Contro la pena dell’intimità negata, appello alla Consulta di Grazia Zuffa Il Manifesto, 29 novembre 2023 Il 5 dicembre la Corte Costituzionale discuterà del ricorso avanzato dal Tribunale di Sorveglianza di Spoleto in merito alla sessualità e all’affettività attualmente negate ai detenuti e alle detenute. La questione è di tale importanza da spingere alcune associazioni (la Società della ragione, il Centro Riforma dello Stato, l’Associazione Luca Coscioni) a promuovere un pubblico appello alla Corte dal titolo Il corpo recluso e il diritto all’intimità. L’appello, redatto dal costituzionalista Andrea Pugiotto, ha come primi firmatari un centinaio di giuristi e di altre personalità e sta raccogliendo altre adesioni sui siti delle associazioni. Si spera che la mobilitazione cresca in vista dell’udienza della Corte e che molte altre firme si aggiungano. La questione della “mutilazione” sessuale e affettiva del recluso/a è stata finora sottovalutata, nonostante colpisca l’individuo/a in una dimensione fondamentale della personalità adulta. La sessualità negata si trasforma così in sofferenza aggiuntiva rispetto a quanto costituzionalmente previsto nella pena: è una delle argomentazioni cardine del tribunale di sorveglianza di Spoleto nel ricorso alla Consulta, ma ce ne sono altre altrettanto persuasive citate nell’appello: il divieto di sessualità in carcere “logora i rapporti di coppia” e pregiudica “la possibilità di accedere alla genitorialità” ove desiderata. L’ansia e il timore per l’allentamento dei rapporti con la partner o col partner sono sentimenti comuni alle persone detenute, come è emerso da una interessante ricerca condotta negli istituti di Cassino e Frosinone che ha dato voce alle persone dietro le sbarre. “È una punizione che va contro la natura. Vorrei un altro figlio”, dice un detenuto. Un altro si esprime con un’immagine che parla da sé del sentimento di perdita: “Così siamo in una bolla”. C’è da ragionare su come si è venuto configurando il divieto. La proibizione della sessualità non è scritta come tale in una norma- tra l’altro contrasterebbe col mantenimento della relazione col partner, parte essenziale della finalità risocializzante della pena. Eppure, è un solido dispositivo operante. Ed è rimasto tale anche dopo il pronunciamento della Consulta (301/2012), che ha riconosciuto come “esigenza reale” quella di “permettere alle persone sottoposte a restrizioni della libertà personale di continuare ad avere relazioni affettive intime, anche a carattere sessuale”. Da qui l’invito della Consulta al legislatore a provvedere. Anche il Comitato Nazionale di Bioetica, nel 2013, in un parere dedicato alla “Salute dentro le mura”, raccomandava “la possibilità di godere di intimità negli incontri fra detenuti e coniugi/partner in modo da salvaguardare l’esercizio della affettività e della sessualità”, in nome del “principio etico della centralità della persona”. La sollecitazione della Consulta al legislatore è rimasta lettera morta per ben dieci anni, perfino di fronte alle sollecitazioni “dal basso” delle iniziative legislative presentate alle Camere dal Consiglio Regionale della Toscana e del Lazio. Dietro l’ostinata inerzia del legislatore si intravede un conflitto di fondo riguardo il carcere, fra il principio secondo cui la pena non deve privare la persona dei diritti altri dalla libertà di movimento, e la condizione di segregazione dei corpi “dentro le mura”. La segregazione ha in sé il germe della mortificazione dei corpi, dunque quest’ultima si presenta come una “naturale” conseguenza della detenzione. In questa luce, la battaglia contro l’intimità proibita in carcere acquista il valore emblematico di difesa di tutti di diritti delle persone private della libertà. Facciamo nostre le parole dell’appello: la privazione della sessualità è “una primitiva sanzione corporale, contraria al disegno costituzionale della pena”. Non più tollerabile in una società civile. “Attacco all’infanzia”, opposizioni contro i bambini in carcere di Valentina Stella Il Dubbio, 29 novembre 2023 Nell’ultimo pacchetto sicurezza, “il differimento dell’esecuzione della pena nei confronti delle donne incinte o con figli di meno di un anno passa da obbligatorio a facoltativo. È una riforma ideologica. Bisogna fare pressione affinché quella norma venga tolta, anche con un appello che chiedo venga firmato da chiunque pensi si tratti di una misura contro la Costituzione”: lo ha detto ieri il capogruppo di Avs nella commissione Giustizia della Camera Devis Dori, alla conferenza stampa “Donne oltre le sbarre”, da lui convocata insieme alla “Rivista Avvocati”. Hanno aderito all’iniziativa tutti i partiti di opposizione. Per il Pd è intervenuta Debora Serracchiani: “Siamo in presenza di un vero attacco all’infanzia. Basti guardare il decreto Caivano, quello sull’immigrazione e quello sulla sicurezza. Non si può dunque non aderire all’appello del collega Dori, per una sorta di missione collettiva che metta al centro l’interesse del bambino e della donna madre”. Per il M5S è intervenuta l’onorevole Valentina D’Orso: “Gli Icam sono solo 4 - Milano, Venezia, Lauro, Torino -. Si verrebbe a verificare un vero sradicamento delle madri dal loro ambiente familiare. Stiamo in pratica dicendo che nel primo anno di vita la madre e il bambino non avranno alcuna relazione con la famiglia. Si tratta di una violazione dei diritti della donna e dei bambini”. Intervenuto Roberto Giachetti per Italia viva: “Il tema di questa conferenza rappresenta il punto finale più crudele del nostro sistema penitenziario dove, non dimentichiamolo, un terzo dei detenuti è in custodia preventiva. I detenuti sono in aumento, i suicidi aumentano e in questa situazione sarebbe fondamentale avere un Garante dei detenuti all’altezza. Invece i membri della nuova terna non sono mai entrati in un carcere”. Hanno fatto sapere di aderire anche l’onorevole di +Europa Riccardo Magi e Enrico Costa di Azione. Durante la conferenza è intervenuta l’avvocato Giulia Boccassi, membro della Giunta dell’Unione Camere Penali: “La norma del pacchetto sicurezza è un pericolosissimo arretramento giuridico. Gli Icam sono inadeguati: dovrebbero essere istituti attenuati ma ci sono comunque le sbarre, le guardie, il rumore delle chiavi che i bambini sentiranno”. Su questo ultimo punto hanno parlato anche Laila Simoncelli e Giorgio Pieri, della Comunità Papa Giovanni XXIII: “Gli studi accademici ci dicono che i bambini dietro le sbarre svilupperanno malattie psichiatriche: si tratta in una vera e propria ingiustizia legalizzata. Nel 2021 grazie ad una proficua collaborazione con il ministero della Giustizia abbiamo accolto 3 mamme e 5 bambini che uscivano dal carcere per trovare una nuova famiglia nella nostra comunità. Nelle nostre case famiglia noi continuiamo ad accogliere per ricostruire nuove vite. Crediamo nella certezza della pena ma che sia rieducativa”. Per Roberta Giliberti, dell’Associazione italiana giovani avvocati, “il tema è molto caro all’Aiga. Abbiamo anche istituito un Osservatorio sulle carceri con 140 referenti locali. Il tutto è sfociato in un Libro Bianco a seguito della visita in oltre 100 istituti di pena. Rispetto agli Icam, dobbiamo, purtroppo, prendere atto che ad esempio in quello di Lauro non è garantita la presenza del medico h24. Cosa succede se una gravidanza è a rischio? Viene così leso il diritto alla maternità”. Per l’avvocato Simonetta Crisci, di Giuristi democratici, “la norma presenta profili di incostituzionalità se solo pensiamo all’articolo 27 della Costituzione ma anche una violazione delle normative internazionali, come l’articolo 24 della Carta dell’Unione europea”. Lanciato anche un video in cui è intervenuto Luigi Manconi, presidente di A buon diritto: “Quei bambini sono gli innocenti assoluti. Vivono però i primi giorni in cella, mortificati, senza il diritto ad essere liberi. Rappresentano il punto più infame di un sistema penitenziario infame”. “Cancellate quella norma che prevede i bambini-galeotti” di Angela Stella L’Unità, 29 novembre 2023 L’iniziativa del deputato di sinistra Devis Dori (AvS) ha avuto l’adesione di Pd, Italia Viva, Azione, 5 Stelle, Più Europa e di Luigi Manconi. Si è tenuta ieri alla Camera una conferenza stampa del capogruppo di AvS nella commissione Giustizia, Devis Dori, sulla misura contenuta nell’ultimo pacchetto Sicurezza del Governo che elimina l’obbligo di differimento dell’esecuzione carceraria per le donne incinte o con figli con meno di un anno d’età. Per Dori, “non c’è ancora la bollinatura del testo, non è stato ancora annunciato al Parlamento quindi c’è la possibilità di fare pressione sul Governo affinché espunga questa parte dal provvedimento. “A chi dice che stiamo ingigantendo la cosa, diciamo che anche se riguardasse una sola donna, le vanno garantiti i diritti soggettivi. Farò un appello ai colleghi, alle personalità della cultura, delle discipline sanitarie, a tutti quelli che ritengono incostituzionale la norma affinché si associno nella richiesta al Governo”. Hanno aderito all’iniziativa tutti i partiti di opposizione. Per il Pd è intervenuta la responsabile giustizia, Debora Serracchiani: “Siamo in presenza di un vero attacco all’infanzia. Basti guardare il decreto Caivano, quello sull’immigrazione e quello sulla sicurezza. Non si può dunque non aderire all’appello del collega Dori, per una sorta di missione collettiva che metta al centro l’interesse del bambino e della donna madre. Intanto sul carcere continuiamo a registrare l’assenza di investimenti e strategie”. Per il M5S è intervenuta l’onorevole Valentina D’Orso che ha criticato il sistema degli Icam, dove verrebbero collocate le detenute madri: “sono solo 4 - Milano, Venezia, Lauro, Torino. Si verrebbe a verificare un vero sradicamento delle madri dal loro ambiente familiare. Stiamo in pratica dicendo che nel primo anno di vita la madre e il bambino non avranno alcuna relazione con la famiglia. Si tratta di una violazione dei diritti della donna e dei bambini. Gli Icam non sono una soluzione adeguata e non ci si può lavare la coscienza dicendo che sono diversi dalle carceri. Per noi avere dei bambini in carcere non è degno di un Paese civile”. Intervenuto Roberto Giachetti per IV: “vengo dall’Aula dove si sta approvando il decreto sull’immigrazione che prevedrà che i minori non accompagnati potranno essere collocati negli stessi istituti dove sono gli adulti. Il tema di questa conferenza rappresenta poi il punto finale più crudele del nostro sistema penitenziario dove, non dimentichiamolo, un terzo dei detenuti è in custodia preventiva. I detenuti sono in aumento, i suicidi aumentano e in questa situazione sarebbe fondamentale avere un Garante dei detenuti all’altezza. Invece i membri della nuova terna non sono mai entrati in un carcere”. Ha aderito all’appello dell’onorevole Dori anche il deputato Riccardo Magi di +Europa: “Si tratta di una norma di stampo razzista e classista che si abbatte con crudeltà su bambine e bambini anche piccolissimi”. Ha fatto sapere di aderire altresì Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione. Durante la conferenza è intervenuta anche l’avvocato Giulia Boccassi, membro di Giunta dell’Unione Camere Penali: “l’Unione si è sempre impegnata per i ‘bambini galeotti’. La norma del pacchetto sicurezza è un pericolosissimo arretramento giuridico. L’abolizione del differimento obbligatorio non può essere una norma del nostro ordinamento. Far nascere bambini in carcere è critico anche sul piano sanitario. Non scordiamoci ad esempio che una detenuta ha partorito d’urgenza in carcere aiutata da un’altra detenuta incinta. Gli Icam sono inadeguati: dovrebbero essere istituti attenuati ma ci sono comunque le sbarre, le guardie, il rumore delle chiavi che i bambini sentiranno”. Su questo ultimo punto hanno parlato anche Laila Simoncelli e Giorgio Pieri, della Comunità Papa Giovanni XXIII: “gli studi accademici ci dicono che i bambini dietro le sbarre svilupperanno malattie psichiatriche: si tratta in una vera e propria ingiustizia legalizzata. Lanciato anche un video in cui è intervenuto Luigi Manconi, Presidente di A buon diritto: “quei bambini sono gli innocenti assoluti. Vivono però i primi giorni in cella, mortificati, senza il diritto ad essere liberi. Rappresentano il punto più infame di un sistema penitenziario infame”. I nostri 6 “no” al pacchetto sicurezza antigone.it, 29 novembre 2023 1. No al recente pacchetto sicurezza del Governo che semplifica tragicamente la nostra società attraverso un inutile e ingiusto inasprimento del modello di repressione penale e carceraria. La sicurezza è una cosa seria e non può essere declinata solo in termini di proibizioni e punizioni. La sicurezza si conquista con inclusione lavorativa e reddito, offerta generalizzata di salute fisica e psichica, città aperte e a disposizione anche nelle ore notturne di donne e uomini, solidarietà sociale verso le fasce più bisognose della popolazione. La sicurezza è prima di tutto sicurezza sociale, lavorativa, umana. Il pacchetto sicurezza del Governo, che fa seguito alle norme già approvate su rave parties, minori e migranti, è una forma di strumentalizzazione delle paure delle persone e di divisione manichea della società in buoni e cattivi. No al governo nel nome della paura e sì al governo nel nome della solidarietà di cui all’articolo 2 della Costituzione. 2. No alla criminalizzazione delle lotte sociali e alla trasformazione in reati di comportamenti che hanno a che fare con grandi questioni sociali (la casa e il diritto all’abitare) o stili di vita giovanili (i writers). Temi come quelli delle occupazioni delle case vanno affrontati con le tradizionali vie del welfare comunale, del dialogo, della composizione dei conflitti. 3. No all’aumento di pene ogniqualvolta il reato sia commesso nei confronti di un pubblico ufficiale. È questa una idea di diritto penale che risale a tradizioni giuridiche reazionarie. Non si vede perché un cittadino comune che non indossa la divisa valga di meno di uno che lavora in nome e per contro dello Stato. Nello stato liberale tutti valiamo uguali e non c’è gerarchia di valore tra le persone. 4. No alla cattiveria mascherata da certezza della pena. La norma che prevede il carcere per le donne in stato di gravidanza è una norma simbolo contro le donne rom. Rischia di assecondare le pulsioni razziste già presenti nella società. Parliamo di una decina di persone in tutta Italia. Non è questa sicurezza ma cattiveria, disumanità contro le donne e contro i bambini che nasceranno. 5. No al reato di rivolta carceraria. Con il nuovo delitto di rivolta nasce il reato di lesa maestà carceraria. Il governo ha deciso di stravolgere il modello penitenziario repubblicano e costituzionale, ricollegandosi al regolamento fascista del 1931. Il crimine di rivolta carceraria, così come delineato all’interno del pacchetto sicurezza, sarà un’arma sempre carica di minaccia contro tutta la popolazione detenuta. La violenza commessa da un detenuto verso un agente di Polizia penitenziaria, che già prima era ampiamente perseguibile, ora è parificata alla resistenza passiva e alla tentata evasione. In sintesi se tre persone detenute che condividono la stessa cella sovraffollata si rifiutano di obbedire all’ordine di un poliziotto, con modalità nonviolente, scatterà la denuncia per rivolta e una ipotetica condanna ad altri 8 anni di carcere senza potere avere accesso ai benefici penitenziari, in quanto la rivolta viene parificata ai delitti di mafia e terrorismo. È la trasformazione del detenuto in corpo docile che deve obbedire. Con il delitto di rivolta carceraria, che varrà anche per i migranti reclusi nei Cpr, è evidente il richiamo alle norme presenti nel regolamento carcerario fascista del 1931 quando si prevedeva che “i detenuti devono passeggiare in buon ordine e devono parlare a voce bassa” o che per “dare spiegazioni alle persone incaricate della sorveglianza i detenuti sono obbligati a parlare a bassa voce” o infine che “sono assolutamente proibiti i canti, le grida, le parole scorrette, le domande e i reclami collettivi”. 