“Ristetti Orizzonti”, il giornale scritto dai detenuti compie 25 anni di Madeleine Palpella Il Gazzettino, 28 novembre 2023 All’anniversario anche Lucia Annibali sfregiata con l’acido nel 2013 da due uomini mandati dal suo ex fidanzato. Compie venticinque anni la redazione di “Ristetti Orizzonti”. La rivista, redatta dai detenuti, della casa di reclusione Due Palazzi ha come obiettivo raccontare ciò che avviene dentro le mura del carcere in un’ottica diversa dalla visione alla cronaca. Per l’occasione, nella mattinata di ieri, si è svolto un convegno dal titolo “Le narrazioni del male che fanno bene alla società”. “Ristretti Orizzonti è la storia di un tavolo dove dal 1998 discutiamo e ci confrontiamo su qualsiasi cosa - spiega Ornella Favero, direttrice del giornale - Questo giornale ha lo scopo di fare da ponte con la società per arrivare a chi sta fuori. In redazione ci sono trenta persone. Si lavora molto anche con le scuole per fare prevenzione tramite le testimonianze dei detenuti. Molte storie sono difficili, vedere giovani detenuti mi stringe il cuore, io non li considero come “fallimenti”, ma come “cadute” che hanno avuto nel loro percorso”. Per l’occasione erano presenti anche il sottosegretario alla giustizia Andrea Ostellari, il prefetto Francesco Messina, gli europarlamentari Paola Ghidoni e Sabrina Pignedoli, ma anche le assessore Margherita Colonnello e Francesca Benciolini. “Il nostro obiettivo è dare una seconda possibilità - sottolinea Ostellari - Rieducare e investire nella nostra società per diminuire la recidiva. Questo, però, non è facile ed è un dato di fatto che gli istituti sono sovraffollati, mancano unità, psicologi e sanitari. La via della rieducazione tramite strumenti di: formazione, informazione e lavoro. Il 98% di chi impara un mestiere in carcere quando esce non ha più a che fare con il circuito criminale”. Durante l’incontro erano presenti anche le vittime, coloro che hanno vissuto sulla propria pelle i drammi personali e famigliari e che hanno voluto “spezzare la catena del male” entrando in prima persona in carcere e incontrando persone detenute. Tra le presenti anche: Benedetta Tobagi, Lucia Annibali, Agnese Moro e Fiammetta Borsellino. “Noi vittime abbiamo vissuto dei dolori irreparabili - spiega Annibali -. Subito dopo l’aggressione con l’acido che ho subito, ho iniziato a farmi molte domande nei lunghi mesi di convalescenza e sono arrivato anche i sensi di colpa. Ho infine compreso che quello che mi è successo, appartiene alla persona che lo ha voluto per me. Ho fatto pace con me stessa, mi sono ricostruita pezzo dopo pezzo e ho imparato di nuovo prendendomi cura di me stessa”. “Le narrazioni del male fanno bene alla società”. I racconti delle vittime al carcere Due Palazzi di Sara Busato Corriere del Veneto, 28 novembre 2023 Raccontare l’inenarrabile. È la sfida che da venticinque anni affronta la redazione di Ristretti Orizzonti, la rivista della casa di reclusione Due Palazzi. Correggere l’irreparabile, raccontandolo. Storie che nessuno vorrebbe conoscere e che non trovano ascolto all’esterno e che spesso ritenute non degne di essere raccontate. Per l’occasione ieri mattina un incontro con alcune delle vittime che hanno scelto di entrare in carcere per “spezzare la catena del male” e incontrare chi ha compiuto reati. Come è accaduto a Benedetta Tobagi e a Silvia Giralucci. Erano bambine quando le Brigate Rosse uccisero loro il padre. La voglia di confrontarsi, di parlare, di far capire che una sofferenza così trova tregua le ha portate in carcere. “Il progetto è rivoluzionario - commenta Tobagi - perché accompagna un percorso di cambiamento attraverso la piena assunzione della responsabilità come persona”. Narrazioni del male fatte da persone che hanno accettato di mettersi in dialogo e riconoscere l’umanità dell’altro. “Il riconoscimento del dolore, il vedere che la mia storia stava producendo degli effetti, dei cambiamenti ha trasformato la mia sofferenza - racconta commossa Silvia Giralucci - Quello che aiuta una vittima a uscire dal suo ergastolo di vittima è che la società si faccia carico del suo dolore e lo riconosca e consenta di raccontare anche una storia che è difficile da sopportare”. E l’accettazione passa anche dalla consapevolezza delle parole “Non sono responsabile della morte di una guardia giurata - analizza un detenuto - ma ho ucciso una guardia. Se non dico quello che ho commesso è difficile prenderne coscienza”. Il suo volto sfigurato dall’acido e ricostruito, faticosamente, come la sua vita. Dopo un calvario di operazioni e anni di ospedali, Lucia Annibali ha deciso di dedicare la sua vita alla battaglia contro la violenza sulle donne. “La storia di Giulia Cecchettin, dimostra ancora una volta, che queste sono vicende che non hanno mai una fine, la storia si ripete”, commenta l’avvocato. “Bisogna lavorare sul piano del linguaggio che responsabilizza. Ora c’è bisogno di silenzio e terminare di raccontare con morbosità ogni passo della vicenda”. Ci sono progetti che durano nel tempo e che possono fare la differenza come “A scuola di libertà”. Ogni anno la redazione incontra decine di classi padovane per far toccare con mano le conseguenze di certe azioni, ma soprattutto mettere a disposizione le storie delle persone. “In carcere ci sono pezzi di umanità - sottolinea Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti - Non credo alla parola fallimento. Queste persone convivono con le cadute e gli inciampi. Riconoscere l’umanità nell’altro è qualcosa di straordinario”. Comunicare e raccontare per dare maggiore consapevolezza all’atrocità del male e dall’altra dare un senso alla propria storia di vittime del male. “Sovraffollamento a livelli pre-Covid. Servono strutture diverse dal carcere” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 28 novembre 2023 L’allarme del Garante dei detenuti. A fine mandato Mauro Palma, 75 anni, Garante nazionale delle persone private della libertà dal febbraio 2016. Sta per lasciare l’incarico dopo quasi 8 anni. Seduto alla scrivania che sta per lasciare dopo quasi otto anni di mandato, il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma guarda il computer e legge: “Stamattina siamo a 59-954 detenuti, a fronte di 47-546 posti disponibili. Ormai il sovraffollamento è tornato ai livelli allarmanti del periodo pre-pandemia. Ma c’è un altro dato numerico che mi preoccupa”. Quale? “Il ritmo di crescita. Un mese fa i detenuti erano 59.508, il 4 settembre 58.491: in meno di tre mesi sono aumentati di quasi 1.500. Con queste cifre si raggiungeranno presto livelli di sovraffollamento difficilmente sostenibili”. Lei, matematico di formazione, dà molto peso ai numeri. Ma se i detenuti aumentano, non sarebbe sufficiente costruire nuove prigioni e rendere disponibili i quasi 4.000 posti che oggi non lo sono? “No, perché dietro ai numeri si nascondono questioni che hanno a che fare con la funzione del carcere e i diritti dei reclusi. Dei quasi 60.000 di oggi, 1.486 hanno una condanna inferiore a un anno, e 2.926 inferiore a due anni. Per loro il carcere non può fare niente, perché in un periodo così breve nessun percorso educativo o di socializzazione è possibile. Sono vite a perdere, mentre la pena rieducativa prevista dalla Costituzione è un diritto dei detenuti. In questi casi negato”. Ma rimetterli fuori non è un rischio per il diritto alla sicurezza degli altri cittadini? “Io non dico di rimetterli fuori, dico che è inutile tenerli in carcere. E pure rischioso, perché entro breve tempo torneranno comunque liberi per fine pena e in questa situazione è quasi certo che ricominceranno a commettere reati, visto che sono per lo più persone senza fissa dimora e prive di qualunque sostegno. Penso che sarebbe meglio prevedere per loro strutture diverse dal carcere”. Il ministro della Giustizia ha proposto l’utilizzo delle caserme. Lei è d’accordo? “Non credo che le caserme siano le strutture migliori, soprattutto per dimensioni e logica architettonica. Tuttavia è da coltivare l’idea di sfruttare luoghi di proprietà dello Stato per dare risposte diverse dal carcere a reati di scarso allarme sociale. Strutture piccole, legate al territorio, dove il tempo di privazione della libertà non sia un semplice spazio vuoto che finisce inevitabilmente per aumentare l’aggressività”. È recentissimo il caso dei due detenuti che hanno ridotto in fin di vita un terzo, Alberto Scagni. Da che cosa dipendono le tensioni interne al carcere, che sfociano in aggressioni, rivolte e suicidi? “Il carcere è uno specchio deformante della società, che ne riflette e ingigantisce alcune caratteristiche. Le tensioni che si registrano all’interno degli istituti ripropongono quelle esterne frutto di emarginazione, povertà, speranze negate. La percentuale dei suicidi, molto più alta dentro che fuori, è la conseguenza di situazioni comuni che all’interno di una cella diventano ancor più deflagranti. Quanto al “caso Scagni”, lo considero un episodio molto grave, con diversi aspetti ancora da chiarire, nel quale uno dei due aggressori era già stato protagonista di episodi analoghi”. Il governo ha appena varato un nuovo “pacchetto sicurezza” che aumenta reati e pene, comprese quelle da scontare per le donne in gravidanza o con bambini piccoli. Che ne pensa? “Penso che siano norme-bandiera che non aumenteranno la sicurezza dei cittadini, dal valore più simbolico che pratico. Ancora una volta si dà una risposta penale a problemi sociali, com’è avvenuto per i genitori che non mandano i figli a scuola, ma è difficile immaginare di finire in galera per un blocco stradale o per aver imbrattato un monumento. Piuttosto mi preoccupano le nuove ipotesi di reato studiate per i detenuti, come la partecipazione a una protesta che sfocia in rivolta senza che ne siano ben definiti i contorni, perché si rischia di alimentare il circolo vizioso della reclusione che crea reclusione. Così come mi preoccupa la situazione nei Centri di rimpatrio per i migranti”. Che cosa non va nei Cpr? “In un anno siamo già a 4 Decreti sulla stessa materia, e dopo che era già avvenuto quando al Viminale c’erano Roberto Maroni e Matteo Salvini, per la terza volta s’è riportato il periodo massimo di permanenza a 18 mesi. Senza che questo abbia determinato un aumento dei rimpatri, che restano pochi. L’unico risultato è allungare una privazione della libertà dove l’unico controllo è quello del Garante perché non c’è la vigilanza di un giudice. Tutto ciò non fa che aumentare il rischio di nuovi reati: dentro i Cpr e fuori, quando i non rimpatriati torneranno in circolazione”. Come giudica l’accordo con l’Albania per trasferire lì una quota di migranti raccolti da navi italiane, in attesa che si definisca la loro posizione? “Aspettiamo di vedere i dettagli di un accordo dagli aspetti tecnici difficilmente risolvibili, che avrà costi altissimi per l’Italia; basti pensare all’applicazione della nostra giurisdizione in terra straniera e al conseguente viavai di giudici, avvocati, esperti, poliziotti. Mi pare la previsione di uno sforzo enorme con l’unico scopo di tenere lontano dalla vista degli italiani poche migliaia di migranti che in buona parte, prima o dopo, dovranno tornare in Italia”. Che consigli si sente di dare al Garante che sta per subentrarle? “Data per scontata l’indipendenza, dal potere politico come dalle associazioni che operano nel settore, spero che mantenga l’ampiezza del mandato, non confinato alle prigioni ma esteso a tutti i luoghi di privazione della libertà, e il mantenimento di un ruolo di elaborazione culturale, oltre che di controllo. Soprattutto in un contesto in cui esponenti politici usano con disinvoltura espressioni come “marcire in galera” o un sottosegretario si vanta di visitare un istituto non per incontrare i detenuti ma solo gli agenti penitenziari”. Che pure hanno i loro diritti, e sono costantemente sotto organico… “Certo, e svolgono un lavoro importantissimo. Ma il potere politico dev’essere il primo garante della potestà pubblica di privazione della libertà, ed è difficile svolgere questo compito senza incontrare le persone recluse”. Nuovi suicidi, cresce il disagio mentale. “Il carcere è un pianeta dimenticato” di Fulvio Fulvi Avvenire, 28 novembre 2023 Altre due morti “silenziose” dietro le sbarre e detenuti don gravi disturbi psichici totalmente abbandonati a se stessi, in carceri sovraffollate dove mancano i servizi di supporto clinico, psicologico e umano. E così è successo che Alberto Scagni, 43 anni, dichiarato seminfermo di mente, la sera del 22 novembre nella Casa circondariale di Sanremo sia stato sequestrato e massacrato da due compagni di cella che a colpi di sgabello, a calci e a pugni gli hanno sfondato le ossa del viso e la trachea fino quasi a ucciderlo. Aveva subito un’aggressione due mesi prima anche a Genova-Marassi, da dove era stato trasferito per essere portato nella “più sicura” struttura nella provincia di Imperia. La madre dell’uomo, condannato a 24 anni e 6 mesi per aver ammazzato la sorella Alice l’11 maggio del 2022, ieri in un’intervista su Radio24 ha accusato chi doveva gestire la vicenda di suo figlio di averlo invece lasciato solo pur sapendo della sua fragilità: “Se a suo tempo fosse stato sottoposto a Tso forse non avrebbe ucciso la sorella - ha detto Antonella Zarri - lui non è un detenuto qualunque e le autorità conoscevano il suo grave stato di salute mentale: doveva essere controllato a vista”. Ma così non sarebbe avvenuto. “Ora lo Stato ci deve delle risposte” ha concluso la donna. E negli ultimi giorni altri due detenuti, in preda a disperazione e solitudine e in evidenti condizioni di disagio psicologico, si sono tolti la vita facendo salire così il numero dei suicidi nei 189 istituti di pena italiani a 64 dall’inizio dell’anno. A Verona Montorio, dove era recluso da tre settimane per aver aggredito la convivente, il 34enne Giovanni Polin domenica sera si è impiccato con un lenzuolo. Era in attesa di giudizio. Per lui il gip aveva disposto il processo immediato una settimana prima della tragedia. Nella struttura penitenziaria della città scaligera (dove peraltro sono rinchiusi anche Filippo Turetta, il presunto assassino di Giulia Cecchettin e Benno Neumair condannato all’ergastolo per aver strangolato i genitori a Bolzano) è il terzo caso di suicidio in tre mesi. Qui la tensione è ogni giorno alle stelle, con disordini e violenze, come denunciano i sindacati degli agenti, vittime di frequenti aggressioni: su una capienza massima di 335 detenuti, a Montorio ne sono stipati 550. l’altro suicidio è avvenuto giovedì nel carcere di Parma, dove sono ospitati 700 reclusi sui 500 previsti dal regolamento: la vittima è un ivoriano di 47 anni, finito dentro per furti e rapine, trasferito prima da Milano-San Vittore a Modena e, dal 31 ottobre scorso, nel carcere parmense dove sarebbe dovuto rimanere a scontare la pena fino al 2026. Nei mesi precedenti aveva commesso gravi atti di autolesionismo e doveva essere preso in carico dall’unità locale per la prevenzione dei suicidi. Ma, per ragioni burocratiche, non c’è stato il tempo. “Era una persona attenzionata dal personale di vigilanza e sanitario ma ogni giorno, dopo le 16 e fino alle 7 non sono previsti turni degli addetti al servizio psichiatrico o dei volontari, e quindi alle 21 il 47enne della Costa d’Avorio è ripiombato nello sconforto più profondo e si è ucciso”, denuncia Roberto Cavalieri, Garante regionale delle persone private della libertà dell’Emilia-Romagna, regione nella quale, però, la situazione, dal punto di vista dell’assistenza medica ai detenuti è tra le migliori, anche per la presenza di centri clinici dedicati: “Si spendono 20 milioni di euro l’anno, metà dei quali di provenienza statale, per garantire le cure ai circa 7mila reclusi (tra i 3.500 stanziali) che transitano ogni anno nelle 10 strutture detentive del territorio regionale” osserva Cavalieri. Ma il problema dei detenuti con patologie psichiatriche, a livello nazionale ha proporzioni allarmanti: secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, nel 2022 il 40% dei reclusi, cioè circa 25mila, è sottoposto a terapie specifiche, in particolare farmacologiche. Il fenomeno però è complesso. “Negli ultimi 10 anni l’utenza delle nostre carceri è radicalmente cambiata - spiega il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari. Molti detenuti assumono ansiolitici, presentano gravi forme di morbilità collegate anche alla dipendenza da sostante stupefacenti e a sindromi psichiatriche non sempre diagnosticate. Almeno la metà delle aggressioni ai danni degli agenti e del personale avviene durante gli spostamenti fra carcere e strutture sanitarie esterne”. Per far fronte a queste criticità, insieme al capo Dap, Giovanni Russo, Ostellari ha chiesto al ministro della Salute Orazio Schillaci di attivare una cabina di regia operativa sulla sanità penitenziaria. Intanto, nelle carceri, continuano le violenze. A Teramo e a Sollicciano-Firenze, ieri, ennesime aggressioni ad agenti penitenziari da parte di detenuti: uno ha rischiato di