“Pacchetto sicurezza”, leggasi più carcere per tutti di Marco Fattorini Il Riformista, 25 novembre 2023 Più carcere per tutti. Potrebbe riassumersi così, con uno slogan semplice ed efficace l’ultimo “pacchetto sicurezza” approvato dal governo e, più in generale, il primo anno di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. Un decreto dopo l’altro, l’esecutivo ha inventato nuovi reati o aumentato le pene per moltissime situazioni. Nel magico mondo sovranista tutto diventa penale. Così sono nate le norme contro i rave party, l’imbrattamento dei muri, la gestazione per altri, le rivolte carcerarie (anche quelle pacifiche), i blocchi stradali, l’occupazione di case, le truffe agli anziani, l’omicidio nautico, l’abbandono di rifiuti, la cosiddetta “stesa”, cioè quando i criminali corrono in moto sparando in aria. Adesso pure le donne in gravidanza e con figli di età inferiore a un anno rischiano la detenzione. Punizioni più severe anche per chi causa incendi boschivi, istiga all’anoressia e all’accattonaggio o se la prende col personale scolastico e sanitario. Dal traffico di migranti alla violenza di genere, dallo spaccio minorile alla dispersione scolastica, passando per la resistenza a pubblico ufficiale. La lista è lunga. A una rapida lettura sembrerebbe anche di buonsenso. D’altronde la sicurezza e una questione serissima. Chi, in una società sana, non vorrebbe sanzioni per molte delle fattispecie elencate? Infatti già esistevano. Semplicemente il governo ha deciso di rafforzarle dando l’illusione che, aumentando le punizioni, i reati possano diminuire. Una propaganda a buon mercato, anzi a costo zero, che riempie la pancia dell’elettorato e regala titoli ai talk show senza risolvere i problemi. La minaccia penale è l’arma di distrazione di massa più efficace per allontanare questioni irrisolte come la povertà, l’immigrazione, la sanità. Per non parlare della Legge di Bilancio. Nel peggiore dei casi, si dirà, la sfilza di nuovi reati è inutile. Invece no. Rischia di intasare tribunali già al collasso e riempire carceri sovraffollate. Drammi sistematicamente ignorati perché, si sa, non portano voti. Le patrie galere sono luoghi di disagio nell’indifferenza della politica. Fanno notizia per i suicidi o per le rivolte, non per le condizioni in cui vivono i reclusi o per l’assenza di rieducazione. In compenso, con le norme del pacchetto sicurezza che rendono facoltativo il differimento della pena per le madri di bimbi fino a un anno, le porte dei penitenziari rischiano di aprirsi anche ai più piccoli. Per loro ci sono gli istituti a custodia attenuata, strutture pensate per essere più ospitali, che però sono solo quattro in tutta Italia. Cosa succederà con il probabile aumento delle detenute? In attesa di conoscere gli effetti delle nuove misure, ci siamo già assuefatti a un anno di populismo penale. Eppure l’attuale ministro della Giustizia Carlo Nordio è stato sempre chiaro sul tema. “L’equivoco della destra è quello di pensare di garantire la sicurezza attraverso l’inasprimento delle pene, la creazione di nuovi reati e magari con un sistema carcerario come quello che abbiamo che diventa criminogeno”. L’ex procuratore di Venezia parlava così prima di arrivare a via Arenula. “Chi tende a intercettare una domanda di sicurezza degli elettori giocando con il rialzo delle pene alla fine non fa altro che ingrassare un populismo che in pochi mi sembra vogliono combattere davvero: quello penale”, ripeteva nel settembre 2022. E aveva ragione da vendere. Che fine abbia fatto il pensatore liberale e garantista, non è dato saperlo. Il Guardasigilli, le cui idee sono note, appare spesso isolato in una maggioranza che col populismo penale sta consolidando il suo consenso. Oggi sembra che la soluzione a ogni situazione di conflitto sia solo la repressione, non la prevenzione. La forza, prima della cultura. Anche quando ci si trova davanti a situazioni di disagio sociale, che richiederebbero altri tipi di approccio. La corsa all’annuncio e alla tolleranza zero è più forte di qualunque riflessione. L’illusione populista è semplice, nella sua immediatezza. L’appello dei Garanti sulle tante criticità del pacchetto sicurezza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 novembre 2023 Il disegno di legge in materia di sicurezza pubblica, approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 16 novembre, ha sollevato considerevoli riflessioni e preoccupazioni tra i Garanti regionali, provinciali e comunali delle persone private della libertà personale. Samuele Ciambriello, il nuovo Portavoce nazionale della Conferenza dei Garanti territoriali, ha elaborato assieme a 28 garanti, un appello che mira a stimolare una riflessione approfondita da parte di parlamentari, magistrati, avvocati, sindacalisti e operatori del terzo settore presenti nelle carceri. Il documento offre un’analisi critica evidenziando le problematiche che potrebbero essere corrette durante il suo percorso parlamentare. Il disegno di legge, correttamente presentato all’esame parlamentare in forma ordinaria, è considerato dagli esperti un terreno aperto a correzioni e modifiche. Tuttavia, i Garanti ritengono cruciale portare all’attenzione delle autorità competenti alcune questioni fondamentali per evitare potenziali conseguenze negative. Il primo punto sollevato riguarda l’innalzamento dei limiti edittali per reati già previsti e l’introduzione di nuove ipotesi incriminatrici. I Garanti avvertono che ciò potrebbe portare a un sensibile aumento della popolazione detenuta, già in crescita costante dalla fine della pandemia. Al 31 ottobre 2023, il numero di persone detenute era salito a 59.715, con un aumento di 3.519 rispetto all’inizio dell’anno e di 5.581 rispetto all’anno precedente. Una delle preoccupazioni principali riguarda l’abrogazione dei commi 1 e 2 dell’art. 146 del codice penale. Questa modifica, che rende solo eventuale il differimento di pena, sembra colpire direttamente le donne incinte e le madri con prole di età inferiore a un anno. È fondamentale esaminare attentamente le implicazioni di questa decisione, considerando il contesto storico e le alternative già presenti nel sistema penitenziario italiano. La disposizione che preoccupa riguarda il differimento di pena per le donne in gravidanza e le madri di neonati, un provvedimento introdotto sin dal 1930 con l’intento chiaro di tutelare la maternità, il nascituro e l’infante, preservando al contempo la relazione madre- figlio. L’abolizione di questa garanzia solleva questioni di natura etica e legale, mettendo in discussione l’impegno della Repubblica italiana a proteggere la maternità e l’infanzia, come sancito dall’art. 31 della Costituzione. La nuova disposizione prevede il differimento della pena solo in presenza di un “pericolo di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti”. Tuttavia, questo concetto di “ulteriori delitti” risulta essere eccessivamente generico e privo di specificità, aprendo la porta a interpretazioni ambigue e arbitrarietà nelle decisioni giudiziarie. È cruciale sottolineare che il sistema penitenziario italiano già dispone di strumenti per gestire situazioni delicate come questa. L’art. 47- ter, co. 1- ter, consente alla magistratura di sorveglianza di applicare la detenzione domiciliare nei casi di rinvio obbligatorio o facoltativo della pena, quando sussistono ragioni di cautela. Questa misura, con indubbio carattere contenitivo, offre una soluzione flessibile per affrontare le specificità di ogni caso, superando eventuali considerazioni negative sulla pericolosità del soggetto e garantendo contemporaneamente la tutela delle condizioni e situazioni meritevoli di protezione. La nuova previsione legislativa sembra sacrificare l’interesse del minore, riconosciuto come “superiore” secondo la Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 e ribadito dalla Corte costituzionale italiana in numerose sentenze. Tale sacrificio è giustificato, secondo la motivazione del disegno di legge, da generiche esigenze di tutela della collettività. Un punto ulteriore di discussione è rappresentato dagli Istituti di Custodia Alternativa Minori (Icam), i quali sembrano essere superati legislativamente dalle Case Famiglie Protette, istituite con la legge 62/2011 e finanziata dalla legge 178/ 2020 per il triennio 2021- 2023. La necessità di una valutazione accurata di queste soluzioni alternative si impone per garantire una risposta adeguata alle esigenze delle donne incinte e delle madri coinvolte nel sistema penitenziario. I Garanti sono preoccupati anche per l’introduzione della nuova fattispecie di “rivolta in carcere” (art. 415- bis c. p.). Si evidenzia la punizione da 2 a 8 anni per la promozione, organizzazione o direzione di una rivolta, e da 1 a 5 anni per la mera partecipazione. La previsione che il reato possa essere contestato a un sodalizio di sole tre persone, anche mediante atti di resistenza passiva, solleva dubbi sulla sua proporzionalità. Si citano esempi di proteste in carcere durante la pandemia, già affrontate con procedimenti penali senza la necessità di introdurre un reato simile. Analoghe previsioni riguardano le rivolte organizzate nei centri di trattenimento e accoglienza per migranti. I Garanti mettono in discussione l’ampliamento della gamma dei delitti ostativi ai benefici penitenziari, già oggetto di critiche da parte della dottrina e degli operatori del diritto. Le misure proposte per bilanciare le restrizioni, come l’aumento da 4- 5 a 6 il numero delle telefonate per i detenuti e la delega al governo per riformulare il Regolamento penitenziario in materia di lavoro, sono giudicate decisamente insufficienti. In particolare, si sottolinea che le direttive sono eccessivamente generiche e superano le competenze del ministero della Giustizia in materia di lavoro. In conclusione, l’appello dei Garanti pone l’accento sulla necessità di una discussione approfondita e ponderata in sede parlamentare, al fine di evitare conseguenze dannose sulla popolazione detenuta e garantire un equilibrio tra sicurezza pubblica e rispetto dei diritti fondamentali. Il documento chiude con l’invito alle forze politiche e sociali di agire come portavoce nelle sedi istituzionali appropriate, affinché la legislazione possa essere attentamente valutata e, se necessario, corretta per garantire e coniugare i diritti con l’esigenza della sicurezza. Il suicidio in carcere non può essere archiviato: interroga le coscienze e la politica di Franco Corleone Messaggero Veneto, 25 novembre 2023 Il 16 novembre nel carcere di Udine un detenuto di 64 anni, si è suicidato. La tragedia si è consumata dopo soli sei giorni dall’arresto e le ragioni di ordine familiare e sociale sono note. Quello che non si sa è che Rodolfo Hillic aveva chiesto un colloquio con lo psicologo. Era in lista di attesa con una psicologa dell’Amministrazione penitenziaria (un esperto ex art. 80 dell’Ordinamento penitenziario con contratto di poche ore al mese), ma non ha atteso il suo turno. Si tratta di un retaggio di quando la sanità era di competenza dell’amministrazione penitenziaria e personalmente ho molti dubbi sulle funzioni ambigue di questa figura. Nel carcere di Udine sono presenti 136 persone rispetto alla capienza regolamentare di 86: cinquanta soggetti in più che vivono in coabitazione forzata con servizi igienici intasati, con spazi angusti, con letti a castello. Il sovraffollamento si rivela una condizione contro il diritto alla salute previsto dall’articolo 32 della Costituzione che lo definisce “fondamentale”. Molti degli ospiti di via Spalato appartengono alla marginalità sociale, hanno storie di vita difficili, caratterizzate da mancanza di istruzione, di lavoro e di casa: 33 sono accusati o condannati per violazione dell’art. 73 della legge antidroga per detenzione o piccolo spaccio di sostanze stupefacenti vietate; 48 sono classificati come tossicodipendenti, 18 come alcoldipendenti e 9 come psichiatrici. Un quadro impressionante che testimonia la mancanza di un sistema di welfare, sostituito da un fallimentare prisonfare. La sfida del reinserimento sociale è assai problematica. Le responsabilità politiche di privilegiare la detenzione rispetto alle misure alternative sono evidenti e vanno denunciate con chiarezza. Per quanto mi riguarda non faccio sconti al Governo e al ministro della Giustizia e ho avanzato con gli altri garanti presenti in Italia, suggerimenti per risolvere una condizione che viola l’art. 27 delle Costituzione e le norme della Convenzione europea dei diritti umani. La competenza della salute è invece del Servizio sanitario pubblico, cioè della Regione. Il 31 ottobre avevo scritto all’assessore Riccardi dettagliando nove proposte per migliorare il servizio nel carcere di Udine. Attendo ancora una risposta. Il tema della salute in carcere richiede un impegno che incida anche sulle condizioni della vita quotidiana e di quelle igienico sanitarie, dell’alimentazione e delle relazioni umane. È assolutamente improprio che i medici presenti in carcere al momento della visita di ingresso diano indicazioni per la cosiddetta “grande sorveglianza”. C’è bisogno semmai di “grande cura” ed è davvero sconvolgente che al momento addirittura ben 47 detenuti siano segnalati all’amministrazione penitenziaria con questa indicazione, motivata per un rischio suicidario o per altre preoccupazioni di fragilità. Si tratta di una pratica che va superata perché il nodo cruciale non può essere legato alla sicurezza ma a una organizzazione che veda protagonista il Dipartimento di salute mentale. Spesso il nodo della salute mentale è sollevato in maniera strumentale che rivela la nostalgia del manicomio, ma va affrontato con responsabilità dalla sanità senza delega, di fatto, alla polizia penitenziaria. Sottolineo che il progetto di ristrutturazione in corso in Via Spalato prevede una ricollocazione dell’infermeria per garantire maggiore funzionalità e adeguati spazi. Questo ultimo caso mi obbliga però a chiedere un provvedimento di urgenza, cioè la presenza di uno psicologo della sanità pubblica a tempo pieno. Le persone ristrette hanno bisogno di molte cose, ma anche di potersi confidare, di poter parlare con qualcuno capace di ascolto. La parola può salvare vite. Per fortuna è presente con assiduità il volontariato, Caritas e Icaro, ma le associazioni non possono svolgere attività di supplenza rispetto alle istituzioni che hanno precisi doveri. Mi auguro che una decisione venga presa immediatamente dall’assessore Riccardi a cui ho scritto presentando queste considerazioni. Rappresenterebbe un segno di sensibilità e di umanità e attendo con fiducia una scelta non procrastinabile. Detenuti ai margini della società. Ma vince sempre il populismo penale di Andrea Oleandri* lavialibera.it, 25 novembre 2023 Un’alta percentuale delle persone recluse negli istituti italiani è straniera, vive in condizioni economiche precarie, ha un basso livello di istruzione e fa uso di sostanze. Bisognerebbe intervenire per risolvere queste criticità, ma la risposta della politica è sempre la stessa: repressione. “Troppe poche le carceri per rinchiudervi tutti i poveri del mondo”, scrisse il poeta e saggista polacco Czeslaw Milosz nel suo libro Il cagnolino lungo la strada. La stessa frase apre Sociologia della povertà di Enrica Morlicchio, professoressa ordinaria di Sociologia dello sviluppo all’università di Napoli Federico II. Non esistono grandi raccolte di dati sulle persone che entrano negli istituti di pena, ma certe informazioni fanno capire come ci sia un collegamento diretto tra esclusione, marginalità sociale e carcere. Riguardo alla provenienza di chi è recluso, circa il 32 per cento risulta essere straniero. Questo, puntualmente, porta alcuni a parlare di una propensione maggiore al crimine tra chi proviene da un paese estero. In effetti il 32 per cento sul totale è un dato molto alto se rapportato a circa l’8 per cento di persone straniere sul totale della popolazione libera. Carcere e povertà - Bisogna tenere conto di un altro aspetto: al 30 giugno 2023, il 45,2 per cento delle persone recluse proviene da quattro regioni: Campania, Puglia, Sicilia e Calabria. Se rapportiamo questo dato ai soli detenuti italiani, si evince che il 67,6 per cento dei reclusi proviene da questi territori. Seguendo il ragionamento di alcuni, dovremmo quindi sostenere che chi arriva da queste regioni ha una propensione maggiore a un comportamento criminale e deviante. Del resto si tratta dei territori dove affondano le radici i principali gruppi criminali attivi in Italia (e non solo). Se analizziamo i dati sui redditi individuali, su base regionale, pubblicati dal ministero dell’Economia e delle finanze, relativi al 2021, vediamo che Calabria, Puglia, Sicilia e Campania occupano gli ultimi posti, con la Calabria fanalino di coda. Forse allora esiste una questione che va oltre il tema della possibile e lombrosiana propensione criminale, che riguarda una situazione di povertà cronica. Carcere e livello di istruzione - Oltre al dato economico, esiste quello sui titoli di studio. Dalle statistiche del ministero della Giustizia si apprende, infatti, come delle 29.550 persone detenute censite, sulle 57.525 presenti allo scorso 30 giugno, siano più gli analfabeti e le persone alfabetizzate ma senza titolo di studio (rispettivamente 820 e 513) dei laureati (600). Inoltre, solo il 16,6 per cento dei censiti (4.917) è in possesso di un diploma di scuola secondaria superiore, mentre la maggior parte hanno raggiunto quello inferiore (17.159) e quasi 5mila solo la licenza di scuola elementare. Realtà sociali, c’è bisogno di una nuova Liberazione - Medie che non si registrano nel mondo libero dove, secondo i dati Istat del 2020, il 63 per cento circa della popolazione ha un diploma di scuola superiore e circa il 20 per cento ha ottenuto un titolo universitario. Chi è in carcere, dunque, ha generalmente titoli di studio molto più bassi e alle spalle situazioni di abbandono scolastico, o comunque un percorso incerto. Cooperazione contro precarietà e disuguaglianze - Ancora una volta questo aspetto non può non essere messo in relazione con variabili economiche e sociali, laddove i dati Istat del 2020 ci dicono che, su una media nazionale di abbandono scolastico del 13,1 per cento, il Sud si attesata al 16,3 per cento. Dunque, è più facile che laddove ci siano situazioni di povertà, ci sia più elusione scolastica e più persone che commettono reati. Cosa che vale sia per gli italiani e sia per gli stranieri, che hanno generalmente redditi e tassi di istruzione più bassi. Carcere e dipendenze - In questo quadro complessivo si inserisce anche il dato relativo alle dipendenze, che riguarda circa il 30 per cento delle persone oggi recluse in carcere. Se il consumo di sostanze interessa trasversalmente le differenti fasce sociali, l’impatto delle stesse su chi non ha risorse economiche per acquistarne può essere maggiore. Tra i dati registrati dall’amministrazione penitenziaria non ne esiste uno specifico che lega la persona con questa forma di dipendenza al reato commesso, tuttavia guardando all’esperienza sul campo di Antigone, non è difficile immaginare come questi possano essere legati a quei “reati di sussistenza” (rapine, furti, spaccio), compiuti per acquistare le sostanze. Spaccio e consumo di sostanze, il carcere non è la soluzione - Se il carcere dunque ha a che fare con povertà ed esclusione sociale, sarebbe utile intervenire su queste ultime due, piuttosto che su un allargamento dei confini del primo. Invece, negli ultimi anni, quest’ultima è stata la tendenza principale. Andata, peraltro, costantemente