6. No alla proliferazione delle armi nelle nostre strade. Consentendo a circa 300 mila persone appartenenti alle forze dell’ordine di usare un’altra arma, diversa da quella di servizio, americanizziamo il modello di ordine pubblico mettendo a rischio la sicurezza delle persone. Più armi ci sono per le strade e nelle case, più morti ammazzati ci saranno. Mani in pasta: se il carcere apre finestre di speranza di Monica Zornetta Avvenire, 29 novembre 2023 La speranza ha tanti nomi, forme, sapori: può essere soffice o croccante; può avere le dimensioni di un chicco di caffè e l’aspetto di un tarallo o di un panettone artigianale. A dimostrarlo sono le numerose eccellenze alimentari prodotte ogni giorno all’interno di molte carceri italiane grazie a importanti progetti sociali. Gestiti da associazioni, cooperative e imprese del Terzo settore insieme con le amministrazioni penitenziarie, sono progetti che puntano a far acquisire alle persone recluse quelle competenze professionali utili al loro reinserimento sociale, civile e lavorativo una volta espiata la pena, come prevede l’articolo 27 della Costituzione. Inoltre, accolgono il monito lanciato lo scorso anno da Papa Francesco al mondo carcerario: “Non possono esserci condanne senza finestre di speranza”. Non sono poche - ma potrebbero essere di più - le esperienze che vedono detenuti e detenute mettere “le mani in pasta” per produrre cibi di qualità e dare a sé stessi una seconda occasione: noi ne abbiamo scelte quattro. La prima è la Pasticceria Giotto di Padova, realtà che unisce un laboratorio professionale di alta pasticceria e un progetto sociale. Nata nel 2005 all’interno della casa di reclusione Due Palazzi su iniziativa della coop sociale Work Crossing e la collaborazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, produce panettoni premiati dal Gambero Rosso, biscotti, colombe e altre delicatessen che si possono acquistare nei punti vendita monomarca (nella città del Santo sono due, inclusa una gelateria artigianale) e nello shop on line. “Dall’anno scorso, con l’ingresso nella squadra di un maestro pasticciere stellato, produciamo anche pasticceria fresca”, spiega Matteo Marchetto, il presidente della “Giotto”. Partito 17 anni fa con pochi reclusi aspiranti confiseurs e quattro formatori tra cuochi e pasticceri, il laboratorio conta oggi sul lavoro quotidiano di una cinquantina di detenuti coordinati da una dozzina di formatori. “Anche le persone che hanno fatto del male possono produrre cose straordinarie”, continua Marchetto, “perché il lavoro sa innescare cambiamenti positivi e potenti: ricordo la storia del giovane detenuto che ha lavorato da noi per più di dieci anni e che una volta libero ha aperto un proprio laboratorio. Il lavoro vero abbassa anche la percentuale di recidive: i dati ci parlano di un 2% da parte di chi ha potuto lavorare durante la reclusione contro una media del 70%. È un peccato che queste opportunità non vengano offerte in tutti gli istituti di pena italiani”. Sapori di Libertà è invece il nome dato al laboratorio di panificazione artigianale creato nella casa circondariale di Mantova dall’associazione Libra Onlus e gestito in forma di impresa sociale dalla Società cooperativa Sapori di Libertà. “Ogni giorno sforniamo due quintali circa di pane, un paio di bancali di dolci e tre di altri prodotti da forno con cui riforniamo ristoranti, alberghi, mense scolastiche”, racconta Angelo Puccia, presidente di Libra e di Sapori di Libertà. “Vendiamo nei supermercati, negli ipermercati e attraverso l’e-commerce; siamo all’interno dei circuiti di economia carceraria, di agricoltura sociale e dei Gas e incoraggiamo il consumo etico nella filiera della Grande Distribuzione e Ristorazione Organizzata”. Il laboratorio ha aperto i battenti nel 2016 con quattro detenuti formati dal mastro fornaio di Mantova Pane, l’associazione con cui Libra ha dato vita alla coop: oggi sono divenuti dodici, di cui sei con misure restrittive della libertà, che hanno la possibilità, quando avranno scontato parte della pena, di lavorare fuori di giorno e rientrare in carcere alla sera. “Abbiamo un lavoratore che ha acquisito una tale padronanza dell’arte della panificazione che presto verrà ammesso al lavoro nel secondo laboratorio. Vedremo come se la caverà”. All’interno del carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso è in attività da qualche anno Caffè Galeotto, una torrefazione allestita dalla coop sociale non profit Panta Coop. Il caffè che produce è una miscela di crudi provenienti da continenti lontani; è presente in tutte le linee e viene tostato e confezionato dai detenuti stessi. L’idea di concentrare il progetto sulla produzione della bevanda più consumata al mondo è venuta a Mauro Pellegrini, il presidente di Panta coop, dopo aver notato che “nelle carceri del Lazio non esisteva una torrefazione e che i torrefattori e i manutentori delle macchinette da caffè sono figure professionali ambite sul mercato del lavoro”. L’acquisto dei macchinari è stato il primo passo, la messa a norma dei locali, il successivo. “Abbiamo aperto un centro di riparazione delle macchinette, che diamo anche in comodato d’uso; abbiamo realizzato impianti ex novo e acquistato attrezzature via via più grandi ed efficienti con cui soddisfare commesse sempre più numerose. Sono dodici i detenuti che vi lavorano ma il turn over è continuo: quando uno di loro comincia il lavoro “extramurale”, lo sostituiamo con un altro già formato”, prosegue Pellegrini. “Anche per la vendita esterna abbiamo preparato delle figure ad hoc all’interno di Rebibbia. Siamo consapevoli che la strada è tutta in salita perché i pregiudizi sono tanti e i nostri competitors sono torrefattori in attività da un secolo”. Punta infine sui taralli, uno dei più antichi simboli della tradizione pugliese, il progetto Senza sbarre, nato nel 2018 da don Riccardo Agresti e dalla Diocesi di Andria per aiutare il reinserimento sociale dei detenuti ed ex detenuti del carcere di Trani e di altri penitenziari italiani. In una masseria della Diocesi di Andria è stato organizzato un laboratorio dove si producono i taralli con il marchio “A mano libera”, che è poi anche il nome della coop che gestisce il progetto. Don Riccardo la definisce una sorta di “comunità di restituzione”, poiché “nelle prigioni italiane i detenuti vengono puniti, non rieducati. Il modo in cui trattiamo i carcerati delinea il nostro essere civili”. “È stata la provvidenza a metterci accanto le persone giuste, che ci hanno insegnato a preparare i taralli”. Oggi i panificatori sono una decina e le prospettive appaiono rosee: “Siamo passati da dieci chili ogni due giorni a 500 chili al giorno, che vendiamo anche nei mercati meridionali. Abbiamo realizzato un secondo forno e contiamo di allargare il laboratorio”. Per le persone che vi lavorano, la terra promessa è avere uno stipendio e il riscatto è la possibilità di percepire un guadagno in maniera onesta, afferma il sacerdote: “La nostra è una storia di vite ricostruite, di speranza. Se in ogni parrocchia ci fosse l’accoglienza anche di un solo carcerato, daremmo davvero un importante insegnamento evangelico”. Zuncheddu e le altre storie di ordinaria ingiustizia di Valter Vecellio L’Opinione, 29 novembre 2023 Per raccontare il caso di Beniamino Zuncheddu, il Tg1 delle 20 ha dedicato un paio di minuti. Bisognava essere bravi nel raccontare questa storia senza citare neppure il Partito Radicale. Giacinto Pinto c’è riuscito. Complimenti. Integrazione che riguarda il Tg2 delle 20,30: non se ne occupa proprio: 32 anni di ingiusta carcerazione sono una storia di “ordinaria ingiustizia”. Talmente ordinaria che non merita di occuparsene. Doppi complimenti. Il caso di Beniamino Zuncheddu è quello di un inerme pastore sardo accusato di omicidio e condannato sulla base di prove più che evanescenti ma che non gli hanno comunque risparmiato oltre trent’anni di carcere. Che sia frettolosamente e pessimamente trattato dai mezzi di comunicazione piacerebbe si possa giustificare con una sorta di vergogna dei suddetti, per non essersi accorti (non essersi voluti accorgere), di questa vicenda. Probabilmente è invece “semplicemente” indifferenza, incapacità di comprendere. Letterale ignoranza dei fondamentali del giornalismo. Giornalismo e giornalisti non meno colpevoli e responsabili di chi ha creduto di dover amministrare la giustizia come ha amministrato. Si potrà obiettare che di casi di errori giudiziari in questo Paese ne accadono in quantità, dunque ci si fa il callo. Ma che siano tanti, innumerevoli, i casi Zuncheddu non è certo valida giustificazione. Ad ogni modo il callo solitamente duole. Qui l’unico dolore è quello delle vittime e dei congiunti e degli amici delle vittime. Neppure si giustifica l’espressione “errore giudiziario”. È piuttosto un ennesimo caso di ingiustizia. Quella ingiustizia che, riflette Alessandro Manzoni, “poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano, un trasgredir le regole ammesse anche da loro”. Cosicché dal “caso” umano si passa logicamente al dato politico, e che politicamente va risolto: risposte politiche esige, e rapide, urgenti. Nella prefazione a un libro (“Storie di ordinaria ingiustizia”), Leonardo Sciascia annota: “Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto...”. Una prefazione e un libro pubblicati nel 1987: quattro anni dopo iniziava il calvario di Zuncheddu. Potenti e tecnicamente irresponsabili entità da trenta e più anni fanno di tutto perché il dato politico che genera ogni anno centinaia di casi Zuncheddu non sia avviato a soluzione. Perché di quel potere di cui parla Sciascia si vuole continuare a godere, invece che soffrirne. Sempre nella citata prefazione Sciascia ricorda un caso che - iniziato negli anni Cinquanta del secolo scorso - appartiene ormai alla storia, sopravvive nei libri di dottrina giuridica: le arringhe degli avvocati, le motivazioni delle sentenze dei giudici sono uno dei rari ed eclatanti esempi di errore giudiziario. È il caso Gallo: la condanna per assassinio del fratello di un uomo che con il fratello aveva soltanto violentemente litigato. Da quel momento il fratello era scomparso, andandosene a rifarsi altrove una vita riuscendoci senza bisogno di una identità anagrafica. La morte presunta era, in quel caso, diventata certezza di morte per assassinio; senza peraltro che il cadavere fosse mai stato trovato per la semplice ragione che il morto godeva di ottima salute. Eppure, il processo per omicidio venne istruito, la sentenza emessa, la condanna eseguita… Che questo e altri casi abbiano colpito e segnato il giovane Sciascia aiuta a capire il perché di tanto impegno nell’età più matura, l’impegno in cause che tante polemiche gli hanno procurato: la giustizia vissuta come “ossessione”. Si può poi citare - a conferma che l’errore giudiziario e l’ingiustizia se ne impipa di confini e nazionalità - il caso di Francesco Arancio, un italo-franco-tunisino accusato lui pure di un delitto da magistrati francesi. A sollevare il caso un giornalista italiano corrispondente da Parigi de Il Giorno: Marco Pannella. Grazie a una serie di articoli pubblicati sul quotidiano milanese e all’intervento di un avvocato abruzzese da Pannella procurato (il senatore comunista Mario Palermo), il caso viene riaperto e riesaminato (chi è interessato trova l’intera vicenda raccontata nel libro “Pannella racconta, Pannella scrive”). Tre vicende di ordinaria ingiustizia, di clamorosi errori giudiziari. C’è un filo che lega queste tre storie (e altre se ne potrebbero citare); anzi, più d’uno. Chi legge questa nota certamente non faticherà a individuarli. Nordio: “Corretto valutare i pm. Il test psicoattitudinale? Non è uno scandalo, ma il tema è delicatissimo” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 29 novembre 2023 Intervista al ministro della Giustizia Carlo Nordio: “Io e Guido Crosetto in consonanza, condivido la sua preoccupazione”. I retroscena parlano di un Consiglio dei ministri burrascoso che lunedì ha approvato il decreto legislativo della legge Cartabia. Ministro Carlo Nordio, come è andata? “Con tutto il rispetto per la libertà di stampa, non c’è limite alle fake news”. Cioè? Non vi siete divisi? “Al Cdm il provvedimento sull’ordinamento giudiziario è stato da me illustrato compiutamente e approvato all’unanimità senza interventi di nessuno. Sottolineo nessuno”. E nel pre Consiglio? “Non c’ero, i ministri non partecipano”. Ma non è vero che ha bloccato lei i test psicoattitudinali per i magistrati? “No, per il semplice fatto che non era inserito nel testo del provvedimento, che era stato oggetto di una lunga elaborazione del nostro ufficio legislativo e mia personale, trattandosi di materia tecnica che credo di conoscere. Il tema dell’esame psicoattitudinale è tutt’altra cosa”. Ma è contrario a introdurli e saranno archiviati per sempre o ha preferito evitare lo scontro frontale con l’Anm? “Nelle mie pubblicazioni degli ultimi venti anni ho scritto che questo esame è previsto per la polizia giudiziaria, e quindi non sarebbe uno scandalo se fosse esteso ai pm che ne sono i capi. Anzi a dire il vero io parlavo di esame psichiatrico”. E allora? “Ma da lì a dire che mi sono scontrato con il sottosegretario Mantovano ce ne corre. Si tratta di argomento delicatissimo, che va discusso con grande pacatezza e con le interlocuzioni del Csm e degli ordini forensi”. Condivide la preoccupazione del ministro Crosetto o erano solo “complotti immaginari”? “Il ministro Crosetto non è solo un amico, ma è un politico con cui siamo in consonanza praticamente su tutto”. Anche sui complotti? “Non ha mai parlato di complotti, ma ha interpretato la preoccupazione della politica per gli atteggiamenti di alcuni magistrati. Il fatto è che non si sono mai rimarginate le ferite aperte dopo l’emersione dello scandalo Palamara”. A quali allude? “Dalle chat si è scoperto che addirittura un magistrato diceva all’altro che Salvini era innocente ma bisognava attaccarlo. Un’affermazione sacrilega, che in un Paese normale avrebbe dovuto suscitare una indignazione generale. Per di più Palamara ha aggiunto che non era un caso isolato. Eppure su queste attitudini aggressive e indegne di chi indossa la toga non è mai stata fatta chiarezza. Al contrario”. Le conseguenze sui magistrati coinvolti, incluso Palamara, ci sono state. Non era abbastanza? “Il Csm è stato decapitato in alcuni suoi componenti, tutti dell’area cosiddetta moderata, perché erano state pubblicate le loro intercettazioni. Ma Palamara ha ribadito che ce n’erano centinaia di altre, di cui nessuno sa nulla. La vicenda è stata chiusa con la radiazione di Palamara, ma i sospetti sono rimasti. Io stesso ne ho scritto a lungo, ben prima di diventare ministro. Crosetto se ne è solo fatto interprete”. Le “pagelle” non spingeranno i magistrati a puntare al risultato facilmente raggiungibile senza osare di più nella difficile ricerca della verità? “No. Le cosiddette pagelle sono valutazioni fatte dal Csm, in piena e assoluta indipendenza, e quindi sono una dimostrazione della nostra sensibilità sull’autonomia della magistratura. Ma poiché i pm hanno il potere di imbastire indagini talvolta lunghe e costose, che distruggono la vita e le finanze delle persone, e poi si concludono nel nulla, è ragionevole che si valutino anche i risultati delle loro inchieste. Guardiamo agli Stati Uniti, dai quali il codice attuale, firmato da Giuliano Vassalli, eroe delle Resistenza, ha preso esempio. Se il procuratore distrettuale perde una serie di processi, viene spedito a casa dagli elettori”. Un obiettivo per il futuro? “No, io non dico che si debba arrivare a questo, ma nemmeno che alcuni errori imperdonabili debbano restare senza conseguenze”. La sua riforma è davvero bloccata da Meloni o no? “Altra grossolana fake news. Non so più come dirlo. Il primo pacchetto della riforma Nordio è all’esame del Senato, e quindi non dipende più da me”. L’altra? “Quella prossima, che inciderà radicalmente sulle intercettazioni, sarà proposta tra poco, di concerto con il grande lavoro fatto dalla Commissione presieduta da Giulia Bongiorno. Altre sono in cantiere, secondo un cronoprogramma inviato a suo tempo alla presidenza del Consiglio, che stiamo rispettando”. Forza Italia rilancia sulla separazione delle carriere. E chiede di approvarla in parallelo a premierato e autonomia differenziata. Deve attendere? “La separazione delle carriere è consustanziale al processo penale accusatorio, ed è nel nostro programma. Non è affatto bloccata: semplicemente deve seguire quella, politicamente più importante, del premierato. E poiché un eventuale referendum che le contemplasse entrambe creerebbe confusione nelle urne, si procede separatamente. In primavera comunque la porteremo in Cdm. Faccio in ogni caso notare che simili riforme radicali non si possono fare in pochi mesi: devono essere omogenee e sistematiche. Capisco l’effervescenza di chi vorrebbe tutto e subito, ma posso assicurare che, almeno finché guiderò questo ministero, queste riforme andranno avanti”. Perché, potrebbe lasciare? “Non ho nessuna intenzione di lasciare perché il mio compito è portare a termine le riforme. Anche se mi hanno attribuito cariche che vanno dalla Corte costituzionale alla presidenza della Repubblica. Manca solo quella del Papa...”