L’amore è un diritto anche dietro le sbarre di Andrea Pugiotto* L’Unità, 23 novembre 2023 Il 5 dicembre la Consulta si riunirà per decidere su una questione “scandalosa”: in assenza di contrarie ragioni di sicurezza, vietare al detenuto di “svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta”, senza il controllo a vista da parte del personale di custodia è conforme alla Costituzione e alla CEDU? Noi pensiamo che sia una sanzione corporale primitiva, contraria al disegno costituzionale delle pene. E confidiamo che la Corte la cancelli 1. Il prossimo 5 dicembre, la Corte costituzionale è convocata in udienza pubblica per decidere una questione scandalosa: in assenza di contrarie ragioni di sicurezza, vietare al detenuto di “svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta”, senza il controllo a vista da parte del personale di custodia (imposto dall’art. 18 dell’ordinamento penitenziario), è conforme alla Costituzione e alla CEDU? 2. Per chi non accetta l’orizzonte di una pena che non può essere mai contraria al senso di umanità e che deve sempre tendere alla risocializzazione del reo (art. 27, 3° comma, Cost.), scandalosa è l’idea stessa di un diritto all’intimità dietro le sbarre. Perché dentro si deve stare peggio che fuori: altrimenti che galera sarebbe? Hanno già la televisione: che cosa pretendono ancora? Le celle a luci rosse e le sezioni del carcere trasformate in postriboli? 3. A nostro avviso, invece, la questione è scandalosa per tutt’altre ragioni. Etimologicamente, ????????? sta per ostacolo, inciampo. Tale è la domanda riproposta dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto a una Corte costituzionale che, dieci anni fa, diede già la sua risposta. Investita di analoga quaestio, con sent. n. 301/2012 la dichiarò inammissibile per ragioni processuali, ma in motivazione la Consulta fu inequivoca: è “una esigenza reale e fortemente avvertita […] quella di permettere alle persone sottoposte a restrizione della libertà personale di continuare ad avere relazioni affettive intime, anche a carattere sessuale: esigenza che trova attualmente, nel nostro ordinamento, una risposta solo parziale. […] Si tratta di un problema che merita ogni attenzione da parte del legislatore, anche alla luce delle indicazioni provenienti dagli atti sovranazionali […] e dall’esperienza comparatistica che vede un numero sempre crescente di Stati riconoscere, in varie forme e con diversi limiti, il diritto dei detenuti ad una vita affettiva e sessuale intramuraria”. 4. Che séguito ha avuto quel monito così perentorio, rivolto agli organi della legislazione? Nella XVII legislatura, è stata approvata la delega legislativa di riforma dell’ordinamento penitenziario (legge n. 103 del 2017) che, tra i suoi principi e criteri direttivi, prevedeva espressamente “il riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute e internate e la disciplina delle condizioni generali per il suo esercizio” (art. 1, 85° comma). In sede di attuazione, però, i decreti legislativi nn. 123 e 124 del 2018 non hanno introdotto alcuna disciplina in materia. Né la postura del legislatore è cambiata nella scorsa XVIII legislatura, nonostante le pertinenti iniziative legislative presentate alle Camere dai Consigli regionali della Toscana (AS n. 1876) e del Lazio (AC n. 3488 e AS n. 2543). Entrambe non hanno avuto alcun séguito parlamentare. Il decennale silenzio seguìto alla sent. n. 301/2012, dunque, esprime qualcosa di più di una protratta inerzia legislativa: cela, semmai, un deliberato rifiuto di modificare lo stato delle cose. 5. Eppure, il “vero e proprio divieto” di esercitare l’affettività-sessualità con il proprio partner in contesto penitenziario solleva plurimi dubbi di costituzionalità. Nella sua ordinanza di rinvio il Magistrato di sorveglianza di Spoleto li argomenta, a nostro avviso persuasivamente. Violato è l’art. 2 Cost., che garantisce i diritti fondamentali della persona sia come singolo che nelle formazioni sociali intermedie: tale è la libera espressione dell’affettività, anche all’interno del carcere in cui il detenuto svolge la propria personalità. Violato è l’art. 13, 1° comma, Cost., che garantisce la libertà personale, intesa come disponibilità del proprio corpo: la forzata astinenza sessuale, invece, ne determina una compressione non sempre giustificata da ragioni di sicurezza, traducendosi in un surplus di sofferenza oltre a quella conseguente alla legittima detenzione. Violato è l’art. 13, 4° comma, Cost., che vieta ogni violenza fisica e morale sul detenuto: “una amputazione così radicale di un elemento costitutivo della personalità, quale la dimensione sessuale dell’affettività” trasmoda, invece, in una vessazione “umiliante e degradante” non solo per il recluso, ma anche per il suo partner. Violato è l’art. 27, 3° comma, Cost., che esige pene improntate a umanità e finalizzate alla rieducazione: invece, l’inumana privazione dell’intimità sessuale fa regredire il detenuto a una “dimensione infantilizzante” e produce “conseguenze desocializzanti”. Violati in solido sono gli artt. 29, 30 e 31 Cost., posti a tutela delle relazioni familiari: il divieto della sessualità intramuraria, invece, “logora i rapporti di coppia”, anche a danno della serenità dei figli, e pregiudica la “possibilità di accedere alla genitorialità” ove desiderata. Violato è l’art. 32 Cost., che assicura il diritto alla salute: prevedibili, invece, sono le negative conseguenze psico-fisiche su un adulto costretto a una prolungata e coatta astinenza sessuale. Violato è l’art. 117, 1° comma, che impone il rispetto degli obblighi internazionali pattizi: la preclusione di relazioni sessuali in carcere, invece, contraddice il divieto di trattamenti inumani e degradanti (art. 3 CEDU) e il diritto al rispetto della propria vita privata e familiare (art. 8 CEDU). 6. Tali e tante criticità costituzionali - a nostro parere - possono riassumersi nella comune lesione al principio supremo della dignità umana del detenuto. Il diritto all’affettività, infatti, è stato inquadrato dalla Consulta tra le libertà costituzionalmente garantite (sent. n. 561/1987). Ma se il diritto all’intimità sessuale (incapsulato nel diritto all’affettività) ha valore costitutivo della dignità umana, non lo si può negare a una persona in ragione della sua condizione di cattività, che - come attestano l’esperienza comparata e le fonti di soft-law transnazionali - non è necessariamente incompatibile con il suo esercizio. Né il diritto all’affettività-sessualità del detenuto può ritenersi soddisfatto grazie ai periodici permessi premio (quarantacinque giorni all’anno, al massimo). Da un lato, sono molti i detenuti che, de jure o de facto, non accedono né possono aspirare a queste eventuali parentesi extrapenitenziarie. Dall’altro, una simile alternativa piega a un’impropria logica premiale il godimento di un diritto fondamentale: come se l’esercizio della sessualità dovesse meritarsi, spettando solo ai “buoni” e non anche ai “cattivi”. 7. Siamo convinti che vi siano ragionevoli motivi per attendersi, questa volta, un sindacato nel merito della questione di costituzionalità sollevata. Appare poco convincente opporvi l’argomento piglia-tutto della political question (art. 28, legge n. 87 del 1953), preclusa alla Corte costituzionale. Alla Corte, infatti, non viene chiesta la creazione di un nuovo diritto fondamentale, bensì la rimozione di una discriminazione contraria a Costituzione derivante da una (voluta e persistente) omissione legislativa. Nella logica della rigidità costituzionale, è dovere della Consulta applicare i limiti che la Costituzione impone all’intero ordinamento, composto da disposizioni esplicite come da norme implicite (ma viventi). Così come - a nostro parere - non si giustificherebbe la soluzione di un rinnovato monito al legislatore, foss’anche nella forma rafforzata di un’incostituzionalità prospettata ma differita ad altra udienza: tecnica che la Consulta ha già adoperato in ambito penitenziario, affrontando l’istituto del c.d. ergastolo ostativo (ordd. nn. 97/2021, 122/2022, 227/2022). A che pro, a distanza di dieci anni dal precedente monito che il legislatore non ha semplicemente ignorato, ma deliberatamente disatteso? 