ad ampliarsi. Come scrive il giurista Luigi Ferrajoli: “Essendo stata la sicurezza sociale aggredita dalle politiche di riduzione dello Stato sociale e di smantellamento del diritto del lavoro, le campagne securitarie valgono a soddisfare il sentimento diffuso dell’insicurezza sociale con la sua mobilitazione contro il deviante e il diverso”. Con un duplice effetto, sostiene Ferrajoli, cioè l’identificazione illusoria tra sicurezza e diritto penale e la rimozione, dall’orizzonte della politica, di politiche sociali di inclusione. In questo senso vanno anche i due più recenti provvedimenti del governo, il decreto Caivano e il pacchetto sicurezza, che rientrano appieno nella categoria del populismo penale, centrale per lo stesso Ferrajoli, laddove si persegue proprio la “criminalità di sussistenza”, commessa da immigrati, disoccupati e soggetti emarginati (tutte categorie di persone e reati perseguite dai provvedimenti governativi), assecondando “il riflesso classista e razzista dell’equiparazione dei poveri, dei neri e degli immigrati ai delinquenti”. Caivano, la punizione non è la cura - Un atteggiamento che porta consensi nel breve periodo, ma che non interviene sulle cause profonde della criminalità. Non è un caso che ormai da 15 anni tutti i governi legiferino sulle stesse materie spostando sempre più oltre i paletti della repressione, senza riuscire però a creare quella sicurezza che, il solo intervento penale, del resto non può garantire. Mentre, come ci raccontano le statistiche dell’Istat, la povertà e la disuguaglianza sociale nel Paese crescono. *Responsabile comunicazione di Antigone L’economia circolare dà valore e dignità, anche in carcere di Maria Elena Masala greenplanner.it, 25 novembre 2023 Aumentano i progetti, dentro e fuori i confini italiani, che vedono a collaborazione tra aziende e istituti penitenziari. Alla base una collaborazione che spesso ha a che fare anche con il recupero di materiali di scarto che prendono nuova vita. L’economia circolare entra negli istituti penitenziari italiani con varie iniziative che promuovono l’inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro attraverso le cooperative sociali e le aziende, in un’osmosi virtuosa tra profit e no profit. Spesso alla base l’uso di materiali che da scarto prendono nuova vita in prodotti artigianali e questo permette di creare una rete etica, educativa, terapeutica, sostenibile anche dal punto di vista ambientale mirando alla ricostruzione della dignità e dell’autostima delle persone private della libertà. Apprendendo specifiche competenze tecniche e il know-how di una vera professione, i detenuti rinascono a nuova vita preparando il proprio ritorno in società. Ricucire la dignità Ricucire la dignità è il fil rouge che troviamo all’incontro organizzato dal Comune di Milano, lo scorso 7 novembre, con il Consorzio Vialeideimille (costituito da cooperative sociali che impiegano detenuti negli istituti penitenziari di San Vittore, Opera e Bollate), organizzato per favorire collaborazione e sviluppo dei laboratori di sartoria carcerari con le aziende e con le sartorie sociali al di fuori delle mura. Apprendendo il know-how di una vera professione artigianale, le detenute e i detenuti confezionano con creatività borse, astucci, accessori in tessuto, pelle o ecopelle, ma soprattutto percepiscono uno stipendio, imparano il senso di responsabilità, si accorgono di essere utili, di essere persone. Valore aggiunto al lavoro sartoriale sta nell’attenzione posta all’economia circolare: la quasi totalità dei materiali utilizzati in questi laboratori viene dagli scarti di lavorazione o dalle rimanenze di magazzino delle aziende tessili, che li donano in grande quantità. Il contro, in questo processo sembra essere che l’onere dello smaltimento di tali scarti ricada sugli utilizzatori ultimi, cioè gli istituti penitenziari, ma nei laboratori di sartoria si insegna ai detenuti anche a ridurre al minimo gli sprechi, creando altro valore. Le testimonianze dirette Made in carcere è ormai un’impresa con un brand riconosciuto e rappresenta un modello di economia. È partito come laboratorio di economia ristretta nato 17 anni fa in Puglia dall’iniziativa di Luciana Delle Donne, ex manager finanziaria, ufficiale dell’ordine al merito della Repubblica, per diffondere la filosofia della seconda opportunità per le detenute. “Prima i carcerati erano chiusi dentro le mura, dimenticati in luoghi di degrado” dice. Ma con i laboratori di sartoria la bellezza è entrata in carcere, trasformandolo in luogo di colore e vita. “La mission di Made in carcere è rigenerare tutto quello che si può” afferma Delle Donne: i materiali tessili di scarto che arrivano direttamente dalle aziende, non finiscono solo nelle creazioni sartoriali delle detenute, ma le eccedenze - e sono tante - vengono spedite alle sartorie sociali fuori dal carcere. Anche bottoni e cerniere hanno una seconda possibilità, in una metafora etica sotto gli occhi delle detenute. Luca Padova ci presenta Gomito a Gomito, laboratorio di sartoria nella sezione femminile della Casa Circondariale Dozza di Bologna. Anche qui troviamo lo stesso modello imprenditoriale: “le persone detenute sono completamente consapevoli del valore ambientale, sociale e culturale di un modello di sartoria artigianale che segue i principi della moda circolare. Creiamo pezzi unici proprio per utilizzare il più possibile - in ottica di upcycling - ogni materiale recuperato”. Conosciamo poi la Cooperativa Catena in Movimento, organizzazione di volontariato fondata da Cristian Loor Loor, quando era detenuto. Ci racconta di quando, per il congresso nazionale della Cgil tenutosi a Milano nel 2022, sono state commissionate al suo laboratorio di sartoria nel carcere di Milano-Bollate 500 borse a tracolla confezionate con pezze di tessuto recuperato, e del loro successo proprio perché costituivano pezzi unici. “Con grande sorpresa, tutti gli ospiti del congresso hanno gradito. Noi tutti eravamo lì a consegnare le borse (…) perché la gente capisse da dove vengono”, in un’ennesima interazione virtuosa tra il mondo del lavoro e i detenuti. Racconta infine Marco Maria Mazio, fondatore nel 2019 della startup Palingen, che opera con i detenuti del carcere di Pozzuoli in una sartoria sostenibile, in modalità B2b. “Elevare la dignità delle persone tramite il lavoro e l’insegnamento dell’arte della sartoria italiana in maniera innovativa” è la mission. E il risultato si traduce nelle commesse da parte di importanti aziende del settore tra cui, recentemente, una di Dubai, che su accessori maschili come le cravatte, ha voluto puntare sul made in Napoli e sulla tradizione italiana. prodotti realizzati Non solo ago e filo Ultima testimonianza importante è portata da Giovanni Fasciolo di Mag2 Finance, cooperativa finanziaria solidale che dal 1980 raccoglie capitale tra i soci e lo utilizza per finanziare realtà imprenditoriali con forte valore sociale. È presente all’incontro per promuovere il sostegno economico alle realtà virtuose, come ha già fatto con Catena in Movimento: gli esempi riportati dimostrano che queste realtà oltre all’impatto etico e sociale, generano anche un ritorno economico con la possibilità di esser reinvestito in una catena circolare di valore. A San Vittore, pane e design Ilaria Scauri lavora come volontaria all’interno di San Vittore nel laboratorio di economia circolare. Abbiamo già parlato di una sua precedente iniziativa di grande successo. A ottobre di quest’anno è ripartito il suo progetto Pane raffermo, che coinvolge l’intera popolazione del reparto giovani adulti. I detenuti sono invitati a raccogliere a fine giornata l’eccedenza di pane non utilizzato in apposite ceste. Questo pane, una quantità ingente rileva Scauri, come primo step ritorna alle cucine, indicando la misura per limitare gli sprechi. Poi gli addetti ai pasti, sempre detenuti, si specializzano su come usarlo in nuove ricette appetitose, usando pratica e creatività, mettendo così in moto un processo di gratificazione sia fisica che morale: vedendo un senso in quello che si fa, gradito a tutti, ci si attiva per migliorare. “Le persone responsabilizzate, restituiscono più di quello che si possa pensare” afferma Scauri: si crea in questo ricircolo di semplice pane, un rapporto di fiducia e solidarietà tra tutti i protagonisti e si rende migliore la vita quotidiana dietro le sbarre. Altro progetto guidato dalla stessa Scauri è partito dalla necessità dei ragazzi di produrre oggetti di uso comune per agevolare la vita in cella, con materiali di scarto interamente riciclati come bottiglie in plastica o cassette. Nel tempo, sono emersi tra i detenuti veri e propri talenti e sono stati prodotti con fantasia e senso pratico oggetti di uso quotidiano dal design creativo: accessori da tavola, divani, chaise longue che sono diventati pezzi unici di design, arrivando a essere ospitati in una mostra all’interno della design week 2023. Creando valore sull’oggetto, questo si trasferisce sulla persona che lo ha generato, sempre in un’osmosi tra dentro e fuori le mura, tra detenuti e istituzioni e aziende. Intanto a Londra si trasforma l’industria dell’abbigliamento In un moto virtuoso che richiama quelli elencati e che può essere di ispirazione anche nel nostro Paese, a Londra la partnership tra il marchio di abbigliamento outdoor Patagonia e le aziende a impatto sociale United repair centre e Fashion enter, invita i marchi di abbigliamento a unirsi al movimento di riparazione con l’apertura dello United repair centre. Il centro impiega e forma nel campo delle riparazioni di abbigliamento di alta qualità persone che, come i rifugiati, hanno difficoltà a trovare un’occupazione. L’intento è aiutare i consumatori a conservare a lungo i capi di abbigliamento, insegnandone l’acquisto consapevole e promuovendo così il crescente movimento di riparazione. Patagonia, per esempio, offre riparazioni gratuite che possono essere richieste attraverso il Repair Portal, lanciato recentemente. Dunque il valore umano, l’economia circolare e l’impatto sociale in questi progetti spingono verso un possibile miglioramento, ma servono sempre maggior cooperazione, interazione e conoscenza delle realtà: divulgazione e partecipazione può diventare l’impegno di tutti noi. E… Ferrovie dello Stato assume Da ricordare in questo contesto anche l’iniziativa di Ferrovie dello Stato perché è entrata nel vivo anche la fase operativa del Protocollo d’intesa tra Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ed Fs. Il progetto prende il nome di Mi riscatto per il futuro e prevede l’attivazione di un percorso per il reinserimento sociale dei detenuti: cinque di essi, provenienti dalla Casa di Reclusione di Milano Opera, sono stati assunti, con contratti a tempo determinato di sei mesi, da Rete Ferroviaria Italiana e Trenitalia. Dopo un percorso di formazione, sono stati destinati a incarichi nelle stazioni e negli uffici ferroviari. L’intento è estendere questa iniziativa anche ad altri istituti penitenziari italiani. I detenuti vanno protetti dallo Stato. “Un Posto al Sole” l’ha capito, il governo no di Annarita Digiorgio Il Foglio, 25 novembre 2023 Lara è in fin di vita, picchiata in carcere. Una storia che fa pensare a ciò che è accaduto ad Alberto Scagni. Lara è in fin di vita, picchiata in carcere. Marina e Roberto si sono rivolte alle detenute per farla fuori. Sfruttando la vendetta carceraria su una donna che ha avvelenato un bambino. Una storia purtroppo che accade anche nel paese reale. È notizia di ieri che Alberto Scagni, condannato a 26 anni per aver ammazzato sua sorella, è stato nuovamente picchiato in carcere a Sanremo a poco più di un mese dall’episodio che si è verificato in quello di Marassi. Scagni è arrivato in codice rosso con diversi traumi ed è stato sottoposto a un intervento chirurgico per la frattura del naso e della mandibola. È ora in coma farmacologico per in prognosi riservata. Due detenuti di nazionalità marocchina lo hanno tenuto in ostaggio in cella torturandolo per ore, quasi fino a ucciderlo. Gli artefici del sequestro di persona e delle lesioni gravi erano in stato alterato per alcool fatto in modo artigianale in cella macerando la frutta e ingerendo medicinali. La mamma di Scagni, e anche della sorella che Scagni ha ucciso, ha detto che “lo stato è responsabile di come viene trattato qualsiasi detenuto, compreso Alberto. Noi abbiamo sempre chiesto giustizia, qui ormai siamo alla vendetta. Ma non mi stupisce nulla, lo stato ci aveva abbandonato anche prima, quando avevamo chiesto aiuto ai carabinieri temendo esattamente quello che poi è successo. L’unica coraggiosa è stata Alice, che ormai non c’è più”. Filippo Turetta, indagato per l’omicidio di Giulia Cecchettin, arriverà dalla Germania al carcere di Venezia con un aereo militare. Per paura che in un aereo di linea potesse essere aggredito. “Ha visto come lo stanno curando bene? E mica è in una cella singola, i suoi compagni detenuti direi che li hanno scelti per bene”, ha detto la mamma di Scagni. Lo Stato non riesce a garantire la sicurezza delle persone che tiene in custodia, ed è un grave problema per lo stato di diritto. A Upas se ne sono accorti, al governo no. Un Posto al Sole e la giustizia di fronte ai casi di cronaca più terribili La legge del taglione, la vendetta privata, il rancore. Perché è sbagliato dire “in galera e buttate la chiave”: ce lo insegna l’esperienza di Lara in carcere. “Lo sai che facciamo qui dentro a quelle come te?”, dice con aria minacciosa una detenuta a Lara, dopo che in carcere si è sparsa la voce che ha provato ad ammazzare un neonato. È lo spirito di vendetta privata, giustizia sommaria, la famosa legge del taglione di epoca medioevale, con cui i criminali vendicano crimini che non accettano. Ma con cui sempre più spesso, nonostante l’illuminismo e la società della ragione, ancora oggi spesso abbiamo a che fare. Lo vediamo in questi giorni con le minacce che molti sui social rivolgono a Filippo Turetta, l’assassino di Giulia Cecchittin. E che nello stato di diritto della culla della ragione non dovrebbero contemplare neppure frasi come “in galera e buttare la chiave”. Perché la speranza è l’unico antidoto alla recidiva. È notizia che il tribunale di Roma ha condannato il carabiniere che nel 2019 scattò una foto al ragazzo americano che fu bendato in caserma durante l’interrogatorio per l’omicidio del brigadiere Cerciello, e che fu condivisa persino dal ministro Salvini. “Non c’era necessità investigativa di fare quella foto né di divulgarla, nulla giustifica la divulgazione di foto in una chat che non era investigativa. C’era una partecipazione emotiva ai fatti, che non c’entrava con le indagini”. Mentre il carabiniere che lo aveva bendato è stato condannato per misura di rigore non consentita dalla legge. L’omicida sconterà la pena che la giustizia reputa congrua, nessuna tortura ulteriore è legittima per chi segue il faro del diritto e non della barbarie. Ma come rispondere diversamente? di Niccolò Nisivoccia Il Manifesto, 25 novembre 2023 Pacchetto sicurezza. Come rispondere alle ingiustizie? Come rimettere a posto le cose, quando le cose abbiano perso il loro posto, il loro presunto ordine nel mondo? Come rispondere alle istanze di riconoscimento che qualunque domanda di giustizia presuppone, e che ogni ingiustizia mette in crisi? Le norme contenute nel “Pacchetto sicurezza” approvato dal Cdm inducono a porsi la medesima domanda che l’Alta Scuola Federico Stella sulla Giustizia Penale ha rivolto, a fine ottobre, ai partecipanti al primo incontro del suo nuovo ciclo su “Giustizia e letteratura”: “Ma come rispondere diversamente?”. È la domanda che si pone Gertrude, nei “Promessi sposi”, davanti alle insistenze della famiglia che la vuole monaca contro la sua volontà, e che in realtà sono violenze vere e proprie. Tutti la riempiono di lusinghe: e lei capisce che ogni sua risposta costituisce un passo in avanti sulla strada che la sta conducendo verso il convento, dove diventerà la “monaca di Monza”. Scrive proprio così, Manzoni: “Sentiva bene che ognuna delle sue risposte era come un’accettazione e una conferma”. Per poi aggiungere, appunto: “Ma come rispondere diversamente?”. Certo il contesto da cui proviene sembrerebbe non aver niente a che vedere con il diritto. Eppure è una domanda che anche il giurista può fare propria, chiedendosi: come rispondere alle domande di giustizia di cui ciascuno di noi è portatore? Come accoglierle? Come deve porsi il diritto davanti alle domande di chi ne chiede l’intervento perché sente di averne il bisogno? Oppure: come rispondere alle ingiustizie? Come rimettere a posto le cose, quando le cose abbiano perso il loro posto, il loro presunto ordine nel mondo? Come rispondere alle istanze di riconoscimento che qualunque domanda di giustizia presuppone, e che ogni ingiustizia mette in crisi? Le norme del “Pacchetto sicurezza”, da quella contro le borseggiatrici incinte o madri di bambini piccoli a quella sulla resistenza ai pubblici ufficiali, sembrano esprimere l’idea secondo la quale l’unica risposta possibile a queste domande sarebbe quella regolata da una visione esclusivamente verticale e punitiva del diritto e delle norme che lo compongono. È l’idea del “pugno duro”, come ha già scritto Riccardo De Vito su queste stesse pagine, che del resto a sua volta corrisponde alle logiche culturali ormai dominanti: è la realtà che abbiamo davanti agli occhi. Come se, ormai, il diritto potesse riguardare solo i rapporti fra i cittadini e l’Autorità; come se la Legge potesse solo calare dall’alto, come una minaccia o come una sanzione nei confronti dei suoi destinatari. Come se il diritto potesse o dovesse avere solo una natura intimidatoria, e non potesse darsi al di fuori di tale natura; come se alle norme si potesse o dovesse obbedire solo per timore di subire le conseguenze derivanti dalla loro inosservanza, e come se, davanti alla scelta fra obbedire o non obbedire, ciascuno fosse chiamato a fare i conti solo con sé stesso: se obbedisco mi salverò, se disobbedisco andrò incontro alla punizione. È come se ormai non riuscissimo più neppure a concepire l’idea di una possibile dimensione alternativa dei rapporti: orizzontale anziché verticale, relazionale anziché solipsistica e conflittuale. E qui a venire in gioco non è soltanto il diritto, ma una concezione piuttosto che un’altra del vivere sociale, come spiega ad esempio Tommaso Greco in un suo piccolo ma preziosissimo libro di due anni fa da Laterza, “La legge della fiducia”. Non a caso ciò che propone Greco nel suo libro è la costruzione di un diritto votato proprio alla “fiducia”, anziché alla sfiducia, alla solidarietà anziché all’esclusione. Sul presupposto che proprio questo sia ciò che il diritto vuole da noi: di fidarci gli uni degli altri. Chiedersi “Ma come rispondere diversamente?” significa, allora, chiedersi anche se non sia possibile immaginare un diritto che, al di là dello stabilire o ristabilire torti e ragioni, sappia restituire fiducia a chi gli si rivolge; che sappia accogliere, per usare le parole di un grande libro di Stig Dagerman, “il nostro bisogno di consolazione”. E cioè la nostra aspirazione alla felicità, a vivere insieme agli altri da noi senza sopraffazioni. Un diritto che sappia contenere il nostro bisogno di giustizia, la quale è sempre molto di più rispetto al diritto stesso. Quando invochiamo una norma, non è per se stessa ma per ciò che quella norma rappresenta: uno strumento attraverso il quale potrà esserci resa giustizia. È la giustizia che vogliamo, e poco importa quale sia la norma attraverso la quale possa