Il carcere e l’ingiustizia degli affetti vietati di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 24 novembre 2023 La Corte costituzionale è prossimamente chiamata a decidere la questione, postale dal Magistrato di Sorveglianza di Spoleto, se in assenza di contrarie ragioni di sicurezza, sia conforme alla Costituzione vietare al detenuto di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza il controllo a vista da parte del personale di custodia. Si tratta di tema importante che nasce dalla assolutezza del divieto, che incide, come la stessa Corte costituzionale ha in passato affermato, su “una esigenza reale e fortemente avvertita... quella di permettere alle persone sottoposte a restrizione della libertà personale di continuare ad avere relazioni affettive intime, anche a carattere sessuale. Si tratta di un problema che merita ogni attenzione da parte del legislatore, anche alla luce delle indicazioni provenienti dagli atti sovranazionali e dall’esperienza comparatistica che vede un numero sempre crescente di Stati riconoscere, in varie forme e con diversi limiti, il diritto dei detenuti ad una vita affettiva e sessuale intramuraria”. Il legislatore non ha fino ad ora provveduto. Una legge delega (n. 103 del 2017) stabiliva che il governo provvedesse a stabilire “il riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute e internate e la disciplina delle condizioni generali per il suo esercizio”. Ma il governo di allora (2018) esercitò la delega su altri temi, lasciando senza risposta quello ora ricordato. Cosicché la questione rimane senza soluzione, mentre l’attenzione rimane viva, come dimostra un appello pubblico redatto dal professor Andrea Pugiotto, che si rivolge alla Corte costituzionale ed ha trovato numerosissime adesioni. Diversi Stati europei in un modo o nell’altro vi hanno dato risposta positiva (come tra gli altri Francia, Svizzera, Austria, Slovenia, Spagna). Numerose sono le indicazioni e sollecitazioni provenienti da organismi europei, tra i quali il Consiglio d’Europa. Ed anche la Corte europea dei diritti umani - pur riconoscendo agli Stati un margine di apprezzamento sul come regolare la materia - ha manifestato apprezzamento verso un tale indirizzo. Il Magistrato di Sorveglianza doveva decidere il reclamo di un detenuto al quale - conformemente alle norme vigenti dell’Ordinamento penitenziario - era negata la possibilità di incontri riservati e intimi, anche di natura sessuale con la compagna convivente. In effetti ora i colloqui con i famigliari sono obbligatoriamente sorvegliati dal personale penitenziario. Ma si tratta di “una amputazione … radicale di un elemento costitutivo della personalità, quale la dimensione sessuale dell’affettività” che si traduce in una vessazione “umiliante e degradante” non solo per il recluso, ma anche per il/la partner. È infatti una vera e propria pena corporale, non espressamente prevista dalla legge e non irrogata dal giudice, ma di fatto concretamente imposta al detenuto ed anche al/alla partner. A questo proposito merita di essere segnalata la grave realtà della imposizione di vere e proprie pene di diversa natura a chi è del tutto incolpevole: qui il/la partner, ma si deve considerare l’insieme dei famigliari ed anche altri che si trovavano in legittime e importanti relazioni con il detenuto prima che venisse incarcerato. Questione seria, in parte certo inevitabile, ma che nella legislazione e nella sua applicazione dovrebbe essere tenuta in conto, per ridurne quanto più possibile l’incidenza. La Costituzione e la Convenzione europea dei diritti umani vietano le pene che si traducono in trattamenti contrari al senso di umanità ed è stato ripetutamente affermato che la pena detentiva non porta con sé la limitazione di diritti diversi da quelli strettamente dipendenti dalla restrizione della libertà. L’ammissione di momenti di intimità tra congiunti, come i coniugi, le persone legate da unione civile o conviventi di fatto non è necessariamente impedita dalla carcerazione, quando non esistano ragioni di sicurezza. Tali incontri riservati in locali adeguati possono essere organizzati. La possibilità di simili incontri è anche necessaria per corrispondere ad una esigenza costituzionale, come quella di tutela della vita famigliare. Non è dubbio che nell’attuale regime dei colloqui in carcere è serio il rischio di un logoramento dei rapporti di coppia (da parte di entrambi i soggetti), mentre tutta la legislazione tende a mantenerli quanto più possibile integri (colloqui, vicinanza del luogo di detenzione, telefonate, ecc.), anche in vista della ripresa della vita libera al termine della carcerazione. La regolamentazione conseguente al venir meno dell’attuale divieto può essere delicata. Soluzioni eccessivamente burocratizzate negherebbero il carattere degli incontri di cui si tratta e vanno contemperate con le esigenze proprie dell’organizzazione carceraria. La Corte costituzionale potrebbe trovare una soluzione che affermi per intanto l’incostituzionalità dell’attuale situazione normativa, indicando al legislatore la necessità di infine provvedere ad una adeguata soluzione. Ciò che non dovrebbe protrarsi è un regime detentivo incompatibile con ciò che la detenzione deve garantire e non impedire. Propaganda e populismo: ecco il ddl sicurezza di Daniele Barbaresi, Lara Ghiglione, Emilio Miceli collettiva.it, 24 novembre 2023 Le soluzioni proposte dal governo vanno verso l’inasprimento delle pene, l’azione repressiva dei conflitti sociali e la codificazione di nuovi reati. Lo schema di disegno di legge in tema di sicurezza pubblica, tutela del personale in servizio e ordinamento penitenziario, approvato di recente dal Consiglio dei ministri è un condensato di propaganda e populismo istituzionale diretto più a dare risposte emergenziali di ordine pubblico che non ad affrontare il tema della sicurezza come questione sociale. Questione cui vanno date risposte di carattere politico, dirette a superare le diseguaglianze presenti nel Paese: dalla povertà alla crisi alloggiativa, dalla tutela degli operatori delle forze di polizia ai temi dell’accoglienza degli immigrati. Anche la questione carcere viene affrontata con un’impostazione panpenalista, giustizialista. Un’ulteriore conferma di quanto questo governo, tutto, compattamente, pensa in tema di giustizia, sicurezza e carcere. Lo spirito e le iniziative che sono messe in campo in questo disegno di legge sono le stesse del decreto Caivano, del decreto rave. Le soluzioni proposte vanno come sempre verso un inasprimento delle pene e nella codificazione di nuovi reati. Sono pericolosissime, inoltre, non solo per le libertà individuali, ma anche per la tenuta democratica del Paese, laddove si riducono gli spazi di protesta trasformando alcune azioni da soggette a sanzione amministrativa a veri e propri reati. Si pensa di rispondere a ogni problema soltanto con il diritto penale e con pene sempre più severe, nonostante tutte le evidenze dimostrino che non è così che si prevengono i reati. Nonostante da tempo giuristi, studiosi, organizzazioni della società civile, la stessa Cgil, stiano chiedendo, invece, la depenalizzazione di alcuni reati minori e l’ampliamento del ricorso alle misure alternative. Mentre, da una parte, con la legge Nordio è abolito il reato di abuso d’ufficio, limitato l’uso delle intercettazioni e introdotto l’interrogatorio preventivo che limita il controllo del giudice sull’iniziativa cautelare, si allungano i tempi del processo e si limita il potere del pubblico ministero, previsioni legislative a tutela di alcune specifiche categorie sociali, dall’altra si colpiscono, inasprendo le pene, tutti quei comportamenti che nascono e si determinano in ambienti di povertà, disagio, marginalità e degrado sociale che avrebbero bisogno di una più forte presenza dei servizi sociali e di una rete di sostegno. Siamo di fronte a un pacchetto di misure che, oltre a introdurre il reato di rivolta in carcere, peraltro già sanzionato da altre norme penali, che non si limita a perseguire (com’è ovvio), gli atti di violenza, ma qualsiasi forma di protesta, persino la resistenza passiva, rendendo quindi impossibile qualsiasi forma pacifica di dissenso: siamo all’assurdo che un detenuto che batte le sbarre per richiamare l’attenzione, rischia fino a ulteriori otto anni di carcere. Si aggravano, poi,le pene per chi imbratta beni in uso alle forze di polizia o ad altri soggetti pubblici, viene previsto anche il daspo per accattonaggio per i minori. Estremamente afflittiva, populista e demagogica è la previsione di istituire, per finanziare il fondo di solidarietà per le vittime di reati di stampo mafioso, un contributo obbligatorio a carico dei detenuti che lavorano, che devono destinare a quello il 2% della loro retribuzione. In questo modo si attribuiscono obblighi che sono dello Stato e della finanza pubblica a persone che, oltretutto, hanno scarse possibilità di accesso al lavoro, spesso saltuario, con basse retribuzioni. In tema di esecuzione penale, in particolare, rilevante è la previsione del carcere nei confronti di donne incinte, eseguita anche in presenza di figlio minore di tre anni. Si elimina l’obbligo di rinvio dell’esecuzione della pena per le donne incinte e per le madri di bambini fino a tre anni, con l’obbligatorietà della reclusione per le madri con bambini di età superiore a tre anni. Una norma, questa, che non avrà alcun effetto di deterrenza, ma che contribuirà all’affollamento delle carceri e alla presenza di minori all’interno degli istituti. Abbiamo sostenuto, anche con iniziative pubbliche, che nessun bambino deve varcare la soglia del carcere, che anche gli Icam sono strutture da superare, perché sempre di carcere si tratta, e la necessità di istituire finalmente le case famiglia per le madri con bambini, già previste per legge e mai realizzate. La pena è privazione della libertà, e deve sempre avere il fine rieducativo che viene a essa riconosciuto dalla Costituzione. Sono i regimi reazionari, storicamente, che ritengono il carcere e l’inasprimento delle pene un deterrente, ma fin dai tempi di Beccaria sappiamo che così non è. Nell’ambito delle tutele al personale delle forze di polizia assistiamo a un esercizio di propaganda che solletica l’aspetto corporativo di alcuni sindacati di polizia. Nei giorni scorsi il governo ha incontrato i rappresentanti delle forze di polizia e delle forze armate e, al di là della retorica sull’importanza del ruolo, l’appuntamento si è rivelato solo uno spunto di promozione del provvedimento sulla sicurezza come strumento di tutela degli operatori. La propaganda sul miliardo e mezzo di euro per la sicurezza e il soccorso per il rinnovo dei contratti, si scontra con la concretezza di risorse che sono solo in parte stanziate e che comunque sarebbero inferiori a quelle complessivamente disponibili nel triennio precedente con inflazione molto più bassa. E con l’idea di finanziare l’aumento dell’ora di lavoro straordinario con gli appostamenti contrattuali, ciò comporterà un’ulteriore riduzione degli incrementi stipendiali previsti. Dopo due anni senza contratto, si parla di un aumento lordo a regime del 5,80 per cento che non permette un recupero reale del tasso inflattivo che tra 2022 e 2023 si è attestato su numeri a due cifre. Inoltre, non sono stati previsti investimenti nella formazione, nelle assunzioni, nella previdenza pubblica e complementare per assicurare il giusto tenore di vita al termine dell’attività lavorativa, nel potenziamento di mezzi e strutture al di là delle risorse ordinarie. Il concetto di tutela non si esprime tramite le giuste risorse per i contratti per la formazione, per il benessere organizzativo, per le assunzioni ma, invece, nell’inasprimento delle pene per i reati connessi alla resistenza a pubblico ufficiale anche per quanto riguarda gli istituti penitenziari e i centri di trattenimento e accoglienza per i migranti. Inasprimento che si estende anche agli immobili e ai mezzi in uso alle forze di polizia. In questo contesto riteniamo gravissima l’autorizzazione alla detenzione di una seconda arma senza licenza per gli operatori di polizia che suona come un riconoscimento a un esercizio della sicurezza quasi in forma privata non compatibile con il nostro ordinamento costituzionale. Anche in merito alla tutela dei lavoratori della polizia penitenziaria negli istituti di detenzione riteniamo che così come definita nello schema di disegno di legge, la disposizione non garantisce i diritti del personale. La sicurezza intesa solo come atto repressivo anche all’interno delle carceri rischia di generare ancora più tensioni e conflittualità. Il tema della sicurezza viene declinato solo come azione repressiva dei conflitti sociali, quando invece servirebbe una formazione e valorizzazione dei lavoratori delle forze di polizia e non una difesa corporativa. I lavoratori in divisa meritano invece ben altro riconoscimento e rispetto, attraverso un piano straordinario di assunzioni per superare le gravi carenze d’organico, un piano di formazione finalizzato alla gestione più adeguata degli eventi critici, la valorizzazione e crescita professionale attraverso un contratto collettivo nazionale di lavoro più moderno e innovativo. L’intero schema di disegno di legge interviene sulla costituzione materiale del Paese, anticipando i temi della riforma costituzionale che il governo intende portare avanti, con disposizioni che preparano il terreno per l’azione di una riforma in senso autoritario. Percorrere la “Via Maestra” per la difesa della Costituzione significa mettere al centro i diritti di tutti, persone libere e persone ristrette, e soprattutto di tutte le persone che più hanno bisogno di supporto e sostegno. Non è con pene sempre più severe che si risponde al bisogno di sicurezza, d’inclusione e giustizia sociale. Il ddl sicurezza deve essere ritirato perché è inaccettabile tutta l’ideologia che lo ispira, che è quella che i padri costituenti hanno voluto superare quando hanno disegnato un sistema inclusivo, dove i diritti di tutti sono garantiti, a partire dalla loro piena esigibilità per le persone più fragili, più deboli, riconoscendo i diritti inviolabili dell’uomo, richiedendo l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Sicurezza, il disegno di legge deve essere ritirato di Daniela Barbaresi* e Denise Amerini* collettiva.it, 24 novembre 2023 Il provvedimento approvato dal governo è inefficace e dannoso, perché introduce nuovi reati e inasprisce le pene. Dopo il cosiddetto decreto rave e dopo il decreto Caivano, arriva il disegno di legge sicurezza, il cosiddetto pacchetto giustizia: una serie di misure che introducono nuovi reati e inaspriscono le pene già previste nel nostro ordinamento. A conferma di quanto questo governo, tutto, compattamente, pensa in tema di giustizia e carcere, anche se qualcuno, il ministro della Giustizia, continua ad autodefinirsi un garantista. Inasprire non serve - Si pensa di risolvere ogni problema soltanto con il diritto penale, con l’introduzione di nuovi reati, con pene sempre più severe, nonostante tutte le evidenze dimostrino che non è con l’inasprimento delle pene che si prevengono i reati. Fin dai tempi di Beccaria e di Manzoni lo sappiamo. E da allora la direzione è sempre stata tendenzialmente quella dell’umanizzazione della pena, dall’abolizione della pena di morte, dei lavori forzati, dell’introduzione delle misure alternative alla detenzione, della dichiarazione di incostituzionalità dell’ergastolo. Inversione di marcia - Oggi, invece, siamo di fronte a una pericolosissima inversione di marcia, che non tiene minimamente conto delle evidenze, dei numeri, dei fatti, di quanto da tempo molti, giuristi, studiosi, associazioni, garanti, e la stessa nostra organizzazione, stanno chiedendo, a partire dalla depenalizzazione di alcuni reati minori e dall’ampliamento del ricorso alle misure alternative, con la piena applicazione dell’articolo 27 della Costituzione, garantendo alle persone ristrette i diritti individuali, civili, che la detenzione non può e non deve negare, come il lavoro, la salute, l’istruzione, gli affetti. La pena nella Costituzione - La pena è la privazione della libertà e deve sempre avere il fine riconosciuto dalla Costituzione. Oggi, invece, siamo di fronte a un pacchetto di misure che, oltre a introdurre il reato di rivolta in carcere, peraltro già esistente, che non si limita a perseguire, com’è ovvio, gli atti di violenza, ma qualsiasi forma di protesta, aggrava le pene per chi imbratta beni in uso alle forze di polizia o ad altri soggetti pubblici, prevede il daspo (divieti di accesso a luoghi ad alta frequentazione) per accattonaggio per i minori, ma soprattutto, elimina l’obbligo di rinvio dell’esecuzione della pena per le donne incinte e per le madri di bambini fino a tre anni, con l’obbligatorietà della reclusione per le madri con bambini di età superiore a tre anni. Nessun bambino in carcere - Abbiamo sostenuto, anche con iniziative pubbliche, che nessun bambino deve varcare la soglia del carcere, che anche gli Icam (istituti a custodia attenuata per detenute madri) sono strutture da superare, perché sempre di carcere si tratta, e la necessità di istituire finalmente le case famiglia per le madri con bambini, già previste per legge e mai realizzate. Sappiamo come è andata a finire, proprio in questa legislatura: il ritiro della proposta di legge Siani/Serracchiani per gli emendamenti presentati dalla maggioranza che ne snaturavano completamente contenuti e finalità. La Via Maestra - Percorrere la “Via Maestra” per la difesa della Costituzione significa mettere al centro i diritti di tutti, persone libere e persone ristrette, e soprattutto di tutti coloro che più hanno bisogno di supporto e sostegno. Non è con pene sempre più severe che si risponde al bisogno di sicurezza, d’inclusione e giustizia sociale. Il disegno di legge sicurezza deve essere ritirato. *Daniela Barbaresi è segretaria confederale Cgil. **Denise Amerini è responsabile dipendenze e carcere dell’area Stato sociale e diritti della Cgil Ddl sicurezza, l’avvocato Conte: “Criminalizza la sofferenza in carcere” di Chiara Evangelista lasestina.unimi.it, 24 novembre 2023 Il nuovo provvedimento approvato dal Governo prevede l’introduzione di norme più dure contro le rivolte dei detenuti. Il 18 novembre il consiglio dei ministri ha approvato un nuovo pacchetto sicurezza che prevede una serie di norme per combattere la criminalità diffusa. Alcune di queste hanno creato polemica, soprattutto quella che riguarda la possibilità per le forze dell’ordine di girare armate anche fuori servizio e l’abolizione del rinvio della pena per le neomamme. Tra le disposizioni anche quelle che riguardano le rivolte in carcere. “Credo che il disegno di legge voglia mirare a soddisfare le istanze di alcuni sindacati autonomi di polizia penitenziaria”. A dirlo è Paolo Conte, avvocato, che è il legale dei parenti di Vincenzo Cacace. L’uomo, che all’epoca era sulla sedia a rotelle e che è morto nel 2022 per cause naturali, era tra i detenuti che sarebbero stati picchiati il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. È in corso un processo per l’accertamento dei fatti. Nel ddl viene introdotta anche una nuova fattispecie di reato: “rivolta in istituto penitenziario”. “Questa norma consentirebbe l’incriminazione di coloro che organizzano anche solo una semplice “battitura”, cioè la pacifica contestazione da parte dei detenuti realizzata battendo, appunto, le stoviglie contro la porta della cella. Nella disposizione, inoltre, si prevede la stessa pena sia per chi organizza una rivolta sia per chi solo pratichi “resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini”. C’è differenza, non si possono porre sullo stesso piano. E poi, credo che questo tipo di reato nasca proprio dai fatti avvenuti in quell’aprile 2020, a Santa Maria Capua Vetere. Era il periodo di pandemia, le condizioni in cella erano invivibili. In carcere tra i detenuti c’era agitazione, i colloqui erano stati sospesi. Il 5 aprile protestarono, in modo pacifico. Il giorno dopo è accaduto il pestaggio da parte degli agenti”. L’Unione delle Camere Penali Italiane, in merito a questa fattispecie di reato, parla di “irragionevole rigore punitivo nei confronti dei soggetti più deboli”... “Questa disposizione, se dovesse entrare in vigore, criminalizzerebbe la sofferenza in carcere e punirebbe la resistenza passiva. Il nostro governo non conosce le condizioni della vita in cella, se non attraverso la lente dei sindacati autonomi di polizia penitenziaria. Il sovraffollamento, l’occupazione degli spazi al di sotto dei limiti consentiti…”. Se da un lato si penalizza l’opposizione agli ordini, dall’altro si pensa a modificare il reato di tortura... “Nell’agenda di governo si vorrebbe abolire questa fattispecie. Nei casi di rivolta, così facendo, la polizia penitenziaria avrebbe più spazi di intervento. L’esecutivo, anziché proporsi di punire severamente comportamenti inoffensivi quali la resistenza passiva, dovrebbe farsi carico delle proprie responsabilità e rispondere agli obblighi imposti dalla Costituzione e dalla CEDU, che