8. Non mancano, infatti, alla Corte costituzionale altre tecniche decisorie idonee a risolvere, nel merito, il caso in esame. Una è prefigurata dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto, laddove segnala l’art. 19 dell’ordinamento penitenziario minorile che prevede espressamente la possibilità per il recluso di usufruire di incontri (due al mese) prolungati (da quattro a sei ore) “con i congiunti o con le persone con cui sussiste un significativo legame affettivo “, da svolgersi in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, pensate per riprodurvi un ambiente domestico, Secondo un recente (ma già consolidato) orientamento della giurisprudenza costituzionale, è possibile dichiarare ammissibile e accogliere una quaestio laddove sia rinvenibile nell’ordinamento una “soluzione costituzionalmente adeguata, benché non obbligata” (sent. n. 40/2019); soluzione normativa che la Corte può imporre transitoriamente, in attesa del futuro intervento del legislatore. È una nuova tecnica manipolativa, a rime possibili, nata nell’ambito del sindacato di costituzionalità sulla misura delle pene, ma che la Consulta ha già esteso anche ad altri ambiti ordinamentali (cfr. sent. n. 62/2022, in tema di riequilibrio della rappresentanza di genere). Dunque, generalizzabile. Ebbene, l’art. 19 citato potrebbe rappresentare il gancio normativo necessario alla Corte costituzionale per pronunciare la sentenza additiva richiesta dal giudice remittente. 9. In alternativa, l’accoglimento della quaestio potrebbe tradursi in una sentenza additiva di principio. Con simili decisioni, la Corte costituzionale dichiara illegittima l’assenza di una disciplina idonea ad assicurare l’effettività di un diritto costituzionalmente riconosciuto. In prospettiva, il giudicato costituzionale vincola il legislatore ad introdurla. Nel frattempo, immette nell’ordinamento un principio cui fare già riferimento in sede applicativa, per porre rimedio all’illegittima omissione. La garanzia interinale del diritto alla sessualità inframuraria così riconosciuto, dunque, graverà sui giudici di sorveglianza e sull’amministrazione: quest’ultima, in particolare, potrà provvedere - tramite circolare o per via regolamentare - alla definizione di modi e limiti del diritto alla sessualità inframuraria. 10. Fino ad oggi, la privazione dell’affettività- sessualità ha rappresentato un’autentica e indifferenziata pena accessoria. Il codice penale non la contempla. Nessun giudice l’ha mai irrogata. Eppure, è regolarmente inflitta al soggetto recluso (e al suo partner incolpevole). Noi pensiamo si tratti di una primitiva sanzione corporale, contraria al disegno costituzionale delle pene. Confidiamo che il Giudice delle leggi, viva vox Constitutionis, la rimuova dall’ordinamento penitenziario perché, anche dietro le sbarre, le parole amore e Costituzione non sono incompatibili. *Ordinario di Diritto costituzionale Università di Ferrara Promotori dell’appello: La Società della Ragione, Associazione Luca Coscioni, Centro per la Riforma dello Stato. Estensore e primo firmatario: Andrea Pugiotto (Università di Ferrara). Hanno aderito: Accademici Azzariti Gaetano, Università Di Roma-Sapienza - Balboni Enzo, Università Di Milano-Cattolica Del Sacro Cuore - Belfiore Elio Romano, Università Di Foggia - Bernasconi Costanza, Università Di Ferrara - Bronzo Pasquale, Università Di Roma- Sapienza - Brunelli Giuditta, Università Di Ferrara - Buzzelli Silvia, Università Di Milano- Bicocca - Canestrari Stefano, Università Di Bologna, Componente Del Cnb - Carnevale Stefania, Università Di Ferrara - Casonato Carlo, Università Di Trento - Castronuovo Donato, Università Di Ferrara - Ceretti Adolfo, Università Di Milano-Bicocca - Cesaris Laura, Università Di Pavia - Ciuffoletti Sofia, Università Di Firenze - D’amico Marilisa, Università Di Milano-Statale - De Fiores Claudio, Università Della Campania-Luigi Vanvitelli - De Maglie Cristina, Università Di Pavia - Dolcini Emilio, Università Di Milano-Statale - Felicioni Paola, Università Di Firenze - Ferrajoli Luigi, Università Di Roma Tre - Fiandaca Giovanni, Università Di Palermo - Fiorio Carlo, Università Di Perugia - Fondaroli Désirée, Università Di Bologna - Galliani Davide, Università Di Milano-Statale - Giunta Fausto, Università Di Firenze - Grieco Sarah, Università Di Cassino - Grosso Enrico, Università Di Torino - Guidi Dario, Università Di Siena - Lucarelli Alberto, Università Di Napoli-Federico Ii - Manetti Michela, Università Di Siena - Martiello Gianfranco, Università Di Firenze - Mazzucato Claudia, Università Di Milano-Cattolica Del Sacro Cuore - Meringolo Patrizia, Università Di Firenze - Micheletti Dario, Università Di Siena - Mosconi Giuseppe, Università Di Padova - Orlandi Renzo, Università Di Bologna - Padovani Tullio, Scuola Superiore Sant’anna Di Pisa - Palazzo Francesco, Università Di Firenze - Pallante Francesco, Università Di Torino - Paonessa Caterina, Università Di Firenze - Pecorella Claudia, Università Di Milano-Bicocca -Pezzini Barbara, Università Di Bergamo - Pinelli Cesare, Università Di Roma-Sapienza - Pitch Tamar, Università Di Perugia - Resta Eligio, Università Di Roma Tre - Ruggeri Antonio, Università Di Messina - Ruotolo Marco, Università Di Roma Tre - Saitta Antonio, Università Di Messina - Salazar Carmela, Università Di Reggio Calabria-Mediterranea - Santoro Emilio, Università Di Firenze - Scalia Vincenzo, Università Di Firenze - Simoni Alessandro, Università Di Firenze - Talini Silvia, Università Di Roma Tre - Toraldo Di Francia Monica, Università Di Firenze- Vallini Antonio, Università Di Pisa - Veronesi Paolo, Università Di Ferrara. Garanti Dei Diritti Dei Detenuti E Soggetti Impegnati Nell’associazionismo A Tutela Dei Diritti Anastasia Stefano, Garante Dei Detenuti Regione Lazio - Bassi Hassan, Forum Droghe - Brianese Massimo, Comitato Direttivo De La Società Della Ragione - Bernardini Rita, Presidente Di Nessuno Tocchi Caino - Boccia Maria Luisa, Presidente Del Crs, Già Senatrice - Calderone Valentina, Garante Dei Detenuti Comune Di Roma - Cappato Marco, Tesoriere Dell’associazione Luca Coscioni - Casco Roberta, Presidente Dell’associazione Icaro Volontariato Giustizia Odv - Cecconi Stefano, Segreteria Nazionale Spi- Cgil - Ciambriello Samuele, Garante Dei Detenuti Regione Campania, Portavoce Conferenza Garanti Territoriali - Corleone Franco, Garante Dei Detenuti Comune Di Udine - De Facci Riccardo, Consigliere Delegato Cnca - Fanfani Giuseppe, Garante Dei Detenuti Regione Toscana - Favero Ornella, Direttrice Di Ristretti Orizzonti - Fiorentini Leonardo, Direttore Di Fuoriluogo - Franchi Serena, Comitato Scientifico De La Società Della Ragione - Gallo Filomena, Segretaria Dell’associazione Luca Coscioni - Gonnella Patrizio, Presidente Di Antigone - Manconi Luigi, Presidente Di A Buon Diritto, Già Presidente Della Commissione Diritti Umani Del Senato - Marietti Susanna, Coordinatrice Di Antigone - Melani Giulia, Comitato Scientifico De La Società Della Ragione - Mellano Bruno, Garante Dei Detenuti Regione Piemonte - Novelli Ivan, Presidente Di Greenpeace - Pellegrini Pietro, Direttore Dipartimento Salute Mentale Di Parma - Perduca Marco, Fondatore Di Science For Democracy, Già Senatore - Poneti Katia, Comitato Scientifico De La Società Della Ragione - Pozzi Caterina, Presidente Cnca - Puiatti