. “Le pagelle? Il frutto avvelenato della riforma Cartabia” di Simona Musco Il Dubbio, 29 novembre 2023 Le correnti dei magistrati smorzano la polemica con il ministro Crosetto, Antimafia e Copasir si sfilano. Il ministro della Difesa Guido Crosetto si dice pronto a chiarire con tutti. In Parlamento, in Antimafia, davanti al Copasir e anche con l’Anm. Consapevole, forse, che è meglio fare un passo indietro, per evitare una nuova guerra contro la magistratura, che ha già parecchio materiale in mano per avercela con l’esecutivo. Il fuoco è sotto la cenere ormai da tempo e dopo il caso Delmastro - con l’attacco frontale alla gip che ha disposto l’imputazione coatta del sottosegretario - e quello Apostolico - che ha scatenato una campagna d’odio contro la magistrata “pro-migranti” - sono stati i provvedimenti del governo a rianimare lo scontro. Primi fra tutti i decreti attuativi della riforma del Csm, che impongono un’ulteriore stretta alle possibilità di errore delle toghe. Crosetto, lunedì, ha teso una mano a Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, dichiarandosi disponibile ad incontrare i vertici del sindacato delle toghe, “per chiarire loro le mie parole e le motivazioni. Così capiranno che alla base c’è solo un enorme rispetto per le istituzioni. Tutte. Magistratura in primis”. Il sospetto di Crosetto, stando a quanto dichiarato nell’intervista incriminata al Corriere della Sera, è che si organizzino “riunioni di una corrente della magistratura in cui si parla di come fare a “fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni”“. Parole che hanno fatto sobbalzare le toghe: “Il sospetto di golpe giudiziario è assolutamente infondato, la magistratura ogni giorno onora il giuramento alla Costituzione. Tutto il resto sono notizie false e infondate”, ha dichiarato Santalucia a Sky Tg24. La telefonata tra i due, mentre scriviamo, non c’è ancora stata. Ma intanto le correnti provano a smorzare la polemica. “Crosetto nelle ultime ora sta ridimensionando le sue parole - spiega al Dubbio Giovanni Zaccaro, neo segretario di AreaDg -. Si sarà reso conto di avere fatto una battuta mal riuscita”. Più netto Angelo Piraino, segretario generale di Magistratura Indipendente, secondo cui la colpa sarebbe, in parte, della magistratura. “Credo che l’onorevole Crosetto, del tutto involontariamente, sia caduto nella provocazione di una frangia estrema dell’Anm - dice al Dubbio - che, in modo simmetrico rispetto all’opposizione, paventa rischi di derive antidemocratiche. Gli ha fatto un grande favore: il loro interesse è tenere alto il livello dello scontro con la politica. Ma la politica deve ricordare che non parlano a nome di tutti i magistrati, e che la stragrande maggioranza di noi è rispettosa del principio di separazione dei poteri ed è disponibile a dialogare senza preconcetti, purché vi sia un rispetto reciproco”. Nel frattempo Antimafia e Copasir si sfilano. Per la Commissione presieduta da Chiara Colosimo la questione non rientra nelle competenze dell’Antimafia, ritenendo più utile che il ministro riferisca in Parlamento. E al Comitato per la sicurezza della Repubblica, il senatore e capogruppo Iv Enrico Borghi le fa eco: “O il ministro ci scrive e circostanzia le ragioni legate alla sicurezza nazionale - dice - o si tratta di una dialettica di carattere politico che, come tale, va esercitata in altri luoghi. Il ministro Crosetto, anziché rilasciare interviste, chiami Nordio e gli dica di calendarizzare in Cdm la riforma che è finita nel cassetto. Altrimenti si continua a rimanere dentro il gioco delle parti in cui alcuna magistratura svolge una funzione di tipo politico e i politici, anziché ripristinare l’equilibrio istituzionale, giocano agli attacchi preventivi”. Ma se non bastasse Crosetto, ci sono le pagelle dei magistrati a ridare vigore al dibattito. Lo scorso anno l’idea aveva spinto l’Anm a proclamare uno sciopero che ha però coinvolto solo la metà delle toghe. E oggi sulla scrivania c’è lo schema di decreto, che attribuisce un maggiore rilievo, nelle valutazioni di professionalità, al “rigetto delle richieste formulate dal magistrato requirente o alla riforma dei provvedimenti del magistrato giudicante che siano dovuti a motivi particolarmente gravi o che siano particolarmente numerosi”. Dopo due bocciature, si è fuori dalla magistratura e per tali valutazioni il Csm acquisirà anche il parere del consiglio dell’ordine degli avvocati. “Non chiamiamole pagelle - continua Zaccaro -. Le pagelle richiamano l’idea dei promossi e dei bocciati. Qual è l’idea? Se in primo grado c’è una condanna, in secondo una assoluzione, poi annullata dalla Cassazione, che succede? Chi bocciamo? Non vorrei che, alla fine, le pagelle servano a promuovere i giudici che condannano i delinquenti di strada ed a bocciare i giudici che fanno indagini nei confronti del potente di turno”. Per il segretario di Area, è necessario evitare “che il lavoro del magistrato venga valutato solo sulla base degli esiti dei processi. Così avremmo giudici più conformisti, meno coraggiosi, più attenti a non scontentare i potenti ed a pagare saranno i cittadini più deboli. Avremmo pm che cercano una condanna ad ogni costo”. La colpa, secondo Piraino, è tutta della passata legislatura. “È il frutto avvelenato della riforma Cartabia - sottolinea -, che riflette una concezione “aziendalistica” della giustizia. Il ministro Nordio ha attuato una delega voluta dal precedente governo, collegata artificiosamente agli obiettivi del Pnrr. Forse ha addirittura evitato di peggiorare una riforma che già nasceva pessima. Le novità introdotte non miglioreranno l’efficienza della giustizia, ma indurranno i magistrati a ragionare sempre più come burocrati, l’input è quello di “tenere le carte a posto” e “fare i compiti per casa”. L’altra “bomba” è la proposta - subito bocciata da via Arenula - del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, di sottoporre ai magistrati in ingresso test psico-attitudinali. “Ricordo che il primo a volere i test psicologici per i magistrati era stato Licio Gelli il che dovrebbe far riflettere”, ha commentato lunedì sera il segretario generale dell’Anm, Salvatore Casciaro. Un’idea che torna ciclicamente e che “sembra quasi un monito - aggiunge Zaccaro -: se non fate i bravi facciamo i test”. Ma non si tratta di una guerra, assicura Piraino, sono “solo grida contrapposte. Da quel che so il testo approvato non prevede test psicoattitudinali. Mi chiedo a cosa servirebbero: siamo già la categoria di dipendenti pubblici più controllata durante la carriera. I media mandano spesso un messaggio distorto, non è vero che veniamo tutti “promossi” - aggiunge -. Ogni quattro anni verificano il lavoro che abbiamo fatto, se va bene possiamo continuare a farlo, se va male siamo sorvegliati speciali per due anni e se il successivo giudizio è nuovamente negativo ci licenziano. Non si tratta di essere promossi, si tratta di continuare a fare il proprio lavoro”. Bruti Liberati: “Ma quale complotto, quello del governo è populismo penale” di Giulia Merlo Il Domani, 29 novembre 2023 Per l’ex procuratore capo di Milano le parole di Corsetto sono gravi: “Questo esecutivo è insofferente all’indipendenza dei magistrati”. “La separazione delle carriere torna sempre, nelle occasioni più disparate, come rimedio per tutto”, è il parere di Edmondo Bruti Liberati, ex procuratore capo di Milano e già presidente dell’Associazione nazionale magistrati, che considera il caso Crosetto un episodio molto grave, spia di una diffusa insofferenza del governo nei confronti delle toghe. Il ministro Crosetto ha espresso la sua “preoccupazione” nei confronti della “opposizione giudiziaria”. Sembra quasi un’evocazione da 1994 con i processi di Silvio Berlusconi. Siamo davvero in un contesto simile? Le espressioni del ministro che evocano un complotto ordito in segreto da magistrati per far cadere il governo sono molto gravi e c’è da augurarsi che gli siano solo sfuggite. Lo stesso ministro il giorno dopo è sembrato voler ridimensionare, ma le sue parole sono espressione dell’insofferenza di chi esercita il potere rispetto all’indipendenza della magistratura. Al contrario, il rischio di una “deriva antidemocratica” nell’uso dello strumento penale da parte del governo è da mesi denunciato, e a ragione, da illustri professori e avvocati, di fronte alla continua introduzione di nuovi reati e all’aumento spropositato delle pene. L’originario decreto anti rave era talmente forzato che lo stesso governo, in sede di conversione, ha dovuto spuntarne almeno in parte le “derive antidemocratiche”. Il populismo penale non è di oggi, ma con questo governo c’è stata una accelerazione che sembra inarrestabile. La paura del ministro sembra quello che le posizioni che lui considera politiche dei magistrati si traducano poi in inchieste a orologeria... Ci sono poche indagini che coinvolgono esponenti politici che non suscitano come reazione la ormai stucchevole denuncia della “orologeria giudiziaria”. Nel luglio scorso la premier Giorgia Meloni ha dichiarato, nel caso del sottosegretario Andrea Delmastro, che “è lecito domandarsi se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione. E abbia così deciso di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee”. Per polemizzare contro un’indagine della magistratura abbiamo visto di tutto: indagini avviate nell’imminenza di una delle tante scadenze elettorali sono accusate di voler influire sulle urne, mentre indagini post elezioni sono accusate di non voler rispettare il risultato delle urne. Forse, come sentivamo nelle cronache di Ruggero Orlando da Cape Canaveral, bisognerebbe stabilire una “finestra” per il “lancio” di indagini in un tempo ben distante sia dalla precedente sia dalla successiva scadenza elettorale, peraltro con un necessario computo calibrato che assegni punteggi di valore diversi a seconda del tipo di elezioni e del bacino elettorale. La nuova polemica politica rischia di delegittimare ex ante l’attività della magistratura, o comunque di metterla in difficoltà? La magistratura esercita un potere che deve essere sempre soggetto ad attenzione critica da parte dell’opinione pubblica. Se la politica e il governo delegittimano la magistratura è un problema per le istituzioni democratiche, non per la magistratura che è oggetto di queste campagne. È emersa l’ipotesi di introdurre test psico-attitudinali per le toghe. Da ex magistrato cosa ne pensa? Non sarò certo io a evocare una “uscita a orologeria” dopo le reazioni alle parole del ministro Crosetto. È un tema evocato in Italia diversi decenni addietro, poi abbandonato e ripreso da Licio Gelli nel piano della P2. In quel piano vi erano proposte eversive, questa è semplicemente una sciocchezza. I test psicoattitudinali devono essere calibrati su una specifica attività professionale, quelli dei piloti di aereo sono diversi da quelli delle forze di polizia che maneggiano armi. Tutti gli psicologi che hanno studiato la questione concordano nel ritenere che test di questo tipo sono impossibili da costruire con basi scientifiche serie per una attività, come anche quella della magistratura. In Francia l’esperimento di introdurre questi test è stato fatto ma ben presto abbandonato. Sono stati introdotti i nuovi parametri per la valutazione dei magistrati e l’accento è sulla produttività. È ragionevole in tempo di Pnrr? I magistrati non hanno nessun timore delle “pagelle”. Deve esserci una valutazione di professionalità, che però tenga conto della specificità del lavoro del magistrato. Quel che conta è un continuo aggiornamento che garantisca una buona qualità professionale media, non una gradazione di voti. Mi spiego: al cittadino interessa che il magistrato che si occupa del suo caso sia possibilmente sempre un “buon” magistrato; poco gli importa che siano stati selezionati alcuni “ottimi”, magari per le grandi sedi. Il controllo della produttività è doveroso, vanno sanzionati ove esistano difetti di laboriosità, ma ancora una volta ciò che conta è la resa complessiva. Crosetto ha anche dato indirettamente spinta alla riforma costituzionale della separazione delle carriere... La separazione definitiva viene proposta nelle occasioni più disparate come rimedio per tutto. Le faccio notare che già con le ultime modifiche dovute alla riforma Cartabia i passaggi tra giudici e pm sono stati, purtroppo, ridotti al minimo. Sono tra coloro che credono che è bene, come garanzia per i diritti degli indagati, che il pm sia vicino alla cultura della giurisdizione piuttosto che alla cultura di polizia. Né si può ignorare che un pm separato, ovunque nel mondo e anche in Europa, con la sola eccezione del Portogallo, è soggetto in misura maggiore o minore all’esecutivo. Che non sia fuor d’opera evocare questo rischio di volontà di una sudditanza lo ha dimostrato il ministro Salvini. Nel polemizzare contro la decisione di una giudice di Catania, ha dichiarato che bisogna riformare la giustizia “con separazione delle carriere di giudici e pm”. Ma quella a cui si riferiva era una procedura in cui non partecipava il pm e nella quale per di più il giudice aveva accolto le tesi della difesa. Forse non è la separazione che il governo vuole, ma solo decisioni che considera favorevoli. L’irresistibile tentazione della politica: la sottomissione dei magistrati di Armando Spataro La Stampa, 29 novembre 2023 Da Berlusconi a Meloni, spesso i premier hanno cercato di conformare i giudici alla linea del governo. Ma solo attraverso una corretta dialettica tra istituzioni indipendenti ci sarà equilibrio tra i due poteri. La linea d’ombra, nello splendido romanzo di Joseph Conrad, divide la giovinezza dalla maturità dell’età adulta del protagonista che alla fine, con l’aiuto del cuoco della nave che comanda, riesce a superarla. Di fronte a certe prese di posizione di buona parte della politica italiana nei confronti della magistratura mi ritorna in mente quella linea che in questo caso, però, diventa un muro che separa in modo insuperabile disconoscimento e rispetto dei principi costituzionali. E sembra che ogni aiuto sia inutile perché rimane ferma la convinzione che la magistratura sia un “ordine” sottoposto alla politica e non uno dei tre poteri indipendenti su cui si fonda ogni democrazia: lo dissero in tv anche due ex ministri della Giustizia (Alfano e Castelli) nel 2011, mentre Silvio Berlusconi contestò la possibilità di un magistrato, semplice funzionario dello Stato e vincitore di un pubblico concorso, di incriminare ed eventualmente condannare chi, eletto dal popolo, è legittimato a governare il Paese. Le citazioni potrebbero continuare saltando dal 1940, allorché Mussolini, nel corso della inaugurazione dell’anno giudiziario a Palazzo Venezia (e non in Cassazione), dinanzi a duecentocinquanta alti magistrati schierati in uniforme del Partito nazional fascista, affermò che nella sua concezione non esisteva una divisione di poteri nell’ambito dello Stato poiché “il potere è unitario.”. Insomma i magistrati si conformino alla linea politica di chi governa ed evitino di criticarne i contenuti, pur se riguardanti la giustizia: persino Matteo Salvini, quando era ministro dell’Interno, a proposito dei rilievi della magistratura in ordine alle pessime leggi in materia di immigrazione, lesive dei diritti fondamentali delle persone e generatrici di xenofobia, invitò i giudici ad applicarle evitando interpretazioni sgradite alla maggioranza salvo “scendere in politica” se avessero avuto rilievi da formulare. Insomma, solo in politica si può discutere delle leggi in fase di elaborazione o dopo la loro approvazione. Fortunatamente, però, la storia della giustizia nel nostro Paese, pur costellata di numerose “deleghe” conferite nel tempo alla Magistratura (e ieri ben ricordate da Gian Carlo Caselli su questo quotidiano), ha conosciuto anche momenti di felice ed utile interlocuzione tra politica e giustizia, come quella con il grande Ministro dell’Interno Virginio Rognoni ai tempi degli anni di piombo e, anche in tempi più recenti, con diverse maggioranze di governo in occasione di molte riforme approvate. Ma tornando all’attualità, si può affermare che le parole del Ministro Crosetto, nonostante irrilevanti tentativi di aggiustamento, abbiano a che fare con una corretta dialettica tra istituzioni? Che senso ha affermare di avere saputo - senza citare da chi (quasi fosse una notizia di fonte confidenziale tutelabile da un ufficiale di polizia giudiziaria) - che una fazione antagonista della magistratura, che ha sempre affossato i governi di centrodestra, starebbe discutendo su come fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni, temendo che quell’opposizione giudiziaria possa mettere a rischio il governo alla vigilia delle elezioni europee ? Una parte della magistratura, cioè, viene attinta dal sospetto di stare elaborando una sorta di golpe attraverso inchieste giudiziarie. Sembra di tornare ai tempi andati e ad autorevoli precedenti di fake news, quali, ad es., le polemiche verso i “pretori d’assalto” attivi nella tutela dell’ambiente, contro i magistrati che si occupavano di corruzione (in Parlamento è stata chiesta anche recentemente la istituzione di una commissione d’inchiesta su “Mani Pulite”) e di antimafia, solo - però - quando si iniziò ad indagare sulla cd. “zona grigia”. Per non parlare delle accuse al Csm di essere “un’istituzione bolscevica”, ed alla Corte Costituzionale di essere “composta in maggioranza da giudici di sinistra.” La Associazione Magistrati - che fu capace di autosciogliersi durante il fascismo - ha risposto sobriamente alle parole del Ministro Crosetto chiedendo alle altre istituzioni serietà, equilibrio e continenza al fine di garantire la indipendenza della funzione giurisdizionale. È proprio questo il punto cui prestare attenzione, mentre è del tutto fuor di luogo citare criticate sentenze emesse in anni lontani o vicini, così come i vizi di taluni magistrati, che certamente esistono, quali eccesso di moralismo, aspirazione ad enfatizzare il proprio ruolo o ad attribuirsi anche quello di storico che non compete loro. Ma queste ed altre criticità connesse alle c.d. deviazioni correntizie riguardano un’esigua minoranza, sicché non possono essere generalizzate né utilizzate per adombrare l’esistenza di complotti della magistratura contro le maggioranze di Governo. O preferiamo un ritorno al futuro come quando il 5 dicembre del 2001, il