver disseminato minacce di morte sul Web contro gli studenti ebrei della celebre università della Ivy League. È un episodio tutt’altro che isolato, ma è la prima volta in queste settimane che scatta un arresto a testimoniare quanto il livello di allerta negli Stati Uniti è alto. I campus restano i luoghi da monitorare, quasi ovunque ci sono state prese di posizione che dal sostegno al popolo palestinese sono transitate poi dalla non-condanna di Hamas sino in alcuni casi, come quello di Cornell, alle minacce agli ebrei. Lo scontro è a 360 gradi e i Board di alcune università sono in difficoltà. Alla UPenn, ad esempio, la mancata presa di distanza dei dirigenti universitari da un documento pro-palestinesi firmato da centinaia di giovani, ha spinto alcuni donatori, fra cui Jon Huntsman, ex ambasciatore Usa a Pechino, a togliere i finanziamenti all’istituzione. Le lacerazioni sono evidenti a ogni livello, alcuni musulmani stanno rivivendo il clima del post 11 settembre. Altri ricordano anche che, quando Trump minacciò di bandire i musulmani dall’entrare negli Usa, si scatenò un’onda d’odio nel Paese. Il 15 ottobre scorso in Illinois Wadea Al-Fayoume, di sei anni, è stato ucciso a coltellate dal padrone della casa dove viveva con la mamma, gravemente ferita. La polizia ha rubricato il delitto come un crimine d’odio, Joseph Czuba, il killer, si era scagliato sul bimbo urlando “musulmano, devi morire”. Il presidente Biden nel suo intervento dallo Studio Ovale in diretta Tv ha citato il caso. Ma non sono solo i musulmani gli unici a rischio islamofobia. Chiunque venga percepito come musulmano, inclusi gli arabi di altre fedi religiose, e persino i Sikh, sono finiti nel tritacarne di minacce e insulti. A New York il 15 ottobre un 19enne è stato aggredito da una persona che volevano toglierli il turbante. La comunità islamica prova a difendersi. La lezione che la palestinese El Haddad che vive nell’area di Boston da oltre 25 anni, ha dato alla figlia di 15 anni che indossa l’hijab è quella di “non reagire e non rispondere”. L’abbigliamento tradizionale è ovviamente elemento che rende particolarmente vulnerabili e identificabili i musulmani. A New York una studentessa è stata aggredita in metropolitana solo perché aveva il capo coperto e in Maryland una donna al volante della sua auto con il figlio a bordo è stata ricoperta di insulti e improperi a uno stop solo perché aveva l’hijab. Sono micro-episodi che riflettono un clima di paura e di intolleranza in un’America dove oggi schierarsi da una parte o dall’altra sembra un requisito necessario. Anche politico. Tanto che alcuni musulmani e donatori arabi americani hanno minacciato di bloccare le donazioni alla campagna del presidente Biden fin quando non si schiererà per il cessate il fuoco a Gaza. In un comunicato il National Muslim Democratic Council ha posto un ultimatum (le 23 italiane di oggi): chiunque aspiri alla Casa Bianca deve appoggiare lo stop alle armi. E’ un manifesto politico non una provocazione che trova sponde - limitate ma assai rumorose - anche al Congresso nell’ala progressista dei democratici. E che potrebbe avere un impatto sulla campagna elettorale. Emgage, un movimento di musulmani americani, ha diffuso un report dicendo che circa 1.1 milioni di islamici hanno votato alle elezioni del 2020. L’analisi dei flussi sulla base degli exit poll fatta allora dall’Associated Press ha evidenziato che il 64% votò per Biden, appena il 35% per Trump. L’Arab American Institute ha invece spiegato che ci sono 3,7 milioni di americani che affondano le loro radici in un Paese arabo. Ebbene secondo un sondaggio diffuso martedì il loro sostegno a Biden è crollato: nel 2020 era del 59%, ora è appena al 35%. Medio Oriente. Vivere e morire nei campi profughi di Francesca Mannocchi La Stampa, 2 novembre 2023 Il campo di Jabalia è il luogo simbolo del conflitto israelo-palestinese: da qui iniziò la prima Intifada: centomila persone in poco più