Mario, Presidente Nazionale Aied - Ronconi Susanna, Comitato Scientifico Forum Droghe - Zamparutti Elisabetta, Tesoriere Di Nessuno Tocchi Caino, Componente Del Cpt Del Consiglio D’europa - Zuffa Grazia, Presidente Società Della Ragione, Componente Del Cnb. Avvocati E Magistrati Alberta Valentina, Camera Penale Di Milano - Alborghetti Annamaria, Camera Penale Di Padova - Bandiera Cecilia, Camera Penale Di Ferrara - Brucale Maria, Camera Penale Di Roma - Caiazza Gian Domenico, Già Presidente Ucpi - Calcaterra Antonella, Camera Penale Di Milano - Cecchi Silvia, Procura Di Pesaro - Grinzato Michele, Camera Penale Di Padova - Lo Giudice Letizia Valentina, Camera Penale Di Messina - Longobucco Pasquale, Camera Penale Di Ferrara - Mascia Antonella, Camera Penale Di Verona - Migliucci Beniamino, Già Presidente Ucpi - Passione Michele, Camera Penale Di Firenze Patrone Ignazio, Già Magistrato, Comitato Scientifico Di Antigone - Petrelli Francesco, Presidente Ucpi - Spigarelli Valerio, Già Presidente Ucpi - Zagrebelsky Vladimiro, Già Giudice Della Corte Edu, Direttore Del Laboratorio Del Diritti Fondamentali, Collegio Carlo Alberto, Torino. Associazioni E Centri Universitari A Buon Diritto - Antigone - Associazione Icaro Volontariato Giustizia Odv - Centro Di Ricerca “Diritto Penitenziario E Costituzione - European Penological Center”, Università Di Roma Tre - Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia - Forum Droghe - Fuoriluogo - L’altro Diritto Odv, Università Di Firenze - Macrocrimes, Centro Studi Giuridici Europei Sulla Grande Criminalità, Università Di Ferrara - Nessuno Tocchi Caino. Per aderire: societadellaragione.it/affettivita Ritorno al passato nelle carceri italiane di Don David Maria Riboldi* La Prealpina, 23 novembre 2023 Da oggi tutti chiusi. Nel carcere di Busto arriva, come ogni dove in Italia, la chiusura delle celle di cui dieci anni or sono si dispose l’apertura, per allargare gli spazi detentivi dall’angusta camera di pernotto al corridoio. Era una misura pensata non per tutti, ma per quanti ritenuti meritevoli, dopo un periodo di osservazione. La circolare del luglio 2022 non lascia scampo né grandi spazi di manovra ai direttori, che si trovano, loro malgrado, a gestire un ritorno al passato alquanto sgradevole per quanti si erano abituati a un range detentivo di maggiore socialità. Una socialità destrutturata, spontanea, non soggetta a una programmazione o a un controllo organizzativo. Niente più “vasche” nel corridoio, avanti e indietro, per stancare un po’ quel corpo che la notte non ne vuole sapere di dormire. Niente più chiacchierate, se non su appuntamento, dietro domandina, o alle sbarre delle celle, con le braccia appoggiate al ferro. Niente più disordini, diranno i sostenitori di questo regime, ma l’esperienza insegna che i cosiddetti eventi critici possono accadere ovunque e non mi pare ci sia una statistica che testimoni a favore delle celle chiuse, per essere al riparo da problemi disciplinari. Torna il leit motiv delle caserme dismesse: un usato garantito, che qualcuno suggerisce a ogni ministro di dire. Credo solo la Cartabia non abbia ceduto a questo tranello, perché sapeva benissimo quanto sarebbe fallimentare e irrealizzabile l’avvio di nuovi penitenziari. E perché ha dichiarato più volte come la via per uscire dal sovraffollamento non fosse tanto la costruzione di nuove carceri, ma un’applicazione più intensiva di misure alternative, che offrono un risultato statisticamente apprezzabile in termini di riduzione di recidiva di reato. Non si è accontentata di dirlo: la riforma che porta il suo nome prevede infatti un allargamento di possibilità alternative alla detenzione, con le pene sostitutive, irrogabili direttamente dal giudice della cognizione. Nel mio piccolo, posso dire che nella Cooperativa Sociale La Valle di Ezechiele, con sede nel carcere, abbiamo accolto 24 persone dal novembre 2020 e nessuno di loro risulta abbia commesso nuovi reati. Funziona! E non a caso fu la Ministra Cartabia a inaugurarla, il 25 ottobre 2021. Tra l’altro suona curiosamente intempestiva questa chiusura. Dieci anni fa esatti l’Italia venne condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, a seguito di un’istanza partita proprio dal penitenziario bustocco. La sentenza prenderà il nome Torreggiani dalla persona detenuta che sporse denuncia, proprio per gli spazi angusti in cui riteneva di essere stato ristretto. In via per Cassano al 102. Il nostro paese venne riconosciuto colpevole di trattamenti inumani e degradanti. Dovette correre ai ripari e scarcerare, il più alla svelta possibile: immagino senza il tempo di costruire percorsi oculati di reinserimento sociale. Si aprirono quelle celle, che oggi tornano chiuse. perché la detenzione fosse intesa nel recinto della sezione, non solo della cella. Ora, ai tempi della Torreggiani le persone recluse in Italia erano 66.000, su circa 50.000 posti di capienza ufficiale. Ora stiamo sfiorando i 60.000, ma, senza essere dei geni in matematica, possiamo immaginare che quel numero non sia così lontano, se prosegue il trend in corso. All’inizio del 2020 eravamo a quasi 60.000. Il Covid fece la sua parte e, di lì a un anno, si scese a 50.000. In due anni siamo tornati diecimila in più: quanti mesi mancano per arrivare al ‘livello Torreggiani’? Diranno alcuni: beh, ma se i reati li commettono, non è certo colpa di chi li arresta. Anche qui avrei qualcosa da obiettare. Tolto il 2021, il numero di reati in Italia cala costantemente da 10 anni a questa parte. “Secondo una ricerca del CENSIS dello scorso dicembre 2022, il numero di reati denunciati sono circa 700.000 in meno di quelli denunciati nell’anno 2012 (2.104.114), con un decremento pari al 25,4%. Gli omicidi volontari passano dai 528 del 2012 ai 304 del 2021. Le rapine sono diminuite nel periodo 2012-2021 da 42.631 a 22.093, quasi la metà. Stesso trend per i furti in casa e i furti d’auto”. Così il Procuratore Generale della Corte Suprema di Cassazione nella sua relazione sulla criminalità in Italia, a inizio 2023. Trovate tutto su Internet. Quindi ci troviamo nell’ossimoro per cui il numero di reati scende, mentre il numero delle persone recluse sale. E vengono pure ristrette in camere di pernotto dove non si pernotta soltanto. Dove magari dovrebbero starci da soli e invece vi si trovano in due, magari in tre: basta aggiungere brande a castello. È così che da 240 posti di capienza ufficiale si superano le 430 persone detenute. Come oggi a Busto Arsizio. Dicono che le chiusure dovrebbero favorire la partecipazione alle proposte formative e di lavoro che si moltiplicheranno in Istituto, restando l’unica strategia per uscire di cella. La nuova Direttrice ha sicuramente dato una svolta in materia, in questi pochi mesi dal suo arrivo, e ha radunato tutti, per fare squadra nell’offrire proposte di occupazione e valorizzazione del tempo detentivo. Le proposte sono aumentate visibilmente. Ma anche lei non può fare miracoli. Le aulette di scuola sono quelle che sono: non si possono allargare, per ospitare più persone. Il dentro/fuori tipico di una Circondariale non agevola la progettazione di percorsi, che i tempi giuridici potrebbero far saltare o neanche far partire. Ciò nonostante grandi energie si stanno mettendo per dare significato a un tempo vuoto, che gli spazi da oggi ancor più ristretti fanno sentire più compressivo. Voglio mandare un grande abbraccio a tutti gli amici in via per Cassano. Non attendiamo un altro Torreggiani, però: mentre si chiudono le celle, apriamo le porte della nostra collettività bustocca e varesina, generando un tessuto sociale pronto ad accogliere e avviare nuovi percorsi di vita, che non facciano uscire le persone più incattivite di come siano entrate. *Cappellano nel carcere di Busto Arsizio “Non normalizziamo la detenzione: non può essere la risposta a tutti i problemi” di Luca Rondi altraeconomia.it, 23 novembre 2023 Intervista a Mauro Palma, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. “Il carcere è sempre di più una fotografia della società esterna che a sua volta riflette, anche se lo rifiuta, i paradigmi della vita reclusa. Soprattutto dopo il Covid-19 c’è l’incapacità, parlo del fuori, di tornare a uno sguardo libero. Percepisco molta asfissia nei rapporti tra le persone, difficoltà nelle relazioni e soprattutto il tentativo di eludere le complessità, cercando di risolvere i problemi portandoli altrove. Magari in Albania”. Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà personale, non nasconde la sua preoccupazione di fronte a un tempo in cui si assiste sempre di più alla “normalizzazione di parole come separatezza, totalità e incapacitazione, che sembravano aver perso vigore”. Si dichiara pronto a “consigliare” il suo successore, Felice Maurizio D’Ettore, professore di Diritto privato ed ex deputato del centrodestra, che si insedierà il primo dicembre, smorzando le polemiche per una nomina che nelle ultime settimane ha fatto molto discutere per il profilo scelto. È tempo perciò di bilanci per i quasi otto anni (dal febbraio 2016) a presiedere un ufficio che si è occupato scrupolosamente dei luoghi più bui del Paese: dalle carceri (ne ha visitate personalmente oltre 150) ai Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), passando per le navi quarantena, gli hotspot per i migranti e le residenze per anziani. Professor Palma, la popolazione detenuta è in forte aumento, circa 400 persone al mese. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha promesso di costruire nuove strutture. È la strada giusta? MP Pensare che questo risolva questi ritmi di affollamento è pura utopia, anche perché sono sempre soluzioni che richiedono investimenti, pianificazione e via dicendo. Quello che servirebbe a mio avviso è invece riflettere sul senso della detenzione per chi ha pene molto brevi. Mi riferisco alle circa 4.600 persone detenute con condanne sotto i due anni: spesso sono il frutto di un fallimento sul piano sociale e per loro il carcere è totalmente inutile. Servono strutture diverse che hanno minor impatto in termini di costruzione, perché ad esempio necessitano di meno mura perimetrali, in cui la polizia penitenziaria ha solo un ruolo di supporto nel controllo e si basano soprattutto su un forte rapporto con l’ente locale. Se lo spirito del ministro Nordio era questo e quindi non soltanto una soluzione troppo semplicistica, l’ipotesi di vedere che cosa ha il demanio è interessante; non lo è se l’obiettivo è mettere i detenuti nelle caserme. Ma perché aumentano così tanto i detenuti? MP Abbiamo trasformato il diritto penale nello strumento primario di risoluzione dei conflitti. Ma non è la sua natura: dovrebbe essere un mezzo sussidiario da mettere in campo solo laddove sono falliti i tentativi di realizzare interventi meno impattanti, più di costruzione e meno di contenimento. Invece oggi è l’unica risposta non appena abbiamo una qualunque contraddizione: dall’ambiente alle relazioni interpersonali e addirittura, oggi, alla dispersione scolastica. Si riferisce al cosiddetto “decreto Caivano”? MP Sì, rimango un po’ inorridito sotto questo aspetto. Pensare di risolvere la dispersione scolastica, che richiede prima di tutto una prossimità di ricostruzione culturale, con lo strumento penale è la constatazione da un lato del fallimento di quel ruolo proattivo che dovrebbero avere la politica e la gestione amministrativa del territorio, dall’altro è l’ennesima spia dell’aumento dell’area del controllo. E i dati lo dimostrano. Quali dati? MP Sommando il numero delle persone detenute con quello di coloro che sono in misura alternativa abbiamo raggiunto un numero considerevole di quasi 150mila persone mentre fino a qualche anno fa questo dato si aggirava intorno alle 90mila unità. Questo ci dice che l’idea che le misure alternative comportassero un minor ricorso alla detenzione non ha funzionato: si è creato un sistema parallelo al carcere. È la stessa dinamica che abbiamo visto con la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari: quando sono stati dismessi il numero complessivo dei pazienti internati era la metà della somma di quelli oggi presenti nelle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza pensate per chi è dichiarato incapace di intendere e di volere, ndr) e di coloro che sono in lista d’attesa per entrarvi. Questo la dice lunga sulla nostra cultura giuridica. A proposito, che cosa pensa del disegno di legge che mira a smantellare il reato di tortura? MP È gravissimo. Prima ancora che dal punto di vista processuale, dell’impunità, credo sia inaccettabile che una società si misuri con alcuni episodi avvenuti pensando che il primo strumento per superarli sia ridurre la possibilità di accertarli e perseguirli. “Sono preoccupato per l’allungamento del periodo di trattenimento nei Centri di permanenza per il rimpatrio: i 18 mesi sono un inutile messaggio disincentivate” Come Altreconomia abbiamo pubblicato un’inchiesta sull’abuso di psicofarmaci nelle carceri. Come interpreta i dati emersi? MP Incrocio i dati sugli psicofarmaci con due variabili. Al 9 novembre erano appena 330 le persone riconosciute con patologie di tipo psichiatrico di cui 29 ancora in fase di accertamento collocate nelle 44 Articolazioni per la salute mentale (Atsm) presenti solo in 33 istituti su 189 totali. Non tornano i conti con l’utilizzo di psicofarmaci: c’è un uso improprio del farmaco come elemento rassicurante o di mantenimento dell’ordine interno. Confronto però questi dati anche con la percezione che hanno gli operatori, magari amplificata, che dicono di avere sempre più “matti” reclusi e con il numero degli eventi critici in carcere. Questa situazione a mio avviso è frutto di una lotta tra due polarità: un’amministrazione che spinge per interpretare tutto come disagio psichico per non riconoscere l’impatto delle regole, degli ambienti, dei comportamenti di chi gestisce le strutture e un’area sanitaria che tende a frenare al di là del frenabile perché sa di non avere le risorse per prendere in carico più persone. Ecco che il problema lo riconduco alla scarsa presa in carico da parte delle strutture esterne: diminuirebbero gli ingressi e all’interno la presa in carico sarebbe più semplice. Secondo lei in carcere si vede, in anticipo, quello che sarà la società “esterna”? MP Penso sia già una fotografia del presente. Per un certo periodo abbiamo pensato che fosse necessario osservare il carcere per modificarlo, come ci insegna la Fisica del Novecento per cui quando osservo una particella elementare ne modifico il comportamento. Attualmente questa dinamica funziona un po’ meno perché il carcere riflette la società esterna che, a sua volta, riflette, anche se lo rifiuta, sempre di più i paradigmi della vita reclusa. Soprattutto dopo il Covid-19 c’è l’incapacità, parlo del fuori, di tornare a uno sguardo libero. Percepisco molta asfissia tra le persone, difficoltà nelle relazioni e il tentativo di eludere le complessità, cercando di risolvere i problemi portandoli altrove. Magari in Albania. Che cosa ne pensa dell’accordo annunciato poche settimane fa tra la presidente del Consiglio Meloni e il primo ministro albanese Edi Rama? MP Al di là dei principi parto dall’impossibilità pratica: pensiamo a una nave soccorsa, l’accordo dice che soltanto uomini (né donne né bambini) possono essere portati in Albania. Poi dopo lo sbarco dovrò distinguere se queste persone provengono da un Paese di origine sicuro, in caso contrario dovrò riportarle in Italia. A fronte di questi passaggi manca un giudice naturale che possa