Senato approvò, a maggioranza, una mozione in cui si denunciavano riunioni clandestine tra giudici e pm per trovare il modo di violare la legge sulle rogatorie? E così nacque l’epoca delle leggi ad personam. Allo stesso modo, però, non è possibile partire da accertate condotte criminose di alcuni parlamentari e uomini di governo in passato condannati per generare sfiducia nei confronti dell’alta funzione di guida politica del Paese. Tornano ancora una volta d’attualità, piuttosto, le recenti parole del Capo dello Stato che chiuse il proprio intervento di celebrazione dei 75 anni dalla entrata in vigore della Costituzione ricordando che essa “è la guida del nostro agire, fissando principi, valori irrinunziabili, diritti inviolabili… è un patrimonio comune che si è arricchito nel tempo grazie a una larga condivisione. È l’architrave dell’ordinamento giuridico che sostiene il nostro modello sociale”. Le sentenze e le iniziative dell’Autorità Giudiziaria, dunque, possono essere civilmente criticate, al pari di iniziative legislative in discussione o di leggi approvate. Ma nulla - assolutamente nulla - può intaccare i principi costituzionali della soggezione soltanto alla legge dei giudici, che sono e devono essere indifferenti a logiche e programmi di governo, e quello della obbligatorietà dell’azione penale che non può essere condizionata da scadenze elettorali o equilibri politici. Sono principi che rafforzano l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, sottraggono il pm all’esecutivo e realizzano una netta caratterizzazione positiva del sistema italiano rispetto ad altri sistemi esistenti in ambito europeo. Né - sia consentita la battuta - può ipotizzarsi una loro “sospensione” in prossimità di scadenze elettorali, così da evitare pregiudizi a partiti e candidati. Sono stati molti i commentatori che, con riferimento alle dichiarazioni del ministro Crosetto, di cui si sono chiesti la ragione, hanno parlato di un ritorno alle “guerra dei trent’anni” tra politica e magistratura. Quello di una guerra o di uno scontro tra poteri dello Stato, anzi, è diventato lo spot da trasmettere alla pubblica opinione per rappresentare la magistratura come un’istituzione orientata non da obblighi costituzionali, ma da finalità politiche. Cosa ci si può augurare allora, al di là dell’impegno della società civile per sapere, conoscere e tenersi lontana dal diffuso populismo che ormai ben conosciamo? È difficile essere ottimisti se solo si guarda alla deriva verso il sovranismo che affligge gran parte del mondo, ma personalmente - e forse con ingenuità - intendo fare mie le parole del defunto giurista inglese Lord Bingham of Cornhill KG, che nel 2006 affermò: “Alcuni rappresentanti della stampa, dotati del dono della sobrietà, hanno parlato di guerra aperta tra governo e potere giudiziario. Questa, secondo me, non è un’analisi precisa. Ma è vero che esiste un’inevitabile e, a mio parere, assolutamente giusta tensione tra i due. Esistono al mondo paesi in cui tutte le decisioni dei tribunali incontrano il favore del governo, ma non sono posti dove si desidererebbe vivere”. Perché nessuno vorrebbe vivere in questi paesi? Perché sono paesi che vedono il potere giudiziario obbediente e prostrato sotto il trono ove siede il potere politico imperante. Insomma, meglio invocare una “giusta tensione” tra i due poteri piuttosto che, attraverso auspici ormai surreali, un clima definitivamente e totalmente pacificato. Infine, perché accade quel che vediamo in questi giorni? Ignoro se ciò dipenda da fatti ancora sconosciuti come qualcuno sostiene. A me sembra che sia più che sufficiente la comodità di un trono per l’occupante inamovibile. Matteo Renzi: “Meloni sconfessa Nordio e si inchina a correnti e pm” di Federico Capurso La Stampa, 29 novembre 2023 Il leader di Iv evoca i timori di Palazzo Chigi: “La riforma è al palo. Noi pronti a collaborare, ma l’impressione è che la premier abbia paura”. Il leader di Italia viva Matteo Renzi sta andando a Miami, dove il figlio studia all’università. Prima di partire, però, vuole lanciare un invito a Giorgia Meloni a riprendere in mano la riforma della Giustizia: “Noi siamo disponibili a collaborare”, assicura, ma tutto è fermo e adesso l’impressione dell’ex premier è che “Meloni ha paura”. Di cosa avrebbe paura? “Questo dovrebbe chiederlo alla presidente del Consiglio”. Lei che idea si è fatto? “Mi chiedo che senso abbia una premier che prima annuncia la riforma della giustizia e poi sconfessa il suo ministro inchinandosi alle correnti e ai pm. Ora, all’improvviso, il ministro della Difesa evoca strani movimenti nella magistratura. Mi ero accorto di un certo nervosismo di Meloni, giovedì in Senato, ma adesso è evidente che a Palazzo Chigi serpeggia qualcosa che non va. Il tempo è galantuomo, capiremo meglio nei prossimi mesi”. Ha ragione Crosetto quando dice che il pericolo maggiore per il governo arriva dalla magistratura? “Crosetto è una persona che stimo. Se ha parlato, avrà avuto le sue ragioni, ragioni che io posso immaginare ma non conosco. Certo che anche la tenuta della maggioranza non mi sembra granché”. Schlein sostiene che il governo vede nemici e complotti ovunque, mentre l’Anm lancia un allarme democratico, dopo la dichiarazione di Crosetto... “Difficile dare torto a Elly su questo. E mi colpisce perché, negli ultimi mesi, penso che sia la prima volta in cui la penso come lei. Meno male che c’è l’Anm che invece sull’allarme democratico ripete il solito noioso, insopportabile, insignificante ritornello. Ma quale allarme democratico? La Meloni ha vinto le elezioni e ha il diritto di governare. Se non le riesce - come io credo non le stia riuscendo - tocca agli elettori stabilirlo. Non alle correnti dei magistrati”. Che segnale dovrebbe dare Meloni sulla riforma della giustizia? “Decidersi. Lei continua a fare la vittima su tutto, gioca a fare la Cenerentola che lavora mentre tutti intorno le danno contro. Le serve questa narrazione e dobbiamo essere onesti: per un anno ha funzionato alla grande. Ma ora i nodi vengono al pettine. Giorgia sa scrivere post e tweet fantastici, ma non riesce a scrivere i decreti, le leggi, le riforme. Per essere una statista devi fare le riforme, altrimenti sei solo una influencer. Vediamo come deciderà di ripartire dopo Natale”. Sarebbe pronto a collaborare e a votare a favore della riforma Nordio? “La nostra volontà c’è dal primo giorno. Quello che manca non è la nostra disponibilità: manca la riforma. Tutte le cose che Nordio diceva prima di essere ministro erano ampiamente condivisibili, ma nessuna di queste sta diventando realtà. Lui è un galantuomo ed è una persona straordinaria. La squadra di governo, invece, è una zavorra per tutti”. Si aspettava di più dal ministro della Giustizia? “Chi ha fatto studi giuridici conosce la massima: “Ad impossibilia Nemo tenetur”. Nessuno può realizzare cose impossibili. E per Nordio fare le riforme con questa maggioranza che sta insieme più sul potere che sulle idee sta diventando oggettivamente impossibile”. È d’accordo sulle pagelle per i magistrati e sulla stretta per i giudici fuori ruolo, previsti negli ultimi due decreti attuativi della riforma Cartabia? “Non mi convince la riforma Cartabia tanto che ci siamo astenuti. Tuttavia sono contento della proposta del mio amico Enrico Costa sulle pagelle per i magistrati. Mi permetto di essere meno ottimista di lui sul risultato. Quanto ai fuori ruolo, finché i magistrati saranno capi di gabinetto nei ministeri e capi del legislativo non cambierà mai nulla. La vera invasione di campo la compie il potere giudiziario incidendo sul potere esecutivo, non il legislativo sul giudiziario”. È saltato invece il test psicoattitudinale per i magistrati in ingresso. Lei sarebbe stato favorevole? “Ci sta. È previsto per altre categorie di funzionari pubblici. E se parla con molti magistrati sono i primi a dirti: introduciamolo anche per i colleghi. Ma vedendo come si muovono in queste ore nei palazzi della politica le dico che il test psicoattitudinale non serve solo ai magistrati”. Passando a un altro tema, ha visto che questa domenica, a Firenze, Salvini ha organizzato un evento con i sovranisti europei? “Salvini riunisce a Firenze tutti coloro che in Europa sono giudicati “impresentabili”. Detto che Firenze nella sua storia ha visto di tutto, e certo non si impressiona per questo festival del populismo, fa impressione vedere come i sovranisti si riuniscano nella città che è per definizione una delle città più universali del mondo. Ma Salvini mi pare che stia ancora ripassando la geografia, più che studiare la storia”. Visti i suoi rapporti con l’Arabia Saudita, invece, come accoglie la vittoria della candidatura di Riad per l’Expo? “Le cose che dicevo isolato quattro anni fa sull’Arabia Saudita adesso le dicono tutti. Un politico per me ha il dovere di vedere le cose prima degli altri. Quel Paese sta vivendo una trasformazione impressionante e per come li conosco so che siamo solo all’inizio. Non mi stupisce il trionfo di Riad”. E come ha preso la sconfitta italiana? “Sono sconvolto per la Caporetto diplomatica di Roma. La Farnesina ha fatto una figuraccia che non merita. Forse Tajani dovrebbe seguire qualche dossier anziché vivere in campagna elettorale permanente. Penso sia chiaro a tutti che Meloni non ha alcun peso nelle dinamiche internazionali: viene bene nelle foto, ma quando si tratta di fare sul serio l’Italia viene sorpassata persino dalla Corea. E siccome l’ultimo Expo l’abbiamo organizzato noi, dopo che se lo era conquistata da sola Letizia Moratti, da italiano oggi dico che il nostro Paese non si merita figuracce come questa. Si può perdere, ci sta. Ma arrivare terzi con 17 voti significa fare la figuraccia diplomatica più meschina della nostra storia recente. Quanto a Roma, fossi in Gualtieri mi darei una smossa: la città non va, è tempo di cambiare. Spero che la sconfitta dell’Expo serva a invertire la rotta”. Toghe contro Crosetto, ma Costa lo difende: “Ha detto cose sotto gli occhi di tutti” di Angela Stella L’Unità, 29 novembre 2023 Crosetto cosa sa? E cosa lo ha spinto ad alzare un polverone così alto e uno scontro così acceso con l’Anm dopo che il Governo Meloni aveva dato dei segnali di distensione negli ultimi tempi? “Se interessati, incontrerei molto volentieri il Presidente dell’associazione Magistrati Santalucia ed il suo direttivo per chiarire loro le mie parole e le motivazioni. Così capiranno che alla base c’è solo un enorme rispetto per le istituzioni. Tutte. Magistratura in primis”: ecco che nel pomeriggio di ieri, dopo due giorni di feroci polemiche, arriva la retromarcia del Ministro della Difesa Guido Crosetto. Alla quale il leader dell’Anm risponde: “Chiediamo al ministro Crosetto che vengano fugati sospetti e ombre, non deve lasciare che le sue parole cadano nel vago. Se c’è da chiarire lo faccia, nei modi che preferisce”. Parliamo di retromarcia, in virtù di tutto quello che il ministro aveva detto nelle ultime 48 ore. Partiamo dalla sua intervista di domenica al Corriere della Sera in cui ha parlato di opposizione giudiziaria da parte di alcune correnti della magistratura, Area ed Md, che sarebbero all’opera per “fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni”. Difficile interpretare il pensiero di Crosetto in questa due giorni: nell’intervista non cita le correnti, poi nel pomeriggio di domenica consiglia di sentire la registrazione dei loro recenti congressi, poi dice addirittura di voler parlare al Copasir, per necessità di riservatezza. Poi nella giornata di ieri, nella chat della comunicazione del responsabile di via Venti settembre, vengono inviate sia una dichiarazione ripresa dall’Ansa dell’ex Segretario di Area Dg, Eugenio Albamonte, in cui definiva “indegno scavare nella vita privata dei giudici” in riferimento al caso Apostolico, e poi il link di Radio Radicale della seconda giornata del congresso di Area dove, tra l’altro, l’ex leader non parlava. Insomma, ci siamo chiesti, Crosetto cosa sa? E cosa lo ha spinto ad alzare un polverone così alto e uno scontro così acceso con l’Anm dopo che il Governo Meloni aveva dato dei segnali di distensione negli ultimi tempi, a partire dal congelamento della riforma sulla separazione delle carriere, per finire con l’incontro con Giovanni Melillo alla Dna? E cosa lo ha portato poi a distendere gli animi con la richiesta di incontro ai vertici del ‘sindacato delle toghè? Nella tarda mattina di ieri Crosetto era pure tornato sull’argomento con un tweet polemico: “Una risposta al fondo di un’intervista su tutt’altro. Una risposta nella quale racconto una cosa riferitami. Una preoccupazione, non un attacco. Dico che voglio riferire al Parlamento. Vengo attaccato, insultato, minacciato, offeso. Preventivamente. Dovrei avere paura? Non ne ho”. Queste parole di certo non avevano chiarito la questione. Ricordiamo però che il presidente del Senato La Russa solo a metà novembre è stato l’ospite politico principale del Congresso di Magistratura Democratica. La domanda è: Meloni sapeva delle preoccupazioni di Crosetto? Perché nessuno ha avvisato La Russa che si stava recando proprio nella presunta tana di sovversivi magistrati? Il presidente del Senato poi era andato a portare un messaggio di pace alle cosiddette toghe rosse: percorriamo insieme la strada delle riforme, aveva detto. “Crosetto avrà più notizie di me, per quello che so, registro il suo allarme” ha detto La Russa ieri. Se l’allarme di Crosetto “è teorico, e se riguarda il passato e la storia, lo condivido e lo capisco” visto che “la magistratura qualche volta è entrata a gamba tesa, guardo ai magistrati che volevano fare politica a colpi di sentenze e capisco quello che dice”. “Se guardo al presente non ho elementi per aiutare” su questa cosa, ha aggiunto. Sulla questione si è espresso anche il vice ministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto a un Giorno da pecora: “Stimo Guido Crosetto, se ha fatto quella dichiarazione avrà le sue ragioni, non sono un ‘colpo di fulminè”. Gli è stato poi chiesto se vedesse la possibilità di complotti, possibilità che sembra agitare Crosetto: “Complotti non ne vedo, da nessuna parte. E a noi di Fi quello che interessa è che le riforme procedano spedite”. Mentre Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione, difende senza se e senza il Ministro: “Crosetto ha detto cose che sono sotto gli occhi di tutti. Li avete ascoltati gli interventi ai congressi delle correnti di Area e Md? L’avete letta l’intervista al segretario di Area? Le avete viste le prese di posizione dell’Anm tese a condizionare il legislatore su riforme in itinere? Crosetto non ha parlato di inchieste, ma di prese di riunioni di corrente. Se mi dite dove si firma, vado a sottoscrivere le sue parole”. All’Unità così commenta Giovanni Zaccaro, neo Segretario di Area Dg: “Il ministro Crosetto dice e non dice. Al congresso di Area a Palermo c’erano pure il ministro della giustizia e la vice presidente del Senato, possibile che non si siano accorti di essere finiti una riunione sediziosa?”. Mentre Stefano Musolino, Segretario di Magistratura Democratica, preferisce non aggiungere altro se non che la risposta a Crosetto è “la trasparenza dell’ultimo Congresso di Md dove tutto è visibile e documentato su Radio Radicale”. È tornato a parlare anche Giuseppe Santalucia ieri a ‘24 Mattino’ su Radio 24: “Noi non remiamo contro, non collaboriamo: facciamo un altro mestiere, esercitiamo la giurisdizione. Se non ci si intende su questa premessa tutto il resto è ovviamente frutto di un gigantesco equivoco che disorienta la pubblica opinione che sente dalla parola di un autorevole ministro associare la giustizia all’opposizione politico-partitica e questo è qualcosa di inaccettabile”. Basta sudditanza della politica. La magistratura non si cambia rilasciando interviste ai giornali di Giuliano Ferrara Il Foglio, 29 novembre 2023 La politica inerme davanti ai pm che riscrivono la storia d’Italia come se fossero una lobby che svuota di significato il funzionamento della democrazia liberale. Eugenio Albamonte è un pubblico ministero, già capo dell’Associazione nazionale magistrati, della corrente di Area che in congresso si dice esterrefatta della pretesa che i magistrati siano considerati dei burocrati. Infatti Albamonte stabilisce così la sua equivalenza costituzionale tra magistratura e potere legislativo: alla domanda su come giudichi l’idea di un test psico-attitudinale di reclutamento per i magistrati, come per i piloti di aereo e per i poliziotti, il pm risponde su Repubblica: “Come reagirebbe la politica se io oggi proponessi un identico test per candidarsi in Parlamento?”