di un chilometro quadrato, senza null’altro che Hamas e aiuti umanitari. Il 9 dicembre del 1987 un camion delle forze di difesa israeliane (Idf) si scontrò con un veicolo palestinese e uccidendo quattro civili, tre dei quali vivevano nel campo profughi di Jabalia. Furono quei morti, i morti di Jabalia, a dare inizio alla prima Intifada. Per gli israeliani si trattò di un incidente, un evento accidentale, per i palestinesi i soldati uccisero intenzionalmente i quattro civili. Il giorno successivo, dopo i funerali, iniziarono gli scontri tra i soldati israeliani e le famiglie delle vittime, scontri che segnarono l’inizio della rivolta contro l’occupazione che segnò un punto di svolta nel conflitto israelo-palestinese. Si formarono comitati di volontari, gli studenti misero in piedi una resistenza coordinata con i palestinesi che lavoravano in Israele o negli insediamenti israeliani e presero parte al boicottaggio economico: rifiuto di pagare le tasse, di guidare auto palestinesi con patente israeliana, di svolgere lavori non qualificati. Poi cominciarono a barricare le strade e - ciò che in seguito definirebbe la resistenza palestinese - a lanciare pietre contro carri armati e infrastrutture israeliane. Avevano tutti un unico obiettivo: porre fine all’occupazione. In sei anni, dal 1987 al 1993, morirono più di 1.000 palestinesi e 160 israeliani, e l’esito di quella stagione furono gli accordi di Oslo, una tabella di marcia che avrebbe dovuto portare alla creazione di uno Stato palestinese entro cinque anni e alla creazione dell’Autorità Palestinese. Oggi, trent’anni dopo, il campo di Jabalia torna a titolare i giornali. Il campo, considerato una delle roccaforti di Hamas, è stato colpito già tre volte: il 12, il 19 e il 22 ottobre, nelle ultime 24 ore è stato bombardato due volte dall’esercito israeliano. Due attacchi in due giorni - Martedì Israele ha dichiarato di aver colpito un comando di Hamas e una rete di tunnel in un’operazione combinata di truppe di terra e un attacco aereo, le bombe ad alta precisione hanno colpito il campo, radendo al suolo vari condomini. Ieri mattina, l’aviazione israeliana è tornata di nuovo a colpire l’area. L’Idf ha dichiarato di aver eliminato Ebrahim Biari, che si ritiene agisse come comandante generale delle unità di Hamas nel Nord di Gaza, a capo della brigata Jabalia, che avrebbe utilizzato il campo per l’addestramento e la preparazione delle operazioni e stoccare armi e munizioni. Un portavoce di Hamas ha però negato che il comandante Biari si trovasse nella zona colpita. L’attacco ha provocato la morte di 50 persone, almeno altre 150 sono rimaste ferite, secondo le autorità palestinesi che hanno denunciato che, nell’attacco, l’Idf non ha fatto distinzione tra civili e miliziani. A Jabalia, in meno di 24 ore, sarebbe stato violato due volte il principio di proporzionalità, il principio che prevede che se l’attacco non offre un vantaggio tangibile dal punto di vista militare, chi attacca ha l’obbligo di contenere i danni a carico dei civili. Che l’esercito israeliano non abbia fatto distinzione tra civili e miliziani lo ha confermato martedì sera anche il colonnello Richard Hecht, portavoce dell’Idf, alla Cnn. Intervistato da Wolf Blitzer che gli chiedeva se l’esercito fosse al corrente della presenza dei civili ha risposto: “Questa è la tragedia della guerra, abbiamo detto loro di spostarsi a Sud”. Il campo di Jabalia si trova nel Nord di Gaza, un’area per la quale l’esercito israeliano ha emesso ordini di evacuazione, ma come ricorda Omar Shakir, direttore di Human Rights Watch per Israele e Palestina, “l’avvertimento non esonera le parti dall’obbligo di proteggere i civili. I civili che non evacuano devono comunque essere protetti”. Incalzato ancora da Blitzer che gli ha chiesto: “Quindi avete deciso comunque di sganciare la bomba?” il colonnello Richard Hecht ha poi detto: “Stiamo facendo il possibile per ridurre al minimo le morti civili”. Il