prevedono il divieto di infliggere pene o trattamenti inumani o degradanti. Il reato di tortura esiste, ci sono diversi processi in piedi per questo”. In conclusione, il nuovo “pacchetto sicurezza”, è un esempio di populismo giustizialista o di iniziativa legislativa nel nostro sistema giuridico? “Si inserisce nella politica del governo, che si riassume nella ricerca del consenso elettorale. Questo si ottiene rispondendo agli eventi sociali con la repressione penale. Quando esiste un fenomeno criminale, però, bisognerebbe interrogarsi sulle cause che l’hanno portato a verificarsi, piuttosto che introdurre sanzioni che fungano da deterrente”. La vergogna dei minori in cella con le madri. Ma che sicurezza è? di Giuseppe Anzani Avvenire, 24 novembre 2023 Nel pacchetto di misure che il governo ci ha regalato per la nostra sicurezza, cioè per i nostri sonni tranquilli, ce n’è una che il sonno me l’ha tolto: il carcere per i bambini. Io so, e tutti sanno, che i bambini piccoli non è neanche serio pensare che abbiano fatto qualcosa di male da doverli punire. La loro mamma sì, la loro mamma può aver fatto qualche delitto, per esempio può aver rubato un borsellino sul metrò (sembra questa oggi l’ossessione), e quando è stata presa va mandata in prigione come tutti, perché la legge è uguale per tutti. Giusto, niente impunità. Ma i bambini? I bambini ancora nel grembo, i bambini alla poppa, i bambini appena ritti e sgambettanti alla gonna, vi par giusto che passino un tempo di vita, così importante, così decisivo sul futuro, che lo passino dietro sbarre e porte blindate, in una esclusione sociale preventiva, una esperienza di privazione che può essere devastante per la psiche, per il carattere, per la vita? La legge italiana vigente finora non è così feroce. Prevede in caso di arresto che la custodia preventiva in carcere si può applicare solo quando ogni altra misura risulti inadeguata; e comunque non può essere disposta nei confronti di una donna incinta o madre di figli fino a sei anni (art. 275 cod. proc. pen.). Poi viene il processo, e se colpevole la condanna, e la madre deve finire in carcere; ma l’esecuzione è rinviata obbligatoriamente se la donna è incinta o mamma di un bimbo di età inferiore a un anno (art. 146 cod. pen.). Ora la novità annunciata sarebbe che il rinvio dell’esecuzione non sarebbe più obbligatorio, ma facoltativo; vale a dire che una donna incinta o con in braccio il bimbo di pochi mesi se lo potrebbe trovar chiuso in galera con sé (in custodia attenuata ma sempre galera), se così dicesse il giudice di sorveglianza. Leggo quello che hanno scritto gli psicologi, i pediatri, gli scienziati della prima infanzia, su ciò che si deposita nel profondo dell’essere nei giorni d’aurora della vita, nel bene e nel male, e rabbrividisco. Sì, ci sono alcune carceri “a custodia attenuata”; ci sono a volte delle sezioni interne ai bracci femminili che fungono da “nido”. Ma le cronache ci avvertono che non è scongiurata la disperazione, se una madre nel nido a Rebibbia - era il 2018, ricordate? - gettò i suoi due figli dalle scale a morire piuttosto che vivere reclusi tra i reclusi. E chissà se sappiamo qualcosa dei disturbi che accompagnano le disperazioni estreme; perché per chi ha un figlio non c’è maggior dolore che il dolore del figlio. I torturatori lo sanno bene. Che una sorta di tortura legale dovesse cessare, anziché essere così rilanciata, l’avevano promessa tutti i ministri della Giustizia. Ricordo quando Clemente Mastella (2007) venne al convegno “Perché nessun bambino varchi più la soglia del carcere”; quando Angelino Alfano (2009) dichiarò che “un bambino non può stare in cella”; quando Paola Severino (2013) disse che “in un Paese moderno è necessario offrire ai bambini, figli di detenute, un luogo dignitoso di crescita che non ne faccia dei reclusi senza esserlo”; quando Annamaria Cancellieri (2014) garantì: “Stiamo lavorando perché vogliamo far sì che non ci siano mai più bambini in carcere”; quando Andrea Orlando promise che “entro la fine dell’anno nessun bambino sarà più detenuto. Sarà la fine di questa vergogna contro il senso di umanità”. Oggi apprendiamo che questa vergogna contro il senso di umanità sarà inasprita per la nostra sicurezza. Sicuri, ma sì, sicuri della vergogna. Ha partorito 2 giorni fa. Domani la dimetteranno e il piccolo andrà in cella con lei di Piero Sansonetti L’Unità, 24 novembre 2023 Roba da Medioevo? Ma nel Medioevo non mettevano in prigione i neonati. Chissà come si chiama questo bambino. O questa bambina. Sappiamo solo che oggi ha un’età di due giorni. Domani compirà il terzo giorno e probabilmente sarà dimesso, o dimessa, dall’ospedale Pertini, a Roma. Però non verrà a prenderlo suo padre per accompagnarlo a casa con la mamma. Verranno dei carabinieri. Lo caricheranno su un furgone blu, con i finestrini protetti dalla grata di ferro, e lo porteranno, sempre insieme alla mamma, al carcere di Rebibbia. Non so se saranno necessarie delle pratiche burocratiche particolari. Se dovranno fargli le foto segnaletiche, quella di fronte e quella di profilo. Se gli sequestrarono il ciuccio. Di sicuro entrerà in cella per scontare la pena. Veramente, secondo le informazioni che ho raccolto, una pena precisa non c’è ancora. La mamma è in custodia cautelare. Dunque, finché non cancelleranno le nonne sulla presunzione di innocenza, la mamma in linea di principio è innocente. Però lo Stato non si fida. L’ha sbattuta in carcere quando era incinta e l’ha lasciata lì. Fino al nono mese. Stavolta i medici del Pertini sono riusciti a portarsela via e a ricoverarla in tempo. Recentemente a un’altra donna incinta successe che non fu autorizzata a trasferirsi in ospedale, e lei partorì in cella, aiutata e assistita dalle compagne. Stavolta è andata bene. Quindi nessuno scandalo. Niente da eccepire. Il bambino, o la bambina, inizierà la sua vita sperimentando la prigione. C’è una nuova scuola psicologica, in Italia, che sostiene che in fondo in fondo un po’ di prigione quando si è piccoli piccoli mica fa male. Ci hanno spiegato che per educare bene un ragazzo bisogna dirgli molti no. E già. E quale posto migliore della prigione per sentirsi dire dei no e sperimentare il nuovo modello educativo? Se cominci subito, appena nato, vedrai che verrai su bene. Ringrazia il giudice... “Sono Giorgia, sono donna, sono madre, sono cristiana”. Disse così, orgogliosa, la nostra presidente del Consiglio, ricordate? Beh, anche la mamma di questo bambino è donna, è madre, non sappiamo se è cristiana. Probabilmente (per motivi statistici) non si chiama Giorgia, per il resto ha molti punti in comune con Giorgia Meloni. E proprio a Giorgia Meloni che vorrei rivolgermi, perché la conosco un po’, e indovino anche il suo lato umano. Io capisco le necessità della realpolitik, capisco anche le necessità della campagna elettorale, la grande capacità di mobilitare voti che hanno il populismo e il giustizialismo: ma al di sopra di tutto questo lei non crede che sia insopportabile - da ogni punto di vista - che un bambino vada in prigione? Che una donna vada in prigione? Che una mamma vada in prigione? Non crede che ci siano altri strumenti per garantire la sicurezza? Non sente - da madre, da cristiana - la responsabilità per questa cosa infame che avverrà domani? Non pensa che esistano alcuni principi di civiltà non negoziabili, anche al costo di dover affrontare la furia dell’opinione pubblica e dei mass media? Non so nulla della madre di questo bambino, o bambina. Eppure qualcosa mi dice che senza grandi rischi potrei scommettere sulla sua origine. Sono quasi certo che è una donna rom. Quelle che plebescamente vengono chiamate zingare, con disprezzo, con ripulsa. In questi giorni, nei quali, giustamente, si lancia l’allarme sull’ estendersi dell’antisemitismo in tantissime città europee, e anche in Italia - anche questo giornale ha lanciato questo allarme, più volte - mi viene da pensare che negli ultimi 30 anni, o 40, o 50, io non ho mai visto né sentito - sui giornali, in Tv, più recentemente sui social - un allarme per il razzismo contro i rom. Credo che se prendi dieci giovani a caso e gli dici che 500 mila rom furono sterminati nei campi nazisti, e inceneriti nelle camere a gas, almeno nove cascherebbero dalle nuvole. Non lo sanno. Ho provato tante volte, in pubblico o in privato, a spiegare che il razzismo anti-rom è una infamia come il razzismo antisemita. Quasi mai, forse mai, ho convinto qualcuno. Ti rispondono, ti spiegano perché i rom sono malvagi, perché vanno puniti, fermati, controllati, imprigionati. Il razzismo peggiore è quello di chi pensa davvero che un gruppo etnico meriti di essere punito, sia malvagio. Dietro la Shoah, cioè prima della Shoah, in tutta Europa ci fu una vasta campagna di criminalizzazione degli ebrei, poi vennero le leggi speciali, infine la deportazione e lo sterminio. Le ultime leggi del governo, parlo di quelle sulla sicurezza, non so se l’avete notato, sono state definite dai giornali governative leggi anti-rom. Non per condannarle ma per esaltare la fermezza di chi le aveva pensate. Le leggi anti-rom, e la spavalderia con la quale si chiamano così, è il primo passo. È l’affermazione di uno spirito pubblico che spazza via tutto. Salta ogni barriera. Prima la decisione di mettere in Cpr anche i minorenni (approvata ieri in Commissione alla Camera) e poi la legge contro bambini e mamme incinte (che si limita a peggiorare leggi purtroppo già esistenti). In questi casi si dice: è un ritorno al Medioevo. Macché! Nel medioevo mica mettevano in prigione i bambini P.S. Grazie a Stefano Anastasia, garante dei detenuti per la Regione Lazio, che ieri ha diffuso questa notizia che altrimenti non avremmo mai conosciuto. Povero e più povero di Mattia Feltri La Stampa, 24 novembre 2023 Prosegue strenua la campagna di Giorgia Meloni contro i poteri forti. L’ultimo esempio: compilata la legge di bilancio, un occhio sulla calcolatrice, l’altro sui mercati, il consenso dell’Unione europea, l’assenso della Bce, un accordo con le banche, una mano tesa a Confindustria, il governo s’è accorto d’essere rimasto a corto di quattrini per il Fondo delle vittime dei reati di mafia. Accidenti. E adesso? Intollerabile per una presidente del Consiglio avviata alla politica in morte di Paolo Borsellino. Dunque? Vendere una quota del Monte dei Paschi? Espropriare tre magazzini di Amazon? Requisire gli yacht di George Soros? Mettere all’asta l’auto blu di Lollobrigida? E dai e dai, il colpo di genio è arrivato: e se prendessimo il denaro dalle buste paga dei carcerati? Ideona! Che poi “prendere” è una parola brutta. Chiamiamolo “contributo di solidarietà obbligatorio”. La solidarietà obbligatoria è un ossimoro ai confini del rivoluzionario, e rivoluzionario questo governo voleva essere e senz’altro lo è nel nuovo ordine di rubare ai poveri per dare ai poveri. Così se un detenuto fa il bibliotecario, impasta biscotti o assembla bulloni, gli si preleva il cinque per cento dallo stipendio. Già gli si preleva qualcosa per vitto e alloggio in cella, qualcosa per le spese processuali, per risarcire le vittime: un prelievo più, non se ne lamenteranno. E se si lamentano pazienza, tanto stanno sulle scatole a tutti. Che poi, a pensarci bene, questo fervore nell’introdurre nuovi reati e allungare le pene per i reati vecchi è una buona semina: più carcerati e in carcere più a lungo, ci si può rimediare una fortuna. Per pagare le vittime di mafia, Meloni tassa i carcerati che lavorano di Alberto Gentili huffingtonpost.it, 24 novembre 2023 Il governo lo chiama “contributo di solidarietà obbligatorio”, toglie il 5% sul compenso dei detenuti che avviano un percorso di reinserimento. Tutto per riparare a un danno commesso dal governo stesso, con la manovra, svuotando il Fondo per le vittime di usura, estorsione, mafia. A dispetto di ciò che hanno detto e promesso per una vita, le tasse sembrano essere la vera passione di Giorgia Meloni & C. Dopo l’aumento dell’Iva su pannolini e Tampax e delle accise per le sigarette, dopo l’incremento della cedolare secca per gli affitti brevi e i tagli alle pensioni, il governo ha deciso di spremere anche i carcerati. Per l’esattezza, introduce un “contributo di solidarietà” del 5% a carico dei detenuti che lavorano. Nessun problema, invece, per quelli che trascorrono la giornata in cella a “oziare” e “a girarsi i pollici”, come recitano gli slogan cari a Matteo Salvini e ai Fratelli d’Italia. La stretta fiscale sui detenuti lavoratori è contenuta nella bozza (il testo non è ancora pronto) del disegno di legge sulla sicurezza varato giovedì scorso. Quello che concede la pistola privata ai poliziotti fuori servizio (si stimano altre 300mila armi in circolazione), apre le porte della galera alle donne in gravidanza, vara il giro di vite contro le occupazioni abusive. Insomma, più reati, più pene, più carcere, più pistole, seguendo il copione securitario che ha portato Meloni a battezzare ben tre decreti-sicurezza in poco più di un anno. Un vero record. Ricordate? C’è stato il provvedimento d’urgenza contro i rave party, spacciati nel dicembre scorso come un’emergenza nazionale. Poi è arrivato il decreto Cutro che lanciò la caccia agli scafisti in “tutto il globo terracqueo” e la stretta sui migranti nei centri accoglienza e rimpatrio. E, sempre sull’onda emotiva che il populismo penale ama cavalcare soffiando sulla paura dei cittadini, c’è stato il decreto Caivano, con il carcere per le famiglie che non mandano i figli a scuola e per i piccoli spacciatori. Meglio, molto meglio, di quanto seppe fare Salvini quando stava al Viminale. Tant’è che il leghista, raccontano, soffre di un’invidia feroce. Vorrebbe essere lui, anche per ragioni elettorali, il direttore d’orchestra del vorticoso tintinnar di manette. Ma ecco il testo della norma che aumenta le tasse ai carcerati. Titolo: “Contributi al fondo per l’indennizzo in favore delle vittime dei reati di tipo mafioso”. Articolo: 30. “È disposto un contributo di solidarietà obbligatorio nella misura del 5% calcolato sulla retribuzione globale di fatto a carico di coloro che prestano attività lavorativa dentro e all’esterno del carcere in favore del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive, dell’usura e dei reati intenzionali violenti di cui all’art. 14 della legge del 7 luglio 2016, n. 122”. Qualcuno dirà: c’è un barlume di logica nel fatto che i carcerati vadano in soccorso di chi è vittima di usura e mafia. Qualcun altro osserverà: finalmente i cattivi sono costretti ad aiutare i buoni. In realtà il governo, roba da Robin Hood al contrario, ha deciso di tassare i detenuti, di togliere i soldi a chi non ce li ha, per riparare a un danno commesso con l’ultima legge di bilancio, quella ancora da approvare: il taglio al fondo di rotazione, appunto, destinato alle vittime di usura, estorsione, mafia. Debora Serracchiani, responsabile giustizia del Pd questa mattina a Montecitorio ha messo a verbale parlando con l’HuffPost: “È aberrante la proposta del governo secondo cui le risorse negate in legge di bilancio per il fondo per le vittime dell’usura e di mafia dovrebbero essere trovate con un prelievo forzato sugli stipendi dei detenuti che lavorano dentro e fuori dal carcere. In pratica il governo si disimpegna in modo vergognoso sul finanziamento di un fondo che ha un valore sociale ed etico, lasciando che sia finanziato dal lavoro dei detenuti”. In estrema sintesi: “Roba da lavori forzati”. Ma c’è di più. La stretta fiscale sui carcerati contraddice di fatto la Costituzione. Perché, come dice Federico Gianassi, capogruppo dem in commissione Giustizia, “sulla Carta è scritto che la pena ha principalmente il fine rieducativo e del reinserimento sociale”. E lavorare, come dimostrano le statistiche, offre ai detenuti la possibilità di trovare un’occupazione una volta usciti di prigione riducendo il rischio di tornare dietro le sbarre. Ma la Destra, d’istinto, predilige punire piuttosto che redimere. E disincentiva con il “contributo di solidarietà” un fattore di redenzione che negli ultimi anni è entrato in crisi: nel 2016 erano 16mila i detenuti che lavoravano, ora sono 11.692 a fronte di un totale di 56.127 carcerati. Se n’è accorto anche il governo. Tant’è che nella bozza dello stesso disegno di legge, c’è un capitolo dedicato a “favorire l’attività lavorativa dei detenuti”. Come? Allargando il numero delle imprese presso le quali può lavorare chi sconta una pena. Ma, vista l’aria che tira, più che un segnale di attenzione al tema del reinserimento, la mossa appare dettata dalla speranza di ampliare la platea da tassare. Più carcerati lavorano, più saranno i fondi per le vittime di mafia e usura. Astuta Meloni. Chissà cosa ne pensa il garantista Carlo Nordio, in arte Guardasigilli. Femminicidio di Alice Scagni, il fratello-killer Alberto di nuovo aggredito in carcere di Marco Lignana La Repubblica, 24 novembre 2023 Intervista alla madre, Antonella Zarri: “Lo Stato invece di curarlo vuole vendetta. Viviamo in un Paese dove un ministro chiede il carcere a vita prima dei processi” È successo di nuovo. Dopo un’aggressione a Genova, nel carcere di Marassi, la storia si è ripetuta nell’istituto penitenziario di Sanremo. Solo che stavolta è andata molto peggio: Alberto Scagni, il killer della sorella Alice, condannato a 24 anni e 6 mesi in primo grado, ora è ricoverato in ospedale dopo essere stato brutalmente pestato, sequestrato e minacciato di morte da tre compagni di cella. La denuncia è di Fabio Pagani, segretario regionale Uil polizia penitenziaria Liguria, che racconta di un detenuto “noto alle cronache e di recente trasferito a Sanremo brutalmente aggredito in cella dai suoi coincellini (totali presenti in camera quattro), sequestrato e minacciato di morte, probabile per reati da lui commessi”. In più viene riportata “una trattativa durata ore: solo l’arrivo del Magistrato di turno e del Direttore, che hanno disposto l’ingresso in cella della Polizia penitenziaria, con utilizzo della forza per salvare il detenuto aggredito brutalmente e sequestrato, hanno evitato morte certa (tentato omicidio)”. Alberto Scagni, che era recluso nell’area “protetti”, è adesso ricoverato all’ospedale di Sanremo (in un primo momento era trapelato che fosse al Santa Corona di Pietra Ligure): secondo quanto appreso da Repubblica, non è pericolo di vita anche se le sue condizioni sono decisamente gravi. Ferito anche un poliziotto intervenuto nella cella. Al momento due detenuti, maghrebini, sono stati arrestati per tentato omicidio e sequestro di persona. Pagani ricorda come “non è passato tanto tempo dall’omicidio avvenuto in Sesta Primo piano nel Carcere di Genova Marassi 13 settembre scorso”. E quindi sottolinea “la perdurante emergenza penitenziaria, sotto gli occhi di tutti tranne che del Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e del Governo Meloni, fatta di sovraffollamento detentivo, insufficienza degli organici del personale, inadeguatezza di tecnologie ed equipaggiamenti e disorganizzazione imperante. Tutti elementi questi, particolarmente evidenti a Sanremo”. Parla la madre di Alberto e Alice. Parole durissime, da parte di chi ormai guarda al mondo con totale disincanto. Antonella Zarri, madre di Alice e Alberto Scagni, risponde al telefono mentre è in macchina. È stata avvertita dell’aggressione brutale nei confronti di suo figlio, detenuto per aver ucciso la sorella, dai legali. Antonella Zarri, come sta suo figlio? “Non è in pericolo di vita, ma non avevo dubbi. Immagino che a loro serva vivo per picchiarlo ancora”. Per “loro” chi intende? “Intendo lo Stato, che è responsabile di come viene trattato qualsiasi detenuto, compreso Alberto. Noi abbiamo sempre chiesto giustizia, qui ormai siamo alla vendetta. Ma non mi stupisce nulla, lo Stato ci aveva abbandonato anche prima, quando avevamo chiesto aiuto temendo esattamente quello che poi è successo. L’unica coraggiosa è stata Alice, che ormai non c’è più”. Intendete fare qualche passo formale? “Cosa vuole che facciamo, l’avvocato ha chiesto al carcere e gli hanno detto di mandare una Pec. Qualcuno ha scritto che è stato torturato, ma tanto il governo il reato di tortura vuole abrogarlo, mi sembra del tutto conseguente. Sembriamo su Scherzi a Parte, se non fosse stata uccisa mia figlia”. Per quel delitto Alberto è stato condannato a 24 anni... “E infatti lo ripeterò per sempre, non abbiamo chiesto assoluzioni, ma giusta pena. Ma siamo in uno Stato dove un ministro (Matteo Salvini, ndr) parla di carcere a vita quando ancora si deve fare un processo”. Si riferisce al femminicidio di Giulia Cecchettin... “Adesso stanno cercando i segnali che potevano evitare quel è accaduto a quella povera ragazza. Ecco se parliamo di segnali noi ne abbiamo lanciati prima e dopo la morte di Alice. Ma il processo insieme ad Alberto lo hanno fatto a noi. Comunque si mettano il cuore in pace, noi continueremo a dire quello che pensiamo, che Alberto era malato, che noi abbiamo cercato i servizi di salute mentale, e che quel giorno abbiamo implorato ai poliziotti di intervenire”. Le risulta che stiano curando Alberto Scagni, giudicato semi-infermo di mente, in carcere? “Ha visto