. Non lo sfiora la realtà, una realtà costituzionalmente garantita come l’indipendenza della magistratura. Non pensa all’ovvio, all’evidente, all’irrecusabile: il magistrato è un funzionario incaricato di applicare la legge e viene scelto tramite concorso, ha un diritto e un dovere di indipendenza che gli è garantito e imposto dalle scelte delle istituzioni rappresentative ed è incardinato in Costituzione proprio perché deve essere solo “la bocca della legge”, perché deve essere e apparire imparziale, mentre l’eletto in Parlamento è un cittadino che esprime la democrazia dei partiti e dei movimenti, l’elezione popolare è il suo unico possibile test, e può essere parziale, conflittuale, senza limiti politici né vincolo di mandato. Nella bizzarra e faziosa intervista a Repubblica Albamonte, burocrate in servizio per applicare la legge, specula a ruota libera sulle intenzioni politiche di un ministro, Guido Crosetto, che ha affidato ai giornali il suo timore di iniziative politicizzate della magistratura contro il governo eletto nel settembre del 2022, accusa grave (e scontata, ma non per questo meno seria, dopo trent’anni di guerra tra pm “supplenti” e politici di tutte le fazioni egualmente molestati e intimiditi da indagini e sentenze non sempre al di sopra di ogni sospetto), accusa che Albamonte conferma per vera senza nemmeno accorgersene, in automatico. Si lancia infatti, subito dopo, in giudizi temerari sulla perdita di peso regolativo del presidente della Repubblica nel caso il Parlamento approvasse una legge di riforma costituzionale proposta da chi esprime la sua maggioranza, sui rischi politici e istituzionali connessi a una libera determinazione eventuale e futura del legislatore in ordine all’elezione diretta del presidente del Consiglio, sulle intenzioni elettorali di intimidazione preventiva di una maggioranza che al congresso della sua corrente non era nemmeno invitata a discutere con le opposizioni, presenti, di Giuseppe Conte e di Elly Schlein. Ma il problema non è il dottor Albamonte. Si sa. Una parte consistente, attivistica, querula e vittimistica della magistratura, ben rappresentata dal suo sindacato nazionale e da alcune correnti e sottocorrenti, agisce come un super partito irresponsabile, corporativamente coperto dal cosiddetto autogoverno, e interferisce nel funzionamento delle istituzioni elettive, dei poteri legislativo e giudiziario, riscrive la storia d’Italia con risultati accademici per così dire asinini, funziona insomma come una lobby che svuota di significato il funzionamento della democrazia liberale. L’Italia è un paese informale, non serioso, in cui tutto spesso sembra possibile. Ecco. In nessun paese al mondo fioriscono, come un irrinunciabile status symbol, l’intervista continua, la rappresentazione supereroica del magistrato combattente, la politicizzazione correntizia della corporazione, la pretesa di una assoluta impunità di fronte a ogni sorta di prevaricazione dell’equilibrio dei poteri, la soddisfatta e arrogante esigenza, ormai una seconda pelle per moltissimi magistrati, di figurare e funzionare come revisori dei costumi, censori delle opinioni sgradite alla casta togata, datori di lezioni in ogni campo politico e sociale. Trovatemi un magistrato americano inglese francese svizzero spagnolo tedesco o di chissà dove paragonabile a quella parata di bellurie e di protagonismi che è il sale dell’amministrazione italiana della giustizia. Di fronte a questo panorama bisogna dire che Berlusconi aveva la remora di aver vissuto da imprenditore in ascesa in un paese semilegale, come quello degli anni Settanta e Ottanta, di avere un corposo conflitto di interessi che gli legava le mani, e la sinistra di governo aveva alle spalle il peccato originale di essere arrivata alla legittimazione di potere anche grazie alla distruzione dell’Italia dei partiti perseguita dai pool di Milano e Palermo, con incompleto ma solido successo. Si sperava che i Nordio e le Meloni, venuti da spiriti garantisti o forcaioli che fossero, potessero emanciparsi dalla sudditanza ai pm. Non è con le interviste, del Guardasigilli o del ministro della Difesa, che questa leale aspettativa può essere esaudita. Non è con gli avanti e indietro a denotare timidezza e insicurezza che si governa il principale problema istituzionale e politico di questo paese. Mancano misure di riforma radicali. Mancano, a un anno dalla vittoria elettorale della nuova compagine di centrodestra. E questo è tutto. Sicilia. Donne detenute e sovraffollamento. Apprendi: “Serve una maggiore sensibilità” di Enrico Pisciotta ilsicilia.it, 29 novembre 2023 La situazione carceraria in Sicilia non è delle migliori. Le numerose rivolte ed episodi di violenza che nelle ultime settimane si stanno verificando negli istituti penitenziari dell’Isola sono solo la punta dell’iceberg di una serie di circostanze sommerse che troppe volte negli anni sono state trascurate. Carenza di operatori, diritti negati e sovraffollamento sono le condizioni quotidiane per i detenuti e le detenute in ambito regionale e, più in generale, nell’intero territorio italiano. A ciò si aggiunge anche la trascuratezza dell’aspetto affettivo e psicologico a causa del distacco dalla famiglia e dai legami più cari, specie per le donne recluse. Le discutibili condizioni di permanenza carceraria hanno provocato, specie nelle ultime settimane, alcune rivolte interne. Ingenti i danni causati all’interno degli istituti penitenziari, oltre a qualche problema per gli operatori del settore nel riportare l’ordine. Le rivolte nel carcere di Trapani ad ottobre e nell’istituto Malaspina di Caltanissetta alla fine di novembre sono solo gli ultimi episodi di una lunga scia di disordini. Percorrendo in senso contrario un’immaginaria linea del tempo, affiorano ancora alla memoria in modo nitido i tumulti verificatisi durante la pandemia in quasi tutte le carceri. In quella occasione le vicissitudini interne agli istituti penitenziari si mescolavano con le proteste contro le necessarie regole di contenimento del contagio da Covid-19. È fuori da ogni dubbio che, almeno nella prima fase della pandemia, il sovraffollamento carcerario aveva provocato la potenziale violazione di alcuni diritti come quello alla salute. La situazione delle donne recluse - Finita l’emergenza sanitaria, tuttavia, c’è ancora parecchio da migliorare, specie per le donne recluse. Seppure in minoranza, le detenute subiscono violazioni ancora maggiori dei propri “colleghi” uomini. Pino Apprendi, garante dei detenuti di Palermo, ha sottolineato: “Per le donne detenute emerge drammaticamente la mancanza di affettività, a causa della distanza fisica, e non solo, dai figli e dai genitori. Ci vorrebbe una maggiore sensibilità da questo punto di vista. Inoltre, laddove possibile, servirebbe cercare di attuare misure alternative al carcere, specie per le donne con bambini. Purtroppo negli ultimi provvedimenti legislativi è stata reintrodotta la possibilità che la donna, anche incinta o con bambini minori, può andare in carcere, portando anche con sé i figli”. Alla carenza affettiva si aggiunge un altro problema che emerge dai dati Istat del 2022. Secondo l’istituto, le carceri siciliane hanno soltanto 169 posti riservati alle donne, contro una capienza pari a 6.331 per gli uomini. Certamente, l’indice relativo ai reati commessi dalle prime è nettamente inferiore rispetto ai crimini perpetrati dai secondi. Questo però non è sufficiente a giustificare un divario di tale entità in merito alla disponibilità delle celle per il genere femminile. Ad oggi, infatti, ogni 100 posti disponibili per le detenute sono presenti circa 128 donne. È la seconda percentuale di sovraffollamento più alta in tutta Italia, dietro soltanto alla Liguria, nonostante il numero di detenute siciliane sia di sole 224 unità. Questo può portare a due conseguenze, tra loro alternative, ma entrambe non auspicabili. Da un lato, si pone la possibilità di sistemare le detenute in una condizione di sovraffollamento delle celle, dall’altro di consentire temporaneamente una composizione mista nel genere degli occupanti. In tutti e due le circostanze si commetterebbero delle violazioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle regole dell’ordinamento penitenziario italiano. Inoltre, la prevalente occupazione maschile delle carceri determina la tendenza a plasmare la vivibilità degli istituti penitenziari alle esigenze degli uomini e meno a quelli delle donne. Le celle di detenzione riservate a queste ultime, già sovraffollate, spesso non presentano neppure le condizioni sufficienti per soddisfare i bisogni igienici e sanitari peculiari, come la disponibilità di assorbenti che andrebbero forniti gratuitamente. Anche l’istruzione offerta alle detenute deve rispettare il principio della separazione rispetto agli uomini. Non sempre, tuttavia, l’organizzazione penitenziaria consente la garanzia di questo diritto a causa del basso numero di donne che desiderano accedere a questo tipo di programmi formativi. Risolvere alcuni di questi problemi è una sfida essenziale da affrontare in tema di civiltà. In merito, Pino Apprendi spiega: “L’unica soluzione per scontare una pena non può essere solo il carcere. Si possono attrezzare delle case-famiglia, degli istituti dove possa andare la donna con il bambino, che non siano le grate del carcere. Anche perché un bambino che cresce in carcere con la madre non penso possa dimenticare mai questa esperienza”. Reggio Emilia. Torture a un detenuto: il Riesame conferma la sospensione a tre agenti di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 29 novembre 2023 “Trattamento inumano”. Respinto il ricorso, ribaditi lo stop dal servizio per un anno e l’obbligo di firma. Il tribunale: “Dai filmati nessuna prova di resistenza del recluso contro le guardie. Comportamento inadeguato e degradante. La perquisizione? Senza dignità”. Tortura aggravata perché commessa da pubblici ufficiali, con abuso di potere, violando la disciplina della loro funzione e causando lesioni. È il reato ipotizzato dal pubblico ministero Maria Rita Pantani a carico di 14 agenti della polizia penitenziaria indagati (per dieci erano state disposte inizialmente misure cautelari, poi per un agente revocata) per la condotta violenta che avrebbero tenuto verso un detenuto, un 40enne tunisino lo scorso aprile nella casa circondariale ‘La Pulcè di via Settembrini a Reggio. Tre di loro avevano impugnato l’ordinanza del gip Luca Ramponi al Riesame, che ha confermato lo stop dal pubblico ufficio per un anno e l’obbligo di firma quotidiano. Ecco cosa scrive il Riesame per uno di loro. La difesa ha sostenuto che l’azione fosse giustificata, al di là delle modalità esecutive, dalla personalità e dal contegno del detenuto, oltreché dalla resistenza verso gli indagati. “La personalità e la condotta dovevano essere valutati dal consiglio di disciplina, e lo erano stati, tanto che gli era stata applicata l’esclusione dalle attività in comune”. Quanto alla resistenza agli agenti, “non c’è prova”. Per i giudici “si è dunque versato al di fuori del legittimo impiego della forza prevista dalla legge sull’ordinamento penitenziario, poiché dagli atti non emerge che lui abbia tenuto condotte di violenza o resistenza”. Secondo il tribunale del Riesame, è pienamente condivisibile la valutazione del gip Luca Ramponi, cioè quella di “un trattamento inumano e degradante per la dignità: difficilmente si possono considerare diversamente le condotte, tutte emerse dai filmati, dell’avere incappucciato il detenuto con la forza, fatto cadere a terra con uno sgambetto e averlo tenuto immobilizzato a terra, schiacciandolo anche con gli stivali mentre veniva percosso. Poi avergli stretto il cappuccio al collo così da rendergli ancora più difficoltosa la respirazione, averlo denudato dalla cintola in giù; portato a braccia, sempre incappucciato a testa in giù, a mo’ di pacco, nella cella di isolamento; e averlo lasciato lì dove poi si è autolesionato, per più di un’ora, sempre nudo e senza assistenza medica”. La difesa ha sostenuto che togliere i pantaloni sarebbe stato un gesto volto solo a privarlo di eventuali oggetti pericolosi. “Ma le perquisizioni personali devono essere fatte nel pieno rispetto della personalità e, dato che gli fu ritrovato solo un pacchetto di sigarette, non vi era necessità di lasciarlo senza mutande, abbandonate come i pantaloni nel corridoio, oltretutto per più di un’ora, comportamento inutilmente degradante e riconducibile alla tortura”. Stesso discorso per le percosse “inferte con pugni e calci al detenuto mentre era a terra”. Forlì. Accelerazione per il nuovo carcere: “Opere aggiudicate, lo stallo è finito” Il Resto del Carlino, 29 novembre 2023 “Dopo aver trovato e stanziato tutte le risorse necessarie per la realizzazione del nuovo carcere di Forlì, parliamo di oltre 27 milioni di euro, il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha accelerato l’iter per l’affidamento dell’opera”: lo annuncia la deputata di Fratelli d’Italia, Alice Buonguerrieri. Dopo un lunghissimo stallo, Forlì può sperare di vedere il nuovo penitenziario, che sorgerà al Quattro: mossa dalle molteplici e strategiche implicazioni visto che, a cascata, libererebbe la Rocca di Ravaldino. “Alla luce di quanto disposto dalla sentenza del Consiglio di Stato - spiega la deputata -, è stato infatti emesso il provvedimento di aggiudicazione e approvazione del nuovo quadro economico dei lavori relativi al carcere di Forlì. Questi, dunque, finalmente potranno ripartire”. Per la parlamentare, si tratta di “un’opera strategica per il territorio, gli operatori del carcere e gli stessi detenuti”, perché “darà maggiori garanzie di sicurezza per gli uomini e le donne della Polizia Penitenziaria che vi prestano servizio” e anche per chi sconta lì la sua pena. In sostanza, il ministero ha approvato il nuovo quadro economico dei lavori e aggiudicato le opere, “in tempi davvero celerissimi”, “dopo lungaggini durate decenni”. Prima sono stati trovati “fondi importanti in tempi record” e poi “a livello burocratico ha sbloccato la situazione”. Per Buonguerrieri, “questo testimonia il concreto impegno del Governo Meloni. Ringraziamo il viceministro Galeazzo Bignami, che ha seguito la partita da vicino”. L’avvio dei lavori per il carcere sarà il calcio d’inizio di un’altra partita, quella per il futuro (ancora da individuare) della Rocca, struttura ricca di storia alle porte del centro, vicinissima anche al Campus universitario: “Alla città vogliamo restituire il prima possibile uno spazio importante come quello”, conclude la deputata di FdI. Udine. Caritas, domani l’incontro “Il carcere e la città” agensir.it, 29 novembre 2023 È in programma per domani, giovedì 30 novembre, alle 18, al centro culturale diocesano Paolino d’Aquileia di via Treppo 5/B, a Udine, “Il carcere e la città”, nuova tappa del ciclo di incontri che punta ad accendere i riflettori sul carcere. A proporlo è il Circolo culturale regionale Enzo Piccinini, insieme alla Caritas diocesana di Udine, con il sostegno della Fondazione Friuli. “Da qualche tempo il mondo carcerario è sotto osservazione per la necessità di passare da logiche eminentemente custodialistiche a logiche riabilitative e reinclusive. Troppo spesso infatti vincoli normativi, formali e burocratici impediscono esperienze innovative e di sviluppo umano all’interno delle mura carcerarie. L’approfondimento culturale del tema permette non solo il confronto tra idee diverse, ma anche il paragone con esperienze già in atto, e tutto ciò apre a metodologie e prospettive nuove”, ricorda l’arcidiocesi. Obiettivo dell’iniziativa è “sensibilizzare i cittadini rispetto al tema del carcere legato alla questione di una giustizia vera, occasione di riabilitazione e reinserimento nella società civile. La città, considerata come comunità sociale, può diventare infatti valido alleato nell’accoglienza e nel reinserimento di chi ha scontato la propria pena e conseguentemente contribuire alla reale diminuzione delle recidive”. Al convegno del 30 novembre ci sarà modo di conoscere da vicino l’esperienza virtuosa che dagli anni Novanta ha preso vita a Padova. Interverrà infatti Nicola Boscoletto, socio fondatore della Cooperativa sociale Giotto di Padova, realtà che ha fatto del reinserimento sociale dei detenuti attraverso il lavoro la propria mission. Prenderà la parola anche il garante per i detenuti del carcere di Udine, Franco Corleone. Firenze. Conferenza nazionale dei Poli Universitari Penitenziari unifi.it, 29 novembre 2023 Tre giorni dedicati alla formazione universitaria in carcere. Si riunisce all’Università di Firenze, a partire da giovedì 30 novembre, l’Assemblea della Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari (Cnupp). La Cnupp è stata istituita nel 2018 come organo della Crui, la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane. La Cnupp conta attualmente 44 Atenei di tutte le regioni d’Italia, con attività didattiche e formative che garantiscono il diritto all’istruzione superiore in circa un centinaio di istituti penitenziari. Nell’anno accademico 2022/23 sono stati 1.458 gli studenti e le studentesse iscritti ai Poli universitari, appartenenti a tutti i circuiti di detenzione (media sicurezza, alta sicurezza, 41 bis). Un numero che, per quest’anno accademico, si prevede in crescita (i dati definitivi delle iscrizioni saranno disponibili a febbraio). Due i terreni di impegno della CNUPP. In primo luogo, la Conferenza svolge attività di promozione, riflessione e indirizzo del sistema universitario nazionale e dei singoli Atenei in merito alla garanzia del diritto allo studio delle persone detenute o in esecuzione penale esterna o sottoposte a misure di sicurezza detentive. In secondo luogo, la Conferenza è organo di rappresentanza della CRUI nel confronto con il Ministero della Giustizia ed in particolare