essere strangolato, l’altro è stato preso a pugni e mandato all’ospedale. Nessuno incarceri il bambino di Ilaria Dioguardi vita.it, 28 novembre 2023 Il consiglio dei Ministri ha approvato tre disegni di legge che costituiscono il nuovo pacchetto sicurezza. Tra le misure annunciate, la detenzione per le donne incinte e per le madri con figli piccoli. “Il governo si attacca a dei fatti di cronaca, che riguarda poche centinaia di donne rom, aboliscono una norma che era presente perfino nel Codice Rocco. Qui si mettono in gioco i diritti dei minori e si fa un provvedimento contro un’etnia”, dice Rita Bernardini, ex deputata, presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino. Nel nuovo pacchetto sicurezza, approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 16 novembre, si prevede l’introduzione di “un regime più articolato per l’esecuzione della pena”, con l’eliminazione del rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena per le donne incinte e le madri di bambini di meno di un anno di età, prevedendo la loro detenzione negli Istituti a custodia attenuata per detenute madri, Icam. Che, però, in Italia sono solo quattro: a Lauro, Venezia, Milano e Torino. “Il mio giudizio generale sul pacchetto sicurezza è estremamente negativo”, afferma Rita Bernardini, già parlamentare, presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino. Bernardini, perché considera il pacchetto sicurezza estremamente negativo? Si continuano a prevedere nuove fattispecie di reato, in Italia ne abbiamo migliaia, continuano a sfornarne a ritmo impressionante, quando ci si può avvalere di tutte le altre già esistenti. Si inventano nuovi reati, la tecnica è quella di aumentare le pene agganciandosi quasi sempre a fatti di cronaca, dove l’emozione della gente è più forte perché si immedesima nelle vittime. Per esempio, questo provvedimento che riguarda le donne incinte, è partito da una trasmissione televisiva (Striscia la Notizia, ndr) che ha fatto vedere le borseggiatrici rom di Milano, questi filmati sono stati trasmessi in tutti i telegiornali. Il provvedimento del governo è stato fatto contro un’etnia, i rom. Il fatto è gravissimo anche sotto questo aspetto. Rita Bernardini, foto di Remo Casilli/Agenzia Sintesi Può spiegarci meglio? Anche se non è stato scritto nel provvedimento, è stato fatto riferimento a quei casi. Anziché affrontare i problemi cercando di risolverli, il governo si accanisce addirittura contro un’etnia. Non dimentichiamoci che l’Italia non ha mai voluto approvare la legge che riconosca la minoranza etnico-linguistica rom, per valorizzare anche tutti gli aspetti culturali dell’etnia romani, che comprende i rom, i sinti e i camminanti. Noi abbiamo fatto dei tentativi, anche con Marco Pannella, ma non l’hanno mai voluta riconoscere. Sarebbe importante anche per gli aspetti linguistici, la lingua via via si sta perdendo. Il governo si attacca a dei fatti di cronaca, che riguarda poche centinaia di donne rom, aboliscono una norma che era presente perfino nel codice Rocco (1930, ndr), dove era previsto il rinvio obbligatorio in caso di donna incinta perché si tutelava il più debole, soprattutto il bambino in modo che potesse nascere nell’ambiente familiare, con tutte le assistenze. Qui si mettono in gioco i diritti dei minori. Per quanto si dica, nel provvedimento, che si delega la responsabilità al magistrato (così è quest’ultimo che prende la decisione di mandare i bambini in istituto penitenziario), non si tengono in considerazione i diritti dei minori che, anche secondo la Corte costituzionale che si è espressa anche recentemente, devono essere messi davanti a tutto. La stretta del governo è in nome di una presunta esigenza di sicurezza pubblica... Sì, che è alimentata dal governo stesso. Mentre non vengono prese decisioni importanti in merito a questioni che, eppure, sono state approvate. Ad esempio? Si dovrebbero aumentare le case famiglia protette, dove una donna potrebbe stare in un ambiente più familiare e dove si potrebbe veramente aiutarle ad uscire da una situazione di degrado, di povertà. Invece si fa un provvedimento contro un’etnia, in uno Stato di diritto non si può leggere una notizia del genere. Possibile che in Italia non riusciamo a risolvere il problema di poche decine di persone? Evidentemente non lo si vuole fare. Nel pacchetto sicurezza, sempre in tema di carceri, ci sono altri provvedimenti che l’hanno colpita? Sì, il fatto che si prevede il reato di rivolta in carcere. Durante la fase acuta del Covid ci sono state quelle quattro-cinque rivolte importanti nelle carceri, in cui si è fatto uso di violenza, si sono anche distrutte suppellettili. Ciò è successo anche per come è stato comunicato il fatto che i detenuti non avrebbero più potuto vedere i propri familiari. Lì c’è stato un errore da parte dell’amministrazione penitenziaria che, da un giorno all’altro, gliel’ha comunicato. Con la paura della pandemia, i detenuti si sono sentiti come dei topi in trappola. Chi ha partecipato alla rivolta, ha subito un processo, è stato punito. Le leggi già ci sono. Prevedere il reato di rivolta in carcere è voler far vedere che si usa il pugno forte. Quello che è più grave è che si parla di rivolta in carcere” per chi “usi atti di violenza o minaccia”, con una pena equiparata (si prevede una sanzione di 8 anni, ndr) a quella di chi pratichi la “resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti”. Per quanto riguarda la resistenza passiva, a me è venuto in mente quando, nel 2016, abbiamo organizzato quella grande iniziativa non violenta alla quale parteciparono 20mila detenuti in tutte le carceri italiane. Facemmo il satyaagraha (fermezza, agraha, nella verità, satya, ndr), lo sciopero della fame, nelle carceri, in vista della marcia dell’amnistia che dedicammo a Marco Pannella e a papa Francesco: il papa aveva indetto il Giubileo dei carcerati. Sputare su iniziative non violente mette veramente paura. Purtroppo non è stato varato nessun provvedimento utile, dimostrando disinteresse nell’uso del metodo non violento: si preferisce l’uso della violenza piuttosto che la partecipazione non violenta. È molto grave, secondo me. Dobbiamo renderci conto tutti, anche chi è al governo (e se non ne sono consapevoli, dovrebbero rendersene conto), che molte carceri non sono legali, non rispettano la legge. In cosa le carceri non sono legali, non rispettano la legge? In quasi nessun carcere esiste un regolamento, che è obbligatorio. Non viene nemmeno consegnato, come c’è scritto nell’ordinamento penitenziario, ai detenuti. Questi ordini che vengono dati, bisogna vedere che consistenza legale hanno, visto che una persona non può interpellarsi a un regolamento che regola la vita interna dell’istituto e che comprende i suoi doveri di detenuto, ma anche i suoi diritti. Che vengono costantemente violati. L’atmosfera è veramente preoccupante. Anche sul tema delle telefonate ai detenuti, il ministro della Giustizia Carlo Nordio era intervenuto ad agosto con un messaggio alla comunità giudiziaria in cui, a seguito dei suicidi di due donne in carcere, aveva promesso che avrebbe aumentato il numero di telefonate che i detenuti possono fare. Attualmente, i detenuti possono effettuare una telefonata a settimana (quindi, quattro o cinque al mese). La proposta fatta è di aumentare le telefonate a sei al mese, questo vuol dire un incremento di una-due ogni mese, è ridicolo se pensiamo all’era che stiamo vivendo. Noi stiamo attaccati allo smartphone 24 ore su 24, viviamo sempre collegati e i detenuti riescono a parlare pochissimo con i familiari, penso soprattutto a chi ha i figli piccoli. È una proposta veramente minima, che non risolve quello che ci impone l’ordinamento giudiziario, che afferma che l’amministrazione deve fare tutto per alimentare i rapporti con la famiglia, soprattutto in presenza di figli minori. Poi c’è il problema dei reparti dell’Alta sicurezza. Mentre aumentano, seppure al minimo, le telefonate per chi sta in media sicurezza, per chi è nell’Alta sicurezza resta il diritto a due telefonate al mese. I detenuti non possono usare il servizio di posta elettronica? Dove c’è il servizio di email, i detenuti pagano a foglio. Ma non è previsto in tutta Italia, in tutte le carceri del sud non esiste, nel centro c’è nel Lazio. È facilmente controllabile, non si capisce perché non possano usare questo servizio. Le lettere possono scriverle, ma ci mettono un bel po’ prima di arrivare. L’unica cosa che è stata introdotta (e dobbiamo ringraziare il Covid per questo) sono le videochiamate, ma non dimentichiamoci che sono in sostituzione dei colloqui, non sono contatti in più che vengono offerti. Tra le misure annunciate, ce n’è qualcuna che considera positivamente? L’implementazione del lavoro in carcere. Non è spiegato bene come verrà realizzata, ma è positivo che ci sia. Viene specificato che si intende allargare il rapporto con le imprese dando la possibilità del lavoro esterno al carcere. Le imprese potranno assumere anche attraverso contratti di apprendistato, per coloro che non hanno competenze specifiche. Queste misure sono rivolte a chi è dentro il carcere e a chi ha finito la pena. Com’è la situazione attuale del lavoro in carcere? Attualmente, su 60mila detenuti poco più di 2mila svolgono lavori qualificanti. Altri fanno lavori interni casalinghi. È una minima percentuale, è questa percentuale che dobbiamo significativamente incrementare. Questa dà la possibilità di imparare un lavoro e di farlo quando si finisce la pena e si esce. Se fai lo scopino in carcere non sei professionalizzato, lo sanno fare tutti. I corsi professionali ai detenuti dovrebbero essere fatti dalle regioni, che in genere, nei confronti del carcere, fanno pochissimo. Potrebbero fare molto di più. Voi di Nessuno tocchi Caino pensate a iniziative di mobilitazione, affinché il disegno di legge non prenda copro in Parlamento? Faremo la nostra campagna che si baserà soprattutto sulla non violenza. Noi terremo il congresso di Nessuno tocchi Caino dentro il carcere di Opera di Milano il 14, 15 e 16 dicembre. Non siamo in Parlamento, ma cerchiamo di far valere la nostra voce. Un’iniziativa di Nessuno tocchi Caino è quella di impegnarci per far approvare una proposta di legge sulla liberazione anticipata. Il primo intervento da fare è quello di battere il sovraffollamento perché è illegale. Siamo già stati condannati, il 35% delle celle dei detenuti ha meno di tre metri quadrati per uno (come scritto nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Cedu, ndr). È intollerabile. Gli esponenti del governo fanno tanto i legalisti, poi sono i primi a violare la legge. Ci batteremo, sempre utilizzando il metodo della non violenza. Il caso Zuncheddu e l’assuefazione ai rischi dell’errore giudiziario di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 28 novembre 2023 Dovrebbe provocare gioia la notizia che un innocente, riconosciuto tale dopo una ingiusta condanna, torni in libertà. Ma se gioia si prova, questo sentimento viene immediatamente sopraffatto da altri pensieri e da differenti emozioni, specialmente se quell’uomo, scarcerato mentre è ancora in corso un drammatico processo di revisione davanti alla Corte di Appello di Roma, ha già scontato trentadue anni di reclusione. Una vita intera trascorsa da recluso quella di Beniamino Zancheddu condannato per omicidio. Inevitabile provare infatti anche indignazione nei confronti di una giustizia penale incapace di evitare simili errori (e simili orrori). Pur consapevole della terribilità dello strumento penale e dei danni atroci e irreparabili che può determinare nelle vite degli imputati, il nostro sistema processuale continua a perpetrare una disinvolta assuefazione nei confronti dei rischi dell’errore giudiziario. Anziché salvaguardare con convinta determinazione i pochi e imperfetti strumenti di garanzia e di salvaguardia costituiti dalle impugnazioni, il legislatore si affanna a creare impedimenti e a imporre assurdi formalismi al fine di scoraggiare e di ridurre il numero degli appelli e dei ricorsi, che sono i nostri unici rimedi all’errore e all’ingiustizia. Troppo spesso facciamo del processo penale uno strumento di vendetta sociale. Dimenticando l’errabilità di quello stesso strumento e la presunzione di innocenza, utilizziamo testimonianze incerte, prove tecniche inquinate o errate, procedimenti indiziari di discutibile logicità. Abbassiamo progressivamente e irragionevolmente gli standard probatori e il numero delle garanzie proprio in relazione all’accertamento dei reati più gravi, così accettando che l’errore possa distruggere la vita di un uomo, sottraendogli ciò che nessuno potrà più restituirgli. Evidente che nella vicenda di Beniamino Zancheddu abbia infatti pesato la gravità del reato, un triplice omicidio. Con la conseguente necessità stringente di fare giustizia, la necessità di dare una celere risposta alle comunità e al territorio, le convinzioni degli investigatori che si trasformano in pressione su di un testimone, la pressione che si risolve in un incerto riconoscimento, oggi smentito da quello stesso testimone sopravvissuto. Se simili errori possono anche essere attribuiti al dolo, alla colpa o solo alla incapacità degli uomini, non possiamo non riconoscere che spesso pessime leggi e pessimi ordinamenti giudiziari, si incontrano con quelle incapacità. Basti pensare al numero di ingiuste detenzioni che lo Stato italiano paga per l’incredibilmente alto numero di vittime di cautele ingiustamente inflitte, per renderci conto che abbiamo sostanzialmente deciso di convivere con l’errore, di disinteressarci delle vittime potenziali del processo, del tutto ignorando che ci stiamo consegnando a un sistema nel quale a ogni promessa di sicurezza corrisponde la perdita di una garanzia, a ogni promessa di fare giustizia, corrisponde il rischio di sottrarre ingiustamente la libertà ad un nostro simile. Insomma dobbiamo essere tutti consapevoli che il processo che ci aspetta in futuro, se non invertiamo questa rotta, non mira affatto alla riduzione dell’errore, all’aumento delle garanzie e degli strumenti di controllo sulle decisioni ingiuste, ma alla sola più rapida soluzione dell’affare e allo smaltimento della pratica come richiesto dal Pnrr. *Presidente Unione Camere Penali Giustizia sotto esame: il Cdm dice sì alla valutazione dei magistrati, dietrofront sui test attitudinali di Antonio Bravetti La Stampa, 28 novembre 2023 Pagelle per i magistrati, aggiornate costantemente, ma niente test psico-attitudinali per l’accesso alla professione. Il Consiglio dei ministri ha licenziato ieri le nuove norme in materia di giustizia. “Il governo sta realizzando i progetti di Berlusconi”, esulta Forza Italia. Sullo sfondo restano le polemiche tra Guido Crosetto, che ha puntato il dito contro “l’opposizione giudiziaria”, e l’Associazione nazionale magistrati. “La magistratura qualche volta è entrata a gamba tesa”, concorda il presidente del Senato Ignazio La Russa. “Il ministro non resti nel vago - chiede il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia - se c’è qualcosa da denunciare o da chiarire lo faccia”. Stessa richiesta arriva dalle opposizioni, che invitano il titolare della Difesa a riferire in aula al più presto. “Crosetto chiarisca in Parlamento se ha elementi concreti - attacca Elly Schlein - e se li ha li porti a chi di dovere, altrimenti ritiri quanto ha detto”. Lui manifesta disponibilità: “La mia è una preoccupazione, non un attacco. Voglio riferire in Parlamento”. Intanto, incassa gli applausi di Italia Viva e Azione: “Noi sottoscriviamo le parole del ministro”, fanno sapere dal partito di Carlo Calenda. “Perché Meloni ha bloccato la riforma Nordio?”, chiede Matteo Renzi. Via libera del Cdm alle cosiddette “pagelle” per le toghe. Fino a oggi si raccoglieva ogni quattro anni la documentazione utile per la valutazione del magistrato; ora il fascicolo viene alimentato costantemente con tante voci di valutazione: indipendenza, imparzialità, produttività, laboriosità. Sulla capacità di “organizzare il lavoro”, voce che viene esaminata al momento di concorrere per incarichi direttivi, la valutazione viene espressa secondo una scala di giudizio, da discreto a ottimo. In caso di valutazione non positiva o negativa, sono state ridotte le ipotesi di dispensa dal servizio, con penalizzazioni economiche e di carriera per il magistrato. Non entra invece nel provvedimento, almeno per ora, la norma che introdurrebbe i test psico-attitudinali per i magistrati. L’ipotesi è stata valutata prima del Cdm su sollecitazione del sottosegretario alla Presidenz del Consiglio Alfredo Mantovano, ma, visto il clima, si è preferito rinviare. Intanto, il dibattito sui sospetti lanciati da Crosetto resta incandescente. “Giorgia Meloni guida il governo dei complotti immaginari e dei nemici a tutti i costi, evocati per delegittimare gli altri poteri dello Stato e per non parlare dei tagli alle pensioni e alla sanità di questa manovra”, dice Schlein. Elisabetta Piccolotti, di Avs, invita il cofondatore di Fratelli d’Italia a comparire davanti alla commissione Antimafia per “un chiarimento”. Riccardo Magi, segretario di Più Europa, si associ: “Crosetto venga con urgenza a spiegare”. Oggi la presidenza della commissione Antimafia esaminerà la richiesta delle opposizioni di audire il titolare della Difesa. Lui ribatte: “Vengo attaccato, insultato, minacciato, offeso. Preventivamente. Dovrei avere paura? Non ne ho”. Diversi gli atteggiamenti di Italia Viva e Azione. In particolare sul passaggio in cui Crosetto riferisce di aver saputo di “riunioni di una corrente della magistratura in cui si dibatte di come fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni”. Enrico Costa, di Azione, condivide: “Crosetto non ha parlato di inchieste, ma di riunioni di corrente”. Renzi non vede l’ora di approfondire i sospetti del ministro: “Se vogliamo parlare di rapporti complicati tra magistratura e politica facciamo pure - propone - ma siccome loro sono al governo, ciò che dovrebbero raccontare agli italiani è perché Giorgia Meloni all’improvviso ha bloccato la riforma della giustizia. Di cosa ha paura Giorgia Meloni?”