Al 41-bis si sta ad ascoltare il silenzio e ad aspettare il niente di Maria Brucale* L’Unità, 26 novembre 2023 Un non luogo, dove il diritto non entra. Dove la vocazione costituzionale di ogni pena al trattamento e alla rieducazione e alla restituzione sono sospesi con un provvedimento ministeriale per un tempo indeterminato, infinito. Il 41-bis è un non luogo dove il diritto non entra. Dove la vocazione costituzionale di ogni pena al trattamento, alla rieducazione e alla restituzione sono sospesi con un provvedimento ministeriale per un tempo indeterminato, infinito. Uno spazio liquido e informe in cui la sanzione è mera afflizione e il detenuto interrompe la sua essenza di uomo, veste i panni del suo crimine, è il suo crimine e nient’altro. Non incontra educatori, psicologi, criminologi. Nessun operatore del carcere predispone per lui una relazione di sintesi né un magistrato di sorveglianza approva il programma trattamentale. Non c’è proiezione di futuro al 41 bis tanto più a fronte della nuova legge, n. 199 del 2022, che esclude per chi è ristretto in quel regime ogni accesso a misure alternative o a benefici premiali. Nel tempo la Corte costituzionale ha ribadito più volte che le limitazioni e la sospensione del trattamento intramurario sono ammissibili solo se finalizzate in concreto alla sicurezza sociale. Il Comitato di prevenzione della tortura del Consiglio europeo, già nel novembre 2013 aveva intimato all’Italia di adottare le misure necessarie per assicurare che tutti i detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis potessero usufruire di una più vasta gamma di attività mirate, trascorrere almeno 4 ore al giorno al di fuori delle proprie celle, insieme agli altri detenuti presenti nella stessa sezione; accumulare le ore di colloquio a loro spettanti di diritto e non utilizzate; telefonare con maggiore frequenza, indipendentemente dal fatto che avessero o meno effettuato il colloquio mensile. Ancora, aveva censurato la frequente soggezione a videosorveglianza permanente; l’esistenza di ulteriori restrizioni nelle c.d. sezioni di area riservata rispetto alla possibilità di incontro con altri detenuti; la mancanza di luce e aria adeguate in ragione della apposizione alle finestre di schermature in plexiglass. Le raccomandazioni del C.P.T. rinnovate di anno in anno sono però rimaste pressoché inattuate e la carcerazione in regime derogatorio rimane un trattamento inumano e degradante che lede la dignità della persona. Dignità, un bene che a tutti appartiene, che è al cuore del sistema ordinamentale e che non può esistere in una vita sottratta alla progettualità, all’aspettativa di un domani, del recupero, della restituzione. Il regime derogatorio si applica indistintamente anche a persone in custodia cautelare. Indagati o imputati e, dunque, presunti innocenti che magari verranno assolti e torneranno in libertà spezzati, dopo aver subito una carcerazione di massima afflizione. I ristretti in regime di 41 bis sono collocati in luoghi sempre distanti dal loro contesto di origine. Incontrano i propri congiunti per un’ora al mese, dietro a un vetro divisorio antiproiettile a tutta altezza, in ambienti piccoli e angusti, spesso sporchi. Possono sostituire il colloquio con mia telefonata di dieci minuti per effettuare la quale i familiari devono recarsi in un carcere. I minori di dodici anni possono toccare il genitore recluso al di là del vetro. Il passaggio avviene allontanando i familiari che lo accompagnano. Sono momenti di grave trauma emotivo per il fanciullo che vive con orrore e paura l’incontro con il proprio congiunto in carcere. Uno strazio senza fine che nega ai bambini ogni continuità di amore. È contratto l’accesso alla lettura, all’informazione, alla cultura. Non solo perché il detenuto deve utilizzare, per acquistare libri e giornali attraverso l’amministrazione penitenziaria, il denaro di cui dispone personalmente all’interno dell’istituto rinunciando ad altri piccoli generi di conforto ma anche perché spesso si vede opporre un rifiuto per l’asserita irreperibilità di quanto richiesto. La corrispondenza è soggetta a censura. Le lettere dei propri cari sono tutto in 41-bis, il solo mezzo per parlarsi, per restare vicini, in contatto, per non perdere del tutto l’approccio alla quotidianità del proprio ambito familiare. Ma si deve prestare attenzione a non usare espressioni non immediatamente leggibili, che possano essere fraintese. Contenere l’anima, la distanza, le emozioni in parole povere, accorte, spoglie, mancanti di immagini e colori. Così il filo si spezza e nelle lettere si scrive il meno possibile, ci si limita a comunicazioni minime e si lascia fuori il racconto, la storia, il vissuto e l’amore si relega alla dimensione del ricordo, al concetto sempre più astratto di famiglia, se resiste. E chi è in carcere, in 41 bis, resta solo ad ascoltare il silenzio, ad aspettare il niente. *Avvocato De Robert: “Madri con i figli in carcere: le soluzioni a tutela dei bimbi” di Milena Castigli interris.it, 26 novembre 2023 Intervista a Daniela de Robert, del Collegio dell’Autorità Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, sulla spinosa questione dei bambini reclusi nelle carceri con le proprie madri. Alcuni bambini sono costretti a vivere in carcere a causa della detenzione della madre. Nelle carceri esistono le sezioni nido per accudire i piccoli, che comunque vivono - a volte per un breve periodo, altre volte per mesi - la realtà carceraria senza nessuna colpa. Eppure, il carcere non è l’unica opzione per questi bambini, una ventina attualmente in Italia. Le soluzioni alternative ci sarebbero. Ne abbiamo parlato con la dottoressa Daniela de Robert, componente del Collegio dell’Autorità Garante dei diritti delle persone private della libertà personale che è anche il Meccanismo di prevenzione della tortura in ambito Onu. Il Garante nazionale ha il compito di risolvere quelle situazioni che generano occasioni di ostilità o che originano reclami proposti dalle persone ristrette, riservando all’autorità giudiziaria i reclami giurisdizionali che richiedono l’intervento del magistrato di sorveglianza. In quali casi i bambini restano in carcere con la madre? “La possibilità di poter tenere con sé i propri figli in carcere è una previsione di legge che va nella direzione di tutelare la genitorialità al fine di consentire alle madri che devono scontare una pena di non interrompere il rapporto con il figlio in un momento così delicato come nei suoi primi anni di vita. Il diritto alla genitorialità non può essere trascurato. Ciò nonostante, vige anche il diritto del minore di vivere in un ambiente costruttivo e adatto a lui. È chiaro che il carcere non sia il luogo ideale. È però sbagliato mettere in contrapposizione due diritti, quello del bambino a una vita serena e a un ambiente adatto alla sua crescita e quello alla genitorialità. I diritti non possono mai essere contrapposti; bisogna invece trovare una soluzione alternativa. Per tale motivo, il tenere il figlio in carcere deve essere una misura estrema che va ridotta al minimo, possibilmente a zero. Laddove la custodia cautelare non è necessaria, va dunque sempre evitata. Infatti, la legge prevede che, per le donne con un figlio nei primi anni di vita, la prima scelta da attuare è quella delle case famiglia protette”. Cosa sono e come funzionano? “Le case famiglia protette sono delle strutture la cui costruzione era stata affidata ai comuni. Purtroppo, ne è stata realizzata una sola nel comune di Roma. Esiste poi una seconda casa famiglia protetta a Milano ma che non è del comune, ma di un associato privato sociale con cui è stata fatta una convenzione. Purtroppo, non ne sono state fatte altre. Perciò, i posti disponibili per queste donne con bimbi piccoli sono estremamente esigui e insufficienti”. Quali altri opzioni esistono oltre alle case famiglia protette? “La seconda opzione è quella degli Icam, gli istituti a custodia attenuata per detenute madri. Luoghi pensati con una maggiore attenzione rivolta al minore. Per esempio: niente divise, niente porte blindate ‘evidenti’, niente sbarre e sono posizionate fuori dal carcere. Ma purtroppo non sempre così. E le regole che vigono all’interno degli Icam sono pur sempre quelle di un istituto penitenziario. Quindi i bambini possono uscire per andare alla scuola materno o all’asilo nido, ma - ad esempio - se in una casa famiglia protetta il bambino ristretto con la mamma volesse festeggiare il compleanno con i suoi fratelli più grandi o con la sua classe, potrebbe farlo. Mentre in un Icam no. Quindi, ha delle ristrettezze importanti, ma mai come in carcere, ovviamente”. Quanti sono gli Icam attualmente e quanti posti hanno? “Gli Icam in Italia sono quattro e sono distribuiti in maniera non omogenea: tre sono al nord, Milano, Torino e Venezia per un totale di 32 posti e uno è in Campania, a Lauro (Avellino), per 50 posti. Manca completamente nel Lazio e specificatamente a Roma, che è la città che ha l’istituto di pena femminile più grande d’Europa, con 400 donne recluse. Non avere neppure un Icam in un territorio come il Lazio è, secondo me, una grave mancanza”. Quali altre opzioni per le madri detenute? “La terza opzione è quella delle cosiddette ‘sezioni nido’, che sono le sezioni detentive attrezzate per i bambini all’interno delle carceri. Noi come Autorità Garante le abbiamo visitate: sono a misura di bimbo, con le pareti colorate e le immagini di animali come in un vero asilo nido, ma sono pur sempre inserite in una sezione detentiva. In alcuni casi, addirittura, la sezione nido era una cella all’interno della sezione detentiva normale in cui era stato messo un lettino per bambini. È ovvio che questa sia la soluzione peggiore in assoluto per i bimbi. E rende chiaro il perché sia vitale che al bambino venga evitato il carcere se non è assolutamente necessario che la madre sia tenuta lì. In caso contrario, devono essere privilegiate le altre opzioni, a partire dalla casa famiglia protetta. Questo dice la legge, ma non sempre è stato effettuato. Ciò nonostante, il traguardo ‘zero bambini in carcere’ è possibile. Ed è già avvenuto”. Quando? “Durante il Covid. In quel periodo, si è riusciti ad arrivare a zero presenze di bambini in carcere. Questo ci suggerisce che lo slogan ‘mai più bimbi in carcere’ è difficile ma non impossibile da realizzare. È chiaro che non è automatico: a volte può rendersi necessario che la donna sia ristretta in un istituto penitenziario e che comunque le sia garantita la possibilità di tenere suo figlio con sé per preservare il rapporto genitoriale. Ma deve diventare l’eccezione; la regola deve essere il trovare soluzioni più a misura di bambino possibile, affinché vengano tutelati i diritti di entrambi”. Autori di reato con disturbi psichici, la rivoluzione mancata dei centri Rems di Giovanna Trinchella Il Fatto Quotidiano, 26 novembre 2023 Pochi posti e 796 pazienti sono fuori. “E non si dà priorità ai casi più gravi”. C’è un paradosso eclatante nel meccanismo che regola l’ingresso nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) delle persone affette da disturbi psichiatrici, che hanno compiuto un reato e che non sono imputabili. Nella maggior parte dei casi come spiega Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, “si procede con liste di attesa che scorrono in base alla data di richiesta della misura sicurezza disposta dal giudice, non in base alla tipologia di necessità o alla gravità del reato”. E così al 31 ottobre scorso quelli che una volta era chiamati internati erano 654 (65 donne e 589 uomini); di questi 344 definitivi e 310 provvisori. In lista d’attesa invece 796 persone, di cui 492 provvisori e 304 definitivi. In base a questo meccanismo può succedere che una persona che ha commesso un reato anche molto grave non trovi posto solo perché la disposizione del giudice è arrivata anche un giorno dopo rispetto a una misura decisa per una persona destinata alla struttura ma meno pericolosa. Ed è probabilmente a causa di questo irragionevole limbo che doveva essere in Rems l’uomo che in ottobre ha ucciso e fatto in pezzi la sua vicina di casa a Milano. Senza contare che sono 39 le persone che - al 31 ottobre - erano detenute illecitamente in carcere perché dovrebbero trovarsi una Rems. E proprio per un caso del genere l’Italia era stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2022. “Le persone assegnate alle Rems sono il doppio di quelli che erano negli Opg” - “È la vittoria del metodo burocratico. Andare avanti così è più facile per tutti” spiega Palma che suggerisce di “stabilire degli indicatori che in qualche modo superino la cronologia. Indicatori che portino a dare prevalenza rispetto a ciò che si è commesso, dare un parametro di priorità ai definitivi rispetto ai provvisori”. Per il Garante, che ritiene il passaggio dagli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) alle Rems avvenuta nel 2015 “una riforma importante di civiltà”, c’è una riflessione da fare sui numeri delle persone internate o con aspettano di esserlo. “Se io unisco i numeri di definitivi e provvisori mi trovo con 1500 persone che rappresentano un numero doppio di quando sono stati chiusi gli Opg. Lo dico brutalmente, però una volta prima di mandarti all’ospedale psichiatrico il giudice ci pensava tre volte, la Rems sembra meno impattante e comunque tranquillizzante per il giudice che decide la misura di sicurezza. C’è una certa facilità nell’assegnazione alla Rems e questo è un primo problema. Le Rems non sono il sostituto dell’Opg: il sostituto è la presa in carica territoriale che può prevedere un periodo nella Rems, una valutazione e così via. Questo comporta un dispendio di risorse, ma se non si investe niente finisce così. I servizi territoriali avrebbero bisogno di molte più risorse e personale e strutture di diffusione che permettano la tranquillità della collettività e la presa in carico della persona che in fondo è un paziente e non è detenuto”. Le strutture “critiche” - In Italia attualmente le Rems sono 32 e per chi le conosce come il Garante ci sono alcune criticità da valutare: “Quando ci fu il passaggio alle Rems, alcune strutture somigliavano troppo agli Opg. Ora ci sono molti esempi positivi e lo dico in premessa, ma cito anche due esempi particolari. Le Rems dovrebbero ospitare 30 persone, a Castiglione delle Stiviere sono 150: è l’unica maxi struttura ed è indicata centro pluri modulare di Rems provvisorie. Lei trova questo cartello all’ingresso. Al di là della bravura del personale, è un grande concentrato, un aggregato e non una piccola dimensione come sarebbe previsto. Un altro esempio molto diverso che mi lascia perplesso è Calice in Cornoviglio (La Spezia) che è una Rems che potremmo definire extraterritoriale”. Qui sono destinate tutte le persone che non possono assolutamente restare in carcere e quindi nella struttura, che dovrebbe essere territoriale, non ci sono liguri. “Mi domando se questo corrisponda a quel principio che l’ospedale si sostituisce con una presa in carico del paziente, ma come si fa se è fuori dal territorio? Poi vedendola l’ho trovata particolarmente chiusa: il passaggio da un posto all’altro avviene attraversando porte con codici di sicurezza, una situazione diversissima da altre Rems dove magari c’è anche personale della security. Inoltre lì vengono inviati i casi più complicati”. “Una legge acerba” ma da difendere - C’è poi un’altra questione da valutare ovvero “la tendenza” a cercare di portare dentro le Rems quelli che hanno elaborato il disagio psichiatrici dopo aver commesso un reato ed erano quindi imputabili perché capaci di intendere e volere al momento del processo. “Queste persone non vanno portate nelle Rems, vanno pensate altre possibilità. Come chi sviluppa una patologia va portato fuori dal carcere, eventualmente con la sospensione della pena perché possa curarsi, così una persona che ha elaborato disagio psichiatrico va curata. A meno che non mettiamo in discussione l’imputabilità, le persone le giudico e poi le assegno a un percorso detentivo o terapeutico. Imputabile o non imputabile i due contenitori non vanno confusi, altrimenti facciamo il manicomio diffuso”. Certo è che è fondamentale per migliorare una “legge acerba” è la collaborazione con i magistrati. I Tribunali, secondo Palma, potrebbero mettere a punto delle mappe sugli esiti delle assegnazioni: capire quante persone sono state prese in carico dai servizi territoriali, quanti hanno ricommesso reati sia di quelli sono stati ospitati nelle Rems che quelli che sono rimasti fuori. “L’unica cosa che aggiungo è che rispetto alle difficoltà di leggi che il nostro paese ha adottato in maniera coraggiosa, bisogna vincere la tendenza a dire siamo andati troppo in là e confidare in un principio giusto al quale dobbiamo dare le gambe per camminare veramente. Con coraggio e con investimenti”. Antigone: “Non aumentare i posti in Rems, ma maggiore collaborazione” - “Noi auspichiamo un maggior dialogo, una maggiore collaborazione tra la magistratura e i servizi di salute mentale territoriale - dice Susanna Marietti (coordinatrice nazionale di Antigone) - perché quello che succede è che la misura di sicurezza psichiatrica detentiva viene data praticamente di default a tutti con qualsiasi perizia che porta al proscioglimento. Invece non bisogna arrivare per forza alle misure di sicurezza, quella dovrebbe essere l’extrema ratio, così come lo dovrebbe essere la