esserci riconosciuta: è alla giustizia che aspiriamo, non all’applicazione di una norma quale che sia. Ma cos’è la giustizia, in primo luogo, se non uno spazio nel quale ciascuno riesca a percepire come ben riposta la propria fiducia nei confronti degli altri? O nel quale questa fiducia possa essere ricostruita, quando sia stata lesa? Eccedere nelle punizioni genera tutt’altro che fiducia e sicurezza: genera soltanto un vuoto di senso, alla fine, se è vero che la funzione naturale delle norme dovrebbe essere quella di contribuire a costruire relazioni sociali in una dimensione collettiva, di convivenza, di scambio reciproco delle esistenze. Quel che è certo è che, al di là di qualunque aspirazione ordinatrice e repressiva, la vita non si lascerà mai né imbrigliare né spaventare a sufficienza. Giorgio Mulè: “Quella della giustizia non è una riforma minore” di Alberto Gentili huffingtonpost.it, 25 novembre 2023 Intervista con il deputato di Forza Italia: “La separazione delle carriere è un architrave del programma, va fatta e bene. L’elezione diretta del premier ha due punti deboli: la norma antiribaltone e il premio di maggioranza. Lo sa anche Meloni”. Giorgio Mulè, lei è un bastian contrario, uno che le cose di solito le cose le dice in faccia. Sia sincero, che aria tira nella maggioranza? Giorgia Meloni, dopo gli strepiti di qualche settimana alla Camera, ha perso le staffe anche ieri in Senato... La Meloni quando sale sul ring parlamentare, che è poi quello che più ha frequentato da esponente dell’opposizione, ritrova la grinta - che qualcuno scambia per aggressività - che le è propria. Anche l’uso degli avverbi, come “sommessamente”, appartiene alla Meloni “animale” di aula parlamentare. Ma è normale. Nessun problema. Nessun nervosismo, sicuro? Per quel che ne so tutto fila liscio. La mia parte politica non mi riporta notizie di frizioni o di scontri sotterranei. Ma di normale dialettica, come dicono quelli bravi, all’interno della maggioranza. Però le cose per voi non si stanno mettendo bene. Meloni e Fratelli d’Italia accelerano come pazzi sulla riforma del premierato. Lo stesso fa Salvini con l’autonomia. Forza Italia invece dovrà aspettare a lungo per la riforma della giustizia... Se sulle riforme si fa il gioco della lepre si rischia di finire impallinati. Le riforme vanno fatte bene, non vince chi arriva primo. Noi chiediamo che la riforma della giustizia con la separazione delle carriere - un architrave del programma del centrodestra al pari dell’ex presidenzialismo, ora premierato, e dell’autonomia differenziata - abbia la stessa dignità. E non perché lo chiede Forza Italia, ma perché è necessaria, ne ha bisogno il Paese. Cambiare la giustizia, renderla più efficiente, vale più di 2 punti di Pil: 35-36 miliardi di euro. Perciò, per una questione di logica, la riforma della giustizia deve arrivare al più presto al traguardo. Eppure è finita in coda al vagone. Meloni e Salvini hanno deciso: la giustizia verrà dopo il premierato e l’autonomia, anche per scongiurare un ingorgo referendario... È un errore. La riforma della giustizia non deve dare la precedenza alle altre, anche perché del dossier si discute da decenni ed è sufficientemente approfondito. Sono certo che le sensibilità comuni all’interno della maggioranza su questo tema faranno in modo che la giustizia non arrivi terza e ultima. Di sicuro non esiste un diritto di precedenza a... destra ed è altrettanto sicuro che la giustizia non finirà su un binario morto. Le piace il premierato come è stato scritto? Appare come un gran pasticcio... Anche Fratelli d’Italia sa bene che il testo andrà cambiato. La norma anti-ribaltone e la soglia di accesso al premio di maggioranza sono state criticate pure da Alberto Balboni, il presidente della Commissione affari costituzionali del Senato che è di FdI. Va stabilito che può governare solo chi è stato eletto dai cittadini, e vanno evitate le porte girevoli per entrare in maggioranza dopo il voto. Il trasformismo è inaccettabile. Inoltre la soglia per avere il premio di maggioranza deve essere compresa in una forbice tra il 35 e il 40%. Non sarebbe meglio, visto che di fatto lo scontro con il Quirinale è già innescato, tornare al presidenzialismo? Il presidenzialismo è storicamente l’alfa delle riforme che chiedeva Silvio Berlusconi, dunque sfonda una porta aperta. Il premierato è una mano tesa all’opposizione offerta dal ministro Casellati, tant’è che pezzi della minoranza sono pronti a discuterne. Comunque la bozza è una base di partenza, ci si può lavorare e ragionare. Meloni dice che il referendum confermativo non comporterà rischi per il governo. Concorda? Sì, se il governo non farà l’errore di appropriarsi della riforma. Nessuno dovrà mettere la bandiera su un provvedimento che deve essere terzo, deve essere del Parlamento. Sulla legge di bilancio c’è un po’ di agitazione. La Lega ha tentato di modificarla, poi ha frenato e il suo collega di partito Claudio Lotito è affetto dalla stessa tentazione. Pensa sia giusto blindare la manovra? Usciamo dalla propaganda: la manovra è già stata modificata. Alcuni punti come la cedolare secca, le pensioni dei medici, il superbonus, il bonus per lo psicologo - tutte questioni sollevate da Forza Italia - sono stati già oggetto di revisione e verranno inseriti nel maxi-emendamento che presenterà il governo. E altri aspetti ancora da ritoccare saranno modificati con la lima, non con lo scalpello. Dunque non serve Lotito che fa il Don Chisciotte della manovra. È già tutto concordato. Come finirà sul Mes? Sospendere alla Camera il voto sul “sì” alla riforma del fondo salva-Stati non sembra utile per incassare un patto di stabilità più morbido e flessibile... Vedremo. Ritengo invece che sia utile la “logica a pacchetto”. Non è un ricatto, non è la pistola messa sul tavolo. Sono certo che con la sponda di Parigi e Madrid avremo il giusto patto di stabilità e che il “sì” al Mes arriverà con una formula che preveda un passaggio rafforzato in Parlamento nel caso fosse necessario attingere al Fondo. Dopo le elezioni europee di giugno, spera in una riedizione della maggioranza con socialisti, liberali e popolari? Oppure meglio, se i numeri lo consentiranno, una maggioranza con i conservatori di Meloni che escluda i socialisti? Spero soprattutto in una maggioranza forte con il Ppe forte. Mi troverei più a mio agio con una parte dei conservatori europei. Certamente non potrei mai accettare di entrare in un governo a Bruxelles sostenuto da Le Pen, dall’olandese Wilders e dall’ultradestra tedesca di Afd. Tutto dipende dal risultato che avrà il Ppe. Per avere il Ppe un buon risultato, Forza Italia dovrebbe brillare. Difficile senza Berlusconi... Forza Italia vive nel nome del suo fondatore. E senza Berlusconi stiamo dando prova di essere un partito vivo e radicato. I sondaggi ci danno in risalita. Vediamo dove arriviamo, credo anche in un risultato a doppia cifra. Doppia cifra vuol dire oltre il 10%. Non pensa di essere troppo ambizioso? Chi non è ambizioso in politica è destinato a morire. Diciamo che la mia è un’ambizione... ragionevole. Si apre anche la partita per le elezioni regionali. Meloni ora vuole la Sardegna e nel 2025 il Veneto. Le avrà? Sul territorio non può valere la legge del più forte. Parto dalla lezione di Berlusconi: quando la Lega stava al 4% le confermò la guida della Lombardia. Qui non si tratta di essere buoni e caritatevoli, ma di essere maturi e ragionevoli: dove la coalizione ha dimostrato di essere vincente, come in Basilicata, è meglio confermare i governatori uscenti. Dove rischia, si cambi. Zaia? Ha il problema del terzo mandato, ma il leghista è così radicato in Veneto, ha un consenso talmente enorme e vasto, che sarà lui a indicare il candidato che rappresenterà al meglio il centrodestra. Guai a non affidarsi all’esperienza e alla capacità di Zaia. Tra le bandiere elettorali di Meloni c’è la delocalizzazione dei migranti in Albania. Pensa sia una pratica accettabile? Sì. Credo che vada adottata anche in Tunisia, Libia e in altri Paesi del Nord Africa, con campi gestiti direttamente dagli italiani. Così avremo le giuste garanzie a favore dei migranti e si allenterebbe la pressione sui nostri territori. Cosa succede dentro Forza Italia in Senato? Quale significato ha lo scambio tra Gasparri e Ronzulli tra la vicepresidenza di palazzo Madama e il ruolo di capogruppo? Un normale avvicendamento. Nessuna congiura. Fin dall’estate scorsa Ronzulli voleva essere avvicendata e cambiare ruolo. E non c’è alcun imbarazzo, da quel che so, per la puntata di Report di domenica prossima su Gasparri. Ultima domanda: lei avrebbe fatto fermare il treno a Ciampino come ha fatto il ministro Lollobrigida? Se Lollobrigida avesse avuto l’Air-force di Renzi non avrebbe avuto quel problema. Fuori di battuta: non ho trovato dal punto di vista istituzionale una forzatura, dietro quella fermata a Ciampino non c’è la logica del “lei non sa chi sono io”. Dunque non mi sento di scagliare il binario sulla testa di Lollobrigida. E poi chi è senza peccato scagli la prima traversina. Lotta alla mafia, il Pd contro il governo: “Taglia i fondi per le vittime e non tutela chi collabora” di Liana Milella La Repubblica, 25 novembre 2023 La grave norma nel decreto sicurezza che toglie il 5% al lavoro dei detenuti per incrementare il Fondo per le vittime della mafia. Serracchiani e Gianassi “decisione aberrante”. Verini “Il governo indebolisce di fatto il contrasto alle organizzazioni criminali”. A parole i meloniani si dichiarano sempre contro le mafie. A partire da Giorgia Meloni, per finire alla deputata Chiara Colosimo che la premier ha piazzato come presidente della commissione parlamentare Antimafia. Ma poi, quando c’è da scrivere le leggi, tagliano persino i pochi fondi esistenti per tutelare le vittime delle organizzazioni criminali. In una parola, come dice il dem Walter Verini, senatore e componente sia in questa che nella precedente legislatura della storica commissione di palazzo San Macuto, “il governo indebolisce di fatto il contrasto alle mafie”. Vediamo come e perché. A partire da un singolare intervento contenuto nell’ultimo decreto sicurezza, un testo omnibus che colpisce qua e là, mettendo a rischio la partecipazione ai cortei e inserendo una norma che, per finanziare il Fondo per le vittime dell’usura e della mafia, introduce un prelievo forzato del 5% sugli stipendi dei detenuti che lavorano dentro e fuori dal carcere. E chissà perché proprio chi lavora dentro le mura di una prigione dovrebbe poi vedersi decurtato lo stipendio per aumentare i soldi disponibili per le vittime. Una regola che la responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani e il capogruppo in commissione Giustizia della Camera Federico Gianassi, definiscono “aberrante”, perché “il governo si disimpegna in modo vergognoso sul finanziamento di un Fondo che ha un valore sociale ed etico, lasciando che sia finanziato dal lavoro dei detenuti”. Serracchiani e Gianassi dicono ancora che il governo Meloni, con una norma del genere, “penalizza gli ultimi e nega uno dei principi fondanti della nostra Costituzione, e cioè che la pena ha principalmente il fine rieducativo e di reinserimento sociale”. Ma non basta. Come afferma Verini, autore con i colleghi del Senato Anna Rossomando, Alfredo Bazoli, Franco Mirabelli, Valeria Valente, di un corposo pacchetto di emendamenti alla manovra destinati tutti a potenziare il capitolo del contrasto alle mafie, “è un fatto che il governo stia indebolendo il contrasto alla criminalità”. Secondo Verini lo fa “tagliando i fondi alla gestione dei beni confiscati, non tutelando le vittime, né adeguatamente i testimoni di giustizia”. Ma secondo Verini la cosa più grave è che tutto questo avviene “mentre lo stesso governo aumenta il contante in circolazione con il rischio di favorire il riciclaggio, indebolisce i controlli negli appalti, alza le soglie per gli affidamenti diretti”. Ma vediamo qual è la risposta proprio del Pd agli inesistenti investimenti del governo Meloni per il capitolo della lotta alla mafia. Basta scorrere il nutrito pacchetto di emendamenti probabilmente destinato a rimanere sulla carta. Partiamo dal potenziamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata e all’istituzione del fondo per recuperare e valorizzare proprio questi beni. Su questo capitolo il Pd chiede al governo di mettere 10 milioni di euro all’anno a partire dal 2024, con l’obiettivo di “snellire e velocizzare le procedure di assegnazione, garantire l’efficienza della gestione”. Presso il ministero dell’Interno ecco il “fondo per il riutilizzo dei beni immobili confiscati alla mafia” con una dotazione di 90 milioni di euro per il prossimo anno e di 100 milioni sia per il 2025 che per il 2026. Capitolo a parte per il “fondo di solidarietà alle vittime dei reati di mafia, delle richieste estorsive, dell’usura, ma anche dei reati intenzionali violenti nonché agli orfani dei crimini domestici. Il Pd prevede un incremento di 20 milioni di euro per ciascuno degli anni del prossimo triennio. Un articolo è dedicato alla possibilità di rendere reversibile l’assegno periodico versato al collaboratore di giustizia in sostituzione del trattamento pensionistico. Con uno stanziamento di 40 milioni di euro per ognuno dei prossimi tre anni. Mentre 5 milioni di euro all’anno sono destinati a rifinanziare il fondo dei beni confiscati alla mafia. Trenta milioni all’anno vanno invece a incrementare la disponibilità per “i cittadini vittime del dovere, del terrorismo, e della criminalità organizzata”. Misure concrete dunque, fondi disponibili subito, e non la “tassa” del 5% ai detenuti che lavorano. “Vanno difesi i magistrati aggrediti per decisioni sgradite alla maggioranza” di Valentina Stella Il Dubbio, 25 novembre 2023 Domani, presso la Corte di Cassazione, si terrà l’assemblea generale dell’Anm con il seguente ordine del giorno: “Gli attacchi alla giurisdizione e la pesante denigrazione dei singoli magistrati che hanno adottato provvedimenti in materia di protezione internazionale”. Detto altrimenti: il caso Apostolico. Di questo e delle ultime iniziative del governo ne parliamo con Giovanni Zaccaro, neo Segretario di AreaDg. Cosa si aspetta Area dall’Assemblea? Mi auguro una difesa forte e unanime dei magistrati aggrediti, solo perché hanno adottato una decisione sgradita alla maggioranza di turno. Il caso Apostolico è solo un tassello di un disegno più ampio di delegittimazione del potere giudiziario, basti pensare alle critiche alla Corte dei Conti che voleva verificare il rispetto del Pnrr o le reazioni scomposte nella vicenda Artem Uss. Vi è un generale fastidio per il controllo di legalità. La tutela dei diritti è vista come un ostacolo. Mi spiace che le parole più severe siano venute da esponenti del governo perché i poteri dello Stato non devono delegittimarsi a vicenda. In questo quadro generale, la riforma del premierato rischia di attribuire, almeno simbolicamente, troppo potere all’Esecutivo in danno del Legislativo e del Giudiziario. Preoccupa anche che il governo non destini risorse, personale e strumenti alla giustizia: pensi che il processo penale telematico si avvia a un grave fallimento. A pagare saranno i cittadini più deboli, che possono essere tutelati solo da avvocati e giudici, forti e indipendenti e da una giustizia efficiente. In questo ultimo periodo ci sono state molte frizioni tra il vostro gruppo e Mi sia in Cdc che nelle assemblee locali. Crede che questa divergenza si potrà ricomporre o che si dovrà andare al voto fino all’ultimo delegato? I dirigenti di Mi sono troppo cauti nel difendere i colleghi e la giurisdizione, quasi non volessero urtare la suscettibilità della maggioranza parlamentare. Mi contraddice la sua storia, fondata sulla difesa, a volta corporativa, dei magistrati. Certamente Mi e Area incarnano due modelli diversi di giurisdizione. Area pensa che i magistrati non debbano essere chiusi nelle loro stanze, debbano interessarsi del mondo che li circonda, debbano essere consapevoli di essere parte di un sistema multilivello di tutela dei diritti fondamentali. Loro sono più legati al dato letterale della legge. Avremo il tempo di discuterne, ma oggi dobbiamo essere uniti nel difendere i colleghi aggrediti e nel tutelare l’assetto costituzionale della giurisdizione. Qual è il suo giudizio sull’ultimo pacchetto sicurezza? È una costante di questo governo: più reati, più carcere. Ci sono norme inumane come quelle che lasciano i neonati in carcere. Alcune pericolose come quelle che aumentano le armi in circolazione. Altre poco liberali come quella che sanziona la “resistenza passiva” in carcere. Così sarebbero stati puniti anche Gandhi, Jan Palach e Bobby Sands. Invece di perseguitare i mendicanti, il governo dovrebbe assumere più cancellieri. Invece di tenere in carcere le mamme con i figli neonati, il governo dovrebbe investire nelle pene alternative al carcere. Non dare risorse perché la giustizia funzioni è un’altra forma per delegittimare avvocati e magistrati che ci “mettono la faccia” ogni giorno, in udienza. I cittadini devono sapere che se la giustizia non funziona non è colpa loro ma dell’assenza di investimenti e della bulimia normativa. Quanta responsabilità crede abbia avuto il ministro Nordio nell’elaborazione di questa ennesima riforma securitaria? Questo lo deve chiedere al ministro. Io so che quando esponenti della maggioranza hanno avuto da ridire sulle proposte del governo sono stati ascoltati, guardi per esempio alla storia degli extra profitti bancari. Sul pacchetto di sicurezza invece temo valga il vecchio detto: chi tace, acconsente. Lei crede che la riforma della separazione delle carriere sia stata accantonata secondo la narrazione di parte della politica e dell’Ucpi per cui la responsabilità sarebbe da addebitare alla magistratura? La separazione delle carriere interessa solo una minoranza dell’Avvocatura e non incide sulla qualità e velocità della giustizia. La Meloni è una politica abile e una persona intelligente. Penso che preferisca dedicarsi al premierato e non incartarsi sulla riforma della magistratura che non impatta sulla vita quotidiana dei cittadini. Però il tema resta all’ordine del giorno, come un monito permanente ai magistrati: fate i bravi, altrimenti vi riformiamo. Lei è giudice. Secondo il professor Spangher alcuni suoi colleghi si lamentano silenziosamente dello strapotere delle Procure. Lei ha questa sensazione? Spesso, nelle chiacchiere dei corridoi, i giudici si lamentano dei pubblici ministeri e i pubblici ministeri si lamentano dei giudici mentre gli avvocati si lamentano dei giudici e dei pubblici ministeri. In realtà, la Costituzione assegna a tutti, nella dialettica del processo, la stessa funzione: garantire i diritti e le garanzie individuali. Sarebbe necessario parlarsi di più, avere una formazione comune. Se, invece, il professor Spangher teme lo “strapotere” delle Procure, dovrebbe avversare la separazione delle carriere. Negli ordinamenti giuridici con carriere separate il ruolo, la notorietà e la forza della pubblica accusa sono rafforzati in danno del diritto di difesa degli imputati, o almeno di quelli che non possono permettersi avvocati altrettanto noti ed attrezzati. Tema femminicidio: si risolve solo con il diritto penale? Le norme incriminatrici già ci sono e sono già severe. Serve maggiore formazione e specializzazione nei servizi socio sanitari, nelle forze di polizia, nella magistratura, nell’avvocatura. Serve soprattutto una rivoluzione culturale. Noi maschi ancora non ci siamo abituati a donne che rivendicano la loro libertà, la loro autonomia. Non