come lo stanno curando bene? E mica è in una cella singola, i suoi compagni detenuti direi che li hanno scelti per bene”. State Calmi di Maurizio Crippa Il Foglio, 24 novembre 2023 Alberto Scagni, condannato a 24 anni e detenuto per avere ucciso la sorella, è stato sequestrato in cella e massacrato di botte da due compagni di pena. Un fatto indegno di un sistema penitenziario civile. Ma, in un sistema mediatico ancora più incivile, la notizia è stata confezionata come se si trattasse di una punizione per il femminicidio. La canea dei commenti immaginatela voi. La notizia di cronaca, indegna di un paese civile e che abbia un sistema penitenziario civile, è questa: un detenuto della sezione “detenuti protetti” del carcere di Sanremo è stato sequestrato per un’intera notte e massacrato di botte da due detenuti della stessa cella ed è stato salvato per miracolo dagli agenti penitenziari, in grave ritardo. Alberto Scagni è l’uomo che uccise a coltellate la sorella e sta scontando 24 anni di pena. La notizia, per come è stata riportata dalle cronache, in modo indegno per un paese che abbia un’informazione civile, è però questa. Ansa: “Uccise la sorella Alice, sequestrato e picchiato in carcere a Sanremo”. Repubblica: “Femminicidio di Alice Scagni, il fratello killer Alberto di nuovo aggredito in carcere”. Tgcom24: “Uccise la sorella a Genova, Alberto Scagni sequestrato e picchiato in carcere”. In questo clima mediatico ed emotivo, tra pene esemplari e #fermarelastrage, la notizia del quasi ammazzamento di un detenuto è dunque passata attraverso i media come un caso di vendetta per un femminicidio (peccato che i suoi massacratori siano in carcere per violenza sessuale, non proprio maschi affitti dal senso di colpa). Non riportiamo, per orrore, i commenti sui social. Immaginateli. Diciamo solo: state calmi. Nuovo ddl anti-violenza: cosa cambia davvero? di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 24 novembre 2023 Destra e sinistra d’accordo sul nuovo disegno di legge approvato al Senato che prevede misure più stingenti per stalker e maltrattamenti. È un testo corposo di diciannove articoli il ddl sul rafforzamento delle misure di contrasto alla violenza sulle donne, principalmente in ambito familiare, approvato in via definitiva in Senato. È Il cosiddetto ddl Roccella, dal nome della ministra delle Pari opportunità che lo ha realizzato insieme ai ministri dell’Interno Matteo Piantedosi e della Giustizia Carlo Nordio. Alla Camera era stato approvato a fine ottobre all’unanimità e sempre all’unanimità ha avuto il via libera al Senato ed è dunque diventato legge mercoledì pomeriggio, il 22 novembre, tra gli applausi di tutte e due le parti dell’emiciclo di Palazzo Madama. È un testo importante. Prevede una stretta a tutto tondo sulle misure di contrasto alla violenza sulle donne, ma il suo obiettivo principale è quello di rafforzare la cosiddetta prevenzione secondaria. È fondamentale questa prevenzione che si dice secondaria perché mira a tutelare la donna dopo che ha denunciato l’uomo violento. Tempistica - Ci vuole coraggio a fare questo passo, troppo spesso è proprio dopo la denuncia che la violenza dell’uomo sfocia nella furia dell’omicidio. Ecco quindi che la nuova legge prevede la necessità di velocizzare la valutazione da parte del giudice delle esigenze cautelari: deve decidere entro trenta giorni. E deve poi applicarle entro venti. I reati spia - Le esigenze cautelari vengono estese ai cosiddetti “reati spia” che sono reati che prima venivano trascurati e che invece sono i più pericolosi. Per questi reati la donna vittima di violenza può chiedere al questore l’ammonimento. Parliamo del reato di stalker, per primo e in generale di tutti quegli atti che hanno carattere persecutorio: la violenza privata, la minaccia aggravata, la violazione di domicilio. Anche lo sfregio con l’acido. È stato messo tra i reati spia pure il revenge porn, quell’orribile sfregio di far girare in rete o sui social filmini della donna ripresa in momenti di intimità. Flagranza differita - Tra le misure più innovative l’arresto in flagranza differita. Vuol dire che l’uomo violento può essere arrestato anche dopo aver commesso il reato, purché entro le quarantotto ore e con prove evidenti, come ad esempio le riprese di telecamere o anche di video amatoriali. Braccialetto elettronico - Quanto al braccialetto elettronico, la nuova legge prevede un obbligo di verificare la funzionalità di questo braccialetto che viene messo al polso dell’uomo violento per monitorare la sua posizione ed impedire che si avvicini alla vittima. È già capitato, purtroppo, di femminicidi commessi perché il braccialetto elettronico non aveva funzionato. Nel caso in cui l’uomo manometta il braccialetto, la durata della sorveglianza speciale verrà aumentata e non potrà durare meno di quattro anni, mentre se l’uomo violento rifiuta il braccialetto la stessa misura non potrà essere inferiore ai tre anni. Altra novità l’aumento del divieto di avvicinamento alla vittima, portato a cinquecento metri. Il Codice Rosso (percorsi più rapidi) ha avuto effetto? di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 24 novembre 2023 Le leggi italiane sono davvero arretrate come spesso si racconta e si scrive? La risposta è no. Per capire cosa ancora si deve fare per azzerare i numeri, bisogna compiere un salto all’indietro di dieci anni. I numeri sono drammatici, costringono il Paese a interrogarsi per capire come sia possibile estirpare alle radici una violenza che uccide, stando alle curve delle statistiche e del dolore, una donna ogni tre giorni. L’uccisione barbara, spietata e all’apparenza incomprensibile di Giulia Cecchettin ha imposto al Paese intero il silenzio e il “rumore”, un grido corale e collettivo che vuol dire “mai più”. Nelle cifre è scritto che la tragedia infinita dei femminicidi non è un problema specificatamente italiano, che il nostro Paese non è in cima alle classifiche europee, ma è anzi al quart’ultimo posto dopo Spagna, Svezia e Grecia. Eppure ogni ragazza che non torna a casa, ogni mamma, sorella, nonna o figlia uccisa da un compagno, marito o ex, è una vita spezzata che troppo spesso poteva essere salvata. Le leggi italiane sono davvero arretrate come spesso si racconta e si scrive? La risposta è no. Lo riconosce la ex ministra delle Pari opportunità Elena Bonetti: “Dal punto di vista penale la normativa italiana per il contrasto alla violenza contro le donne è tra le più avanzate, anche nel contesto europeo”. E allora, per capire cosa ancora si deve fare, con determinazione e urgenza, per diminuire o azzerare statistiche che mettono i brividi, bisogna compiere un salto all’indietro di dieci anni. Con la legge n.77 del 2013 il Parlamento ratifica la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e contro la violenza alle donne. “Un vero e proprio cambio culturale, perché con la legge sul femminicidio entra nel nostro ordinamento il concetto di violenza domestica”, ricorda Maria Cecilia Guerra, già vice ministra con delega alle Pari Opportunità. Il decreto legge n.93 del 2013 introduce il reato di omicidio volontario aggravato dal rapporto di parentela o convivenza con la vittima di sesso femminile e rafforza le pene per i reati di maltrattamenti in famiglia, stalking e violenza sessuale. Il provvedimento dota le forze dell’ordine di nuovi strumenti e aumenta la protezione e il sostegno delle vittime. Con la stessa legge si delibera l’adozione periodica di piani d’azione coordinati tra associazioni e governo. Nella XVIII legislatura, stando a un recentissimo rapporto del servizio Studi della Camera, il Parlamento inasprisce le pene, ma il passaggio più significativo è la legge n.69 del 2019. È il Codice Rosso, il cui primo obiettivo è velocizzare l’avvio dei procedimenti penali e accelerare l’eventuale adozione di provvedimenti a protezione delle vittime. Già il nome apre una specie di “corsia preferenziale”, che accelera le denunce e le indagini riguardanti casi di violenza contro donne o minori. Oltre ad aumentare le pene per maltrattamenti, atti persecutori e violenza sessuale, il Codice rosso introduce nuovi reati, come la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, la costrizione e induzione al matrimonio e la deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso. E qui è d’obbligo ricordare due storie, indelebili per la forza con cui le vittime sono riuscite a risorgere. L’avvocata Lucia Annibali, sfregiata con l’acido da due uomini mandati dal suo ex-fidanzato Luca Varani e poi eletta in Parlamento con Italia Viva. E la showgirl Gessica Notaro, che nel 2017, dopo aver lasciato e denunciato il compagno Edson Tavares, fu aggredita da lui sempre con l’acido e perse un occhio: da anni vive e lavora per sensibilizzare sul problema della violenza contro le donne. Nel 2021 la legge n.134 per l’efficienza del processo penale amplia ed estende le tutele previste dal Codice rosso per le vittime di violenza domestica e di genere. Le norme prevedono la comunicazione alla vittima dell’evasione o della scarcerazione dell’imputato o del condannato. A detta degli esperti, resta il vuoto informativo rispetto a eventuali benefici di cui l’autore dei reati possa usufruire nel corso dell’esecuzione penale. La legge n.53 del 2022 potenzia la raccolta di dati statistici, rafforzando e migliorando il coordinamento di tutti i soggetti coinvolti. Nel 2023, oltre all’istituzione di una Commissione bicamerale d’inchiesta, è stata approvata la legge n.122 che introduce l’obbligo per il pm di assumere informazioni da chi ha denunciato entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato. La legge Roccella infine, che recepisce i testi della precedente Bonetti, è quindi l’ultimo passaggio di un lungo iter che ha in gran parte colmato il gap normativo rispetto al resto d’Europa. Il tanto che resta da fare riguarda l’informazione, la sensibilizzazione a scuola e nelle università, la maturazione di un processo culturale che cambi lo sguardo sulle donne radicato nella nostra società e intercetti in tempo segnali di disagio e frustrazione, che potrebbero portare a violenze irreparabili. “Il femminicidio - è la triste constatazione di Guerra - è solo la punta di un iceberg”. Quanti sono gli orfani di femminicidio e chi si prende cura di loro? di Elisa Messina Corriere della Sera, 24 novembre 2023 Una legge di non facile applicazione e un grande progetto ma tutto privato: così in Italia proteggiamo i sopravvissuti alla violenza. “Orfani speciali” li chiamava Anna Costanza Baldry, psicologa e criminologa che, per prima (prima anche dello Stato) si dedicò a una ricerca sugli orfani dei femminicidi: “Quei tanti orfani di mamme uccise dai padri. Tanti, tantissimi ma ignorati e segregati - Scriveva Baldry nel 2017 nel presentare un enorme dossier a cui lavorava da tre anni - Come stanno oggi, dopo 5, 10, 15 anni da quel tragico e assurdo giorno? Chi sono? dove sono adesso? E cosa è accaduto loro, dove stanno, con chi? A questi figli cosa è stato detto? La legge cosa ha fatto di loro? E quegli adulti che si sono ritrovati ad aprire le loro case che sostegno psicologico ancora prima che economico è stato dato, se è stato dato, dovendo loro stessi, i familiari delle vittime, elaborare il loro di lutto e trauma, nonché gestire tuti i problemi sociali e giuridiche derivanti dall’omicidio?”. Quando Baldry si poneva queste domande gli orfani di femminicidio erano, agli occhi della legge, equiparati a tutti gli altri orfani. Il legislatore non si era posto il problema di pensare al loro diritto di futuro oltre il lutto tremendo che li aveva colpiti. Oggi, a quasi dieci anni dalla partenza del primo progetto di mappatura dedicato a loro e alle persone che se ne prendono cura, possiamo dire che qualcosa si è mosso, una legge ad hoc esiste. Ma c’è ancora molta strada da fare. In varie direzioni. Innanzitutto, quanti sono e chi li aiuta? “Non ci sono stime ufficiali su quanti siano gli orfani delle vittime di femminicidio in Italia, come non esiste una mappatura dei femminicidi anche se il Ministero dell’Interno ci sta lavorando” spiega Mariangela Zanni, consigliere nazionale di D.i.Re, Donne in rete contro la violenza. Oggi un primo progetto, privato ma dalle dimensioni importanti, dedicato agli orfani e alle loro famiglie esiste ed è stato varato dall’impresa sociale “Con i bambini” nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Si chiama “A braccia aperte”, prevede un investimento di 10 milioni che arrivano dalle fondazioni bancarie (Acri) e si snoda capillarmente su tutto il territorio nazionale in quattro progetti (Nord Est, Nord Ovest, Centro Italia e Sud) coinvolgendo operatori pubblici e realtà del terzo settore: cooperative, associazioni, centri antiviolenza. I numeri - Sono 157 gli orfani presi in carico dai progetti su scala nazionale attivati da “Con i Bambini” nell’iniziativa “A braccia aperte”. Ma è un dato variabile perché altri 260 in tutta Italia sono stati già agganciati e a breve inizieranno anch’essi un percorso di sostegno e accompagnamento con le loro famiglie. I numeri maggiori sono al Sud. “Ma perché al Sud il lavoro di ricerca e sostegno è iniziato da molto tempo” rivela Fedele Salvatore, presidente dell’associazione Irene 95 che da anni a Napoli si occupa di minori vittime di violenza assistita. Il 74 per cento ha tra i 7-17 anni, il 17% tra i 18-21 e l’8% ha meno di 6 anni. “Per rintracciarli abbiamo fatto un capillare lavoro di ricerca su siti di informazione, servizi sociali, tribunali, centri antiviolenza. Siamo risaliti fino a delitti commessi 9 o 10 anni fa” spiega Anna Agosta, consigliere D.i.Re e presidente dell’Associazione Thamaia Onlus che partecipa per il Sud al progetto “Respiro”. “Abbiamo incontrato orfani storici sui quali si era sedimentata un’assenza di attenzione - racconta Salvatore - Alcuni non hanno mai incontrato i servizi sociali, ad altri, a distanza di 5,6 anni dal delitto non era stata mai raccontata la verità sui fatti: “la mamma è morta in un incidente” è spesso la pietosa bugia ricevuta. Non è stato semplice, dopo tutto questo tempo, raccontare la verità, ma è solo comunicando la verità, in modo corretto che si possono aiutare questi ragazzi. Le bugie dette per “buon senso” non aiutano, anzi, finiscono per far danni”. L’impatto - Il 36% di loro era presente quando è stata uccisa la madre. Uno su quattro ha assistito. L’impatto psicologico che ne deriva è devastante e porta a una vera sindrome denominata “child traumatic grief”: la sofferenza è tale che il bambino diventa incapace di elaborare il lutto e si trova intrappolato in uno stato di dolore cronico. “Per questo, intorno all’orfano e all’enormità di quello che lo colpisce devono lavorare persone competenti con un approccio che si chiama “trauma informed”, focalizzata sulla comprensione del trauma e la sua elaborazione” racconta Salvatore. Il 13% degli orfani presenta forme di disabilità. Dove vivono e con chi - Il 42% vive in famiglie affidatarie, spesso gli zii o i nonni della mamma, il 10% vive in comunità (pensiamo ai minori stranieri che non hanno parenti qui), il 10% con una coppia convivente e solo il 6% è stato dato in adozione. L’83% delle famiglie affidatarie arriva a fine mese con grande difficoltà, anche per la necessità di dover ricorrere a specialisti e professionisti che aiutino i bambini. Quindi il sostegno organizzato dal progetto “A braccia aperte” non può che essere articolato: è psicologico, economico ed educativo ed è rivolto ai minori e alle loro famiglie. Ma prevede anche interventi nelle scuole frequentate dai minori, progetti di avviamento al lavoro, pagamento di rette universitarie. Importante anche la parte dedicata alla formazione di tutti gli operatori coinvolti: quelli dei servizi socio-sanitari, dei Centri antiviolenza, le forze dell’ordine, il personale del tribunale per i minorenni, gli insegnanti. “Proprio per evitare tutti quelli errori commessi spesso in buna fede da familiari o da operatori pubblici. In alcuni casi, poi, la famiglia affidataria è quella del padre omicida con tutto quello che questo comporta, ovvero si tende a giustificare il crimine del familiare in carcere parlando di raptus. E si porta il minore dal padre in prigione senza prepararlo a un incontro come quello” racconta Salvatore. I soldi - Le risorse in campo per il progetto nazionale sono importanti: 10 milioni messi a disposizione dal Fondo per le povertà educative che dispone, in totale, di 760 milioni forniti dalle fondazioni bancarie (Acri) che ottengono in cambio dallo Stato un credito d’imposta. “Stiamo parlando del primo progetto nazionale, anzi, il primo in Europa pensato su misura per sostenere questi bambini e ragazzi raggiungendoli sul territorio” spiega Zanni, “coinvolge tante realtà del terzo settore e servirà per dare linee guida alle istituzioni in modo che colmino quel vuoto che c’è stato finora”. La legge del 2018 - Che cosa ha fatto il legislatore per questi orfani e per le famiglie che li hanno accolti? si chiedeva Baldry. Una legge dedicata in effetti, c’è, la n°4 del 2018, che riconosce una serie di tutele processuali ed economiche. Per esempio si procede automaticamente al sequestro dei beni dell’indagato per risarcire i danni dei figli della mamma uccisa. Un analogo automatismo trasferisce l’eredità della madre ai figli. Già, prima accadeva che la pensione di reversibilità della donna uccisa finisse al partner in carcere. Inoltre si stabilisce un fondo economico dedicato e si dà la possibilità a questi orfani di cambiare cognome. “La legge è la risposta a qualcosa che Baldry ha svelato, ovvero i bisogni degli orfani e come rendere più agevole per loro il “dopo”. Dalla partecipazione al processo all’eredità, al recupero di un risarcimento del danno, ai bisogni materiali” spiega Elena Biaggioni, penalista e vicepresidente D.i.Re. “Una legge innovativa ma con il grosso limite di essere poco conosciuta e poco usata anche perché le procedure per la sua applicazione sono complesse”. La criminologa, scomparsa nel marzo 2019, fece appena in tempo a vedere l’approvazione della norma di cui era stata stimolo. Ma i cui decreti attuativi furono varati ben due anni dopo. “Familiari e care giver degli orfani, non sono in grado di destreggiarsi tra i commi e gli articoli. Per non parlare della modulistica da compilare e presentare in prefettura rispettando scadenze e burocrazia” spiega Fedele Salvatore. A che serve una buona legge se poi le persone non riescono ad usufruirne? Ora il progetto “A braccia aperte” sta evidenziando tutte le difficoltà pratiche e offrendo soluzioni di semplificazione anche attraverso specialisti e legali che affianchino le famiglie affidatarie. Un esempio tra i tanti che ci fa capire che la legge va semplificata ce le spiega Salvatore: “Tutti i benefici finanziari di cui gli orfani hanno diritto, a partire dal sequestro dei beni, sono applicabili quando c’è una sentenza di condanna anche di primo grado. Ma decadono in caso di suicidio del padre omicida. E questo avviene circa nel 30 per cento dei femminicidi”. Non solo. La legge prevede copertura per spese medico-sanitarie ma si tratta quasi esclusivamente di sostegno psicoterapeutico. Ma un bambino può aver bisogno, banalmente, di un apparecchio per i denti. Così, anche in questi casi, interviene il nuovo progetto con la possibiltà di doti specifiche. Parlando con gli esperti e gli operatori che hanno lavorato al progetto si scopre che non è stato affatto semplice convincere le persone a fidarsi e affidarsi specie quando si risale a delitti indietro nel tempo. “Molti preferiscono non rivangare - racconta Zanni che lavora al progetto Nord Est - Abbiamo trovato persone arrabbiate, che non si sono sentite comprese”. Per questo uno dei nodi del progetto è quello di attivare protocolli di aiuto dedicati alle prime ore dopo il trauma quando la famiglia è scioccata e frastornata: ci vogliono persone specializzate che sappiano comunicare e accompagnare. Anche in dettagli apparentemente marginali, come la partecipazione a un funerale. La sentenza della Consulta su Regeni è debole perché legittima una eccezione di Giulia Merlo Il Domani, 24 novembre 2023 La motivazione lascia perplessi perché da essa traspare come sia possibile che essa costituisca una traccia per altri casi di ammissione del processo in assenza. Un divieto che costituisce per noi un’affermazione di diritto raggiunta solo recentemente con la riforma Cartabia. Di fronte alla pronuncia della Consulta (la n.192/23) che consente che a Roma si celebri il processo contro i rapitori e torturatori e l’omicida di Giulio Regeni, tutti contumaci, io ho gioito: finalmente, dopo sette anni, si arriva alla possibilità di fare chiarezza su quella orrenda tragedia. Forse non si arriverà a vedere puniti quegli infami energumeni, ma almeno si giungerà alla affermazione di responsabilità e può darsi che il processo italiano arrivi anche “più in alto” nell’accertamento di chi commissionò il rapimento di Giulio. Ero contento perché era il riconoscimento della tenacia della famiglia Regeni e di una vasta opinione pubblica che con la ferma e dignitosissima (e anche questo conta) famiglia si