. Di nulla, a sentire il ministro degli Affari regionali Roberto Calderoli: “Che la riforma della giustizia sia stata messa in un cassetto lo sostiene Renzi, che fa l’opposizione e legittimamente critica tutto e tutti. Ma la volontà da parte di questa maggioranza di riformare la giustizia c’è”. Da Palazzo Chigi arriva la “stangata”: nel decreto sul Csm pagelle legate ai flop di Valentina Stella Il Dubbio, 28 novembre 2023 Mano leggera invece sui fuori ruolo, ridotti solo del 10%: ora i pareri del Parlamento. Ieri il Consiglio dei Ministri ha approvato due schemi di decreto legislativo: il primo concernente la disciplina del collocamento fuori ruolo dei magistrati ordinari, amministrativi e contabili, il secondo centrato sulla riforma ordinamentale della magistratura. In pratica si tratta dei decreti attuativi della riforma Cartabia sul Csm, che ora dovranno passare al vaglio delle commissioni parlamentari di competenza. Volendo usare un’espressione particolarmente evocativa, potremmo dire che alla magistratura sono stati dati il bastone e la carota. Partiamo dal primo, ossia dal capitolo sulla valutazione di professionalità del magistrato, e in particolare dal cosiddetto “fascicolo”, ossia l’indicatore statistico sugli insuccessi processuali a cui subordinare scatti di carriera ed eventuali incarichi direttivi. La professionalità dei magistrati si misurerà in relazione a “capacità, laboriosità, diligenza e impegno”, secondo parametri oggettivi “che sono indicati dal Csm”. Le toghe continueranno a essere sottoposti a valutazione di professionalità ogni quadriennio. In particolare, “la capacità, oltre che alla preparazione giuridica e al relativo grado di aggiornamento, è riferita, secondo le funzioni esercitate, al possesso delle tecniche di argomentazione e di indagine, anche in relazione alla sussistenza di gravi anomalie concernenti l’esito degli affari nelle successive fasi e nei gradi del procedimento e del giudizio ovvero alla conduzione dell’udienza da parte di chi la dirige o la presiede, all’idoneità a utilizzare, dirigere e controllare l’apporto dei collaboratori e degli ausiliari”. E nel nuovo “fascicolo” sulle attività del magistrato, possono costituire “indice di grave anomalia il rigetto delle richieste avanzate dal magistrato o la riforma e l’annullamento delle decisioni per abnormità, mancanza di motivazione, ignoranza o negligenza nell’applicazione della legge, travisamento manifesto del fatto, mancata valutazione di prove decisive, quando le ragioni del rigetto, della riforma o dell’annullamento sono in se stesse di particolare gravità ovvero quando assumono carattere significativo rispetto al complesso degli affari definiti dal magistrato”. La mancata definizione minuziosa della ‘grave anomalia’ accoglie il suggerimento che il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto aveva lanciato a fine agosto in un’intervista al Dubbio, quando aveva spiegato: “Ritengo che non si debba definire il concetto di “grave anomalia”: toccherà poi a chi dovrà, volta per volta, giudicare il comportamento del singolo stabilire se è “grave anomalia” un unico comportamento molto grave o se non costituisce “grave anomalia” una pluralità di comportamenti che possono essere meno gravi”. Sarà il Csm con propria delibera a stabilire “i criteri per articolare il giudizio positivo nelle ulteriori valutazioni di “discreto”, “buono” o “ottimo” con riferimento alle capacità del magistrato di organizzare il lavoro”, valide però solo per il conferimento di incarichi direttivi. Se invece “il giudizio è “negativo”, il magistrato è sottoposto a nuova valutazione dopo un biennio”. Il Csm “può disporre che il magistrato partecipi a uno o più corsi di riqualificazione professionale in rapporto alle specifiche carenze di professionalità riscontrate”. La carota riguarda il nodo delle toghe fuori ruolo. “I magistrati possono essere collocati fuori ruolo nel rispetto dei seguenti numeri massimi: ordinari 180 unità, amministrativi 25 unità, contabili 25 unità. In ogni caso, i magistrati ordinari non possono essere collocati fuori ruolo presso organi o enti diversi dal ministero della Giustizia, dal ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, dal Csm e dagli organi costituzionali in numero superiore a 40 unità”. Si tratta di una diminuzione risibile, sui cui si era espresso criticamente già la scorsa estate il presidente del Cnf Francesco Greco: “Avevamo proposto di ridurre i fuori ruolo a 100 con un meccanismo progressivo che nell’arco di cinque anni li portasse poi a 50, in modo da far ritornare gli altri a fare i magistrati nelle aule di giustizia. La linea che, invece, è passata in una Commissione composta nella stragrande maggioranza da magistrati”, aveva osservato Greco a proposito del gruppo di studio presieduto da Claudio Galoppi, “è che si passa da 200 a 180 magistrati”. Non bastano a rendere meno politicamente indigesto questo taglio di appena il 10% la sospensione, per le toghe “distaccate”, degli scatti di carriera, oltre al divieto di lasciare la trincea della giurisdizione quando il Tribunale o la Procura di provenienza sono sotto organico. Infine nei Consigli giudiziari è confermata la facoltà per “i componenti avvocati e professori universitari” di “partecipare alle discussioni e assistere alle deliberazioni” sulle “carriere” dei magistrati. Con diritto di voto, per i soli avvocati, legato a eventuali deliberazioni del “Consiglio dell’Ordine”, che si riflettono nel “voto unitario” dei legali presenti nei “mini- Csm”. Opposizione politica, non giudiziaria di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 28 novembre 2023 Quando un ministro dice che l’unica opposizione che lo spaventa è quella giudiziaria, la prima a dovergli dimostrare che si sbaglia è l’opposizione politica. Sarebbe questa la reazione da attendersi, più che il legittimo dispetto della magistratura. Anche perché da settimane vediamo segnali che l’aria nel paese sta cambiando. Si riempiono piazze sempre più grandi, da quella del 7 ottobre della Cgil e delle associazioni fino a quelle pienissime di sabato scorso contro la violenza di genere, che contenevano inevitabilmente un’opposizione al governo “Dio, patria e famiglia”. Passando attraverso gli scioperi e le manifestazioni per la tregua a Gaza, dramma sul quale il nostro governo interviene molto poco e sempre male. Persino la manifestazione del Pd esprimeva una radicalità assai superiore a quella applicata dai suoi rappresentanti in parlamento. I partiti di opposizione, dunque, avrebbero argomenti e base sociale per dimostrare a Crosetto e al governo che ci sono ragioni e forze politiche da temere. Senza doversi affidare alla supplenza giudiziaria. Senza ridursi a sperare, anche le opposizioni, che Crosetto abbia ragione, che conosca chissà quale inchiesta che sta per sgambettare Meloni. Anche perché Crosetto non conosce niente altro che le grandi difficoltà del governo, quelle che vediamo tutti. Non a caso l’improvvido passaggio sulle trame delle toghe rosse, il ministro lo ha infilato parlando dei ritardi sul Pnrr, che - giura - si potranno recuperare se non si mette di traverso la magistratura. Non è certo la prima volta che questa maggioranza, che dichiarava di essere “pronta” prima ancora delle elezioni, ha bisogno di qualcuno a cui dare la colpa delle proprie incapacità. Se sono arrivati a puntare il dito contro l’internazionale che trama per la sostituzione etnica - e per questo spingerebbe i migranti in mare - cosa volete che sia una cospirazione casareccia di quattro giudici a congresso? Quando la valanga dei decreti anti immigrazione ha preso contatto con la legislazione europea e la Costituzione, sgretolandosi in un istante depositando solo inutile crudeltà, la destra ha risposto con la caccia alla giudice. E ora che imperterrita progetta una detenzione extraterritoriale in Albania, avverte già che se non dovesse funzionare sarà colpa dei magistrati prevenuti, non del fatto che hanno calpestato leggi e principi fondamentali. Nel valutare le frasi di Crosetto (e i suoi passi indietro), bisogna dunque non perdere di vista l’obiettivo spicciolo che le muove. Sono alla lettera affermazioni abnormi in un contesto di equilibrio tra i poteri, l’ennesima dimostrazione di una cultura allergica alle garanzie e ai controlli, questo è certo, ma dal punto di vista politico non sono l’annuncio di una guerra totale. Il centrodestra non ha le spalle tanto larghe e la magistratura non è la tv di Stato, che con un po’ di nomine si mette in scia. Non è nemmeno, e lontanamente, tutta orientata a sinistra, e certo non è allergica al conformismo. Le frasi scomposte di Crosetto sono soprattutto la conferma che la destra al potere ha bisogno di un altro nemico, di una nuova scusa, di qualcun altro al quale dare la responsabilità dei suoi fallimenti. Sono alla fine una dichiarazione di debolezza, non di forza. Le minoranze dovrebbero trarne buoni auspici per provare a fare opposizione politica. Fuori cioè dai tribunali. La politica delega alla magistratura e poi grida all’invasione di campo di Gian Carlo Caselli La Stampa, 28 novembre 2023 In democrazia non possono esserci dubbi sul “primato della politica”, la sola cui spetta operare le scelte finalizzate al buon governo. Nessun altro, compresa ovviamente la magistratura, può arrogarsi questa funzione. Ma il fatto è che proprio alla magistratura (e alle forze dell’ordine) sono stati delegati a ripetizione, nel tempo, gravi problemi che la politica non ha voluto o saputo affrontare o risolvere. È successo per: la mafia, con una legislazione “del giorno dopo”, piena zeppa di articoli bis, ter, quater ecc., inseriti per colmare buchi o voragini legislative che non disturbavano prima che qualche “fattaccio” criminale ci risvegliasse;?il terrorismo brigatista, almeno nella fase iniziale segnata da ambiguità se non contiguità; il terrorismo nero e stragista, con la sequela di tranelli e depistaggi che hanno ostacolato le indagini; la corruzione: fin dal 1992, la vicenda di Tangentopoli, preannunciata dagli scandali Italcasse, Lockheed e Petroli, chiedeva a gran voce una legge anticorruzione davvero efficace, ma solo nel 2019 la si è avuta con la cosiddetta “spazzacorrotti”; la sicurezza sui posti di lavoro, dove si è arrivati al punto di affidare impropriamente ai magistrati la terrificante alternativa tra la vita e il lavoro dei dipendenti dell’Ilva di Taranto…; l’evasione fiscale, dove la delega iniziale è stata poi sterilizzata, intervenendo nel 2001 sulla legge del 1992 nota come “manette agli evasori”; la sicurezza agroalimentare; la tutela dell’ambiente e della salute; la bioetica, dove (ricordiamo i casi Welby ed Englaro) delicati e mutevoli equilibri tra valori profondi e personalissimi restano in gran parte in un limbo irrisolto, mentre i giudici non possono non farsi carico di tutelare i bisogni emergenti. Attenzione, però. Delega alla magistratura, spesso e volentieri, ma sempre con riserva, una specie di “asticella” da non oltrepassare, non scritta ma chiara. Oltrepassandola, infatti, si toccano certi poteri “forti”, che non ci stanno a essere controllati. E quando capita, si difendono: “Noi non abbiamo delegato un bel niente”; “Siete voi magistrati che avete esercitato una “supplenza” arbitraria”; “Peggio, siete responsabili di straripamento o invasione di campo!”. A volte, quando sono in gioco interessi particolarmente sensibili, si parla addirittura di “golpe”, di “partito o governo dei giudici”, di “inchieste basate su teoremi e non su prove”. Insomma, un catalogo di attacchi ai rappresentati della giustizia che osino lavorare in maniera indipendente, “arricchito” da ingiurie assortite, come “cancro da estirpare”, “pazzi”; “antropologicamente diversi dalla razza umana”; “eversori”; “associazione a delinquere”. La conseguenza è che se a essere messi sotto accusa sono i magistrati, invece dei collusi con la mafia o dei corrotti o di coloro che preferiscono le furbate o le scorciatoie (vale a dire norme che non reggono al vaglio costituzionale) tutti costoro faranno meno fatica a ricostruire le fortificazioni scalfite dalle inchieste. A parte che si tende a non denunciare - anzi, anatema su chi osa farlo! - le gravi responsabilità politico-morali che spesso scaturiscono con evidenza dagli accertamenti giudiziari. Per alcuni, il magistrato che dà più fastidio è quello “troppo” indipendente, che si dimostra cioè indipendente anche quando la legge e la sorte gli assegnano il compito di doversi occupare di interessi che stanno oltre l’asticella. Come da copione, alla “troppa” indipendenza seguono a ruota accuse pesanti; innanzitutto quella di “politicizzazione”, al punto che se un magistrato si occupa di un politico accusato di corruzione o di collusione con la mafia, a fare politica non è più il politico, bensì il magistrato! L’accusa di politicizzazione è un cavallo di battaglia lanciato a campo aperto per delegittimare e squalificare i magistrati che, adempiendo ai loro doveri, vanno “oltre”. Piove verso il cielo; in altre parole… siamo all’assurdo. All’accusa di politicizzazione si affianca quella di “giustizialismo”. Prendiamo un vocabolario della lingua italiana di qualche anno fa e cerchiamo la parola “giustizialismo”: la troviamo, ma scopriamo che era riferita esclusivamente alla politica argentina di Juan Domingo Perón. Niente che riguardasse la giustizia, men che mai quella italiana. Dunque una parola letteralmente sconosciuta nel lessico giudiziario, che viene poi astutamente riciclata con la cinica finalità mediatica di fondare il dibattito su una sorta di verità rovesciata, dove esercitare la giustizia senza privilegi per nessuno sarebbe appunto giustizialismo. Purtroppo, questa tesi assurda è stata diffusa seguendo il canone della propaganda ingannevole, secondo cui la ripetizione assillante fa sembrare veri anche i falsi più clamorosi. Che in fondo è un po’ il fil-rouge che unisce Berlusconi ai suoi odierni epigoni quando si parla di politica e giustizia, senza rispondere alla domanda (cito Ainis, La Stampa 23.11.23) se non si ostenti “di stare alle regole della democrazia per mera convenienza”. Crosetto cerca la pace con l’Anm, ma Fratelli d’Italia rialza il tiro di Errico Novi Il Dubbio, 28 novembre 2023 Il capo del “sindacato” dei giudici: “Le ombre vanno fugate”. Via della Scrofa: certe correnti fanno politica. Una singola risposta. Poche frasi in fondo a un’intervista da ministro della Difesa. È bastato così poco a Guido Crosetto per aprire un vaso di pandora un po’ indecifrabile e un po’ sibillino. Domenica scorsa, sul Corriere della Sera, il Capo della Farnesina ha evocato “l’opposizione giudiziaria” e il rischio di un’offensiva delle toghe “prima delle Europee”. Ha citato le “riunioni di una corrente della magistratura in cui si parla di come fare a “fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni”. C’è un po’ di ambivalenza. Sembra l’evocazione di un complotto. Ma le parole del ministro possono semplicemente rimandare ai due recenti congressi di altrettante correnti Anm. Il primo, quello di “AreaDg”, si è svolto a Palermo a fine settembre, e ha raggiunto l’acme della tensione politica con la parte della “mozione conclusiva” che esorta a “uscire dalle aule dei tribunali e partecipare al dibattito pubblico per spiegare ai cittadini che il drastico ridimensionamento del controllo giudiziario prima di ogni altra cosa colpisce i loro diritti”. Il secondo congresso è del gruppo ancora più chiaramente di “sinistra”, ossia Magistratura democratica: lì il segretario Stefano Musolino e il resto della corrente hanno prefigurato una “deriva polacca”, “lo stravolgimento dello Stato di diritto e dell’indipendenza della magistratura”. Insomma, ci sono messaggi in codice. Da una parte, Crosetto si è riferito a circostanze note a tutti, senza alludere a riunioni segrete. Poi però ha gettato quell’ombra su iniziative giudiziarie “studiate” per le Europee. Insinuazioni