esprimersi su quelle decisioni. Le norme dicono che può essere individuato nel luogo più vicino, ma riferendosi sempre a un contesto territoriale di cui si ha sovranità. È inutile far finta che quelle strutture siano come delle ambasciate: non è così, la sovranità è albanese. Insomma, per ora sono rassicurato dalla inapplicabilità dell’accordo salvo il rischio di gravi violazioni del diritto internazionale. Ci perde anche l’Albania, tra l’altro, nell’ottica di avvicinamento all’Ue. Restiamo sul tema della detenzione dei migranti. La preoccupa l’ampliamento della rete dei Cpr? MP Sono preoccupato soprattutto per l’allungamento del periodo di trattenimento: 18 mesi sono un inutile messaggio disincentivate. Già in passato l’aumento del periodo di detenzione non ha inciso sulla percentuale delle persone rimpatriate. Cresce invece il vuoto che vivono le persone nelle strutture per periodi sempre più prolungati che aumenta anche le forme di contrapposizione, di violenza e le difficoltà nel momento in cui si esce: perché molte delle persone trattenute, ricordiamocelo, rientrano, dopo il periodo nel Cpr, nelle nostre comunità. È proprio la formula in sé dei Cpr da rivedere. Mi lascia molto perplesso poi, dal punto di vista culturale, che con il nuovo decreto la realizzazione delle strutture incide sul codice militare con una logica che implicitamente associa il migrante a un nemico. Si è occupato anche di Residenze per gli anziani (Rsa). Che idea si è fatto di quei luoghi? MP Parto da una premessa: ci occupiamo di queste strutture perché alcune delle persone accolte sono affidate al controllo dello Stato e perché è necessario assicurarsi che, in varie situazioni, l’amministratore di sostegno non diventi sostituto della persona. Le Rsa nel nostro Paese sono tantissime, circa 14mila; quindi, le visite possono avvenire solo a macchia di leopardo. Tra le diverse criticità riscontrate ne segnalo una: la contenzione non può essere uno strumento utilizzato per sopperire alla mancanza di personale. Questo sguardo l’abbiamo mantenuto durante la pandemia e anche dopo e purtroppo abbiamo continuato a riscontrare il rischio di questo improprio utilizzo. Prenderà il suo posto il professor D’Ercole. È preoccupato? MP No. Mi rendo disponibile a cooperare e a consigliarlo. Nessuno però pensi che la questione sia affrontabile con i propri strumenti accademici, professionali. Questa è un’istituzione complessa perché affronta l’impossibilità di avere soluzioni facili a problemi complessi e soprattutto serve mantenere l’indipendenza rispetto al potere. Io ho attraversato quattro diversi esecutivi: so bene che è necessario tenere la barra a dritta. Che cosa le è pesato di più durante il suo mandato? MP La non riconoscibilità dei temi. Quell’idea che in fondo ci occupassimo di situazioni che rappresentano la minorità, qualcosa che non ha a che fare con i grandi problemi. Mi pesava quando sentivo dire “Garante dei detenuti”, perché veicolava quell’idea che ci occupassimo di cose che la società ritiene più marginali. Tutelavamo tante altre soggettività che possono attraversare ognuno di noi, dagli anziani ai disabili alle persone psichiatrici. E che raccontano tanto della società in cui viviamo. Una società in cui diventa sempre più centrale “l’idea della detenzione”? MP Sì. Siamo in una fase in cui termini come separatezza, totalità e incapacitazione tornano a essere accettabili dopo che per diversi anni erano stati messi fortemente in crisi. Sul piano internazionale mi colpisce che i Paesi nordici, storicamente molto aperti, oggi hanno cambiato rotta: quarant’anni fa non l’avrei mai potuto immaginare. Un segno chiaro che sta tornando prepotentemente questa visione normalizzante della “reclusione” delle difficoltà e, quindi, delle persone. Accordo Cnel-Assolavoro su formazione e lavoro in carcere, ecco cosa prevede di Giorgio Pogliotti Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2023 Accordo tra Assolavoro e Cnel per favorire il reinserimento lavorativo dei detenuti, partendo da un’analisi dei fabbisogni delle imprese del territorio. Promuovere formazione, studio e lavoro in carcere come strumento di reinserimento sociale e di riduzione della recidiva. Potenziando il sistema di certificazione del lavoro svolto all’interno degli istituti penitenziari, per attestare le competenze spendibili nel mondo produttivo anche attraverso modalità digitali, fornendo un aggiornamento rispetto alle evoluzioni in atto nel Sistema nazionale di certificazione delle competenze. Sono gli obiettivi dell’accordo raggiunto tra il Cnel e Assolavoro, che è stato preceduto da un’intesa raggiunta nei mesi scorsi tra l’organismo guidato da Renato Brunetta e il ministero della Giustizia. Il Cnel coinvolgerà le parti sociali e il terzo settore - In particolare .il Cnel svolgerà una funzione di coinvolgimento sistematico delle organizzazioni datoriali, sindacali e del terzo settore rappresentate al suo interno, con una collaborazione orientata a diffondere le condizioni per un lavoro penitenziario di tipo formativo e professionalizzante, che assicuri l’accrescimento delle competenze personali dei soggetti reclusi. Cnel e Assolavoro, inoltre, collaboreranno nel valutare l’introduzione di incentivi occupazionali finalizzati a favorire l’assunzione di ex detenuti ed a individuare risorse specifiche per finanziare percorsi formativi in carcere. Brunetta: il reinserimento lavorativo dei detenuti a vantaggio dell’intera comunità - “Questo accordo - ha commentato il presidente del Cnel, Renato Brunetta - rappresenta un importante passo in avanti in materia di formazione dei detenuti e di reinserimento lavorativo, quali strumenti fondamentali per abbattere il rischio di recidiva. Il raggiungimento di questo obiettivo dà piena attuazione a un principio costituzionale e va a vantaggio dell’intera comunità, apportando valore aggiunto anche in termini di coesione sociale e sviluppo economico”. Assolavoro individuerà le competenze maggiormente richieste dalle aziende - Assolavoro, per il tramite delle Agenzie per il lavoro associate, si impegnerà nella realizzazione di analisi dei fabbisogni occupazionali delle aziende presenti sui territori, individuando le competenze maggiormente richieste, da sviluppare attraverso il sistema di formazione e riqualificazione professionale a favore dei detenuti, con l’obiettivo di rispondere al mutamento dei profili occupazionali ed alle esigenze delle imprese. Baroni: accordo con valenza più ampia a beneficio dei più svantaggiati - Francesco Baroni, presidente dell’associazione nazionale delle Agenzie per il lavoro ha sotttolineato che “siamo da sempre in prima linea nel favorire percorsi di inclusione anche per figure svantaggiate che vivono condizioni di difficoltà, fragilità o disagio e, fra l’altro, molte agenzie di Assolavoro sono già impegnate con il mondo dei carcerati. Questa collaborazione con il Cnel, da sempre luogo di confronto alto e di propositività di nuove soluzioni, potrà avere una valenza più ampia a beneficio di tutti i soggetti più svantaggiati”. Magistratura, cambio di passo nell’autogoverno di Federico Maurizio d’Andrea Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2023 Il dibattito italiano recente sulla Giustizia, con le riforme che si susseguono con una celerità che non permette neppure di verificarne la portata, lascia trasparire una fragilità sistemica sulla quale è bene esprimersi perché la Giustizia è, da sempre, il principale termometro per misurare la tenuta della democrazia. Ci si deve chiedere come sia possibile continuare a spingere al ribasso un dibattito che, pure, attiene direttamente al cuore del nostro “stare insieme” e che, per la sua delicatezza e per la sua complessità, andrebbe affrontato senza polarizzazioni ideologiche o