detenzione per la pena”. Le alternative in effetti ci sono: “C’è la libertà vigilata con uno spettro di applicazioni: il magistrato potrebbe anche disporla nella misura in cui venisse applicata in una struttura residenziale e territoriale, però qui si spalanca un mondo perché noi sappiamo che l’Italia investe il 3% della spesa sanitaria sulla psichiatria e c’è un’insufficienza totale del territorio per rispondere a queste situazioni di presa in carico. È un serpente che si morde la coda. Il giudice neanche ci prova a dare una libertà vigilata, perché per dare la libertà vigilata e rimandare a casa crea problemi. Così si crea la lista di attesa”. Ed è così che si arriva anche al paradosso di chi ha la misura di sicurezza detentiva, ma resta libero. “Se ci fosse una libertà vigilata non potrebbe esserlo. Tra libertà e essere ospiti in Rems c’è tutta una gamma di possibilità di controllo. Però appunto è un meccanismo oramai perverso, ma io non credo che il punto sia continuare ad aumentare i posti in Rems o snaturarle cominciando a mandare i sopravvenuti cioè coloro che sviluppano una patologia psichiatrica”. Il problema per Antigone sono le risorse e la collaborazione: “Apriamo tavoli di confronto con i magistrati, con i servizi psichiatrici e troviamo soluzioni individualizzate per ciascuno”. Il presidente del Tribunale di Milano Roia: “Sì alla collaborazione, ma numero Rems inadeguato” - Fabio Roia, presidente facente funzione del Tribunale di Milano, accoglie con favore sia l’invito alla collaborazione che allo screening. In premessa però ricorda che il criterio di ingresso per data è “deciso dal Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria)”. “I fenomeni vanno monitorati ed è quindi una proposta intelligente lo screening, ma bisogna distinguere tra misure di sicurezza applicate provvisoriamente dal Tribunale e quelle in fase esecutiva Tribunale di sorveglianza. Ci dovrebbe essere una collaborazione sui dati statistici e informatici tra i presidenti dei tribunali ordinario e di Sorveglianza e il ministero della Giustizia. Bisognerebbe creare una sorta di banca dove si incrociano i dati e capire l’esito dei trattamenti - ragiona Roia - perché nella Rems ci vanno persone che hanno due requisiti: sono parzialmente o totalmente incapaci di intendere e volere e hanno un profilo di pericolosità sociale”. Se il monitoraggio appare al magistrato “una prospettiva di lavoro interessante”, dall’altra parte bisogna anche fare i conti con la realtà. “Quello che viene riscontrato è la necessità di posti ricovero di queste persone che hanno bisogno della Rems e della dilatazione temporale fra il momento in cui viene disposta la misura di sicurezza, soprattutto in via provvisoria, rispetto all’esecuzione della stessa. Questa è una cosa su cui riflettere e che richiamerebbe di impatto un numero di strutture Rems non adeguato rispetto ai reali bisogno. Abbiamo misure di sicurezza non detentive perché normalmente quando non c’è una pericolosità sociale elevata il giudice applica la libertà vigilata che è una sorta di griglia di controllo che viene fatta per monitorare il comportamento del soggetto. Tra le prescrizioni che riguardano la libertà vigilata c’è quella del soggetto che viene agganciato dai servizi ed è ovviamente libero, ma c’è comunque un invio a una struttura per monitorare e curare la patologia psichiatrica”. Esistono poi le persone che si ammalano in carcere sviluppando una patologia psichiatrica. “Una volta in fase di esecuzione della pena il presupposto cambia perché nell’applicazione provvisoria c’è un pericolo per la persona che viene riconosciuta parzialmente o totalmente ammalata di fare del male a sé stesso e agli altri. Quando siamo in fase di espiazione della pena, il problema è completamente diverso perché cambiano i presupposti: se sviluppa una malattia questa pena andrebbe espiata in luogo in alternativo al carcere o strutture detentive adeguate al trattamento della malattia che sono molte poche in Italia”. Anche per Roia il passaggio dagli Opg alle Rems è stato positivo: “Anche io credo sia sul piano simbolico - ma la simbologia va unitamente allo sviluppo di una cultura e quindi non è soltanto un fatto formale - sia sul piano dell’effettivo trattamento è stato fatto un passo avanti. Anche se poi gli Opg erano molto migliorati nel tempo sia dal punto ricettivo che della cura, il passaggio Rems dà più l’idea della necessità di trattare una malattia in un soggetto che oltre ad aver commesso un reato è un soggetto portatore di una malattia psichiatrica: c’è una maggiore attenzione alla cura del soggetto piuttosto che contenimento. Un piano molto importante per l’attuazione dell’articolo 32 della Costituzione sulla tutela della salute di ogni persona, che è un bene primario nella scala gradiente dei valori costituzionali”. Liste d’attesa nei centri Rems, lo psichiatra: “Stanno aumentando i pazienti difficili” di Giovanna Trinchella Il Fatto Quotidiano, 26 novembre 2023 Un aumento dei pazienti “difficili” da trattare, la diffusione delle droghe anche nei giovanissimi, molti traumi gravi, i tempi delle procedure per le dimissioni dei pazienti. Federico Boaron, direttore dell’Unità operativa di Psichiatria Forense dell’Usl di Bologna, ritiene che possano essere anche questi i motivi che portano a essere così lunghe le liste d’attesa per entrare in una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Una opinione che arriva dal campo per lo specialista che è stato fino a qualche mese fa direttore della Rems “Casa degli Svizzeri”, dove però gli ingressi sono valutati da un gruppo di professionisti mensilmente. Lei è stato dirigente una Rems - una delle prime in Italia - per otto anni - dal 2015 a oggi qual è stata l’evoluzione di queste strutture? Le Rems sono strutture eterogenee, perché sono state sviluppate senza esperienze equivalenti - né in Italia né all’estero - cui ispirarsi. Dal momento che dalla promulgazione della Legge 81/14 all’apertura delle prime residenze sono passati solo 10 mesi, le diverse regioni hanno sviluppato Rems strutturalmente e “filosoficamente” differenti fra loro. Non posso dunque generalizzare, la mia risposta è riferita solo alla Rems di Bologna. Quando il 1° aprile del 2015 è stata inaugurata quella di Bologna chiaramente abbiamo dovuto affrontare alcune difficoltà. Inizialmente abbiamo dovuto comprendere i vincoli imposti dalla normativa e come formalizzare correttamente le richieste alla magistratura. Inoltre eravamo ovviamente molto preoccupati, e ci interrogavamo se fosse possibile sviluppare in sicurezza percorsi di cura per pazienti autori di reati a volte molto gravi. La prima attività esterna (nel giugno 2015 un paziente è uscito per la prima volta dalla Rems per andare ad un evento culturale di suo interesse accompagnato da un operatore) ha richiesto oltre un mese di organizzazione fra mille incertezze e apprensioni. Nel corso dei mesi e degli anni successivi, facendo fruttare l’esperienza che si andava maturando, siamo riusciti ad attivare moltissime attività extramurarie anche grazie a strumenti come il budget di salute; attività riabilitative, ricreative, di formazione e lavoro (con numerosi contratti di tirocinio formativo). Parliamo di numeri… Per rendere l’idea dei numeri di cui stiamo parlando, con una capienza di 14 posti letto, nel 2015 (aprile-dicembre) le licenze esterne a fini trattamentali sono state 108, nel 2018 sono state 799. Nel corso del tempo è stato possibile implementare anche numerose attività interne, sia individualizzate (pet therapy, italiano per stranieri…) che di gruppo (musica, teatro, scacchi con maestro federale, ecc..). Ovviamente tutte queste attività andavano a sommarsi ai trattamenti psichiatrici e psicoterapici (questi ultimi individuali per alcuni pazienti e di gruppo per tutti). È importante sottolineare come non fossero assolutamente previste - fin dal principio - né la contenzione fisica, né l’isolamento, né la contenzione farmacologica. Al 31 ottobre erano ospiti in Rems 654 persone e in lista d’attesa ce ne erano 796. Una cifra che, stando al Garante delle persone private della libertà, è il doppio di coloro che erano ricoverati negli ospedali psichiatrici giudiziaria (Opg). Perché secondo la sua esperienza? C’è una spiegazione? Nel primo decennio di questo millennio il numero complessivo degli internati in Opg oscillava attorno a 1300-1400 presenze. I numeri si sono abbassati più o meno in corrispondenza della promulgazione della Legge 81/14. Quindi i numeri di cui si sta parlando oggi sono sostanzialmente in linea con lo storico. Una recente ricerca di Zuffranieri e Zanalda evidenzia come il numero delle nuove misure di sicurezza detentive abbia raggiunto un picco nel 2010 per poi decrescere gradualmente. Pertanto, controintuitivamente, l’aumento del numero dei pazienti in misura detentiva non sembra derivare da un aumento delle misure di sicurezza detentive annualmente disposte dalla magistratura. Dunque le problematiche relative alla lista di attesa sono da leggersi come un “accumularsi” di pazienti in misura detentiva o in attesa di essa. I motivi di questo non sono facili da individuare, ma posso probabilmente formulare alcune ipotesi. Quali ipotesi? Certamente stanno aumentando i pazienti “difficili” da trattare anche nei contesti giudiziari: con la sentenza “Raso” (Cassazione, SS.UU sentenza 9163/2005) i disturbi di personalità possono essere considerati una causa idonea ad escludere o diminuire notevolmente la capacità di intendere e di volere; l’ampia diffusione di sostanze come cocaina e cannabis ad altissimo tenore di THC anche nei giovanissimi; la presenza sempre più numerosa di persone che hanno alle proprie spalle gravissime esperienze traumatiche. Tutti questi fattori, spesso concomitanti nel medesimo paziente, determinano frequentemente quadri clinici caratterizzati da impulsività con gravi intemperanze comportamentali, che ovviamente ostacolano la dimissione. Inoltre la risposta alle terapie farmacologiche è a volte parziale o addirittura assente, ed anche sul piano psicoterapeutico e riabilitativo richiedono un lavoro più lungo e difficile. Non dimentichiamo poi che la presa in carico territoriale dei pazienti psichiatrico giudiziari richiede elevate risorse (e, almeno auspicabilmente, competenze specifiche) e che le dimissioni sono anche determinate anche dai tempi dei procedimenti giudiziari (non dimentichiamo che è il magistrato che, revocando la misura di sicurezza detentiva, dispone la “dimissione” dalla Rems). Probabilmente questi fattori contribuiscono a rallentare l’effettiva dimissione dei pazienti, determinando di conseguenza un “accumulo” di pazienti a monte, nelle liste di attesa. Attualmente le persone vengono ospitate nelle Rems in base a un ordine cronologico, per cui può capitare che trovi posto chi ha una situazione meno grave o ha commesso un reato meno grave rispetto a chi è in lista d’attesa. C’è una riflessione da fare su questa procedura? Nella Regione Emilia-Romagna le cose funzionano diversamente. Mensilmente si riunisce un gruppo regionale di professionisti della salute mentale esperti nei percorsi di cura dei pazienti forensi che pondera la lista di attesa secondo i parametri individuati dalla Conferenza Stato-Regioni. In particolare i criteri di inappropriata collocazione (ad esempio in attesa della Rems in carcere o in Servizio psichiatrico di diagnosi e cura - Spdc), caratteristiche del paziente (ad esempio un paziente a maggior rischio, a causa del disturbo psichiatrico, di commettere nuovi reati) e le realistiche possibilità di implementare soluzioni assistenziali alternative alla Rems hanno un peso rilevante nella gestione delle priorità fra i pazienti in lista di attesa. Cosa si può fare per migliorare quella, che nelle sue imperfezioni, è considerata una legge di civiltà? Sì può fare ancora molto. Anzitutto andrebbero chiariti a livello legislativo alcuni aspetti fondamentali: il più urgente è a quali misure siano sottoposte le persone in lista di attesa, dove debbano essere realisticamente collocate (ad esempio è evidente che non debbano essere collocate in Spdc, se non hanno clinicamente bisogno di cure urgenti in ambiente di ricovero). Un altro aspetto che meriterebbe una riflessione a livello legislativo riguarda le misure di sicurezza detentive “provvisorie”: se debbano o meno accedere alle Rems, o se al contrario sia utile collocarle in strutture dedicate (che oggi non esistono) o ancora nelle articolazioni per la tutela della salute mentale in carcere. Andrebbero implementati criteri univoci e condivisi a livello nazionale per la gestione delle priorità nelle liste di attesa. Quali criteri? Tutte le Rems dovrebbero avere una adeguata dotazione di personale, paragonabile a quella dei medium secure mental health services britannici, che hanno equipe di almeno due operatori per ogni paziente (quindi una equipe di almeno 30 operatori per una Rems da 15 posti letto). Dal momento che una piccola percentuale di pazienti (probabilmente attorno al 5-10%) ha alterazioni del comportamento difficilmente gestibili nelle attuali Rems (con rischi per il personale e per gli altri degenti) sarebbe utile a livello nazionale avere un numero esiguo di strutture con un livello di sicurezza più elevato. I percorsi di cura dei pazienti in dimissione - quasi sempre alla dimissione viene applicata la misura di sicurezza della libertà vigilata - dovrebbero avere dei fondi dedicati per almeno due anni, in modo da non gravare sui bilanci dei dipartimenti di salute mentale. Le Ausl dovrebbero implementare unità operative di psichiatria forense, per supportare i centri di salute mentale nello sviluppo dei percorsi di cura dei pazienti autori di reato. Dovrebbero essere messe a disposizione risorse e formazione per trattamenti specifici; ad esempio gruppi per la gestione dei comportamenti impulsivi o dell’aggressività; psicoterapeuti con formazione specifica sul trauma e sui disturbi di personalità; progetti etno-psichiatrici dedicati ai migranti. Progetti per l’identificazione precoce e la presa in carico di adolescenti con comportamenti a rischio (intervento di prevenzione). Rivedere e rendere omogenei a livello nazionale i criteri con cui i periti valutano capacità di intendere e volere e pericolosità sociale. Non affronto qui il tema delle politiche di prevenzione dell’uso di sostanze stupefacenti, tema molto complesso e di grandissima rilevanza anche all’interno delle Rems. Mi racconta come e quanto può aver aiutato un paziente la permanenza in Rems? La permanenza in Rems costituisce spesso la prima occasione in cui il paziente assume una terapia regolarmente, accede ad interventi psicoterapeutici e riabilitativi e non ha occasione di assumere sostanze d’abuso. Fra l’altro i tempi di permanenza - non certo brevi come quelli degli Spdc - permettono l’ottimizzazione delle terapie farmacologiche in modo da massimizzarne l’efficacia e ridurre al minimo gli effetti collaterali. Questi fattori convergenti possono determinare un netto miglioramento clinico, che favorisce la consapevolezza di malattia e del bisogno di cure: un circolo virtuoso. Se aggiungiamo a questo la possibilità di reintegrarsi nel modo del lavoro tramite strumenti dedicati (Individual Placement and Support, tirocini formativi, ecc…) possiamo ottenere in un numero significativo di casi risultati davvero straordinari. Come è stata nella sua esperienza la collaborazione con magistrati? C’è stata da subito una buona intesa, ulteriormente migliorata negli anni grazie all’aumentare della comprensione dei reciproci punti di vista. Stiamo inoltre sviluppando un protocollo di collaborazione fra magistratura, periti e Dipartimento di salute mentale. Il suicidio di Fabio Romagnoli, sofferente psichico lasciato morire in carcere di Luna Casarotti* monitor-italia.it, 26 novembre 2023 Il padre di Fabio Romagnoli ci racconta che la sera del 20 febbraio 2023 la madre di suo figlio, con dolore e tristezza, gli ha comunicato la tragica notizia tramite una telefonata che ha sconvolto la loro vita. Fabio è stato ritrovato senza vita nel bagno della sua cella, nel carcere di Modena, poco prima delle 19:15, quando il compagno con cui condivideva la stanza aveva fatto rientro in stanza (era fuori dalla cella in quanto lavorante). L’autopsia ha confermato che il decesso è stato causato dall’inalazione di gas del fornello in dotazione. In un primo momento i genitori di Fabio si sono rifiutati di accettare la dura realtà del suo suicidio. Già in altre occasioni, tuttavia, erano dovuti intervenire per distoglierlo da pensieri di quel tipo. Erano infatti consapevoli che Fabio aveva già tentato varie volte di togliersi la vita. L’ultimo tentativo era avvenuto nella cosiddetta “camera di sicurezza” della questura di Ferrara durante un fermo di custodia cautelare, dovuto alla sua evasione dagli arresti domiciliari. La sofferenza di Fabio era visibile e palpabile, ma sembra non aver mai ricevuto l’attenzione che meritava. I suoi problemi di salute, documentati dalle cartelle cliniche precedenti all’arresto, mostrano chiaramente la sua fragilità. Le cure di cui Fabio aveva bisogno non gli sono state garantite. Tra le tante lettere che scriveva alla famiglia, in particolare l’ultima, l’uomo si scusava con i suoi genitori per il gesto estremo che si apprestava a compiere. Fabio assumeva in carcere, da tempo, antidepressivi. Centottanta gocce di EN al giorno (più del doppio di