pesanti, che nelle ore successive ha cercato di ridimensionare. Fino a un chiaro tentativo di distensione rivolto al vertice dell’Anm. Il ministro ha detto che incontrerebbe “molto volentieri il presidente dell’Associazione magistrati Santalucia e il suo direttivo per chiarire loro le mie parole e le motivazioni. Così capiranno”, ne è certo il Capo della Farnesina, “che alla base c’è solo un enorme rispetto per le istituzioni. Tutte. Magistratura in primis”. Santalucia ha provato a stemperare a propria volta i toni, ha parlato di “rapporto di cortesia in cui il ministro ha manifestato disponibilità a incontrare me e la Giunta” e ha aggiunto di apprezzare Crosetto “sul piano personale”, anche se “conta poco”. Adesso, ha chiarito il presidente Anm a “Metropolis”, serve che “vengano fugati ogni sospetto e ogni ombra: se c’è qualcosa da denunciare o chiarire, lo faccia, non lasci le parole nel vago”. Ci sarebbe pure una volontà reciproca di spegnere l’incendio. Ma poi è una nota diffusa dal mattinale di FdI, “Ore 11”, a chiarire che i timori di Crosetto non sono frutto di un allarmismo personale: “Sulle parole del ministro si è scatenata una tempesta immotivata”, è la premessa, “Fratelli d’Italia e il governo Meloni hanno grande stima per l’operato della stragrande maggioranza dei magistrati, che fanno con serietà il proprio lavoro spesso in condizioni molto difficili. Nessuno scontro governo-magistratura”. E ancora: “Un governo a guida FdI non può che essere al fianco dei servitori dello Stato, magistrati compresi”. Ma la stoccata arriva subito dopo: “Non è un mistero per nessuno però che esiste una piccola parte politicizzata della magistratura che si schiera apertamente e contro qualsiasi governo non schierato a sinistra. Nessuno può negare che settori minoritari della giurisdizione interpretino il loro ruolo, al di fuori dei limiti dell’ordinamento, per contrastare l’azione del governo, sia con propri provvedimenti - si pensi a quelli in materia di immigrazione, in aperta violazione del diritto europeo e italiano -, sia con dichiarazioni ostili: si pensi alla proposta di riforma costituzionale, bollata come pericolo per la democrazia”. Una specie di “interpretazione autentica” dell’intervista di Crosetto: “Tutto questo avviene alla luce del sole”, si legge su “Ore 11”, “in scritti che compaiono su riviste dell’ala sinistra della magistratura associata, e in interventi in convegni e dibatti”. I riferimenti sono a “Questione giustizia”, la rivista di Md, e ai già citati congressi delle correnti progressiste. E che Crosetto non vada liquidato come un guastatore della pace siglata fra la premier Giorgia Meloni e la Dna, se ne ha conferma dalle parole di una figura chiave dell’Esecutivo in genere portato alla discrezione e al silenzio, il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano: “Vorrei citare Caivano per la grande collaborazione tra magistrati e governo” dice, ma poi aggiunge che “questo non sempre avviene, per esempio quando c’è un atteggiamento ideologico, come nel caso di alcuni provvedimenti sull’immigrazione dei magistrati”. Insomma, il messaggio sarà stato “marginale” dal punto di vista di Crosetto, ma non per il partito di maggioranza relativa. E neppure per l’opposizione: il capogruppo dem in commissione Giustizia Federico Gianassi ha chiesto, col sostegno M5S, Avs e Italia viva, che il titolare della Difesa riferisca in Aula. Comunque vada, lo strascico dell’intervista è tutt’altro che finito. Le toghe vogliono un chiarimento da Crosetto: “Non siamo la massoneria” di Mario Di Vito Il Manifesto, 28 novembre 2023 Il ministro chiede un incontro all’Anm. A destra perplessità sull’intervista e timori per Pnrr e appalti. Ombre, sospetti, sassi che volano e mani nascoste dietro la schiena. L’intervista rilasciata da Guido Crosetto al Corriere della Sera è oggetto di esegesi ormai da tre giorni: cosa intendeva il ministro quando parlava di “riunioni di una corrente” della magistratura in cui si riflette su “come fermare la deriva antidemocratica” del governo? Pensava ai congressi e di Area Democratica per la Giustizia e Magistratura Democratica - pubblici e mai nascosti - o di non meglio precisati caminetti tra gruppetti di magistrati? “Mica siamo un recinto con le pecore agganciate al palo”, commentano dalle parti delle toghe rosse, bersaglio palese dell’attacco di Crosetto. Per il resto la linea della magistratura organizzata è sempre la stessa: parlano gli atti. E gli atti si possono impugnare. Ogni altra considerazione va oltre il dibattito pubblico ed è retroscena più o meno interessato. A destra molti sono convinti che Crosetto avesse in mente da tempo di dire “qualcosa” sulla magistratura, nonostante la perplessità di molti suoi sodali di partito, che lo scontro con la giurisdizione vorrebbero evitarlo o quantomeno rimandarlo il più possibile. Anche perché, in questa annata di esecutivo Meloni, le varie inchieste che hanno visto protagonisti pezzi della maggioranza sono state affrontate con enorme - per qualcuno addirittura eccessiva - prudenza dalla magistratura. E in ogni caso va notato che le principali procure italiane sono tutte capeggiate da esponenti di Magistratura Indipendente, cioè la corrente di destra alla quale aderiva anche il sottosegretario Alfredo Mantovano, quando era magistrato. Il nome che più ricorre, nelle varie letture della famigerata intervista, è quello di Francesco Lollobrigida, noto per essere un fervente sostenitore della separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante, la madre di tutte le polemiche. A cosa stava pensando dunque Crosetto quando alludeva all’apertura di una stagione di “opposizione giudiziaria” prima delle Europee? A chiarirlo dovrà essere lo stesso ministro: oggi in commissione antimafia il Pd chiederà una sua audizione, mentre lui ha già fatto sapere di essere disponibile anche a incontrare i vertici dell’Anm per spiegare il suo pensiero. Disponibilità che il presidente Giuseppe Santalucia ha salutato con favore, senza comunque lasciar cadere il punto: “Chi legge una dichiarazione così può restare disorientato. Quindi al di là del rapporto di cortesia con la quale Crosetto si è detto disponibile a incontrarci, chiedo al ministro che venga fugata ogni ombra, se c’è qualcosa da denunciare lo faccia”. Magistratura Democratica vede nelle dichiarazioni al Corriere un monito: “Vogliono una magistratura performativa, di scopo, strumentale agli obiettivi di un decisore unico”. Ovvero “conforme” ai desideri del governo. E quella adombrata da Crosetto come una congiura togata dai contorni indefinibili, in realtà, secondo Md, è da leggere in continuità con il resto dell’intervista, dove si parlava di temi economici, Pnrr e relativi appalti. “È in quel contesto che il ministro immagina oscure componenti della magistratura intente a complottare”, si legge in una breve nota. Il sottinteso lo hanno capito tutti: è del tutto evidente che quelle materie saranno oggetto di indagine, anche perché lo chiede la stessa Unione Europea. Dunque far sibilare in un’intervista l’ipotesi dell’esistenza di un’opposizione giudiziaria altro non sarebbe che una maniera di mettere le mani avanti. Da qui la domanda delle domande: c’è qualcosa che Crosetto sa e tutti gli altri no? O forse dietro non c’è niente ed è “il solito Crosetto” che esagera e che la spara grossa per farsi notare, come da suo abituale costume su X, piattaforma che lo vede tra i più assidui frequentatori e fomentatori di risse virtuali con chicchessia, dall’avversario politico del giorno al malcapitato utente che risponde a un suo post. Questa volta però è diverso. Ancora Santalucia: “paragonare i magistrati alla massoneria è molto grave”. Chiara Braga, dal Pd, la mette giù durissima: “Quelle di Crosetto sono parole vicine all’eversione”. Perché, tra uno spiffero e un’allusione, stiamo pur sempre parlando di un ministro della Difesa che grida al complotto. E dietro questo complotto ci sarebbero i giudici. Se non ci fossero stati trent’anni di berlusconismo, ci sarebbe di che inquietarsi. Le parole di Crosetto sulle toghe mandano in tilt il governo. Tra sospetti e frenate di Simone Canettieri Il Foglio, 28 novembre 2023 Il ministro della Giustizia Nordio scompare dai radar e rinuncia alla conferenza stampa. Mantovano blocca i test attitudinali ai pm. Meloni finisce in mezzo. Quirinale all’oscuro del j’accuse del ministro della Difesa. “L’uomo in più” fu il debutto di Paolo Sorrentino. Il nemico in più, cioè la magistratura ordente, è invece il film di Guido Crosetto in onda da tre giorni. Un macigno gettato - via Corriere - nello stagno e che continua a saltellare nel dibattito pubblico. E arriverà in Antimafia già oggi per essere calendarizzato. “Per come conosco Guido, avrà parlato con cognizione di causa, qualcosa di nuovo ci sarà”, dice in Transatlantico Tommaso Foti, capogruppo di Fratelli d’Italia. E cioè un partito abbastanza frastornato da questo nuovo fronte - che è poi sempre lo stesso, immarcescibile da trent’anni - aperto in una maniera che sembra così estemporanea. Vari colonnelli: “Siamo al 30 per cento: perché?”. Anche i vertici di Via della Scrofa sembrano spaesati: “Percezione di un assalto dei pm? Onestamente no”. Il ministro della Difesa intanto è a New York, alle Nazioni unite. In Cdm entrano le pagelle dei magistrati. Giorgia Meloni non parla del caso Crosetto. E però è un lunedì pieno di fantasmi e scontri, di messaggi incrociati e silenzi imbarazzati. Alla fine di un Consiglio dei ministri, durato meno di un’ora, si dà il via libera a due decreti legislativi in materia di giustizia che contengono, tra l’altro, le valutazioni sull’operato dei magistrati, le cosiddette pagelle. Non è stata approvata invece la misura per introdurre test psico-attitudinali per l’ingresso in magistratura. Un pallino di Silvio Berlusconi che fa capolino nella riunione che anticipa il Cdm, ma che viene bloccato da Alfredo Mantovano, ex magistrato, con delega virtuale ma fattuale ai rapporti con il variegato mondo della giustizia. D’altronde di prima mattina tocca proprio al sottosegretario alla presidenza del Consiglio dire alle telecamere di Start, su SkyTg24, che “non esiste alcun piano della della magistratura contro il governo”, anche se esistono, questo sì, delle frange “ideologizzate”. Ma qui si ritorna alla teoria, ma manca lo svolgimento del tema alzato in aria dal ministro della Difesa e cofondatore dei Fratelli d’Italia. Crosetto sarà ascoltato dalla Commissione antimafia, in modo che la sua audizione, venga segretata (l’alternativa era il Copasir). Oggi la presidente Chiara Colosimo stabilirà quando. Anche se l’opposizione in coro chiede che riferisca in Parlamento. Ma cosa sa il ministro? E soprattutto come si materializzerebbe il piano “per fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni”? In Transatlantico si passano in rassegna, come se fossero ufficiali della Marina, tutte le inchieste che riguardano, a vario titolo, membri del governo o rappresentanti istituzionali di Fratelli d’Italia: il figlio del presidente del Senato Ignazio La Russa, la vita da imprenditrice di Daniela Santanché, la sorte del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, atteso domani dal gip. Poi certo ci sono gli esposti, tantissimi, di Angelo Bonelli dei Verdi: l’ultimo riguarda la storia del treno fatto fermare dal ministro Francesco Lollobrigida. Ma insomma sembra tutto riduttivo e aleatorio. Così come l’idea che enunciando un principio di massima Crosetto si riferisse a dei fatti che potrebbero riguardarlo a breve. Si cercano i fantasmi, si prova a capire se Meloni abbia dato copertura politica al suo Guido o se invece gli abbia detto vai e colpisci, tipo in hoc signo vinces. Gira un bel po’ di confusione e l’ultimo tassello del puzzle non si trova. Anche il Quirinale, dove tutto alla fine precipita, pare che non sapesse nulla di questo j’accuse. Anche se dalle parti di Sergio Mattarella sembrano non preoccuparsi molto di questa polemica che durante la giornata sembra sgonfiarsi, pur non finendo di rimbalzare. Passa l’idea che al netto di rivelazioni clamorose queste siano accuse fumose a metà tra il dna del centrodestra e la campagna elettorale ormai tambureggiante. Possibile? Rimane la posizione mediana di Meloni. Il verbo del premier diffuso nel mattinale “Ore 11” ripete che il governo non è mai stato contro i magistrati ma che “esiste una piccola parte politicizzata della magistratura che si schiera apertamente e contro qualsiasi governo non schierato a sinistra”. Come in una favola di cui si conosce il finale arriva l’Anm, il muro contro muro, la richiesta di chiarimenti, la disponibilità a fornire delucidazioni. In tutto questo scompare dai radar Carlo Nordio. Secondo il suo vice alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, non era a conoscenza della sortita di Crosetto a mezzo stampa. Si va così a casaccio e nel dubbio salta anche la conferenza stampa post Consiglio dei ministri a cui, visti gli argomenti trattati, avrebbe dovuto partecipare il Guardasigilli. Con immancabili domande sul caso del giorno. Le toghe vogliono fermare ancora una volta la separazione delle carriere di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 28 novembre 2023 Il ministro Crosetto e il governo sanno molto bene che la magistratura è “pronta a tutto” pur di fermare l’aspirazione riformista di Meloni e Nordio. Il ministro Guido Crosetto lancia l’allarme sull’ “opposizione giudiziaria”, che con inchieste mirate sulla maggioranza, potrebbe avvelenare le elezioni europee. Ma non è il centrodestra il nemico delle toghe militanti, è la politica delle riforme. E in particolare la separazione delle carriere. È quella la loro bestia nera. Giorgia Meloni l’ha capito e ha trasformato la separazione in Cenerentola. E il ministro- magistrato Alfredo Mantovano lo sa bene. Certo, c’è stato nel 1994 il “decreto Biondi” e la protesta del pool di Milano che ha di fatto affossato il primo governo Berlusconi. È c’è stata una sfilza di ministri della giustizia, da Martelli a Conso a Flick fino a Mastella impallinati dopo interventi della magistratura. Ma quello che davvero disturba le toghe, o almeno la gran parte di loro, non sono le singole persone o i singoli governi, ma le riforme costituzionali. La storia di questi spezzoni di toghe che esondano, tracimano, si espandono dove non dovrebbero, non è vicenda di magistrati di sinistra contro i governi di centrodestra, come ha detto il ministro Crosetto. Anche se è sotto gli occhi di tutti il fatto di quanto tutta la vita politica di Silvio Berlusconi sia stata costellata dall’intervento di pubblici ministeri. Ma, con tutto il rispetto e il dolore di una perdita, il punto centrale non è quello. Mi permetto, e me ne scuso, un’autocitazione. Era il 16 settembre 2022, quando ancora non si sapeva chi avrebbe vinto le elezioni della successiva domenica 25. Ecco il testo di un mio articolo: “Se il prossimo Parlamento e la maggioranza che governerà il Paese dopo le elezioni pensano a una riforma costituzionale, specie se radicale come l’introduzione del presidenzialismo, facciano attenzione al partito dei pubblici ministeri”. Ora le grandi modifiche alla Carta che sono attualmente sul tavolo delle riforme sono tre, e tutte impegnative, la riforma dell’organizzazione dello Stato con l’introduzione del premierato, l’autonomia differenziata e la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Quando il ministro riferisce di discorsi sulla necessità di “fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni”, parole che sarebbero la sostanza e la premessa di interventi concreti da “opposizione giudiziaria” di una parte della magistratura, che cosa teme? Inchieste giudiziarie, magari su esponenti politici di primo piano della maggioranza, in grado di avvelenare il clima delle prossime elezioni europee, sicuramente. Ma perché non anche la speranza di una battuta d’arresto sulle riforme, in particolare quella sula separazione delle carriere? La storia è ricca di questi interventi. E di riforme nate e seppellite. Basta la memoria delle Commissioni Bicamerali. Non Tanto la prima, quella del 1983 presieduta dal liberale Aldo Bozzi. Ma a partire dalla seconda, guidata dal democristiano Ciriaco De Mita nell’infausto anno 1992. Infausto anche per chi la presiedette. Quel che successe davvero in quei giorni lo racconterà lui stesso, ma solo quattro anni dopo. Quel che si seppe da subito fu l’arresto del fratello Michele De Mita, all’interno di un’inchiesta sulla ricostruzione dell’Irpinia. Con immediate dimissioni di Ciriaco, tiepida difesa da parte di tutti i partiti, che comunque le respinsero all’unanimità, sia pure in una riunione in cui erano assenti tutti i principali leaders, da Occhetto a Craxi. L’intoppo pareva comunque superato, quando all’improvviso, verso le otto di sera, De Mita telefonava al vicepresidente della Bicamerale Augusto Barbera, annunciando che le sue dimissioni erano “irrevocabili”. Che cosa fosse successo in quelle ore lo abbiamo saputo quattro anni dopo, dalla bocca del diretto protagonista e vittima. Era successo che De Mita aveva ricevuto un fax firmato da tutti i componenti del pool di Milano che diffidavano dal procedere con la separazione delle carriere. Norma che infatti sparì, insieme al presidente della Bicamerale. Ricapitolando. Fase uno, arresto del fratello. Fase due, dimissioni poi respinte. Fase tre, dimissioni irrevocabili e affossamento della riforma sulla separazione delle carriere. La terza Bicamerale nel 1997 è presieduta da Massimo D’Alema. Si discute la “bozza Boato” che prevede una radicale riforma della giustizia e di nuovo la separazione delle carriere. Il 22 febbraio del 1998 il pm del pool di Milano Gherardo Colombo rilascia un’intervista al Corriere della sera in cui denuncia: “Le riforme ispirate dalla società del ricatto”. È abbastanza chiaro chi sarebbero i ricattatori e chi le vittime, lo si capisce da frasi del tipo “noi abbiamo appena inciso la superficie della crosta”. Tutta l’intervista ricostruisce la storia d’Italia come storia criminale, ed è chiaro l’invito a quella parte politica che non è stata toccata da tangentopoli e Mani Pulite, il Pci- Pds- Ds- Pd, a non considerare del tutto archiviate le inchieste. La terza Bicamerale finì quel giorno, con il sacrificio del ministro Flick che voleva il procedimento disciplinare per Colombo e finì invece dimissionario lui stesso. E di Bicamerali non se ne videro più. Ma il tema della separazione delle carriere, l’unica riforma che potrebbe por fine alla “repubblica giudiziaria”, a quell’opposizione politica delle toghe di cui ha riferito il ministro Crosetto, è ancora sul piatto, anche se nella posizione di Cenerentola rispetto alle altre due. Ma evidentemente non basta. È chiara la lezione, signor ministro? No, difendere il “mostro” non significa giustificare la violenza sulle donne di Aurora Matteucci* Il Dubbio, 28 novembre 2023 E se l’avvocato di Filippo Turetta fosse stato una donna? Il femminicidio di Giulia Cecchettin ci indigna, ci interroga, ci rende consapevoli che la violenza maschile contro le donne è un edema dilagante che non conosce, ancora, una cura e una posa, nonostante le solite reazioni muscolari del panpenalismo più estremo. Ed è “solo” il penultimo. Qualche giorno dopo è toccato a Rita Talamelli, strangolata a Fano dal marito che poi ha provato, invano, a suicidarsi. Siamo a 107. 