semplificazioni. Le ultime discussioni (per limitarci al penale, tra tutte, quella sul voler ridurre le intercettazioni) evidenziano, purtroppo, non solo un approccio parcellizzato, ma anche (e palesemente) intenti punitivi verso un mondo (quello giudiziario - investigativo) non visto nella sua funzione di garanzia, ma, almeno da parte di alcuni, come un ostacolo (l’unico?) alla onnipotenza di chi esercita il potere politico, a prescindere da chi sia in carica. Il fil rouge che lega le varie iniziative di cui oggi si parla (sempre in campo penale, intercettazioni, eliminazione dell’abuso d’ufficio, restrizioni del traffico di influenze, oltre al sempre verde refrain della separazione delle carriere), infatti, appare rinvenibile in una sorta di esibizione muscolare che tuttavia, pur dando illusone soddisfazioni agli epigoni, non affronta quello che è, e che continuerà a essere, il problema prioritario dell’innegabile cattivo funzionamento del sistema giustizia, rinvenibile in un’autarchica irresponsabilità di un ordine vieppiù chiuso in sé stesso e incapace di riconoscere le manchevolezze e le non idoneità esistenti al proprio interno. E, in tal senso, il Csm, nel cui ambito siedono anche membri eletti dal Parlamento, avrebbe il dovere di contribuire a creare un ordine giudiziario non solo autonomo e indipendente, ma soprattutto autorevole, nel quale non dovrebbero avere la possibilità di permanere chi si mostra, magari reiteratamente, non adatto a svolgere la più nobile delle funzioni pubbliche (il rendere giustizia, sin dal momento delle indagini). In questo senso, come esempio e senza scomodare il “caso Tortora” (in cui davvero l’Italia perse la faccia), occorre chiedersi come sia possibile che nella magistratura, al pari di quanto avviene nella Pa, tutti o quasi ricevano sempre valutazioni più che positive, con minime sfumature differenziali. È palese che l’uguaglianza valutativa si traduce in una uguaglianza di ineguali e, alla fine, in un appiattimento che mina l’autorevolezza della magistratura tutta, la cui credibilità, non a caso, è in costante calo (come emerge da tutti i sondaggi). L’egalitarismo, pur principio supremo di democrazia, non può spingersi sino ad abbracciare, di fatto eliminandoli, il merito, la responsabilità individuale, la conoscenza, la dedizione al dovere. Perpetuando la farsa delle valutazioni uniformi, si assiste, ormai da anni e ormai in modo immutabile, a un declino qualitativo che, però, non sembra essere considerato, pur per com’è, un problema sistemico, su cui, viceversa, si dovrebbe intervenire in modo strutturale. È indispensabile un sostanziale cambio nelle modalità valutative e nelle conseguenti progressioni delle carriere (con particolare riferimento alla scelta dei capi degli uffici), che non dovranno continuare a essere influenzate da appartenenze correntizie, contraddicendo quegli ideali di indipendenza che sono alla base dello svolgimento della funzione giudiziaria. Svolgere in modo indipendente una funzione postula un’indipendenza di comportamento che difficilmente si concilia con l’appartenenza a “correnti” strutturate, con prioritarie finalità spartitorie goffamente camuffate da sbandierati intenti di garanzia di pluralismo, né si concilia con la triste prassi di chi è eternamente “fuori ruolo”. Questi sono temi non eludibili, perché ne va della credibilità di un’intera istituzione, alla quale, non a caso, oggi si guarda con paura, più che con fiducia. Eppure non può sfuggire che una magistratura sana e credibile è, l’unica, vera tutela dei deboli, altrimenti in balia di abusi e soprusi, che non troverebbero più un limite e, di conseguenza, minerebbero la pacifica convivenza, inesistente senza regole chiare e certezza della loro imparziale applicazione. Non intervenire su questi aspetti di sistema, convogliando l’attenzione dell’opinione pubblica su contesti del tutto parziali, significa solo avallare forme di resistenza al cambiamento e consolidare i rapporti di forza esistenti, nella incapacità di cogliere il senso del triste declino istituzionale. Lo abbiamo ricordato più volte e non ci stancheremo di sottolinearlo: la magistratura, nella permanenza della propria unitarietà, autonomia e indipendenza, deve essere capace, per il tramite del proprio Consiglio superiore, di proteggersi autorigenerandosi, mediante valutazioni serie ed espellendo non solo chi si macchi di reati, ma anche chi si manifesti inidoneo allo svolgimento delle funzioni. Nella quotidiana ed egualitaria applicazione delle regole, un diritto democratico implica il superamento di quell’insopportabile egocentrismo castale che tanta parte ha avuto, e continua ad avere, nell’ostacolare un (sempre più) corretto convivere. Femminicidi, il Senato approva il ddl Roccella. Ma per la discussione l’Aula è vuota di Rocco Vazzana Il Dubbio, 23 novembre 2023 Passa all’unanimità la legge contro la violenza sulle donne. Ma fanno discutere gli scranni deserti. Schlein telefona a Meloni: “Apprezzo il segnale della maggioranza che ha dato parere favorevole su un odg del Pd che chiede di mettere risorse sulla formazione”. Neanche il tempo di far sedimentare l’orrore per il barbaro assassinio di Giulia Cecchettin il Senato si svuota nel giorno in cui il Parlamento dovrebbe discutere di un disegno di legge sulla violenza sulle donne. Perché un conto è licenziare un comunicato o strillare una qualche indignazione in tv, altro prendersi la briga di presentarsi in Aula a parlamentare sulle soluzioni. A denunciare il palazzo vuoto è l’ex segretaria della Cgil e senatrice dem Susanna Camusso, che su X posta una foto degli scranni deserti accompagnata da una didascalia: “L’aula del Senato mentre si discute della legge “disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica”. Bastano pochi minuti perché lo scatto venga notato e rilanciato sui social da centinaia di utenti. Lo spettacolo è troppo deprimente per passare inosservato, quasi un insulto all’intelligenza dei cittadini costretti quotidianamente ad ascoltare sermoni sulla centralità del potere legislativo messa in pericolo dalle riforme. A delegittimare il confronto democratico non sono solo i governi - sempre più autonomi, arroganti e autosufficienti - ma i parlamentari stessi. I senatori, infatti, rientrano alla spicciolata per pigiare un bottone e votare la legge voluta dalla la ministra della Famiglia, Eugenia Roccella: con 157 sì, all’unanimità, l’Aula dà il via libera definitivo al testo già approvato alla Camera, che diventa legge. Approvati anche, con parere favorevole della maggioranza, due ordini del giorno proposti dal Pd che prevedono maggiori risorse per la formazione degli operatori della giustizia e tempi certi per portare in aula altri provvedimenti. Del resto, l’ennesimo femminicidio sembra aver ridotto le distanze tra maggioranza e opposizione, con tutti i leader apparentemente disponibili a sedersi attorno a un tavolo alla ricerca di risposte condivise e possibilmente efficaci. Proprio ieri la segretaria del Pd, Elly Schlein, ha fatto sapere di aver sentito al telefono la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, “in merito alla possibilità di trovare un terreno comune per far fare un passo avanti al Paese sulla prevenzione della violenza di genere”, ha fatto sapere la leader dem, prima di aggiungere: “Apprezzo il segnale della maggioranza al Senato, che ha dato parere favorevole su un odg che chiede di mettere risorse in quella legge sulla formazione delle operatrici e ha approvato l’ odg in cui chiediamo di calendarizzare in tempi rapidi alla proposta di legge sulla prevenzione”. Solo una chiamata distensiva ma accolta con entusiasmo da Palazzo Chigi, che ha incassato la disponibilità al dialogo anche del presidente del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte. “È