minimo è mostrato dalle immagini delle ore successive. Centinaia di persone intorno al vasto cratere lasciato dalla bomba che cercano di estrarre corpi o pezzi di corpi, tra loro decine di donne e bambini. La Storia si ripete - Jabalia è un luogo simbolico nella storia del conflitto israelo-palestinese, il luogo dell’inizio delle rivolte dell’Intifada, dei comitati popolari, il punto di incontro dell’attivismo internazionale nella Striscia, ma anche un luogo in cui gli eventi si ripetono tragicamente. Durante il conflitto del 2014 l’artiglieria israeliana colpì una scuola dell’Unrwa, uccidendo almeno 15 persone, e ferendone 100. Tremila persone si erano ammassate nella scuola femminile di Jabalia dopo che l’esercito israeliano aveva avvertito i civili di lasciare le loro case per non rischiare la morte sotto i bombardamenti. Il primo colpo arrivò subito dopo la chiamata alla preghiera mattutina, quando la maggior parte di coloro che si erano rifugiati dormivano. Allora come oggi gli sfollati della guerra si rifugiavano dove potevano: nelle scuole, negli ospedali, in luoghi che ritenevano essere protetti e sicuri, perché i funzionari dell’Onu fornivano ogni giorno a Israele i dettagli delle strutture scolastiche dove cercavano riparo i civili. I funzionari delle Nazioni Unite descrissero la morte di bambini nel sonno come una “vergogna per il mondo”, accusando Israele di aver compiuto una grave violazione del diritto internazionale. Ban Ki-moon, che ai tempi era il segretario generale dell’Onu, definì l’attacco “oltraggioso e ingiustificabile” e chiese “responsabilità e giustizia”. Pierre Krähenbühl, che era commissario generale dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, disse che il bombardamento della scuola è stata una “grave violazione del diritto internazionale da parte delle forze israeliane. I bambini sono stati uccisi mentre dormivano accanto ai loro genitori sul pavimento di un’aula in un rifugio designato dalle Nazioni Unite a Gaza. Bambini uccisi nel sonno; questo è un affronto per tutti noi, una fonte di vergogna universale. Oggi il mondo è disonorato”. Da allora sono passati nove anni, la maggior parte degli abitanti di Jabalia ha meno di 18 anni. I bambini che nel 2014 si rifugiavano nelle scuole delle Nazioni Unite in fuga dalle bombe sono diventati ragazzi e giovani uomini così, stretti tra il blocco della Striscia, le regole di Hamas, le regole di guerra non rispettate e crimini rimasti impuniti. Una storia che si ripete ogni volta in una forma peggiore. Medio Oriente. L’inquisizione morale e la politica cieca di Filippo Barbera Il Manifesto, 2 novembre 2023 Nello spazio pubblico sul conflitto in Medio Oriente, assente la politica, domina la logica inquisitoria e un codice mediatico da “bene contro il male” per il quale ogni strage è legittima. Il conflitto Israelo-Palestinese ha trasformato il discorso pubblico in un processo inquisitorio. Le opinioni dissenzienti, le analisi storico-politiche, i “se” e i “ma” non sono ammessi. L’unica cifra possibile è la fede morale, conseguenza diretta della narrativa imperniata sullo scontro di civiltà. Come nell’Inquisizione, si percorre la via della sofferenza innocente per raggiungere il bene assoluto. Se l’obiettivo la vittoria del bene sul male, tutto diventa accettabile. Più di 3.000 bambini uccisi sono il prezzo necessario per “sconfiggere Hamas”; migliaia di famiglie sterminate e una popolazione assediata sono il tributo che si deve esigere per tracciare la linea che separa la civiltà dei buoni dal terrorismo palestinese. L’infrastruttura fondamentale della vita civile spianata da bombe e missili, è solo una tappa verso il bene. La ricetta dell’adesione morale alla fede cieca, appunto tipica dell’Inquisizione, non risparmia nessuno. La difficile ricerca della verità storica e l’afflato verso la diplomazia e la politica, con tutte le loro sfumature, incertezze, dubbi conoscitivi e pratici, sono rimpiazzati