sappiamo rinunciare al controllo. Non sappiamo accettare il rifiuto. Non sappiamo stare con donne che ogni giorno, sul lavoro, in famiglia, nella società risultano migliori di noi. C’è un altro tema che osservo in tribunale. Anni fa, le donne non denunciavano le violenze. Ora denunciano molto di più ma spesso ritrattano per stanchezza perché i processi sono lunghi o perché subiscono condizionamenti ambientali. Allora si deve supportare psicologicamente la donna nella fase del processo ma anche garantire alle donne pari salari e pari accesso al lavoro, proprio per sottrarle al ricatto economico quando denunciano. Nuova legge contro la violenza sulle donne, è fuorviante presentarla come azione di prevenzione di Nadia Somma* Il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2023 Si è parlato di prevenzione dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, se ne parla dopo ogni femminicidio, se ne parla da anni. I femminicidi non caleranno nell’immediatezza e continueranno con i numeri attuali, fino a quando sarà fatta una rivoluzione culturale e si sarà investito in politiche sociali. Così come il precariato e l’assenza di garanzia di diritti e i bassi salari non facilitano le donne nell’uscita dalla violenza. Gli interventi a sostegno delle vittime di violenza possono essere efficaci in un contesto sociale che grazie a programmi politici, favorisca la cura di situazioni di disagio e la possibilità di progettare un futuro ma i governi che si alterano non vedono oltre gli spot elettorali per la conservazione del consenso popolare. L’attuale governo ha scelto, come gli altri che lo hanno preceduto, di occuparsi solo della punizione degli autori di violenza e della protezione delle vittime che si rivolgono all’autorità ma poco di prevenzione. Ovvero ha puntato ancora sulla risposta securitaria. Il 22 novembre in Senato è stato approvato all’unanimità con 157 voti favorevoli, il disegno di legge della ministra Roccella con nuove norme di contrasto sulla violenza contro le donne. Il testo ora è legge. Diciannove articoli in cui si rafforzano le misure di protezione per le donne che denunciano violenze. Si apportano indubbiamente dei miglioramenti del quadro normativo esistente ma è fuorviante presentare queste norme come azione di prevenzione. “Ci sono correttivi importanti - ha detto Elena Biaggioni, avvocata e vicepresidente D.i.Re - il coordinamento tra l’autorità giudiziaria e le forze di polizia quando cessa la misura cautelare, per esempio, o la criminalizzazione dell’ordine di protezione emesso in sede civile, o la maggior disponibilità del braccialetto elettronico e l’introduzione di una valutazione nei percorsi rivolti agli autori di violenza”. Restano le criticità che le avvocate D.i.Re avevano esposto durante l’audizione in Commissione Giustizia alla Camera: come l’eccessivo ricorso all’ammonimento che in determinate condizioni, se la vittima non è messa in protezione e non viene fatta una valutazione del rischio, possono essere controproducenti perché la espongono a ritorsioni da parte dell’autore di violenza. Biaggioni ha espresso anche dubbi di illegittimità costituzionale sul celebrato arresto in flagranza differito e non solo: “Ci chiediamo quanto è utilizzato l’altrettanto celebrato ordine di allontanamento di urgenza? Lo stesso arresto in flagranza quante volte ricorre? Per nostra esperienza ben poche volte”. E’ vero che sono previste linee guida per la formazione delle forze dell’ordine e di altri operatori che possono entrare in contatto con le vittime di violenza ma la legge è ad invariata finanziaria. Come sarà possibile svolgere in maniera capillare corsi di formazione adeguati senza che sia previsto un finanziamento? Nel 2022 D.i.Re ha presentato la ricerca su “La vittimizzazione istituzionale” rilevando che, nel 60% dei casi, le forze dell’ordine erano state estremamente vittimizzanti: minimizzazione, scarsa attenzione ai bisogni delle donne, colpevolizzazione e non riconoscimento della violenza suscitano malessere e sfiducia. Le numerose proteste che si sono levate sul profilo Instagram della Polizia di Stato il 22 novembre dopo la pubblicazione di un post che citava una frase della poesia di Cristina Torres Caceres, sono indicativi di un malessere e di una scarsa fiducia nelle forze dell’ordine. Senza finanziamenti, la formazione resterà una promessa non mantenuta. L’ennesima dichiarazione di intenti. *Attivista presso il Centro antiviolenza Demetra Ricordare Lea Garofalo, che pagò con la vita il coraggio di ribellarsi agli uomini del clan di Lirio Abbate La Repubblica, 25 novembre 2023 Quattordici anni fa, a 35 anni, fu assassinata dal compagno. Morì perché aveva deciso di essere testimone di giustizia, e perché aveva detto no alla logica maschile della ‘ndrangheta. Lea Garofalo aveva 35 anni quando venne uccisa dal suo compagno il 24 novembre 2009 a Milano. Sognava un futuro lontano dalla mafia, e una prospettiva piena d’amore per la figlia, fuori dal sangue e dalla malavita. È stata uccisa non solo perché era una testimone di giustizia ma anche perché era donna e, quindi, colpevole di essersi ribellata agli uomini del clan calabrese a cui apparteneva la famiglia. Le telecamere di sorveglianza del Comune di Milano la sera del 24 novembre l’avevano mostrata insieme alla figlia per le vie della città. Immagini impressionanti ma apparentemente normali. Due donne che camminano, si attardano davanti a una vetrina, intorno la gente va e viene, si accendono le luci della sera. E poi arriva il carnefice che porta via con una scusa la donna. È una storia di sopraffazione e violenza disumana. Perché voltare le spalle al clan è un’eclatante infrazione del codice, della legge che sancisce il dominio assoluto degli uomini sulle donne. È un atto di ribellione che sgretola l’immagine di compattezza che il clan ha bisogno di ostentare all’esterno, che mette in dubbio i valori, e rivela i limiti e l’impotenza di uomini mafiosi che vogliono tenere in riga le loro donne. E quando non accade, come nel caso di Lea, l’uomo viene deriso da altri simili che la pensano in maniera retrograda e quindi reagiscono in modo violento per provare, secondo loro, a recuperare l’onore. Ma questi uomini che uccidono le donne, non hanno onore. Una donna che si affranca dalla condizione di sudditanza imposta dal clan può diventare per tutte le altre un modello allettante, fa intravedere un’alternativa di vita, una concreta prospettiva di riscatto. Come per una ragazza che si ribella alle oppressioni e alla violenza del proprio fidanzato. Anche se è pericoloso, e a volte costa davvero tanta fatica. Liberarsi di loro richiede a volte anche di rompere con padri, madri, fratelli, e può anche imporre di separarsi dai propri figli. È questa la ferita più dolorosa per le donne di ‘ndrangheta che scelgono di collaborare con la giustizia, è l’amore materno che più le rende vulnerabili. I familiari lo sanno, e non si fanno scrupoli nello sfruttare i bambini per fiaccare la forza d’animo di queste giovani madri, e convincerle a tornare sui propri passi. Lea Garofalo è un esempio purtroppo di questo caso. Ma di contro c’è anche Giusy Pesce, che ha deciso di collaborare anche per dare ai suoi bambini un futuro diverso ed è riuscita a resistere, mentre Maria Concetta Cacciola non ce l’ha fatta, e ci ha rimesso la vita. Il coraggio di tutte quelle donne che sono passate dall’altra parte della barricata ha una portata ancor più dirompente se valutato in un quadro in cui la società accetta la ‘ndrangheta o le altre mafie come un dato di realtà, come un male inestirpabile con cui si deve necessariamente convivere. Ci sono territori nel nostro paese, da Sud a Nord, dove la modernità convive con un radicamento tenace alle tradizioni. Questa stridente coesistenza di orizzonti è un tratto costitutivo della cultura mafiosa, che accosta competenze all’avanguardia nella gestione delle attività criminali a una cultura patriarcale antiquata e retriva in particolare nella ‘ndrangheta. Maschilismo e senso dell’onore delimitano un universo rigido e fortemente codificato, in cui ruoli e comportamenti sono fissati, e in cui ogni scarto è sanzionato con severità. Una donna - come le cronache ci dimostrano - che infrange le leggi del clan tradendo il marito commette un reato non emendabile, e la sua pena è la morte. Punendola, il clan riconquista l’onore perduto, rafforza la propria solidità e ribadisce la vitalità del suo sistema di principi e valori. Quando una donna non solo riesce a scampare al destino che i familiari le hanno assegnato, ma si affida allo Stato, ovvero al nemico, in cerca di protezione, gli effetti del suo tradimento si amplificano. Perché voltare le spalle al clan è un’eclatante infrazione del codice, della legge che sancisce il dominio assoluto degli uomini sulle donne. È un atto di ribellione che sgretola l’immagine di compattezza che il clan ha bisogno di ostentare all’esterno. Ma l’azione delle donne vince e il loro coraggio è esempio per altre che possono seguire il loro esempio di ribellione. Scordò la figlia in auto e lei morì per un colpo di calore: al papà accusato di omicidio negata la giustizia riparativa di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 25 novembre 2023 Introdotta dalla legge Cartabia nel 2022, è inattuata perché mancano centri e mediatori. Il genitore, un carabiniere, affronterà un processo penale: stava accompagno la piccola all’asilo nido. Marito e moglie annichiliti come genitori, e dilaniati nel loro matrimonio, dalla tragedia della figlioletta di un anno scordata in auto per automatismo mentale dal padre che la stava portando all’asilo nido a Roma, e nella caldissima giornata del 7 giugno morta sul sedile proprio per il colpo di calore: per pochi altri dolori, come questo, lo spazio giusto — invece di un processo penale al padre per omicidio colposo — sembrava uno dei nuovi percorsi di “giustizia riparativa” introdotti anche in Italia nel 2022 dalla legge Cartabia. Infatti era quanto chiesto al Tribunale dall’avvocato Giovanna Mazza dell’imputato, un carabiniere di 45 anni, con il parere favorevole del procuratore aggiunto Paolo Ielo e anche con la disponibilità percepibile nell’”atteggiamento maturato dalla moglie in sede di indagini”. Ma la gip Daniela Caramico D’Auria ha dovuto rassegnarsi a dichiarare il “non luogo a provvedere allo stato” per colpa della inadempienza dello Stato: che il 10 ottobre 2022, in attuazione di una delega del Parlamento del 27 settembre 2021, ha fatto sì entrare in vigore una legge che prevede che l’autorità giudiziaria possa (su richiesta dell’imputato o della vittima o anche d’ufficio) inviare le parti a “un Centro per la giustizia riparativa di riferimento”, ma a tutt’oggi dopo oltre un anno non ha ancora creato alcuno di quei Centri. Solo il 27 luglio è stata nominata e solo il 25 ottobre si è infatti riunita per la prima volta la Commissione nazionale di esperti per i requisiti dei Centri e la formazione dei mediatori, iter che nei vari distretti prevede anche il ruolo di conferenze locali partecipate da rappresentanti di ministero, enti locali, vertici giudiziari e avvocati. La conseguenza è una doppia discriminazione. La prima sta nel fatto che, benché nella legge in vigore stia scritta anche la possibilità in taluni casi (come questo) di far derivare dall’esito positivo di un percorso riparativo una favorevole conseguenza processuale per l’indagato, proprio l’assenza dei centri previsti dalla legge impedisce al padre in questione di potersene giovare. Ma il secondo corto circuito ancor più iniquo è che intanto altri (come a Busto Arsizio l’uomo condannato per l’uccisione di Carlo Maltesi) stanno invece venendo avviati a eventuali programmi di giustizia riparativa nelle sole tre regioni (Emilia Romagna, Lombardia e Puglia) dove enti locali, magistrati e avvocati, per superare l’impasse, hanno sottoscritto protocolli per riconoscere come adeguati alcuni dei mediatori esistenti già prima della legge. Soluzione comunque controversa, come mostra l’ordinanza con cui il Tribunale di Genova l’altro giorno ha giudicato “non previsti da alcuna norma” questi protocolli “della cui rispondenza al dettato normativo si ha ragione di dubitare”, e che comunque per i giudici liguri Cascini-Vinelli-Crucioli “non possono rispettare il sistema introdotto dalla normativa” neanche transitoria. E il ministero che dice? Una cosa, ma anche il suo contrario. Con la circolare 6/2023 di “chiarimento”, avvisa i magistrati che “in forza della normativa” (e dunque dell’assenza dei centri) “allo stato non possono essere intraprese iniziativa a cura dell’Amministrazione”, ma aggiunge una postilla: “È però opportuno ricordare che esperienze di altra natura, fondate su prassi o discipline di settore previgenti al decreto, possono continuare a essere seguite”. È insomma il caos. Destinato peraltro a crescere se, come già fanno intendere di essere orientati i giudici di Genova nella loro decisione, a essere messo in discussione davanti alla Corte Costituzionale potrebbe in futuro essere addirittura il cuore stesso della legge: il collegio ligure anticipa infatti che lo ritiene in contrasto con la direttiva europea 2021/29/Ue laddove “non prevede la necessità del consenso della vittima, non indica la necessità che l’autore dei fatti li abbia “perlomeno” riconosciuti, e non assume come essenziale lo scopo di tutelare “soltanto” l’interesse della vittima”. Calabria. Senza mediatori linguistici e agenti penitenziari: così il carcere tradisce la Costituzione di Enrica Riera Il Domani, 25 novembre 2023 I detenuti appartengono a più di 15 nazionalità diverse. Gli operatori di polizia penitenziaria latitano e nessuno vuole fare il direttore al “Panzera” di Reggio, forse per l’alto tasso di criminalità del contesto di riferimento. Ecco cosa rivelano i dati raccolti dal Garante regionale. Appartengono a oltre 15 nazionalità diverse. Intorno a loro non c’è quasi nessuno che possa dargli voce. Sono i detenuti delle carceri di Reggio Calabria-Arghillà e della vicina Locri. Uomini reclusi e doppiamente isolati. Nelle case circondariali in cui si trovano i mediatori culturali sono pari a zero. Negli istituti penitenziari calabresi a mancare sono dunque quelle figure-filtro tra chi sta dietro alle sbarre e chi dovrebbe garantirne i diritti. Non serve parlare di incomunicabilità col mondo di fuori: le barriere “nascono” già all’interno delle celle. Senza quei professionisti - la cui presenza è prevista dalla legge - che traducano le esigenze dei ristretti stranieri, si può parlare di rispetto della dignità? Se lo chiede Luca Muglia, Garante dei diritti delle persone detenute per la Calabria. “Spesso - spiega - sono gli stessi reclusi, quelli che hanno più dimestichezza con l’italiano, a farsi portavoce dei compagni di cella che non parlano la nostra lingua, ma il curdo, l’africano, l’arabo, il russo, l’ucraino. Tutto ciò è rischioso - continua il Garante regionale -, soprattutto quando si ha a che fare con questioni sanitarie: si consideri la visita di primo ingresso dei detenuti. Se si sbaglia nell’uso di un termine che cure potrà approntare il medico del penitenziario?”. A latitare non sono soltanto i mediatori culturali (sono assenti anche nelle carceri di Cosenza, Paola e Laureana di Borrello). Si parla pure di “deficit” del personale di polizia penitenziaria. “Una situazione - afferma Muglia - che riguarda in modo pesante quasi tutti i 12 istituti calabresi, raggiungendo in alcuni casi livelli inaccettabili”. Il quadro tratteggiato dal Garante - i dati raccolti confluiranno nella relazione annuale, che presenterà il 27 novembre a Reggio Calabria - non è entusiasmante. All’”Ugo Caridi” di Catanzaro servirebbero i 94 operatori di polizia penitenziaria previsti dalla pianta organica, in quello di Vibo ne servirebbero 70 e al “Salsone” di Palmi, un tempo carcere di massima sicurezza, gli operatori che mancano sono 40. “Le carenze di organico - sottolinea Muglia - generano effetti a catena che recano danno all’intero sistema”. Se non c’è il funzionario giuridico-pedagogico la pena non sarà quella “rieducativa” prevista dalla Costituzione. Nel carcere di Paola, nel Cosentino, così come in quello di Palmi, in provincia di Reggio, i professionisti che dovrebbero occuparsi del trattamento del recluso sono in totale e in entrambi i casi 2: ne servirebbero molti di più, considerando che a Paola i detenuti sono 197 e a Palmi 163. Mancano volontari, mancano in alcuni casi gli insegnanti perché non è presente il ciclo di scuola secondaria superiore (“Questo accadeva rispettivamente negli istituti di Reggio-Arghillà e Palmi, ma grazie all’intervento del mio Ufficio i corsi sono stati finalmente attivati”, chiosa Muglia). Mancano addirittura i direttori: al “Panzera” di Reggio l’ultimo interpello per il conferimento dell’incarico dirigenziale sarebbe andato deserto. Come a dire che nessuno vuole ricoprire ruoli di responsabilità all’interno dei penitenziari, fatto che probabilmente dipende anche dai contesti, ad alto tasso di criminalità, di riferimento. Edilizia penitenziaria - Così mentre l’Istituto penale minorile, il “Paternostro” di Catanzaro, viene ampliato e passa a 36 posti (dopo l’apertura della seconda sezione di 20 posti in aggiunta ai 16 preesistenti), i lavori legati all’edilizia nelle carceri per adulti procedono a rilento e l’unico istituto destinatario di fondi Pnrr è quello di Arghillà. “Oltre al progressivo e innegabile sovraffollamento, in alcuni istituti o sezioni mancano le docce nelle camere detentive. In Calabria - aggiunge il Garante - mancano anche le camere di sicurezza, spazi all’interno delle caserme dove l’arrestato o fermato deve permanere per massimo 48 ore in attesa dell’eventuale convalida della misura da parte del giudice. In assenza di spazi idonei l’arrestato o fermato viene condotto quasi sempre in carcere, trasformando così la regola in eccezione”. Lo scenario è complesso. “Ma c’è anche qualche luce - conclude Muglia - Alcuni progetti d’istituto forniscono un’offerta ben articolata; buona l’attività dei laboratori artigianali, la didattica universitaria e i corsi professionalizzanti; la sanità penitenziaria appare in risalita, mostrando anche eccellenze”. La situazione non è tanto diversa nelle altre regioni d’Italia. L’ultimo rapporto Antigone rileva carenza di personale. “Nelle 38 visite fatte da Antigone nel primo semestre del 2022 abbiamo registrato una presenza media di 1,7 persone detenute per ogni agente di polizia penitenziaria. Nelle 42 visite fatte dall’inizio del 2023 ad oggi, questo valore è salito ad 1,8, a causa della crescita delle presenze”, si legge non a caso nel rapporto che pure segnala l’anomalia dei direttori “mancanti”. La Carta tradita - È il 1993 quando la Corte costituzionale, con la sentenza numero 349, afferma che “chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale”. In altre parole, la possibilità di esprimere la propria personalità non può essere negata ai detenuti in quanto tali. Ma se persistono zone d’ombra, la strada verso il riconoscimento della pari dignità, a Caino come ad Abele, è ancora lunga. Peccato che da quella pronuncia siano trascorsi ben 30 anni. Treviso. Quattordici detenuti “diplomati” in sicurezza: da liberi troveranno facilmente lavoro Corriere del Veneto, 25 novembre 2023 “Vi ringraziamo per questa opportunità molto importante, per poterci reinserire da una situazione di grande svantaggio in cui ci troviamo”. Le parole sono quelle di un detenuto del carcere di Santa Bona che ieri, insieme ad altri 13 uomini di varie età, nazionalità e con pena media o breve da scontare, hanno ricevuto l’attestato per il corso di “sicurezza per i lavoratori, alto rischio”. La formazione, con lezioni che si sono tenute nella casa circondariale, in collaborazione con l’ordine degli Ingegneri di Treviso e dell’Ascom, permetterà ai detenuti, una volta usciti dal carcere, di essere facilmente reinseriti nel mondo del lavoro, dalla cantieristica edile all’industria, passando per il commercio. Le lezioni sono state tenute gratuitamente da cinque formatori dell’Ordine degli Ingegneri (Damiano Baldesin, Enrico Frazzi, Nicolò Rossetto, Federico Sartor e Luca Taffarello) e visti i risultati di questa prima sessione saranno calendarizzati i corsi per la prevenzione incendi e per l’utilizzo di carrelli elevatori. Già buona parte dei quasi 200 detenuti di Santa Bona ha un’occupazione lavorativa: c’è chi ha compiti all’interno della struttura in cucina, nel tenere pulito l’ambiente e per operazioni di manutenzione, chi lavora già all’esterno e chi per conto della cooperativa Alternativa. E anche la casa circondariale ha deciso di celebrare la giornata mondiale contro la violenza sulle donne con un piccolo striscione colorato all’ingresso. “Nel prezzo del libro è compreso anche l’abbraccio, forza!”