107 donne uccise per mano di uomini, da inizio d’anno. La reazione, di pancia, di piazza, di rabbia affidata oggi anche ai bei versi di Cristina Torres- Cáceres - “se domani tocca a me voglio essere l’ultima” - racconta molto. Racconta di donne che hanno voluto fare rumore, non più minuti di silenzio, scarpe rosse, giornate nazionali per celebrare vittime. Di donne che non vogliono essere vittime, né essere identificate come vittime, urlando con forza contro un mainstream in salsa giustizialista che ha da sempre inteso il problema della violenza di genere come un’occasione per aumentare le pene relegando le donne entro gli angusti confini di una categoria da proteggere, dimenticandosi di promuoverne empowerment, parità salariale, diritti a tutto tondo, dimenticandosi del prima e intervenendo solo dopo e male, quando è tardi, quando le donne muoiono. Ma racconta anche di chi, tra gli uomini, ha iniziato a farsi domande, di chi comincia finalmente a pensare che la violenza maschile sia un problema degli uomini, persino dei “bravi ragazzi che “chi lo avrebbe mai detto?”“. Per la prima volta dopo tanto tempo abbiamo cominciato a sentire, nei vari talk show, che aumentare le pene non serve. Non è il caso di farsi troppe illusioni, però: la strada dei social è ancora ben lastricata di invettive contro il mostro, di dardi scagliati contro il lassismo del nostro ordinamento, contro il processo, contro lo stucchevole garantismo: “non ha diritto a un avvocato” - si legge spesso - con variazioni sul tema “che resti in Germania, almeno lì avrebbe una pena esemplare” (chissà poi con quale profonda conoscenza del sistema tedesco si sia finiti a immaginare sedie elettriche prussiane è un mistero); “in Italia prenderebbe 20 anni che, calcolatrici alla mano, diventerebbero 10 per poi, chissà come, azzerarsi “tanto, qui da noi, in galera non ci finisce mai nessuno”“ (nel paese del sovraffollamento carcerario c’è ancora chi, la maggior parte, lo pensa). Il difensore di Turetta è un uomo. Ma è facile immaginare cosa verrebbe detto e scritto se fosse, invece, una donna. Il livello dell’indignazione si eleverebbe a dismisura perché è ancora più inaccettabile che sia una donna a difendere un mostro, che sia una donna, da giudice, ad assolvere un mostro. Ad una donna non si concede la possibilità di avere a cuore il rispetto per le garanzie: in definitiva, ancora una volta, le si deve dire come stare al mondo. Difendere un uomo accusato di violenza, difendere una persona accusata di qualsiasi reato (uomo o donna che sia) corrisponde, neanche a dirlo, a farsi interprete e strumento di uno dei capisaldi del nostro sistema democratico. Ed invece - nel paese che ormai processa ogni fenomeno sociale come una gara tra opposte tifoserie- assumere la difesa di un uomo accusato di violenza diventa un’onta indelebile e, se sei donna, automaticamente quel marchio di infamia resta inciso come un tatuaggio. Basti pensare che l’intesa raggiunta il 14 settembre 2022 in sede di Conferenza unificata tra Governo, Regioni ed Enti locali relativa ai requisiti minimi dei Centri antiviolenza e delle Case Rifugio prevede, come requisiti per le “operatrici”, testuali parole, che “non possono operare nella Casa le avvocate e le psicologhe che, nella loro libera attività professionale, svolgono ruoli a difesa degli uomini accusati e/ o condannati per violenza e/ o maltrattamenti”. Credo non servano commenti per definire la gravità di questa posizione, ma solo ribadire, per l’ennesima volta, l’ovvio. E cioè che garantire a Filippo Turetta e agli uomini accusati di violenza contro le donne il diritto di difesa, il diritto di affrontare un processo giusto, il diritto ad una sentenza giusta, non significa strizzare l’occhio al patriarcato o non rendere giustizia alle molte Giulia Cecchettin. Non significa trovare il commodus discessus di una “giustificazione” che levighi o riduca la sua responsabilità. Significa analizzare, ricostruire, ricomporre una storia con gli strumenti del diritto e non della vendetta. Significa pretendere che lo Stato, oggi pressoché incapace di affrontare la tragedia della violenza maschile contro le donne in chiave preventiva, si assuma la responsabilità di non fallire di nuovo. Cosa che accadrebbe se si accettasse di mettere in piedi un processo farsa che dovesse anche solo lontanamente assecondare il desiderio di restituire, occhio per occhio, il male procurato. Un processo già pesantemente trasfigurato da una legislazione (l’ultima persino ricorrendo al codice antimafia) che, anche sul terreno della violenza maschile contro le donne, ha adulato solo inutili reazioni repressive a suon di clausole di invarianza finanziaria (tradotto: punire di più, limare fino all’osso le garanzie processuali non costa un euro). Ed ancora una volta, alla domanda “vogliamo donne vive o uomini in carcere?”, si risponde barrando la seconda crocetta. *Presidente Camera Penale di Livorno Calabria. Carceri tra carenze e modelli positivi, c’è ancora tanto da fare. La relazione del Garante avveniredicalabria.it, 28 novembre 2023 Il presidente del Consiglio regionale Mancuso: “Tanti esempi positivi, ma servono più interventi mirati”. È stata presentata ieri mattina in Consiglio regionale, la relazione annuale del Garante regionale per i diritti dei detenuti, Luca Muglia. Tanti gli spunti emersi, rispetto alla condizione delle carceri in Calabria. Un report che mette in evidenza non solo l’attività svolta dal Garante dei detenuti calabrese, ma anche la situazione del pianeta carceri in Calabria. È quanto ha sottolineato, nel suo intervento, il presidente del Consiglio regionale della Calabria, Filippo Mancuso. Per Mancuso, quella del Garante Muglia “è una relazione che riflette un’attività svolta contemperando la funzione di prevenzione dei problemi con quella propositiva, attraverso un monitoraggio costante delle realtà carcerarie calabresi, al fine di garantire l’applicazione dei principi costituzionali a tutela dei diritti individuali. Primo fra tutti l’articolo 27 della Costituzione, per il quale “la pena non deve essere afflittiva, ma tendere alla rieducazione del condannato ed al suo reinserimento nella società”. “Condivido - ha aggiunto Mancuso - la forte preoccupazione per l’accentuato deficit di personale penitenziario in tutti e dodici gli istituti presenti in Calabria. Ringrazio le donne e gli uomini del Corpo della polizia penitenziaria, che si trovano ad affrontare situazioni complesse in un contesto di sofferenza e, spesso, di tensione”. Carenze che riguardano anche le altre figure (professionali, tecniche e sanitarie) necessarie alla piena garanzia di tutela dei diritti dei detenuti. Il presidente Mancuso ha auspicato “attenzione e interventi mirati, da parte delle autorità competenti, al fine di garantire il diritto dei detenuti ad avere prestazioni sanitarie dignitose, assistenza religiosa, formazione professionale, mediazione culturale e linguistica per gli stranieri e ogni altra prestazione tesa alla reintegrazione sociale e all’inserimento nel mondo del lavoro, nonché al mantenimento di un rapporto continuativo nelle relazioni con i familiari”. Inoltre, ha aggiunto il presidente dell’assemblea calabrese: “C’è da valutare positivamente l’attività delle due REMS attive in Calabria, ma è evidente che da sole non siano sufficienti a smaltire le lista d’attesa delle persone socialmente pericolose”. Il Consiglio regionale - ha ricordato Mancuso - “con una legge del 2022, ha colmato una lacuna che durava tanti anni, adeguando la normativa calabrese a quella dell’ordinamento penitenziario italiano, che ha consentito l’apertura in Calabria di strutture che si occupano di minori sottoposti a provvedimento penale o in esecuzione di pena”. Viterbo. Approvato il nuovo Piano di prevenzione delle condotte suicidarie e autolesive garantedetenutilazio.it, 28 novembre 2023 Servirà a “intercettare, prevenire e trattare in modo coordinato, celere, adeguato e continuo, i momenti di criticità rappresentati dal singolo detenuto” nel carcere “Mammagialla” e nel reparto di medicina protetta dell’ospedale Belcolle. Nella casa circondariale di Viterbo, nel 2022 ci sono stati 18 tentati suicidi e 138 gesti di autolesionismo. È quanto si legge nel Piano locale di prevenzione delle condotte suicidarie e autolesive nella Casa circondariale di Viterbo, approvato con la deliberazione del Commissario straordinario della Asl di Viterbo, Egisto Bianconi, n. 1281 del 10 novembre 2023, e sottoscritto dalla direttrice della Casa circondariale di Viterbo, Annamaria Dello Preite, e dal Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa. Il nuovo piano aggiorna quello del 2018, così come stabilito lo scorso 25 settembre dal Tavolo paritetico permanente per la tutela della salute delle persone detenute, di cui fanno parte tutte le istituzioni del territorio che operano in ambito carcerario interessate al sistema di erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione. Il Piano riguarda il carcere “Mammagialla” e il reparto di medicina protetta dell’ospedale Belcolle di Viterbo, dove sono presenti dieci posti degenza per le persone detenute. Referente per il piano è la direttrice dell’istituto penitenziario. Al Tavolo paritetico, che dovrà riunirsi con cadenza almeno semestrale, sono demandate le azioni di monitoraggio e la tenuta del Piano, in relazione agli obiettivi prefissati e all’analisi degli indicatori di processo e di esito misurati. “È concretamente dimostrato come l’impatto con il carcere rappresenti un momento traumatico della vita di un individuo”, è quanto si legge nella premessa, in cui sono individuati una serie di aspetti in grado accrescere il rischio di condotte suicidarie e autolesive, quali il sistema di regole per sua natura connotato in maniera restrittiva, il sovraffollamento (135 per cento con 593 detenuti presenti al 23 febbraio 2023), la carenza di personale, “le scarse attività lavorative e occupazionali che non consentono a tutti i detenuti di intraprendere un proficuo percorso riabilitativo”, la deprivazione affettiva e sessuale. Di qui la necessità di definire, in un’ottica interdisciplinare che interessa Polizia penitenziaria, personale sanitario, psicologi, funzionari giuridici pedagogici, assistenti sociali, collaboratori del Garante, volontari e tutte le altre figure che operano in ambito penitenziario, un modello di lavoro interdisciplinare, “per intercettare, prevenire e trattare in modo coordinato, celere, adeguato e continuo, i momenti di criticità rappresentati dal singolo detenuto”, individuare gli ambiti e i segnali per valutare il disagio sintomatico di un rischio suicidario, promuovere la cultura dell’ascolto e dell’attenzione e attuare azioni di miglioramento del contesto di detenzione. Staff multidisciplinare per prevenire e gestire il rischio - Quali momenti potenzialmente critici sono individuati l’ingresso e l’accoglienza in carcere, i colloqui con i familiari, la comunicazione di eventi traumatici a carico della persona detenuta e dei suoi familiari, la fase pre e post processuale e le reazioni alle relative notifiche. Lo staff multidisciplinare è la sede nella quale affrontare, ad opera delle varie professionalità e competenze presenti, l’analisi congiunta delle situazioni a rischio. Lo staff multidisciplinare è composto da tutti gli operatori coinvolti nella gestione del programma di prevenzione, si riunisce due volte al mese in seduta ordinaria e in seduta straordinaria per ragioni di urgenza su richiesta, indirizzata alla direzione dell’istituto, di qualsiasi area interna (area sicurezza, area trattamentale, area sanitaria). Tutti i casi di rischio sono discussi dallo staff. Durante le riunioni vengono valutate le situazioni a rischio per le quali sono predisposti i programmi individualizzati di presa in carico congiunta, secondo le necessità rilevate che si integrano, quando al rischio espresso si associano dei bisogni di salute, con il Progetto individuale di salute. L’intervento di prevenzione e gestione del rischio è suddiviso in quattro fasi: accoglienza e screening dei soggetti privati della libertà, nuovi giunti e trasferiti; determinazione dello stato di rischio; interventi a favore dei soggetti ritenuti a rischio; interventi di rivalutazione del rischio rivolti a tutta la popolazione detenuta. Nel Piano sono descritti nel dettaglio tutti gli adempimenti e le azioni che i vari attori coinvolto devono attuare. Sanremo (Im). Alberto Scagni in gravi condizioni, resta in coma farmacologico di Valentina Carosini Il Giornale, 28 novembre 2023 È ancora ricoverato in condizioni serie Alberto Scagni, il 42enne genovese condannato a 24 anni e 6 mesi per l’omicidio della sorella Alice e aggredito 6 giorni fa nella cella del carcere di Valle Armea a Sanremo dove stava scontando la pena. Sequestrato e picchiato a sangue con la gamba di un tavolino, ridotto quasi in fin di vita dai due compagni di cella, una coppia di detenuti stranieri, che lo hanno malmenato per ore fermandosi solo con l’intervento in forze della polizia penitenziaria e con l’arrivo del magistrato di turno e del direttore della struttura. Scagni da giovedì è ricoverato all’ospedale Borea di Sanremo dov’è già stato sottoposto ad un delicato intervento chirurgico per cercare di ridurre le fratture subite al volto durante il pestaggio e per la ricostruzione della trachea. Dopo l’intervento i medici hanno ritenuto di mantenerlo in coma farmacologico per la fase post-operatoria e, da quanto emerso inizialmente, ieri mattina sarebbero dovute iniziare le manovre di risveglio. Ma la Asl1 di Imperia, con una nota, ha fatto il punto della situazione spiegando che le sue condizioni restano ancora gravi. Dopo gli esami clinici eseguiti ieri mattina, “le condizioni del paziente permangono serie, tali da indurre i sanitari a mantenere lo stato di coma farmacologico” si legge nel bollettino. Il 42enne resta quindi ricoverato in prognosi riservata nella rianimazione dell’ospedale di Sanremo. Scagni era arrivato nella struttura del ponente ligure da circa un mese, dov’era stato trasferito in seguito ad un’altra aggressione avvenuta a metà ottobre nel carcere di Marassi a Genova. Anche in quel caso a colpirlo era stato il compagno di cella, che lo aveva preso a pugni e aveva continuato ad infierire anche quando era ormai a terra. Quella avvenuta nel carcere di Valle Armea, la notte tra mercoledì e giovedì scorsi, è stata un’aggressione ancora più feroce, tanto da far parlare di ‘omicidio sventato’. A colpire Scagni sono stati i due detenuti di origini straniere con i quali divideva la cella, nel padiglione Z del reparto C dedicato ai ‘detenuti protetti’. Nella stessa cella c’era anche un