era schierata fin dall’inizio. Gli scherani di Al Sisi, che evidentemente hanno paura del processo, saranno comunque giudicati, costi quel che costi, “whatever it takes”. Subito dopo il momento di gioia però, mi sono domandato: cosa ci costerà questo processo in termini di diritto e difesa delle garanzie? Dopo la prima ordinanza del Gip che pronunciava un “non possumus” se gli indagati non avevano conoscenza del processo, il nostro ordinamento aveva dimostrato un grado di civiltà giuridica maggiore dello standard che impronta quello egiziano come molti altri. I dubbi di allora mi sono riaffiorati e la gioia del momento si è andata offuscando; meglio attendere la motivazione, che è stata pubblicata giorni fa. La motivazione - Si tratta di motivazione di sentenza additiva e come tale è assai articolata perché intende riconoscere la validità di un principio, ma nello stesso tempo legittimare un’eccezione. Essa si basa sulla dichiarazione di incostituzionalità dell’articolo 420 bis c.3 c.p.p. per violazione degli articoli 2, 3 e 117 c.1 Cost, quest’ultimo in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura. In maniera molto puntale essa spiega perché, trattandosi di un caso di tortura, si possa procedere anche in contumacia degli indagati o imputati ove sia ragionevolmente accertato che i chiamati in giudizio siano consapevoli che vi è un procedimento (ed anche un processo) contro di loro, ma non siano stato raggiunti dalla vocatio in iudicium perché lo stato di appartenenza non ha consentito di raggiungerli. La motivazione è molto complessa proprio perché intende porre il limite della possibilità del processo in assenza (che una volta chiamavamo in contumacia) precisamente e unicamente attorno al caso di tortura. L’Italia è pienamente parte di quei trattati che impongono il processo per i casi di tortura e lo consentono anche in assenza. Salvo poi, se i condannati dovessero capitare nel nostro paese e lo chiedessero, essere rimessi in termini per l’appello o addirittura per aprire un nuovo giudizio ove avessero elementi nuovi da apportare. Cioè praticamente sempre, aggiungo io, perché almeno la loro voce sarebbe una novità rilevante. Il nostro paese, sostiene la Corte, è tenuto a celebrare il processo, pena uno stallo che andrebbe a ledere non solo i diritti della vittima (o dei suoi famigliari) ma il più generale diritto diffuso all’accertamento del vero o di un vero altamente probabile, come accade in ogni processo. Ove la mancata comparizione dell’indagato o imputato che, come in questo caso, ha piena cognizione della sussistenza di un procedimento (i torturatori furono sentiti a SIT durante le indagini egiziane) che lo può coinvolgere, ma non di un processo che lo può vedere imputato, sia da attribuirsi allo stato di appartenenza che non ha inteso rivelare nemmeno il suo luogo di reperibilità: orbene, in questo caso, il processo in assenza è consentito anzi è doveroso alla luce delle nostre norme penali interne, di quelle costituzionali e dei trattati contro la tortura, primo fra tutti il CAT (Counsel Against Torture) siglato a New York nel 1984. Ora mi domando: è proprio utile una sentenza “debole” perché basata su un processo che vede l’assenza dell’imputato e quindi in qualche modo mutilo della parte principale ma più debole del medesimo? Certo è qualcosa, ma non è un processo vero e proprio, appare più una accurata ricostruzione, ma “inevitabilmente di parte” perché quello che avrebbe dovuto essere il deuteragonista non c’è. Una sentenza debole - “Debole” la sentenza perché al processo e alla eventuale condanna con conseguirebbe la giusta punizione: se i torturatori assassini si sono sottratti al processo, figuriamoci alla pena. In questi casi il processo appare più una rappresentazione che non un passaggio per fare, possibilmente, giustizia. “Debole” perché ove comparissero condannati in primo grado o in via definitiva potrebbe darsi che si dovesse ricominciare tutto da capo, perché così giustamente statuisce la Consulta. Notiamo inoltre che in un caso come questo - allo stato delle norme attuali - essendo i torturatori egiziani difesi di ufficio (poiché se lo fossero di fiducia, e non lo sono, avrebbero sanato l’assenza) il loro difensore non potrebbe interporre appello alla condanna di primo grado, che così diverrebbe definitiva. La motivazione, però lascia perplessi non solo per questi punti, ma perché da essa traspare come sia difficile che essa non vada a costituire una traccia per altri casi di ammissione del processo in assenza. Un divieto, ricordiamo che costituisce per noi un’affermazione di diritto raggiunta solo recentemente (con la Cartabia) poiché fino ad allora ci si era adagiati sulla contumacia niente affatto ostativa al processo. Si proceda quindi in assenza, stabilisce la Corte, per i reati di tortura perché sono rafforzati da una normativa di rango elevatissimo. Se così è, sembra a me che anche i reati di terrorismo chiedano con altrettanta forza giuridica un possibile processo in assenza dato che il numero e la cogenza dei trattati in materia sono altrettanto se non più forti e numerosi. E che dire dei femminicidi, per i quali la Convenzione di Istambul del 2011 impone che si ricerchi la responsabilità perseguendo il possibile reo? Ed anche la pedofilia e gli altri reati contro i fanciulli, ed anche la droga, sono tutte ipotesi in cui la normativa nazionale, ovviamente assistita dalla sua aderenza al dettato costituzionale, è rafforzata chiaramente anche da trattati e convenzioni stipulate dal nostro paese: trattasi di ipotesi tutte quante in cui potrebbe avvenire che lo stato estero non collaborasse con la giustizia italiana, o di fatto o perché non aderisce a determinate convenzioni. Temo che le porte del processo senza che l’imputato non ne sappia nulla si siano così spalancate (di nuovo), con grave danno per le garanzie, per la parte più debole del processo stesso. Allora, guardiamo a chi deve trattare e giudicare sui crimini in assoluto peggiori: la Corte Internazionale dell’Aja che ha giurisdizione sui crimini contro l’umanità, i genocidi e altre atrocità: essa non procede se non ha di fronte a sè, in vincoli, l’imputato. Tutti ci rammarichiamo che Putin non possa essere giudicato e condannato in assenza ma ci inchiniamo di fronte a questa affermazione di diritto e di garanzia, che sta nello statuto della Corte dell’Aja. Anche se ci costa molto. Maltrattamenti in Famiglia: si configura il reato anche in assenza di assoggettamento della vittima di Anna Cinzia Pani* Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2023 La vittima del reato ex art. 572 c. p. è tutelata anche da probabili condizionamenti connessi al tessuto socio culturale nel quale la stessa è inserita, in modo da escludere la possibilità di demandare ad una mera valutazione relativistica la sussistenza o meno del reato il quale verrebbe privato della sua stessa tipicità. Il reato di cui all’ art. 572 c. p , relativo ai maltrattamenti in famiglia, a parere del recentissimo orientamento della Corte di Cassazione, non è escluso per effetto della maggiore capacità di resistenza alle condotte maltrattanti dimostrata dalla persona offesa, in primo luogo per la motivazione connessa alla mancata sussistenza fra gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice, della riduzione della vittima a soggetto che subisce i comportamenti da parte del soggetto che pone in essere la condotta maltrattante (Cass. pen., Sez. VI, 12/1/2023, n. 809). La suddetta sentenza , ha evidenziato ed osservato il principio cardine sotteso alla fattispecie di cui all’ art. 572 c. p., ossia quello per cui in tema di maltrattamenti in famiglia, a fronte di condotte abitualmente vessatorie, che siano concretamente idonee a cagionare sofferenze, privazioni ed umiliazioni, il reato non è escluso per effetto della maggiore capacità di resistenza dimostrata dalla persona offesa, non essendo elemento tipico della fattispecie la riduzione della vittima a succube dell’agente (Cass. pen., Sez. VI, 12/1/2023, n. 809). La Corte, sancisce così l’assoluta irrilevanza della capacità della vittima di saper o poter sopportare le umiliazioni e vessazioni, sia in termini di gradualità della condotta che quale connotato tipico personale. La vittima del reato ex art. 572 c. p., viene così tutelata anche da probabili condizionamenti connessi al tessuto socio culturale nel quale la stessa è inserita e si trova a contatto anche quotidianamente, in modo da escludere la possibilità di demandare ad una mera valutazione relativistica la sussistenza o meno del reato il quale verrebbe privato della sua stessa tipicità. Il reato de quo, è caratterizzato da una condotta tipica maltrattante senza che la norma richieda in alcun modo anche la sussistenza dell’assoggettamento della vittima stessa ai fini di una corretta applicazione della fattispecie incriminante, quindi irrilevante ai fini del giudizio. La persona offesa, in buona sostanza non viene così esposta neppure al giudizio da compiersi sulla gradualità della sofferenza indotta dalla condotta dell’agente ma proprio come sottolineato dai giudici nella sentenza, quel che rileva ai fini della punibilità dell’imputato è essenzialmente l’aver posto in essere una condotta oggettivamente lesiva della sfera psicofisica del soggetto che subisce. *Avvocato, responsabile Dipartimento Penale di A.L. Assistenza Legale L’aggravante dei maltrattamenti familiari assistiti da minori non richiede di accertare i danni psico-fisici di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2023 La condizione del figlio neonato non esclude il pericolo presunto connesso alle condotte illecite in danno della madre. Non incide l’età del minore che assiste ai maltrattamenti contro la madre o l’accertamento di un danno psico-fisico che lo stesso possa aver subito affinché sia contestabile l’aggravante dell’articolo 572, comma 2, del Codice penale. Infatti, i maltrattamenti cosiddetti “assistiti” sono legati al dato di fatto di essere stati perpetrati in presenza di persona minorenne. Così la Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 47121/2023 - ha respinto il ricorso dell’imputato che contestava il riconoscimento a suo carico dell’aggravante, per i comportamenti violenti tenuti in presenza del figlio appena nato. Cioè secondo la difesa il neonato non sarebbe pacificamente in grado di percepire il disvalore delle condotte aggressive o umilianti tenute nei confronti di un familiare nell’ambito casalingo. Ma la Cassazione, nel rigettare il ricorso, chiarisce che nulla autorizza a svuotare la norma incriminatrice che intravede l’aggravante del reato nella circostanza che esso sia consumato alla presenza di persone minorenni. Secondo la difesa invece è la sussistenza di un pericolo concreto di danno psico-fisico che andrebbe accertato come esistente, al fine di contestare l’aggravante. Al contrario, i giudici di legittimità - anche richiamando la Convezione europea sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica - hanno affermato che la norma incriminatrice aggiornata e aggravata in caso di maltrattamenti assistiti si riferisce all’offensività in astratto della condotta illecita. E con il proprio ragionamento, di fatto, la Cassazione afferma che il reato aggravato scatta per il pericolo presunto derivante dall’azione violenta realizzata in presenza di persone minorenni. Così i giudici indicano l’indirizzo interpretativo e smentiscono la validità dei precedenti indicati dal ricorso che fondavano la contestazione dell’aggravante al realizzarsi di un concreto danno psico-fisico per il minore. Infine, sembra si possa definire un asserto non condivisibile quello secondo cui un neonato non abbia alcuna percezione della violenza agita nell’ambiente in cui è inserito solo per la difficoltà di poter accertare il suo feedback “negativo” rispetto al mondo in cui vive i primi momenti della sua vita. Lazio. Cure sempre più difficili nelle carceri, mancano i medici ansa.it, 24 novembre 2023 Il 35% dei detenuti costretto ad annullare le visite specialistiche esterne o a rinviare interventi. I numeri contano. Al 31 ottobre 6.453 persone sono detenute nei 14 istituti per adulti del Lazio, 520 in più dall’inizio dell’anno (+8,8%). A questa “comunità” dobbiamo aggiungere i minori detenuti a Casal del Marmo, i sottoposti a misure di sicurezza in sei comprensori regionali e il Cpr di Ponte Galeria. Tutto questo microcosmo sarebbe curato in carcere e nei due ospedali di riferimento: il Pertini a Roma e il Belcolle a Viterbo. Usiamo il condizionale perché con gli organici dei medici in calo, un’assistenza specialistica dentro e fuori il carcere ballerina non sono pochi i casi di chi deve rinviare esami, interventi più o meno invadenti, persino semplici cure odontoiatriche. E questo al netto dell’assistenza per i tossicodipendenti e per le patologie psichiche. Per il garante regionale il 35% dei detenuti annulla le visite specialistiche esterne al carcere perché mancano gli agenti penitenziari per la scorta. Una situazione sempre più insopportabile e una compressione al diritto costituzionale alla salute che deve essere garantito ovunque anche tra le sbarre. Non tutti sanno, giornale che si occupa di Rebibbia, ha lanciato l’allarme con una lettera aperta pubblica che ha increspato le acque. Il 14 dicembre si riunirà l’Osservatorio regionale sulla sanità penitenziaria per fare il punto della situazione su queste carenze anche in relazione al post Covid. Sarebbero in campo opportunità legate la Pnrr. Al nostro microfono, Antonio Magi, presidente dell’Ordine dei medici di Roma, propone di costruire proprio a Rebibbia in spazi già esistenti una casa di comunità. Porterebbe nell’istituto quei poliambulatori così necessari per una popolazione che in 4 casi su 5 soffre almeno di una patologia. Parma. Via Burla, un altro detenuto suicida in cella di Luca Molinari Gazzetta di Parma, 24 novembre 2023 È una emergenza di cui si parla poco. Ma che lascia smarriti. Nel corso dell’anno in corso si sono suicidate in carcere ben 64 persone. E il dato è tragicamente destinato ad aumentare. Lo dimostra l’ultimo episodio che risale alle scorse ore: quello in cui ha perso la vita un 47enne della Costa D’Avorio. L’uomo, recluso, dal 2020 per furti e rapina era passato da San Vittore a Modena e solo lo scorso 31 ottobre era arrivato a Parma dove sarebbe dovuto rimanere fino al 2026. Da Modena era stato allontanato per motivi di sicurezza e anche a Parma si era reso autore di alcuni lievi episodi di autolesionismo. Secondo il Garante gli operatori penitenziari avevano preso in carico il soggetto sia sotto il profilo sanitario sia penitenziario e nei prossimi giorni sarebbe stata decisa la sua presa in carico da parte dell’Unità locale per la prevenzione dei suicidi. Purtroppo non c’è stato tempo. ma purtroppo l’evento critico si è verificato senza chiari segnali ed in modo imprevisto. “Questi eventi - prosegue il Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Roberto Cavalieri - interrogano un intero sistema, quello penitenziario, che nonostante tutti gli sforzi messi in campo per sostenere i detenuti si presenta inerme di fronte alla scelta del suicidio. È forse giunto il momento di rendere le carceri luoghi in cui l’assistenza sia essa psicologica che di semplice supporto sia erogata in tutte le ore della giornata è proprio nelle ore serali che una sezione penitenziaria entra in un momento di isolamento dal mondo ancora più profondo”. Verona. “Giovanni suicida in cella, ora incolpano mia sorella” di Laura Tedesco Corriere di Verona, 24 novembre 2023 Lo aveva fatto arrestare per maltrattamenti: “Ora la incolpano perché si è ucciso in cella”. Giovanni si è tolto la vita impiccandosi in carcere e adesso la compagna che l’ha denunciato è sommersa dall’odio degli hater. “Questo ragazzo non era perfetto, e non solo per colpa sua”. Il “ragazzo non perfetto” si chiamava Giovanni Polin: il 34enne montatore di mobili che domenica pomeriggio si è tolto la vita nel carcere di Verona. “Giovanni non era perfetto, aveva bisogno di sostegno e, quando si sono presentati i primi segnali di violenza, avrebbero dovuto parlargli, stargli vicino per capire cosa lo rendesse così insicuro”. Parole, queste, che arrivano da una giovane donna veronese di nome Sofia: la sua, è tutt’altro che una posizione “facile”. Sofia infatti riveste un ruolo scomodissimo: sua sorella era la compagna di Giovanni. La coppia conviveva a Verona, ma la loro relazione negli ultimi tempi si era fatta altalenante, “tossica”, a tratti violenta: la sera del 28 ottobre scorso, stando alla denuncia della convivente, Giovanni avrebbe decisamente esagerato, arrivando ad alzare le mani e a farle del male. Per questo era stato arrestato e condotto in carcere, dove si trovava in attesa del giudizio immediato (in programma nel febbraio del 2024): il suo legale era al lavoro per fargli ottenere a breve i domiciliari, purtroppo non ce n’è stato il tempo, perché il tragico gesto attuato domenica dal 34enne mentre il suo compagno di cella era fuori per l’ora d’aria, ha vanificato tutto. Una tragedia su cui, per la Procura, non ci sarebbero punti oscuri né aspetti da approfondire: è stato infatti deciso di non disporre neppure l’autopsia. Quello di Giovanni è stato il terzo suicidio registrato nel penitenziario veronese in soli tre mesi: “Un dramma che addolora profondamente anche me e mia sorella (l’ex convivente che ha denunciato il 34enne per maltrattamenti e lesioni, ndr), però in questa tristissima vicenda - interviene Sofia - c’è anche una seconda vittima e si tratta proprio di mia sorella...”. Come rivela infatti Sofia, la compagna di Giovanni “da quando lui si è tragicamente tolto la vita in cella, viene incolpata come se la causa del suicidio fosse stata lei. Mia sorella - rivela Sofia sta subendo pesanti attacchi sui social da parte di hater e anche di conoscenti della coppia, addirittura le arrivano minacce... Mia sorella dopo il suicidio di Giovanni viene colpevolizzata e dopo aver ricevuto ripetute minacce e messaggi d’odio, ha dovuto chiudere con tutti, bloccando contatti, eliminando numeri, trasferendosi e trasferendo pulire i figli in un’altra scuola, per tutelare la propria e altrui incolumità”. È l’altra faccia dei social: in questa storia triste, c’era già una vittima e si trattava di Giovanni che ha pagato con la vita, e adesso c’è anche un’altra vittima, la compagna bersagliata online (e non solo) con cattiverie e minacce. Secondo la sorella di quest’ultima, Sofia, “Giovanni era un ragazzo solo, e posso comprendere molto bene il gesto e ciò che lo ha portato a questo, ma non possiamo dimenticare ciò che ha fatto solo perché vogliamo ricordarlo come preferiamo. Io stessa - continua Sofia - non riesco a dormire la notte perché continuo a vedere la sua faccia e mi dispiace molto per questa perdita, perché era un ragazzo giovane che non aveva ogni colpa, ma non posso dimenticare ciò che ha fatto e fingere che fosse perfetto. Spero solo che dall’altra parte ci sia qualcuno ad abbracciarlo e che non si senta più solo come qui”. Sofia si rivolge direttamente anche a Giovanni: “Io sono anche dalla tua parte - gli dice - e non ignorerò ciò che hai vissuto”. Chi non vuole ignorare “ciò che Giovanni ha vissuto in cella” è anche Giulia Polin, la sorella del 34enne: “In tre settimane di detenzione a Montorio, né io né mio padre abbiamo potuto vederlo una sola volta, a me hanno solo concesso due telefonate da dieci minuti, non gli ho potuto mandare nemmeno un cambio di biancheria. Non è mai stato visto da una psicologa. Non ce l’ho con i dipendenti del carcere, ma ho intenzione di presentare un esposto su tutte le negligenze subìte a Montorio da mio fratello. Anche quando si finisce in cella - ricorda Giulia Polin - si ha il diritto di essere trattati come uomini, persone, esseri umani”. La sorella non si capacita che Giovanni si sia ucciso e non si dà pace neppure Vito Biondo di Italia Moving srls, datore di lavoro del 34enne: “È riduttivo definirlo un mio operaio - si commuove Vito ricordandolo -. Per me Giovanni era amico e fratello, gran lavoratore che non si tirava mai indietro. Per come lo conoscevo io, non avrebbe mai fatto del male né al prossimo né a se stesso. Era pieno di progetti, prima di finire in cella pianificava il suo futuro e acquistava mobili per arredare casa. Non può essersi ammazzato, non riesco ancora a crederci. Più ci penso, più mi sembra impossibile. Giovanni amava la vita, Giovanni era la vita, non può essersela tolta così”. La Spezia. Tra lavoro, scuola e teatro. Carcere, motore di dignità di Maria Cristina Sabatini La Nazione, 24 novembre 2023 Sono numerose le attività per i detenuti nella Casa circondariale di Spezia “Permettono una proiezione verso l’esterno e un iter di rielaborazione”. Quant’è importante il lavoro per riacquisire dignità e trovare il proprio ruolo nella società? Moltissimo. Soprattutto per chi è detenuto in carcere. Ma anche la scuola, il teatro e tutte le attività culturali costruiscono un ponte. Ne è convinta Maria Cristina Bigi, direttore della casa Circondariale della Spezia. Dottoressa Bigi, i percorsi di borse lavoro, per i