. Quando poi sono arrivate due ragazzine che non hanno voluto il ritratto, Volo si è profuso in mille complimenti, chiosando con un “Davvero? Incredibile!”. Ma cosa ci trovano le persone nei suoi libri? “Molta spiritualità - dice Eleonora, 20 anni - e poi spiega in modo facile concetti anche difficili”. E cita l’esempio dei bottoni. “Se inizi ad abbottonare una camicia sbagliando l’asola, se non te ne accorgi in tempo continuerai a sbagliare tutto il processo. Sembra una sciocchezza, ma applicato alla vita fa un’enorme differenza”. Invece a colpire Marcella, over 50, è la sapienza di Volo nel tratteggiare gli animi femminili. “Non credevo che un uomo conoscesse così bene i nostri pensieri”. Ravenna. Il Garante dei detenuti: tanti progetti di volontariato, ma spazi piccoli ravennatoday.it, 25 novembre 2023 Una struttura piccola, ma dove non mancano iniziative perché il periodo detentivo sia davvero un momento di rieducazione e di reinserimento nella società, a partire dal lavoro. “Vogliamo diffondere il senso della solidarietà”. A parlare è Oscar, pizzaiolo in pensione che insegna nei corsi di formazione per detenuti nel carcere di Ravenna. E le sue parole danno il senso dell’impegno dei volontari che nell’istituto romagnolo operano affinché l’avviamento al lavoro sia un modo per reinserire i detenuti nella società dopo la fine della loro pena. Quella di Ravenna è una struttura carceraria di piccole dimensioni, con una sezione di semiliberi. I detenuti, tutti uomini, arrivano appena a 83 (dati aggiornati al 31 ottobre), di cui 45 cittadini stranieri. Una struttura piccola, ma dove non mancano iniziative perché il periodo detentivo sia davvero un momento di rieducazione e di reinserimento nella società, a partire dal lavoro. A parlare, nel corso di un incontro organizzato proprio nel carcere di Port’Aurea dal Garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri, è stata la funzionaria giuridico pedagogica Daniela Bevilacqua: “La struttura è di piccole dimensioni, c’è quindi un problema di spazi (situazione denunciata qualche mese fa anche dall’associazione Antigone e fotografata nel Rapporto regionale Emilia-Romagna sulle condizioni di detenzione 2023, ndr). Inoltre, c’è un importante turnover fra i detenuti, che rende complicato attivare progetti di lunga durata”. “Per le caratteristiche del nostro territorio - ha precisato entrando nello specifico dei progetti - ci rivolgiamo principalmente al settore del turismo, questo per favorire anche il reinserimento dei nostri ospiti una volta usciti. Il fiore all’occhiello sono i progetti sulla ristorazione (con corsi finanziati dalla Regione Emilia-Romagna), organizzati in collaborazione con l’istituto turistico e alberghiero di Cervia: ad esempio, per panificazione, pizzeria, sala bar e cucina di base. Sono attivi percorsi per il tempo libero, come il laboratorio teatrale (con la collaborazione del regista Eugenio Sideri), quello di lettura, di scrittura creativa e quello di fotografia (con la collaborazione del fotografo Giampiero Corelli). Viene poi realizzato un giornalino interno (con la collaborazione della giornalista del Carlino Annamaria Corrado). Prende il nome dall’indirizzo del carcere, Port’Aurea 57, esce quattro volte all’anno, sono 500 le copie di ogni numero, e viene distribuito in città”. La volontaria attiva nel carcere, Flavia Sansoni, ha spiegato che “in una parte di questi corsi viene rilasciato un regolare attestato che può essere speso dal detenuto dopo la pena. Questo per favorire il reinserimento sociale senza che ci siano riferimenti alla casa circondariale”. “Abbiamo voluto mescolare le carte - ha sottolineato il garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri, parlando dell’incontro tenutosi in carcere - portando in questa struttura le numerose esperienze positive attive nelle diverse strutture carcerarie. L’obiettivo è quello di incentivare la diffusione di idee ed esperienze. Vogliamo sviluppare la connessione fra queste associazioni, affinché facciano rete. Il lavoro da fare è enorme, se pensiamo che nell’arco di un solo anno passano dalle carceri della regione circa 9mila persone, in certi casi la detenzione è solo di poche ore”. “La casa circondariale ravennate si trova nel centro della città ed è stata costruita nel 1909. Lo spazio più ampio è il refettorio, che i detenuti, occupatisi della ristrutturazione hanno voluto chiamare, con un gioco di parole, GabbiaNO - ha ricordato la direttrice uscente Carmela De Lorenzo, che già dirige il carcere di Forlì - È fondamentale tenere vivo il confronto, fare conoscere all’esterno le attività che facciamo all’interno della casa circondariale. Lavoriamo ogni giorno per migliorare le condizioni dei detenuti, con l’obiettivo di tenerli occupati il più possibile. Qui dentro è fondamentale impiegare il tempo in modo costruttivo e in questo percorso diventa centrale il volontariato. Anche il territorio ci sta aiutando tanto”. Sulla stessa linea il nuovo direttore della casa circondariale, appena insediatosi, Stefano Di Lena: “Raccolgo un testimone importante e assicuro l’impegno nel portare avanti i tanti progetti attivati nella struttura in questi anni”. Presente all’incontro anche la consigliera regionale ravennate Mirella Dalfiume (Pd): “Rappresento oggi la commissione Parità, di cui faccio parte. Sono qui per ascoltare, dato che come consigliera regionale rappresento l’intera cittadinanza, comprese le persone sottoposte a restrizioni delle loro liberà Venezia. Le iniziative della Casa di Reclusione Femminile per la giornata contro la violenza sulle donne veneziatoday.it, 25 novembre 2023 Sabato 25 Novembre 2023, alle ore 15.00 presso la Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, nell’ambito del progetto teatrale Passi Sospesi di Balamòs Teatro negli Istituti Penitenziari di Venezia e in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne 2023, sarà presentato il breve video dallo studio di teatro danza “Altro giro, altra corsa…”, tratto dall’omonimo scritto di una donna detenuta della Casa di Reclusione Femminile di Giudecca e diretto da Michalis Traitsis. Seguirà la proiezione del film “Ariaferma” diretto da Leonardo Di Costanzo: la storia di un vecchio carcere, situato in una zona impervia e imprecisata, che è in dismissione e dove, per problemi burocratici, i trasferimenti si bloccano e una dozzina di detenuti rimane, con pochi agenti, in attesa di nuove destinazioni. In un’atmosfera sospesa, le regole di separazione si allentano e tra gli uomini rimasti si intravedono nuove forme di relazioni. Due temi, la violenza sulle donne e la vita in carcere, affrontati alla Casa di Reclusione Femminile di Giudecca nella data simbolica del 25 novembre, giornata di iniziative di varia natura per sensibilizzare, ricordare, mobilitare, denunciare la violenza contro le donne che attraversa ogni ambito della vita pubblica e privata, purtroppo apice di una discriminazione che ha origini antiche e continua a perpetuarsi nonostante i cambiamenti politici, culturali e sociali nei secoli. “C’è da interrogarsi se questo abbia un senso, per il rischio di mettere a posto coscienze o di solidarizzare per un solo giorno, nella convinzione che ogni giorno dovrebbe essere quello giusto per essere dalla parte dei diritti e contro ogni discriminazione - affermano gli organizzatori -. Noi non abbiamo risposte, se non il bisogno di esserci comunque e di provare a trovare un senso, attraverso l’arte. Proprio in questa giornata, come se fosse un istante in cui il dolore delle donne possa sospendersi. Per dar spazio alla speranza e restituire bellezza. C’è un oscuro sentimento profondo che si nutre di sensi di colpa, raccontano le tante storie di donne che come stelle cadenti illuminano la scena del delitto. Esercizi di resistenza al dolore. Forse la chiave è qui: nella confidenza che le donne hanno col dolore, la palestra che serve a trasformarlo in forza”. Nel film “Ariaferma” ci sono le mura corrose di due microcosmi conviventi e, al contempo, separati dalle sbarre e dai reciproci ruoli, detenuti e agenti penitenziari. Tra le sbarre, in un luogo dove si sente “l’odore della pena”, si intrecciano vite e si instaurano relazioni umane tra persone, per ruolo formalmente ostili. Detenuti e agenti penitenziari, che scoprono di avere molto in comune, a cominciare dalla prigionia. Una storia non vera ma molto reale. Il carcere come un labirinto di cui trovare il centro, che si trova proprio dove aumenta il contatto umano. La sequenza più lunga e appassionante del film si svolge proprio durante una cena a lume di candela, improvvisata a causa di un calo di corrente, predisposta fuori dalle celle, con tutti i personaggi intorno al tavolo. Un quadro di suggestiva pacificazione, dove i confini dei ruoli sembrano svanire. Nell’ambito dell’iniziativa sarà trasmesso un videomessaggio di Salvatore Striano, ex detenuto e attualmente scrittore e attore di vari film tra cui “Ariaferma”. L’iniziativa è riservata a tutte le persone detenute, al personale della polizia penitenziaria, al personale amministrativo, al personale socio sanitario e agli operatori delle associazioni e delle cooperative della Casa di Reclusione Femminile di Giudecca. Como. Gli istituti della “San Vincenzo” in visita ai detenuti del carcere erbanotizie.com, 25 novembre 2023 Nell’ottica di gettare uno sguardo diretto sulla realtà della giustizia e dell’importanza della legalità, gli studenti delle classi quarte e quinte dell’Istituto Professionale Agricoltura e Sviluppo Rurale “San Vincenzo” di Albese con Cassano hanno dato vita a un’esperienza senza precedenti. La scuola di via Roma, infatti, è la prima scuola della Provincia ad aderire al progetto “Giustizia e legalità”, nell’ambito dell’insegnamento di educazione civica. Accompagnati dal preside Ismaele Pozzoli, dalla docente di diritto Giulia Gilardi e dall’insegnante di italiano Carlo Farina, i giovani si sono immersi nella realtà della casa circondariale di Como. L’esperienza, svoltasi nella mattinata di mercoledì 15, è stata resa possibile grazie alla collaborazione del tutto gratuita dell’Ordine degli Avvocati di Como e della Camera Penale di Como e Lecco. Fondamentale è stata la presenza costante dell’avvocato Paolo Camporini, che ha seguito il progetto fin dallo scorso anno, con diverse iniziative e proposte formative, tutte con l’obiettivo di diffondere la cultura della legalità per farla diventare patrimonio comune. La giornata è iniziata con una lezione introduttiva sul funzionamento di un istituto penitenziario, tenuta da figure altamente specializzate del settore: oltre all’avvocato Camporini e ad Arianna Liberatore - entrambi consiglierei dell’ordine degli avvocati di Como - ha parlato l’avvocato Stefano Pellizzari, membro della Camera penale di Como e Lecco. Gli studenti hanno poi conosciuto il presidente del carcere che li ha accompagnati a visitare la parte interna dell’istituto fino alle celle, attraversando lo spazio adibito agli incontri con i parenti, quello dedicato alle telefonate e ai momenti ricreativi. Il momento più formativo è stato sicuramente il confronto diretto che i ragazzi hanno potuto avere con alcuni detenuti. Insieme a loro, infatti, hanno ragionato sul significato profondo della libertà, sull’importanza dell’aiuto reciproco, sul concetto di dignità dell’essere umano e sullo scopo della pena come strumento finalizzato alla rieducazione del condannato e ad un corretto reinserimento nella società. “Educare alla legalità - ha spiegato l’avvocato Camporini ai ragazzi - significa innanzitutto mettere a disposizione di tutti cultura e informazioni, leggi e norme, prospettive e progetti, in modo che diventino parte integrante della vita di ciascuno di noi”. Il progetto aveva preso avvio nel 2022, quando gli studenti hanno incontrato Camporini per affrontare diverse tematiche costituzionali quali: la necessità della società di darsi delle regole per punire i colpevoli, il giusto processo, la funzione rieducativa della pena e la sua esecuzione, il diritto di difesa. Esso si è poi sviluppato anche nell’anno successivo attraverso la partecipazione degli studenti ad una giornata di udienze presso la sezione penale del tribunale di Como. Durante questa esperienza, gli alunni sono stati seguiti dagli avvocati Elisabetta Frigerio, Paolo Camporini e Fabio Gualdi. Queste le parole di alcuni studenti: “Gli avvocati sono stati molto disponibili nella spiegazione di ciò che avveniva durante lo svolgimento dei diversi processi”, afferma Tecla Radaelli. “Quando sono entrato in Tribunale, mi si è aperto un mondo nuovo che mi ha appassionato”, ha asserito Beniamino Citterio. “Abbiamo avuto modo di rivolgere al Giudice e al Pm le nostre domande e curiosità: penso che difficilmente mi potrà ricapitare” la riflessione di Lorenzo Seerig. “L’incontro è stato interessante e educativo, ci ha fatto prendere coscienza di come funziona la giustizia e soprattutto della sua complessità” spiega Antonio Snider. Scritture come antidoto alle epoche del rancore di Alessandra Pigliaru Il Manifesto, 25 novembre 2023 Un percorso di libri, tra saggi e prose, su femmincidi e violenza maschile contro le donne. Italia, Stati Uniti, Argentina, Spagna e ancora oltre. Per dire di no a abusi e disuguaglianze. Da Giusi Palomba a Eve Ensler, proseguendo con Rita Laura Segato e Joanna Bourke. L’elaborazione riguardo la violenza maschile contro le donne è consolidata da diversi decenni, non solo grazie al femminismo che in tutte le parti del mondo continua a orientare le molte strade con cui se ne attraversa l’esperienza ma anche perché i saperi critici intorno al tema non si fermano a una giornata internazionale, non sono d’occasione. In direzione contraria riguardo i toni emergenziali, che la violenza sia sistemica occorre pur sempre ricordarlo anche a chi riflette ogni volta come se si dovesse sempre partire da zero mostrando invece intersezioni possibili, multidisciplinari e provviste di altrettanti linguaggi. Una delle uscite editoriali più originali degli ultimi mesi, nel senso della contaminazione tra esperienza e analisi partecipata, è La trama alternativa, un volume di Giusi Palomba (Minimum fax, pp. 243, euro 18) che si interroga su “sogni e pratiche di giustizia trasformativa contro la violenza di genere”. Senza voler rappresentare un manuale di istruzioni, descrive un caso preciso ovvero quanto le è accaduto quando, arrivata a Barcellona per ragioni economiche, incontra Bernat, un attivista e agitatore culturale che presto diventa suo amico e che a un certo punto viene accusato di stupro. Il racconto è quello di un complesso percorso collettivo, perché la violenza non è mai un fatto privato, in cui la scelta non è penale. Nel giorno in cui le piazze del mondo verranno attraversate dai nostri corpi, è ancora una volta dalle diverse pratiche, dai centri antiviolenza proseguendo poi tra le scritture, in particolare di donne, che si sfondano non solo generi letterari ma si consegnano molti spunti di lettura, cominciando da una considerazione sempre utile: “Quando parliamo di violenza contro le donne il concetto è talmente astratto, talmente ampio, che non ci rendiamo conto dei modi specifici e dettagliati con cui impatta sulle nostre vite e quanti anni, quanto tempo ci vuole per risorgere dalle ceneri”. È il punto centrale che Eve Ensler inserisce nella sua “Alchimia delle scuse”, un sermone scritto per la Middle Church di New York su invito della reverenda Jacqueline Lewis e che si può leggere per intero nel volume Io sono un’esplosione. Una vita di lotta e speranza, appena edito dal Saggiatore nella traduzione di Sara Reggiani (pp. 295, euro 22). Nota per i suoi Monologhi della vagina e per il suo attivismo, Ensler decide di abbandonare il nome del padre violento e attribuirsene uno nuovo: V, una sola lettera che è rinascita sua personale ma anche nome plurale di un popolo che, spiega l’autrice, si sapeva prendere cura l’uno dell’altra e per cui “il “noi” era dove dimorava il piacere”. Oggi settantenne, la scrittrice e drammaturga statunitense, compone un volume che “si addensa mentre scorre”, composto da prose, poesie, invettive, stralci di diario e riflessioni rendendo questo esperimento sia l’esito di una deflagrazione che la possibilità di far saltare ancora ogni forma di ingiustizia. Non è solo quella maschile contro le donne che le interessa perché molte sono le soggettività e i nodi storico-politici che ha attraversato: dagli anni Novanta dell’Aids a quelli in un campo profughi vicino Zagabria fino ad arrivare in Pakistan per poi trascorrere otto anni nella Repubblica democratica del Congo oppure occuparsi delle “schiave sessuali” dell’Isis fino all’ascesa di Donald Trump. Forme del dolore assunte dalla ingiustizia che non ha la stessa temperatura in ogni angolo della terra, quando si discute di violenza maschile contro le donne che, lo si dirà per inciso, non necessariamente ha come esito la morte, molte sono le storie e le distinzioni in capo alle configurazioni. Da quella originaria che è lo stupro a quella reiterata dell’abuso, come quello che la stessa Eve Ensler ha subito dal padre fin da bambina. È un partire da sé diverso, quando è della propria carne che si sta parlando. Seguire le fasi di una liberazione significa allora rendere condivisa la mappa di un patriarcato predatorio a diverse latitudini e in differenti contesti materiali, come fa l’antropologa argentina Rita Laura Segato che nel suo La guerra contro le donne (Tamu, pp. 316, euro 18, traduzione di Maria Biagiotti e Roberta Granelli e una puntualissima prefazione di Susanna Mantioni) offre le sue formulazioni su genere e violenza e specifica che l’espressione “violenza sessuale” può confondere giacché non è di ordine sessuale che si sta parlando ma del piano del potere. Rammenta poi il “mandato di maschilità” e la dimensione “arcaica” del patriarcato come struttura politica e cellula di violenza espropriatrice. Se adesso è il momento della politica delle donne, quotidiana e comunitaria, lo si deve a una coscienza che intreccia corpi e ricerche, anche qui “a partire da sé”, dall’attenzione verso Ciudad Juárez fino al penitenziario di Brasilia e al domandarsi qual è la lingua del femminicidio. Che significante rappresenta. Se lo domanda anche Joanna Bourke nel volume Vergogna. Considerazioni globali sulla violenza sessuale (Carocci, pp. 319, euro 24, traduzione di Maurizio Ginocchi) che, oltre a una notevole bibliografia sull’argomento, indaga i vari contesti culturali dando a ciascuno di essi una profondità temporale e spaziale da un punto di avvistamento storico (insegna a Londra in due College, al Birkbeck e al Gresham) su ciò che sono i vari volti dell’aggressione, dagli stupri correttivi a quelli nei conflitti bellici fino ad arrivare al trauma e alle cosiddette “sindromi culturali” con un’enfasi per quanto concerne le specificità locali nell’ambito degli schemi globali, segnata come è stata la sua esistenza da un’infanzia trascorsa tra Nuova Zelanda, Zambia, Isole Salomone e Haiti (la più importante, scrive, in termini di orientamento politico). L’ispirazione le viene dalle femministe che combattono la violenza sessuale in contesti in cui le disuguaglianze e le oppressioni sono particolarmente evidenti; sono le loro “conoscenze situate” - per dirla con Donna Haraway - a sollecitare ulteriori modi di pensare all’attivismo contro lo stupro. Ed è qui che interviene Dolores Mosquera con il suo Libera. Comprendere e trattare gli effetti della violenza sulle donne (Raffaello Cortina editore, pp. 257, euro 22, traduzione di Emilio Vercillo). Psicologa e psicoterapeuta che dirige l’Instituto Investigation y Tratamiento del Trauma y los Trastornos de la Personalidad a La Coruña, descrive e racconta il suo lavoro fornendo con precisione casi e anche con ciò che si fa con chi resta, dalle madri ai più ampi contesti famigliari, quindi con il lutto per esempio con l’esposizione di bambini e bambine alla violenza. Sono varie le epoche del rancore in cui molte si trovano a domandarsi infine: “Cosa c’è dei nostri corpi che vi spaventa così tanto, che vi rende così insicuri, così crudeli e duri? È la loro individuale autosufficienza o la loro mera esistenza? È la loro capacità di provare un piacere sconfinato - orgasmi capaci di moltiplicarsi. È la nostra pelle? È il nostro desiderio?”