altro uomo a sua volta minacciato e chiuso in bagno mentre avveniva l’assalto. I due aggressori, secondo la polizia penitenziaria, hanno continuato a infierire causando tra i diversi traumi anche la frattura del naso e della mandibola al 42enne, agendo in stato di alterazione dovuta all’assunzione di alcool, ricavato in modo artigianale in cella dalla macerazione della frutta, mescolato a farmaci. Intanto nella giornata di sabato scorso entrambi gli autori del pestaggio sono stati trasferiti in due diverse strutture penitenziarie su decisione del tribunale di Imperia. In questi giorni anche la madre di Scagni, Antonella Zarri, ha commentato l’accaduto via social. “Uno Stato civile - scrive in un post via Facebook - garantisce i suoi cittadini anche ove ristretti in carcere”. “La collocazione a Sanremo - prosegue - appare frettolosa quanto distratta la sorveglianza”. Cosa sia accaduto esattamente all’interno della cella dovrà ricostruirlo la procura imperiese che intanto nelle scorse ore ha aperto un fascicolo con l’ipotesi di tentato omicidio. Milano. L’odissea del migrante 22enne arrestato per rapina alla stazione Centrale di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 28 novembre 2023 “Problemi psichici scatenati dalle sue traversie”. Per la prima volta, con una perizia psichiatrica, viene riconosciuta una parziale “incapacità di intendere e volere” dovuta ai traumi subìti dal giovane marocchino nel viaggio fino a Lampedusa. “La migrazione ha costituito un potenziale fattore patogeno, aggravando e slatentizzando in un post-adolescente i preesistenti aspetti di disregolazione del comportamento e di limitazione della analisi della realtà”: per la prima volta a collegare in qualche modo l’odissea della migrazione alla caduta poi nell’illegalità, riconoscendo all’indagato una (pur solo) parziale “incapacità di intendere e volere” destinata a valergli al futuro processo un’attenuante e l’annessa riduzione della pena, è una perizia psichiatrica disposta dal giudice del Tribunale di Milano che il 12 aprile aveva arrestato questo 22enne marocchino, da oltre sette mesi in detenuto in custodia cautelare per tentata rapina aggravata di un telefonino alla Stazione Centrale di Milano. Le traversìe sofferte nel lungo viaggio sino a Lampedusa, a giudizio della consulenza scientifica, hanno “dato dimensione fortemente patologica” al “deragliamento clinico manifestato dopo l’arrivo in Italia con un abuso molto più intensivo di sostanze stupefacenti, con la messa in atto di comportamenti criminali e l’adesione ad un modo di essere antisociale, e con una pesante interferenza sullo stesso funzionamento cognitivo, in un soggetto che appare come un debole mentale nella sua analisi di realtà e nel modo di esprimersi, ma che ai test risulta di normali competenze cognitive”. A San Vittore il 22enne marocchino non parla italiano, è confuso a tratti nei racconti, sostiene di essere partito da Casablanca verso la Libia, dove i trafficanti di migranti lo avrebbero dovuto fare partire per 4.000 euro verso l’Italia. Ma in Libia viene tradito e imprigionato, “prendono la gente che vuole andare in Europa e la tengono in un posto chiuso, e chi paga 3.000 euro la lasciano andare, chi non paga rimane lì”. Contatta allora i familiari in Marocco per pagare il riscatto e poter proseguire il viaggio migratorio, ma poi viene di nuovo incarcerato da sempre diverse bande di trafficanti in una sequenza di arresti e rilasci, a seguito dei quali prima di riuscire ad approdare a Lampedusa giura di aver finito per dover pagare in tutto agli scafisti 24.000 euro: “All’inizio il viaggio era organizzato per circa 4.000 euro, non avevo pensato a quello che poteva succedere. Quando venivo trattenuto, mi facevano una foto con la pistola puntata in testa e la mandavano alla mia famiglia, che non aveva altra scelta”. Peripezie per puntare poi a cosa? “Arrivato a Lampedusa il mio progetto era avere un lavoro stabile, una casa e mandare i soldi per aiutare la famiglia in Marocco… Anche se non si aspettavano niente da me, desideravo fargli fare una vita migliore”. Ma senza documenti e quindi senza lavori stabili, “è la droga che mi ha portato qui in carcere adesso... Ho iniziato circa un anno e mezzo fa, in Marocco fumavo hashish ma quando ho iniziato a guadagnare, lavorando in nero come muratore a Firenze, ho iniziato ad assumere cocaina”. Facendo riferimento al modello diagnostico sintetizzato da Najjarkhakhaki e Ghane nel 2021, i due consulenti psichiatri nominati dal gip Fabrizio Filice, e cioè il professor Domenico Berardi e il dottor Marco Lagazzi, dopo aver visitato e esaminato il giovane, premettono che “sul piano clinico certamente non si può invocare la pur suggestiva associazione tra migrazione e aggravamento del “disturbo di personalità” come fattore patogeno certo e di causalità”, e rimarcano che “in assenza di patologie maggiori è ovviamente impossibile pensare ad un vizio totale di mente”. Ciò che invece emerge è “con chiarezza un “disturbo di personalità” talmente strutturato, pervasivo e grave da poter essere motivatamente ritenuto una infermità giuridicamente rilevante” per un poco più che adolescente, che si percepisce “schiavo di un sistema economico che lo condanna all’inadeguatezza perenne” e “vede invece se stesso come indirizzato verso luoghi che promettono maggiori gratificazioni: gratificazioni che però non ha colto, non riuscendo a sviluppare un ruolo lavorativo ed una stabilità esistenziale e sociale, seguendo invece fantasie poco fondate, e successivamente neppure più quelle, ma gruppi di soggetti altrettanto marginali e senza futuro”. Il problema è che “la sua limitata consapevolezza del disagio, l’essere senza fissa dimora e senza riferimenti familiari in Italia, la forte predisposizione ad un uso massivo di sostanze, la compresenza tra aspetti borderline ed aspetti antisociali” sono “tutti elementi che evidenziano un’alta probabilità di recidiva clinico-comportamentale, tale da dare assoluta indicazione ad un trattamento giuridicamente vincolato”. Tradotto, vuol dire che, senza arrivare al ricovero in una Rems, “appare qui indicabile la sua presa in carico da parte del servizio psichiatrico” in tandem con un Sert per la tossicodipendenza, “e nel caso in futuro un eventuale inserimento comunitario in struttura per soggetti “a doppia diagnosi”. Salerno. Garante dei detenuti e consiglieri regionali in visita all’Icatt di Eboli La Città di Salerno, 28 novembre 2023 “Esperienza di questa struttura va rafforzata, promossa e difesa”. Nella giornata di ieri, il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Campania, Samuele Ciambriello, si è recato presso il Moa (Museum of Operation Avalanche) di Eboli per visitare la struttura con il presidente della Commissione Aree Interne della Regione Campania, Michele Cammarano e la Direttrice dell’Icatt Concetta Felaco. Qui sono stati accolti dal Direttore del Moa Marco Botta con il quale il Garante ha avuta una collaborazione finanziata inizialmente dalla Regione e successivamente da Casse delle Ammende, per accogliere tre detenuti del carcere di Eboli per progetti di pubblica utilità. In seguito, il Garante ha visitato l’Istituto dove erano presenti il consigliere Francesco Picarone, il consigliere Andrea Volpe e il presidente della Commissione delle Aree Interne della regione Campania Michele Cammarano. Tutti loro sono stati accolti dai detenuti con un piccolo aperitivo dove sono stati serviti taralli e pizze di loro produzione realizzati attraverso l’impiego di materie prime prodotte all’interno del carcere. La Direttrice dopo un primo saluto ai suoi ospiti ha affermato: “L’Istituto a Custodia Attenuata per il Trattamento della Tossicodipendenza concretizza quella che è la funzionalità rieducativa della pena, tramite diversi percorsi formativi per l’inclusione socio-lavorativa dei detenuti. L’istituto accoglie una comunità di 45 detenuti, di cui 8 sono all’art.21 o.p. all’esterno, un’utenza già filtrata da altri istituti, quindi soggetti che risultano già svincolati dalle dipendenze.” La direzione dell’Icatt propone progetti individualizzati, con il fine di creare una rete sociale e di collaborazione che abbraccia tutto il territorio. Questi prevedono: laboratori di pizzeria, panetteria tenuto dal Consorzio “Noesis”, ma anche corso di manutenzione dell’orto sociale e corsi termoidraulici che hanno dato ad un ex detenuto competenze tali da permettergli l’assunzione presso una ditta tedesca. All’uscita del carcere il Garante campano Ciambriello ha dichiarato: “Oggi nella prima mattinata ho rivisitato il museo di Eboli che si propone di essere un grande contenitore culturale in grado di raccontare i diversi accadimenti legati allo sbarco degli alleati nel periodo della Seconda Guerra Mondiale. Qui sono previsti lavori socialmente utili che impegnano già tra 3 detenuti. Ecco quindi il territorio che si apre, lo sforzo che anche la cultura, le imprese locali e gli artigiani possono mettere in campo l’articolo 27 comma 3 della Costituzione che dice che le pene servono a includere e a reinserire la persona che ha sbagliato. Sono andato poi in visita al carcere, ho parlato con i detenuti e visitato i lavoratori di panetteria e pizzeria potendo gustare le loro prelibatezze. L’esperienza dell’Icatt di Eboli va rafforzata, promossa, difesa. Si tratta di un luogo dove i metodi educativi, di inclusone sociale, gli spazi, le relazioni ma anche l’inserimento e l’integrazione con il territorio sono all’avanguardia. Guai ad ipotizzare solo lontanamente di poter chiedere le finestre e le porte di questa esperienza. Si tratterebbe di un gesto e di un provvedimento di retroguardia” Firenze. Tutor per gli studenti detenuti unifimagazine.it, 28 novembre 2023 L’esperienza con gli studenti detenuti del Polo Universitario Penitenziario nel racconto di due laureate Unifi. “Più la società entra nel mondo del carcere e maggiore è il vantaggio per tutti, perché diventa possibile riaprire strade o possibilità che non si potevano neanche immaginare”. Alessia Tripodo viene da Reggio Calabria ed ha conseguito a Firenze una laurea triennale in Filosofia. Nell’ambito del Servizio Civile per l’Università di Firenze, è stata tutor per gli studenti detenuti che partecipano dell’esperienza del Polo Universitario Penitenziario, che da più di 20 anni garantisce in Toscana il diritto allo studio universitario a chi si trova in esecuzione penale. Il Polo penitenziario è nato per iniziativa dell’Ateneo fiorentino nel 1999 e poi si è allargato con il contributo degli atenei di Pisa, Siena e Siena Stranieri. I tutor svolgono la loro attività alla Dogaia a Prato, a Sollicciano e al “Mario Gozzini” a Firenze e alla Residenza per esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) a Empoli. Quali erano i tuoi compiti quando andavi in carcere? Principalmente offrivo la possibilità di un supporto nella comprensione delle materie. In carcere, per motivi che si possono intuire, non è possibile svolgere delle lezioni in classe: diventa quindi fondamentale per le persone che si cimentano con questo impegno avere qualcuno che possa rispondere ai dubbi, ascoltare le loro esposizioni orali, consigliare una metodologia di studio adeguata. Ma i tutor sono anche essenziali per reperire i libri e il materiale didattico. Fanno inoltre da mediatori fra gli studenti e i professori per il piano di studio o altre necessità. Che tipo di riscontro hai avuto? È evidente che l’esperienza del Polo Universitario Penitenziario è una grande occasione per rimettersi in gioco, per provare a recuperare il proprio percorso di vita. Per la maggior parte si tratta di persone adulte, da 50 anni in su, alcune anche piuttosto autonome, tutte molto motivate. Come ti sei trovata nell’ambiente del carcere? All’inizio avevo dei pregiudizi, poi mi sono accorta che la realtà è diversa da come la si immagina. Il carcere è un microcosmo: se da una parte non si possono banalizzare i reati compiuti dalle persone che ci vivono, dall’altra non possiamo pensare a un istituto di pena come a un contenitore di malvagità assoluta. Ci sono tante storie, tanti tipi di fragilità, tanto male e tanto bene. Sono stata molto contenta di lavorare a Dogaia: c’è stata una collaborazione molto proficua, soprattutto con educatori e polizia penitenziaria. Per lo svolgimento di queste attività l’Ateneo ci ha formato sia dal punto di vista giuridico che relazionale. Anche Ludovica Testa, campana, laureata in Giurisprudenza all’Ateneo fiorentino, ha fatto il tutor a Dogaia. Come giudichi l’attività svolta a Dogaia? È stata una bella esperienza, sinceramente non ho avuto difficoltà. Ho visto le persone ben disposte verso questo tipo di servizio e anche disponibili nei miei confronti. Non studiano per passatempo, l’impegno sui libri è la possibilità per loro di vedere se stessi in un altro modo. Che soddisfazione ho avuto quando ho saputo che avevano superato gli esami! Il diritto allo studio come attività rieducativa: cosa ne pensi, da studiosa di diritto? Credo molto nel fatto che le persone possano avere una seconda possibilità. Penso che questa esperienza, che rende reale il diritto allo studio anche in un contesto difficile e permette di studiare insieme ad altre persone esterne al carcere, sia funzionale allo scopo. Pescara. Un convegno sui problemi della vita penitenziaria ansa.it, 28 novembre 2023 Organizzato dal garante Cifaldi per il primo dicembre. “La Giustizia tra Realtà ed Utopia. Problemi attuali della vita penitenziaria” è il titolo del convegno organizzato dall’Autorità garante dei detenuti della Regione Abruzzo, in programma venerdì 1 dicembre prossimo alle ore 10, nell’Aula Consiliare del Comune di Pescara. L’appuntamento è patrocinato dal Consiglio regionale dell’Abruzzo, dall’Aiga Abruzzo, dal Comune di Pescara, dall’Ordine degli Avvocati di Pescara, dalle Università di Teramo e di Chieti-Pescara e dall’Ordine dei Giornalisti Abruzzo. Interverranno, per i saluti istituzionali: Lorenzo Sospiri, presidente del Consiglio Regionale dell’Abruzzo, Liborio Stuppia, rettore dell’Università degli Studi “G. d’Annunzio”, Maria Rosaria Parruti, presidente del Tribunale di Sorveglianza Abruzzo, Carlo Masci, sindaco di Pescara, Federico Briolini, direttore Dipartimento di Scienze Giuridiche e Sociali Università “G. d’Annunzio”, Stefano Sassano, presidente Ordine degli Avvocati di Pescara; Fernando Alfonsi, coordinatore Aiga Abruzzo, Maria Concetta Falivene, garante dell’Infanzia e dell’adolescenza della Regione Abruzzo; a moderare il convegno sarà Gianmarco Cifaldi, Garante dei Detenuti Abruzzo. I relatori della sessione mattutina saranno: Alfonso Villani, Università degli Studi “Molise”; Marta D’Eramo, giudice del Tribunale di Sorveglianza L’Aquila; Francesco Sidoti, Università dell’Aquila; Fernando Alfonsi, coordinatore Aiga Abruzzo; Fabrizio Fornari, Università “G. d’Annunzio”; Gianfranco De Gesu, già Direttore Generale D.A.P.; Samuele Ciambriello, garante dei Detenuti Campania; Andrea Leonard, Direttore U.e.p.e. Abruzzo-Molise; Giacomo Di Gennaro, Università “Federico II”. Nel corso della sessione pomeridiana, che si aprirà alle 15: Stefano Anastasia, garante dei Detenuti Lazio; Elisa Di Giacomo, Osservatorio nazionale Aiga; Davide Barba, Università di Benevento; Maria Teresa Gammone, Università dell’Aquila; Nazzareno Picchio, Cooperativa Green Hope; Luigia Altieri, criminologa; infine la Compagnia Teatrale TeatrAnppe presenterà: “La Positività della sfortuna”. Lo spirito del volontario: bisogna saper valorizzare le proprie capacità e abilità di Paolo Foschini Corriere della Sera, 28 novembre 2023 Nell’Anno Europeo delle Competenze una indagine e un convegno del Forum. Donne penalizzate sul fronte leadership. Serve un sistema che certifichi le esperienze. Ci sono più donne che uomini, nel mondo del volontariato. Ma ad autodichiararsi abili al comando, o più elegantemente a dir di avere “competenze manageriali”, anche in quel mondo lì sono in prevalenza gli uomini. Finora. Le altre fotografie dell’album descrivono un pianeta - quello del volontariato appunto - fatto in prevalenza di cinquantenni, volendo fare una media. Con pochi giovanissimi, in proporzione, ma comunque con un bell’impegno anche da parte di under 40 e pensionati. Con competenze che riguardano soprattutto la sfera “sociale”, e che però sanno estendersi a tutti i settori (salvo quel che si è detto). Piuttosto col problema di vederle “riconosciute”, quelle competenze. E tuttavia, in un 2023 che è stato proclamato “Anno Europeo delle Competenze” e che purtroppo su questo punto vede l’Italia parecchio più indietro di (molti) altri Paesi dell’Unione, proprio il Terzo settore potrebbe fare da apripista per recuperare il terreno perduto. Sono questi alcuni degli spunti che emergono dall’indagine “Noi+. Valorizza te stesso, valorizzi il volontariato” promossa da Forum del Terzo settore e Caritas Italiana in collaborazione con l’Università di Roma Tre: poco meno di 10mila tra volontarie e volontari intervistati in tutta Italia per farne emergere il cosa sanno