un dosaggio medio), un medicinale che contiene delorazepam, principio attivo appartenente alla classe delle benzodiazepine, sostanze con proprietà ansiolitiche, sedativo-ipnotiche, anticonvulsivantiche, che influiscono sugli stati d’ansia e aiutano il sonno. Tuttavia, senza il supporto di altre terapie e di un percorso di riabilitazione, questi farmaci non possono garantire un beneficio duraturo. Il precedente avvocato di Fabio aveva inviato già a dicembre 2022 una nota via pec all’istituto di detenzione chiedendo un controllo medico per il suo assistito e, qualora fosse necessario, un ricovero ospedaliero per evitare un peggioramento. A questa richiesta non è mai stata data risposta. I genitori di Fabio non riescono a farsi una ragione del fatto che si sia permesso a una persona che aveva in passato tentato numerose volte il suicidio di rimanere senza supporto psicologico in carcere, e per di più di avere costante accesso a un oggetto così pericoloso come una bomboletta del gas. Da molto tempo si discute della possibilità che al posto delle bombolette a gas si dotino le celle di piastre elettriche per riscaldare il cibo. Un investimento importante ma non certo insostenibile, considerando anche i 132,90 milioni di euro di fondi Pnrr recentemente destinati alle carceri. Fondi che invece verranno utilizzati per interventi strutturali e per la costruzione di nuovi padiglioni, unica soluzione contemplata da chi gestisce il sistema penitenziario per intervenire sul problema del sovraffollamento, e che di certo attiverà un importante circolo economico di appalti, investimenti, guadagni per grandi imprese del settore edile. E invece le persone con malattie e sofferenze come Fabio, così come le persone vittime di dipendenze, dovrebbero immediatamente uscire dalle carceri, per essere curate, e per veder la propria vita salvaguardata. In attesa che si raggiunga una tale fondamentale consapevolezza, è indispensabile un massiccio investimento nelle cure psicologiche e nel sostegno per tutte le persone detenute, che non sia solo farmacologico, al fine di prevenire futuri eventi tragici come questo. *Yairaiha ETS *** Il Gruppo di supporto psicologico per i familiari dei detenuti che si sono tolti la vita o che sono deceduti per altre cause in carcere nasce nel mese di luglio, dopo un contatto tra alcuni attivisti e attiviste e i familiari di un ragazzo che si sarebbe suicidato inalando il gas del suo fornelletto, nel carcere di Modena. È possibile seguire le riunioni del gruppo ogni venerdì, dalle 17:45 alle 20:00. Le riunioni avvengono tramite una piattaforma on-line, con il supporto del dottor Vito Totire, psichiatra, attivista e portavoce del circolo “Chico Mendez” di Bologna. Durante gli incontri ognuno può raccontare la propria storia, parlare del proprio dolore e confrontarsi con altre persone che hanno vissuto la tragica esperienza di familiari morti all’interno delle carceri. Il link per accedere alla riunione settimanale viene pubblicato qualche giorno prima dell’incontro sul gruppo Telegram “Morti in carcere” e su quello Whatsapp “Sportello di supporto psicologico per i familiari dei morti in carcere”. È possibile ricevere informazioni, ma anche raccontare in forma scritta la storia propria e del proprio familiare, anche scrivendo all’indirizzo e-mail dell’associazione Yairahia Ets (yairaiha@gmail.com). Avvocati, volontari, membri di associazioni, garanti delle persone private della libertà sono invitati a unirsi e a condividere il proprio punto di vista. L’Anm al governo: “Nel bilancio non ci sono i fondi per la giustizia” di Mario Di Vito Il Manifesto, 26 novembre 2023 Le promesse del governo? Non mantenute, come al solito. Questa volta il punto riguarda il bilancio, con zero euro per l’amministrazione della giustizia, sia pure con l’eccezione delle spettanze ai magistrati onorari (dovuti anche a seguito di una serie di pronunce europee). Il comitato direttivo dell’Anm, andato in scena ieri a Roma, richiama così il governo “al rispetto delle responsabilità assunte, garantendo la digitalizzazione di tutti gli uffici giudiziari secondo tempi e modi che consentano adeguata formazione agli operatori, ampliando le dotazioni organiche del personale amministrativo e stabilizzando la funzione degli addetti all’ufficio del processo”. Non sfugge ai magistrati che il ministro Carlo Nordio aveva offerto ampie rassicurazione su questi punti: “È dovere dell’Anm ricordare al ministro e ai cittadini che l’amministrazione della giustizia, che si vuole sempre più celere e informatizzata, costituisce un settore fondamentale per la crescita del paese e per il funzionamento dello Stato, e necessità perciò di robuste e costanti risorse, che si rendono tanto più necessarie quanto più si persegue l’obiettivo di rendere un servizio alla collettività e di raggiungere i risultati previsti dal Pnrr”, si legge nel documento finale approvato dal comitato direttivo centrale. C’è anche un elenco di cose che non vanno, tanto per rendere più chiari i termini della questione: “Scarsità di cancellieri, edilizia giudiziaria inadeguata, applicativi informatici malfunzionanti, lungaggini nell’assistenza tecnica”. Aprendo l’incontro, il presidente Giuseppe Santalucia si è anche concentrato sulla nuova riforma della prescrizione, chiedendo “una disciplina transitoria” che possa “attenuare l’impatto sugli uffici giudiziari” di questo ennesimo cambio di rotta in un “settore nevraligco” per il funzionamento dei tribunali e dei processi. Santalucia ha anche dato notizia del prossimo congresso: si svolgerà a Palermo dal 10 al 12 maggio e la prima giornata vedrà anche la presenza di Mattarella. Questa mattina, nell’aula magna della Cassazione, andrà in scena l’assemblea generale dell’Anm. L’ordine del giorno è eloquente: “Gli attacchi alla giurisdizione e la pesante denigrazione dei singoli magistrati che hanno adottato provvedimenti in materia di protezione internazionale”. In breve: il caso Apostolico, la giudice di Catania finita al centro della furia social del vicepremier Matteo Salvini. “Pagelle” per i magistrati, esame ogni quattro anni e dopo due bocciature si è rimossi dal servizio di Francesco Bechis Il Mattino, 26 novembre 2023 Non è vero che Giorgia Meloni ha messo da parte la riforma della Giustizia. Due decreti pronti ad approdare in Cdm all’inizio della prossima settimana sono lì a dimostrarlo. Al Csm un dossier su ogni giudice con dati e numeri su sentenze e processi. Pagelle per i magistrati, toghe sotto esame ogni quattro anni: dopo due bocciature si è rimossi dal servizio. I voti ai magistrati, come a scuola: “buono”, “discreto”, “ottimo”, “non positivo”, “negativo”. I controlli e le sanzioni per verificare l’attendibilità e il risultato dei processi giudiziari, ridurre i tempi della giustizia-lumaca in Italia. E poi ancora, la stretta sulle toghe fuori ruolo, quelle prestate alla politica o che passeggiano per i corridoi del ministero di via Arenula, in attesa di un nuovo incarico. Non è vero che Giorgia Meloni ha messo da parte la riforma della Giustizia. Due decreti pronti ad approdare in Cdm all’inizio della prossima settimana sono lì a dimostrarlo. È la riforma dell’ordinamento giudiziario, l’attuazione della legge Cartabia a cui da mesi chiede di provvedere l’Ue e serve a centrare gli obiettivi del Pnrr. In attesa della riforma costituzionale della separazione delle carriere, prende dunque il via un’altra piccola, grande rivoluzione: il “fascicolo del magistrato”. Il governo, sotto la regia del Guardasigilli Carlo Nordio, perfeziona il sistema di valutazione dell’operato dei magistrati da parte del Consiglio superiore della magistratura, che finora ha mostrato più di una falla nella sua attuazione pratica. È un passaggio politico delicato, che serve alla premier anche per placare le richieste di Forza Italia, in pressing sulle riforme della Giustizia. E rischia di agitare di nuovo le acque tra governo e magistratura. Quali sono le nuove regole per le toghe italiane? Il fascicolo, spiega un decreto legislativo visionato dal Messaggero, sarà “istituito presso il Csm”. Conterrà numeri, dati e giudizi compilati dai vertici degli uffici giudiziari sull’attività delle toghe che ne fanno parte. La gestione dei procedimenti pendenti, “l’esito delle richieste o dei provvedimenti” resi nelle fasi del processo, i verbali delle udienze. Tutto questo servirà al Csm per la valutazione dei magistrati italiani. Con tanto di voti, promozioni e bocciature. Come avviene (o dovrebbe avvenire) oggi, il giudizio sull’operato delle toghe scatterà “ogni quattro anni”, a partire “dalla data di nomina” del giudice e finirà solo dopo la settima valutazione (ovvero dopo almeno ventotto anni di carriera). Il decreto specifica i criteri su cui verteranno le “pagelle” dell’organo di autogoverno della magistratura. Sono quattro. La “capacità” del giudice, tradotta nel “possesso delle tecniche di argomentazione e di indagine”, o ancora “la conduzione dell’udienza da parte di chi la dirige e la presiede”. La “laboriosità”, cioè “la produttività, intesa come numero e qualità degli affari trattati in rapporto alla tipologia degli uffici” e al “tempo di smaltimento del lavoro”. Dunque il terzo criterio, la “diligenza”, “riferita all’assiduità e puntualità nella presenza in ufficio, nelle udienze e nei giorni stabiliti” così come al “rispetto dei termini per la redazione, il deposito di provvedimenti o comunque per il compimento di attività giudiziarie”. Infine il quarto parametro, “l’impegno”, ovvero “la disponibilità per sostituzioni di magistrati assenti” e “la frequenza di corsi di aggiornamento”. Valutata la presenza o meno di questi requisiti, ogni quattro anni sarà il Csm a tirare le somme, sfogliando i rapporti sull’operato dei giudici. Un primo giudizio sarà espresso dal Consiglio giudiziario, l’organo consultivo decentrato del Csm, che sulla base dei dati raccolti trasmette al Consiglio superiore “un parere motivato” sul giudice sotto esame. A questo punto il voto finale del Csm, controfirmato dal ministro, può fare la differenza nella carriera di un magistrato. Se al termine dei quattro anni la valutazione sarà positiva (divisa a sua volta in “discreta”, “buona”, “ottima”), il giudice avrà lo scatto di carriera e se previsto anche dello stipendio. Se il voto sarà “non positivo”, il Csm procederà a un nuovo giudizio dopo un anno. Cosa succede se invece un magistrato viene “bocciato”? Dipende. Le conseguenze di un giudizio “negativo” variano dall’obbligo di frequenza di “un corso di frequentazione professionale” a misure più drastiche. Come l’assegnazione del magistrato “a una diversa funzione” nello stesso ufficio, l’esclusione da incarichi direttivi “fino alla sua prossima valutazione”. L’esame si ripete dopo due anni, nel frattempo il giudice perde il “diritto all’aumento periodico di stipendio”. Se il Csm conferma il giudizio negativo, il magistrato, che nel corso del procedimento potrà difendersi e chiedere di essere ascoltato, è “dispensato dal servizio”. È un intervento che serve a rimettere ordine in una materia, la responsabilità disciplinare delle toghe, affrontata da tante riforme ma rimasta spesso sulla carta. C’è però anche una ratio politica. Se la riforma costituzionale della separazione delle carriere è stata messa in stand-by - un po’ per non cercare lo scontro frontale con i giudici, un po’ per dare priorità alle riforme bandiera di Lega e FdI, l’autonomia e il premierato - Meloni andrà avanti sulla riforma dell’ordinamento. Come da programma. Il principio essenziale del rispetto della dignità della persona sottoposta ad indagini e processo di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 26 novembre 2023 L’assassinio di Giulia Cecchettin e l’arresto di Filippo Turetta hanno riaperto la riflessione sul drammatico fenomeno del femminicidio. Ma la vicenda propone all’attenzione anche altri profili. La sobria e puntuale dichiarazione del Procuratore di Venezia Bruno Cherchi richiama principi fondamentali: “Vi chiedo di lasciare che le indagini proseguano, che ci sia un momento di decantazione. Dobbiamo garantire, come prevede il codice di procedura penale, i diritti all’indagato, la serenità alle parti. E soprattutto l’indagato non si deve sentire condannato prima che i fatti vengano accertati nei modi e nei tempi previsti dalla Costituzione. È un fatto di civiltà a cui tutti dovremmo riferirci”. Non è un richiamo puramente formale alla presunzione di innocenza che giova a ben poco, anzi può suscitare equivoci come il tweet del senatore Matteo Salvini, su Turetta “Se colpevole, nessuno sconto di pena e carcere a vita”. Dopo la dovuta cautela formale del “Se” viene poi immediatamente preannunciata la sentenza definitiva e la pena. Anche quando la responsabilità appaia chiara, il senso della presunzione di innocenza non è nelle cautele formali, ma nel principio, non scritto nelle norme, ma essenziale: rispetto della dignità della persona sottoposta ad indagini e processo, quale che sia la colpa di cui si è macchiata. Subito dopo l’arresto di Turetta in Germania, si sono susseguite dichiarazioni di ministri, ma sin dal 2005, con l’adozione del Mandato di arresto europeo, dalla procedura dell’estradizione, che richiedeva il via libera finale del governo, si è passati a un rapporto diretto tra le autorità giudiziarie. In un primo momento abbiamo letto che l’arrestato sarebbe stato portato con aereo militare da Francoforte, sorvolando Venezia e il suo aeroporto, a Roma Ciampino. Sembrava si preparasse un sequel di una scena che si era svolta nello stesso aeroporto. La mattina del 14 gennaio 2019 Cesare Battisti, dopo rocambolesche successioni di arresti e fughe, infine arrestato in Bolivia, espulso e consegnato alla polizia italiana, arriva nel settore militare dell’aeroporto di Roma Ciampino: lo attende una sorta di comitato di accoglienza con il ministro dell’Interno Matteo Salvini (che per l’occasione, a completare la scenografia, indossa un giaccone con le insegne della Polizia di Stato) e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, più sobriamente in giacca e cravatta. Va in scena, per una folla di operatori televisivi, un singolare spettacolo: dapprima vengono inquadrati i due ministri in attesa, poi Battisti, ripreso mentre scende dalla scaletta dell’aereo e quindi condotto negli uffici dove si svolgono le formalità di arresto. Le riprese proseguono con i due ministri che, in un set improvvisato sul piazzale, rilasciano dichiarazioni. Salvini si congratula con la Polizia e con sé stesso, per l’arresto di “un assassino, delinquente, infame e vigliacco”. Bonafede, più asciutto, parla di un “pluriomicida che si è macchiato di reati gravissimi”. Era una sorta di perp walk de noantri, una riedizione in romanesco, della barbara pratica americana. Il termine perp è una abbreviazione di perpetrator, con buona pace della presunzione di innocenza, trattandosi di persona arrestata dalla polizia e offerta in pasto al pubblico prima ancora di essere presentata davanti al giudice, come rito di degradazione e applicazione immediata della sanzione reputazionale. Un caso che ha avuto grande eco in Europa è quello di Dominique Strauss Kahn, direttore del Fondo Monetario Internazionale, arrestato il 4 maggio 2011 a New York con l’accusa di tentata violenza sessuale ai danni di una cameriera dell’hotel ove egli era alloggiato. Le immagini, largamente diffuse anche in Italia, hanno mostrato DSK, in manette, ripetutamente offerto alle riprese giornalistiche dalle autorità di polizia (l’indagine penale è stata poi archiviata, dopo il pagamento di una somma cospicua alla denunciante). Gli esempi di perp walk sono numerosi e talora hanno avuto un esito drammatico. Il più celebre è quello, ripreso in diretta dalle televisioni, in cui Lee Harvey Oswald, arrestato come sospetto assassino di J. F. Kennedy, mentre viene portato fuori dalla stazione di polizia, è ucciso a colpi di pistola da Jack Ruby. Su Filippo Turetta vi è stato infine un “cambiamento di rotta” e l’aereo militare da Francoforte è atterrato direttamente a Venezia, sede della Procura della Repubblica competente per l’indagine. Nessun comitato di accoglienza in aeroporto e sono state adottate tutte le misure per evitare riprese dell’arrestato. Gabrielli: “Chi ignora le denunce delle donne commette un crimine nel crimine” di Andrea Siravo La Stampa, 26 novembre 2023 L’ex numero uno della Polizia interviene dopo le accuse alle forze dell’ordine. “Serve ascolto, non basta aprire un semplice fascicolo o una pratica burocratica”. Non vuole né banalizzare né generalizzare Franco Gabrielli la rabbia e l’indignazione social esplosa per il post Instagram della Polizia di Stato (“Se domani sono io, se domani non torno, mamma distruggi tutto”) in solidarietà di Giulia Cecchettin. “Quando ero capo della polizia l’ho sempre detto chiaramente: la trattazione di queste vicende non può essere quella di un semplice fascicolo o di una pratica burocratica”, conferma l’ex sottosegretario del governo Draghi con delega ai servizi segreti e già numero uno della polizia. E per vicende si intende segnalazioni alle forze dell’ordine di casi di maltrattamenti, violenze e abusi. Prefetto Gabrielli, esiste un problema tra gli operatori di scarsa preparazione o addirittura di propensione a giudicare irrilevanti le richieste di aiuto delle vittime? “Noi tutti siamo consapevoli di come molto spesso le donne siano in difficoltà a denunciare. Già questo