detenuti, funzionano? “Sì, perché permettono al detenuto di avere una proiezione verso l’esterno. Questo serve ad evitare l’effetto “della porta girevole”: uscire, commettere reati e rientrare in continuazione. Il lavoro restituisce dignità alle persone e quando succede, puoi, in qualche modo, iniziare un percorso di rielaborazione”. Quali sono le attività lavorative che i detenuti svolgono? “Sono varie. Abbiamo persone che lavorano a Porto Mirabello, altre in panifici, in negozi di vendita al dettaglio. L’ultimo percorso che abbiamo organizzato riguarda la pulizia dei giardini e dei parchi. Vediamo di anno in anno, in base ad un’attività di progettazione, quello che serve e su questa base strutturiamo le borse lavoro. L’ente di formazione crea il percorso formativo e aggancia i datori di lavoro disposti ad assumere il detenuto. Inoltre, nel 2022, con la Cassa delle Ammende, l’ente che finanzia i percorsi lavorativi e formativi negli istituti penitenziari, abbiamo realizzato dei percorsi per edili. I detenuti hanno collaborato, ad esempio, al ripristino dei piani detentivi dove sono stati fatti lavori di ristrutturazione”. Quanti sono ad oggi i detenuti che lavorano? “Sono 18, tra semiliberi e articoli 21. Alcuni sono in borsa lavoro, altri già assunti. Poter dare dei soldi ai familiari, guadagnati onestamente, fa tanto. Il lavoro restituisce loro un ruolo”. Nel carcere i detenuti svolgono anche attività culturali? “Abbiamo le scuole fino alle superiori. Poi c’è il teatro e la scuola di musica rap per i più giovani. Un’attività che vorrei intensificare è quella dell’utilizzo degli spazi all’interno del carcere per interagire con la società. Lo scorso anno, ad esempio, abbiamo fatto presentazioni di libri”. Ha un sogno che vorrebbe realizzare? “Riuscire ad intensificare le attività lavorative al punto di avere una percentuale più alta di detenuti occupati. Sono convinta che il lavoro sia la molla per restituire la dignità”. Reggio Emilia. Nuovi spazi per valorizzare gli incontri tra detenuti e famiglie stampareggiana.it, 24 novembre 2023 Il progetto di ricerca-intervento “diStanze in Gioco” ha inteso riqualificare e riprogettare gli spazi dedicati ai bambini in visita ai loro famigliari negli Istituti Penali di Reggio Emilia, come dialogo tra l’approccio scientifico criminologico e l’esperienza educativa della città sugli ambienti di apprendimento. Ieri, giovedì 23 novembre 2023, è stato presentato “diStanze in Gioco”, un progetto di ricerca-intervento sulla relazione tra genitore-detenuto e figlio, che ha messo in dialogo le competenze scientifiche criminologiche e l’esperienza educativa per la prima infanzia di Reggio Emilia, a partire dalla riqualificazione dello spazio dedicato agli incontri dei detenuti con le loro famiglie, le loro bambine e i loro bambini, realizzata all’interno degli Istituti Penali di Reggio Emilia.”DiStanze in Gioco” si è dedicato alla riprogettazione di stanze, spazi, ambienti, per rimettere in gioco le distanze e per realizzare un intervento rivolto a ricostruire e rafforzare la relazione tra il genitore ed il figlio. La carcerazione ha ripercussioni negative sui legami familiari e crea distanze, spesso irriducibili, fra le persone detenute e le loro famiglie, del tutto negative sia per il percorso risocializzativo della persona detenuta che per il percorso evolutivo del minore. Il progetto di ricerca si rivolge alla realizzazione di un intervento per rinforzare e tutelare il rapporto tra padre detenuto e figlio, svolto a partire dalla ri-progettazione e riqualificazione degli ambienti dedicati alle visite delle famiglie nel contesto penitenziario. Spazio ludoteca Istituti Penali di Reggio Emilia prima dell’intervento - Il progetto di ricerca-intervento è stato approvato dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per l’Emilia-Romagna e Marche, ed è stato sviluppato nell’ambito del Dottorato di ricerca in “Reggio Childhood Studies” con la collaborazione di Istituzione Nidi e Scuole Infanzia del Comune di Reggio Emilia. Sono intervenuti alla presentazione del progetto Lucia Monastero, Direttrice Istituti Penali di Reggio Emilia, Luca Vecchi, Sindaco di Reggio Emilia, Carla Rinaldi, Presidente Fondazione Reggio Children, Susanna Pietralunga, Professore di Criminologia, Dipartimento di Educazione e Scienze Umane, Università di Modena e Reggio Emilia L’obiettivo del progetto è quello di favorire la qualità delle relazioni tra il genitore detenuto, i figli e i famigliari, anche attraverso la valorizzazione del cosiddetto momento del “colloquio”, a partire da una riprogettazione dello spazio. Il percorso, in linea con i presupposti di intervento di carattere scientifico criminologico e con i valori dell’esperienza educativa di Reggio Emilia e l’esperienza di progettazione relazionale degli spazi maturata da Fondazione Reggio Children nei suoi interventi contro la povertà educativa, ha innescato un processo virtuoso di dialogo e confronto tra professionalità e sensibilità differenti. Il progetto, quindi, si è sviluppato come percorso di ricerca e di intervento multidisciplinare sul tema della progettazione pedagogica dello spazio, delle modalità di intervento trattamentale di carattere scientifico criminologico e dell’importanza dei linguaggi architettonici. Lo spazio per le visite dedicato agli incontri dei detenuti con i loro bambini e con le loro famiglie nel contesto penitenziario è stato quindi riconsiderato: da un lato quale strumento di trattamento risocializzativo della persona detenuta, finalizzato al suo reinserimento sociale ed alla riduzione della recidiva; dall’altro, quale strumento che favorisce il benessere psico-fisico dei bambini, finalizzato ad una loro crescita sana ed armoniosa. Il progetto ha quindi realizzato la riqualificazione e la riprogettazione di due spazi all’interno degli Istituti Penitenziari aperti dal 2005 e definiti “ludoteca”, che necessitavano di interventi di risanamento e di un ripensamento. Le due stanze sono state ripensate come un insieme di micro-luoghi le cui forme evocano sicurezza, relazione, famiglia. Ogni micro-luogo accoglie un nucleo familiare ed è stato pensato e progettato per suggerire occasioni di interazione e relazione tra adulti e bambini attraverso diverse opportunità di gioco. Spazio ludoteca Istituti Penali di Reggio Emilia dopo l’intervento - Il progetto ha innescato un processo virtuoso di dialogo e confronto tra professionalità e sensibilità differenti: docenti universitari, architetti, pedagogisti, funzionari giuridico-pedagogici, polizia penitenziaria, volontari, operatori e assistenti sociali, artigiani e imprese. Fra gli attori coinvolti anche le persone detenute, che sono i principali fruitori, si sono prese cura in prima persona di questi nuovi spazi. Alcune si sono occupate della riqualificazione degli ambienti con il ripristino degli intonaci ammalorati, la tinteggiatura grazie a fondi regionali nell’ambito del Piano per l’inclusione di adulti e giovani in esecuzione penale gestiti da ENAIP nel Corso professionale “Competenze per operatore edile delle strutture. Altre persone detenute si sono invece occupate direttamente della costruzione e del montaggio dei nuovi arredi, grazie a fondi del Comune di Reggio Emilia ed alla collaborazione con la falegnameria interna degli istituti Penali di Reggio Emilia gestita dal progetto SemiLiberi della Cooperativa L’Ovile. Le persone detenute hanno inoltre partecipato anche alla realizzazione di cuscini e tendaggi grazie ai volontari del laboratorio di sartoria interno all’istituto. Altre ancora hanno svolto lavori di manutenzione nell’ambito delle attività di manutenzione ordinaria dell’istituto. Si è infine provveduto ad una rinnovata pavimentazione grazie al contributo di Li&Pra Spa e al completamento dei micro-luoghi con pannelli di policarbonato alveolare grazie al contributo dei Lions Clubs di Reggio Emilia e provincia, ed alla donazione di lampade a sospensione da parte di Fondazione Reggio Children. Torino. In carcere come masterchef, sfida ai fornelli con chef e detenuti di Cavallito & Lamacchia La Repubblica, 24 novembre 2023 “Piacevoli Evasioni” è l’evento organizzato dall’Ordine degli Avvocati e dalla direzione del Lorusso e Cutugno. A capitanare le due squadre Alessandro Mecca e Cesare Grandi. Per una volta possiamo scrivere non solo nella nostra veste di critici gastronomici ma anche in quella di avvocati. Ieri presso la Casa Circondariale Lo Russo e Cutugno di Torino, su iniziativa del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino e della direzione del carcere, si è tenuta la manifestazione Piacevoli Evasioni, gara di cucina tra due squadre di detenuti coordinate da Alessandro Mecca, cuoco del Ristorante Al castello di Grinzane Cavour e da Cesare Grandi, cuoco del Ristorante La Limonaia di Torino. Il nostro compito è stato facile, ci siamo accomodati insieme ad alcuni colleghi e ai vertici di Procura, Procura Generale e Corte d’Appello di Torino e abbiamo, come ci capita spesso, mangiato e giudicato i piatti proposti. Recensioni in luogo di reclusione. Ci complimentiamo con il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati per avere organizzato un evento così gioioso in un luogo nel quale, per definizione, si espiano pene. E poiché per fortuna non si buttano via le chiavi, il carcere è per molti un accidente all’interno di una vita che potrà riprendere fuori da queste mura. Non ci stupirà, visti i risultati di cui daremo conto, incontrare nella cucina di un ristorante o di una pasticceria qualcuno dei partecipanti alla gara di ieri. In questo ambiente le occasioni nelle quali i detenuti hanno un contatto con il mondo esterno sono anticipi di libertà, momenti fondamentali per loro, per la loro rieducazione e per la società che li riaccoglierà con minori paure. È stato bello vedere Alessandro Mecca e Cesari Grandi, due grandi cuochi dal cuore generoso, prendere contatto e creare collegamenti con i loro colleghi della scuola del carcere e, soprattutto, con i detenuti e le detenute che fanno parte delle brigate di cucina. Come a dire: voi scontate la pena, magari poi ci si incontra fuori, o dentro le nostre cucine. La cronaca culinaria di un evento così sembrerebbe inutile, se non fosse che gli esiti sono stati alti e, al di sopra delle nostre aspettative. Le scuole di cucina della sezione maschile e femminile del carcere si sono sfidate a colpi di ricette per convincere i giurati della bontà delle loro proposte. Non è importante sapere chi abbia vinto, se la squadra blu delle donne capitanata da Grandi o quella gialla degli uomini capitanata da Mecca perché la vita in reclusione non è masterchef. Ma per deontologia ci piace recensire, ad esempio, la suadenza dell’uovo poché con la fonduta e con la cialda di peperone crusco che donava croccantezza sotto i denti, preparato dalla squadra femminile che ha dimostrato di maneggiare con disinvoltura i giochi di consistenza. O ancora la perfezione del risotto agli spinaci con la grinta agrosalata del limone marocchino, proposto dalla squadra maschile- Davvero un piatto da grande ristorante. Dopo il filetto alla Wellington, Sacher Torte (per la squadra femminile) e piccola pasticceria (per gli uomini) ora siamo ansiosi di partecipare alla seconda edizione, magari con il coinvolgimento di un pubblico esterno che possa tributare a questi cuochi gli applausi che meritano. Modena. Amleto a caccia delle coscienze e delle questioni dell’umanità di Paola Ducci Gazzetta di Modena, 24 novembre 2023 Alle Passioni trilogia di Shakespeare del Teatro dei Venti con i carcerati. Stefano Té: “Esperienza ricchissima, presto in scena anche le detenute”. Prosegue la trilogia su William Shakespeare di Teatro dei Venti, la compagnia modenese diretta da Stefano Tè, con il debutto di Amleto, in scena da questa sera e fino a domenica al Nuovo Teatro delle Passioni. Lo spettacolo è realizzato insieme agli attori della Casa di Reclusione di Castelfranco ed è una coproduzione di Emilia Romagna Teatro Ert / Teatro Nazionale con Teatro dei Venti. Stefano Tè un progetto quello del teatro carcere che state portando avanti da anni. Che risultati state ottenendo? “Davvero ottimi risultati. Innanzitutto siamo felici di questa coproduzione con Ert che speriamo possa continuare nel tempo. Nel frattempo siamo felici che con Amleto potremo replicare lo spettacolo già il 25 novembre a Maranello e probabilmente il 17 dicembre a Caserta per l’inaugurazione di un nuovo Coordinamento teatro carcere della Regione Campania che ci ha invitato come esempio di progetto ben riuscito. Sarà logisticamente complesso trasferire i detenuti fino là, ma lo faremo e questo grazie anche alla direttrice della Casa di Reclusione Maria Martone che crede molto nel valore di questi progetti e nel percorso professionalizzante per i detenuti di tutte le figure che ruotano attorno al mondo dello spettacolo che stiamo portando avanti e che avrà sviluppi ulteriori”. In sala in queste sere ci saranno anche direttori di altri enti teatrali italiani e di festival importanti... “Li abbiamo invitati perché noi vorremmo che lo spettacolo possa andare in tournée ma sarà anche l’occasione per mostrare talenti. I detenuti in scena con gli altri attori della nostra compagnia sono dei veri e propri professionisti, pagati come tutti gli altri attori. Questo è importante. Già Francesco, uno degli scenografi e costumisti detenuti attori, ha ottenuto un contratto di lavoro con il Teatro di Parma, con cui coprodurremo il nostro prossimo grande spettacolo di strada “Don Chisciotte”, per disegnare i costumi di scena poiché gli è stato riconosciuto un grande talento e una grande professionalità”. Siete soddisfatti di questi traguardi? “Immensamente, anche se ho il difetto di godermi poco le cose e pensare sempre al futuro. Mi piacerebbe portare questi spettacoli con i detenuti anche in giro per l’Europa. Certo la logistica è complessa ma io credo che con la collaborazione del Coordinamento del teatro carcere europeo, di cui facciamo parte, forse sarà realizzabile”. Intanto però a breve un nuovo debutto ma per la prima volta con le attrici detenute del Carcere di Sant’Anna... “È una grande novità, lavoriamo con le donne da anni ma per ora non ci eravamo mai aperti all’esterno. Oggi ce l’abbiamo fatta e il 12, 13 e 14 dicembre nel carcere di Sant’Anna debuttiamo con uno spettacolo incentrato sulla figura di Cassandra realizzato insieme alle attrici detenute e alla poetessa e scrittrice Azzurra D’Agostino. Lo spettacolo vuole indurre una riflessione sul tema del domani. Ci saranno tre attrici sedute in cerchio con il pubblico che ci guarderanno, ci studieranno e ci leggeranno la mano, offrendoci il loro punto di vista sul futuro”. Arienzo (Ce). “Dialoghi di libertà”, un festival dedicato al teatro in carcere ansa.it, 24 novembre 2023 Si intitola “Dialoghi di libertà”, il primo festival nel Sud Italia dedicato al Teatro in Carcere, organizzato dall’Associazione Polluce in collaborazione con il Ministero della Cultura, il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria della Regione Campania, la Casa di Reclusione “G. De Angelis” di Arienzo ed il Comune di Arienzo. Dal 12 al 18 dicembre si svolgeranno incontri presso la Sala Consiliare del Comune di Arienzo (Ce) e spettacoli teatrali presso la Chiesa della SS. Annunziata di Arienzo (Ce). Il festival prevede il coinvolgimento di realtà che lavorano in carcere sia sul territorio regionale che nazionale. Attraverso i convegni si intende tracciare una nuova configurazione del teatro negli istituti penitenziari, individuare nuove azioni e strategie condivise. A partire dal Progetto Teatro Inclusivo dell’Associazione Polluce, che ha ottenuto ottimi risultati sociali e pedagogici nel penitenziario di Arienzo, si affronterà il tema su come implementare il lavoro con i detenuti per costruire un polo di sviluppo di progetti teatrali creativi. È con questo scopo che nasce l’idea “Dialoghi di libertà”. Ed anche dall’esperienza dell’Associazione Polluce, che si occupa da anni di un laboratorio teatrale stabile per le arti sceniche presso la Casa di Reclusione “G. De Angelis” di Arienzo (CE), ora sede della compagnia teatrale “La Flotta” composta da detenuti, ex detenuti e professionisti dello spettacolo dal vivo. Da questa esperienza sono scaturiti progetti satelliti in altri istituti penitenziari Campani [Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi (CE); Casa di Reclusione di Carinola (CE); Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli (NA); Casa Circondariale “F. Uccella” di Santa Maria Capua Vetere (CE); Casa Circondariale “G. Salvia” di Poggioreale (NA)-Padiglione Venezia, Reparto Sex Offender; Icam di Lauro (AV)]. Ospite d’onore del festival “Dialoghi di Libertà” è Armando Punzo, regista della Compagnia teatrale La Fortezza della Casa di reclusione di Volterra, nonché formatore e Leone D’Oro alla Carriera. In tale occasione Punzo illustrerà l’esperienza straordinaria della Compagnia La Fortezza attraverso il suo libro “Un’idea più grande di me. Conversazioni con Rossella Menna” (ed. Luca Sossella, 2019, seconda e 2020). Durante il festival, inoltre, sarà presentato il primo Coordinamento di Teatro Carcere della Regione Campania, composto dalle compagnie teatrali: Associazione Polluce (prima firmataria), Delirio Creativo/Gli ultimi saranno, Agita, Teatri Ingestazione Gesualdi-Trono, Exitstrategy, Le voci di Dentro, Puteca Celidonia. Un’ampia sezione del festival è dedicata alle rappresentazioni di spettacoli. Le compagnie teatrali ospitate, che si esibiranno nella Chiesa dell’Annunziata del Comune di Arienzo, sono: Teatro Nucleo di Ferrara, Teatro Metrapopolare di Prato, Delirio Creativo, Teatro dei Venti, Gli ultimi saranno, Manovalanza Teatro, Teatringestazione Gesualdi/Trono, Collettivo Lunazione, Le voci di Dentro. Più che inasprire le pene, serve disinnescare le dipendenze affettive di Patrizia Mattioli* Il Fatto Quotidiano, 24 novembre 2023 Filippo le diceva di sentirsi solo e disperato, di non vedere un futuro senza di lei, incapace evidentemente di affrontare le sue angosce di perdita. Giulia si dispiaceva, forse si sentiva in colpa o cattiva per la rottura e la sofferenza involontariamente inflitta e accettava di rivederlo. Un distacco difficile da realizzare, per due ragazzi cresciuti in una piccola comunità, dove ci si conosce tutti, il gruppo di amici è lo stesso. L’ultimo incontro le è stato fatale e forse lui aveva in mente una conclusione che non è riuscito a portare a termine. Una storia già vista. Siamo tutti stanchi di leggere le stesse notizie, di stare con fiato sospeso per il mistero di una storia d’amore, che misteriosa purtroppo non è. Sapevamo già come andava a finire. Delitti di genere che si susseguono, allontanati gli ultimi ne succedono altri. I politici propongono interventi mirati ad insegnare l’educazione all’affettività nelle scuole di ogni ordine e grado, per gli studenti e per le famiglie. Sarebbe auspicabile, corsi di educazione al rispetto per l’altro e per se stessi, di educazione al prendersi cura di se. Non certo lezioni di educazione teorica, ma esperienze, dove i bambini, i ragazzi, le famiglie, sperimentano i vissuti che impareranno a riconoscere: come segnali di pericolo esterno (se un partner o una partner diventa maltrattante) e/o segnali di pericolo interno (se salgono specifici stati d’animo). Certo, non può essere un’educazione fatta dagli insegnanti, che peraltro hanno già hanno il loro bel da fare a scuola. Non serve inasprire le pene per diminuire un fenomeno, tantomeno se riguarda la dinamica di coppia che è nello stesso tempo spazio psicologico di felicità e sofferenza. Non è certo la severità della pena a trattenere un comportamento violento spesso, anche se non sempre istintivo, che esplode in uno specifico momento, ma che è il risultato di un lungo percorso in cui si è caricata una molla poi difficile da fermare. Gli aspetti psicologici, in particolare quelli emotivi, sono quelli sempre lasciati in secondo piano, considerati materiale di scarto del cervello più antico nella nostra storia evolutiva. Più gli “scarti” si reprimono, più si amplificano e premono per venire fuori. Oggi sembra più giusto farsi diagnosi online o farsi fare diagnosi da manuale, piuttosto che farsi aiutare in un percorso di approfondimento e conoscenza interiore, in cui riconoscere e accettare quanto si è governati dalle proprie emozioni, dai propri istinti, soprattutto da quelle/i che rimangono sullo sfondo, e quanto sia funzionale ricostruirne il percorso. Ho già scritto in altro post che dobbiamo aiutare le potenziali vittime a disinnescare il circuito della dipendenza. Questo non significa che devono assumersi l’ennesima responsabilità ma che possono riprendersi il controllo della propria affettività e della propria vita, perché abdicare a questo controllo significa comunque rimanere nella dipendenza anche verso chi aiuta ad uscirne. Ma dobbiamo aiutare anche i potenziali carnefici a non sottovalutare i propri sentimenti, o i mancati sentimenti, a gestire le proprie angosce in tempo, prima che queste diventino la bussola di comportamenti distruttivi. Credo però che sia importante non limitarsi a puntare il dito verso un colpevole e cercare di uscire dalla dicotomia vittime/mostri perché questa non spiega realmente la complessità di quello che accade, non aiuta a prevenire altri omicidi e alimenta sentimenti di rivalità di genere di cui non abbiamo davvero bisogno. *Psicologa e psicoterapeuta Cosa mancava al killer di Giulia? di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 24 novembre 2023 La morte violenta di Giulia - la ragazza assassinata in Veneto dall’ex fidanzato - mi interroga nel profondo, innanzitutto come madre, su che “razza” di genitori siamo, noi generazione del boom economico, noi “boomer” come ci chiamano i nostri figli. E ancor più mi interroga, dopo aver incrociato gli sguardi di alcune delle centinaia di ragazzi e ragazzi che affollavano venerdì scorso la Cattedrale di Torino per ascoltare il nostro Arcivescovo: “Si parla spesso di voi come di un problema, invece che come una risorsa”, ha scritto mons. Repole nella lettera inviata a tutti i giovani delle diocesi Torino e Susa per invitarli alla catechesi. “E, quando si pensa a voi in positivo, lo si fa solo in termini di profitto economico che si potrebbe trarre dalle nuove generazioni. Soprattutto sono molto dispiaciuto del fatto che pochissimi sappiano offrirvi qualcosa per cui possiate sognare e guardare con fiducia al futuro. Sono ormai una rarità coloro che sanno dirvi per che cosa vale la pena di vivere”. In tanti sono venuti per sentire dall’Arcivescovo una parola di consolazione, una risposta alla domanda “per che cosa vale la pena vivere?”