fare, il cosa fanno, il cosa potrebbero imparare di più. Per “farlo”, naturalmente, ma soprattutto per “esserne consapevoli”. E quindi per valorizzarlo, specie se uno è giovane: non solo perché abbia peso in un curriculum, a fini professionali, ma prima ancora per contribuire alla propria formazione di “cittadini attivi”. Tutto questo al centro (anche) del convegno che sempre il Forum del Terzo settore ha organizzato per questa settimana (22 e 23 novembre) alle Industrie Fluviali Roma col titolo “Il ruolo del Terzo settore per lo sviluppo delle competenze. Diritto all’apprendimento permanente”. Obiettivo dell’iniziativa, al di là del momento divulgativo, è quello più prettamente politico di “stimolare la nascita di una strategia nazionale che contrasti povertà educativa e disuguaglianze crescenti”. E (anche) la valorizzazione concreta di quel che si sa fare o si impara a fare attraverso le esperienze di volontariato va in questa direzione. Qualche numero. Il questionario di cui parliamo è stato compilato da 8.929 persone che hanno fatto esperienza di volontariato “almeno una volta nella vita”. Undici le “aree di competenza” in cui era possibile riconoscersi. E al primo posto (con competenze messe in campo “sempre” o “molte volte”) vengono come si è detto quelle sociali con il 92,5 delle risposte, seguite dalla competenza di “apprendere ad apprendere” (86,9%) e dalle “competenze personali” (85%), dove il termine sta per “capacità di gestire le proprie emozioni, il comportamento, e adattarsi alle situazioni della vita”. “Si tratta - spiega il professor Giovanni Serra, del Dipartimento di scienza della formazione di Roma Tre - di quelle competenze legate alla capacità di relazione con gli altri. Capacità che proprio attraverso l’attività di volontariato crescono a loro volta”, e che insieme alle altre di cui si è detto rappresentano un “patrimonio di sotf skills” da valorizzare. Le competenze meno presenti invece sono quelle manageriali (usate mai o qualche volta da circa il 40% del campione) così come quelle (più o meno stessa percentuale) legate alla “gestione del cambiamento”: nel senso che l’attitudine c’è, ma spesso manca la formazione (vedi il capitolo della transizione digitale). Altre considerazioni. La maggior parte delle persone impegnate nel volontariato ha un titolo di studio alto, diploma o laurea, e un lavoro a tempo pieno o part time (42,9%). Seguono i pensionati (26,4) mentre gli studenti sono soltanto l’8,7%. Sul fronte uomini/donne la percentuale di queste ultime che risposto “molte volte” supera di dieci punti quella degli uomini in nove sfere su undici. Il punto è che non esiste un sistema che tali competenze le riconosca. Nonostante questo fosse uno degli obiettivi del Codice del Terzo settore. Licio Palazzini, che per il Forum coordina il Tavolo Servizio Civile, presentando le ragioni del convegno di Roma ha indicato tra le cause del problema “la spinta, specie negli ultimi anni, all’acquisizione di competenze finalizzata solo a entrare nel mercato del lavoro, come se non avessimo bisogno di migliorarci a prescindere”. E così, anche se in Italia un decreto del 2013 era andato nella giusta direzione con la definizione di “regole generali” per il riconoscimento delle competenze, nel 2023 siano ancora all’anno zero: con in più il paradosso per cui oggi, anche se in una Regione è possibile ottenere una certificazione di qualche tipo, non viene riconosciuta dalle altre. Ripartire dalle soft skills può essere un buon inizio. È stata una bella manifestazione, ma ora? di Raffaella Silvestri* Il Domani, 28 novembre 2023 C’erano persone che non scendevano in piazza da vent’anni e lo hanno fatto per un principio. Ora però si deve passare alla richiesta concreta: la lotta per i soli princìpi non basta più. È stata una bella manifestazione. Hanno partecipato tutti, non abbiamo chiesto niente, niente di concreto. Abbiamo cantato che il nostro grido era altissimo e feroce, ma mentre cantavo non mi sentivo molto feroce. Mentre cantavo mi sentivo già pensare: sì, ma ora? Era da vent’anni che non andavo a una manifestazione. Siamo in tanti così: prima di Genova 2001, le manifestazioni avevano un carattere mediamente più ostile, confrontational, per usare una parola efficace che vuol dire conflittuale ma non proprio, quel conflitto che si ferma prima dello scontro fisico. Eppure avevamo meno paura di andarci. Era il conflitto di cui ha bisogno la politica per agire, per mettere in agenda i temi e prendere in considerazione le istanze di cambiamento. Dopo Genova le cose sono cambiate, ma non subito, ci è voluto un po’ per capire e introiettare quello che era successo, e questo “po’” di tempo, questo iato di chiarezza - dovuto anche ai tempi della giustizia italiana, e qui si dimostra come giustizia e democrazia siano strettamente connesse - ha permesso che il dissenso si affievolisse in forme di protesta più timide e ammansite, più simboliche. A Genova non ci sono stata per un pelo: avevo 17 anni, ero impegnata ma non troppo, ci sarei andata se ci fosse andato il mio migliore amico, che aveva il padre che militava in Rifondazione comunista e ci disse di non andare perché aveva un brutto presentimento. Conoscendo la città, non avevo nessuna voglia di trovarmi in quelle strade strette e labirintiche pressata fra la gente. Anche se da Milano eravamo andati perfino a un corteo a Roma, Genova mi sembrava inquietante e poco adatta. Dopo Genova, quelle classiche proteste studentesche - che però erano su temi specifici, per esempio contro i finanziamenti pubblici alle scuole private - diventarono sempre più generiche, nel senso che portavano avanti tutti i temi e nessuno insieme: la globalizzazione, la Palestina, il diritto allo studio, e chissà che altro. Tutto in un pentolone che mai includeva i temi femministi. Siamo all’inizio degli anni Duemila, la terza ondata a questo punto è stata soffocata da due decenni di tv commerciali e di stereotipi vari, la donna ipersessualizzata (le veline col seno enorme tirato su e schiacciato in top piccolissimi), la manager che riesce a fare tutto, le mamme che lavorano. A Milano negli anni 2000-2005 tutto taceva e si viveva nel migliore dei mondi possibili, Britney cantava coi codini, Britney era vergine, poi Britney era una puttana, ma noi al liceo classico avevamo i maglioni infeltriti e protestavamo per cause astratte come i lavoratori sindacalizzati, senza sapere che molti di noi e soprattutto molte di noi mai sarebbero stati difesi da un sindacato, neanche se mobbizzate per maternità, neanche se pagate meno degli uomini, anche perché in molte saremmo state precarie. C’è stata una buona epoca per il Pride, che per sua natura è un genere di protesta diverso, in cui farsi vedere ha di per sé una valenza politica e confrontational. “Io ci sono, esisto, e ti obbligo a guardarmi per come sono”, questo è il concetto, che non è applicabile alla lotta femminista, perché noi siamo visibili ovunque, da sempre, ma costrette comunque a vari gradi di sottomissione, a seconda del periodo e dei decenni più o meno accentuata. Non credo che sia lineare il percorso di emancipazione delle donne, ma piuttosto ricorsivo, qualche passo avanti e qualche passo indietro, sperando che il bilancio generale storico non finisca in rosso. La protesta contro i finanziamenti alle scuole private è l’ultima manifestazione che ricordo con uno scopo concreto. Poi c’è stata quella per non cambiare l’esame di maturità, che comunque è cambiato, ma almeno anch’essa era concreta. Dopo quel periodo, si confondono nella mia memoria una serie di cortei genericamente di “sinistra”, ma di cui non ricordo più le istanze, a cui non ho partecipato. Poi le manifestazioni commemorative o simboliche, come quella del primo maggio. Si capisce da questa storia che non sono un’attivista, che mi trovo più a mio agio con il tempo del ragionamento e della scrittura, ma che non ci penserei due volte a manifestare per qualcosa che mi convincesse davvero, e anche su questo penso di essere come tanti. Non una di meno - Arriviamo a sabato, 25 novembre 2023: tanti hanno sentito questa chiamata a scendere in piazza, questo senso rinnovato; tanti su Instagram dicono basta semplificare il pensiero e protestare tramite slide con la grafica intonata all’identità visiva del profilo, basta teorizzare senza mai mettere davvero piede né in strada né “dentro” ai testi teorici, che sono fra di loro sanamente contraddittori, dialettici, aperti. Sono stata più di un’ora seduta sul muretto della fermata della metropolitana Circo Massimo di Roma, ad aspettare degli amici, e ho osservato tutte le facce che salivano le scale per immettersi nella folla: molte donne ovviamente, molte donne con bambini in età di scuola elementare, molti uomini - a occhio ho stimato un 30 per cento. C’è una popolazione che va alle manifestazioni come abitudine, una popolazione che stimo e che reputo impegnata, a cui non appartengo e a cui non appartiene la maggior parte dell’Italia, una popolazione che in alcune città come Milano si è quasi estinta, perché sono stati chiusi tutti i luoghi in cui si ritrovava e in cui si rinnovava nelle nuove generazioni, per esempio i centri sociali. A Roma, una città che conosco meno ma in cui al momento vivo, ho ritrovato questo popolo, questa tradizione: sarà il tipo di lavori che si fanno a Milano che portano all’individualismo, in contrapposizione ai lavori più “culturali” della capitale; saranno i grandi numeri, non so. Ma le persone che vedevo salire le scale dalla metropolitana non erano i sempre-impegnati, erano un campione estremamente variegato di popolazione. Una conversazione ascoltata per caso: due donne e un bambino sugli otto anni. Forse una madre e una zia. Una spiega al bambino: “Sai perché diciamo “Non una di meno?”. Perché gli uomini, quando si arrabbiano…” - la zia la corregge: “Alcuni uomini”. Si accordano per questa spiegazione: “Alcuni uomini, quando si arrabbiano, visto che sono più forti, fanno del male alle donne. E non devono farlo più”. Marciare per dei princìpi - Sono salite dalle scale tante ragazze con cori un po’ incazzati. Mi hanno dato un po’ speranza. Tanti uomini di mezza età con i bambini piccoli. Due con il cane (bisogna volergli male ai cani per portarli in quella che per loro è una sovrastante bolgia). Mi sono trovata per caso proprio in testa al corteo, perché ho tagliato e sono risalita dal Circo Massimo a metà. Ero con due uomini gay, sono stati redarguiti: siete pur sempre uomini, non mettetevi sempre in mezzo. Mi sono girata terrorizzata a cercare con lo sguardo mio marito, che è pure etero, svettava altissimo coi capelli biondi, ma fortunatamente stava varie file più indietro. Gli ho detto “bè, vieni qui”. Lui mi ha guardato come a dire che solo io potevo suggerirgli di superare delle bambine (è vero, ci separava un gruppo di bambine). È stata una bella manifestazione. Hanno partecipato tutti, non abbiamo chiesto niente, niente di concreto. Abbiamo cantato che il nostro grido era altissimo e feroce, ma mentre cantavo non mi sentivo molto feroce. Mentre cantavo mi sentivo già pensare: sì, ma ora? Ora almeno la nostra presidente del Consiglio sa che ci sono 500mila persone che hanno qualche interesse a un programma di riduzione dei femminicidi. Ma sto concretizzando io: in realtà non abbiamo chiesto nessun programma. Nessun piano decennale trasversale ai partiti, come quello che hanno in Svezia dal 2016, per prevenire la violenza. I detrattori dell’emancipazione femminile dicono che non serve a prevenire i femminicidi. Io continuerò a scriverne. Ma ho il chiaro sentore che tornerà a essere una cosa di nicchia, ho il chiaro sentore, per citare Piccolo, che tutti si siano già rotti le palle. Insomma è stato bello. Ma ho avuto l’impressione di marciare in modo simbolico, per dei princìpi. I princìpi sono importanti, ma ora vorrei lottare per degli interessi. Delle cose piccole, meschine. I bagni pubblici. Un programma per aumentare il tasso di impiego femminile. L’educazione affettiva obbligatoria. Sceglietene una voi, io in piazza ci torno. *Scrittrice Non basta una materia a scuola per educare al rispetto di Nadia Urbinati* Il Domani, 28 novembre 2023 Se solo si riuscisse a spiegare ai giovani, con l’esempio e il discorso, che un diritto è l’altra faccia del dovere di rispetto verso sé stesse/i e quindi gli altri, forse si sarebbe già ottenuto un risultato importante. Ma non ci può essere un docente specifico che insegni l’educazione sentimentale. La mattanza di donne è una piaga che difficilmente si guarisce con una legge e un compromesso tra maggioranza e opposizione - comunque importanti. Reprimere, più duramente, si deve. Ma non è sufficiente, se è vero che resta ancora difficile per una donna che subisce violenza farsi prendere sul serio da chi si occupa, per lavoro, della sicurezza o da chi deve giudicare il reato. Il contesto della mattanza di donne è denso. E il lavoro che deve affiancare gli interventi di repressione e di dissuasione sarà di lungo periodo. Circola la proposta di una “educazione sentimentale” magari come materia scolastica, che si aggiungerebbe a quell’altra cenerentola che è l’”educazione civica”. Educare al rispetto non è un obiettivo raggiungibile aggiungendo una materia scolastica. Il rispetto non è un oggetto trasferibile da insegnante ad alunni come una teoria o un decalogo. Il mondo delle relazioni interpersonali è la sua scuola; quel tessuto denso che si riforma vivendo. Pensare mentre si fa, direbbero i pragmatisti. Seconda natura, “abito comportamentale”: il frutto maturo che si coglie alla fine di un lavoro non premeditato che comincia dalla nascita a partire dall’apprendimento della lingua e della postura morale, con la guida dei modelli di comportamento che gli adulti propongono. Fare per imitazione per poter fare per scelta. Avere modelli positivi da imitare è quindi l’obiettivo. La seconda natura non è mai solo un fatto individuale anche se come gli abiti si adatta alla persona e si fa carattere. Senza i “mores” sosteneva Montesquieu, anche i buoni governi si trasformano in despotismi. Il patriarcalismo è una forma di despotismo: relazione tra padroni e servi; un serraglio. Una società democratica, annotava Tocqueville, ha un tipo di famiglia e di relazioni tra i generi che non si adatta a società dispotiche. Oggi il patriarcalismo non designa un modo di essere della famiglia. Morta la famiglia patriarcale sotto i colpi delle carte dei diritti, delle lotte referendarie, delle buone leggi, il patriarcalismo resta come un residuo che toglie ossigeno alla determinazione individuale a scegliere il proprio percorso di vita con responsabilità e nel rispetto degli altri. Non ci si sofferma mai abbastanza a riflettere sul fatto che i diritti sono mediazioni che regolano i nostri “scambi” di idee, impressioni, effusioni, sentimenti, opinioni. Nel regolare il nostro dare e ricevere segnano un confine, oltre il quale c’è sopruso degli altri e di noi stessi, perché violare gli altri è lacerare il tessuto delle relazioni nel quale viviamo, e fare male anche a noi stessi. Se solo si riuscisse a spiegare ai giovani, con l’esempio e il discorso, che un diritto è l’altra faccia del dovere di rispetto verso sé stesse/i e quindi gli altri, perché dove esso finisce comincia lo stato di guerra e la violenza, verbale e fisica, forse si sarebbe già ottenuto un risultato importante. Ma non ci può essere un docente specifico che insegni l’educazione sentimentale. La seconda natura la si apprende vivendo con gli altri, stando insieme agli altri nelle forme collettive e sociali, occasionali e cercate, non solo nelle relazioni amicali e amorose. Apprendere a parlare con senso compiuto delle proprie emozioni, dei propri desideri; apprendere a considerare la dimensione privata come una, benché importante, sfera di vita che ha bisogno dell’aria aperta per non diventare ossessione totalizzante. Il patriarcalismo è un mondo, di modelli di comportamento che sono ovunque. Si dovrebbe poter rovesciare tutto per ricostruire tutto. Non potendo, resta il paziente bricolage, senza smettere di denunciare e lottare. *Politologa I diritti e il potere, smantellare i privilegi per fermare i femminicidi di Gabriele Segre Il Domani, 28 novembre 2023 Gli orrori della cronaca recente sembrano aver palesato agli occhi dei più come estinguere ogni delitto o violenza di genere sia un traguardo inderogabile di ogni progresso civile: un imperativo sociale urgente, non più un semplice auspicio. La medesima consapevolezza ha sferzato il dibattito non solo su quale sia il metodo più giusto per intervenire, ma anche sul modo in cui uomini e donne debbano contribuire in maniera distinta a questo percorso collettivo. Uno sprone incalzante, indifferente al lieve calo statistico di tali crimini: a prescindere dai dati, non siamo più disposti a tollerare alcuna prevaricazione originata da relazioni di potere così sedimentate nel tempo che ancora oggi infangano il nostro modo di vivere e agire. Non è un obiettivo irrealizzabile. Basti riflettere su come