con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità e con le loro articolazioni periferiche. Ne sono scaturiti accordi, protocolli e linee-guida che regolano i rapporti tra Atenei e i singoli Istituti o gli altri servizi dell’Amministrazione della Giustizia per la definizione delle condizioni che, all’interno degli istituti penitenziari e più in generale per le persone in situazioni di limitazione della libertà personale, rendano fruibile il diritto allo studio universitario per tutti coloro che ne hanno interesse. Tutti i dati e le informazioni sulla CNUPP sono reperibili online - I lavori dell’Assemblea, oltre alle sessioni più tecniche e istituzionali, prevedono due altri momenti: il primo, pubblico, che documenterà la dimensione di questo impegno e il suo valore nei percorsi di crescita culturale e di consapevolezza delle persone sottoposte a misure privative della libertà e per il loro positivo reinserimento sociale; il secondo, ad inviti, presso il carcere di Prato La Dogaia. Venerdì 1° dicembre (ore 15 - Auditorium di Santa Apollonia, via San Gallo 25°) si svolge un evento molto speciale con l’iniziativa “Teatro in carcere” (in collaborazione con la Regione Toscana): attori-detenuti interpretano alcune pièce teatrali con la regia di Fabio Cavalli e Gianfranco Pedullà. A seguire la tavola rotonda “Il ruolo della cultura e dell’istruzione universitaria nei luoghi di detenzione” moderata dal prorettore vicario dell’Università di Firenze Giovanni Tarli Barbieri: al dibattito intervengono il presidente della Regione Toscana Eugenio Giani, il presidente della Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari-CNUPP Franco Prina, le docenti Unifi Monica Pacini e Giulia Tellini oltre a Carmelo Cantone, ex vicecapo Dipartimento amministrazione penitenziaria e già provveditore regionale, e Giuseppe Ferraro, docente di Filosofia, autori del libro “Conversazioni penitenziarie. Per un’etica della giustizia”. Sabato 2 dicembre alla Casa Circondariale di Prato La Dogaia, (ore 9.30 - via la Montagnola 76) è in programma l’incontro dal titolo “Il dibattito “in” e “sul” carcere: i detenuti iscritti ai corsi di studio dell’Università di Firenze incontrano i delegati CNUPP e le istituzioni”. Dopo i saluti del direttore della Casa Circondariale La Dogaia Vincenzo Tedeschi e della rettrice dell’Università di Firenze Alessandra Petrucci, saranno presentati i lavori del Polo Penitenziario toscano, con la partecipazione dei delegati delle Università di Siena Stranieri Antonella Benucci e di Pisa Andrea Borghini. Gli studenti del Polo Penitenziario dialogheranno, quindi, con numerosi interlocutori istituzionali: l’assessora alle Politiche regionali per le questioni carcerarie della Regione Toscana Serena Spinelli, il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Toscana-Umbria Pierpaolo D’Andria, la rettrice Alessandra Petrucci, il direttore Vincenzo Tedeschi, la Garante per i diritti dei detenuti del Comune di Prato Margherita Michelini, il magistrato di sorveglianza di Firenze Giuditta Merli, il Presidente della Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari Franco Prina. Modera Maria Paola Monaco delegata all’Inclusione e diversità dell’Università degli Studi di Firenze. Un vero piano educativo contro la violenza di genere di Francesca Polizzi Il Domani, 29 novembre 2023 Dietro alle linee guida della rete “Educare alle differenze” ci sono anni di formazione e condivisione. Fiducia, autodeterminazione, ascolto, cura: un modello lontano da quello proposto dal ministro Valditara. Relazione di fiducia, autodeterminazione, ascolto, creazione di spazi, formazione e prevenzione. Sono solo alcune delle parole chiave delle linee guida “Che fare? Tutto quello che avreste voluto sapere per contrastare le violenze di/del genere a scuola”. Questo lavoro nasce dall’impegno della rete Educare alle differenze e dalla consapevolezza del ruolo cruciale che la scuola può giocare sia nella prevenzione che nel contrasto di queste forme di violenza. Questo documento è frutto di due anni di discussioni e confronti tra tredici associazioni che - da Bergamo a Siracusa - aderiscono alla rete e del coinvolgimento di movimenti studenteschi e insegnanti. “Le linee guida hanno preso forma in tre capitoli: violenza maschile contro le donne, l’omolesfobitransfobia e poi violenza di/del genere. La cultura ciseteropatriarcale è una e dà origine a tutte e tre, però ognuna va trattata con strumenti diversi”, spiega Monica Pasquino, presidente della rete Educare alle differenze. Ma quali competenze relazionali bisogna attuare per praticare ascolto, consenso e accoglienza? Vengono forniti dei consigli su come affrontare tali situazioni in modo efficace, ma anche su cosa è importante non fare perché potrebbe peggiorare la situazione o far sentire a disagio le persone coinvolte. Ad accompagnare le tre sezioni ci sono approfondimenti tematici, un glossario per acquisire consapevolezza sul lessico in continua evoluzione che riguarda i generi e la sessualità. Le linee guida di Educare alle differenze vogliono fornire delle situazioni paradigmatiche che chi lavora nella scuola potrebbe incontrare. Pasquino racconta dell’approccio laboratoriale adottato dalla rete quando si fa formazione con gli insegnanti: “Cerchiamo di lavorare sui vissuti per far emergere la riflessività rispetto agli stereotipi inconsci che hai e che metti in atto, ma che attui senza rendertene conto; per esempio quando entri in classe e dici: “Buongiorno ragazzi”“. Secondo i dati raccolti da Educare alle differenze, sono stati soprattutto i docenti a richiedere l’accesso al vademecum: “Questo testimonia il bisogno di uno strumento operativo che parta dalla prevenzione primaria”, dice Pasquino. La comunità educante - Il 23 e il 24 settembre si è tenuto a Bari il nono meeting nazionale di Educare alle differenze: due giorni di autoformazione gratuita strutturata in sessioni laboratoriali parallele e aperte a tutti. Hanno partecipato insegnanti, educatori, associazioni, operatrici di centri antiviolenza e famiglie che interpretano le differenze come valore e non come minaccia. “La prospettiva educativa in questo momento è desolante: sono pochi i canali in cui hai la possibilità di immaginare un altro tipo di scuola”, racconta Margherita Talìa, aspirante insegnante. “Sto cercando di formarmi su questioni sociali e di genere, per questo ho deciso di partecipare al meeting di Educare alle differenze”. “Fare scuola fuori dai bordi”, titolo di questa edizione, rispecchia i valori della rete: rendere la scuola un luogo dove tutti si possono sentire riconosciuti e dove una pluralità di storie si incontrano. I due giorni di formazione hanno avuto il via con la lettura della Convenzione di Istanbul. A questo momento sono seguiti laboratori divisi per fasce d’età da 0 a 18 anni. Nozioni teoriche si sono alternate a momenti pratici; diversi i temi trattati: consenso, stereotipi, come contrastare l’omolesbobitransfobia a scuola, come parlare con le persone adulte per spiegare questi temi e laboratori su favole e narrazioni. “Sono tornata a casa con pratiche, modalità, posture sapendo che le possibilità di azione all’interno della scuola ci sono e che dobbiamo soltanto capire come farlo, anche magari insinuandoci nelle crepe del sistema, hackerandolo dall’interno”, dice Talìa ripercorrendo i due giorni di formazione. “L’educazione è permanente: non è soltanto nell’aula, è dappertutto. Queste pratiche si possono applicare in tanti contesti, non soltanto in quello scolastico stretto”. Linee guida a confronto - Le linee guida non sono prodotto di fantasia, ma mettono insieme una pluralità di soggetti impegnati contro la violenza. Su tutt’altra strada sembra andare il progetto “Educare alle relazioni” pensato per le scuole italiane da Giuseppe Valditara, ministro dell’Istruzione e del Merito. “Promuovere relazioni sane è sicuramente un compito della scuola. Come lo facciamo, però? I docenti, le figure moderatrici e quelle professionali sono pronte a questo compito e sono formate sull’argomento?”, si chiede Alessia Dulbecco, pedagogista, counsellor e formatrice esperta in DE&I (Diversity, Equality & Inclusion). Secondo Alessia Dulbecco: “Il protocollo avrebbe dovuto coinvolgere le professioniste dei centri antiviolenza (Cav) e dei centri per autori di maltrattamento”. La pedagogista fa notare anche come sia fondamentale “promuovere la conoscenza di come chiedere aiuto, ad esempio chiamando il 1522” e qui torna centrale il ruolo e il coinvolgimento dei Cav, purtroppo mancato. Si punta invece a un approccio punitivo mirato a ricordare cosa si rischia se si commettono determinate violenze. “È importante saperlo, tuttavia la vera prevenzione non si esaurisce nel sanzionamento o nella paura della sanzione”, afferma Alessia Dulbecco. “Quello che professioniste che fanno il mio lavoro, Cav e centri per autori di violenza chiedono è soprattutto un cambiamento culturale che non può passare solo dalla paura, né da quel sessismo benevolo”. I figli dei femminicidi, orfani due volte La Repubblica, 29 novembre 2023 Non ci sono stime ufficiali su quanti siano gli orfani delle vittime di femminicidio in Italia. Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile ha avviato “A braccia aperte”, la prima iniziativa di sistema in loro favore e a supporto delle famiglie affidatarie. In gergo vengono definiti “orfani speciali” perché la perdita di uno dei genitori è avvenuta per mano di un coniuge. Ma sono doppiamente orfani, perché la perdita della madre per mano del padre significa anche che l’altro genitore non ha più contatti con i bambini e questi, divenuti maggiorenni e consapevoli dell’accaduto, quasi sempre non vogliono più vederli. Gli orfani di cui ci si occupa. Sono 157 gli orfani presi in carico dai quattro progetti finanziati da Con i Bambini. Questo dato è variabile perché altri 260 in tutta Italia sono stati già agganciati dai partenariati gestori, e a breve inizieranno anch’essi un percorso di sostegno e accompagnamento con le loro famiglie. Il progetto Orphan of Femicide Invisible Victim segue il Nord Est, mentre nel Nord Ovest opera il progetto S.O.S. - Sostegno Orfani Speciali. Nel Centro Italia è attivo il progetto Airone, al Sud RESPIRO - Rete di Sostegno per Percorsi di Inclusione e Resilienza con gli orfani speciali. Nel Sud il record di bambini rimasti soli. La percentuale più alta di orfani accompagnati riguarda il Sud, al momento (ottobre 2023) ci sono 100 orfani presi in carico grazie al progetto Respiro. Ma il dato è fortemente in crescita. Per il 74 per cento dei beneficiari l’età di ingresso nel progetto è tra i 7-17 anni, per il 17% l’età è compresa tra 18-21 anni e per il rimanente 8% l’età è inferiore a 6 anni. Di questi, il 56% sono di sesso maschile e il 43% femminile (1% non specificato). Il 95% dei beneficiari presi in carico ha la cittadinanza italiana, solo il 5% ha cittadinanza di altri paesi UE o extra-UE. Nel 36 per cento dei casi i bambini erano presenti al momento dell’evento. Le pesanti complicazioni nella vita. Questo elemento ha conseguenze che condizioneranno ancor più pesantemente gran parte della vita. I minori che diventano orfani a seguito di tali tragici eventi subiscono un impatto psicologico devastante, il quale inevitabilmente influisce negativamente sulla loro sfera emotiva e relazionale. Le conseguenze psicologiche creano una vera e propria sindrome denominata child traumatic grief. Il bambino, sopraffatto dalla sofferenza e dalla reazione al trauma, diviene incapace di elaborare il lutto, trovandosi intrappolato in uno stato di dolore cronico. Le forme di disabilità. Il 13% degli orfani presenta forme di disabilità (precedenti al trauma); tra le più comuni vi sono disabilità intellettive e relazionali e un ulteriore 8% presenta Bisogni Educativi Speciali (BES), disturbi evolutivi specifici o disturbi psichici. Le famiglie affidatarie. Il 42% oggi vive in famiglia affidataria, il 10% vive in comunità e il 10% con una coppia convivente. Solo il 5% è stato dato in adozione e vive con una famiglia adottiva. L’83% delle famiglie dei beneficiari arriva a fine mese con grande difficoltà, spesso per la necessità di circondarsi di professionisti e specialisti per supportare i bambini, come emerso dalle interviste a chi si prende cura del minore. Ciò nonostante, gli spazi in cui la famiglia vive risultano essere adeguati ai bisogni dei domiciliati nella gran parte dei casi. I nuclei familiari includono in media tra i 3 e i 5 componenti, compresi i bambini. Altri elementi discriminanti. La condizione socio-economica degli orfani e delle famiglie affidatarie è un altro elemento discriminante per la crescita di bambini e ragazzi che hanno subito un trauma così forte. ll 52 per cento riceve misure di sostegno al reddito: il 6 per cento il reddito di cittadinanza, il 45% altre misure. L’impossibilità ad accedere agli strumenti a loro tutela, o avere le stesse opportunità degli altri ragazzi, non fa altro che acuire ancora di più il discrimine che sono costretti a subire anche per il loro futuro. Il 15 per cento di loro dichiara di avere un reddito annuale inferiore a 12 mila euro, l’8 per cento superiore, mentre per il 77 per cento l’informazione non è nota. Una realtà ancora sommersa. La realtà dei cosiddetti orfani di femminicidio è tanto complessa quanto ancora sommersa. Così l’azione di prossimità che Con i Bambini promuove rappresenta, al contempo, una vera inchiesta conoscitiva del fenomeno. Per inquadrare meglio il fenomeno vanno presi in considerazione i fattori che caratterizzavano la vita dei ragazzi orfani di femminicidio prima dell’evento. Gran parte dei nuclei familiari, ovvero il 65%, non era in carico ai servizi sociali prima dell’evento, nonostante la presenza di elementi di vulnerabilità. Fatta eccezione per 25, casi cioè il 35% dei beneficiari, in cui il nucleo familiare di origine non presentava elementi di vulnerabilità, in tutti gli altri casi si riscontrano elementi di vulnerabilità che rendono ancora più complessa la gestione delle dinamiche familiari. Tra questi i più comuni sono la presenza di familiari con dipendenze da sostanze o altro, e di familiari con provvedimenti giudiziari prevalentemente di natura penale. Gli eventuali traumi precedenti all’omicidio. Allarmanti sono i dati relativi ad ulteriori elementi che possono rappresentare eventuali traumi o eventi stressanti antecedenti al crimine domestico. Questi includono soprattutto la violenza assistita: fisica, psicologica, sessuale, indicando che numerosi sono i fattori e i campanelli di allarme che è urgente riuscire a cogliere come predittivi della violenza. In particolare, la violenza assistita psicologica è stata segnalata in 50 casi su 70. Presenti sulla scena del delitto. Nei casi di femminicidio presi in carico dai progetti di Con i Bambini, il 36 per cento dei bambini erano presenti al momento dell’uccisione della madre. Inoltre tre bambini le cui madri sono state vittime di femminicidio nel 2015 e nel 2017, al momento della presa in carico da parte del progetto non erano ancora stati resi consapevoli o a conoscenza della verità rispetto all’evento. In altri 7 casi di femminicidi avvenuti tra il 2016 e il 2022 i bambini risultano essere solo in parte a conoscenza e consapevoli della verità. In numerosi casi è stato grazie al supporto del progetto che le famiglie affidatarie hanno accettato di raccontare la verità rispetto all’accaduto. Dire o non dire la verità? Da altre interviste è emerso che i professionisti che all’inizio avevano seguito le famiglie avevano al contrario consigliato di non dire la verità, o non erano in grado di gestire le emozioni durante i colloqui, confermando l’importanza della formazione e della seria supervisione per affrontare questo lavoro complesso e prezioso, che oggi le reti al lavoro garantiscono. L’iniziativa voluta da Con i Bambini mira a sviluppare un modello flessibile e personalizzato di intervento multidisciplinare sistemico a sostegno degli orfani speciali. Marco Rossi-Doria. “La tragedia dei femminicidi purtroppo non finisce - ha ricordato Marco Rossi-Doria presidente di Con i Bambini - Siamo tutti colpiti da questa condizione terribile. Centinaia di bambini e ragazzi vivono una situazione difficile, fortemente traumatica: la mamma viene uccisa spesso davanti ai loro occhi dal padre, che finirà i suoi giorni in prigione o si suiciderà come spesso accade. I bambini sono orfani due volte, perdono madre e padre in un solo momento anche perché chi resta in carcere difficilmente vede i propri figli”. Il ruolo dei parenti. “A crescere gli orfani di femminicidio - prosegue la testimonianza di Marco Rossi-Doria - sono i parenti di prossimità: nonni, zii, che però, nei fatti, non godono ancora, purtroppo, di costanti azioni di prossimità che le politiche pubbliche si ripromettono da tempo di attuare e vengono lasciati soli ad affrontare un dramma così grande che ha bisogno di un’attenzione specializzata, così come di supporto burocratico, economico, organizzativo, legale, ecc.. E poi c’è la vita che deve ricominciare: gli studi, il lavoro e la necessità di curare la ferita profonda che è dentro di sé”. Il Fondi per il contrasto alla povertà. Con i Bambini grazie al Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile segue concretamente in tutta Italia i ragazzi e i bambini rimasti orfani a causa dell’uccisione della madre, sperimentando, così, un modello di intervento che dovrà servire ai decisori pubblici per garantire i risultati auspicati su un tema tanto difficile. “Il Fondo ha assunto la responsabilità di mettersi accanto e accompagnare passo passo questi ragazzi nel migliorare la propria vita e avere una opportunità di elaborazione, per quanto possibile, di un evento inconsolabile e di crescita”, ha aggiunto Marco Rossi-Doria. Decreto Migranti. No all’ingresso per chi ha condanne, espulsione dei “pericolosi” di Niccolò Carratelli La Stampa, 29 novembre 2023 Previsti anche l’aumento della capienza dei Centri, una stretta sui richiedenti asilo e su chi ha compiuto 16 anni. Critiche da Cuperlo, Magi, Boschi: “Non aumenterà la sicurezza degli italiani ma aumenterà la marginalità sociale”. Il divieto di ingresso per i migranti condannati per una serie di reati e l’espulsione di quelli irregolari ritenuti “pericolosi”. Poi l’aumento della capienza dei Centri per migranti, autorizzando di fatto il sovraffollamento, e le nuove, discusse norme sui minori non accompagnati, la cui età andrà stabilita anche attraverso radiografie, fino alla stretta sui richiedenti asilo. Queste le principali novità contenute nel decreto Migranti, il terzo provvedimento d’urgenza sul fronte immigrazione varato dal governo nel giro di un anno. Incassato il via libera della Camera (con i soli voti del centrodestra), il testo passa ora all’esame del Senato per l’approvazione definitiva, che deve avvenire entro il 4 dicembre. La norma più contestata dalle opposizioni, così come dalle organizzazioni umanitarie, è quella, introdotta in commissione Affari Costituzionali con un emendamento della Lega, che dà la possibilità di tenere reclusi, fino a 5 mesi, nei Centri di detenzione per adulti anche i minori non accompagnati che abbiano compiuto i 16 anni. Mentre per i bambini e ragazzi sotto i 16 anni i tempi di detenzione si allungano da 30 a 45 giorni. “Forte allarme” viene espresso da Save The Children, mentre dal Pd dicono che le nuove misure “calpestano la Costituzione e lo Stato di diritto”. Sull’immigrazione “siamo arrivati a un decreto a trimestre, come le vecchie pagelle di una volta”, ironizza il deputato dem Gianni Cuperlo, “la verità è che non sapete come gestire quella che battezzate come un’emergenza”. Secondo Riccardo Magi, segretario di +Europa, il decreto è solo “l’ennesimo spot inutilmente cinico, che non aumenterà la sicurezza dei cittadini italiani né il numero di rimpatri ma, al contrario, aumenterà la situazione di conflitto e marginalità sociale e il livello della vostra propaganda”. Dura anche Maria Elena Boschi di Italia Viva: “Al governo in affanno non resta che attaccare i più fragili, i minori non accompagnati, ponendoli di fronte a traumi aggiuntivi oltre a quelli che hanno dovuto subire, rendendoli terreno fertile per l’estremismo”. Migranti. Save the Children lancia l’allarme per le misure sui minori La Stampa, 29 novembre 2023 Il nuovo decreto, che deve passare al Senato, prevede tra l’altro di poter accogliere chi ha compiuto 16 anni nei centri per adulti. “Forte allarme” di fronte alla riduzione delle tutele per i minori stranieri non accompagnati viene espresso da Save the Children alla luce del testo del nuovo decreto Immigrazione, approvato oggi dalla Camera, che passa ora al Senato per completare l’iter di conversione in Legge. Save the Children lancia l’allarme per i migranti che hanno compiuto 16 anni, che potranno essere indirizzati ai centri per gli adulti e per i quali saranno consentiti metodi come le radiografie, dunque invasivi, per accertare l’età, di fatto con quello che l’associazione giudica un “limitato consenso”. L’approvazione del testo come modificato in Commissione Affari Costituzionali include “alcuni preoccupanti emendamenti rispetto al testo originario del decreto, che vanno a peggiorare ulteriormente la condizione dei minorenni, determinando una pericolosa riduzione delle garanzie per loro previste dalla legge 47/2017 e aumentando i rischi per la loro incolumità e i loro diritti fondamentali. Un rilevante arretramento rispetto alla normativa italiana vigente, che proprio dall’approvazione della legge 47 ha rappresentato un esempio di civiltà in Europa, fondandosi sul diritto per ogni minore migrante di essere considerato prima, e sopra ogni cosa, un minorenne e quindi godere degli stessi diritti fondamentali al pari dei coetanei italiani ed europei”. Nonostante le preoccupazioni e le richieste di tutte le principali organizzazioni della società civile attive per i minorenni migranti, sottolinea Save the Children, “nel testo approvato resta confermato che i minorenni ultrasedicenni possono essere accolti in centri per adulti e vengono eliminate, in un’amplissima serie di ipotesi, delle sostanziali garanzie sull’accertamento dell’età sinora previste, tra cui quella di non essere sottoposti a esami medici, incluse le radiografie, a fini di accertamento dell’età senza che siano stati previamente utilizzati altri metodi non invasivi, senza la previa autorizzazione scritta della procura minorile e senza che sia prevista la necessaria presenza di un mediatore linguistico-culturale, indispensabile perché la persona possa fornire il suo consenso informato”. “Norme, queste - prosegue l’organizzazione - che unite al brevissimo termine per presentare ricorso contro il verbale di accertamento (5 giorni) pongono i minorenni a serio rischio di respingimento, detenzione ed espulsione illegittimi causati da un’errata valutazione dell’età”. Inoltre, “con gli emendamenti peggiorativi approvati, in tema di accoglienza, oltre a estendere da 30 a 45 giorni il tempo massimo di permanenza dei minori nelle strutture di prima accoglienza a loro destinate, si deroga al limite di capienza dei centri di accoglienza straordinaria per minori fino a un massimo del 50% e si prevede l’estensione del possibile inserimento di minori ultrasedicenni in strutture per adulti fino a un massimo di 150 giorni. Le modifiche approvate dalla Camera inoltre aprono la possibilità che le procedure accelerate siano estese anche ai minorenni e ad altre categorie vulnerabili, nel caso in cui si accerti l’infondatezza della domanda di protezione internazionale, ovvero ad esempio qualora il minore provenga da un Paese cosiddetto sicuro, o abbia rilasciato dichiarazioni incoerenti o contraddittorie. “Si tratta di un grave peggioramento nel campo dei diritti dei minorenni non accompagnati, che si pone in contrasto con le garanzie della legge 47 del 2017 - spiega Raffaela Milano, direttrice Programmi Italia-Europa di Save the Children - Ciò che va posto al centro dell’attuale dibattito sul tema è che parliamo prima di tutto di minorenni, bambine e bambini, ragazze e ragazzi con un portato di vita, traumi, ma anche sogni e speranze rispetto ai quali abbiamo la responsabilità di esercitare un dovere di cura. Come ricordato dalla Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, i diritti dei minori richiedono una responsabilità e un impegno comune che deve essere al centro delle risposte politiche, che non devono essere guidate da una logica emergenziale”. Non si può scegliere quali vittime difendere di Mario Giro* Il Domani, 29 novembre 2023 Nella cultura del diritto delle democrazie non ci può essere differenza tra vittime, non si può fare una gerarchia della sofferenza o classifiche del dolore. La logica dello schieramento è bellicista, maschilista, e produce ingiustizia. Stilare una graduatoria del male fabbricando una macabra contabilità dei morti è immorale e disonesto, perché rafforza la dialettica della vendetta e moltiplica il ciclo della violenza. Non si possono scegliere le vittime a proprio piacere, tralasciandone altre. Le vittime sono vittime e basta, soprattutto quando sono tra le più deboli e fragili, come i bambini, i vecchi, le donne, le ragazze. L’uccisione violenta di Giulia Cecchettin ha risvegliato nella nostra società un giusto sdegno per una morte così assurda e atroce.In tanti si interrogano su come fare per educare i maschi alla fine della violenza sulle donne, al feroce senso di possesso che spesso maturano nei loro confronti tanto da non sopportare un qualunque rifiuto. Ma poi non si riesce a uscire del tutto dagli schemi mentali (ideologici o emozionali) che spingono le persone a schierarsi con alcune vittime e non con altre. Accade che le israeliane uccise o stuprate il 7 ottobre siano “dimenticate” mentre si ricordano le palestinesi uccise dalla ritorsione di Israele. Alcuni commentano: “Ma cosa c’entra Gaza con Giulia?”. In realtà c’entra perché corrisponde a un modo di ragionare: scegliersi le vittime che più si preferiscono, sottovalutando le altre. Si tratta della logica - tutta maschile - del nemico. Dividere il mondo tra buoni e cattivi, giusti e ingiusti, innocenti e colpevoli, così da giustificare o attenuare la violenza commessa sui secondi, è un tipico ragionamento maschile, binario e semplificato. È la logica della guerra, anch’essa un’attività prevalentemente maschile. Le donne in genere stanno da un’altra parte, quella dei sofferenti. Sul campo di battaglia di Solferino le donne lombarde raccoglievano feriti e moribondi dicendo “tutti fratelli”, come ricorda nelle sue memorie Henri Dunant, il fondatore della Croce rossa. Descrivendo la tragedia della Seconda guerra mondiale, Anna Bravo definisce le donne come “le titolari quasi in esclusiva della manutenzione della vita”. Non è una concezione “tradizionale” del ruolo delle donne come qualcuno potrebbe pensare (con un ragionamento tipicamente maschile). Si tratta invece di un messaggio fondamentale: si può vivere senza violenza, cioè senza nemici. L’ossessiva ricerca del nemico è un mestiere da maschi, a cui purtroppo anche in molte possono soccombere. Al contrario “la manutenzione” della vita rappresenta l’umano irriducibile: per le donne la vita è la cosa più preziosa. Distinguere tra vittime, come Maya, Emily e Emma violentate, rapite e fatte sfilare a Gaza tra sputi e umiliazioni, e le donne palestinesi sotto i bombardamenti, non appartiene alla nostra civiltà democratica: la protezione deve essere per tutte, cioè per tutti. Anche le donne rasate a zero e umiliate perché stavano con nazisti o collaborazionisti sono state vittime di violenza. Nella cultura del diritto delle democrazie non ci può essere differenza tra vittime, non si può fare una gerarchia della sofferenza o classifiche del dolore. La logica dello schieramento è bellicista, maschilista, e produce ingiustizia. Stilare una graduatoria del male fabbricando una macabra contabilità dei morti è immorale e disonesto, perché rafforza la dialettica della vendetta e moltiplica il ciclo della violenza. Pensare che tutto accada meccanicamente mediante un ingranaggio di causa-effetto è un pensiero micidiale e totalmente maschilista, nel senso di bellico. Dovremo prima o poi arrivare a dirci sinceramente che il tanto citato articolo 11 della nostra costituzione (l’Italia ripudia la guerra…) non è una clava contro qualcuno, ma nasce da una consapevolezza maturata nella fornace del conflitto mondiale: l’Italia democratica non ha nemici, né potrà più averne. Prima di quel momento l’Italia aveva scelto di avere dei nemici, ma con la costituzione repubblicana decise di correggersi. È un dono che ci viene fatto dagli uomini e dalle donne della Costituente. Non avere nemici significa accogliere la sofferenza di ciascuno senza compilare categorie tra le vittime, senza preferirne alcune piuttosto che altre, senza parlare delle prime tacendo le seconde. Si trattò di una vera conversione nazionale: non avere nemici significò abbattere le ragioni di qualunque odio o egoismo, per accettare come sola regola quella del soccorrere e del convivere. Volle dire anche comprendere le ragioni storiche di un conflitto o di una contesa, senza condannare o partecipare a tifoserie, adepti di interpretazioni competitive. Esprime la volontà di raccogliere tutte le lacrime, per dare un senso alla pace della convivenza. Non è cosa facile né corrisponde a uno sguardo freddo, neutrale, non empatico: i bombardamenti su Gaza e l’idea celata dietro i bulldozer (andatevene via per sempre!) non possono che farci inorridire, così come l’atrocità dell’attacco di Hamas del 7 ottobre. Non serve metterli sulla bilancia e pesarli, per capire da che parte stare: l’Italia sta dalla parte delle vittime, sempre. Le manifestazioni di questi giorni sono dalla parte delle donne, tutte le donne senza esclusione, vittime della violenza di maschi predatori e padroni. Ogni ragionamento competitivo nasconde un’impronta maschile: la ricerca del nemico, la sfida, il duello, l’odio, il sangue e la morte. Ogni violenza commessa rappresenta qualcosa di irreparabile, come lo è l’assassinio di Giulia che ferisce tutta la società e la sfigura. Dobbiamo sentirlo sulla nostra pelle. Allo stesso tempo dobbiamo provarlo a livello globale a causa delle violenze a Gaza: un mondo sfigurato e deturpato. L’unica risposta valida è stare dalla parte delle vittime senza fare distinzioni. La sofferenza che vediamo non può essere ridotta a categoria ideologica, ma deve essere considerata reale: carne vera che possiamo e dobbiamo toccare, curare e alla fine abbracciare. *Politologo L’Europa e la fine della pace perpetua. “Era un miracolo che andava difeso” di Raffaele Simone Il Domani, 29 novembre 2023 Dominique Schnapper è una delle più illustri e rispettate figure della sociologia e della cultura francese. In questa intervista interviene sui temi del nostro tempo. “Anche nelle democrazie più antiche come la Francia o l’Italia - dice - esiste una tendenza all’indebolimento e alla progressiva ignoranza delle regole della pratica democratica”. Dominique Schnapper è una delle più illustri e rispettate figure della sociologia e della cultura francese. Di orientamento laico e liberale (è figlia di un campione del pensiero liberale come Raymond Aron), molto legata all’Italia (negli anni Settanta dedicò la tesi di dottorato ai modelli culturali della vita quotidiana a Bologna), studia da anni, con libri e interventi diversi, la natura e le vicende della democrazia, con speciale attenzione, da ebrea che si dichiara agnostica, per la condizione ebraica, la laicità e la cittadinanza. Ha fatto parte dal 2001 al 2010 del Consiglio costituzionale (la suprema Corte francese) e dal 2018 presiede il “Consiglio dei saggi della laicità,” un organo creato dal ministro dell’educazione nazionale per vigilare sullo stato della laicità in Francia. In un famoso libro pubblicato un secolo fa (Il tema del nostro tempo), José Ortega y Gasset, il grande pensatore liberale spagnolo, suggeriva che la modernità aveva comportato il passaggio da una mentalità razionalista (ereditata dall’Illuminismo) a un approccio razionalista-vitalista. Secondo lei, ci sono dei “temi del nostro tempo” altrettanto forti? Ho la sensazione che non abbiamo inventato nuovi “temi del nostro tempo” - forse questa sensazione è dovuta alla mia età. Ma il disordine intellettuale e la messa in discussione della democrazia - il regime più umano che si sia mai conosciuto nella storia - mi sembrano piuttosto segni della disgregazione, della decomposizione o della deriva delle pratiche democratiche. Il nostro tempo mi sembra caratterizzato dal ritorno della forza e della violenza nel mondo e dalla debolezza interna delle democrazie che cedono ai propri demoni, piuttosto che dalla comparsa di contestazioni intellettuali o ideologiche. Dopo oltre settant’anni di pace, l’Europa è teatro di due guerre: all’interno del suo perimetro, in Ucraina; ai suoi confini, in Israele. Da questa parte del mondo, la speranza della “pace perpetua”, incoraggiata dalla fine della Seconda guerra mondiale, è davvero giunta al termine? Il dramma in Israele non è ai “confini” dell’Europa, perché è dominato dalla consapevolezza europea della responsabilità per l’Olocausto. Sappiamo che l’idea della pace perpetua, se mai è esistita, è un’illusione. Quel che è vero è che, dalla fine della Seconda guerra mondiale, grazie alla protezione dell’esercito americano, l’Europa ha conosciuto decenni di pace e opulenza senza pari. Grazie alla Nato… Le giovani generazioni sembrano aver dimenticato che la storia è tragica e che la pace è un miracolo che va difeso. Un’idea che, solo pochi anni fa, ci sembrava quasi distopica non lo è più: è possibile che ci sia una guerra europea “di tanto in tanto”. Nella storia europea recente ci sono stati dunque errori catastrofici? Quali? La struttura e l’espansione della Nato? Quella dell’Unione europea? La caduta dell’URSS e il crollo del muro di Berlino? Le conseguenze del colonialismo? Lungi dall’essere “errori”, la creazione della Nato e la volontà delle istituzioni europee di avvicinare i popoli hanno permesso all’Europa democratica di “contenere” la pressione dell’impero sovietico, che si è disintegrato spontaneamente alla fine del secolo scorso. Il nostro errore è stato quello di pensare di aver “vinto” senza sforzo e di smobilitare la volontà politica dei Paesi democratici. Davamo per scontata la pace in Europa e non capivamo che la pace era un miracolo e che bisognava continuare