. Giulia e Filippo non sono ragazzi disagiati cresciuti in contesti difficili, in situazioni di povertà o emarginazione sociale. Non sono stranieri arrivati con i barconi facile preda delle mafie, né figli di camorristi o cresciuti in famiglie disfunzionali. Sono universitari, nati in famiglie del ceto medio nel ricco Nord Est, non a Scampia. “Ragazzi normali”, come si diceva 22 anni fa dei due ragazzi di Novi Ligure che dal febbraio 2001, per settimane, riempirono le cronache dei giornali e dei dibattiti televisivi dove si alternavano psichiatri, psicologi, criminologi e sociologi per cercare di capire come due “ragazzi normali”, appunto, avessero potuto commettere delitti così efferati. Così succederà per Filippo e per la povera Giulia, ammazzata alla vigilia della laurea dal suo compagno di studi e fidanzatino: tutti a chiedersi come mai? Perché? Era un “ragazzo normale”… Anche qui come allora ci sono due famiglie distrutte: quella di Giulia, perché non ha capito quanto “tossico” fosse quel rapporto “affettivo”; la famiglia di Filippo che si tormenterà per tutta la vita su come non abbia potuto accorgersi di aver cresciuto un assassino… Due “ragazzi normali” che ci interrogano, che interrogano tutti noi genitori: cosa sappiamo dei nostri figli? Quanto li aiutiamo, al di là di riempire la loro vita accontentandoli in tutto per far tacere i nostri sensi di colpa per le nostre assenze, presi dalla frenesia delle nostre giornate piene? Come colmiamo il loro vuoto se non insegniamo loro che noi “boomer” abbiamo fatto fatica a conquistare un posto nella società e che i divieti, le sconfitte fanno crescere? Genitori “spazzaneve ed elicotteri” qualcuno ci ha definiti… Anche io sono stata una madre così, perché spesso non ho retto la frustrazione di mia figlia. Ma quanto bene le ho fatto comprandole un giocattolo o un vestito, piuttosto che passare un pomeriggio con lei a raccontarle di quante lacrime ho versato alla sua età perché i miei genitori non mi accontentavano in tutto? Filippo, l’assassino di Giulia, non accettava di essere lasciato, aveva paura di rimanere solo: quanta solitudine tra i nostri ragazzi… Giulia non ha trovato nessuno con cui parlare della paura per quel ragazzo possessivo che non la mollava? Quanta solitudine… Ma dove sono gli adulti in questa storia? Dove sono io, mamma? Sono passati 22 anni dai fatti di Novi Ligure, eppure siamo ancora lì a chiederci perché i “ragazzi normali” possono essere protagonisti di vicende così poco “normali”. Uccidere la “morosa” che ti ha lasciato perché non ce la fai a reggere la solitudine che hai dentro è normale? È normale uccidere la mamma e il fratellino perché il tuo fidanzatino non piace alla tua famiglia? La risposta - come più volte richiama il nostro Arcivescovo e lo ha ripetuto ai giovani assiepati venerdì in Cattedrale - è ancora la stessa di allora: è il vuoto educativo e culturale che da decenni annienta le nuove generazioni, figli di noi genitori disattenti, intossicati dal pianificare le loro vite senza considerare le loro inclinazioni; dal dare loro “cose materiali” e non tempo per ascoltarli, consolarli, abbracciarli per colmare il vuoto che fa cadere nel panico i “Filippo” che non sopportano di essere lasciati soli, uccidono la “tua” ragazza che ti ha allontanato e poi scappano. Filippo è fuggito da sé stesso perché non c’è luogo dove andare dopo aver “eliminato” fisicamente chi pensavi di amare… Ora che la sua corsa si è fermata avrà molto tempo in carcere - glielo auguriamo - per ricostruire i pezzi della sua vita come dice l’art.27 della Costituzione italiana: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. “Questa minaccia alla nostra sete di vita e al nostro desiderio di un senso per cui esistere ci viene anche da tutte le mille persone tristi, pure adulte, che incontriamo attorno a noi” ha ricordato l’Arcivescovo ai giovani in Cattedrale. “È davvero difficile incontrare oggi degli adulti sereni, che trasmettono un senso di pace, che ci manifestano con il loro modo di essere e di vivere di essere contenti della vita che fanno, del lavoro che svolgono, delle relazioni che hanno… È più facile incontrare delle persone intristite e annoiate che ci mandano il messaggio - anche senza parlare - che la vita non è bella e promettente, che non ci possiamo spendere per qualcosa che ci dà appagamento profondo e gioia vera”. Ma dove sono gli adulti in questa storia? Quali adulti - genitori, insegnanti, educatori - hanno incrociato le strade di Giulia e Filippo? Che madri e padri siamo? Fermiamoci: lo dobbiamo ai nostri figli, lo dobbiamo a Giulia ammazzata perché ha detto “no” a Filippo che non si è rassegnato ad essere lasciato perché non siamo stati capaci di insegnargli che nella vita non tutto è dovuto. E che, come il giovane ricco del Vangelo che chiede a Gesù “cosa devo fare per dare senso alla mia vita” - tema della catechesi proposta dall’Arcivescovo - “se davvero vuoi vivere, e se davvero vuoi trovare un senso per la tua vita, allora guarda l’altro, renditi conto dell’altro, di chi ti sta vicino, di chi ti capita di incontrare ogni giorno. Vagli incontro, come qualcuno che è davvero altro da te e prenditi cura di lui, della sua vita. Perché? Perché è solo se hai il coraggio di non essere concentrato su te stesso, rinchiuso nei tuoi pensieri, nelle tue paure, nei tuoi fantasmi, nei tuoi bisogni… è solo se esci dal guscio di te stesso e incontri qualcun altro che cominci davvero a respirare e a vivere”. Allarmi inascoltati e “ricatti” emotivi. Così muore una ragazza di Francesca Spasiano Il Dubbio, 24 novembre 2023 Dalla chiamata al 112 “senza risposta”, ai messaggi struggenti alle amiche. Alla fine Giulia è rimasta sola, vittima - dice l’esperta - di quella “manipolazione tipica di tutti gli uomini violenti”. Si dirà che Giulia Cecchettin avrebbe dovuto cogliere i segnali della violenza. Che avrebbe dovuto meglio valutare il rischio che correva all’interno di quella relazione con l’ex compagno Filippo Turetta, con il quale aveva rotto, sì, ma senza allontanarsene definitivamente. Tutto questo si dirà soprattutto ora che le parole della 22enne ammazzata e ritrovata in un canalone vengono a bussarci alla coscienza. Sono le parole che Giulia aveva rivolto alle amiche in un audio recuperato e diffuso dalla trasmissione Rai Chi l’ha visto. Leggiamolo. “Vorrei fortemente sparire dalla sua vita, ma non so come farlo. Mi sento in una situazione in cui vorrei che sparisse, vorrei non avere più contatti con lui. Però allo stesso tempo lui mi viene a dire che è super depresso, che ha smesso di mangiare, passa le giornate a guardare il soffitto, pensa solo ad ammazzarsi, vorrebbe morire. Non me le viene a dire per forza come ricatto però suonano molto come ricatto. Allo stesso tempo mi viene a dire che l’unica luce che vede nelle sue giornate sono le uscite con me o i momenti in cui io gli scrivo. Io vorrei non vederlo più, comincio a non sopportarlo più. Vorrei fortemente sparire dalla sua vita, ma non so come farlo. Mi sento in colpa, ho troppa paura che possa farsi male in qualche modo”. Cosa ne deduciamo? C’è spazio per una riflessione, oltre allo strazio che quel messaggio d’allarme provoca dopo un tragico epilogo, quanto ormai è troppo tardi? Giulia capiva che il suo fidanzato la ricattava emotivamente. La manipolava, aggiungiamo. Ma non riconosceva che quella forma di violenza potesse degenerare fino alle sue massime conseguenze, ponendo fine alla sua vita. Giulia temeva per lui, “che pensa solo ad ammazzarsi”. Non temeva per sé. Era caduta nello schema che la cronaca ci restituisce sempre uguale: un uomo che non “accetta” la fine di una relazione, una donna che si autocolpevolizza per le conseguenze della propria decisione. Che dovrebbe essere una scelta libera, ma non lo è quasi mai. Subentra il senso di colpa, insieme alla paura che la situazione sfugga di mano. Ma a chi spetta “tenere a bada” colui che potrebbe rivelarsi il proprio assassino? Spetta alle donne “difendersi”, fare di tutto per restare in vita? Perché le donne ancora cadono nella “trappola” della violenza, invece di scappare a gambe levate, come siamo tentati di dire in questi casi? “Partiamo dal fatto che questo ragazzo è un uomo violento, e tutti gli uomini violenti sono dei grandi manipolatori, che riescono ad appropriarsi dell’anima dell’altra persona, facendola ragionare a modo proprio”, spiega Cinzia Marroccoli, psicologa, consigliera della la rete D.i.Re e presidente del Centro antiviolenza di Potenza. Sembra ormai chiaro che l’ex compagno esercitasse su Giulia una “violenza psicologica, il cui primo indicatore è la gelosia ossessiva, che altro non è se non l’espressione di potere e di controllo su quella che lui definiva la propria fidanzata, come ha continuato a definirla anche dopo l’arresto”, prosegue l’esperta. A differenza di molte altre donne, che Marroccoli ha incontrato nel suo percorso professionale, Giulia era “lucida”: una parte di lei “era integra”, desiderava riappropriarsi della propria autonomia, tanto è vero che lo aveva lasciato. Ma dal timore che lui potesse farsi del male era nata anche la convinzione “di doverlo proteggere, di doversene prendere cura, perché non avrebbe retto quel senso di colpa derivante dalla manipolazione”. Perché non è riuscita a sottrarsi a quello schema? Il fatto è che la “nostra emotività a volte prende strade diverse dalla nostra intelligenza”, dice Marroccoli. Giulia era caduta “nella trappola del patriarcato” e il suo senso di colpa “derivava proprio da questo: dal venir meno da quel ruolo femminile che ci hanno inculcato. Per uscirne bisogna fare un lavoro di consapevolezza che passa per un doppio livello, personale e sociale. C’è una cultura ancora da scardinare, e ne è prova la reazione scomposta suscitata dalle parole della sorella di Giulia, Elena, quando ha puntato il dito contro il patriarcato”, chiosa la presidente del Cav. Ma uscire da quell’incubo, liberarsi definitivamente di quel possesso, avrebbe davvero salvato Giulia? Da oggi la domanda che si impone è un’altra. Perché ciò che resta è il dato di cronaca, ovvero le due telefonate arrivate al 112 quella tragica sera dell’11 novembre: la prima da parte di un testimone, che al centralino riferisce di aver sentito una donna chiedere aiuto e gridare “così mi fai male” durante una lite violenta con un uomo nel parcheggio di Vigonovo. La seconda da parte di un vigilante presso il calzaturificio di Dior. A quelle segnalazioni non sarebbe seguito alcun intervento delle forze dell’ordine, fino all’indomani, quando il padre ne ha denunciato la scomparsa. E ora spetterà alla procura di Venezia, che ha acquisito le telefonate per confrontare gli orari, capire cosa è davvero successo e come sia stato possibile. Da “amore” a “mostro”: che ruolo ha il linguaggio? di Greta Privitera Corriere della Sera, 24 novembre 2023 Il modo in cui raccontiamo i femminicidi influisce sull’opinione pubblica ecco perché la scelta delle “parole giuste” è fondamentale. Nel punto 10 del “Manifesto di Venezia” - la Carta per i giornalisti e le giornaliste per il rispetto e la parità di genere nell’informazione - c’è scritto tutto. Ci sono le indicazioni per un uso corretto del linguaggio per scrivere e parlare anche di femminicidi in modo consapevole. Perché la scelta delle “giuste parole” è il primo strumento che abbiamo per cambiare cultura e narrazione. “Il modo in cui raccontiamo, influisce sull’opinione pubblica. Noi esseri umani siamo degli animali narranti e narrati - dice Vera Gheno, linguista - da sempre capiamo le cose raccontandole. Conoscere i termini corretti è la chiave per la costruzione di una società più giusta e rispettosa”. L’esperta di linguaggi ci aiuta a comprendere le parole - spesso sbagliate - che usiamo quando ragioniamo di femminicidio. Amore - “Amore tossico”, “troppo amore”. Utilizzare questa parola per descrivere un femminicidio significa inserire il reato tra i possibili risultati di una storia amorosa. Presenta il femminicidio come una forma di “amore deragliato”. Ma bisogna ricordarselo: questo non è amore (come il titolo del libro de La27Ora, pubblicato nel 2013). Gelosia - Se si parla di gelosia come possibile movente, significa reputare in qualche modo comprensibile essere così tanto gelosi da uccidere una persona. Come se questo sentimento negativo possa giustificare l’uccisione di una donna. Raptus - Usare questo termine pone l’atto di uccidere fuori dalla normalità. Si sottintende che ci sia una momentanea perdita di lucidità mentale del soggetto, togliendo anche la premeditazione. Rende il delitto meno grave perché si presume che la persona non sia in sé. Mostro - Mela marcia della società, bestia. Sono tutti termini che creano alterizzazione, in inglese ohering, ossia l’invenzione di un altro diverso da noi. Così facendo non ci si prende le responsabilità dell’esistenza di un sostrato culturale - in questo caso maschilista e patriarcale - che c’è e di cui tutti facciamo parte. Patriarcato - È la struttura di potere prevalente nella nostra società che garantisce il potere, appunto, alle persone di genere maschile. L’obiettivo è quello di costruire un mondo egualitario in cui nessun genere prevale sull’altro. Possesso - L’esercizio del controllo, del dominio sull’altro che viene spesso scambiato per amore. Sting canta “Se ami qualcuno lascialo libero”, ed è pura verità. Dire “sei mia”, “sei mio”, non è amore ma aggettivo possessivo e ossessivo. Diverso è dire “mio marito”, la “mia fidanzata”, che spiega uno stato. Sorellanza - Potrebbe essere un antidoto a queste degenerazione dei rapporti. Confrontarsi, parlare con altre donne può aiutare a riconoscere comportamenti pericolosi. Partire da una solidarietà femminile per costruirne una di tutti. È troppo facile dire “io non lo farei mai” di Federico Plantera* Il Fatto Quotidiano, 24 novembre 2023 Tra le tante immagini della calda e soleggiata estate italiana, ce n’è una un po’ nascosta che mi ha accompagnato. L’espressione di viscerale disgusto di mia madre, a pranzo o cena. Ogni volta che al telegiornale usciva la notizia di uno stupro, un femminicidio, una violenza di genere. Una cosa che viene davvero dal profondo, e lo noti, si vede. Anche perché io e mio padre siamo stati abbastanza fortunati da non vederla spesso, quell’espressione. Anzi, quasi mai, andando a memoria. Che poi possiamo dirlo anche così, “una violenza”, perché è successo così tante volte che anche linguisticamente il numero di casi si perde nell’indeterminatezza degli articoli. E non che io e mio padre vi rimanessimo indifferenti. Però ecco, io e mio padre siamo comunque uomini - c’è un piano di comprensione di quel disgusto a cui, naturalmente e socialmente, secondo me non si arriva. Attenzione: ora non mettiamoci a tirare fuori statistiche per ridimensionare o minimizzare. Ci sono 52 settimane in un anno. Al 12 novembre (dati Interno), 102 donne sono state uccise, di cui 82 in ambito familiare o affettivo, di cui 53 per opera del partner o dell’ex. Molte, avevano già denunciato. In questa conversazione, questo basta. Praticamente ogni settimana abbiamo tutti letto o sentito parlare di questo tema. Eppure tutt’intorno regnava (e regna) quotidianamente il mezzo sorriso, l’impunità - nei commenti, nelle battutine “inoffensive”, nelle “sfumature del caso”, nel “eh ma sono malati”, nel “lupo dalle cattive intenzioni”. I commenti e le battutine sono inoffensivi solo per chi li pronuncia. Le sfumature del caso sono roba da avvocati. Malati questi non sono, né tantomeno lupi - e di sicuro non solitari. Compari, qui la responsabilità è e deve essere quotidiana, e bisogna chiamare le cose col loro nome. Anche e soprattutto con gli amici, senza remore. Nei bar, negli uffici, seduti sul muretto al mare, o con la Peroni a bordocampo dopo la partita di calcetto. Le cose non succedono mai, fin quando non succedono per davvero. È troppo facile dire “io non lo farei mai”, chissà quante volte l’avranno pensato anche quelli che poi l’hanno fatto. O marginalizzare i colpevoli - quando vengono beccati - col “sono pazzi”, sono “altro” dalla società in cui vivo io. La violenza di genere è figlia di convinzioni e atteggiamenti radicati. E i fatti gravi sono figli delle piccole cose. Proprio perché queste cose sono strutturali: la violenza come opzione reale, il controllo, l’esercizio del potere sulla vita di una donna. Non siamo ‘nati imparati’ esattamente perché tutto ciò è parte integrante della società in cui viviamo, non ci sono santi protettori e maiali. C’è però una curva di apprendimento per tutti, me compreso. Ed è ignorandola e non praticandola che si resta passivi, o si diventa complici. Ascoltare, capire, spiegare ad altri, evidenziare, e condannare - sempre. Con ogni tono e mezzo efficace. Come detto, la responsabilità è quotidiana, se no qua non ce ne usciamo. Mai. Questi pensieri non devono venire a galla solo quando si guarda alle nostre madri, sorelle, cugine, fidanzate. In questa riflessione specifica si parte da qui, ma il problema è diffuso. Onnipresente, quasi, per quanto l’ego e il rumore di molti provino comunque a circoscriverlo. E non so voi, ma sapere che qualcun? - che cammina per strada, che va ad una festa, che deve chiarire con qualcuno - debba anche solo concepire l’eventualità che quella sia l’ultima cosa che fa prima di essere uccis?, deve suscitare solo quello stesso disgusto viscerale che sentono da tempo le donne dentro e fuori la nostra vita. E che ho visto ognuna di queste volte in mia madre. *Blogger e giornalista Valditara: “Educazione alle relazioni”. Trenta ore di lezione al pomeriggio su base volontaria di Gianna Fregonara Corriere della Sera, 24 novembre 2023 Presentato il progetto di prevenzione della violenza di genere per gli studenti. È sperimentale e saranno ore extracurriculari per le scuole che lo chiedono. Coinvolti l’Indire e l’ordine degli psicologi. Quindici milioni per partire. Dice il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara che “in prima linea nella battaglia per sradicare il maschilismo deve esserci la scuola”. Ma il progetto elaborato dal governo resta nel dopo-scuola. Non entra infatti nel curriculum, l’educazione alle relazioni, presentata mercoledì al Senato: saranno infatti ore extra curriculari, cioè pomeridiane in cui si svolgeranno gruppi di discussione per far prendere “coscienza agli studenti dei propri atteggiamenti e delle proprie rappresentazioni relativamente ad un determinato argomento nonché della possibilità di modificarli grazie all’interazione con altri. Gli studenti verranno edotti delle conseguenze penali di atti impropri”, ha aggiunto il ministro. Il percorso - Alle scuole è già arrivata una direttiva dal ministero per illustrare “il percorso progettuale”, che è sperimentale: l’adesione delle scuole e poi delle classi è su base volontaria. In ogni scuola verrà individuato un referente e poi a guidare i gruppi di discussione ci sarà un docente, che dovrà essere formato con corsi predisposti dall’Indire. Genitori e studenti dovranno dare il proprio consenso. I progetti verranno monitorati. Il Forum nazionale delle associazioni dei genitori della scuola dovrà controllare e proporre miglioramenti. Per questi progetti sono stanziati 15 milioni da qui al 2027, nell’ambito dei fondi Pon. Fin qui la direttiva, ma il ministro Valditara spiega che l’attività dei gruppi di discussione dovrà essere di trenta ore, appena tre ore in meno di quelle previste per l’educazione civica (nel curriculum) che si andrebbe così a raddoppiare ma al pomeriggio. A garantire la scientificità di queste lezioni di