. Conclude Ensler-V che “è la nostra forza” e che “questo è il nostro mondo ora. E questi sono i nostri corpi”. Adeguatevi, si potrebbe aggiungere. Perché da qui non intendiamo arretrare, neppure di un millimetro. Amadeus: “Testi misogini? Ai rapper dico che la protesta va bene ma la violenza no” di Nino Luca Corriere della Sera, 25 novembre 2023 “La protesta va bene ma la violenza no”: questo il messaggio ai rapper e trapper lanciato da Amadeus alla Milano Music Week. Interpellato sulla polemica sui contenuti a volte misogini della trap, Amadeus per quanto riguarda Sanremo ha spiegato che “non ho mai censurato nessun testo, ma per la violenza quotidiana che viviamo dobbiamo fare tutti una riflessione, ci vuole un senso di responsabilità ed educazione generale, non bisogna dare la colpa a qualcuno, alla musica, alle istituzioni, alle famiglie, ma dare l’esempio”. “Spesso - ha sottolineato - la violenza sulle donne nasce in famiglia quando vedi un padre che picchia la madre, poi serve anche una legge urgentemente, ma la violenza sulle donne non è di destra o sinistra”. “Servono - ribadisce Ama alla vigilia della giornata contro la violenza sulle donne - sensibilità e buon senso che ovviamente vanno portati nella musica, ma non vuole dire che un ragazzo non possa ascoltare un certo tipo di musica perché puntare il dito non serve a risolvere il problema più grande. Conosco rap e trap e non è tutto così, ci sono proteste e disagi che vengono raccontati con la musica come accade in America, Inghilterra, Francia e altrove, perché non c’è possibilità di farlo altrove, ma ciò non giustifica la violenza contro le donne, anche a questi artisti dico: un po’ di sensibilità”. Poi ha spento ogni speranza di rivederlo a Sanremo dopo questo 74/o festival, il suo quinto e - fin quanto annunciato finora - ultimo da protagonista.”Non farei mai solo il direttore artistico, nella maniera più assoluta, la macchina la devo guidare io, preferisco litigare con me stesso che con un altro. Dopo il terzo anno volevo lasciare ma l’Ad Fuortes mi ha chiesto altri due anni. Ho domandato alla Rai da subito - ha ricordato - di fidarsi di me e avere completa autonomia”. Così, in completa autonomia, “Ama” ha pensato “per il Primafestival a 4 nomi, due mie carissime amiche che ho chiamato a fare le presentatrici: saranno Paola e Chiara” ha aggiunto, introducendo a sorpresa le sorelle Iezzi sul palco. Al loro fianco ci saranno come inviati i tiktoker Mattia Stanga e Daniele Cabras, anche loro ospiti della Music Week. “Amadeus è riuscito a portare il pubblico giovane a fondersi con quello tradizionale del festival” ha detto Chiara. “Siamo emozionatissime di vivere questa esperienza in una versione diversa” ha aggiunto Paola. “Amiamo Amadeus perché riesce a far sorprese in un mondo dove non ce n’è più” hanno concluso le sorelle Iezzi. Questo anche perché nel suo lavoro “non ho nessuna interferenza, sono felicissimo - ha sottolineato lui - di come sto lavorando, poi le polemiche ci sono sempre, Baudo mi disse `se nel tuo festival non ci sono polemiche è una ´cagata!’. Lo chiamo a ogni Festival, fu quello che mi diede i consigli più belli, mi disse `ricordati che devi decidere tutto tu´, sapere anche quante transenne ci sono davanti all’Ariston, perché se affidi qualcosa agli altri e va male poi tanto sempre da te verranno. Ho riflettuto sulle sue parole e le ho applicate, è l’unico modo di portare a casa Sanremo”. Per conoscere i protagonisti del 74/o festival bisognerà aspettare - ha anticipato - “domenica 3 dicembre all’ora di pranzo, al tg delle 13:30, dove daremo i nomi dei cantanti in gara”. Per il festival sono state “superate le 400 proposte tra i big, più di 1000 per i giovani. Con le canzoni arrivate si potrebbero fare 2 festival, il problema è chi togliere tra i 50 brani selezionati tra 400”. Sicuramente, “venendo dalla radio ho un gusto pop, per me le canzoni devono funzionare ala radio, in streaming”. In questo festival “non ci saranno super ospiti italiani, ma i miei super ospiti, che sono gli artisti in gara”. “Troppi cattivi esempi, i trapper parlano delle donne come oggetti” di Rosanna Scardi Corriere della Sera, 25 novembre 2023 Dalla fiction campione di ascolti “Lea - I nostri figli” di Raiuno a un reading teatrale. Giorgio Pasotti è atteso, sabato prossimo, nella chiesa di San Vittore Martire per interpretare “Aspettando domani”, testo scritto da Carlotta Balestrieri per celebrare un’occasione speciale: la Banca di Credito cooperativo dell’Oglio e del Serio festeggia i 120 anni della fondazione della Cassa rurale di prestiti di Calcio. La curatela dell’evento è affidata a deSidera. Insieme a Pasotti, in chiesa a Calcio, ci sarà la violoncellista Daniela Savoldi. Pasotti, “Aspettando domani” è il monologo di Alessandro Baruffi. Ci può raccontare chi era? “Uno dei dodici coraggiosi che, il 16 luglio del 1903, investì due lire di quota sociale e mise come garanzia il proprio patrimonio per fondare la Cassa rurale di prestiti di Calcio. Attraverso le sue parole, pronunciate alla vigilia della costituzione, si scoprono sia il contesto storico sia la dimensione umana. Baruffi era un falegname, padre di otto figli, che compì un passo molto più lungo della gamba, buttandosi nel vuoto senza avere un paracadute. Ma il suo atto di coraggio cambiò le sorti di migliaia di persone. E resta un esempio virtuoso di chi ha creduto in un sogno. Oggi si cerca un lavoro in base a quello che ti può dare, lui aveva fatto della sua passione un mestiere”. A proposito di lavori scelti per vocazione, in “Lea”, interpreta un pediatra ex marito dell’infermiera impersonata da Anna Valle. È vero che aspirava a diventare medico? “Era il mio progetto di vita iniziale, volevo fare il medico sportivo; il cambio di strada è avvenuto mentre lo stavo realizzando. Sono stato rapito dal mestiere di attore. E anche se mi trovo a mio agio con il camice per fiction, credo che non sarei stato un bravo dottore, ho paura del sangue, non mi piacciono la parte chirurgica e le malattie”. Venendo al caso tragico di Giulia Cecchettin, la 22enne uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta, da papà di una figlia femmina (Maria, 13 anni), qual è la sua opinione? “Ci sono troppi cattivi esempi. Mia figlia come le sue amiche ascolta questi trapper che descrivono le ragazze come oggetti, ostentano supercar, gioielli, soldi, cattivo gusto. Sono modelli sbagliati e vengono idolatrati dai più giovani che non hanno capacità di discernere tra giusto e sbagliato”. Sui social ha pubblicato la scritta “Noi maschi dobbiamo imparare a soffrire per amore, imparare a perdere, a guardare andar via per splendere altrove”... “Ritengo che non si debba parlare del singolo caso. Oggi la vittima è Giulia, domani toccherà a un’altra donna. I femminicidi sono fatti talmente gravi che non possiamo nasconderci dietro a un dito: è un fallimento collettivo, non solo dell’autore del delitto o della famiglia, ma della società. Faccio un esempio: fino ai 19 anni ho vissuto a Bergamo, dove si è formata la mia cultura civile. Se buttavo la carta della pizza per terra, usciva il bottegaio e mi faceva capire che dovevo usare il cestino. Oggi i genitori sono iperprotettivi verso i figli ed è deleterio. Mio papà mi ha sempre detto: se farai qualcosa di grave sarò il primo a portarti dalle autorità e a denunciarti”. Ha avuto amiche che hanno subìto abusi o violenze? “No, per fortuna. Ma mi ha colpito un episodio di violenza a Firenze, dove mi trovo: un novantenne aggredito e derubato nell’indifferenza dei passanti”. Quella libertà che spaventa gli uomini di Fabrizia Giuliani La Stampa, 25 novembre 2023 C’è un prima e dopo Giulia, non c’è dubbio. In questa storia non ci sono mostri, periferie degradate, famiglie in pezzi; non ci sono droghe, vite eccessive, problemi di salute mentale, cattivi maestri. Gli alibi, insomma, sono caduti, non c’è più modo di spingere la violenza - i suoi autori - in una zona che ci faccia sentire al sicuro, in condizione di dire “non io, non noi”. Il suo assassinio ha una valenza periodizzante, direbbero gli storici, è uno spartiacque. L’ha acquisita perché ha reso ineludibile un dato che fino ad ora si è provato rimuovere o a definire in altro modo, ossia che la violenza contro le donne - anche qui, nei nostri confini, nelle nostre case - è una reazione all’esercizio della loro libertà. Ed è una guerra aperta, anche se fatichiamo a riconoscerla e chiamiamo le cose per nome solo quando i fatti, con la loro ostinazione, ci costringono a farlo. I dati che Istat ci mette davanti da anni, ma che non vogliamo capire, si mostrano qui in tutta la loro chiarezza: nello scarto tra una libertà femminile che corre veloce, generazione dopo generazione, trasmettendo speranze, desideri e aspettative e un privato - famiglie e relazioni - che ancora la respinge. Perché se le norme che conservavano il vecchio ordine sono cadute, le leggi non scritte che lo riproducono nelle case, nelle teste e nelle relazioni sono ancora vive, il loro esercizio non del tutto interdetto. Guardiamo ai due rifiuti che segnano questa storia: la separazione e la laurea. Sono cose distinte, sembrano appartenere a domini diversi, ma invece collassano nella catena degli eventi che porta al sacco, al dirupo e al lago. L’ultimo gesto di Giulia, prima di salire in macchina con Filippo che non accetta il suo allontanamento, è l’invio della tesi alla relatrice con le correzioni apportate: il lavoro è pronto per essere caricato dal sistema e presentato alla Commissione, convocata per la seduta di laurea del 16 novembre; la sedia, però, giovedì rimane vuota: non c’è discussione né proclamazione. Bisogna partire da qui, dalla corsa di Giulia e dalla paura di Filippo per capire cosa è oggi la violenza, se non si vuole restare inchiodati all’incredulità: sono giovani, chi mai avrebbe pensato. Sì, sono i giovani perché le ragazze - non più un’élite ma tante - sono cambiate, praticano su ogni terreno una libertà inedita che parte dei loro coetanei non accetta. Se la violenza maschile ha segnato la storia umana, questi femminicidi sono un fenomeno nuovo, la reazione rabbiosa a una autonomia imprevista: lo diciamo da tempo ed è positivo che l’analisi venga condivisa anche da voci maschili. Perché aveva ragione Hobsbawn quando affermava che la rivoluzione delle donne è la sola riuscita nel Novecento, ma aveva torto nel definirla pacifica: agire liberamente - chiudere una storia, perseguire la realizzazione del proprio talento, dire non mi va, non voglio - può costare la vita a una donna anche qui, nei nostri confini e nelle nostre case. Lottare contro la violenza vuol dire, dunque, lottare perché sia garantito alle donne l’esercizio della loro libertà: questo punto dovrebbe essere chiaro e soprattutto condiviso. La scelta del Parlamento di votare insieme le ultime misure di contrasto è un segno di maturità, fa pensare che si sia ritrovato il senso della rappresentanza e si siano riaperti i canali di trasmissione tra la società e i partiti. Dovrebbe essere superfluo ricordare che arrivare ad un accordo non vuol dire rinuncia all’appartenenza, ma mediazione e politica. Se si preferisce: la ritrovata capacità di riconoscere la libertà di cui questo tempo ha bisogno. Femminicidi: non bastano solo promesse di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 25 novembre 2023 Nulla servirà fino a che non si deciderà di creare un vero sistema di protezione. Servono fondi, personale specializzato, la violenza contro le donne deve essere trattata come una vera emergenza. Accade sempre, dopo ogni femminicidio. Soprattutto se, come nel caso di Giulia Cecchettin, l’emozione per il delitto diventa un’onda che travolge tutto e tutti. E allora la politica si mobilita, il Parlamento si impegna, il governo promette. Si organizzano conferenze stampa, si annunciano iniziative urgenti e immediate, talvolta si riesce anche a fare qualche piccolo passo avanti. Il voto unanime per l’approvazione definitiva del disegno di legge che rafforza il codice rosso e altre misure di prevenzione è stato un ottimo segnale, anche se l’aula semivuota di palazzo Madama durante la discussione sicuramente non è stato uno spettacolo edificante. In ogni caso non ci si deve illudere che possa bastare questo a risolvere il problema della violenza domestica, delle aggressioni fisiche e verbali contro le donne, degli stupri, dei delitti. C’è ancora tanto, troppo da fare. Si deve partire dalle scuole, certo. Si devono educare i ragazzini al rispetto delle coetanee, è il minimo. Si devono anche mettere in guardia le ragazze che spesso si illudono di essere tanto amate perché il loro fidanzato è geloso, è una delle priorità. Ma nulla di tutto questo servirà fino a che non si deciderà di creare un vero sistema di protezione. Servono fondi, serve personale specializzato, la violenza contro le donne deve essere trattata come una vera emergenza. Bisogna trovare i soldi per le case rifugio dove ospitare chi denuncia e così mette a rischio la propria incolumità e quella dei propri figli. È inutile sollecitare le donne a ribellarsi se poi lo Stato non è in grado di garantire che siano al sicuro. Bisogna aumentare il numero di poliziotti e carabinieri per controllare che gli uomini violenti sottoposti a misure di prevenzione rispettino le restrizioni. È inutile mettere braccialetti elettronici o disporre il divieto di avvicinamento se poi nessuno si occupa di verificare che siano efficaci. Bisogna potenziare la rete di assistenza di psicologi, psichiatri, educatori che possano assistere le vittime nel percorso di allontanamento dal loro aguzzino e gli uomini violenti che vogliono provare a riscattarsi. Per fare tutto questo serve un vero stanziamento economico. Il tempo delle promesse è finito. Chi scenderà in piazza promette di fare rumore proprio perché gli impegni vengano mantenuti. Facciamo sì che d’ora in poi il rumore non siano soltanto le grida di aiuto inascoltate delle donne maltrattate, violate, uccise. Otto volte 25 novembre. La sfida di Non Una Di Meno alla violenza maschile di Giansandro Merli Il Manifesto, 25 novembre 2023 La data nasce nel 1999, ma prende vita nel 2016 con la nuova esplosione femminista. “Come primissima sensazione ricordo la sorpresa. Non sapevamo cosa aspettarci perché negli anni precedenti era diventata una data rituale. L’impatto con la piazza, invece, fu incredibile”. A colpire Carlotta Cossutta, attivista di Non una di meno Milano, in questo giorno di sette anni fa furono i colori all’uscita dalla stazione Termini. Le organizzatrici della manifestazione contro la violenza maschile sulle donne avevano dato indicazione di indossare il rosa e il fucsia. “Erano ovunque”. Dal 1999 il 25 novembre è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, istituita con una risoluzione Onu per ricordare le sorelle Mirabal: Patria, Minerva e Maria Teresa. Tre attiviste politiche dominicane uccise in quel giorno del 1960 per ordine del dittatore Rafael Leónidas Trujillo. In Italia una grande mobilitazione avviene nel 2007, con un corteo nazionale che porta a Roma oltre 50mila donne sulla scia del femminicidio di Giovanna Reggiani, violentata e uccisa il 30 ottobre nella stazione romana di Tor di Quinto. Poi, per diversi anni, la data torna a essere soprattutto una ricorrenza istituzionale. Fino al 2016, fino al primo corteo nazionale di Non una di meno. Che in realtà fu il 26. Pochi mesi prima, a giugno, alle porte della capitale era stata uccisa e bruciata dall’ex partner una ragazza di 22 anni, Sara Di Pietrantonio. Ne era seguita una narrazione morbosa che aveva spinto diversi gruppi femministi a discutere in assemblea. Da lì l’idea di un incontro nazionale a ottobre e del corteo il mese seguente. “In Argentina era esploso il movimento Ni Una Menos dopo il femminicidio di Lucía Pérez, mentre la Polonia era scossa dagli scioperi delle donne a tutela del diritto all’aborto - ricorda Serena Fredda, di Nudm Roma - All’assemblea nazionale parteciparono tantissime donne. A colpirci la grande condivisione e sintonia, del tutto inattesa, intorno al tema della violenza intesa come fenomeno strutturale”. Cosa significa? “Significa - risponde Cossutta - non pensare la violenza contro le donne come un accidente che ci capita, ma come il modo in cui questa società è organizzata: perciò non ha solo natura fisica, ma anche economica o psicologica ad esempio. Significa prendere la violenza come uno specifico posizionamento da cui osservare il mondo per trasformarlo, rifiutando il ruolo della vittima”. Il tema è uno di quelli che caratterizzano la nuova ondata femminista, anzi transfemminista. Perché è così che si autodefinisce il movimento Nudm. Non tanto, o non solo, per l’attenzione alle soggettività trans e lgbtqia+ quanto per l’idea di intersezione con le questioni di classe, razza e genere, come ha spiegato qualche anno fa la scrittrice e attivista Porpora Marcasciano in un’affollata discussione di Nudm. Dopo ogni 25 novembre, infatti, a Roma si riunisce un’assemblea nazionale. In quella del 2017 in migliaia hanno approvato il “Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere”. Al centro i temi che continuano ad animare il dibattito politico: il femminismo come lettura complessiva dell’esistente; l’importanza della formazione per il contrasto alla violenza; il diritto alla sanità e all’autonomia economica; il bisogno di nuovi saperi e narrazioni; la lotta contro il razzismo e per l’ambiente. Per sette volte prima di oggi, Non una di meno ha portato in piazza centinaia di migliaia di persone nelle strade della capitale, con l’eccezione del 2020 quando causa Covid-19 le mobilitazioni sono state dislocate. Una si è svolta a Lampedusa, perché anche nella