dal codice binario della morale assoluta. In questa luce va inquadrato l’attacco al Segretario Generale delle Nazioni unite, Antonio Guterres, definito “amico di Hamas”. Peccato che il Segretario Generale abbia sostenuto l’esatto opposto, come si può leggere da questa traduzione testuale: “Ho condannato in modo inequivocabile gli orribili e inauditi atti di terrore compiuti da Hamas il 7 ottobre in Israele. Nulla può giustificare l’uccisione, il ferimento e il rapimento deliberato di civili - o il lancio di razzi contro obiettivi civili. Tutti gli ostaggi devono essere trattati umanamente e rilasciati immediatamente e senza condizioni. Noto con rispetto la presenza tra noi dei membri delle loro famiglie. Eccellenze, è importante riconoscere che gli attacchi di Hamas non sono venuti fuori dal nulla. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione. Hanno visto la loro terra costantemente divorata dagli insediamenti e tormentata dalla violenza; la loro economia soffocata; la loro gente sfollata e le loro case demolite. Le speranze di una soluzione politica alla loro situazione sono svanite. Ma le rimostranze del popolo palestinese non possono giustificare gli spaventosi attacchi di Hamas”. La dichiarazione di Guterres ha però valicato il sacro confine che separa l’adesione morale, richiesta dagli inquisitori della fede, dal politeismo valoriale che, invece, connota la ricerca della verità storica e la responsabilità della mediazione politica. La furia inquisitoria non risparmia nessuno: il dibattito pubblico ha sdoganato anche il “peccato di omissione”. Le istituzioni che non condannano Hamas, è perché lo sostengono. Chi non condanna pubblicamente Hamas e non ne prende le distanze pronunciando le cinque fatidiche parole: “Hamas è una organizzazione terroristica” è automaticamente etichettato come fiancheggiatore, antisemita, nemico dell’Occidente o terrorista tout court. Il tema, qui, non è tanto questo o quel giornale, editorialista, commentatore, giornalista, intellettuale o politico. Quanto lo stato di sofferenza generale del dibattito pubblico, il soffocante clima neo-maccartista, la caccia alle streghe che esorta a non esporsi, l’uso strumentale di dichiarazioni pubbliche per colpire l’avversario politico. In questa atmosfera, i toni militanti dell’Inquisizione si saldano a quelli apparentemente più leggeri, ma proprio per questo subdolamente efficaci, della cronaca. Editorialisti indignati, servizi dei telegiornali a senso unico e commenti che ripropongono l’orrore dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, senza dare conto dell’evolversi degli eventi dopo tre settimane di guerra unilaterale. Un rumore bianco di fondo che unifica l’informazione, cancellando nei fatti le differenze. La cautela è la regola anche a sinistra: ogni servizio o commento deve iniziare con la condanna di Hamas, nel migliore dei casi. Nel peggiore, lì inizia e lì finisce. Non si tratta solo di un fenomeno italiano, dal momento che elementi da mentalità inquisitoria sono presenti un po’ ovunque. Del resto, è vero che gli spazi di libertà critica e di analisi storico-politica sono ben diversi altrove. Un commento come quello del Financial Times del 30 ottobre: “Israele ha tutto il diritto di difendersi da Hamas, ma la punizione collettiva dei palestinesi intrappolati a Gaza deve finire” (a nome dell’editorial board, quindi specchio della linea ufficiale e collettiva del giornale), in Italia sarebbe considerato eretico dai e nei media allineati alla lotta del bene contro il male. È un atteggiamento tipico delle province dell’Impero, che sono spesso più zelanti dei centri di potere nell’interpretazione del canone. La conseguenza tragica è la scomparsa della politica, sostituita dall’adesione ai principi della fede. Una teocrazia mediatica, sostenuta dal funzionamento ormai semi-automatico dei canali di comunicazione e dal senso comune che vi alberga. In tutto questo, l’unico spazio possibile