gruppo sarà il Cnop, l’ordine degli psicologi, che collaboreranno con le istituzioni scolastiche che monitorerà l’esito della sperimentazione. La scuola stessa dovrà fornire una relazione finale. La collaborazione con l’ordine degli psicologi dovrebbe sfociare anche in un protocollo per avviare una “strutturale sinergia di azione che comprende la progettazione di presidi territoriali di psicologi a supporto delle istituzioni scolastiche” I tempi - Sui tempi per far partire il progetto anche Valditara non può essere preciso: “Dobbiamo formare gli insegnanti, spiega. Speriamo di partire nella seconda metà dell’anno scolastico”. Se sarà così a giugno si tireranno le prime somme. E poi? “In prospettiva potremmo far diventare obbligatorie queste ore di lezione”, aggiunge il ministro. Ma in questo caso ci vorrà una legge per far entrare la materia nel curriculum, ciò che sta fuori non può essere obbligatorio. Piano Valditara. Le Associazioni (mai consultate): “Rischia di riprodurre gli stereotipi di genere” di Riccardo Antoniucci Il Fatto Quotidiano, 24 novembre 2023 Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha presentato mercoledì 22 novembre il progetto per contrastare la violenza di genere nelle scuole, ampiamente annunciato nei mesi scorsi sull’onda dei casi di cronaca. Si intitola “Educare alle relazioni” e al momento oltre al titolo contiene solo alcune scarne linee guida, che però bastano ad attirare le critiche di sindacati e associazioni che si occupano di violenza. Il documento di 3 pagine e cinque articoli, si rifà alla direttiva “Educare al rispetto” varata nel 2016 (in attuazione di una legge del 2015) dall’allora governo Paolo Gentiloni, con ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli. 30 ore facoltative, solo per le superiori - Il piano è finanziato con 15 milioni, provvisoriamente. Ma almeno tre elementi mettono in dubbio l’efficacia del progetto, al di là dell’opportunità politica di offerta dal femminicidio di Giulia Cecchettin. Lo stesso ministro, del resto, ha riconosciuto che il progetto è nato sull’impulso “dagli eventi della scorsa estate, come lo stupro di Palermo e di Caivano”. Innanzitutto il progetto di Valditara è una direttiva ministeriale, quindi non è obbligatorio per le scuole seguirla. Si legge infatti nel testo: “Le istituzioni scolastiche possono, nell’ambito della loro autonomia, attivare iniziative progettuali che prevedano il coinvolgimento attivo degli studenti anche in gruppi di discussione coordinati da docenti”. In secondo luogo, il piano è rivolto, anche se in via “sperimentale”, solo agli istituti superiori, per studenti dai 15 anni in su. Infine, anche se nella direttiva non è specificato, Valditara ha precisato in conferenza stampa che i moduli del progetto saranno extracurriculari, cioè facoltativi per gli studenti, e dureranno in tutto 30 ore. Al centro docenti e famiglie - Si dà indicazione di prevedere in questi progetti un docente referente, la costituzione di “focus group” divisi per classi, con un docente moderatore che dovrà essere formato secondo un percorso affidato all’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa (Indire), con la collaborazione dell’ordine degli psicologi e di “atri organismi scientifici e professionali qualificati” non meglio specificati. Come non è specificato il contenuto della formazione. Viene specificato inoltre che il progetto non potrà essere avviato senza il consenso dei genitori e degli studenti, e infatti il ministero ha affidato al Forum nazionale delle associazioni dei genitori della scuola (Fongas) “il compito di raccordare le modalità di attuazione dei percorsi progettuali con le esigenze e le osservazioni migliorative delle rappresentanze dei genitori”. Un metodo dell’800 - La teoria psicologica di riferimento citata come riferimento di questi “focus group” di educazione alle relazioni è ispirata al metodo di Balint, che nasce in ambito medico e con lo scopo di migliorare le relazioni tra paziente e curante e promuovere il benessere lavorativo. Il metodo è stato elaborato dallo psicanalista Michael Balint nel 1846 e si indirizzava al lavoro dei medici di famiglia. Oggi ha applicazioni in ambito di impresa, ma nessuna nell’ambito del contrasto alla violenza di genere o educazione alle relazioni. Quanto ai contenuti, al momento è possibile dedurre qualcosa soltanto dalle dichiarazioni di Valditara, che ha parlato di coinvolgimento dell’Ordine degli psicologi e di possibilità di intervento, durante le 30 ore, di figure esterne come psicologi o “influencer, cantanti e personaggi amati dai ragazzi in qualità di ambassador”. Tra cui si menzionano esperti in educazione affettiva e relazionale, avvocati, assistenti sociali, operatori di organizzazioni attive nel campo del contrasto alla violenza di genere. Seconfo le anticipazioni diffuse sulla stampa, il piano prevederebbe addirittura di chiedere allo studente di scrivere a fine percorso una relazione sull’esperienza svolta e che gli elaborati poi, dovranno essere inviati al Ministero dell’istruzione. Le associazioni: “Rischia di riprodurre gli stereotipi” - Di contro, non sono state consultate dal ministero associazioni che si occupano di violenza di genere o educazione di genere da anni in Italia. Non è stata chiamata in causa, per esempio Differenza Donna, onlus di contrasto alla violenza sulle donne, che con la responsabile dell’area formazione Sabrina Frasca spiega al Fatto: “L’intento di lavorare sulla violenza contro le donne a scuola è condivisibile, ma il dispositivo è parziale. Non solo perché lasciato alla volontarietà, ma perché la formazione dei docenti è affidata a Indire e all’Ordine degli psicologi senza prevedere le professionalità di chi lavora quotidianamente con le vittime di violenza. Noi associazioni riteniamo che la violenza di genere sia un prodotto e un problema culturale, qui mi sembra la si voglia schiacciare sulla psicologia, come fosse una questione di devianza o la sanità mentale”. Anche per Monica Pasquino, presidente della rete di associazioni territoriali Educare alle differenze attiva da 10 anni (non consultata dal Ministero) la volontarietà è il limite più grande: “Difficilmente un ragazzo o un genitore che nega l’esistenza della violenza contro le donne accetterà di partecipare”, spiega al Fatto. Pasquino vorrebbe che la formazione fosse affidata a professionalità competenti, dai centri antiviolenza ai consultori. Affidare la gestione dei focus group a docenti non specialisti, anche dopo un corso di formazione, rischia addirittura di riverberare i fondamenti della violenza: “Chi studia queste tematiche sa che la violenza di genere è un iceberg, dove la punta è la violenza fisica, ma tutto il resto è fatto da una cultura sessista di sistema. Se si vuole lavorare per prevenire bisogna lavorare su stereotipi, pregiudizi, modelli che circolano tra ragazzi e ragazze, libri di testo e strumenti educativi. Questi insegnanti avranno fatto i conti con i loro stereotipi?”. “I docenti assumono anche la funzione impropria di psicoterapeuti”, è anche la posizione della Flc Cgil, che in comunicato ha “bocciato” il progetto di Valditara. Il sindacato dice di ritenere “inaccettabile che al Forum nazionale delle associazioni dei genitori della scuola venga attribuita una funzione di orientamento delle attività svolte all’interno dei progetti, condizionando le scelte progettuali delle scuole, e che i genitori siano chiamati in causa solo per l’acquisizione del consenso sottovalutandone il ruolo centrale in quanto primi corresponsabili dell’azione educativa nei confronti dei figli”. La polemica sul coordinatore Amadori - Ha fatto polemica negli ultimi giorni il fatto che il coordinamento del progetto sia stato affidato ad Alessandro Amadori, ex sondaggista e spin doctor di Valditara, autore di un saggio con tesi controversi e a tratti non scientifiche sulla violenza di genere intitolato La guerra dei sessi. Mercoledì in conferenza stampa Valditara ha negato che Amadori fosse responsabile del progetto, ma già a settembre il diretto interessato parlava con il Fatto di questo argomento confermando di partecipare all’elaborazione delle linee guida. L’omicidio di Giulia, quando l’assassino non è un bullo. Una riflessione per i genitori di Maurizio Tucci* Corriere della Sera, 24 novembre 2023 Maurizio Tucci, presidente del Laboratorio Adolescenza, ci invita a riflettere sull’educazione e sul nostro sguardo sui figli, che sono diventati “sovrani” in famiglia. A parità di tragedia e a parità di dolore, l’omicidio della giovane Giulia - che non è il primo e purtroppo è difficile sperare che possa essere l’ultimo di questa rabbrividente categoria - ha suscitato un clamore particolare e una reazione dell’opinione pubblica fortissima. Tra le possibili ragioni, il fatto che sia maturato in un ambiente familiare e sociale “insospettabile”. Probabilmente, se Filippo fosse stato un personaggio borderline, un bullo conclamato, un ragazzo proveniente da un contesto sociale a rischio o, perché no, un immigrato, saremmo, per assurdo, più “confortati”, perché questo ci consentirebbe di allontanarlo un po’ di più dall’immaginario che noi “perbene” ci costruiamo dei nostri figli. E magari a qualcuno potrebbe anche venir voglia di azzardare, a commento, quel disgustoso “ma un po’ se l’è andata a cercare” che ancora sentiamo troppo spesso. La scuola - E invece niente, l’assassino non ci dà nessun appiglio per distinguerlo dai nostri figli, bravi e studiosi, e ci sbatte impietosamente in faccia la realtà che stiamo vivendo. Ci costringe a guardare con più attenzione intorno e dentro la nostra stessa famiglia. Sulla scorta dell’emozione che la morte di Giulia ha suscitato ognuno, chi in buona fede chi meno, ha tirato fuori le sue “ricette”. Da nuove leggi a pene più severe, fino al ripescaggio, più a sproposito che mai, della castrazione chimica. E poi, inevitabilmente, è stata tirata in ballo la scuola. Come spesso capita quando non si sa che fare, ecco che la vituperata scuola diventa la sponda più comoda per affidare il compito di trasformare i cannibali in vegetariani. Adolescenti senza il minimo senso civico? Otto ore al mese di educazione civica. Adolescenti che ammazzano la fidanzata (o ex) perché invidiosi del fatto che è più sveglia di loro o perché li ha lasciati? Altre otto ore al mese di educazione all’affettività. E così, dopo le otto più otto ore di educazione civica e di educazione all’affettività, rimandiamo a casa i ragazzi, magari a rieducare padri, madri e governanti che di senso civico ne hanno spesso molto meno di loro e che continuano a considerare, di fatto, donna e uomo su piani diversi e secondo la morale che è meglio non andare a stuzzicare il “lupo”, che comunque si tiene ben stretto il pelo e il vizio. La rivoluzione - Alessandra Condito, illuminata dirigente di un liceo scientifico di Milano, scrive così a tutta la comunità della sua scuola: “Penso che chi abita la scuola ha il dovere morale di essere un cittadino migliore. Perché a lui la società ha offerto il privilegio di leggere le emozioni attraverso l’esperienza del sapere condiviso, in un luogo che è fatto di voci, corpi, femminile, maschile, vita”. E poi, ragionevolmente, chiosa dicendo: “Io non lo so se la scuola basti a eliminare la violenza dalle nostre società. Perché questo accada occorrerebbe davvero una rivoluzione: nelle famiglie, in televisione, sui social, nelle Istituzioni”. Il punto è proprio questo. Serve quella rivoluzione che nell’impeto del dolore chiede, quasi istintivamente, Elena, la sorella della giovane vittima. Una rivoluzione che parta dalla famiglia. Lo psicologo e antropologo francese Daniel Marcelli nel suo libro “Il bambino sovrano” - scritto non oggi o subito dopo la pandemia Covid, ma profeticamente nel 2004 - imputa molta della violenza adolescenziale ad un deficit nel riuscire a vivere e a superare le frustrazioni. Deficit che deriva - cito sempre Marcelli - dalla mancanza, da parte dei genitori, di quel “no limitante” che insegna, appunto, a vivere e a superare la frustrazione. Le età della vita sono tutte, in qualche modo, propedeutiche a quelle che vengono dopo. E se un bambino, un preadolescente, non impara a “perdere” a “rinunciare” a infrangersi contro un “no limitante”, quando i suoi interlocutori non saranno più i genitori protettivi e il contesto non sarà più quello vellutato della sua casa, alla prima frustrazione rischierà di crollare, vivendola come una inaccettabile minaccia a sé stesso. E le conseguenze sono spesso esplosioni di violenza contro sé stessi o contro gli altri. Il sovrano - I genitori inizino a capire che il bambino, prima, e l’adolescente, dopo, non è un “sovrano” a cui tutto è dovuto purché sia bravo a scuola, bravo nello sport e ci faccia fare “bella figura” in società. Gli insegnino a stare al mondo con le sue forze e non cerchino di adattare alle sue forze il mondo. Perché comunque non potranno farlo per sempre e allora cominceranno i guai. E soprattutto, se il loro figlio è un maschio, gli insegnino, possibilmente con l’esempio, che non è un privilegio né una rendita di posizione. E poi, certo, la scuola potrà e dovrà dare il suo valido contributo ma, innanzi tutto, si cominci a rispettarla e non la si invochi solo quando intorno vediamo macerie. *Presidente del “Laboratorio Adolescenza” di Milano “Quello che aiuta è il confronto con chi ha commesso i reati” di Maria Luisa Agnese Corriere della Sera, 24 novembre 2023 Cristiana Mainardi è l’autrice del documentario “Un altro domani” con il regista Soldini. Storie di ex mariti ed ex fidanzati usciti dalla spirale della violenza grazie ai percorsi con i Cipm. Cristiana Mainardi, produttrice e sceneggiatrice, ha incontrato gli uomini maltrattanti dal 2019, quando la questora Alessandra Simone si è rivolta a lei e al suo socio storico Lionello Cerri per dare visibilità al protocollo Zeus, un progetto di rieducazione che aveva appena ideato e a cui voleva dare visibilità anche attraverso una narrazione culturale. Progetto pilota - a suo tempo - che volge lo sguardo non solo alle vittime, ma ai loro stalker e maltrattanti, il protocollo Zeus sfrutta l’ammonimento del questore per invitare l’autore di condotte lesive (ma anche solo di bullismo) a un percorso di trattamento per evitare di ricadere nel buio reiterando azioni recidive. Da lì per Mainardi è iniziata un’esplorazione che l’ha portata a scrivere e produrre il film documentario Un altro domani, con la regia di Silvio Soldini, coautore, che racconta la violenza nelle relazioni affettive e che ora viene portato e discusso nelle scuole. Di tutto questo percorso Cristiana (ideatrice e fondatrice di Fuoricinema), dice che è stata “l’esperienza più formativa” della sua vita. Cominciamo da qui, dal perché è stato così importante... “Perché, nonostante mi ritenessi una donna formata e con strumenti per approfondire il tema, spostare lo sguardo sul lavoro che viene fatto dai criminologi e dagli psicologi del Cipm di Paolo Giulini per portare consapevolezza dove non c’è, ha significato, anche per me, arrivare a livelli di profondità che non avevo. Vedere tutte quelle sfumature, quei segnali che stanno prima degli eventi eclatanti. E accorgermi che io per prima li sottovalutavo, perché non ero in grado di leggerli e di dare loro il giusto peso. Mi ha molto colpito la vicenda di uno stalker e della sua ragazza, due persone di 25 anni che ho potuto seguire da entrambi i lati. Mi ha trafitta la percezione di quanto sia sottile la linea che fa sì che un uomo possa salvarsi e salvare la potenziale vittima, o viceversa possa deragliare verso un destino nefasto”. È un attimo, dunque? Escludiamo la premeditazione? “Tutt’altro, il femminicidio è quasi sempre premeditato. Ma io ho avuto l’esatta percezione del valore che può avere intervenire per tempo sugli uomini, perché significa che questo può davvero salvare delle vite. Sentirli raccontare, comprendere le fragilità che li portano lì, è stato illuminante… altrimenti con superficialità si pensa che le persone siano incanalate in un flusso che non può essere fermato, come un destino. Invece no, e il caso di quella coppia giovane che ha avuto esito positivo lo dimostra. Spostare lo sguardo sull’uomo, sentire la sua necessità di liberarsi dall’ossessione, dall’incapacità di gestire la rabbia, la frustrazione, l’abbandono, aiuta tutti e tutte”. Tanto più se si tratta di giovani... “Certo, educare e non ingabbiarli nella subcultura machista, dove per primi sentono che agire certi comportamenti equivale a creare un’identità maschile: e poi da lì parte tutto. Ma c’è anche un messaggio di forte speranza, perché possiamo agire e fare sì che questi ragazzi abbiano una possibilità prima che questa visione distorta si cronicizzi, che si incarni in uno stile di pensiero e di vita. Per questo dico che dietro ogni persona giovane ci siamo prima di tutto noi, come genitori, che abbiamo fallito in qualcosa, che non abbiamo saputo costruire una educazione affettiva reale. E come madre di un figlio maschio mi domando sempre se sono stata in grado di allevarlo ad abitare questo mondo nel rispetto della parità”. Lo ha chiesto a lui? “Mio figlio ha 30 anni e siamo in perenne dialogo perché possiamo sempre fare meglio, entrambi. Non dobbiamo sottrarci come genitori, come scuola, come Stato. Ma credo che dobbiamo fare un grande mea culpa. In questi giorni per esempio sono andata a discutere del film negli istituti professionali, dove sono prevalentemente maschi, e sono rimasta colpita dalla loro capacità di esporsi, di raccontare i loro problemi di gestione della rabbia, e del bisogno di ascolto. Sono anche molto pratici, per esempio si domandano: ma io come faccio a capire se quando sto facendo un complimento a una ragazza lo prende bene, o se è catcalling? Questo ci fa comprendere che c’è un grosso vuoto, perché se sei nella relazione, capisci subito se il complimento è gradito o sgradito”. Sono universi che faticano a comunicare, c’è molta separatezza fra maschi e femmine, anche nelle chat: quasi un ritorno all’antico... “Sicuramente. Ma mi dà speranza il fatto che se nel gruppo “separato” ci sono uno o due elementi che sono portatori di una visione diversa, i germi attecchiscono. È una contaminazione che vale nel male, ma anche nel bene, per fortuna. Impariamo tutti una reale cultura della commozione. Spero che anche questa volta i riflettori non si spengano come si sono accesi sul caso di Giulia. E che il primo dicembre non sia già tutto dimenticato”. I social sono nemici o alleati, nella lotta contro la violenza di genere? di Greta Sclaunich e Chiara Severgnini Corriere della Sera, 24 novembre 2023 Offrono strumenti utili, ma anche armi per umiliare, tormentare o spiare le donne. Sono un volano per idee all’insegna della parità, ma ospitano anche contenuti retrogradi. E c’è chi trasforma i temi di genere in slogan da monetizzare. Nella lotta contro la violenza sulle donne, social e Rete sono nemici o alleati? Riducono i temi di genere a slogan da sbandierare tra un post sponsorizzato e l’altro, o sono un volano capace di renderli più efficaci? Rispondere è difficile, ma chiederselo è necessario dato che ormai viviamo (anche) online. Partiamo da tre punti fermi. Il primo: la Rete è uno strumento, può essere usato a fin di bene, ma anche per fare del male.Da un lato ci sono divulgazione, condivisione di informazioni e risorse utili (come le app che aiutano le vittime di violenza a chiedere aiuto); dall’altro cyberstalking, strumenti digitali che permettono ai violenti di spiare le partner e revenge porn, cioè la diffusione non consensuale di materiale intimo (le vittime, in Italia, sono 2 milioni, e il 70% è donna). Secondo punto fermo: i social polarizzano. È nella loro natura (gli algoritmi prediligono gli scontri, perché più redditizi), ma anche nella nostra (trincerarci dietro le nostre convinzioni ci viene naturale). Chi la pensa in un certo modo, tende a chiudersi in bolle social autoreferenziali. In alcune, “patriarcato” e “rape culture” sono espressioni ubique, in altre i versi delle canzoni trap che mercificano il corpo femminile sono considerati normali e le ragazze romanticizzano la possessività (“Voglio l’uomo geloso”, canta l’artista neomelodica Fabiana, e TikTok propone il brano tra quelli “popolari”). Terzo punto fermo: la Rete riflette chi siamo. Misoginia, pregiudizi e violenza nascono dentro di noi: i social li slatentizzano, o ne amplificano la visibilità. E così, stima l’European Institute for Gender Equality (Eige), una donna su dieci sperimenta una qualche forma di cyberviolenza prima di aver compiuto 15 anni; mentre, in Italia, le donne sono da tempo la categoria più odiata su X/Twitter secondo l’Osservatorio sui Diritti “Vox”. Ma c’è anche l’altro lato della medaglia: web e social come strumenti di rivendicazione, sensibilizzazione, autoeducazione. Certo, accanto a complessità, approfondimento e serietà, sulle piattaforme spopolano anche slogan semplificatori e strumentalizzazioni, con le battaglie più serie che rischiano di essere ridotte a trending topic o merci da monetizzare. Un Paese non si cambia a colpi di hashtag e il rischio che la causa femminista perda mordente a furia di essere banalizzata non va sottovalutato. Ci sono però messaggi che grazie ai social viaggiano più veloci che mai e che sembrano più forti di ogni semplificazione. “Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto”, ha scritto Elena Cecchettin, sorella della 22enne uccisa dall’ex fidanzato: parole in cui riecheggiano i versi dell’attivista peruviana Cristina Torre Cáceres. “Mamma, non piangere le mie ceneri (…) Mamma, distruggi tutto”, si legge nella sua poesia del 2017, oggi diventata virale. Un invito a smantellare le strutture di potere (reali) che nutrono la violenza. Non tutti coloro che l’hanno “condivisa” sui social passeranno dallo slogan all’azione, ma alcuni sì. I tre punti fermi ci portano qui: se le piazze virtuali svuotano quelle reali, perdiamo tutte e tutti. Se, al contrario, spingono più persone in strada, allora abbiamo una chance di vittoria in più. Tutte e tutti, anche offline. Così i social alimentano la cultura del controllo di Francesca Sforza La Stampa, 24 novembre 2023 Il vero angolo cieco nel dibattito sul controllo come forma patologica di dipendenza nelle relazioni affettive - spesso all’origine di gravi episodi di violenza nei confronti delle donne - riguarda il controllo che i ragazzi esercitano l’un l’altro da quando le loro relazioni si sono sempre più strutturate nella dimensione “da remoto” anziché “in presenza”. Tra le prime cose che fanno due adolescenti che si mettono insieme, infatti, c’è lo scambio sulla geolocalizzazione, “così tu sai sempre dove sono e io so sempre dove sei”. Poi magari non si vedono per cinque pomeriggi su sette, ma intanto sono sempre informati su dove sta l’altro, se è in casa, se è uscito, e nel caso dove è andato e a che ora torna. Può capitare di sentirli discutere (anzi no, non capita, perché tendenzialmente non discutono, ma si scrivono, si mandano dei vocali o usano la messaggistica istantanea) sul tema “ti levo la geolocalizzazione” o “perché hai levato la geolocalizzazione”. E non lo fanno guardandosi negli occhi o camminando fianco a fianco, ma ognuno dalla sua postazione, tra un libro e un videogioco, in quelle camere che stanno diventando sempre più inaccessibili non solo ai genitori, ma anche ai loro stessi coetanei. Un’altra forma di controllo è rappresentata dalla famosa spunta blu di Whatsapp: “perché l’hai levata?”, “se la levi tu la levo anche io”, “la rimettiamo nello stesso preciso istante? Prima io o prima tu?”