a lavorarci se volevamo che continuasse. Da qui lo stupore per l’invasione russa dell’Ucraina. Il paradigma democratico - tema al quale lei ha dedicato numerosi libri e interventi - è visibilmente in affanno. La tendenza è verso il cambiamento o l’indebolimento della democrazia? In tutti i paesi si parla il linguaggio della democrazia. Anche i regimi che erano soggetti al totalitario dominio sovietico sostenevano di essere “democratici”. Ricordiamoci la Ddr… Ma da ciò non si può dedurre che siano democratici. Le elezioni spesso rimangono, ma non sono sufficienti a garantire una democrazia adeguata se le libertà civili non vengono rispettate. Se ammettiamo che non c’è democrazia senza libertà civili, i paesi democratici non sono più tanto numerosi e sono sulla difensiva. Dopo la caduta del muro di Berlino, era impossibile non integrare all’Unione europea le vecchie democrazie popolari che mostravano il desiderio di aderirvi, ma non avevano imparato le pratiche democratiche e si sentivano disprezzate dall’“Occidente”. Anche la nozione di divisione dei poteri sembra avere difficoltà. In Ungheria, il governo modifica le leggi per intervenire sul sistema giudiziario, sulla Corte costituzionale e sulle università. In Italia sono annunciate riforme costituzionali volte a ridurre i poteri del Capo dello Stato e del parlamento. Quali prospettive ha la Francia da questo punto di vista? Anche nelle democrazie più antiche come la Francia o l’Italia, che in linea di principio sono stabilizzate, c’è una tendenza all’indebolimento e alla progressiva ignoranza delle regole della pratica democratica. In particolare, verso la confusione degli ordini - il politico e il giudiziario, il pubblico e il privato - che mi sembra minacci al cuore le nostre democrazie, anche se il fenomeno è meno netto nei nostri paesi che in Ungheria o in Polonia, dove il governo cambia la Costituzione quando la Corte suprema prende decisioni contrarie al suo progetto. Tra i “temi del nostro tempo” sono senza dubbio l’islamismo radicale e la sua deriva terroristica, l’antioccidentalismo e l’antisemitismo. All’interno dell’Ue, la Francia sta vivendo questi fenomeni con particolare violenza. Perché proprio in Francia? La Francia è un ex paese colonizzatore e non ha lasciato le sue ex colonie con l’eleganza del Regno Unito. La guerra d’Algeria continua a pesare sulla coscienza collettiva. La Francia ha la popolazione ebraica (da 500.000 a 600.000 persone) e la popolazione di tradizione musulmana (dieci volte di più) più numerose d’Europa. Ora, il problema ebraico ha una risonanza incomparabile a causa del passato. Inoltre, il mio è un Paese molto politico, che pretende di incarnare la modernità politica a partire dalla Rivoluzione del 1789, che si vanta di aver svolto un ruolo importante nella vittoria del 1945 e di continuare a sostenere i principi della modernità politica. Pretende che nel mondo la sua voce sia incomparabile. In nome della laicità, difende più degli altri paesi europei il principio della separazione tra politica e religione, che è specifico della democrazia e direttamente contraddittorio con la sharia islamista. È per questo che gli attacchi dei nemici della democrazia si cristallizzano e concentrano sulla Francia. Il governo italiano ha appena scoperto che, oltre ai tre ben noti poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario), ce n’è un altro, quello culturale: gli enti radiotelevisivi, i giornali, le biblioteche, i musei, i centri cinematografici, i premi letterari e di altro tipo, le grandi mostre e i festival, ecc. La destra sta pian piano prendendo il sopravvento su tutto, e anche il concorso di Miss Italia, che aveva in giuria un noto rappresentante di Forza Italia, è stato vinto dalla figlia di un seNatore della Lega! Da questo punto di vista, la Francia è più protetta? Quello che è noto come soft power, il potere attraverso le idee e le immagini, è un fenomeno globale. È legato al favoloso progresso dell’informatica, ma porta con sé il grande pericolo di diffondere forme di menzogna e complottismi che contribuiscono più all’imbarbarimento della gente che alla diffusione di una cultura comune. Favorisce anche la convinzione che, senza neppur considerare la creazione del pensiero e delle opere di cultura, non sia più necessario fare sforzo alcuno per pensare e giudicare con la propria testa. Tuttavia, la temporanea superiorità dell’Europa a partire dal Secolo XVIII era dovuta alla razionalità e all’applicazione dei principi dell’Illuminismo alla vita collettiva. Se i democratici non vogliono più conformarsi alla razionalità nel pensiero e nel comportamento, e se non mostrano più la volontà politica di affermare e difendere i loro valori, il loro destino sarà tragico. Medio Oriente. Quel che resta di Gaza di Francesco Semprini La Stampa, 29 novembre 2023 Della parte Nord della Striscia non rimangono che macerie e gli aiuti umanitari non riescono a raggiungere i civili rimasti. La Croce Rossa: “Distruzione totale. Manca ormai tutto, i palestinesi dormono nelle case diroccate”. Quando chiediamo a Suor Nabila Saleh di descriverci la situazione a Gaza lei risponde inviando una decina di foto, ritratti di macerie, distruzione, desolazione. Suggeriscono che si sia oltrepassato il punto di non ritorno. Suor Nabila è di origine egiziana e vive le sue giornate nella parrocchia della Santa Famiglia, Gaza City, a Nord di Zeitun, con tutta la comunità cristiana rimasta. La comunicazione è complicata, su WhatsApp parlare è impossibile, arrivano solo mezze frasi scritte, che da sole descrivono impietose quel girone infernale. “La situazione è molto difficile, è tutto distrutto, non è rimasto nulla, vivere è un’impresa, per ora gli aiuti non arrivano da noi, c’è un solo supermercato con un po’ di generi di sussistenza”, ci dice. Poi più nulla, il calar del sole spazza via anche l’ultimo filo di connessione. Lo scenario descritto nelle foto di Suor Nabila Saleh è lo stesso che si intravede dalla collinetta di Sderot, in territorio israeliano, distante in linea d’aria 1,3 chilometri dalla Striscia. Distruzione a perdita d’occhio, arginata dalle onde del Mar Mediterraneo. “Stiamo assistendo a una tragedia umana insopportabile. Nonostante il silenzio bellico, per la prima volta da settimane, i bisogni umanitari permangono - spiega a La Stampa il Comitato Internazionale della Croce Rossa -. Alle persone mancano i beni di prima necessità, il minimo indispensabile per sopravvivere. Gli aiuti distribuiti non sono sufficienti per rispondere alle esigenze di centinaia di migliaia di persone che hanno un disperato bisogno di assistenza. Il clima sta diventando più freddo e la gente vive in tende senza letti, senza cuscini, senza coperte. Molti non hanno una casa, sono stati separati dai membri della famiglia. Le nostre équipe chirurgiche segnalano afflussi di persone - organizzati o spontanei - che necessitano di cure mediche urgenti, ma non ci sono né le forniture né il personale in grado di rispondere a queste emergenze. Cibo e acqua sono molto scarsi, si pensa solo a sopravvivere, non c’è capacità di guardare al futuro”. Oltre a questo, secondo Hamas, più di 14.800 palestinesi, la maggior parte donne e bambini, sono stati uccisi nel corso dell’offensiva israeliana a Gaza. Il numero - spiegano alcuni osservatori internazionali - oltre a dover trovare riscontri oggettivi, non distingue tra civili e combattenti. Sono state invece 1.200 le vittime degli attacchi terroristici del 7 ottobre. Al di là di ciò, il seppur traballante cessate il fuoco tra Israele e Hamas ha permesso ad un’ondata di aiuti di raggiungere la Striscia, 200 camion al giorno, anche se per le organizzazioni umanitarie i convogli non sono nemmeno lontanamente sufficienti per rispondere ai bisogni dei due milioni di persone presenti ancora a Gaza. I convogli includono consegne di carburante ai generatori di energia nelle strutture, compresi gli ospedali. La Striscia non ha avuto una fornitura regolare di luce da quando la sua unica centrale elettrica è stata spenta l’11 ottobre. Secondo il Wall Street Journal, il numero di camion è ancora inferiore alla metà della media giornaliera che entrava prima della guerra. Così gli abitanti bruciano porte, mobilio e mucchi di spazzatura per cucinare, dormono stipati nelle aule scolastiche e nelle case di sconosciuti, prendono d’assalto i camion che portano aiuti dall’Egitto in una disperata ricerca di provviste. La tregua ha quanto meno dato la possibilità di seppellire i morti. Nel frattempo, 1,7 milioni di persone sono sfollate, la maggior parte stipate nella porzione meridionale della Striscia, falciata a metà dall’artiglieria israeliana. Tra i problemi che aggravano la crisi c’è il blocco dell’economia e l’aumento dei prezzi: la stagflazione bellica. La situazione nel Nord, compresa Gaza City, è particolarmente disperata. “I membri della nostra squadra si sono recati nell’area settentrionale qualche giorno fa e riferiscono che il livello di distruzione è indescrivibile. Ci sono persone che vivono ancora lì, ma non sappiamo come riescano a farlo: sono rintanate dentro e attorno alle macerie e agli edifici distrutti - prosegue la Cri -. Il Sud ora ospita centinaia di migliaia di persone in un’area non predisposta a questo. La gente dorme dove può”. Secondo le Nazioni Unite si stima che decine di migliaia di persone, se non centinaia di migliaia, siano rimaste al Nord, molte per stare vicino a parenti malati, feriti o anziani che non potevano muoversi. Altri per paura di non poter tornare nelle loro case. Secondo la Cri, ieri le forze israeliane avrebbero impedito a camion cisterna carichi di carburante di entrare dal valico settentrionale. Mentre nel Sud, cibo e altri beni di prima necessità sono più facilmente disponibili, ma un numero crescente di palestinesi afferma di non potersi permettere l’impennata dei prezzi di farina, verdure, acqua potabile per ottenere i quali a volte restano in fila durante la notte, per non parlare delle attese per accaparrarsi una bombola di gas. “Abbiamo ribadito la necessità di garantire una fornitura continua di aiuti alla Striscia. Le sfide che le persone devono affrontare sono travolgenti, fisicamente, psicologicamente, emotivamente, i bisogni continuano ad aumentare - prosegue la Cri -. Sono necessari articoli di prima necessità come spazzolini da denti e pannolini per bambini, insieme ad articoli più specifici come kit per ferite d’arma e strumenti chirurgici. E ancora cibo e acqua, compresse di cloro per la depurazione dell’acqua, articoli monouso come guanti, garze e acqua salina, sacchi per cadaveri, macchinari pesanti per poter scavare tra le macerie. I bisogni continuano all’infinito e abbracciano ogni aspetto della vita”. Serve il minimo per sopravvivere, perché il futuro è un lusso a cui gli abitanti di Gaza non possono permettersi di pensare: “Stiamo andando verso l’ignoto”. Il punto di non ritorno, forse, è stato davvero superato. Medio Oriente. Stupri di Hamas, crimini contro l’umanità di Greta Privitera Corriere della Sera, 29 novembre 2023 La ong “Physicians for Human Rights Israel” chiede alla Corte penale internazionale di indagare sugli abusi sessuali commessi dai terroristi. E anche noi dovremmo chiedere verità e giustizia. Se tutte e tutti, per la prima volta insieme, “facciamo rumore” contro i femminicidi e la violenza di genere - come ci ha insegnato Elena, la sorella-resistente di Giulia Cecchettin - se uniti condanniamo l’orrore delle bombe e ci stringiamo alle madri di Gaza diventate orfane di quasi seimila figli, che cosa ci frena dal “bruciare tutto” anche per le donne d’Israele violentate e massacrate da Hamas? Il silenzio o la minimizzazione sulla sorte delle ragazze calpestate, stuprate e uccise nella mattanza del 7 ottobre è un’ingiustizia collettiva. Che cosa ci manca per identificarci con le loro famiglie e dire insieme “say her name”, come facciamo per le sorelle palestinesi, iraniane e di tutti gli altri Paesi? Le prove? I racconti? Molte non potranno mai spiegare che cosa è successo ai loro corpi quel sabato mattina. I segni degli stupri e delle sevizie sono raccolti nei referti dei medici forensi che hanno studiato le ferite lasciate dal male. Sono stati analizzati nei video di Hamas pubblicati e poi rimossi, trovati nei racconti di un testimone che, nascosto, vedeva tutto. Forse, va ricordato che cosa è stato scoperto nei kibbutz, o al Nova Festival: donne senza vita e senza indumenti, vagine lacerate, una ragazza che veniva stuprata a turno da uomini in mimetica. Dettagli raccapriccianti, in teoria non necessari. Ma forse sì. Documenti e prove alla mano, “Physicians for Human Rights Israel” - una ong che difende il diritto all’assistenza sanitaria anche dei palestinesi - chiede alla Corte penale internazionale di indagare sugli abusi sessuali commessi da Hamas. Vuole sapere se costituiscono crimini contro l’umanità. Chiede il rilascio di tutti gli ostaggi, soprattutto delle donne, che si trovano ad affrontare una “minaccia continua” di stupro. Il documento dell’ong raccoglie l’orrore di quel 7 ottobre. Non si basa sulle informazioni dei servizi segreti, ma su fonti indipendenti che cercano quella giustizia e quella verità che dovremmo rivendicare anche noi. Medio Oriente. Picchiati e affamati: il racconto degli ex prigionieri di Chiara Cruciati Il Manifesto, 29 novembre 2023 “Dopo il 7 ottobre maltrattamenti indescrivibili”. Cibo da dividere, coperte confiscate, visite sospese e decessi. In quattro giorni 150 liberazioni e 133 nuovi arresti: le carceri non si svuotano mai. Festeggiare era vietato, hanno festeggiato lo stesso. In Cisgiordania nelle strade, a Gerusalemme est nelle case: le 33 donne e i 150 minori palestinesi, prigionieri politici scarcerati finora hanno gioito. Piangendo tra le braccia dei genitori, sventolando la bandiera palestinese per le strade delle loro città. Un modo per dare sfogo alla rabbia individuale di incarcerazioni che in moltissimi casi non si reggevano né su accuse né a processi, e a una collettiva, quella di vedere Gaza massacrata mentre loro tornavano sull’asfalto. Quella gioia le forze di sicurezza israeliane hanno provato a impedirla, lanciando gas lacrimogeni sulle famiglie in attesa fuori dalla prigione di Ofer in Cisgiordania, o a Gerusalemme est compiendo raid nelle case dei detenuti in via di rilascio. Ma i maltrattamenti peggiori sono quelli lontani dalle telecamere, raccontati da chi è uscito. La versione è identica per tutti: dopo il 7 ottobre, condizioni di vita già terribili (lo dicono da decenni i rapporti di organizzazioni locali e internazionali) sono diventate insopportabili. Mohammed Nazal, 18 anni, ha una benda al collo che gli tiene su il braccio rotto. Racconta di un piatto di riso da dividere in dieci prigionieri, di pestaggi subiti e cure mediche negate: “Gli anziani erano lasciati a terra, io riuscivo a sopportarlo ma loro no. Non avevamo materassi né coperte”. Anche Khalil Mohamed Badr al-Zamaira ha 18 anni. È stato rilasciato domenica dopo due anni di prigione: “Due ragazzi sono arrivati da Ofer con le costole fratturate. Non riuscivano a muoversi”. “I maltrattamenti sono indescrivibili”, ha raccontato un altro ragazzino, Omar al-Atshan. Lui era detenuto nel famigerato carcere del Naqab: “Le botte erano la routine. Acqua e cibo erano scarsi”. Li hanno picchiati, aggiunge, anche il giorno del rilascio. Racconta anche di un decesso nel suo carcere, Thaer Abu Asab, uno dei cinque uccisi dietro le sbarre dal 7 ottobre: “Aveva solo chiesto a una guardia se c’era la tregua. Lo hanno picchiato a morte. Abbiamo gridato aiuto, ma i dottori sono arrivati un’ora e mezza dopo. Era già morto”. Osama Marmash, 16 anni, ad al Jazeera racconta di altri decessi per torture, stavolta a Megiddo. Lui stesso è ferito ai piedi e alla schiena. Prove giungono anche dai video “scappati” di mano ai soldati e girati sui social: detenuti spogliati, con le mani legate e la benda sugli occhi, umiliati e pestati. Tutti dicono lo stesso: pochissimo cibo, nessuna cura medica. Le regole sono cambiate: due pasti al giorno non tre (uova e cetrioli) non sufficienti per tutti ma da dividere, celle sovraffollate per contenere il doppio o il triplo dei detenuti, ritiro delle coperte e di molti materassi. E ancora visite mediche e familiari sospese. Sospese pure le comunicazioni: a chi è stata rinnovata la detenzione amministrativa (custodia senza processo) non lo ha nemmeno saputo. “Dopo il 7 ottobre, venivano ogni giorno a picchiarci, ci trattavano come i cani”, il racconto di Ghannam Abu Ghannam a SkyNews. Minorenne, arrestato un anno fa per lancio di pietre ma mai processato, è tornato a casa nel quartiere gerusalemita di Silwan. Ha abbracciato forte la madre. Nessuna festa per lui. Come non lo è per i 133 palestinesi di Cisgiordania e Gerusalemme che sono stati arrestati nei primi quattro giorni di tregua: “Finché ci sarà occupazione, gli arresti non cesseranno, è una politica centrale dell’occupazione”, dice Amany Sarahneh, la portavoce del Palestinian Prisoners Society. Le carceri non si svuotano mai. Lo dice la lista dei 30 palestinesi rilasciati ieri: una è la giornalista Marwat al-Azza, di Gerusalemme. Era stata incriminata il giorno prima. Per molti lo scambio è solo una presa in giro.