una questione che riguarda tutti, non è un tema di maggioranza o opposizione. Noi siamo assolutamente disponibili a elaborare insieme al governo un pacchetto di misure educative”, ha detto il leader pentastellato, convinto che serva “un progetto culturale molto più ampio, con il volto solo repressivo non si va da nessuna parte”. E in attesa di trovare soluzioni più congrue, la ministra Roccella può tirare un sospiro di sollievo. - “È una bella pagina scritta insieme, in uno spirito di condivisione e leale collaborazione, a iniziare dai ministri che hanno firmato con me il ddl”, ha detto in Senato. “Questa legge introduce misure che possono fare differenza tra la vita e la morte. Sui femminicidi c’è una vera condivisione. Dobbiamo proseguire con questo metodo, abbiamo tenuto conto di chi sul tema aveva maturato esperienza, dall’esperienza della scorsa commissione sul femminicidio”. Il ddl contiene un pacchetto di misure che punta a rafforzare il “Codice Rosso” grazie al potenziamento di strumenti come l’ammonimento, il braccialetto elettronico, la distanza minima di avvicinamento e la loro applicazione ai cosiddetti “reati spia”. Il Pd spera di poter migliorare la legge in tempi rapidi. Sempre che qualcuno si ricordi di andare in Parlamento. “Inasprire le pene non salverà le donne. Rimettiamo al centro scuola e persona” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 23 novembre 2023 Il vicepresidente della Fai Vittorio Minervini racconta l’iniziativa promossa insieme alla commissione pari opportunità del Cnf in occasione del 25 novembre. Un tunnel buio, costellato di nomi. E in fondo un momento di luce, un lampo tinto di arancione, il colore scelto dalle nazioni unite per simboleggiare la violenza contro le donne. È l’installazione che sarà possibile visitare sabato prossimo in piazza dell’orologio a Roma, davanti alla sede amministrativa del Consiglio nazionale forense, la cui Commissione pari opportunità ha promosso l’iniziativa insieme alla Fondazione dell’avvocatura italiana (Fai). Il progetto nasce da un’idea di Vittorio Minervini, consigliere del Cnf e vicepresidente della Fai, che in occasione del 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, ha voluto proporre insieme alla consigliera Lucia Secchi Tarugi, coordinatrice della Commissione pari opportunità del Cnf, qualcosa di innovativo che potesse veicolare un messaggio di grande impatto emotivo. “L’obiettivo è sollecitare un momento di introspezione, qualche minuto di raccoglimento per meditare sul numero di femminicidi registrati nell’ultimo anno andando oltre il dato di cronaca e il marasma di informazioni che non lasciano spazio alla riflessione”, spiega Minervini. Chiunque avrà la possibilità di “essere chiuso in questo spazio nero” e di attraversare una galleria di nomi, ognuno dei quali evoca una storia e un tragico epilogo. Sono le vittime di femminicidio che il nostro paese conta dal novembre 2022 ad oggi, volti e nomi che non possiamo dimenticare, e che devono essere di monito affinché non accada mai più. Le loro vicende sono raccolte in un piccolo volume che sarà messo a disposizione di chiunque decida di partecipare, spiega ancora Minervini, che ha in mente una parola in particolare per raccontare questa iniziativa: amore. “L’amore come declinazione positiva di tutte le cose che fanno parte della vita - sottolinea -, un termine troppo spesso banalizzato, e che bisogna invece valorizzare e rimettere al centro della nostra convivenza civile”. Lo stesso titolo dell’installazione - “No aMore” - si basa su un gioco di parole, che qui acquisisce una doppia lettura: è il grido “No More”, mai più, e “no Amore”, cioè l’amore che non ha nulla a che vedere con la violenza, come ha sottolineato anche Gino Cecchettin, papà di Giulia, la ragazza di 22 anni per la cui morte è accusato l’ex fidanzato Filippo Turetta. “Si tratta di un terribile equivoco - ribadisce il vicepresidente Fai -. Affidarsi a qualcuno che dice di amarti può rivelarsi molto pericoloso”. “Ma è soltanto l’amore, nel suo significato più profondo - prosegue - che può aiutarci a superare l’odio e l’indifferenza nei confronti dell’altro”. Un’urgenza culturale, dunque, la cui soluzione non può essere risolta in una politica repressiva. A questo proposito, in relazione al disegno di legge anti femminicidio approvato ieri in Senato, Minervini ribadisce ancora una volta che la corsa a pene più dure non basta. Anzi, non serve: “Le grida manzoniane non portano mai a niente. Basta pensare che molti femminicidi si concludono con il suicidio di chi l’ha commesso, per rendersi conto che la pena non è un deterrente”, riflette Minervini. Il quale riporta l’attenzione “sul ruolo della scuola, che deve recuperare la sua funzione educativa per essere di supporto alle famiglie. L’obiettivo è rimettere al centro il concetto di persona, educando i ragazzi al rispetto dell’altro”. In questo gli operatori del diritto possono e devono essere grandi alleati, aumentando la propria presenza nella società, sottolinea Minervini. Che ha in mente un programma preciso per la Fai, “la cui aspirazione è di interpretare la parte culturale dell’avvocatura”. Anche per ciò che riguarda la funzione dei giuristi nel dibattito sulle garanzie costituzionali da sottrarre a quel clima mediatico richiamato anche dal procuratore di Venezia Bruno Cherchi a proposito del caso Cecchettin, e che troppo spesso finisce per inquinare l’amministrazione della giustizia. “Dobbiamo sempre mantenere la barra al centro. La nostra forza, la forza dello Stato di diritto, è di garantire a tutti un giusto processo a chiunque”, dice Minervini. Che ha una visione precisa anche per ciò che riguarda l’impegno dell’avvocatura sul piano internazionale: l’idea è di tessere un legame tra la Giornata del 25 novembre e quella del 24 gennaio, dedicata agli avvocati in pericolo. E in particolare, quest’anno, alla legale iraniana Nasrin Sotoudeh. “Gli avvocati non sono mai in pericolo per motivi propri, ma perché si mettono in primo piano per difendere i diritti altrui - chiosa Minervini. Penso ai legali turchi, che difendono i colleghi che lottano per la libertà. E penso a Nasrin, massimo esempio della liberazione femminile e volto di tutte le donne che stanno lottando per la tutela dei diritti umani”. Aumentare le pene? No, renderle effettive di Piercamillo Davigo Il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2023 I legislatori inventano norme “manifesto” per tranquillizzare l’opinione pubblica senza cambiare nulla. Così un ladro che ruba auto, tra le aggravanti e le attenuanti, rischia dai 4 mesi e 2 giorni ai 30 anni. Di fronte ai delitti che turbano l’opinione pubblica per la loro gravità e il loro numero, vi è la tendenza ad aggravare i massimi delle pene. Bisognerà attendere le statistiche per verificare se quei delitti siano aumentati o se vi sia solo una maggiore attenzione dei mezzi di informazione: nel 1991 gli omicidi volontari in Italia furono 1.938; nel 2021 se ne contarono 303, con un tasso di 0,51 per 100.000 abitanti, tra i più bassi dell’Unione europea; nel 2022 salirono a 314. Ma i legislatori ricorrono a norme “manifesto” più indirizzate a tranquillizzare l’opinione pubblica che a ottenere seri effetti di deterrenza (che, peraltro, ha efficacia diversa a seconda degli autori dei reati e del tipo di reati e richiede approfondita riflessione). La pena per l’omicidio stradale (reato colposo) può arrivare, per l’effetto di aggravanti, a 18 anni di reclusione, sfiorando la pena per l’omicidio volontario (da 21 a 24 anni, salvo aggravanti) e alterando le proporzioni fra varie figure di delitti. Peraltro, aumentare i massimi edittali delle pene serve a poco. La legislazione penale, con poche eccezioni, prevede infatti pene edittali elevatissime, a