. In genere scelgono l’opzione “senza spunta blu”, così che il genitore non sappia mai se il messaggio è stato letto o no (ma per lo più non ce l’hanno col genitore, ultimo dei loro pensieri, ma con l’amico insistente o con l’amica gelosa). Poi c’è lo scambio di profilo Instagram, dove come prova di solidità di una relazione - o meglio di esclusività - si acconsente reciprocamente alla condivisione delle password, “così io posso vedere cosa posti e tu puoi vedere cosa posto”. Non è semplicemente come scambiarsi un paio di chiavi del motorino o farne più copie: significa ingaggiare una relazione tossica a colpi di “come mai hai postato quella cosa senza dirmelo?”, “potresti avvertirmi prima di postare una cosa così magari ti dico se mi piace?”. Controlli su controlli su controlli, possibilmente incrociati con amiche o amici terzi, e una possibilità elevatissima di corto circuiti, offese involontarie, pasticci di ogni sorta. Quando poi ci si lascia è peggio che trovarsi di fronte alla divisione di un’eredità: c’è quello costretto a cambiare profilo per evitare intrusioni, c’è la creazione di miriadi di finti profili per accerchiare i fuggitivi, e tutta una serie di pratiche - gosthing, phishing, spoofing - che hanno come denominatori comuni l’inseguimento (o la fuga) da remoto, e l’assenza totale di una partecipazione del corpo: ma non era quello l’oggetto dell’amore? Ora, al di là delle possibili riflessioni sull’importanza di non perdere la dimensione della corporeità, che come sappiamo investe anche le relazioni fra adulti, la questione di un’educazione digitale si impone come momento essenziale nel disegno di una più comprensiva educazione all’affettività. Per questo ci vogliono persone che sappiano parlare il linguaggio dei ragazzi e conoscano le dinamiche delle loro relazioni, consapevoli che sui social gli adolescenti si nutrono di stereotipi e pregiudizi molto più di quanto si possa immaginare (un breve tour su TikTok è sufficiente a misurare lo scarto tra la sofisticazione raggiunta dagli algoritmi e la spaventosa arretratezza dei contenuti). Si possono fare mille discorsi a tavola sull’importanza di rispettare gli altri, di non offendere, su quanto siano brutti il razzismo, il bullismo, le violenze e tutti i tipi di abusi, ma se poi il risultato è quello di averli fatti assistere a una messa in latino che cosa ci si può aspettare? Le modalità di comunicazione in remoto hanno reso quelle in presenza tragicamente vetuste, e in questo scuola e famiglia condividono la stessa sorte. Se il piano di educazione all’affettività proposto dal ministro Valditara non prenderà di petto la questione dei linguaggi e la formazione di un personale attrezzato per una battaglia così diversa dalle precedenti, la disfatta è praticamente assicurata. Difficile immaginare che una classe di sedicenni si appassioni a un’ora di lezione sul tema del consenso. Ma magari se uno domanda loro “trovi giusto che qualcuno voglia avere la password del tuo profilo senza darti la sua?” è facile che siano più reattivi. Certo, poi non bisogna sorprendersi del fatto che il sermone sul consenso sia stato inascoltato, né spaventarsi delle risposte. Medio Oriente. “Ascolta come mi batte forte il tuo cuore”. Riconoscersi nel dolore di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 24 novembre 2023 È insensato e folle dividersi tra “Team Palestine” e “Team Israel”. Chi è intorno scenda dalle barricate fondamentaliste. In queste settimane, ormai sono quasi due mesi, abbiamo visto e letto moltissimo di quanto sta accadendo ai confini di Israele e dentro Gaza. Gli indici di lettura e condivisione attivi su Corriere.it lo confermano: il conflitto mediorientale ci chiama e ci infiamma da sempre, forse più che mai in questa crisi sconvolgente. Ci siamo divisi e continuiamo a farlo come se appartenessimo a due squadre. I sostenitori di “Team Israel” e “Team Palestine” - come ha scritto l’editorialista Simon Kuper sul Financial Times - sanno come sono andate le cose prima ancora di leggerle o ascoltarle nei notiziari, a volte prima ancora che accadano. Sanno già dove sta “la verità”, perché la verità è quella che meglio rispecchia le loro/ le nostre convinzioni, ossessioni o più semplicemente identità. È come se guardassimo con un solo occhio, impedendoci di aprire l’altro. A questa visione ristretta contribuiscono sondaggi folli che propongono il quesito (irricevibile): “Stai con Hamas o con Israele”? Nel frattempo, dentro un perimetro che non basterebbe a confinare una provincia italiana, israeliani e palestinesi sono talmente schiantati dal rispettivo dolore che per ciascuno diventa impossibile intercettare anche solo il riflesso della sofferenza dilagante dall’altra parte. Paradossalmente, erano proprio gli abitanti dei kibbutz devastati il 7 ottobre quelli che provavano a mettere insieme i pezzi. E le persone. Ne ha scritto meglio di tutti Yuval Noah Harari, storico e filosofo, la cui famiglia ha radici in uno dei villaggi del pogrom. Questa estraneità sul baratro sembra il rovescio del finale di una poesia tra le più amate di Wislawa Szymborska. Nella lirica Ogni caso , l’autrice premio Nobel per la letteratura chiude un suo viaggio in versi tra gli accadimenti della vita - un millimetro in più o in meno, a destra o a sinistra, che ti fa schivare un colpo letale - con un invito a sorpresa: “Ascolta come mi batte forte il tuo cuore”. Immaginare un riconoscimento dei due popoli nel dolore suona insensato, persino oltraggioso, mentre il conto dei morti, anche civili, nella Striscia aumenta e non ha fine lo strazio di chi ha figli, anche bambini, mutilati o sequestrati durante la mattanza. È tuttavia soltanto nella reciprocità che si potrà cominciare a ricostruire. Perché il diritto all’esistenza dello Stato ebraico non può essere messo in discussione. Perché devastare Gaza per uccidere anche l’ultimo terrorista non significherà scongiurare che altri ne escano. In un incontro d’estate, lo psicanalista Vittorio Lingiardi spiegò meravigliosamente il senso della parola “reciproco”, che deriva dal tardo latino recus-procus. Un movimento di andata e ritorno, qualcosa che va e viene: fare un passo indietro per vedere chi è la persona, non più coperta dalla tua ombra, ti permetterà di fare un passo avanti lungo il tragitto di una relazione. Questo è il compito di quanti sono attorno, che - sempre suggerimento di Kuper - dagli spalti possono sventolare la bandiera del “Team Humanity”. E, che con mente e cuore più sgombri dei protagonisti, hanno il dovere di ragionare su quanto salire sulle barricate dei fondamentalismi preconcetti non sia poi questa grande sfida o provocazione. Al contrario: è il modo di rinunciare a combattere, ricorrendo rumorosamente al kit di convinzioni e slogan che ti viene assegnato. Il più incandescente degli alibi per non dover pensare, prendere decisioni, magari cambiare un poco idea. Medio Oriente. La Corte penale internazionale deve intervenire su Gaza o si giocherà la sua credibilità di Fabio Marcelli* Il Fatto Quotidiano, 24 novembre 2023 La Corte penale internazionale si gioca la sua credibilità sulla questione del massacro tuttora in corso a Gaza. Molte sono le denunce che stanno pervenendo in questi giorni alla Corte a tale proposito. Colla nostra piccola associazione, il Centro di ricerca ed elaborazione per la democrazia (CRED), abbiamo aderito a quella redatta e promossa da alcuni avvocati, tra i quali Gilles Devers, che ha già raccolto l’adesione di oltre cinquecento avvocati e centinaia di organizzazioni sociali in tutto il mondo, che abbiamo pubblicato sul nostro sito credgigi.it e che invitiamo a sottoscrivere scrivendo alla nostra mail ricercademocrazia@gmail.com, specificando, per quanto riguarda gli avvocati, l’Ordine di appartenenza, per gli altri cittadini, la professione esercitata e per quanto riguarda le organizzazioni sociali il luogo di attività. Tale denuncia non evita la questione dei crimini commessi da Hamas e da altre organizzazioni palestinesi per l’attacco del 7 ottobre, invocando l’effettuazione di un’indagine imparziale al riguardo. Tale esigenza appare molto imperiosa, dal momento che si susseguono, da parte della stessa stampa israeliana, notizie che tendono a precisare la portata di tali eventi. Il raggiungimento di un accordo degli ostaggi israeliani detenuti a Gaza e di un cessate il fuoco accompagnato dal ritiro delle forze israeliane dal territorio resta una priorità assoluta per garantire la sopravvivenza della popolazione e il soddisfacimento delle sue esigenze più elementari. Ciò tuttavia non elimina la necessità della punizione dei crimini da chiunque commessi. E l’enfasi cade al riguardo soprattutto sull’accusa di genocidio mossa nei confronti delle autorità israeliane. La denuncia presentata alla Corte penale internazionale sostiene, a mio avviso correttamente, la sussistenza degli elementi sia psicologici che materiali di tale gravissimo crimine. Contrariamente a quanto ritiene qualcuno sulla base di una visione semplificata del fenomeno, perché ricorrano gli estremi del genocidio non è necessario che siano sterminati tutti i membri di una comunità nazionale, anche perché adottando tale visione si verrebbe manifestamente meno alla funzione preventiva, oltre che repressiva, che ogni norma penale deve poter esercitare. Opportunamente la norma (art. II della Convenzione del 1948 sul genocidio) richiede pertanto l’intento di sopprimere in tutto o in parte una popolazione in quanto tale mediante una serie di mezzi. Tali mezzi includono l’eliminazione fisica, l’inflizione di gravi lesioni fisiche e mentali e la sottoposizione della popolazione stessa a determinate condizioni di esistenza. La condotta manifestamente criminale delle autorità israeliane non lascia dubbi in proposito tanto più in quanto accompagnata a una serie di dichiarazioni che esplicitano la chiara intenzione di farla finita con Gaza e i suoi abitanti in quanto tali. E anche in Cisgiordania non si contano ormai più le vittime dell’esercito e dei coloni israeliani. Pare proprio che la parte peggiore dell’establishment e del popolo israeliano voglia per così dire cogliere la palla al balzo per sterminare e/o deportare i Palestinesi, una sorta di orribile “soluzione finale” che veda finalmente l’autorealizzazione della profezia formulata a suo tempo dal movimento sionista sulla “terra senza popolo” destinata ad accogliere un “popolo senza terra”. Lo sterminio in atto del popolo palestinese dimostra la fragilità del diritto internazionale e l’inconsistenza delle istituzioni internazionali a partire dalle stesse Nazioni Unite, le quali sono infine riuscite a varare una risoluzione del loro Consiglio di Sicurezza per il cessate il fuoco, ma dovrebbero invece essere in grado di inviare una forza sul terreno a protezione dei civili indifesi. Molti si affannano in questo contesto a enunciare la necessità di evitare atteggiamenti da tifo calcistico per questo o per quello. Si tratta di un’esigenza in linea di principio giusta, ma che non deve per e nulla obnubilare la ricerca rigorosa delle responsabilità politiche e giuridiche del conflitto e dei crimini. Dobbiamo quindi dire che occorre fare il tifo per il diritto e per la giustizia e da questo punto di vista assume rilievo centrale il ricorso alla Corte penale internazionale che è stata creata proprio per rispondere in modo efficace a situazioni di questo genere, caratterizzate da violazioni massicce dei diritti umani di intere popolazioni. Il ruolo delle Nazioni Unite, paralizzate dal veto statunitense e dall’atteggiamento irresponsabile e codardo di altri Stati, tra i quali purtroppo il nostro, è stato finora del tutto insoddisfacente, ma al tempo stesso si rivela irrinunciabile. La fine e la punizione dei crimini commessi costituisce una condizione imprescindibile per la soluzione politica e giuridica del conflitto, la quale richiede altresì il pieno riconoscimento dei diritti del popolo palestinese, ivi compreso quello a uno Stato dotato di tutti gli attributi della sovranità destinato a coesistere e cooperare pacificamente con quello israeliano, il rigetto di ogni Stato di tipo confessionale o basato sull’esclusività etnica e sulla discriminazione sistematica compiuta su tale base, e l’emergere in entrambi gli Stati di una nuova classe dirigente effettivamente disposta alla pace. *Giurista internazionale Ucraina. Guerra di trincea, senza fine di Sabato Angieri Il Manifesto, 24 novembre 2023 A 21 mesi dall’inizio dell’invasione russa, Mosca non avanza e Kiev non avanza. E il fronte pro-ucraino inizia a perdere pezzi. Frizioni tra Zelensky e il suo comandante in capo Zaluzhny. Che però non si tocca: lo difendono gli Usa. I soldati dei due schieramenti si scontrano in fazzoletti di terra; nel mezzo, i civili. Ventuno mesi fa il mondo è uscito dalla convinzione che per l’Europa fosse finita l’epoca delle guerre. I carri armati russi che oltrepassavano la frontiera con l’Ucraina e i primi missili volati nel cielo di Kiev possono essere considerati l’inizio di una nuova epoca per il Vecchio continente. Vladimir Putin ha apertamente dichiarato che l’ordine scelto alla fine della Guerra fredda non era più valido e che i confini di uno stato non sono, contrariamente a quanto siamo abituati a pensare in Occidente, inviolabili. Ma anche il presidente russo si sarà dovuto rassegnare: non è semplice cambiarli a proprio vantaggio, soprattutto se la Nato si schiera con il tuo nemico. Oggi, dopo battaglie sanguinose e decine di migliaia di morti, secondo il comandante in capo delle forze armate ucraine, Valerii Zaluzhny, siamo allo “stallo”. “Il conflitto si è trasformato in quello che in gergo militare si chiama “guerra di posizione”“, ha dichiarato Zaluzhny in un’intervista alla rivista britannica The Economist qualche settimana fa. Il generale voleva che si sapesse la sua opinione e ha scelto il modo più eclatante per diffonderla. Zelensky si è infuriato, “nessuno crede nella vittoria dell’Ucraina come me, nessuno!” ha detto al Time che ha usato la frase per una copertina che raffigura il leader di spalle, il volto di traverso, come se qualcuno lo chiamasse o controllasse che non ci siano pericoli incombenti. Siamo ben lontani dallo sguardo sognante con gli occhi blu come la bandiera ucraina che faceva da corona al titolo di “persona dell’anno”, assegnato sempre dal Time a Zelensky. Il mondo ha cambiato opinione sulla guerra in corso in Europa dell’Est? Ufficialmente non si direbbe. Lloyd Austin, il segretario alla Difesa statunitense, è volato a Kiev per ribadire che gli Usa ci sono, con il pensiero e con le opere (opposizione alle richieste russe e nuovi aiuti militari). La Germania ha promesso cento milioni di nuove forniture, nonostante il Washington Post il giorno prima avesse pubblicato un’inchiesta che incolpava alcuni militari ucraini dell’attentato al gasdotto Nord Stream. Tuttavia, il protrarsi della guerra in Ucraina sta provocando non poche divisioni nelle opinioni pubbliche occidentali, non solo in Paesi come l’Ungheria. Nonostante capi di stato e ministri non perdano occasione per ribadire di essere coesi nell’alveo della Nato, il dissenso monta lentamente. E dalle varie teorie complottiste che a inizio guerra occupavano i social network di certe aree politiche ascrivibili al cosiddetto “rosso-brunismo”, la “stanchezza della guerra” si inizia a percepire anche in chi riesce a empatizzare con il popolo ucraino invaso, ma sconta, ad esempio, l’aumento dei prezzi delle bollette causato dallo stop al gas russo. Zelensky lo sa, è evidente, il suo nervosismo degli ultimi tempi ne è la prova. Alcuni suoi consiglieri, meno lungimiranti del leader, si mostrano stupiti di fronte al fatto che l’Ucraina non è più il centro delle dichiarazioni dei politici statunitensi o europei e si scagliano con una veemenza (spesso fuori luogo) contro chiunque paventi la necessità di una soluzione diplomatica. Per questo le parole di Zaluzhny forse sono state recepite come una coltellata alla schiena dal presidente ucraino. Ma il generale non è uno qualsiasi, non lo si può rimuovere con decreto presidenziale senza aspettarsi conseguenze. È amato e rispettato dai militari ucraini che lo percepiscono come uno di loro, un capo che ha a cuore la loro vita e la vittoria dell’Ucraina ma che a quest’ultima non sacrifica tutto. La battaglia di Bakhmut è un esempio lampante di questa distinzione: interi reparti falcidiati dall’artiglieria russa quando era scontato che la ritirata fosse inevitabile. Zaluzhny disse basta e chiese la ritirata. Zelensky disse no e obbligò lo Stato maggiore a resistere, secondo le malelingue almeno fino al G7 che si sarebbe tenuto di lì a poco, in modo da sbandierare quella resistenza in cambio di nuovi aiuti militari. Zaluzhny è rispettato dai funzionari di Washington, che in più di un’occasione l’hanno dipinto come alleato “serio e affidabile” e preferiscono trattare con lui piuttosto che con i servizi segreti militari di Budanov, la scheggia impazzita che organizza missioni da film oltre le linee nemiche e (forse) attentati sul suolo russo. In tale contesto si inserisce la situazione sul campo. Il fronte est è bloccato su Avdiivka, dove i russi cercano di sfondare da settimane, in quella che si delinea come la nuova macelleria di questa guerra dopo Mariupol, Bakhmut e Kherson. Che ci riescano o meno possiamo finalmente - senza il rischio di essere considerati disfattisti o, peggio, filorussi - dichiarare che la controffensiva estiva è fallita. “La guerra non è un film”, come dice Zelensky, e ha ragione. Ma noi non siamo spettatori distratti che aspettavano il finale con le esplosioni e la vittoria epica. Sappiamo, perché l’abbiamo visto e raccontato, che la guerra sul campo è soprattutto morte e distruzione. Quindi scrivere che sui fronti aperti non è cambiato nulla vuol dire presagire altri mesi di morte e distruzione. Fino a quando, viene spontaneo chiedersi. “Fino alla vittoria”, rispondono i vertici ucraini e i politici occidentali. “Fino alla smilitarizzazione di Kiev”, obiettano i funzionari russi, nonostante le parole di Putin al G20 di questa settimana. Sullo sfondo il destino delle quattro regioni (Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia e Kherson) annesse dalla Russia. Zelensky dichiara sicuro che senza il loro reintegro parlare di pace è impossibile, Putin dal canto suo non può permettersi di restituirle dopo averle elette a simbolo della difesa della “russofonia oppressa”. Per ora i soldati dei due schieramenti continuano a confrontarsi in fazzoletti di terra avanzando e indietreggiando di pochi metri al giorno. Nel mezzo, senza riscaldamenti, senza cibo e acqua e senza voce, i civili. Come sempre.