passaggio ha dietro un’elaborazione e una sofferenza non dicibile. Se questo grido d’aiuto cade nel vuoto, realizziamo due negatività. In primis, non diamo risposte specifiche e poi lanciamo un messaggio devastante. Ma generalizzare non è onesto”. Si spieghi... “Con piacere e orgoglio, in 38 anni di carriera ho visto tantissime operatrici e operatori che si sono spesi oltre quello che era loro consentito e possibile. La più bella definizione della parola responsabilità è quella di dare risposte. In queste situazioni così sensibili, non dare risposte è un crimine nel crimine. Al tempo stesso l’ingiusta generalizzazione da un lato non rende giustizia a chi si spende con grande impegno e sacrificio e dall’altro alimenta un clima di sfiducia nei confronti delle istituzioni che in questo momento non serve”. Non solo alle forze dell’ordine e alla magistratura si può delegare il compito di captare i segnali di pericolo. Un aiuto deve arrivare anche dalla società civile? “Assolutamente, cito a proposito l’esempio della violenza dell’altra notte in piazza della Scala a Milano. E un’immagine su cui dobbiamo costruire il nostro futuro. Con vittime che hanno la prontezza di farsi avanti, cittadini che recepiscono il grido d’allarme, come la dipendente del fast-food che è intervenuta, e forze dell’ordine che intervengono tempestivamente”. E poi c’è il piano normativo. Ad ogni nuova emergenza in tema sicurezza la risposta della politica sembra essere quella di fare nuove leggi. Lo dimostra l’omicidio di Giulia Cecchettin e l’approvazione in tempi record del nuovo ddl che rafforza il Codice Rosso. Funziona? “Sui reati contro le donne credo che il tema principale sia quello culturale. Da tempo sostengo che siamo affetti da una bulimia normativa. Io non sono un fan dei provvedimenti, perché purtroppo a volte sono “grida manzoniane”. Se poi possono avere una ricaduta positiva, ben vengano. Ciò detto non credo alla funzione salvifica degli strumenti fine a se stessi: se non vengono introiettati portano molto poco lontano. Credo molto di più a un cambio di mentalità che determini come certi comportamenti siano assolutamente da bandire. Soprusi e violenze non hanno cittadinanza e dovrebbero restare fuori dalla civile convivenza”. Prima ha parlato di un episodio successo a Milano. Dal 2 ottobre è delegato per la sicurezza urbana e la coesione sociale del Comune. Come ha visto la città, al centro di un duro scontro politico, sulla gestione della sicurezza? “Non c’è un’emergenza, come ha già detto in precedenza il ministro Piantedosi e ha ribadito più volte il sindaco Sala. Parlarne credo sia improprio. Tuttavia, non si può ricondurre tutto a un tema di percezione di insicurezza. Una serie di criticità ci sono e ovviamente sono reali e amplificano in un contesto più generale la paura nei cittadini. In particolare, evidenzio i reati predatori violenti su strada. Sono quelli che hanno un maggior impatto anche sul versante della fruibilità piena della città a partire dalle donne e da chi si sente indifeso”. Lei è stato voluto personalmente dal sindaco Giuseppe Sala. A Palazzo Marino venerdì avete illustrato una serie di provvedimenti sulla prevenzione. Qual è stato il suo contributo? “Si possono fare tanti discorsi e immaginare molte azioni da realizzare, ma quello che conta sono i risultati. Il tema del coordinamento è una chiave importante che consente a chi è chiamato a dare risposte di darle senza confusione e sovrapposizioni. In questo quadro è necessario aumentare la presenza delle pattuglie e le forme di prossimità affinché il cittadino possa vedere le divise in strada. “Non ci sono”, è uno dei refrain che ho sentito maggiormente. Il tema è quindi quello di rioccupare il territorio. Se resta vuoto e non lo occupa lo Stato, lo faranno altri riempiendolo con delle negatività di cui i cittadini poi si lamentano”. In carcere da innocente per 33 anni, finalmente liberato Beniamino Zuncheddu di Eleonora Martini Il Manifesto, 26 novembre 2023 Strage di Sinnai dell’8 gennaio 1991. Nel processo di revisione il super testimone ammette: “Convinto da un poliziotto a riconoscere lui come l’assassino”. La Garante regionale dei detenuti sardi, Irene Testa, non riesce quasi a parlare al telefono. È appena arrivata davanti al carcere di Uta per accogliere a braccia aperte Beniamino Zuncheddu, ma la folla di cittadini che si è radunata davanti al portone della Casa circondariale di Cagliari, non appena diffusa la notizia, la risucchia nell’abbraccio corale tributato al detenuto innocente, finalmente libero dopo quasi 33 anni di ingiusta carcerazione. Dopo tanti sit-in e manifestazioni, promosse anche dal Partito radicale, a mobilitarsi, ieri pomeriggio, è stata l’intera comunità di Burcei, paese d’origine di Zuncheddu, a partire dal sindaco Simone Monni. Bisogna però attendere ancora per festeggiare davvero, perché per il momento si tratta solo della sospensione provvisoria dell’esecuzione della pena concessa dalla Corte d’appello di Roma, sezione IV, che, dopo le udienze chiave del 14 e del 21 novembre scorso del processo di revisione che si concluderà il 19 dicembre, ha accolto l’istanza presentata dall’avvocato Mauro Trogu, difensore dell’ex pastore di 59 anni condannato in via definitiva per la strage di Sinnai dell’8 gennaio del 1991. Zuncheddu, che allora aveva 27 anni, è in cella dal 28 febbraio 1991, appena pochi giorni dopo il brutale omicidio di tre persone crivellate di colpi e il ferimento di una, sopravvissuta solo perché ritenuta morta, divenuta poi l’unico supertestimone di quella mattanza consumatasi presso l’ovile Cuile is Coccus, sulle montagne tra Sinnai e Burcei, a nordest di Cagliari. Il ferito è Luigi Pinna, oggi 62enne, che allora per cinquanta giorni continuò ad affermare di non poter riconoscere l’omicida perché una calza gli copriva il volto. Ma poi, improvvisamente, cambiò versione riconoscendo l’autore della strage nella persona di Beniamino Zuncheddu. Che si è sempre dichiarato innocente. Tre anni fa le prove portate dall’avvocato Trogu convinsero l’ex pg di Cagliari Francesca Nanni e la procura, che dispose l’intercettazione ambientale per le sorelle e la moglie di Luigi Pinna. La verità viene finalmente a galla. Si riapre il processo e il 14 novembre scorso, in udienza, dopo un’ora e mezza di interrogatorio, il supertestimone ammette: l’omicida aveva una calza in volto, non poteva riconoscerlo; ma ancora prima che venisse interrogato dal pm, il poliziotto che allora conduceva le indagini gli mostrò una foto, quella di Zuncheddu, sostenendo che era di certo lui l’assassino. Pinna si fece convincere: “Me la fecero vedere prima”. “Chi?”, chiede il giudice Flavio Monteleone. “Il poliziotto Mario Uda”, è la risposta. Nell’udienza successiva, il 21 novembre, ritratta poi anche il secondo testimone, Paolo Melis. E cade così anche il movente. “Sono davvero molto contento”, ha detto ieri Beniamino Zuncheddu lasciando il carcere di Uta dove negli ultimi anni risiedeva in regime di semilibertà. “È un’espressione molto rara per lui”, spiega Mauro Trogu, suo avvocato da sette anni, che testimonia di un uomo molto provato nel fisico e nell’anima dalla lunga e ingiusta detenzione, fino alla diagnosi di depressione maggiore degli ultimi tempi. Zuncheddu, che è stato detenuto in carceri difficili come il Badu’e Carros e il Buoncammino di Cagliari prima di approdare a Uta, “per 10 anni e 4 mesi è stato sottoposto a detenzione in condizioni inumane e degradanti - riferisce Trogu - come riconosciuto con provvedimento dal Magistrato di sorveglianza”. La notizia della sospensione della pena ha colto tutti di sorpresa, perché attesa ma non di sabato pomeriggio. “La gioia era tale che Beniamino non ha aspettato nessuno: da Uta stava tornando a piedi nella sua casa di Burcei”, riferisce la Garante della Sardegna Irene Testa. “Forse è uno dei giorni più belli della storia di Burcei. Un’emozione unica”, gioisce il sindaco Monni insieme ai suoi concittadini. “Lo accoglieremo all’ingresso di Burcei e poi abbiamo organizzato un ritrovo in Comune e quindi la festa nel salone parrocchiale - spiega il primo cittadino - Ringrazio pubblicamente tutte le persone che hanno creduto a Beniamino e si sono affiancate a noi in questa battaglia, e l’avvocato Trogu con la sua famiglia, che ha fatto un grande lavoro sia con la testa che con il cuore”. E infatti l’avvocato è emozionato. E anche “molto ottimista”: “Il processo di revisione non è finito e bisogna portarlo a compimento - dice Trogu - ma quello di oggi è sicuramente un passo in avanti verso il riconoscimento della sua innocenza”. Le prossime udienze del processo di revisione davanti alla Corte d’Appello di Roma si terranno il 30 novembre e il 12 dicembre. E a meno di altri colpi di scena, il 19 dicembre Beniamino Zuncheddu dovrebbe riottenere la libertà definitiva. E giustizia. Ma non i suoi 33 anni di vita. Insulti social, a 78 anni si toglie la vita di Gianluca Nicoletti La Stampa, 26 novembre 2023 Umberto Re a 78 anni si è sparato un colpo in testa perché bullizzato. È morto dopo 24 ore di agonia all’ospedale di Agrigento, questa è stata la sua risposta ai concittadini che lo avevano violentemente attaccato e deriso sui social, perché il Festival da lui organizzato aveva avuto un esordio non proprio felice. La foto del teatro Pirandello, tragicamente vuoto il giorno della prima, era diventato un meme per lanciare sfottò crudeli contro l’imprenditore, accusato di aver speso troppo in quel fallimento. Ora negli stessi social è iniziato il pianto del coccodrillo, c’è chi chiede il lutto cittadino ed è tutta una gara nel ricordarlo come persona cortese e intellettualmente onesta. Gli stessi che si sono così divertiti a sfotterlo, per non essere stato all’altezza del progetto culturale che aveva sposato con passione, forse non avevano calcolato l’effetto della tortura mediatica su una persona all’antica, abituata al confronto su terreni meno subdoli di quelli in cui amano destreggiarsi i leoni da tastiera. Per qualcuno potrebbe essersi anche posto come un concorrente la cui reputazione andava infangata, ora probabilmente tutti si rendono conto che la sua morte non gioverà alla reputazione dell’imprenditoria culturale di Agrigento, soprattutto dopo che la Città dei Templi il 31 marzo è stata proclamata Capitale italiana della Cultura 2025. Umberto Re era tra le persone che avevano allestito la settimana del cinema sportivo chiamata “Paladino d’oro-Sport film festival”, che nelle 42 edizioni precedenti si svolgeva a Palermo. Entrare nello specifico delle frizioni che covano dietro a questa vicenda è del tutto secondario, l’esito di un suicidio vanifica qualsiasi retroscena che una banale disputa cittadina potrebbe scatenare. La famiglia dell’imprenditore ha lanciato un appello alla città, in cui c’è una frase a cui si dovrebbe dare una portata ben più estesa: “Si apra una riflessione perché mai più ci si possa trovare davanti alla tempesta senza vestiti”. Mi sembra una perfetta sintesi di quello che ognuno dovrebbe chiedersi prima di digitare parole dirette di attacco a una persona, qualunque sia il suo ruolo nella società, dal politico, all’artista, all’anonimo che invidiamo, disprezziamo o pensiamo di poter “correggere” con lo staffile incorporato nel nostro smartphone. In questa tragedia, di una tristezza incommensurabile, è possibile osservare l’affacciarsi alla ribalta di un nuovo scenario crepuscolare in cui può scatenarsi il cyberbullismo. Non so se può essere rintracciato un segnale in questa morte, dove si ripete il modulo ricorrente del più atroce degli epiloghi dell’azione vigliacca da parte del branco nei confronti del più fragile; in questo caso però tutto è spostato da un ambiente adolescenziale a quello di persone della terza età e oltre. Forse ci culliamo ancora nell’illusione che appartenesse unicamente alla devianza adolescenziale l’uso violento e spietato del consenso, attraverso attacchi sferrati per il solo gusto di sentirsi in tanti contro uno, muovendosi senza rischio in campi di battaglia delocalizzati, soprattutto senza nemmeno avvertire il bisogno di motivazioni che richiedano articolazione di pensiero. Invece dobbiamo iniziare a registrare un dato su cui abbiamo forse troppo sorvolato: siamo oramai tutti capaci a fare del male a un nostro simile, con la presunzione di non sporcarsi le mani. Sappiamo tutti benissimo quanto sia facile alimentare proseliti e accaniti sicari verbali, se riusciamo a creare un bersaglio allettante, facile da colpire, in un istante di momentanea debolezza in cui è più agevole ferirlo in maniera letale. È certo che quella che spacciamo con leggerezza per una “goliardata”, ha spesso lo scopo consapevole di annientare chi osteggiamo. Quando postiamo cattiveria e chiamiamo a raccolta accoliti sconosciuti solleticando il furor di popolo, possiamo anche millantare che sia una lecita espressione del diritto di critica, o l’anelito di rappresentare il proprio libero pensiero, o una sacrosanta satira. Dobbiamo, però, prenderci anche la responsabilità di iniziare a considerare che, in alcuni casi, un nostro click potrebbe anche contribuire a uccidere. Togliersi la vita per un fallimento. Una storia incredibile che racconta anche gli anziani di Antonio Polito Corriere della Sera, 26 novembre 2023 Stamane vorrei parlare della vita. In fin dei conti è parte integrante della “polis”, il tema cui è dedicato questa rubrica. E il personale - come si diceva una volta - è politico. Vorrei parlare della tragedia di Alberto Re, l’imprenditore di Agrigento che a 78 anni la vita se l’è tolta. A quanto dice la famiglia, e come lui stesso avrebbe lasciato scritto in un ultimo biglietto, perché si è sentito travolto oltre ogni possibilità di accettazione dall’onda di sfottò e critiche con cui sui social e sui media era stato bollato un suo insuccesso. La serata inaugurale del festival che aveva organizzato e cui tanto teneva era andata completamente deserta, neanche un ospite. Sembra una storia incredibile. E invece ci si può uccidere per un fallimento. Credo anzi che buona parte dei suicidi reagiscano proprio a un fallimento. E penso anche che questa storia ci dica qualcosa di molto istruttivo sulla terza età, sui nostri anziani o vecchi che dir si voglia. Sul senso di espropriazione e di estraneazione che un’intera generazione avverte man mano che intorno a loro si fa il vuoto. Magari sono state persone di successo, comunque attive, rispettate, ascoltate, come nel caso di Alberto Re, dalla comunità in cui hanno vissuto. Magari hanno fatto molto per quella comunità, compreso un festival culturale. E però a un certo punto scoprono che nessuno li ascolta più, che vivono insomma in un mondo che non è più il loro. In fondo è questo che intende un vecchio con un gesto definitivo come quello di Alberto Re; ma anche più semplicemente con le parole, quando ci dice che è stanco della vita. Di solito noi interpretiamo che sia stanco della “sua” vita. Oppure ci stupiamo, se la vita di cui si tratta è quella di una persona ancora ricca di interessi e dotata degli strumenti culturali per apprezzarne fino in fondo la bellezza. Invece io credo che non ci stiano parlando della “loro vita”, ma della nostra. Sono stanchi di come viviamo noi. Di come è la vita che ogni giorno proponiamo loro. In una bellissima intervista al Corriere, rilasciata alla vigilia dei suoi 80 anni, Riccardo Muti diceva: “A volte mi sembra di parlare ai sordi”. È quello che deve essere accaduto ad Alberto Re. Solo che nel suo caso i “sordi” hanno anche “urlato” contro di lui con rabbia e cattiveria, per umiliarlo di fronte a un fallimento. E gli anziani difficilmente sono in grado di “gestire” un fallimento, gettandoselo alle spalle e ripartendo. Non ne hanno più la forza, e neanche il tempo. I baby-boomers, poi, la generazione di quelli nati dopo la guerra che adesso stanno arrivando a fine corsa, sono stati abituati nel tempo ad avere successo, a comandare, a guidare aziende e insegnare ai giovani. Hanno dominato la scena a lungo, e tutto sommato bene, visti i progressi che ha compiuto questo nostro Paese, uscito in macerie dalla tragedia della guerra e del fascismo, e rapidamente asceso alle prime posizioni mondiali per benessere e ricchezza. Per loro insomma è più difficile mettersi da parte, accettare l’idea che non hanno più niente da dire o che comunque gli altri non hanno più voglia di ascoltare. La gente del Novecento è stata “pervertita dall’idea romantica dello splendore della scena della storia nella quale noi siamo attori: noi siamo abituati ad operare tenendo d’occhio il pubblico”, ha magistralmente scritto Karl Popper. “Comandare o sottomettersi” è stato il mantra del secolo scorso, e ci rimasto attaccato addosso. L’errore che abbiamo commesso - e che forse ha portato Alberto Re a una morte prematura e ingiusta - è non aver capito che la giustezza delle nostre idee non può essere misurata con il metro dei risultati prodotti, e che “è soltanto la nostra coscienza, e non il nostro successo mondano, che può giudicarci”. “Abbiamo bisogno di un’etica che invece disprezzi il successo e il compenso - concludeva Popper. E un’etica siffatta non dobbiamo inventarla, e non è neppure nuova: è stata inventata dal cristianesimo, almeno ai suoi inizi”. Su questa nostra debolezza si infilano oggi i nuovi tempi, sfruttando l’amplificatore formidabile della Rete e dei social. Per giudicare invece ogni momento gli esseri umani sulla base del loro