propaggine più meridionale d’Italia - come in tanti piccoli comuni del sud, centro e nord, in pianura o in montagna - era nato un collettivo di Nudm. “Ogni volta è diversa dalle altre - afferma Cristiana Cortesi, della casa delle donne Lucha y Siesta - Ogni volta ci rimane addosso una carica di energia incredibile con cui contribuiamo a cambiare la società e la cultura. Cercando di evitare che il 25 novembre diventi una ricorrenza, dopo la quale cala il silenzio fino al prossimo femminicidio”. Uomini che odiano le donne, come funzionano i Centri per rieducare i violenti di Francesca D’Amato Il Domani, 25 novembre 2023 “Il confronto tra uomini è fondamentale, perché possono riconoscere nell’altro, i comportamenti che loro stessi mettono in atto” dice Alessandra Pauncz, presidente di Cam, il Centro uomini maltrattanti. Negli ultimi due anni 250 soggetti sono stati rieducati nella gestione delle loro emozioni. Esiste una struttura che prova a interrompere la meccanica dell’odio contro le donne. Il Centro Uomini Maltrattanti (Cam) nasce nel 2008 e si costituisce come associazione nel 2019. L’obiettivo è quello di rieducare gli uomini autori di violenza, attraverso un percorso di assunzione di responsabilità e consapevolezza. Secondo i dati Istat nove donne su dieci subiscono maltrattamenti. Molti di questi rimangono spesso nascosti tra le mura di casa. “Il Cam nasce per chi si rende conto di avere un problema e vuole essere aiutato” afferma Alessandra Pauncz, la presidente. Il centro conta in tutto 4 sedi: a Firenze, Ferrara, Nord Sardegna, e Cremona. “La maggior parte degli uomini è motivato dal desiderio di cambiare e diventare un buon partner o un genitore migliore” afferma Pauncz. Circa un terzo degli uomini è arrivato volontariamente, mentre la maggior parte attraverso delle prescrizioni rilasciate dal tribunale o dagli assistenti sociali, altri ancora vengono indirizzati dalle stesse partner. Il percorso Cam - Negli ultimi due anni il bilancio è stato di 250 uomini, che ogni anno hanno fatto visita al centro per uomini maltrattanti. Alcuni di loro sono arrivati al Cam e poi hanno improvvisamente cambiato idea: “Uomini che arrivano e dicono “questo non è per me, io non sono violento” ci capitano spesso” dice Pauncz. L’età media di chi si rivolge al Cam è di 45 anni. I reati per cui arrivano al centro, sono maltrattamenti in famiglia e violenze sia fisiche che psicologiche. La maggior parte sono lavoratori a tempo pieno e appartenenti a una fascia di reddito medio-basso. Inoltre, molti di loro hanno anche dei figli. Il percorso è strutturato attraverso un programma che prevede un incontro di 1 ora e mezza, una volta a settimana. Negli incontri si affrontano diversi argomenti. “C’è una sessione sulla definizione della violenza, una in cui si parla degli effetti sulla vittima, una in cui si vede un film, una in cui si parla delle emozioni” afferma la Presidente. Il momento più importante del percorso è il confronto degli uomini tra di loro: “È fondamentale, perché possono riconoscere nell’altro, i comportamenti che loro stessi mettono in atto” afferma Pauncz. Quali le cause della violenza? - In base all’Impact Report del centro uomini maltrattanti, i soggetti erano consapevoli delle motivazioni della loro condotta violenta già prima di iniziare il programma. Tra le motivazioni principali 29 uomini su 65 affermano di essere stati violenti “perché si sentivano insicuri”. In base al numero di uomini analizzato, 18 hanno usato violenza per obbligare la compagna a fare una determinata cosa. Tra le altre motivazioni emergono la mancanza di fiducia dell’uomo nei confronti della donna, la gelosia e la possessività. Altri ancora si sentivano legittimati ad usare la violenza “perché lei mi permetteva di percepire il controllo” oppure perché “rideva di me”. Dai dati emerge quindi un dato: l’uomo tende a dare la colpa a qualcuno o qualcos’altro per gli abusi commessi. “I meccanismi della violenza sono sempre i soliti: vittimizzazione, negazione, attribuzione della responsabilità all’altra persona”, afferma Pauncz, “sono uomini che pensano: “se qualcosa mi ferisce, è colpa tua, lo fai apposta, sono io la vittima, mi devo difendere”, e utilizzano la violenza per controllare il comportamento e l’espressione dell’altro” afferma la Presidente. Secondo Pauncz, alla base c’è soprattutto “una cultura del privilegio, per cui agli uomini è dovuta la cura affettiva delle donne, e se queste non assolvono a questo dovere ne soffrono poi le conseguenze”. Anziani e violenza domestica - “La maggior parte degli anziani ha dei modelli di coppia molto tradizionali” afferma Pauncz “un pensionato per esempio è venuto da noi su consiglio del suo medico che conosceva sia lui che sua moglie”. Una sfida molto difficile da affrontare per gli operatori del Cam. “Nonostante tutto però, hanno messo in discussione non solo loro stessi ma anche i modelli che avevano appreso”, afferma Pauncz, “alla fine, il forte affetto che nutrivano per le loro compagne superava le ragioni che li portavano ad avere delle reazioni violente”. Per una donna anziana uscire dalla violenza è molto più complesso rispetto a una più giovane. Per l’anziana significa intraprendere un nuovo percorso di vita, “come per esempio lasciare la propria casa: una scelta che molte non vogliono prendere” conclude Pauncz. Come finisce? Ma quali sono stati i progressi a conclusione del percorso? In base all’Impact Report gli esiti del programma sono stati positivi. La violenza fisica nei confronti della partner è stata quasi del tutto azzerata e si è riscontrata una riduzione della violenza psicologica. Tra l’inizio e la fine del programma, si registra anche una diminuzione significativa del numero di chiamate alle forze dell’ordine. Dopo un anno di percorso, 34 donne su 43 affermano che il partner ha smesso di agire con violenza, 9 che nulla è cambiato e 3 di loro hanno deciso di non chiudere la relazione. Così la vita riparte nelle case-rifugio di Francesca Mannocchi La Stampa, 25 novembre 2023 Le donne che consegnano la loro storia dalle case rifugio non vogliono avere nome e non vogliono mostrare il volto. Hanno bussato alla porta dei centri antiviolenza per recuperare quell’identità smarrita e riappropriarsi del corpo che un altro ha violato. Per questo, la giovane che apre la porta della sua camera nella casa rifugio di via di Villa Pamphili, a Roma, chiede di essere chiamata solo: donna. Ha quasi trent’anni, una figlia di un anno e mezzo che vive lì con lei. La bimba dorme, la stanza è in penombra. Alla destra del letto una culla, alla destra della culla i giochi. La donna è arrivata nel centro antiviolenza sei mesi fa perché aveva “bisogno di respirare. Era come se fossi stata sveglia per tanto tempo e senza pace”. Non riusciva a trovare pace nemmeno in un posto sicuro e per i primi mesi al centro non è riuscita a dormire, il passato - dice - la perseguitava ancora. Poi ha iniziato il percorso di fuoriuscita dalla violenza, le ha dato un nome, ha ricominciato a respirare e insieme al respiro ha riconquistato il riposo. Quando è arrivata al centro antiviolenza non aveva un lavoro né un risparmio. Per questo, come molte, non è stata solo messa in protezione, ma accompagnata in un percorso di indipendenza economica. Ora lavora tre volte a settimana in un ristorante in periferia e nel tempo che le resta studia, vorrebbe scrivere un libro per bambini. Un libro innanzitutto per sua figlia. Per descrivere la paura che l’ha accompagnata per anni, dice che quando vivi con la preoccupazione di essere picchiata è come se stessi sempre sul punto di soffocare: “Ti manca il respiro come se avessi costantemente sul collo le mani di qualcuno che non allenta mai la presa”. Un giorno, quando lo sguardo della violenza si è poggiato anche su sua figlia, la donna ha deciso di scappare. Lo sguardo violento era quello di suo padre. La picchiava da quando era bambina, l’ha picchiata per tutta la sua adolescenza, è tornato a picchiarla ogni giorno quando la donna è tornata a casa, incinta e sola, e poi a picchiarla con sua figlia appena nata. Così ha trovato la forza di uscire di casa sapendo che non vi avrebbe fatto ritorno. Nella casa rifugio ha smesso di guardarsi alle spalle temendo che qualcuno la prendesse a schiaffi o a pugni e ha capito, parlando con le operatrici, che insieme a sua figlia e a uno zaino con qualche cambio, aveva portato con sé anche il senso di colpa che genera la violenza fisica e quella psicologica. “Avevo dubbi su me stessa. Mi dicevo: è colpa mia. La notte, quando non dormivo, pensavo: potrei comportarmi in maniera diversa? L’ho deluso? Forse se mi mena così tanto me lo merito”. Ora, dopo sei mesi, ha capito che quel senso di colpa, quello svilimento erano già violenza. Dannosa come le botte. E ha capito che insieme ai lividi, e ai segni sulla schiena, deve tamponare e curare le ferite antiche, quelle di chi, abusando di lei, le ha fatto credere di non valere niente e di meritare di essere umiliata. La casa rifugio di Villa Pamphili è uno storico centro antiviolenza, aperto nel 1992 e gestito da Differenza Donna, oggi ospita 8 donne, 4 di loro con figli. Ogni anno arrivano qui circa 400 donne, bussano perché emerga la violenza che hanno subito. Bussano, soprattutto, per essere credute. A Roma i posti letto in tutto per le case rifugio sono circa 50, numeri lontani dai parametri indicati dall’Unione Europea, che prevede un posto ogni 10 mila abitanti. L’accoglienza per le vittime di violenza dovrebbe dunque garantire 300 posti letto, a oggi sono appena un sesto, e le strutture cittadine tirano avanti con meno di 70 mila euro l’anno perché i fondi vengono distribuiti con il meccanismo delle gare al massimo ribasso. Elisa Ercoli è la presidente di Differenza Donna. Fa parte dell’organizzazione da trent’anni, trent’anni in cui molto è cambiato, dice, in cui non è cambiato ancora abbastanza. Cammina lungo i corridoi della sede di Differenza Donna, a Roma, tra i manifesti delle lotte femministe, degli obiettivi raggiunti. Lo specchio di quelli lontani è il rumore del telefono che arriva dalle stanze in fondo. È il 1522, il numero antiviolenza. - Buongiorno, come posso essere d’aiuto? - Quindi non esclude il fatto che lui possa essere anche in possesso di armi? - È consapevole che sta vivendo una situazione di violenza? - Chiama perché è preoccupata per sua figlia? - Stai tranquilla, nessuno farà partire la denuncia al posto tuo. Ti spiego cosa puoi fare, quali sono gli strumenti che hai a tua disposizione. Ma nessuno può importi di fare qualcosa che non vuoi, nessuno può denunciare al posto tuo. - È in un luogo protetto al momento? - Sua figlia è minorenne? È la prima volta che viene minacciata di morte? Le parole delle operatrici si sovrappongono, in un flusso ininterrotto di voci che rispondono ad altre voci da Udine e Reggio Emilia, Torino e Palermo, Roma e Trieste. È così ogni giorno e ogni notte, è così con numeri ancora più alti dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin. “Giulia Cecchettin ha scosso tutti, come ogni femminicidio - dice Ercoli -, ma quello che sconvolge ancora di più è che è chiaro che per Filippo Turetta fosse insopportabile che lei avesse raggiunto degli obiettivi importanti prima di lui, meglio di lui. È la violenza per eccellenza”. La violenza maschile si basa su questo, spiega Ercoli, “quando diciamo che la violenza maschile contro le donne è collegata alla cultura patriarcale intendiamo dire che gli uomini nel loro privilegio di superiorità gerarchica pensano le donne in una posizione subalterna, e oggi che questo non è più possibile ci sono reazioni violente come quella di Turetta, una reazione che non è iniziata con il femminicidio, è viceversa una violenza che si è conclusa con il femminicidio”. Dalle narrazioni e dagli audio di Giulia Cecchettin è ormai chiaro che Turetta avesse messo in atto un meccanismo di controllo, un’influenza determinata dal senso di colpa e una conseguente limitazione della libertà. A Giulia Cecchettin non è bastato lasciarlo e quella violenza agita da tempo in forme più subdole, l’ha uccisa. “Le donne hanno aumentato la loro consapevolezza, vogliono affermarsi nella sfera pubblica e vogliono mantenere la cultura della cura nella sfera pubblica e privata - continua Ercoli - e se è vero che le donne oggi denunciano prima, è vero anche che si è ristretto il tempo in cui la minaccia può rivelarsi letale, perché la violenza maschile nelle nuove generazioni ha un’escalation tanto più rapida quanto più velocemente la donna capisce che quella relazione non è più un luogo protetto. 120 relazioni che smettono di essere luoghi sicuri, 120 femminicidi l’anno, uno ogni tre giorni, 120 uomini l’anno che non hanno sopportato la libertà delle donne”. Servirebbero politiche di prevenzione, sostengono tutte le organizzazioni, non solo più soldi ma soldi spesi meglio. Dall’ultimo rapporto di Action Aid, “Prevenzione sottocosto, la miopia della politica italiana nella lotta alla violenza maschile contro le donne”, emerge proprio questo cortocircuito. Negli ultimi dieci anni, in Italia, le risorse economiche stanziate ogni anno per prevenire e contrastare la violenza sono aumentate del 156%, eppure nonostante l’aumento di fondi il numero dei femminicidi è rimasto sostanzialmente stabile. Significa che le politiche antiviolenza adottate sono state inadeguate e l’analisi dello stanziamento dei fondi dimostra che l’approccio era e resta emergenziale e non strutturale. Ovvero che alle vittime si continua a pensare dopo che hanno subito violenza e non prima. “La prevenzione di cui l’attuale governo è promotore riguarda principalmente interventi per prevenire casi di recidiva e incrementare la protezione di donne che la violenza l’hanno subita - si legge nel rapporto -, iniziative importanti, ma in base alla Convenzione di Istanbul gli Stati hanno anche l’obbligo di adottare misure per promuovere cambiamenti nei comportamenti socioculturali per eliminare pregiudizi e pratiche basate sull’idea dell’inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini”. Elisa Ercoli è dello stesso avviso: “Noi vogliamo pensare agli uomini violenti come uomini che siano fuori da una vita normale, invece sono uomini normalissimi”. Per questo parlando di uomini maltrattanti usa spesso paragoni con la mafia: “Noi diremmo mai a un mafioso che ha sciolto un bambino nell’acido che è stato un giorno simpatico e carino perché faceva i biscotti? Non lo diremmo. Ci basta sapere che è stato un mafioso e che ha sciolto un bambino nell’acido per sapere che è da condannare. Invece in Italia non bastano 120 donne ammazzate ogni anno, quasi tutte per mano di partner o ex partner, per avere una posizione netta. Chi non ha una posizione netta è parte del problema”. La seconda donna che vuole raccontare la sua storia, nella casa rifugio romana, ha ventotto anni, una laurea in architettura e la consapevolezza di aver trovato la forza di denunciare un attimo prima di diventare l’ennesima della lista. Ha conosciuto il suo ex compagno nei corridoi dell’università, l’entusiasmo delle attenzioni si è velocemente trasformato in controllo. La aspettava dopo lezione, la portava a casa, ha cominciato a stringere sempre di più la sua cerchia di amicizie con l’inganno coercitivo che delle altre persone, amici e famiglia, non ci fosse più bisogno, che la loro felicità bastasse, che lui fosse il solo in grado di proteggerla. Nella solitudine che lui le aveva costruito intorno, non sapeva più con chi parlare, pensava di non essere creduta. Che i suoi timori sarebbero stati visti come l’esagerazione di una donna stufa di una relazione. Lo ha lasciato e ha avuto conferma che la paura che le risuonava dentro fosse reale. Non è bastato cambiare abitudini, tram, tragitti, lavoro. Lui ha cominciato a pedinarla, cambiare scheda per continuare a scriverle, fino a minacciarla che se non avesse risposto sarebbe stata la prossima sulla lista delle donne morte per mano di un uomo. Così lei ha cercato il numero del centro antiviolenza più vicino a casa sua, lo ha denunciato, e da allora attraversa un percorso che la sta portando a capire cosa ha vissuto. “Le operatrici mi hanno offerto una consulenza legale, ma questo è stato un passo successivo, per me la prima liberazione è stata l’essere capita, l’essere creduta, non essere mai messa in discussione, sentire che avevo un posto in cui non mi veniva detto che era colpa mia”. Ha gli occhi liberati e consapevoli quando dice: “La violenza è tutta uguale, è così banale”. “La violenza aggancia, perché non parte subito ma cresce e il crescendo non ti allarma. Se tutti gli uomini arrivassero e ci dessero due ceffoni in faccia nessuna inizierebbe una relazione. La violenza cresce, come nel mio caso, non ti rendi conto di quello che ti sta accadendo, spacciano la gelosia per romanticismo, ti convincono e ti convinci che puoi cambiare l’altra persona o almeno gestirla e quando la gelosia è diventata intimidatoria è spesso troppo tardi. Può essere chiunque, qualunque bravo ragazzo”. Che non avrebbe fatto male a una mosca. Per questo in lei la storia di Giulia Cecchettin risuona così tanto. Perché non ha fatto in tempo a denunciare. Perché, dice, “sono come lei, solo più fortunata”. “Al suo posto potevo esserci io, potrebbe esserci ognuna di noi”. Migranti. Minori fino a 5 mesi nei centri per adulti. Nuova stretta del governo di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 25 novembre 2023 Chiesta la fiducia (si vota lunedì) sul dl Cutro 2. In commissione esteso il periodo di permanenza per chi ha più di 16 anni. E sale da 30 a 45 giorni pure il limite nelle strutture per minori. Ancora una stretta in materia di immigrazione, che stavolta riguarda anche i minorenni. Fra i cori di indignazione delle opposizioni, che lamentano come “il Parlamento venga ancora una volta delegittimato”, il governo ha posto la fiducia sull’attuale versione del terzo decreto in materia di migranti, modificata durante l’esame in commissione a Montecitorio. Dopo la richiesta di fiducia, avanzata per conto dell’esecutivo dal ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani (FdI), la Camera è stata convocata per lunedì 27 novembre a mezzogiorno. Ma le nuove modifiche, lamentano fra gli altri la dem Sandra Zampa e la 5s Carmela Auriemma (che coi colleghi del Moviimento ha abbandonato i lavori per protesta contro il contingentamento dei tempi) “travolgono le norme di civiltà che avevano fatto dell’Italia un modello in Ue” e “contrastano con la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e con la Costituzione”. Anche Benedetto Della Vedova, di + Europa, intervenendo in Aula, denuncia che “il potere esecutivo si sta sostituendo al potere legislativo primario, piano piano. Rischiamo di avere in eredità un Parlamento delegittimato”. E se, prosegue, “la maggioranza sostiene di avere sempre ragione, come avvenuto con questi voti di fiducia, e la minoranza non osa reagire, allora è in pericolo la democrazia”. Minori nei centri per adulti. Il testo, così come è uscito dopo il vaglio di emendamenti e sub emendamenti presentati durante l’esame in Commissione Affari Costituzionali, contiene una serie di misure contestate duramente dalle opposizioni. Una di esse - introdotta con un subemendamento presentato dal deputato leghista Igor Iezzi - dispone che i minori fra 16 e 18 anni possano rimanere nei Centri di detenzione per adulti altri 60 giorni in più, rispetto ai 90 già previsti originariamente dal decreto, per un totale di 150 giorni, cioè 5 mesi. Non solo: gli emendamenti del relatore Francesco Michelotti (FdI) estendono da 30 a 45 giorni il