per ristabilire il primato della politica sulla morale sarebbe quello di sostenere pubblicamente: “Non condanno Hamas”, consegnandosi così alla lapidazione pubblica, all’odio in rete e alla gogna mediatica. Sempre in attesa dell’avvento del Regno del Bene. Medio Oriente. Donne di pace: “Non odiamo, vogliamo sopravvivere. Piangiamo inutilmente morti e rapiti” di Fabiana Magrì e Letizia Tortello La Stampa, 2 novembre 2023 Ekaterina, madre di un soldato rapito da Hamas; Ghadir, studentessa 27enne palestinese attesa alla Normale di Pisa e intrappolata senz’acqua a Gaza. La guerra falcia via vite alla cieca, nomi, storie, facce di cui nessuno si ricorderà. È il caso a decidere. Stabilisce quand’è la tua ora, il tuo giorno, il tuo minuto. Se sopravvivi o ti cancella. Se si spezza il filo che unisce il “ci siamo” e il “non ci sono più”. Quel giorno, il 7 ottobre scorso, quando Hamas è entrato in Israele, ha fatto strage di civili e ha rapito soldati, Nik Beizer, militare dell’Idf di 19 anni, al primo anno di leva obbligatoria, non avrebbe nemmeno dovuto essere lì, nel turno di guardia. “Gli toccava solo un weekend al mese nella base del Cogat (Coordinatore delle attività governative nei Territori) al valico di Erez”, da dove si coordinava, fino a un mese fa, il transito dei veicoli commerciali destinati alla Striscia di Gaza, in accordo con l’Autorità palestinese. “Un collega gli aveva chiesto un favore, un cambio a buon rendere, e lui aveva accettato”, racconta la mamma, Ekaterina, che da quella data che sembra lontanissima vive ore infinite di panico: “Gli abbiamo parlato al telefono fino all’alba di quel sabato dannato, gli avevamo portato il cibo per lo Shabbat. L’ultima volta che ci ha chiamato, sentivamo i terroristi in sottofondo. Poi, in un video sul Telegram di Hamas, abbiamo scoperto l’orrore, che l’avevano rapito. Non spero altro al mondo che me lo restituiscano, e vivo”. La collega soldatessa Ori Megidish, invece, è tornata dall’inferno. È la prima prigioniera liberata, quattro giorni fa, con un blitz dell’esercito dentro la Striscia. Lei, ma non i 240 ostaggi ancora nelle mani dei combattenti palestinesi, merce umana di scambio e pressione per la guerra contro Netanyahu e l’esistenza stessa del suo popolo. “Destino” in arabo si dice “Qá dar”. In ebraico, “Goral”. Quello che ti assegna un posto nel mondo in cui nascere e che Ghadir Abu Middain tira in mezzo per raccontare la sua “vita di rabbia, da quando avevo 11 anni ed ero una bambina venuta al mondo nel posto sbagliato, a Gaza sotto assedio da allora ad oggi, ma oggi è più difficile. Oggi è il peggio che io abbia mai potuto immaginare. Credo che non ci stiamo rendendo conto davvero di quello che sta capitando al popolo palestinese”, dice. Ghadir è una studentessa plurilaureata. In Giurisprudenza, Diritti Umani e Democrazia tra Gaza, Beirut e il Qatar, che quest’anno è attesa alla Normale di Pisa per un Phd, ma non potrà arrivare. È intrappolata nella Striscia di Gaza, come i suoi connazionali. A nulla vale la borsa di studio che l’Italia paga interamente, per sfilarla dal destino delle bombe. A nulla è servito, finora, in un’esistenza di privazioni continue (acqua, luce, internet, possibilità di viaggiare, divieto di visitare Israele e la Cisgiordania) e ostacoli per fare tutto, essere la migliore e vincere premi. “Per chi si è abituato a preparare gli esami a lume di candela e ad una condizione di assedio da 16 anni - spiega dalla Gaza bombardata giorno e notte, da Alburij, al centro della Striscia, vicino al campo di Almagazi -, l’escalation della violenza non ti fa nemmeno più impressione. La rabbia si aggiunge alla rabbia. I gazawi non possono fare quello che per tutti gli altri è normale. Non possono nemmeno sognare. Ora, non possono nemmeno più vivere”. O dormire: “Stiamo vivendo notti che non posso neanche descrivervi, non so come farlo - dice Ghadir -. Senti i colpi e non finiscono mai. Sono pesanti, sembrano sempre