successo. E condannarli se qualcosa che fanno per gli altri non riesce a raggiungerli. Vorrei che Alberto Re avesse pensato a tutto questo prima di spararsi un colpo. E vorrei che ci pensassimo tutti oggi, a partire dal “branco” che l’ha linciato fino a renderlo così disperato. Sanremo (Im). Scagni, l’accusa degli avvocati: “Già pestato a Marassi, ma nessuno dà risposte” di Marco Lignana La Repubblica, 26 novembre 2023 L’uomo arrestato per l’omicidio della sorella Alice, era stato trasferito da Genova proprio perché era stato picchiato dal compagno di cella, ma anche nel nuovo istituto si è trovato insieme a due detenuti già condannati per reati violenti. “Notizie centellinate sulla salute di un cittadino italiano detenuto in carcere italiano, e negato il bollettino medico al suo avvocato”, dice Antonella Zarri. “Abbiamo inviato una Pec al carcere di Marassi dopo che il mio assistito è stato aggredito e non abbiamo mai avuto risposte, anche dopo un nostro sollecito”, spiega il legale Alberto Caselli Lapeschi. Che insieme al collega Mirko Bettoli difende Alberto Scagni, il killer della sorella Alice massacrato di botte pure a Sanremo. E sempre ricoverato in prognosi riservata. Dopo l’assalto brutale da parte di due compagni di cella del 42enne condannato a 24 anni e 6 mesi, emergono nuovi retroscena su quanto avvenuto nelle ultime settimane fra il capoluogo e il ponente ligure. Da un lato, la gestione del detenuto nei due istituti penitenziari. Per quanto riguarda il primo episodio, il pestaggio a Marassi da parte di un compagno di cella di nazionalità romena, i legali di Scagni hanno valutato fin da subito la necessità di sporgere denuncia (la prognosi è stata di sette giorni, quindi la Procura non può procedere di ufficio). Ma per farlo, o quantomeno per muoversi con una minima cognizione di causa, hanno bisogno di una relazione da parte dell’amministrazione del carcere su quanto avvenuto in quella cella. Da qui la prima Pec inviata alla direzione di Marassi, nella quale si chiedeva conto di quanto avvenuto. Nessuna risposta. Proprio nei giorni scorsi, gli avvocati avevano mandato un sollecito al carcere genovese. E si erano ripromessi di andare a Sanremo, dove nel frattempo è stato trasferito Scagni, proprio per parlare della denuncia da presentare entro gennaio. Nel frattempo a Valle Armea giovedì sera il killer di Alice è stato massacrato, e così Caselli Lapeschi e Bettoli hanno inviato un’altra Pec, stavolta all’amministrazione del carcere di Sanremo. Anche qui, “siamo ancora in attesa di una risposta”. Nel frattempo, dice Caselli Lapeschi, “apprendiamo delle condizioni cliniche del nostro assistito dagli organi di informazione”. Scagni, in base all’ultimo bollettino della Asl 1, è sempre “intubato e verrà tenuto in coma farmacologico almeno fino a lunedì, quando verranno effettuati nuovi esami”, dopo essere stato sottoposto a un intervento chirurgico per la riparazione della frattura della laringe e la stabilizzazione di quella della cartilagine tiroidea. Sempre secondo la Asl “il paziente non è in pericolo di vita, salvo complicazioni”. Di certo vista la gravità dell’ultimo episodio, non c’è alcun bisogno di sporgere querela. La Procura di Imperia, diretta da Alberto Lari, ha chiesto la convalida al Gip la convalida dell’arresto dei due compagni di cella di Scagni. L’udienza, con ogni probabilità, sarà oggi. I due, nordafricani, devono rispondere di una sfilza di reati: tentato omicidio, sequestro di persona, devastazione, resistenza e lesioni a pubblico ufficiale. A loro carico condanne passate in giudicato per reati violenti, dalle rapine alle lesioni. Uno dei due è a processo anche per violenza sessuale, e sempre uno dei due a quanto filtra ha problemi psichiatrici. Insomma due detenuti molto pericolosi, messi nella stessa cella di un detenuto appena trasferito da un altro carcere proprio perché aggredito. Al momento, però, la Procura sta indagando esclusivamente sull’episodio in sé, e sulla modalità intervento e di soccorso. Per quanto riguarda le scelte della direttrice del carcere Maria Cristina Marrè, i sindacati di polizia hanno invocato accertamenti del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Nel frattempo la stessa direttrice, cercata da Repubblica, resta in silenzio. Anche Rita Russo, a capo del Provveditorato Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, pur rispondendo al telefono, non intende rilasciare alcuna dichiarazione. Padova. “Uno di quei giorni che ti rendono felice” di Nicola e gli Amici della Giotto it.clonline.org, 26 novembre 2023 La Colletta alimentare tra le mura del carcere di Padova. Ma anche fuori, in un supermercato della città, per un gruppetto di detenuti accompagnati da alcuni amici. Ecco quello che hanno vissuto. Era il 2011 quando nella casa di reclusione Due Palazzi di Padova, su proposta della cooperativa Giotto, attiva nel carcere patavino dal 1991, prendeva avvio per la prima volta la Colletta alimentare. Per le persone detenute apprendere da stampa e tv che l’iniziativa a cui partecipavano in carcere in quello stesso giorno accadeva da anni in tantissimi supermercati d’Italia, con il coinvolgimento di decine di migliaia di volontari, la rendeva per loro carica di emozione e di significato del tutto particolari. In questi oltre dieci anni ci sono stati momenti in cui è stato più facile organizzarla altri meno. Il periodo del Covid è stato sicuramente il più difficile. Si è passati dagli oltre 800 chilogrammi a poche decine. Ci sono state alcune occasioni in cui le persone detenute, non essendo state avvisate per tempo per poter fare la spesa (in carcere la spesa non è una cosa semplice, occorre del tempo), portavano ciascuna quello che aveva e che gli era rimasto per il proprio fabbisogno. Capitò anche che uno donò una barretta Kinder, tutto quello che aveva. Da alcuni anni sono coinvolte un po’ tutte le associazioni e cooperative che operano nel carcere: la cooperativa sociale Altracittà, la biblioteca, Ristretti Orizzonti, le scuole e le messe della domenica. Quest’anno, oltre alla consueta raccolta interna diluita in tre giorni (dal venerdì alla domenica), su otto persone detenute che hanno fatto richiesta, cinque sono state autorizzate ad uscire per partecipare, assieme ai volontari dell’Odv Amici della Giotto e alla stessa cooperativa, alla raccolta in un grande supermercato della città. A loro se ne sono aggiunte altre cinque, già fuori in misura alternativa per lavoro, a fine turno, favorite dal fatto che il supermercato era sulla strada del rientro in carcere. Ci siamo ritrovati in molti, tutti diversi ma uniti in questo gesto tanto semplice quanto ricco di significato. Giuseppe, che ha fatto la Colletta in carcere, racconta ad un collega e amico: “È stato molto bello ed appagante poter essere d’aiuto a gente che ha bisogno. La giornata della Colletta alimentare è uno di quei giorni che ti rende felice. Sapere di aver contribuito nel mio piccolo per un fine di bene mi fa sentire pieno di gioia. Questi sono i momenti che ci rendono uniti per uno obiettivo comune”. Altri che invece erano al supermercato scrivono: “Volevo ringraziare per la giornata trascorsa assieme. È stata un’occasione e un’opportunità veramente importante sia per il motivo dell’evento sia per il tempo trascorso insieme. Un ringraziamento sentito a tutti i volontari”. Andrea, Nicola e Roberto fissano un pensiero a più mani: “La Colletta alimentare non è solo un modo utile di raccogliere qualche cosa da mangiare per chi ne ha veramente bisogno, ma ha anche un altro importantissimo scopo, spesso sottovalutato: quello di far capire anche a chi non ne ha bisogno che ci sono moltissime persone che oggi vivono e dedicano parte della loro giornata per aiutare gli altri, anche se non li conosceranno mai e da loro mai riceveranno un grazie di persona. Viviamo in un’era di competizione, estremo individualismo, egoismo e ricerca del benessere personale, spesso evitando appositamente lo sguardo di chi ha bisogno, perché ci vergogniamo o, peggio, per disprezzo. Siamo felici di aver partecipato a questo evento di beneficenza sia per il risultato ottenuto sia, soprattutto, per le persone che abbiamo conosciuto o forse già conoscevamo, ma che non avevamo mai veramente visto e apprezzato nella veste di volontari. Di nuovo grazie a tutti i volontari in qualunque ambito operino per lo spirito di altruismo e per i sorrisi che dispensate gratuitamente ogni giorno e a tutti. Grazie di tutto cuore dal carcere Due Palazzi e da tutti noi”. Anche Benedetto ha dato il suo contributo in carcere: “Purtroppo, per noi detenuti non è mai possibile aiutare la gente esterna al nostro contesto, pertanto quando ci viene data l’occasione è sempre un piacere. Vorrei che si potesse fare molto di più di questo, vorrei poter regalare questo mio tempo di penitenza ai poveri anziani abbandonati in casa. Quando chiamano al CUP (questo è il lavoro che molti di noi, grazie alla Giotto, svolgiamo) per prenotare le visite mediche, molti di loro sono spaesati, con un milione di problemi che per me sarebbe facilissimo risolvere, ma purtroppo non posso fare niente, solo constatare che in questo mondo che non mi appartiene più, non c’è più tempo per chi non è indispensabile. Personalmente credo che aiutare il prossimo sia qualcosa che ricarica più chi lo fa che chi lo riceve”. Tornando alla Colletta del supermercato, le persone che accoglievano l’invito a donare erano la maggioranza, ma c’erano anche persone e famiglie che rifiutavano l’invito cordiale a donare, volte in maniera scontrosa. Vivere questa circostanza di qualche rifiuto per le persone detenute e per tutti noi è stato un momento educativo che ha costretto a riflettere e a farsi delle domande, fino a far sorgere una grande gratitudine per tutto quello di buono che si è ricevuto nella vita. Il tempo è trascorso velocemente con questo sentimento nel cuore, condiviso tra le persone detenute e le altre appartenenti a varie associazioni e movimenti, compreso un gruppetto di giovani scout. Fino alle 15.30, quando ha iniziato la preoccupazione del rientro perché il momento si stava avvicinando. Tanti saluti e abbracci con persone che si erano conosciute poche ore prima e poi alle macchine, per rientrare in tempo alle 16 in carcere. La gioia e la gratitudine di quelle cinque ore passate assieme erano evidenti in tutte le loro e le nostre facce. Rientrando a casa ci siamo chiesti: se tutte le persone avessero saputo che avevano donato un po’ della loro spesa mettendola nelle mani di persone detenute, che cosa avrebbero pensato? A fine giornata dal nostro capo supermercato, l’amico Lillo, ci arriva un messaggio sul gruppo WhatsApp: “Abbiamo raccolto 1.389 kg (quarantanove chili in più dell’anno scorso)”. E lunedì arriva anche il momento della “conta” in carcere: i chili sono 270. Ravenna. Il Garante dei detenuti incontra i volontari del carcere teleromagna.it, 26 novembre 2023 Visita del Garante dei detenuti al carcere di Ravenna. Una struttura dove vengono organizzati diversi corsi per il reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro. “Vogliamo diffondere il senso della solidarietà”. A parlare è Oscar, pizzaiolo in pensione che insegna nei corsi di formazione per detenuti nel carcere di Ravenna. E le sue parole danno il senso dell’impegno dei volontari che nell’istituto romagnolo operano affinché l’avviamento al lavoro sia un modo per reinserire i detenuti nella società dopo la fine della loro pena. Quella di Ravenna è una struttura carceraria di piccole dimensioni, con una sezione di semiliberi. I detenuti, tutti uomini, arrivano appena a 83 (dati aggiornati al 31 ottobre), di cui 45 cittadini stranieri. Una struttura piccola, ma dove non mancano iniziative perché il periodo detentivo sia davvero un momento di rieducazione e di reinserimento nella società, a partire dal lavoro. A parlare, nel corso di un incontro organizzato proprio nel carcere romagnolo dal Garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri, è stata la funzionaria giuridico pedagogica Daniela Bevilacqua: “La struttura è di piccole dimensioni, c’è quindi un problema di spazi. Inoltre, c’è un importante turnover fra i detenuti, che rende complicato attivare progetti di lunga durata”. “Per le caratteristiche del nostro territorio - ha precisato entrando nello specifico dei progetti - ci rivolgiamo principalmente al settore del turismo, questo per favorire anche il reinserimento dei nostri ospiti una volta usciti. Il fiore all’occhiello sono i progetti sulla ristorazione (con corsi finanziati dalla Regione Emilia-Romagna), organizzati in collaborazione con l’istituto turistico e alberghiero di Cervia: ad esempio, per panificazione, pizzeria, sala bar e cucina di base”. “Sono attivi - ha aggiunto Bevilacqua - percorsi per il tempo libero, come il laboratorio teatrale (con la collaborazione del regista Eugenio Sideri), quello di lettura, di scrittura creativa e quello di fotografia (con la collaborazione del fotografo Giampiero Corelli)”. “Viene poi realizzato - ha concluso la funzionaria - un giornalino interno (con la collaborazione della giornalista del Carlino Annamaria Corrado). Prende il nome dall’indirizzo del carcere, Port’Aurea 57, esce quattro volte all’anno, sono 500 le copie di ogni numero, e viene distribuito in città”. La volontaria attiva nel carcere, Flavia Sansoni, ha spiegato che “in una parte di questi corsi viene rilasciato un regolare attestato che può essere speso dal detenuto dopo la pena. Questo per favorire il reinserimento sociale senza che ci siano riferimenti alla casa circondariale”. “Abbiamo voluto mescolare le carte - ha sottolineato il garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri, parlando dell’incontro tenutosi in carcere - portando in questa struttura le numerose esperienze positive attive nelle diverse strutture carcerarie. L’obiettivo è quello di incentivare la diffusione di idee ed esperienze. Vogliamo sviluppare la connessione fra queste associazioni, affinché facciano rete”. “Il lavoro da fare - ha spiegato cavalieri - è enorme, se pensiamo che nell’arco di un solo anno passano dalle carceri della regione circa 9mila persone, in certi casi la detenzione è solo di poche ore”. “La casa circondariale ravennate si trova nel centro della città ed è stata costruita nel 1909. Lo spazio più ampio è il refettorio, che i detenuti, occupatisi della ristrutturazione, hanno voluto chiamare, con un gioco di parole, ‘GabbiaNO’“, ha ricordato la direttrice uscente Carmela De Lorenzo, che già dirige il carcere di Forlì. “È fondamentale tenere vivo il confronto, fare conoscere all’esterno le attività che facciamo all’interno della casa circondariale. Lavoriamo ogni giorno per migliorare le condizioni dei detenuti, con l’obiettivo di tenerli occupati il più possibile. Qui dentro è fondamentale impiegare il tempo in modo costruttivo e in questo percorso diventa centrale il volontariato. Anche il territorio ci sta aiutando tanto”. Sulla stessa linea il nuovo direttore della casa circondariale, appena insediatosi, Stefano Di Lena: “Raccolgo un testimone importante e assicuro l’impegno nel portare avanti i tanti progetti attivati nella struttura in questi anni”. Presente all’incontro anche la consigliera regionale ravennate Mirella Dalfiume (Pd): “Rappresento oggi la commissione Parità, di cui faccio parte. Sono qui per ascoltare, dato che come consigliera regionale rappresento l’intera cittadinanza, comprese le persone sottoposte a restrizioni delle loro liberà”. Treviso. Le panchine dei ragazzi del carcere minorile contro la violenza di genere di Manuela Mazzariol lavitadelpopolo.it, 26 novembre 2023 Venerdì mattina, 24 novembre, i giovani dell’Istituto penale minorile hanno presentato al vescovo di Treviso, mons. Tomasi, le loro riflessioni in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, tra articoli di giornale e canzoni. I ragazzi, da metà settembre, hanno lavorato con i professori di Lettere, Arte e Musica sul tema della violenza contro le donne. Hanno dipinto di rosso alcune panchine, posizionate nel cortile interno, e le hanno decorate con alcune frasi significative sul tema. Il laboratorio di Scrittura creativa li ha portati a realizzare anche alcuni elaborati scritti, che sono stati letti durante la mattinata, e una canzone, dal testo molto denso di significati. Il messaggio che è arrivato dai 15 ragazzi attualmente presenti in Ipm (la capienza massima sarebbe di 12) è stato forte e chiaro: “Alziamo la testa e diciamo basta alla violenza di genere”. Il valore del progetto è amplificato dal fatto che alcuni di loro sono detenuti per reati violenti e un percorso capace di dare consapevolezza alle conseguenze delle proprie azioni può fare la differenza nelle opportunità di reale cambiamento di vita e di abbassamento delle possibilità di recidiva. Mons. Tomasi ha fatto i complimenti ai giovani per il lavoro svolto e benedetto le panchine. Tra queste ce n’è anche una azzurra, dipinta per la pace, e una colorata, a tema libertà: “Vedo una panchina dai colori intrisi di terra e allo stesso tempo pieni di luce - ha commentato il Vescovo rivolgendosi a i ragazzi - ed è proprio così che dobbiamo vivere bene nel mondo, portando con noi sempre la luce della speranza e ricordandoci che nessuno di noi è l’errore che ha fatto”. Sul tema della libertà, molto sentito dai ragazzi, è intervenuto anche il direttore, ricordando che “la libertà è una casa che si costruisce tutti