tempo massimo di permanenza di chi ha meno di 16 anni nei Centri per minori. Nel testo si stabilisce poi che l’attivazione delle strutture di prima accoglienza avvenga “sulla base delle esigenze del territorio e dell’entità degli arrivi in frontiera o dei rintracci” e si “elimina la possibilità per gli enti locali di gestire tali strutture” tramite convenzione con il Ministero dell’Interno. Si consente, quindi, di realizzare o ampliare i Centri di Accoglienza straordinaria per minori, in deroga al limite di capienza, nella misura massima del 50%. Si tratta di “una follia”, osserva il segretario di +Europa Riccardo Magi, perché consente “il sovraffollamento dei centri minorili” senza tener conto “che l’Italia è già sanzionata in Europa per il sovraffollamento delle carceri e di luoghi indegni come i Cpr”. Anche nei centri per gli adulti si potrà tollerare, sempre a causa del decreto, un sovraffollamento del 100%. L’età presunta. Altro punto criticato dalle opposizioni è quello che riguarda la “misurazione dell’età” dei bambini che arrivano soli, senza documenti. L’autorità di pubblica sicurezza potrà disporre nei loro confronti “rilievi antropometrici o accertamenti sanitari, anche radiografici”, dandone immediata comunicazione al magistrato, che dovrà autorizzare le “misurazioni” in forma scritta o, se urgenti, oralmente (con conferma scritta successiva). Il margine d’errore possibile è di due anni. “I minori vengono concepiti come oggetti da misurare”, lamenta ancora Magi. Mentre il dem Matteo Mauri segnala la norma che stabilisce come, quando l’impugnazione contro l’espulsione sia inammissibile, il difensore non abbia diritto alla liquidazione del compenso. Tradotto, avverte Mauri, “significa negare il diritto alla difesa tutelato dalla Costituzione”. Divieti di ingresso. Il provvedimento vieta l’ingresso in Italia a chi è condannato (anche non in via definitiva) per lesioni ai danni di persone incapaci, minori o infermi e per chi è accusato di reati relativi a “mutilazioni genitali femminili” o “lesioni permanenti al viso”. Ancora, si riduce da 30 a 15 giorni il termine per ricorrere contro l’espulsione per chi ha un permesso di soggiorno Ue di lungo periodo. E si taglia da 12 a 9 mesi il periodo di sospensione della domanda se chi chiede asilo si allontana senza giustificazione dai Centri di accoglienza o scappa da hotspot e Cpr. Donne vittime di abusi. Un altro terreno di scontro acceso riguarda le migranti vittime di violenze. Pd e Avs avevano chiesto di ospitarle nei Centri anti-violenza, ma il governo pretendeva che avvenisse a costo zero. Per Marco Grimaldi (Avs) ciò “avrebbe significato paralizzare i Centri”. Sul punto ora il Pd sta preparando un ordine del giorno da ripresentare in Aula dopo il voto di fiducia, per impegnare l’esecutivo a “indirizzare” le donne verso “le reti anti violenza e per creare sezioni” apposite nei centri Sai “prevedendo in tempi rapidi le risorse necessarie”. Ma di ordini del giorno al testo del governo ne verranno “presentati presumibilmente molti. Le opposizioni ritengono il provvedimento, per usare le parole di Magi, “indegno e disumano” e intendono “continuare a battersi”. Medio Oriente. A Gaza oggi non si spara, liberi ostaggi e detenuti di Francesca Caferri La Repubblica, 25 novembre 2023 Lo scambio alle 4 del pomeriggio: 24 rapiti tra israeliani e thailandesi contro 39 detenuti palestinesi. A Gaza migliaia di persone tentano di tornare a Nord ma trovano la strada sbarrata: due morti e timori per la tenuta del cessate il fuoco. Il cuore di Israele ieri si è fermato alle quattro in punto. A quell’ora nella piazza che negli ultimi 49 giorni è diventata l’arteria pulsante di questo Paese, quella stretta fra il museo di Tel Aviv e la Kyria, il ministero della Difesa, c’erano migliaia di persone: senza convocazioni, senza appuntamenti, senza striscioni, erano venute per stringersi intorno alle famiglie dei 236 ostaggi portati con la forza a Gaza il 7 ottobre e ancora nelle mani dei miliziani di Hamas e dei loro supporter. Le quattro era l’orario fissato per l’inizio dell’operazione che avrebbe portato alla libertà 13 di loro. Da quel momento, sulla piazza ha cominciato a scendere un silenzio quasi irreale, interrotto solo dai canti che hanno segnato l’inizio dello Shabbat, il riposo ebraico. La tensione si è rotta solo ben dopo le 17 quando, in ritardo sui tempi previsti, sugli schermi dei cellulari hanno cominciato ad arrivare le immagini delle jeep con cui gli operatori del Comitato internazionale della Croce rossa hanno portato fuori da Gaza 24 fra uomini, donne e bambini: allora è arrivato il momento delle lacrime, degli abbracci, degli sfoghi. Ad accogliere Aviv Katz Esher, 2 anni, suo fratello Raz, 4 anni, la loro mamma Doron, 34, Emilia Aloni, 5 anni e la sua mamma Danielle, 44, Ohad Mundar, 9 anni con la madre Mundar di 54 e la nonna Ruth di 78 e poi Adina Moshe, 72 anni, Hanna Katzir, 77, Margalit Mozes, 78, Channa Peri, 79, e Yaffa Adar, 85 - tutti prelevati dal kibbutz Nir Oz con l’eccezione della signora Peri - però non è stata una festa. Piuttosto un sospiro di sollievo, reso ancora più profondo dal fatto che insieme a loro sono tornati in libertà 10 lavoratori thailandesi e una signora filippina, rapiti nelle stesse circostanze. Tutti sono stati immediatamente portati negli ospedali, dove ad aspettarli c’erano team di medici e psicologi. La sfida ora sarà curare non solo ognuno di loro come singolo, ma le famiglie intere: i Munder hanno lasciato a Gaza il nonno, il capofamiglia e hanno visto un altro parente assassinato sotto i loro occhi. La signora Peri ha un figlio nella Striscia e un altro che è stato ucciso a Nirim. La signora Moshe ha visto il marito colpito a morte a Nir Oz, ha un nipote a Gaza e un altro nella lista degli scomparsi. Come si può ripartire dopo tutto questo? Agli specialisti il compito di rispondere. L’apparizione degli ostaggi è arrivata alla fine di una giornata iniziata con la tregua scattata alle 7 del mattino ma già minacciata qualche ora dopo dalla morte di due uomini a Gaza, uccisi dai soldati mentre dal Sud della Striscia tentavano di tornare al Nord. L’esercito israeliano aveva messo in guardia dall’avvicinarsi all’area, perché la considera zona di combattimenti e non ha esitato a sparare. Il timore è che fatti simili possano ripetersi nei prossimi giorni, mettendo a rischio i quattro giorni di pausa concordati. Mentre a Tel Aviv si aspettavano notizie degli ostaggi, dalle carceri israeliane si muovevano verso quello di Ofer, in Cisgiordania, 24 donne e 15 minori palestinesi: qui sono stati sottoposti a controlli medici prima di essere portati presso uno dei punti di passaggio fra Israele e i Territori per essere rilasciati. Ad accoglierli, urla di gioia e festeggiamenti in Cisgiordania, ma un’atmosfera ben più sobria a Gerusalemme Est, dove sin dalle prime ore della mattina la sorveglianza della polizia israeliana era intensa. Ieri a soffrire, a piangere e poi a gioire a Tel Aviv non c’erano i familiari degli ostaggi che sono stati liberati. Avvisati prima del tempo, erano stati già portati negli ospedali dove avrebbero poi riabbracciato i loro cari. Ma c’erano tutti gli altri, i compagni di lotta e di rabbia, delle notti accampati davanti al ministero e dei cinque giorni di marcia verso Gerusalemme che hanno costretto il governo Netanyahu a toccare con mano il gigantesco livello di solidarietà che si è creato intorno a queste famiglie. Contribuendo a convincerlo ad accettare un cessate il fuoco a lungo rifiutato. “Non conosciamo nessuno degli ostaggi, ma siamo qui comunque perché pensiamo che sia importante”, dice Annah, arrivata con i due figli di 9 e 12 anni. Gli altri, padri, madri, nonni, fratelli, sorelle e amici dei 212 rimasti a Gaza, e in particolare quelli di chi sa già che i suoi cari non saranno fra coloro che verranno rilasciati oggi o nei prossimi giorni (i sodati, maschi e femmine, gli uomini e i ragazzi e le ragazze catturati al Supernova festival: nessuno di loro è incluso nell’accordo, che riguarda solo donne e bambini) erano comunque in piazza: mesti, ma non per questo meno determinati. “È un giorno importante. È l’inizio di qualcosa”, ci dice Daniel Rahamin, 70 anni, portavoce del kibbutz di Nahal Oz, che il 7 ottobre ha contato 14 morti e cinque rapiti. “Deve tornare ciascuno di loro, altrimenti non potremo più considerarci una nazione: quando gente come me, come i miei figli, come i miei vicini, è abbandonata per venti ore senza aiuto, lo Stato ha l’obbligo morale di rimediare. Altrimenti non è più tale”. Daniel ieri ha passato il pomeriggio sotto una tenda insieme ai membri della sua comunità: uno accanto all’altro, hanno pianto quando sono arrivate le immagini, sperando che in un giorno non lontano a sfilare sulle macchine della Croce rossa ci siano i loro amici. Una speranza condivisa da molti: il più importante, probabilmente, ieri era Joe Biden: “Non ci fermeremo fino a quando tutti gli ostaggi non torneranno liberi”, ha detto il presidente americano, sottolineando anche come per gli Stati Uniti le possibilità di estendere la tregua siano “reali” e lo stop ai combattimenti sia “un’opportunità fondamentale” per portare aiuti ai civili di Gaza. I primi, di aiuti, hanno cominciato ad entrare ieri mattina: “Non bastano. Sono solo una goccia in un mare di disperazione”, dice un operatore umanitario che vuole restare anonimo. Poco lontano dalla tenda dei sopravvissuti di Nir Oz intanto, ieri pomeriggio Lea e Josep, nipoti di Ohad e Raz Ben Ami, 57 e 55 anni, portati via da Be’eri, sedevano su un gradino da soli, in lacrime: “Dobbiamo continuare a sperare. Dobbiamo continuare a venire qui e a fare rumore”, rispondevano a chi chiedeva come stessero. “Non è la fine questa, deve essere l’inizio”. Un’idea condivisa da molti ieri sera a Tel Aviv e in tutto Israele. Medio Oriente. La filosofa Rumiati: “Il silenzio delle femministe sugli stupri di Hamas del 7 ottobre è un cortocircuito nell’agenda delle donne” di Maria Novella De Luca La Repubblica, 25 novembre 2023 “Ma come è possibile, mi chiedo, che in Europa, negli Stati Uniti, in Italia, il MeToo taccia?”. “Il silenzio del femminismo sugli stupri del 7 ottobre è grave, colpevole, un vero cortocircuito nell’agenda delle donne. Noi, in quanto femministe, dobbiamo essere solidali con tutte le vittime di abusi sessuali. Ovunque ci sia una violenza, dentro e fuori i conflitti, non si può essere di parte di fronte a una donna che subisce violenza di genere. Parlare delle atroci violenze sessuali compiute dai miliziani di Hamas su tutte quelle donne, ragazze, bambine, non ci fa mica dimenticare i bambini che muoiono a Gaza”. Raffaella Rumiati è filosofa e neuropsicologa, insegna alla “Scuola superiore di studi avanzati” di Trieste e all’università di Tor Vergata Roma. Fa parte del gruppo di accademici che si erano opposti al boicottaggio degli atenei israeliano, promuovendo un contro appello, perché, dice: “Il mondo della cultura deve creare ponti, non erigere muri”. Professoressa Rumiati, lei è stata una delle prime in Italia a denunciare il silenzio del femminismo sugli stupri di Hamas durante il massacro del 7 ottobre. Perché questo oblio? “Perché gli orrori subiti dalle donne israeliane per mano dei miliziani di Hamas sono stati divorati dalla logica del conflitto, come se denunciare quelle violenze potesse mettere in ombra quanto stava succedendo a Gaza. Ma il femminismo dovrebbe sostenere tutte le vittime di stupro, senza differenze, in qualunque conflitto. È la nostra “differenza”. Evidentemente, questa volta, con il suo agghiacciante silenzio, anche un movimento come il “MeToo” ha ritenuto di serie B gli stupri subiti dalle donne, ragazze e bambine israeliane”. Le femministe francesi però hanno lanciato un appello, invece, perché i fatti del 7 ottobre venissero definiti un “femminicidio di massa”... “Sì, ma sono state a lungo l’unica voce che chiedeva giustizia. E le organizzazioni Onu contro la violenza di genere? E le donne italiane? Per fortuna c’è stato l’intervento della vicepresidente del Parlamento Europeo, Pina Picierno. È come si ci fosse una distorsione nel conferire la nostra compassione: alcune donne stuprate sono vittime, altre meno. Ma questo è un colpo ferale al femminismo, alla sorellanza, ai diritti delle donne”. Tamar Herzig, storica dell’università di Tel Aviv, sottolinea che nel conflitto israelo-palestinese non esisteva lo stupro come crimine di guerra. O era comunque raro... “Hamas ha cambiato lo scenario, quelle violenze erano pianificate, erano appunto strumenti di guerra. Ancor di più la nostra voce di femministe dovrebbe essere forte. Non solo. Tutto questo silenzio è frutto anche della mentalità per cui alle vittime di stupro non si crede, si chiede sempre a chi è stata abusata di fornire prove di ciò che ha subito. Ma il punto cardine del femminismo è invece che noi alle donne crediamo. Questa volta contro gli stupri di Hamas la condanna del movimento delle donne è stata flebile o non c’è stata. Adesso non possiamo più tacere”. Medio Oriente. Netanyahu ha perso la guerra il 7 ottobre, trattare con Hamas è solo l’ultimo errore di Domenico Quirico La Stampa, 25 novembre 2023 Per la prima volta in settant’anni lo Stato ebraico si è mostrato vulnerabile con l’attacco ai kibbutz. Ora è in un vicolo cieco: o riduce Gaza a un cumulo di sabbia o si ritira garantendo il ritorno del nemico. Israele ha perso la guerra. Per la prima volta in settantaquattro anni. Ora i cannoni tacciono, per quattro giorni si spera, “prorogabili” come enuncia il linguaggio burocratico che non risparmia neppure la tragedia delle guerre. Ma il meccanismo del cessate il fuoco è avviato, seppure a puntate, Hamas distillerà la sua macabra contabilità, dieci oggi, dieci tra una settimana, nella liberazione degli ostaggi costringendo a prolungarlo, e avrà tempo di riorganizzarsi, mentre la rete delle pressioni internazionali si avvilupperà sulle intenzioni israeliane di riprendere gli attacchi. Che, a questo punto, la porrebbero dalla parte del torto anche con la tentennante solidarietà degli Stati Uniti. Il cui scopo fin dall’inizio è stato quello di acclimatarsi di nuovo sulla “normalità” degli ultimi decenni, fatta da un equilibrio di chiacchiere inutili sulla “necessità di risolvere finalmente il problema dei rapporti tra Israele e l’entità palestinese” e la realtà di crucci e orrori di una guerra di attentati, intifade e rappresaglie che non disturbavano troppo la normalità del nostro mondo. Si torna dunque alla routine. In questa parte del mondo supponiamo di essere savi per antonomasia. Lo Stato ebraico e i suoi generali hanno perso così l’iniziativa strategica. Ora restano sospesi in un nulla, tengono in mano una parte della Striscia di Gaza senza aver chiaro che fare: creare (ma glielo permetteranno?) uno spazio vuoto di uomini, un cumulo di sabbia e di rovine da presidiare a caro prezzo per evitare nuove incursioni? O ritirarsi lasciando mano libera al ritorno di Hamas a cui le sofferenze patite assicureranno ancor più consenso della popolazione? E poi ci sono le decine di migliaia di israeliani della frontiera Sud e di quella Nord con Hezbollah, sfollati interni da sostenere. Il fatto che non possano tornare a casa è la prova che la vittoria e la sicurezza promessa da Nethanyau sono una bugia. E per quanto tempo un Paese sviluppato come lo Stato ebraico reggerà una popolazione sotto le armi e una economia di guerra che allontana investimenti e progetti? Lenin raccomandava sempre di non rispondere alle provocazioni e di non lasciarsi imporre il luogo e il momento della battaglia. Era un saggio consiglio. L’errore di trattare con Hamas, con cui aveva dichiarato il 7 di ottobre l’unico rapporto possibile sarebbe stato l’annientamento, è stato soltanto l’ultimo e non il più grave. Non poteva far altro. Salvare le vite degli ostaggi è una buona causa. Come consentire rifornimenti ai fuggiaschi di Gaza. Il problema è diverso. Lo slogan “nessun surrogato della vittoria” è pericoloso, ma deriva dalla esperienza di una nazione che fin dal 1948 data della sua nascita travagliata non ha mai conosciuto sconfitta. È il sette ottobre, quando Hamas ha fatto sanguinosamente irruzione nel suo territorio e ucciso e rapito i suoi, che Israele è stato sconfitto: senza rimedio. Un mese e più di forsennata invasione di Gaza non ha posto rimedio a quel fatto, anzi l’ha semplicemente reso evidente. Il principio di decifrazione del Vicino Oriente e del suo ordine visibile è la confusione della violenza e della forza, questo è ciò che regola collere, rancori, oscurità dei casi e delle contingenze, definisce il netto confine tra vittoria e sconfitta. Israele ha perso la corazza della sua invincibilità, la certezza, dei suoi cittadini ma anche dei suoi nemici, che poteva esser scalfito da attentati anche sanguinosi; ma che Israele aveva nella sua esistenza radici invincibili. Israele è condannata ad esistere con le proprie azioni, con la manifestazione della sua forza superiore. È la certezza di questa realtà che crea le condizioni della sua sopravvivenza. Questo essere vivi, ma lavorati dagli enigmi di un destino, comporta il rischio di diventare uno stato bellicista, spinge a una tendenza all’isolamento, a una visione semplicistica del mondo diviso in due campi, quello della oscurità, i nemici, e quello della luce, noi stessi. Un rischio che anche gli Stati Uniti stanno scontando con la loro ingloriosa decadenza nel controllo del mondo. Gli Stati arabi e il nazionalismo palestinese non erano mai riusciti a infrangere questo paradigma, ci voleva un soggetto mosso da una fanatica distinzione tra luce e tenebre per riuscirci, qualcuno capace di organizzare, con gli odi e le intransigenze, un ciclopico sistema di chiuse e di dighe a funzionamento meccanico. Ed è quanto Hamas ha realizzato sanguinosamente il 7 di ottobre. Il problema insolubile di Israele, dopo aver perso la propria inviolabilità, era l’assenza di strategie praticabili, sperimentate: il nemico aveva pensato e realizzato l’impensabile. Dove andare da lì? L’antico bivio tra risposta flessibile, una escalation graduale di raid e bombardamenti mirati, e il suo contrario, la rappresaglia massiccia, non aveva più senso. Soprattutto di fronte alla propria opinione pubblica. Non restava che trasformare Gaza in un solco di rovine di qualche centinaio di chilometri. Troppo e troppo poco. Non c’era alternativa al distruggere, semmai la obiezione dovrebbe essere nel fatto che dopo 70 anni le cose stiano come stanno. Lo scopo proclamato, eliminare Hamas fino all’ultimo miliziano, era una condizione di vittoria irraggiungibile visto che il nemico era diluito tra una popolazione di due milioni di persone, nascosto sotto terra, deciso a pagare anche qualche prezzo per attirare Tzahal sempre più a fondo nella trappola di Gaza. E poi c’è l’opinione pubblica mondiale. Hamas non ha il problema di preoccuparsene, può usare i mezzi che vuole, poiché si proclama forza rivoluzionaria. Sa che questo è un incubo di Israele. L’opinione pubblica è qualcosa di immateriale e astratto, non ha diplomazia né eserciti, ma può essere più forte di entrambi, soprattutto in un Occidente stanco ed egoista che vuole impietrire il mondo in un senso di benessere, in un ordine apparente. E dopo un mese di guerra totale a Gaza le immagini dei massacri del 7 di ottobre sono sfumati nel passato, coperti da quelli delle rovine di Gaza che vomitano sulla strada tutto il loro fango di detriti, rottami, polvere, di altri bambini uccisi e del pigia pigia dei fuggiaschi che a mano a mano che errano sono cacciati attraverso i millenni.