narrative non lontane nel tempo denigravano in modo sprezzante individui appartenenti a gruppi etnici diversi, o ai frequenti stereotipi sessuali di cui è intrisa la filmografia di pochi decenni fa: spigolature che nel presente vengono sempre più stigmatizzate senza appello. Oggi assistiamo, infatti, ad un progresso marcato che appare tanto necessario quanto, auspicabilmente, irreversibile. Ed è prevedibile che tale spinta continui, rigettando con perentoria convinzione tutti quei privilegi divenuti intollerabili allo sguardo contemporaneo. La sfida allora è quella di comprendere fino a che punto tali atteggiamenti prevaricatori possano essere sradicati, domandandosi allo stesso tempo come sia possibile farlo senza sfociare in una rivoluzione violenta o in un atto di pura vendetta. Pene più aspre, maggiore educazione nelle scuole, campagne di sensibilizzazione mirate… sono tutti elementi concreti che possono contribuire a mitigare le statistiche, ma che rimarranno insufficienti se non si agisce a livello delle convenzioni sociali profonde su cui si è sedimentata la nostra comprensione del mondo. Scardinare i legami di potere di una “parte” su un’altra richiede, in ultima analisi, di ristabilire un nuovo equilibrio relazionale tra identità diverse. La criticità sta, tuttavia, nel riconoscere con precisione l’obbiettivo: contrastare questo sbilanciamento, non attaccare l’altro nella dignità della sua identità. Chi si adopera per una società migliore non può che partire dalla consapevolezza che diritti e vantaggi non devono variare a seconda di chi siamo. E se così avviene ancora è perché esistono costrutti culturali che creano le condizioni perché tale ingiustizia venga perpetrata. Troppo spesso, infatti, si finisce per ritenere che certi benefici siano innati per alcuni, mentre sono solo vestiari simbolici che ammantano le identità più fortunate da sempre. Ma se a questi privilegiati è lecito chiedere di spogliarsi di essi, non si può altresì intimare loro di svestire la propria pelle. Se, infatti, una giustizia condivisa è possibile e doverosa, l’attacco a una identità collettiva finisce sempre per produrre ferite individuali. Possiamo sostenere che vengano eliminati i privilegi di un gruppo, ma se ci si sente colpiti per ciò che si è, si finisce per vivere l’attacco a livello personale. Una condizione in cui diventa difficile sviluppare l’idea di un diritto egualitario, in favore di una giustizia che rischia di diventare esclusivamente riparativa. Eppure, è proprio l’equità ad essere una parte essenziale di ogni progetto di convivenza: quel principio che ci vede impegnati a vivere insieme senza rinunciare alla nostra identità, ma anzi sfruttandone le peculiarità per il progresso di tutti. Oggi, sia gli uomini che si sentono attaccati in quanto tali, sia chi li stigmatizza, dovrebbero riflettere su questo: avere la possibilità di esercitare un potere fisico, economico o morale su un nostro simile non è prerogativa della nostra identità, ma un “vantaggio” derivato dall’essere nati in un gruppo favorito dalla storia e dalla cultura. Possiamo spogliarci di esso e rimanere noi stessi. E tutti ne trarremmo giovamento. Zanotelli: “Guerra e femminicidi legati da un filo unico, il potere del controllo sull’altro” di Matteo Macor La Repubblica, 28 novembre 2023 Il religioso simbolo del pacifismo italiano è a Genova per celebrare, l’8 dicembre, i 53 anni della Comunità di San Benedetto creata da don Andrea Gallo. A 85 anni compiuti Padre Alex Zanotelli non possiede un telefono cellulare, né un’auto, né una casa, fa esercizio di povertà come missione e per incontrarlo non rimane altro che cercarlo dove vive, o - dice lui - “dove serve militare, nonostante l’età”. Tra i ragazzi del rione Sanità a Napoli, dove ha scelto di andare a stare dopo una vita in giro per l’Africa e il mondo, o tra i suoi tanti incontri per il Paese, ospite di comunità, movimenti, collettivi. In questi giorni è passato dalla Liguria anche per lanciare l’anniversario della nascita della Comunità di San Benedetto al porto di don Andrea Gallo, che si ricorderà l’8 dicembre alla Sala Chiamata di Genova con un incontro con ospiti da tutta Italia. Ed è da qui che mette a fuoco “il tema di questi tempi”: “La violenza sulle donne è come la guerra, sono volti diversi della stessa cultura, uniti dalla ricerca del potere: ecco perché - è il messaggio del comboniano - più che nuove leggi abbiam bisogno di una rivoluzione culturale”. Però le piazze di questi giorni, per prime quelle del no alla violenza sulle donne, ci dicono che i suoi anticorpi almeno la società civile dovrebbe averli. Non pensa? “Queste piazze, così ricche, così partecipate, ci dicono una speranza c’è. Le donne, in questo momento, urlano, alzano la voce. E fanno bene, dobbiamo essere grati a chi va in piazza e protesta. Se non si grida, come stanno facendo tante ragazze e tanti ragazzi, si ottiene ben poco. Ma allo stesso tempo la reazione di questi giorni ci ricorda che il problema è strutturale, che è proprio il sistema in cui viviamo, che vive di violenza. Ha ragione Crepet, hanno ragione gli psicoterapeuti: il problema siamo noi, dobbiamo guardarci dentro”. Cosa c’è di sbagliato, nella società o nel Paese che abbiamo costruito? “Il nostro è un sistema violento nel senso che tutto è regolato da leggi precise, che nella società sono quelle del patriarcato, e che nel mondo sono quelle della sopraffazione. Che si tratti di relazioni tra uomini e donne, come di relazioni internazionali tra gli stati. Il fenomeno dei femminicidi che tanto ha scosso le nostre coscienze, nasce in questo contesto. Ma il tratto di fondo è lo stesso delle oltre 60 guerre che infiammano il nostro mondo”. C’è un filo che lega la violenza sulle donne, i femminicidi, le guerre, pensa questo? “Certo, la violenza è il tratto distintivo di una società dove la donna è ancora così sopraffatta. Dove la guerra viene usata per risolvere le controversie tra stati. Dove la guerra si fa anche al pianeta, negando e peggiorando la crisi climatica. La mia generazione sarà tra le più maledette della storia umana perché nessuno ha devastato il pianeta Terra come abbiamo fatto noi. Ed è la ricerca del potere, del controllo sull’altro, che sia un corpo o un territorio, che lega le cose. Che porta a usare la violenza per regolare le relazioni tra persone, che porta anche a legittimare l’uso della violenza anche al di fuori delle regole della stessa guerra, come sta avvenendo in questi giorni. Serve iniziare a connettere le cose”. Dall’ambiente alle guerre, lei queste cose le diceva già in piazza a Genova nel 2001, nei giorni del G8. Cosa vuol dire? “L’analisi di una società ingiusta a tutti i livelli, a partire da quello economico, dove il 10 per cento degli abitanti del mondo consuma il 90 dei beni lasciando agli altri le briciole, dove 800 milioni di persone fanno la fame e il mondo occidentale butta ogni anno quasi due miliardi di cibo buono, dove l’uno per cento più ricco della popolazione mondiale inquina quanto 5 miliardi di persone, l’hanno fatta già grandi esempi come don Gallo, don Milani, tanti altri. Non possiamo dire di non avere avuto delle voci importanti a metterci in guardia. Mai come ora però dobbiamo uscirne fuori, e per farlo serve una rivoluzione culturale”. Partendo da dove? Dalle scuole, dalla società civile, dalla politica? “Siamo tutti responsabili, la società civile, le chiese, la politica: ognuno ha la sua responsabilità sul tipo di educazione che stiamo dando alle generazioni del presente e del futuro. Si cambia partendo dalla scuola, combattendo a livello educativo la cultura patriarcale in cui viviamo. Si cambia con scelte coraggiose della politica. O riusciamo a dire basta al riarmo o passeremo da un conflitto a un altro. Nel 2022 l’Ue ha speso 345 miliardi in armi, come non mai”. Cosa ne pensa, del dibattito sulla guerra in Medio Oriente? “È un dibattito povero, per paradosso poco informato, dove mi auguro non si continui a considerare dalla parte dei terroristi chiunque ponga un dubbio sulla proporzionalità dell’azione militare di Israele. Va condannato il terrorismo di Hamas, messa in guardia la società da ogni, serpeggiante forma d’ antisemitismo, ribadita la legittimità di Israele di esistere e di difendersi, ma va anche detto con coraggio che non può farlo così, nel modo in cui a Gaza ha bombardato civili, donne, bambini. Quest’ennesimo dramma ci dice che la soluzione dei due stati, Israele e Palestina, è l’unica possibile per rendere giustizia ai popoli e fermare la guerra. Lo dice il Papa, non solo io”. Migranti. Minori stranieri nell’hotspot di Taranto, la Cedu condanna l’Italia di Gaetano De Monte Il Manifesto, 28 novembre 2023 I giudici: trattamenti inumani e degradanti. Per la Corte violati tre articoli della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha condannato nuovamente l’Italia per la gestione dei suoi hotspot: questa volta la vicenda riguarda tredici minori stranieri non accompagnati trattenuti per quasi due mesi, dal maggio al luglio del 2017, nell’hotspot di Taranto. Cioè tra le tende e i capannoni che si trovano al varco nord del porto, la zona industriale della “città dei due mari” dove i migranti sbarcati vengono ancora oggi alloggiati per l’identificazione, tra le polveri rilasciate dalla vicina fabbrica siderurgica ex Ilva e i miasmi provenienti dalla raffineria Eni. Qui è accaduto più volte che i minorenni venissero detenuti, anche per diversi giorni, in attesa della sistemazione in comunità dedicate. Questa prassi, però, è stata giudicata lesiva dei diritti fondamentali dalla Cedu, che giovedì scorso ha condannato il governo italiano dell’epoca. Presidente del consiglio era Paolo Gentiloni e ministro dell’interno Marco Minniti. Ma andiamo con ordine. Quando nel luglio 2017 gli avvocati Dario Belluccio e Maria Teresa Angiuli dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) entrano nel centro di identificazione, accompagnati da un parlamentare, trovano una situazione preoccupante. “Sono diverse centinaia le persone trattenute all’interno dell’hotspot, non solo minori, ma anche e soprattutto persone adulte, provenienti sia da sbarchi e salvataggi, sia da rintracci della polizia italiana a Ventimiglia. Così si mescolano sia persone precedentemente identificate, sia in attesa di identificazione”, si legge nel ricorso presentato alla Cedu. “Nonostante i ricorrenti e gli altri minori chiedessero in continuazione di essere trasferiti o di poter uscire dal centro di trattenimento - scrivono i legali - era sempre loro riferito che non vi erano altri posti dove poter andare e che non avrebbero dovuto lamentarsi, a pena di essere rinviati nel proprio paese di origine”. E ancora: “i ricorrenti dormono insieme a centinaia di adulti in letti fittamente affiancati; nella struttura sono presenti soltanto i letti, mentre mancano degli spazi comuni o personali dove riporre i propri effetti, nessun armadietto, nessuna sedia, nessun tavolo, né mensole”. L’hotspot di Taranto è stato istituito nel febbraio del 2016. Oggi sono quattro le strutture di questo tipo attive sul territorio nazionale. Le altre tre si trovano in Sicilia: a Lampedusa, Pozzallo e Messina. Nati come centri per la sola identificazione, nella realtà gli hostpot funzionano anche come strutture per il trattenimento. Sono inaccessibili a giornalisti, avvocati ed enti di tutela. Forse perché ai governi di ogni colore fa comodo che vengano nascoste le prove di diritti violati, come quelle messe nero su bianco dai legali di Asgi: “non vi sono lenzuola che coprano i materassi e tutti gli spazi sono di fatto comuni. I bagni non sono forniti di acqua calda e per fare la doccia si deve fare la fila all’aperto per molto tempo. E la scarsezza di cibo distribuito costituisce motivo di sofferenza”. Questi e altri motivi hanno convinto la Corte, presieduta da Stéphanie Mourou-Vikström, che i diritti fondamentali dei tredici minori sono stati violati. In particolare il loro trattenimento è andato contro tre articoli della Convenzione europea per i diritti dell’uomo: il terzo, che punisce i trattamenti inumani e degradanti; il quinto, sul diritto alla libertà e alla sicurezza; il tredicesimo, sul diritto al ricorso effettivo. In sostanza, la Corte ha riconosciuto che le condizioni dell’hotspot non erano in grado di garantire la dignità dei presenti, rilevando peraltro che erano peggiori persino di quanto argomentato nel ricorso e da un report redatto nel 2017 dalla commissione straordinaria per i Diritti umani del Senato, e che i minori stranieri sono stati trattenuti senza alcun provvedimento formale. Tutto questo quando al governo c’erano le forze politiche di centrosinistra. I migranti nell’orrore libico: “È meglio se mi lasci morire” di Don Mattia Ferrari La Stampa, 28 novembre 2023 Il movimento Refugees in Libya posta immagini choc per svegliare le nostre coscienze. Ma qui tutto tace e la speranza di umanità è affidata a un’Europa che rinasce dal basso. “Lasciatemi morire!”: è questo il grido disperato dell’ennesimo ragazzo torturato dalla mafia libica, nel video diffuso ieri pomeriggio. La vittima è un migrante subsahariano: come molti altri ha lasciato la sua terra di origine a causa dell’ingiustizia globale e, come molti altri, è finito nelle mani della mafia libica, che lo ha chiuso nel lager. Lì la mafia libica lo tortura per mandare il video alla famiglia al fine di estorcere loro un riscatto. Il lager in cui si trova questo ragazzo è a Bani Walid, la stessa città dove sono stati girati altri video dell’orrore, diffusi nelle scorse settimane. Il movimento sociale di cui sono protagonisti i migranti stessi, Refugees in Libya, continua a rilanciare questi video per svegliare le coscienze dell’Europa, ma da questa sponda del mare tutto tace. La nostra responsabilità nelle torture che subiscono questo ragazzo e tutti gli altri migranti in Libia è altissima, perché, come ha ribadito la stessa Onu nel report uscito in parte su Avvenire grazie a Nello Scavo, c’è un legame diretto tra la cattura dei migranti operata dalla cosiddetta Guardia costiera libica, finanziata dall’Italia, e la loro deportazione nei lager. Di questo grave crimine l’Italia è corresponsabile in particolare da quando, nel 2017, ha deciso di allestire e finanziare la cosiddetta Guardia costiera libica, portando in Italia uno dei principali superboss della mafia libica, Bija, per farlo sedere con i nostri servizi segreti. Successivamente, l’Italia ha sempre rinnovato quegli accordi. La politica non ha mai avuto il coraggio di cambiare e la società civile non è mai stata capace di far sentire ai governanti una pressione tale che li spingesse a smettere di allestire e finanziare questa sistematica violenza disumana e questa complicità di fatto con la mafia libica. Dobbiamo chiederci: che Paese è quello che non è capace di reagire davanti al grido di dolore di queste persone, torturate per colpa delle nostre politiche? La speranza di un riscatto di umanità non è ancora perduta, perché proprio nel Mediterraneo, dove l’Europa collassa nella sua stessa civiltà, c’è anche un’Europa che rinasce dal basso. È l’Europa che prende carne nelle tantissime persone attiviste provenienti da tutti i Paesi del nostro continente che hanno scelto di opporsi concretamente a questa deriva agendo nella “civil fleet”, l’insieme delle organizzazioni della società civile che salvano i migranti dai naufragi e dai respingimenti. In queste persone, e in quelle che operano accanto a Refugees in Libya per la liberazione dei migranti nei lager libici, rinasce dal basso l’Europa che era stata sognata dalle generazioni che l’hanno fondata. In queste pratiche e in queste relazioni, come in quelle costruite da tutti coloro che in ogni città vivono l’accoglienza, prende carne il valore politico della fraternità. Il dramma di questa epoca è proprio che abbiamo dimenticato la fraternità: siamo diventati prigionieri dell’individualismo che ci rende sempre più spaventati, sempre più arrabbiati, sempre più in competizione. C’è un legame tra le sofferenze dei migranti nei lager libici e quelle di chi è oppresso in vario modo dai problemi sociali in Italia, che siano gli studenti che soffrono sempre di più a livello di salute mentale, gli universitari che non hanno accesso al diritto alla casa, i lavoratori sfruttati, le persone che subiscono discriminazione per la propria identità sessuale o di genere, l’ambiente devastato dalla catastrofe ecologica e via dicendo: tutte queste sofferenze sono la conseguenza di una società malata, che ha dimenticato la fraternità. Non ci sarà salvezza se non diventeremo capaci di costruire insieme una nuova società, che assuma il valore politico della fraternità. Per essere autentica, la fraternità si realizza solo se si parte dagli ultimi. Finché il grido dei migranti che arriva dai lager libici non sarà ascoltato, non ci sarà speranza. Allora che si sveglino le coscienze di noi tutti e che diventiamo capaci di capire che solo se abbiamo il coraggio dell’empatia, dell’amore viscerale, possiamo salvarci.