insieme”. Poi, il Vescovo, prendendo spunto dalla scritta su una delle panchine rosse: “Dio conta le lacrime delle donne”, ha voluto ribadire che “dobbiamo tutti coalizzarci per promuovere la dignità di ogni persona, che è inviolabile e sacra”. Se la violenza inizia dalle parole della politica di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 26 novembre 2023 Con l’avvento della Seconda Repubblica i toni sono diventati più aggressivi e il lessico politico influenza notevolmente tutti i cittadini. Nell’apprezzabile e ampiamente partecipato dibattito sulla violenza, si tende a trascurare il rilievo di quella verbale e dei suoi nefasti effetti. Eppure è un dato incontrovertibile che il linguaggio ha assunto toni sempre più violenti. Certamente le ragioni dell’espansione del fenomeno sono alquanto composite, tuttavia una rilevante responsabilità deve essere ascritta alla politica. Con l’avvento della Seconda Repubblica, vale a dire l’inizio di una nuova dimensione istituzionale, tecnicamente insussistente poiché non vi è stato alcun significativo mutamento costituzionale ma convenzionalmente ricondotta alle elezioni politiche del 1994, le prime dopo lo scardinamento degli storici partiti politici a seguito dell’inchiesta “Mani pulite”, il linguaggio della politica è divenuto più aggressivo. Privilegiando la propaganda alla comunicazione politica, sono stati gradualmente abbandonati il confronto, la promozione della non violenza, l’accettazione degli altri e la composizione dei conflitti attraverso l’individuazione di punti convergenti, benché si tratti di elementi primari per la crescita culturale, sociale ed economica di un Paese. Una considerevole incidenza del cambio di rotta lo hanno avuto le piattaforme web, una straordinaria innovazione che ha consentito una interazione diretta dei politici con i cittadini. Ma a ben vedere più che sulla formazione di una coscienza sociale, la classe politica ha puntato ad allargare la platea dei “tifosi” per poi trasformarli in elettori. Il massimalismo etico nel contrastare i fenomeni ritenuti scorretti, è stato sventolato, soprattutto dai partiti e movimenti che hanno affidato le loro scelte ai click, come la bandiera della modernizzazione. Se è vero che il lessico politico condiziona più di ogni altro i cittadini, non è differibile la riconciliazione della politica con il sociale, che può essere conseguita soltanto attraverso una mediazione linguistica come ci hanno insegnato i nostri Padri Costituenti. Onda fucsia: da Roma a Torino centinaia di migliaia in corteo contro la violenza sulle donne di Valentina Petrini La Stampa, 26 novembre 2023 Solo nella capitale oltre 500mila in piazza: si invocano i diritti senza colore politico. “Avevo 13 anni la prima volta che ha abusato di me, lui cinquanta. Era il mio allenatore di nuoto”. V. mi dà appuntamento in un bar vicino alla stazione Termini. È venuta a Roma per la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Non posso dirvi molto di lei, la sua famiglia non conosce questa storia. Nonostante siano passati molti anni. Posso però, anzi devo, raccontarvi il suo calvario: “Perché non capiti a nessun’altra - mi dice - non ci crederai ma è un pensiero che mi aiuta a sentire meno il dolore, ad andare avanti”. Ha subito violenze per un anno, tra i 13 e i 14 anni. “Mi diceva che mi amava e che non dovevo dire niente a nessuno perché non ci avrebbero capito e - soprattutto io - sarei stata giudicata male”. Perché tu e non lui? Le chiedo. “Perché io ero consenziente, mi ripeteva. Anzi, ero stata io a corteggiarlo, a mandargli messaggi provocatori. O almeno questo era quello che lui mi ripeteva e quello a cui io ho creduto”. Quella di V. è una delle migliaia di storie nascoste dietro i volti in piazza a Roma, Messina, Milano, Torino e in tanti altri Comuni che, da Nord a Sud, hanno avuto le strade invase dall’onda fucsia per ribadire gli slogan contro ogni violenza sulle donne. V. oggi è una donna di quasi quarant’anni. Vive sola, fa la veterinaria. Non ha figli, non è innamorata. “Anni di analisi sono stati necessari per non ammazzarmi, per capire che non era colpa mia. Ma per riuscire a innamorarmi e fidarmi di un uomo, forse mi servirà un’altra vita”. V. non aveva mai nemmeno dato un bacio la prima volta che è stata abusata. Non era consenziente nessuna delle volte in cui lui l’ha violentata. V. era ed è la vittima. “Mi ha plagiata, strumentalizzata, isolata. E aveva anche due figli, una della mia età. Come ho fatto a non salvarmi”. Eri piccola maledizione, sorella io ti credo. “La prima volta che mi ha messo le mani addosso non sono riuscita a muovermi. Non ho nemmeno pianto. Quando ha finito, gli ho chiesto se potevo andarmene e lui mi ha risposto: ti è piaciuto? Gli ho detto di sì per il terrore che non mi facesse andare via e mi facesse ancora male”. V. per giorni non esce di casa. Smette di mangiare. Si rifiuta di alzarsi dal letto e di andare a scuola. Non parla con nessuno. Nemmeno con una coetanea, un’amica. “Mamma era disperata, poverina. A un certo punto le raccontai che mi ero innamorata di un ragazzo che però non mi voleva e quindi stavo male. Una bugia. Lei però mi ha creduta e così ha smesso di torturarmi con mille domande”. V. torna in classe, non sorride mai. A nuoto non si fa più vedere. A sua madre dice che vuole cambiare sport. Un giorno però lui riappare. Si fa trovare fuori da scuola in macchina. Le fa cenno di salire. Lei resta immobile. Lui la fissa cattivo. Lei a quel punto si fa coraggio e si avvicina al finestrino. “Entra o chiamo i tuoi genitori e racconto tutto”. V. sgrana gli occhi. Continua a sentirsi carnefice non vittima. Apre lo sportello, sale e va verso il suo destino. Un campo isolato in cui lui abuserà ancora di lei. E poi ancora, e ancora. La riempie di regali. Lei li butta sistematicamente senza mai portarli a casa. Lui le ripete che la ama e che ha raccontato tutto di loro anche ad alcuni suoi amici. “Finché una mattina in classe sono scoppiata a piangere all’improvviso senza un preciso motivo. Sono andata in bagno ho vomitato. C’era un ragazzo, mio coetaneo che mi voleva molto bene, era gentile e premuroso. Mi offrì il suo aiuto e io senza sapere perché, gli raccontai tutto”. È la svolta, finalmente. V. capisce che non deve farsi toccare mai più. Che parlare, chiedere aiuto è necessario. Lo è altrettanto non girarsi mai dall’altra parte, fare finta di niente, ignorare il dolore altrui. Il giorno dopo quando V. esce da scuola lo vede e inizia a urlare. Indica al suo amico la macchina dello stupratore. Lui coraggioso, ha solo 15 anni, gli va incontro, ripete ad alta voce: “Vattene. Ho chiamato la polizia”. Non era vero, ma l’uomo si spaventa, mette in moto e se ne va. Per sempre. “Se solo avessi parlato prima, magari anche con mia madre, poverina. Lei non immagina il mio dolore. Sono felice sia morta senza sapere”. Ieri V. era vestita di nero, con un fiore rosso sul cappotto. Ha sfilato per le vie di Roma insieme ad altre centinaia di migliaia di persone. Con lei c’era l’amico di adolescenza, quello che l’ha salvata, che le ha creduto, che le ha teso una mano. Quello che non ha fatto finta di niente e non l’ha mai più lasciata. Si guardano, si stringono per il freddo gelido di tramontana che soffia forte, ma che non ha scoraggiato nessuno, nemmeno i bambini. Che hai imparato da questo dolore? Le chiedo prima di lasciarla andare. “Che aiutare può fare la differenza. Se lui non mi avesse teso una mano io forse sarei una donna morta adesso. Ci penso spesso”. La saluto e tengo per me un pensiero che mi tormenta: c’è uno stupratore libero in giro, padre di due figli che chissà se ha fatto del male a qualcun’altra. Denunciate per favore. Mi riprendo. Vado da mio figlio. Anche noi insieme sfileremo per il centro di Roma con fischietti e foulard fucsia. Raggiungo un gruppo di amici con altri bambini. Quando arrivo mi domandano: “È vero che la manifestazione è pro Palestina e contro Israele?”. Apro i siti, recupero velocemente la polemica politica. Leggo di Renzi e Calenda che hanno rinunciato ad esserci perché quella di Non Una Di Meno “è una piazza pro Hamas”. Ho ancora il racconto di V. nelle orecchie. La polemica mi disturba. Le attiviste, organizzatrici delle due manifestazioni nazionali a Roma e a Messina per il 25 novembre, rispondono: “La piazza è aperta in modo apolitico e apartitico. Non ci saranno bandiere e nessun simbolo. Una piazza contro la violenza di genere e contro il patriarcato”. Sento un brivido lungo la schiena: veramente mentre ancora non abbiamo seppellito l’ennesima vittima di femminicidio, è questa la nuova strumentalizzazione politica? Arriviamo a Circo Massimo, il colpo d’occhio è impressionante. Mai così tante. Mai così tanti. “Nessun leader qui tra noi può sentirsi a casa - Paola, 38 anni, separata, due figli, architetto. - Non esiste oggi altra piazza altrettanto autonoma e indipendente da bandiere di partito e sindacati. Forse è questo che spaventa. La trasversalità di un movimento mosso solo da una ragione: i diritti”. “Parlare di “Violenza di Stato” spaventa le istituzioni, perché sanno di essere colpevoli di un ritardo culturale che ancora oggi fa credere a molti uomini che la colpa di uno stupro è della donna”. Giorgia, 23 anni, studentessa di biologia. “C’è poi chi strumentalizza il dibattito trasformandolo in una gara di affermazioni qualunquiste”. Tipo? “Tipo che le nuove generazioni sarebbero peggio di quelle passate. Ma chi l’ha detto? Qualche ultrasessantenne nostalgico del delitto d’onore?”. In fondo al corteo a tarda sera conto una ventina di bandiere palestinesi, una con falce e martello. Me le sono dovute andare a cercare. L’unica bandiera che invece predomina è la marea fucsia. “Io studio Statistica. Per me i numeri dicono tante cose. Il 39,3% degli uomini intervistati dall’Istat pensa che una donna possa sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole. Questo dato è un cancro”. Mario, 29 anni. Cita alcuni dati provvisori (maggio-luglio 2023) della ricerca Istat su “Stereotipi di genere e immagine sociale della violenza”. “Il 20% pensa inoltre che la violenza sia provocata dal modo di vestire delle donne. Non è colpa di tutti gli uomini certo, ma ora capite perché ad essere colpevoli sono però sempre gli uomini?”. Lo dice un uomo. Guardo mio figlio e penso: c’è speranza. Il livello delle risposte alle mie domande è molto alto, di certo superiore a quello di alcuni talk televisivi di questi giorni sul tema. Cosa dite a chi ridimensiona il numero di femminicidi italiani citando i numeri più alti di paesi del Nord Europa? “Ti rispondo io - mi blocca Claudio - che ho una moglie svedese e conosco il caso in Svezia. La statistica in questo caso dà un’immagine errata della situazione. In Svezia ogni atto di violenza sessuale viene registrato come una denuncia a sé stante. Significa che se una donna è stata violentata più volte dalla stessa persona comunque viene conteggiata ogni singola violenza subita. I numeri sono importanti, ma bisogna saperli leggere. I nostri politici e anche alcuni giornalisti hanno invece solo l’interesse di affossare il livello culturale del confronto. Ma poi perché? Per difendere il governo Meloni contrario all’educazione sessuale nelle scuole? Che Paese incivile”. In verità sulla Svezia andrebbe detto, ma chissà perché nei talk non c’è mai tempo, che nel 2018 è entrata in vigore la nuova legge sul consenso esplicito. La definizione giuridica svedese di cos’è stupro è più ampia che nella maggior parte degli altri Paesi. Sabato, a Roma, ho visto qualcosa di unico. La politica dei diritti trasversali ha sfilato da sola, autonoma, senza il bisogno di nessun partito a farle da padre. È qualcosa di nuovo. Negarla potrà solo che farla crescere ancora. Mattarella: “Non possiamo limitarci a indignazioni a intermittenza” di Davide Varì Il Dubbio, 26 novembre 2023 Il messaggio del capo dello Stato in occasione della giornata. Ieri manifestazioni a Roma, Messina e in altre città. Al Circo Massimo decine di migliaia di persone per il corteo organizzato da “Non una di meno”. Il governo lancia la campagna “Non sei sola, chiama il 1522”. “Drammatici fatti di cronaca scuotono le coscienze del Paese. Una società umana, ispirata a criteri di civiltà, non può accettare, non può sopportare lo stillicidio di aggressioni alle donne, quando non il loro assassinio. La pena e il dolore insanabili di famiglie e di comunità ferite sono lo strazio di tutti”. Lo dichiara il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. ““Il numero di donne vittime di aggressioni e sopraffazioni è denuncia stessa dell’esistenza di un fenomeno non legato soltanto a situazioni anomale. Ad esso non possiamo limitarci a contrapporre indignazioni a intermittenza”, prosegue Mattarella. “Quando ci troviamo di fronte a una donna uccisa, alla vita spezzata di una giovane, a una persona umiliata verbalmente o nei gesti della vita di ogni giorno, in famiglia, nei luoghi di lavoro, a scuola, avvertiamo che dietro queste violenze c’è il fallimento di una società che non riesce a promuovere reali rapporti paritari tra donne e uomini”, ha scritto ancora il capo dello Stato nel suo messaggio. “Parlate, denunciate, fidatevi”. È il messaggio che Gino Cecchettin, papà di Giulia uccisa a coltellate dall’ex fidanzato Filippo Turetta invia - tramite canali social - nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Parole accompagnate dall’immagine di un nastro rosso alle quali si sono aggiunte quella di Elena, la sorella gi Giulia: “Sono colpita dal fatto che la morte di mia sorella abbia scosso le coscienze di migliaia e migliaia di ragazze e ragazzi. Mi aspetto tante persone alle manifestazioni di Roma e di tutta Italia. Serve una rivoluzione culturale”. Una giornata che vede una mobilitazione generale con tantissime iniziative. Ieri sono stati illuminati di rosso i palazzi delle istituzioni A Roma ci svolgerà il corteo organizzato da “Non una di meno” dal Circo Massimo a piazza San Giovanni prenderà il via alle 14,30. Previsto l’arrivo dei fuxiabus da tutta Italia. Il movimento “Non una di meno”, in una nota scrive che non si tratta di “una commemorazione delle vittime di femminicidio, ma un punto di concentrazione della rivolta alla violenza strutturale che colpisce le nostre vite”. “La mobilitazione nazionale avrà a Roma e Messina le due piazze principali, non sarà un momento rituale ma la precipitazione di una mobilitazione quotidiana - nelle scuole, nei posti di lavoro, nei quartieri, al fianco dei centri antiviolenza femministi e transfemministi - che con il ritrovamento del corpo di Giulia Cecchettin si sta riversando in cortei spontanei nelle piazze di tutta Italia”. Alla vigilia della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne ieri la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in piazza Colonna, nel corso dell’iniziativa del governo con diversi campioni del mondo dello sport, ha detto che “Quando si pensa che l’amore possa fare male non è amore. 