vicini e non sai se è arrivata la tua ora. Sapete cosa vuol dire provare a dormire pensando che non ti sveglierai mai più? Cosa vuol dire stendersi tra le bombe? Sognare di morire e capire che non è un sogno? Impastare gli incubi e il terrore? Abbandonarsi al sonno per spegnere il rumore delle esplosioni e della paura?”, continua. Provare a riposare, rigidi e nervosi, sapendo che il giorno dopo la tv e i social mostreranno morti. Foto e video con la precauzione: “Immagini sensibili”. Ipocrisia di questo tempo di guerra. “Se riesci a ignorare i droni di sorveglianza, che sono un rumore costante, ti risvegli poco dopo per le esplosioni”, spiega la giovane. Sua madre è talmente annichilita che non è neppure capace di realizzare fino in fondo che due cugini sono morti, uccisi nei raid israeliani. “Mamma a volte sorride, sembra stia bene. Altre volte ricorda e piange tutto il giorno”. Suo padre è un impiegato governativo dell’Anp, che da anni riceve solo il 50% dello stipendio. Ma l’impatto del conflitto che devasta le vite ha, se possibile, un carico maggiore per le donne della sua e delle altre famiglie. Ogni età ha il suo calvario: “La Gaza che conoscevamo, non c’è più - dice -. È un cumulo di macerie. La maggioranza di noi è musulmana, quindi le femmine portano il velo. Immaginate nelle scuole dove si sono rifugiate tra le 7 e le 10 famiglie per aula. Non c’è privacy, una donna non può mai togliersi l’hijab. Immaginate cosa vuol dire non avere acqua e non potersi lavare. Cosa vuol dire perdere la propria dignità”. Molte ragazze, spiega, “non hanno accesso agli assorbenti igienici. Prendono le pillole per ritardare le mestruazioni, solo perché non possono farsi la doccia”. Mentre gli uomini, durante il giorno, vanno a sedersi fuori, per lasciare mogli, sorelle e figlie degli altri libere di cambiarsi e stare in intimità. Ma alle donne tocca comunque prendersi cura dei bambini. “La gente è stanca, stremata. La comunità internazionale ci sta deludendo, i Paesi arabi ci stanno deludendo. Noi chiediamo solo uno Stato. Odiamo l’occupazione, non gli ebrei. Conosciamo la differenza tra essere ebrei ed essere sionisti”. Ghadir non sa dire se la forza delle donne unite, di qua e di là, israeliane e palestinesi insieme che piangono morti-nemici, potrebbe ottenere un cessate il fuoco. Julia Chaitin, fondatrice dell’Ong Other Voice, composta da cittadini che vivono a Sderot e nelle comunità israeliane vicino alla Striscia e tengono da anni i rapporti coi palestinesi al di là del filo spinato per provare a far vincere la non-violenza, si spinge oltre: “Ci troviamo incastrati in quest’orrenda situazione e non sappiamo quando finirà. Non abbiamo scelta se non vivere in pace”. Pensava che Hamas avrebbe potuto essere un partner negoziale, un giorno. “Dopo il 7 ottobre ho capito che mi sbagliavo - spiega -. Non ha mai avuto alcun interesse per una soluzione politica. Quindi, eliminare Hamas è una necessità. Mi chiedo se ci sia un modo per farlo, senza tutte queste morti innocenti”. Iran. I giuristi di tutto il mondo si mobilitano per Nasrin Sotoudeh: “Basta violazioni dei diritti” di Simona Musco Il Dubbio, 2 novembre 2023 Dal Cnf ai legali turchi, passando per New York, Canada e Sudafrica, ecco l’appello alle istituzioni per il rilascio dell’avvocata iraniana arrestata e picchiata. Dal Consiglio nazionale forense agli avvocati progressisti turchi, passando da New York, Sudafrica, Canada e mezza Europa. I giuristi di tutto il mondo - avvocati e magistrati - riuniti in oltre trenta organizzazioni internazionali si stringono attorno all’avvocata per i diritti umani Nasrin Sotoudeh, aderendo ad una call for action indirizzata alle Nazioni unite, al Consiglio d’Europa, alla Commissione e al Parlamento d’Europa chiedendo al Governo italiano e alle Istituzioni europee un intervento urgente per il rispetto dei diritti umani in Iran e per il rilascio immediato dell’attivista, arrestata arbitrariamente domenica