1522 è il numero che si può chiamare quando si vuole difendere se stesse”. “Non sei sola. Chiama il 1522” è lo slogan proiettato sulla facciata di Palazzo Chigi, a fianco il logo rosso con la scritta bianca: “Contro la violenza sulle donne”. Bisogna “ricordarsi - ha detto ancora Meloni - che siamo libere, e non c’è nessuno che può toglierci quella libertà e che può pensare di possederci. Noi siamo libere. E 1522 è il numero che si chiama per difendere quella libertà e per essere aiutati da istituzioni che ci sono e da una società che c’è come dimostrano questi grandi atleti”. Una giornata, quella di oggi, che farà riflettere sulla drammaticità dei numeri del fenomeno femminicidi resi noto dal report dell’Istat. I femminicidi sono l’84% del totale delle donne uccise nel 2022. Sono 61 le donne uccise nell’ambito della coppia, dal partner o ex partner, 43 le donne uccise da un altro parente, soltanto una la donna uccisa da un conoscente con movente passionale, ed è una la donna uccisa da sconosciuti, nell’ambito della criminalità organizzata. In totale si tratta di 106 femminicidi presunti, su 126 omicidi con una vittima donna. Tra le restanti 20 vittime donne, due sono state uccise da conoscenti uomini con moventi diversi: la rapina per una e la follia per l’altra; 15 sono state uccise da sconosciuti (14 uomini e una donna), con diversi motivi, come la follia (9 casi), gli interessi economici (quattro, incluse 3 vittime di rapina) e 2 per altri moventi, più altre 3 donne con autore non identificato. Bravi e cattivi ragazzi, l’odio per le donne trasversale e impunito di Rita Rapisardi Il Domani, 26 novembre 2023 Professionisti, operai, studenti. L’uomo violento può essere chiunque. La Corte europea contro l’Italia: troppi casi di vittime senza giustizia. Era un ex primario di urologia, Carlo Vicentini, che ad aprile ha sterminato la sua famiglia, prima di togliersi la vita. Era un poliziotto Massimo Carpineti, suicida, dopo aver sparato e ucciso la collega Pierpaola Romano. Panettiere, Taulant Malaj, che ha ucciso la moglie e Massimo De Santis, sospettava che i due avessero una relazione. È uno studente di buona famiglia Filippo Turetta, che ha ucciso Giulia Cecchettin. Pare non esserci nessuna logica nei femminicidi legata all’età, all’estrazione sociale, all’istruzione, al luogo di nascita degli omicidi o all’appartenenza politica a certe idee. Neppure nei paesi nordici, primi in classifica per uguaglianza di genere: è il cosiddetto “paradosso nordico”, laddove le donne fanno passi avanti, il contraccolpo è maggiore, la forza maschile non vuole che nulla cambi. In questi delitti l’unico elemento costante, oltre al sesso di chi commette il reato e della vittima, è la mentalità patriarcale e maschilista alla base del gesto. Ci sono guardie giurate, impiegati, studenti, imprenditori, disoccupati, operai. E poi tanti pensionati che si trascinano con sé, spesso in un omicidio-suicidio, le mogli anziane e malate (sono circa un terzo del totale). Il loro essere malate o inferme provoca una certa tolleranza altruistica per questi casi da parte di una giustizia, che comunque deve confrontarsi con l’età degli imputati. E quindi si tende a non indagare, senza scavare nella vita delle vittime, spesso reduci da anni di abusi e maltrattamenti, senza che questi siano mai emersi, nascosti dal pudore di un tempo sempre più lontano negli anni, ma vivo purtroppo ancora oggi. Non c’è differenza tra i “bravi” e “cattivi” ragazzi. Turetta ha confessato l’omicidio di Giulia Cecchettin dicendo “Ho ucciso la mia fidanzata”, ma Giulia non lo è era più, aveva rotto con lui ad agosto; lui no invece, vive in quella concezione patriarcale comune a troppi uomini. I numeri aiutano, ma non sono sufficienti a descrivere un fenomeno che non trova neppure una definizione comune tra gli stati membri dell’Unione Europea o tra gli istituti di ricerca che dovrebbero raccogliere i dati. Come ogni anno l’Istat in relazione al 25 novembre, la Giornata contro la violenza maschile sulle donne, presenta le statistiche di genere e sugli stereotipi dell’anno. I numeri confermano la trasversalità del fenomeno, ma qualche filo rosso è visibile: “Esistono dei fattori di aumento del rischio. Ad esempio chi ha subito violenza ha cinque volte in più probabilità di attuarla a sua volta”, spiega Rossella Ghigi, docente e sociologa, “Così come chi assiste a violenza, e qui si parla di donne, ha probabilità maggiori di finire in una situazione di violenza. Queste sono tra le pochissime statistiche che tengono”. Sociologi, psicologi, forze dell’ordine da decenni cercano di profilare il femminicida, ma questo profilo di per sé non esiste. “Alla base oltre alla violenza e all’aggressività dei soggetti, ai problemi di gestione della rabbia, c’è una mancata socializzazione al dialogo con le proprie emozioni e che riguarda in particolare gli uomini”, continua Ghigi. A questo si aggiunge, dall’altra parte, il sentirsi in colpa per le emozioni altrui, per gli stati d’animo del partner, così come si apprende dolorosamente negli audio di Giulia Cecchettin alle amiche, preoccupata che l’ex potesse farsi del male: “Vorrei non avere più contatti con lui, ma allo stesso tempo mi dice che pensa solo ad ammazzarsi...Il fatto che possa essere colpa mia, mi uccide”. Giulia ostaggio di una situazione da cui non sa come uscire. “Può esserci una liberazione anche per gli uomini, non si tratta solo di cedere il potere, che comunque costa fatica psichica, ma vivere con serenità la libertà dell’altra”, aggiunge Ghigi. Siamo a quota 106 femminicidi per il 2023, indica l’ultimo report del ministero dell’Interno aggiornato al 19 novembre: 106 donne uccise, 87 in ambito familiare e affettivo, 55 da partner o ex partner. Un trend costante: nonostante negli ultimi decenni gli omicidi siano in costante diminuzione, quelli nei confronti delle donne non accennano a diminuire. Sono rimasti stabili anche durante la pandemia (106 nel 2020, 104 nel 2021), quando tutti i reati avevano registrato forti cali. Ma la parola femminicidio indica soprattutto il movente. L’uccisione delle donne nasce e cresce in un ambiente di possesso, oppressione e controllo. Matura in una società che le vuole relegate a ruoli di subordine. Così i momenti che precedono un femminicidio sono sempre quelli della rottura: donne che scelgono di non sottostare più ai loro carnefici. Non esiste un reato di femmicidio, anche se le pene sono più severe se l’omicidio è accompagnato da una violenza sessuale o se è commesso da una persona vicina alla vittima. Per quanto riguarda le donne questa percentuale supera l’80 per cento, mentre per gli uomini solo il 4 per cento. Le donne con i loro assassini hanno legami di vario tipo, e questo avviene maggiormente che in passato. Sono ancora poche le donne che denunciano la violenza subita, si calcola una su dieci, lo stesso vale per gli stupri e le violenze sessuali in generale. Troppa la paura, di ulteriore violenza, di non essere credute. Anche perché metà delle denunce viene archiviata, un numero enorme, sottolineato più volte anche dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo: i giudici più volte hanno condannato l’Italia per la facilità con cui non dà seguito ai casi di violenza domestica (l’ultima a settembre 2023). Lo denunciano pure le decine di commenti di tante donne sotto al post su Instagram della Polizia di Stato in ricordo di Giulia: raccontano di non essere state ascoltate, di essere state rimandate a casa, invece che supportate. Quelle che vanno avanti a processo con fatica arrivano a condanna, nel frattempo trascorrono anni in cui le donne che denunciano sono costrette a vivere senza certezze di ritenersi salve e immuni a vendette. Per questo spesso i casi di femminicidio si consumano in situazioni già denunciate alla giustizia, in cui l’uomo era già stato segnalato alle forze dell’ordine, ammonito, ai domiciliari, con il braccialetto elettronico. E poi servono fondi: i centri antiviolenza, le case rifugio; serve protezione per quante denunciano. Tra qualche giorno l’uccisione di Giulia e il tema dei femminicidi passeranno in secondo piano. Ma forse in questi picchi di attenzione, segnati dalla morte di un’altra donna, qualcosa resta: la condanna sociale che si addentra nella quotidianità, lì dove germoglia la violenza, nelle coscienze e nei comportamenti di molti. “Ora la rabbia delle donne diventi scintilla del cambiamento” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 26 novembre 2023 Parla Barbara Stefanelli, giornalista e autrice del libro “Love harder. Le ragazze iraniane camminano davanti a noi”. Forse serve uno sforzo di immaginazione. Ma c’è un elemento che lega la piazza delle ragazze iraniane alla mobilitazione di oggi, in Italia, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, che si proporrà anche come atto di sintesi di una protesta nata dentro i social e nell’opinione pubblica dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin. Quell’elemento è tessuto intorno a un dato ricorrente che attraversa la Storia: l’uso politico del corpo delle donne, la cui liberazione passa anche attraverso la “rabbia”. Che può essere motore del cambiamento, come spiega benissimo Barbara Stefanelli, vicedirettrice vicario del Corriere della Sera. Fondatrice de “La27ora” e del Tempo delle donne, la giornalista intercetta storie e volti delle giovani che hanno dato vita al movimento iraniano, dal settembre 2022, per sottrarli all’indifferenza e “all’intermittenza emotiva” a cui ci costringe la cronaca. Le fa camminare davanti a noi, nella strada per il cambiamento, come suggerisce il suo libro edito da Solferino, Love harder, “amare più forte”. In quale senso? La risposta è nel brano dell’artista londinese Kae Tempest, da cui Stefanelli trae il titolo del volume. “Quando tutto si infiamma, noi innamorati impariamo a essere guerrieri; quando il buio diventa nero, noi guerrieri impariamo ad amare più forte”. È il connubio amare-combattere, la “chiave di tutto - spiega la giornalista -, la disponibilità a lottare nell’amore”. Con la rabbia che da scintilla si trasforma in qualcosa di nuovo. Qualcosa di molto diverso “dall’emozione nera, negativa, a cui siamo abituati a pensare”. “Ne ha parlato a lungo anche Michelle Obama, riferendola alle battaglie della popolazione africana per chiudere tutte le asimmetrie che persistono della società degli Usa - spiega Stefanelli -. Il problema di tutto quello che sta accadendo ora in Italia, è riuscire a spostarsi dalla rabbia a una fase strategica che possa innescare cambiamenti, normalmente lentissimi, e che invece un sentimento condiviso può accelerare”. Un “passaggio virtuoso”, dunque, un sentimento che muove da un fatto che colpisce particolarmente le coscienze: l’omicidio di Giulia, per noi, il massacro di Mahsa Amini, per l’Iran. Una ragazza di 22 anni a cui è stata spezzata la giovinezza per una ciocca di capelli che le usciva dal velo. Proprio da lì bisogna partire, da quel velo che “è simbolo e materia”, come spiega Stefanelli, che da elemento di oppressione diventa “il punto di passaggio di tutta una architettura di sottomissioni che ormai scricchiola e deve cadere”. Lo dimostra l’esperienza di Nasrin Sotoudeh, l’avvocata per i diritti umani rilasciata su cauzione dopo l’ennesimo arresto arbitrario da parte del regime, e anche la ribellione di Narges Mohammadi, premio Nobel per la Pace nel 2023. Il loro impegno è anche un tributo al sacrificio di tutte le donne - incarcerate, stuprate, pestate a morte, giustiziate - che trovano ancora il coraggio di compiere la loro rivoluzione, qualcosa di più che “rivolta”. “Sono loro, le giovani generazioni che ci hanno chiesto di chiamarla così, cercando di segnalare l’inizio di un cambiamento che non è uno di quei tanti passaggi di cui l’Iran è stato testimone, fiammate spente nella repressione. Una rivoluzione che non è finita, perché non si è mai visto dal 1979 un fluire così denso di ragazze che camminano a testa scoperta”. Ciò che lega loro a noi è quello che Stefanelli chiama “desiderio”, la miccia che non è altro se non un punto di partenza, uguale per tutti: la consapevolezza del proprio desiderio di libertà. “Chi produce delle infrastrutture per cui immagina distanza tra i desideri nostri e di chi abita a oltre tremila chilometri di distanza fa una manipolazione - riflette Stefanelli -. È riconoscendoci nei desideri che possiamo combattere insieme, in situazioni diverse. E non distogliere lo sguardo da ciò che succede nelle città iraniane è un modo per ridurre il coefficiente di morte che il regime può esercitare nei suoi confini”. Per quanto riguarda noi, invece, Stefanelli ha in mente un auspicio preciso, che nasce da un’eredità. “Spero che la manifestazione di oggi - chiosa la giornalista - produca un reale spostamento nella consapevolezza collettiva, come successe nel 1965 con Franca Viola. Ci sono delle storie che diventano patrimonio dell’umanità, che rendono evidente l’urgenza di cambiare. Il No di Franca Viola fece esattamente questo, svelando qualcosa che era chiaro a tutti ma che non era ancora stato sistemato: la follia dei matrimoni riparatori”. Indignarsi non basta. L’educazione di genere va presa sul serio di Barbara Poggio e Marina Della Giusta Il Domani, 26 novembre 2023 Questa mobilitazione deve essere usata per cambiare davvero qualcosa. Ma l’educazione parta da evidenze scientifiche e in modo competente. La vicenda di Giulia Cecchettin ha avuto un effetto dirompente nella società italiana, soprattutto tra le generazioni più giovani. In molte e molti ci si è chiesti perché proprio questo femminicidio - ce ne sono più di cento ogni anno - abbia toccato corde più profonde dei molti altri di cui, con cadenza quasi quotidiana, abbiamo notizia. Forse l’età dei due giovani coinvolti, forse l’intera dinamica della vicenda e la speranza che andasse diversamente, forse la presa di voce da parte della sorella di Giulia, Elena, e la sua chiamata a scendere in piazza e fare rumore. Sta di fatto che questo evento ha suscitato grandissima attenzione sui vari media, generando un enorme e variegato flusso di commenti e opinioni, da coloro che incitano alla vendetta sul “mostro” a chi sostiene che in fondo cento femminicidi all’anno non siano un dato così preoccupante. Ma uno dei temi più ricorrenti, risuonato anche nelle manifestazioni di piazza, è stato quello relativo alla necessità di lavorare sull’educazione. È questo un argomento a noi particolarmente caro: da molto tempo siamo infatti impegnate su questo fronte, nella consapevolezza - proveniente da una pluriennale attività di studio e ricerca - che la violenza è un fenomeno complesso, con profonde radici culturali, che non può essere superato senza un lavoro capillare volto a decostruire e contrastare stereotipi e squilibri di genere diffusi e persistenti nella società, un lavoro che passa soprattutto attraverso i processi educativi. Proprio dalle pagine di questo giornale, pochi mesi fa, avevamo non a caso chiesto ai partiti che si contendevano la scorsa elezione di considerare l’educazione alla parità una priorità. La sfida dell’educazione - Un tema, quello dell’educazione alla parità di genere, rispetto al quale, tuttavia, si sono registrate negli ultimi anni forti resistenze da parte di varie forze politiche, preoccupate del rischio insito in tali iniziative di mettere in discussione ordini di genere tradizionali, basati su una chiara distinzione dei ruoli di donne e uomini e su una distribuzione di potere asimmetrica, quell’ordine che però è appunto terreno privilegiato di coltura della violenza di genere. È in questa prospettiva che nei giorni scorsi abbiamo accolto volentieri l’invito a presentare alla Camera il volume Educare alla parità, curato assieme a Mauro Spicci, che è frutto della collaborazione di un anno con un ampio gruppo di esperte ed esperti afferenti a diverse discipline, dall’economia al diritto, dalla sociologia alla linguistica. Esito di questo percorso sono stati un manuale e un corso di formazione rivolto alle scuole per supportare chi insegna, sia con approcci che con materiali che possano contribuire a creare una cultura di parità di genere nelle nostre scuole. Come si evince anche dalla pluralità di competenze mobilitate nel progetto, questo richiede un impegno trasversale e continuativo lungo tutto il percorso scolastico, e rappresenta peraltro anche una straordinaria opportunità di innovazione didattica, utile anche per gestire altre articolazioni della diversità. L’educazione rappresenta una delle misure essenziali contro la violenza di genere, assieme alla formazione di chi lavora nei servizi pubblici, dalle forze dell’ordine alla magistratura, fino a chi determina l’accesso ai servizi di supporto, di chi fa informazione - che a volte, anziché contestualizzare e spiegare avvalendosi di dati e competenze rilevanti, presenta le vicende legate alla violenza di genere come se si trattasse di rom-com - e del pubblico più in generale, come dimostra l’ampio corpo di ricerca che negli ultimi anni è stata condotta in questo campo e che ha mirato appunto a identificare interventi efficaci. Usiamo questo momento di mobilitazione pubblica per cambiare davvero qualcosa. E facciamolo in modo competente. Disegnare interventi senza partire da evidenze scientifiche è problematico per ogni politica pubblica, ma in questo caso, dovendo rispondere a quella che è ormai diventata una intollerabile dimostrazione della nostra arretratezza culturale, è ancora più grave. Migranti. Piantedosi: “L’intesa con Tunisi funziona. Bloccate 60mila partenze” di Youssef Hassan Holgado e Nicola Imberti Il Domani, 26 novembre 2023 “I miei rapporti con Giorgia Meloni sono eccellenti, perché non dovrebbero esserlo?” Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi non ci sta a passare da semplice esecutore di volontà altrui. La premier si muove per il globo terracqueo stringendo accordi con la Tunisia e l’Albania sul tema dei migranti. Fa annunci ma, assicura il titolare del Viminale dal palco dell’evento organizzato da Domani a Roma, non si tratta in alcun modo di propaganda. E comunque lui non è un semplice spettatore. Eppure l’impressione è che lei si trovi nella scomoda posizione di dover realizzare il “libro dei sogni” della presidente del Consiglio sull’immigrazione... Non è così. Anzitutto quelli della premier non sono degli slogan ma degli accordi internazionali simili a tanti che sono stati fatti in passato. Sono filoni progettuali in avanzato stato di realizzazione, come nel caso del Memorandum con la Tunisia. E come ha detto anche il collega Antonio Tajani, possiamo portare prove documentali che nulla si è svolto a nostra insaputa. Vengo proprio ora da un incontro trilaterale con il mio collega libico e con quello tunisino in cui uno dei temi centrali è stata proprio l’implementazione della cooperazione in atto. Peraltro ricordo che il Memorandum è stato firmato alla presenza di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue, e del premier olandese Mark Rutte. Ma il presidente tunisino Kaied Saied, dopo averlo firmato, si è rimangiato l’intesa... Non è vero. Lo ha sottoscritto e, ripeto, abbiamo proficui rapporti di collaborazione. Oggi, ad esempio, abbiamo parlato della realizzazione di uno dei punti dell’intesa: quello dei rimpatri volontari assistiti dalla Tunisia. La Tunisia, al pari della Libia, ritiene di essere accomunata all’Italia dal problema di essere un paese di transito. Un paese che in qualche modo subisce il fenomeno migratorio. Il Memorandum Unione europea-Tunisia vuole essere una cornice più importante a una collaborazione che ha come obiettivo di eliminare quei fattori che determinano le crisi socio-economiche che spesso sono le precondizioni del fenomeno migratorio. Quindi la rassicuro: ho partecipato attivamente ai lavori e con molta gratificazione. Eppure quest’anno abbiamo già avuto oltre 150mila sbarchi sulle nostre coste, negli ultimi giorni siamo oltre i 1.500. L’impressione è che tutta questa collaborazione non funzioni... Questo è un aspetto tipico del lavoro del ministro dell’Interno. Uno ha la contabilità precisa di ciò che accade ma mai di quello che è riuscito a evitare. Dall’inizio dell’anno la Tunisia è riuscita a sventare la partenza di almeno 60mila persone. E questo con tutte le difficoltà che il paese ha. Io sono testimone del fatto che c’è un grande impegno che, a differenza di ciò che si dice, non prescinde dalla preoccupazione per la salvaguardia delle persone. Quindi non sono convinto che non ci siano dei segni tangibili dei risultati raggiunti. Le partenze sono sempre tante, secondo la mia personale visione, ma questo, incrocio le dita, potrebbe essere il secondo mese consecutivo in cui facciamo registrare una leggera flessione rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Non siamo alla soluzione del problema, ma siamo sulla buona strada. Lei parla di “salvaguardia” delle persone ma il presidente Saied, rispetto ai moti di protesta nel paese, non si è sempre comportato come un perfetto difensore dei diritti umani... Non credo che in Tunisia ci sono situazioni che ci debbano indurre a non avere rapporti con quel paese. E il trattato con l’Albania? Per garantire la sicurezza un cpr che ospiti fino a un massimo di 3.000 persone servirebbero 1.000 agenti. Non le sembra irrealizzabile? Ci stiamo lavorando. È prematuro dare una risposta appropriata. Stiamo facendo un’analisi precisa di quella che poi sarà la messa a terra del progetto e tutto questo verrà compendiato in un disegno di legge che sarà oggetto di discussione parlamentare. Ovviamente dobbiamo fare un’analisi costi-benefici. Se il centro funzionerà sarà giusto fare degli investimenti. Come siamo messi con i Cpr italiani? I sindaci hanno preso benissimo il vostro progetto... Io vedo che c’è una certa unanimità, da parte dei sindaci, nel lamentarsi del fatto che noi abbiamo in circolazione, sul nostro territorio, soggetti pericolosi. Ma se poi uno propone di realizzare i Cpr, che sono strutture che servono a evitare questo tipo di situazioni, non capisco perché qualcuno non li vuole. Tra l’altro si tratta di strutture statisticamente fondamentali per realizzare quelle espulsioni che vengono tanto invocate. Quindi non capisco questa vulgata che ha trasformato in Cpr in qualcosa di pericoloso. Lei non lo capisce ma forse su questo il centrodestra, almeno quella parte che quotidianamente fa allarmismo intorno al tema migratorio, ha una responsabilità... Citerò Roberto Maroni, che proprio ieri abbiamo commemorato al Viminale, e che, in una certa situazione, diceva “le dò una risposta da ministro dell’Interno”. Il ministro dell’Interno deve applicare la legge e gli orientamenti che vengono da chi rappresenta la maggioranza di governo. Io non mi tiro fuori. Sono pienamente partecipe di questa maggioranza che, nel linguaggio che ritiene più appropriato, comunica le preoccupazioni per il fenomeno dell’immigrazione incontrollata. Ma un cpr è proprio la risposta a quelle preoccupazioni. Le faccio una domanda da ministro dell’Interno: le sembra, come accaduto nel caso della tragica vicenda di Giulia Cecchettin, che i carabinieri, davanti alla denuncia di un cittadino, non intervengano per aiutare una donna in pericolo? Su questa vicenda va fatta chiarezza. L’Arma ha detto di poter fare chiarezza. Non mi sembra così semplice e immediato. Sarebbe velleitario anche per me dare delle spiegazioni. Mi consentirà di concedere il beneficio del dubbio. Le forze di polizia e l’Arma dei carabinieri non si sono mai sottratti all’assunzione delle loro responsabilità. Anche quando ci sono stati casi altamente controversi e complicati. Ilaria Cucchi non sarebbe d’accordo con lei... A volte possono essere percorsi faticosi. Chi veste la divisa ha obblighi in più rispetto a qualsiasi cittadino, ma il diritto di difesa vale per tutti. E in questo caso non mi pare ci sia un’accusa strutturata. Certo, l’impressione è che nel nostro paese una donna che denuncia non sempre viene ascoltata... Su questo passaggio mi permetto di contraddirla. Le forze dell’ordine hanno fatto molti passi avanti. Anche se mai troppi se ne fanno. C’è sempre la necessità di adeguare la formazione specifica, soprattutto nel capire il fenomeno. Il tema è anticipare i casi. Questa è la vera insidia. Occorre capire quando siamo in presenza di casi di violenza. Questa è la vera sfida. Che riguarda le forze dell’ordine ma anche tutte le istituzioni che hanno l’obbligo e la missione di curare questi casi. Glielo chiedevo anche perché, come avrà visto, la polizia ha fatto un post sul tema della violenza contro le donne. E molte donne, nei commenti, hanno denunciato di non essere state adeguatamente ascoltate quando si sono trovate a denunciare... I social sono un sistema di comunicazione importante, ma non andrei dietro a quanto accade sui social. Mi sembra alquanto ingeneroso verso le forze dell’ordine. Che fine ha fatto il decreto Rave? All’epoca, basta andarsi a riprendere le cronache di quel periodo, in maniera assolutamente bipartisan, quello dei rave sembrava essere il problema dei problemi. Anche con una certa irritazione per un fenomeno caratterizzato da concorrenza sleale e abuso della proprietà altrui. Senza contare la necessità di garantire la tutela dell’incolumità delle persone. Sono quei fenomeni di cui chi governa si deve fare carico. Che fine ha fatto? Lei sa quanti rave si sono tenuti dopo quella normativa? Zero. Saremmo stati fortunati? Prima erano diverse decine. I famigliari delle vittime del naufragio di Cutro verranno risarciti? Lo stato non si è girato dall’altra parte rispetto alle vittime del naufragio di Cutro. Lo stato si è fatto carico del fatto che metà dei superbisti ha chiesto di andare in altri paesi per ricongiungersi ai propri parenti. Chi è rimasto sul territorio nazionale ha fatto richiesta di protezione internazionale e alcuni l’hanno già ricevuta. Lo stato non si è girato dall’altra parte e non lo farà mai. Io volutamente ho parlato di indennizzo e non di risarcimento, perché in questi casi il risarcimento presuppone la responsabilità dello stato, e la vicenda è ancora tutta da chiarire. Sicuramente ragioneremo in una logica di indennizzo dei famigliari delle vittime. È pentito della direttiva che ha bloccato la trascrizione degli atti di nascita dei figli di coppie omogenitoriali? No, perché era una direttiva che si limitava a rappresentare una giurisprudenza consolidata della corte di Cassazione. Il legislatore potrà ritornarci sopra se vorrà. A volte un governo, se ritiene che ci siano diritti violati, può cambiare le leggi... Il parlamento può cambiare le leggi. Ma lei sa che il governo è retto da forze parlamentari che, su questo aspetto, la pensano in un certo modo. La democrazia è anche maggioranza. Dalla Turchia all’America latina: origami e atti di resistenza di Giovanna Branca Il Manifesto, 26 novembre 2023 Già il 24 novembre le strade di Istanbul erano state blindate, in particolare l’accesso a piazza Taksim e alle vie centrali della città, sorvegliate da poliziotti in tenuta antisommossa. Questo non ha fermato qualche centinaio di manifestanti femministe e di associazioni Lgbtq+, che si sono messe in marcia dal quartiere di Mecidiyekoy, dirette a piazza Taksim - dove sono state fermate dalla polizia - nella Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne. Manifestazioni che si sono tenute anche in altre città turche, dalla capitale Ankara a Izmir, Tunceli, Eskisehir. A Konyaalt?, nella regione di Antalya, è stato organizzato un evento ispirato alla leggenda giapponese degli Orizuru, gli origami a forma di gru: mille donne ne hanno appesi altrettanti agli alberi per avverare il desiderio della fine della violenza contro le donne, particolarmente feroce in Turchia - uscita nel 2021 dal protocollo di Istanbul per volere di Erdogan - dove i dati della Federazione delle associazioni delle donne turche parlano di 323 vittime fra gennaio e settembre di quest’anno, la maggioranza uccise dai mariti o i partner. Eppure proprio ieri il presidente turco ha affermato pubblicamente che lasciare il Protocollo contro la violenza di genere “non ha avuto la minima ripercussione negativa”. Numeri altissimi anche in America latina secondo i dati raccolti dall’Osservatorio sull’uguaglianza di genere dell’America Latina e dei Caraibi: 4.050 donne uccise nel 2022 - vuol dire che “ogni due ore una donna è morta violentemente” - nei soli 26 paesi della regione che hanno comunicato le informazioni relative al proprio territorio. Un cimitero, come quello rappresentato alla vigilia della Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne dalle famiglie delle vittime di femminicidio a Città del Messico, davanti al Palazzo nazionale. Decine di lapidi di carta con l’iscrizione “femminicidio”, foto delle vittime e candele che illuminano la manifestazione silenziosa davanti alla sede del governo federale, mentre alcune madri delle vittime si spingono fino alla residenza del presidente Andrés Manuel López Obrador per lasciare dei messaggi da parte di coloro che non ci sono più: “Stato femminicida”, “Non mi sono suicidata, mi hanno uccisa”. La capitale messicana è stata poi teatro, ieri, della manifestazione contro la violenza di genere partita alle 10 del mattino dalla Colonna dell’Indipendenza e diretta verso Piazza della Costituzione. Insieme a decine di altre piazze latinoamericane, da Bogotà a Buenos Aires alla Plaza Uruguaya di Asunción, in Paraguay, la patria delle mariposas, le tre sorelle Mirabal, uccise dal dittatore Trujillo, a cui è dedicata la Giornata. O a El Salvador, dove le organizzatrici della manifestazione denunciano a La Prensa che il Paese “è diventato uno dei tre dell’America Latina più pericoloso per donne e ragazze”: sono 5.203 i casi di violenza sessuale nel 2022 (un aumento del 47% rispetto al 2021), mentre negli ultimi tre anni sono stati documentati 28 femminicidi. Cioè accertati, perché le sparizioni di donne e ragazze nel solo 2022 raggiungono quota 306. A La Paz, in migliaia hanno marciato già il 24 novembre: insieme alle associazioni manifestavano sindacati, contadini e alcuni rappresentanti delle istituzioni pubbliche. Nella Plaza Murillo della capitale boliviana, sede del Congresso, ci si è appellati ai parlamentari perché approvino le “modifiche fondamentali” alla legge 348 (per garantire alle donne una vita senza violenza). Manifestazione anticipata alla vigilia del 25 anche in Cile, dove nella capitale Santiago si è sfilato al grido di “non un passo indietro”. Nel Paese si sono registrati quest’anno 40 femminicidi e proprio ieri il ministero delle Donne e dell’uguaglianza di genere ha lanciato la campagna “Arriviamo a zero. Contiamo tutti per ridurre la violenza contro le donne”. In Cile le vittime non denunciano le violenze subite, ha affermato la ministra Antonia Orellana. “In primo luogo perché sentono che non otterranno giustizia”. Manifestazioni anche in tutta Europa: due a Madrid - la mattina e la sera - ad Atene, Parigi e anche in varie località della Serbia. A New Delhi, nella capitale del Paese dove la violenza contro le donne è un’epidemia, un gruppo di donne ha sfilato per strada in un semplice, e pericolosissimo, gesto di sfida: camminavano senza uomini ad accompagnarle. Il Sahel è un laboratorio per il futuro: per questo i potenti guardano ai migranti con sospetto di Mauro Armanino* Il Fatto Quotidiano, 26 novembre 2023 Innanzitutto la polvere, che entra dappertutto e colpisce il nostro sguardo in modo talvolta pericoloso. È di questo che vorrei parlare per prima cosa, perché tutto nella nostra vita dipende dal modo con cui guardiamo le cose. La prima cosa da osservare, quando si studia qualsiasi argomento, è proprio il tipo di sguardo col quale osserviamo una determinata realtà… Dove e come leggiamo la realtà! Da qui guardiamo (e leggiamo) la realtà dal Sahel, uno spazio umano, geografico, politico, economico e culturale. Questo è già un aspetto interessante, ma da solo non basta, perché bisogna scegliere Il luogo socio-umano da cui guardarla. Ci sono luoghi privilegiati che diventano lo specchio della società... Uno di questi luoghi è la migrazione: i migranti rivelano molto del nostro Sahel! La seconda fase consiste, come detto prima, nella scelta del tipo di visione, della qualità della nostra sguardo… di ciò che stiamo cercando. Potremmo dire che dobbiamo scegliere il giusto tipo di occhiali con cui guardare… ed è in questo senso che dobbiamo stare attenti alla… polvere! I nostri occhi possono essere, spesso senza rendersene conto, “colonizzati” dalla mentalità dominante, capitalista, neoliberista, guerrafondaia. Una realtà in cui la ricerca del profitto, del prestigio e del potere prevalgono sulla ricerca del bene comune, cioè del bene dei poveri. È questo tipo di sguardo che può leggere i segni del futuro nella realtà, i segni della speranza negli occhi dei giovani e dei poveri, gli unici che vogliono scoprire un mondo diverso. Per farlo, dobbiamo spolverare i nostri occhi, perché siano liberi e aperti a cogliere il nuovo, spesso nascosto come l’acqua del sottosuolo che solo i rabdomanti sanno scoprire! Conosciamo il vento nel Sahel: porta polvere e libera dalla polvere! Il vento è il simbolo della mobilità, dello spostamento e del cambiamento. Prima ho accennato alla migrazione e ai migranti come “luogo” privilegiato per leggere e “ascoltare” la realtà. È un fatto sociale totale, una sorta di specchio attraverso il quale possiamo vedere noi stessi, come società, sistema economico, politico e sociale. Per secoli, il Sahel è stato una zona di transito per carovane, schiavi (purtroppo) e merci di ogni tipo: un luogo di passaggio e di transito. In seguito, abbiamo subito una colonizzazione pesante e dolorosa, che ha contribuito a trasformare le migrazioni e spesso ha cercato di fermarle, modificarle e indirizzarle, ad esempio con il lavoro forzato. Conosciamo la figura saheliana dell’esodante…, dell’avventuriero, questi personaggi fanno parte della cultura sociale ed economica del Sahel, soprattutto in alcune stagioni dell’anno. È anche la mobilità della transumanza dei pastori che costituisce una delle ricchezze del Sahel. Tuttavia, in questi diversi processi di spostamento e mobilità, abbiamo codificato e spesso “mercificato” la migrazione e i migranti. La mobilità verso la costa atlantica o verso il Nord Africa, o ancora più lontano, verso l’Europa, l’Asia o le Americhe, ha assunto una nuova dimensione per una serie di ragioni che ci portano alla geopolitica in questione. La crescente demografia, con una maggioranza di giovani, la ricchezza del sottosuolo, la riduzione delle aree di pascolo e dei punti d’acqua… Il transito dei migranti verso il Nord e l’esternalizzazione delle frontiere europee nel Sahel hanno ridotto la libertà di mobilità dei migranti. Il resto lo sappiamo: questa parte del Sahel fa parte della frontiera meridionale dell’Occidente! Tutto questo, insieme ad altri fattori come le azioni dei Gruppi Armati Terroristi e il commercio di droga, armi e persone, ha contribuito a un notevole livello di violenza in quest’area. I milioni di rifugiati, sfollati interni e migranti forzati ne dimostrano chiaramente gli effetti. Ma dovremmo guardare più da vicino alla forza sovversiva che si cela dietro la migrazione. Si tratta di chi, per molte ragioni, non accetta di scomparire nel silenzio dell’invisibilità della globalizzazione. Non sono d’accordo con il mondo così com’è e cercano qualcosa di diverso, che sta già avvenendo in viaggio. Ecco perché tutti i potenti guardano ai migranti con un certo sospetto. Finalmente abbiamo la sabbia, naturalmente! A volte ce ne dimentichiamo, ma la realtà è testarda e ce lo ricorda: in fondo, noi stessi non siamo altro che sabbia, sabbia con un cuore! Da quando sono arrivato a Niamey, 12 anni fa, sono stato sedotto dalla sabbia e dalla sua costante, fedele, ineluttabile… eterna presenza! Il Sahel non è tutto sabbia, ma la sabbia è un elemento costante delle nostre strade e delle nostre vite. La sabbia si insinua, si mescola, va dappertutto e si muove, si adatta alla situazione, non si impone… regni e presidenti vanno e vengono, la sabbia resta! Per me, questa è la metafora più interessante per le persone, i popoli del Sahel, che stanno costruendo una nuova geopolitica, non con la strategia ma con l’avventura quotidiana della sopravvivenza! In questo senso, il Sahel, grazie alla sua gente e alla sua sabbia, è un vero e proprio laboratorio per un futuro capace di accogliere la diversità di culture, idee, religioni, credenze, economie e regimi politici come potenziale fonte di ricchezza. È soprattutto ai giovani, alle donne e ai poveri che è affidato il nobile compito di costruire la cittadinanza! Infine, nel contesto del progetto sociale di cui sopra, va menzionato il ruolo forse decisivo degli intellettuali e dei ‘custodi’ della parola. Diventano i “cantori” del nuovo potere, i “buffoni” della corte o semplicemente “l’eco” delle verità ufficiali, oppure svolgono il loro ruolo con la saggia follia di un tempo. L’attuale cantiere sociale avrà un futuro a patto che le parole di coloro a cui il destino le ha affidate non smettano di smascherare le menzogne del potere. Solo allora la geopolitica del Sahel sarà scritta, per una breve eternità, sulla sabbia. *Missionario, dottore in antropologia culturale ed etnologia