scorsa al funerale di Armita Garavand, la 16enne finita in coma dopo le botte della polizia morale per non aver indossato l’hijab. “Le autorità iraniane devono liberare immediatamente e incondizionatamente Nasrin Sotoudeh, far cadere tutte le accuse contro di lei e smettere di perseguitarla per i suoi sforzi volti a proteggere, tra l’altro, le donne dalle discriminazioni e dalle umiliazioni a cui sono sottoposte - si legge nell’appello inviato alle istituzioni - in violazione del principio di civiltà sancito dall’articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ratificata dall’Iran nel 1948, secondo il quale “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”, dove la dignità viene ancora prima dei diritti”. Ma non solo. L’appello è anche affinché la comunità internazionale e le istituzioni europee, che intrattengono un dialogo con l’Iran, condannino “tutte le forme di violenza, comprese le esecuzioni, le discriminazioni e le persecuzioni, riconoscendo le libertà di pensiero, di coscienza, di religione, di espressione, di riunione e di associazione, nonché il diritto a un processo equo, come fondamenti del vivere civile”. Avvocati, magistrati, organizzazioni non governative e società civile alzano dunque la voce per denunciare “queste violazioni dei diritti e delle libertà fondamentali e nel sostenere i difensori dei diritti umani. Non vogliamo altri martiri da piangere, ma eroi il cui esempio possa essere seguito”. Ed è per questo che è necessario un impegno effettivo e pratico per porre fine alle “persecuzioni giudiziarie” nei confronti di Sotoudeh, già condannata nel 2018 in contumacia a 33 anni di carcere e 148 frustate per riunione e collusione contro la sicurezza nazionale, diffusione di propaganda contro il sistema, appartenenza effettiva ai gruppi scissionisti illegali e pericolosi per la sicurezza pubblica “Defenders of Human Rights Centre”, “Legam” e “National Council of Peace”, favoreggiamento della corruzione dei costumi e prostituzione, fornendo i mezzi per farlo, essersi presentata senza l’hijab, prescritto dalla Sharia, nei locali dell’ufficio del magistrato, aver turbato l’ordine pubblico e la sicurezza e diffondere falsità con l’intento di turbare l’opinione pubblica. Sentenza contro la quale Sotoudeh non ha presentato ricorso, in quanto per evitare che “la mia partecipazione in tribunale e le mie contestazioni legali alle sentenze emesse creassero la percezione che i giudici di questi tribunali potessero essere considerati legittimi - ha spiegato al Dubbio lo scorso anno -. Volevo urlare, il più forte possibile, affinché la mia voce fosse udita da tutti, e smascherare i tribunali rivoluzionari e i loro giudici giurati che farebbero qualsiasi cosa a qualsiasi costo per proteggere il sistema”. I firmatari hanno richiamato i principi della Dichiarazione delle Nazioni unite sui difensori dei diritti umani e i principi fondamentali delle Nazioni unite sul ruolo degli avvocati, che sanciscono la responsabilità degli Stati. “Se non difendiamo i difensori dei diritti umani, chi difenderà i diritti umani?”, si legge nell’appello. Subito dopo l’arresto era stato il Cnf ad esporsi pubblicamente, condannando con fermezza l’arresto di Soutodeh e chiedendo alle autorità iraniane “l’immediato rilascio e la garanzia che i diritti previsti dalle convenzioni internazionali e i principi del giusto processo le siano garantiti oltre a tutte le cure mediche necessarie”. A chiedere il rilascio della collega anche gli avvocati dell’Unione camere penali italiane, che hanno aderito alla Call for action. “La ferocia del regime iraniano, che uccide le donne che rivendicano i loro diritti o che semplicemente non indossano il velo, continua a colpire anche le avvocate impegnate nella difesa dei diritti umani - si legge in una nota -. Ci lega a Nasrin una solidarietà profonda e la vicinanza per il suo concreto impegno in difesa delle donne iraniane e dei diritti del suo popolo”.