fronte di pene effettivamente inflitte e poi concretamente eseguite ben distanti dalle comminatorie legali contenute nelle norme incriminatrici. Il Codice penale, promulgato con Regio decreto il 19 ottobre 1930, n. 1398, tuttora in vigore (seppure con notevoli modifiche) prevede pene edittali molto severe (nei massimi), ma che in concreto arrivano a livelli ben diversi. Anzitutto le fattispecie incriminatrici prevedono una forbice edittale in cui le pene vanno da un minimo a un massimo e, mentre i massimi sono molto elevati, i minimi sono di entità ridotta. In secondo luogo la legge penale prevede circostanze aggravanti (che determinano un aumento della pena) e circostanze attenuanti (che riducono la pena). Dopo il periodo fascista, ritenendo che in generale le pene fossero troppo severe, furono introdotte le circostanze attenuanti generiche, cioè qualunque altra circostanza (diversa da quelle tipizzate nella legge) che il giudice ritenga tale da giustificare una diminuzione della pena (art. 62 bis Codice penale, introdotto dall’art. 2 del decreto legislativo 14 settembre 1944, n. 288). Le circostanze si distinguono fra quelle a effetto speciale (che indicano in modo autonomo l’aumento o la diminuzione della pena) e quelle a effetto normale (che determinano l’aumento o la diminuzione della pena fino a un terzo). Quando sono presenti circostanze aggravanti e attenuanti, il giudice deve procedere a un giudizio di comparazione: se prevalgono le aggravanti si applicano solo gli aumenti di pena, se prevalgono le attenuanti si applicano solo le diminuzioni di pena, se sono considerate equivalenti non si applicano né le une né le altre. Nel testo originale del Codice non era possibile il giudizio di comparazione fra circostanze a effetto speciale e le altre, ma nel 1974 tale divieto fu soppresso (decreto legge 11 aprile 1974, n. 99, convertito con legge 7 giugno 1974 n. 220). Il riconoscimento delle attenuanti generiche e il giudizio di prevalenza o equivalenza fra circostanze aggravanti e attenuanti è largamente discrezionale. Come prevedibile, tale eccessiva discrezionalità viene per lo più utilizzata nel senso di attestare le pene verso i minimi edittali (anche in ragione dei diversi gradi di giudizio e del progressivo trascorrere del tempo - che da solo fa sembrare i fatti meno gravi - e della frequente assenza delle vittime nei giudizi di appello e di cassazione. Vediamo gli effetti di tale modifica normativa. Il Codice penale prevede pene elevatissime per i furti aggravati. Ad esempio, per un furto d’auto ricorrono di norma due aggravanti a effetto speciale: quella dell’esposizione del bene alla pubblica fede (essendo di norma le auto posteggiate) e quella del mezzo violento o fraudolento (per aprire e avviare il veicolo). La pena prevista è da 3 a 10 anni di reclusione (oltre alla multa). Se l’autore del reato sottrae tre o più autovetture in esecuzione di un medesimo disegno criminoso la pena massima può arrivare a 30 anni di reclusione (oltre alla multa). Chi legge il Codice penale potrebbe immaginarsi che nessuno sia così folle da rubare autoveicoli in Italia, ma soccorrono le attenuanti generiche. Se il giudice le riconosce con giudizio di prevalenza sulle aggravanti (ad esempio perché l’imputato è giovane, o socialmente emarginato o altre infinite ragioni), la pena minima (quella del furto semplice dal momento che si escludono le aggravanti) diventa di 4 mesi e 2 giorni di reclusione (artt. 624 e 81 Codice penale: mesi 6 di reclusione ridotti fino a un terzo per il primo furto, aumentato di un giorno per ciascuno degli altri due furti). Al di là della stravaganza di prevedere una pena che va da 4 mesi e 2 giorni a 30 anni, scaricando sul giudice una discrezionalità smisurata, in altre situazioni si determinano effetti di eccessiva rigidità. Per esempio, la pena prevista per le lesioni personali gravissime è la reclusione da 6 a 12 anni (art. 583), ma se vengono riconosciute le attenuanti generiche almeno equivalenti all’aggravante, la pena va da 3 mesi a 3 anni (art. 582). Il giudice pertanto non potrà mai infliggere una pena compresa fra più di 3 anni e meno di 6 perché, se riconoscerà le attenuanti generiche prevalenti o equivalenti sulla aggravante, non potrà superare i 3 anni, se non le riconoscerà o le riterrà sub valenti rispetto alla circostanza aggravante non potrà scendere sotto i 6 anni. Ovviamente tutto ciò non si sarebbe verificato se un legislatore più avveduto avesse riscritto le pene nelle singole fattispecie incriminatrici. Su questi meccanismi si innestano poi le riduzioni di pena previsti dal Codice di procedura penale se l’imputato richiede riti alternativi. Ad esempio, per il giudizio abbreviato è prevista la riduzione della pena di un terzo e il D. lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 prevede che la pena inflitta nel giudizio abbreviato sia ulteriormente ridotta di un sesto, in caso di mancata impugnazione della sentenza. Per di più, ogni 6 mesi di detenzione con condotta regolare è prevista la liberazione anticipata di 45 giorni, quindi ogni anno di carcere inflitto equivale a 9 mesi. Poi ci sono le ulteriori forme alternative alla detenzione previste dalla riforma Cartabia con richiesta al giudice in sede di giudizio di cognizione: se la pena da scontare (anche come residuo di maggior pena) non supera i 4 anni è previsto l’affidamento al servizio sociale. Senza contare altri istituti quali la semilibertà, la liberazione condizionale e la detenzione domiciliare. Invece di emanare norme “manifesto”, sarebbe più serio ridare unità e logicità al sistema penale. Questa rivolta contro i femminicidi cambierà qualcosa? Sono pessimista di Laura Onofri* Il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2023 Il femminicidio di Giulia Cecchettin ha scatenato un’ondata di ribellione, di rabbia e indignazione mai viste prima per altri atti così efferati e crudeli che colpiscono le donne. Il perché è da ricercarsi in tanti motivi: prima di tutto perché la misura è colma e questa è la classica goccia che fa traboccare il vaso, poi perché ha impressionato molto l’immagine di questa ragazza, di sua sorella che è riuscita in un momento così doloroso, a parlare della morte di Giulia senza rabbia e senza pietismo, della sua famiglia, una famiglia come tante che ci colpisce perché quella famiglia potrebbe essere la nostra; e poi non dimentichiamo che siamo vicini al 25 novembre, giornata che tristemente ogni anno è piena di convegni, incontri e manifestazioni perché la violenza non si placa e i femminicidi continuano incessantemente a stroncare vite. Questa infinità di informazioni, di articoli, testimonianze e pareri di esperti ed esperte più o meno conosciute (che si sentono in dovere di dire la loro anche se del problema non si sono mai occupati) è senz’altro utile ma mi sconcerta. Mi sconcerta soprattutto il fatto che in molti articoli è come se avessimo scoperto oggi quello che tante donne, tante femministe, tante studiose, vanno ripetendo da anni. I motivi a noi sono ben chiari, anzi il motivo è uno solo: la società patriarcale in cui viviamo. Non c’è ambito in cui il maschilismo e il patriarcato non siano presenti. Combattiamo tutti i giorni con gli stereotipi culturali che sono così radicati, sedimentati nella nostra vita che spesso neanche ce ne accorgiamo. E più gli stereotipi sono subdoli, impliciti, più i soggetti tendono ad assumere comportamenti conformi. Si nutrono di parole sbagliate, di frasi sessiste dette a volte per scherzo al bar tra gli amici, di comportamenti che possono sembrare innocui e a volte persino accudenti ma sono invece sintomo di controllo, di sorveglianza, di relazioni nocive scambiate per amore. Ma non sono solo gli uomini ad esserne pervasi: molte donne non si accorgono di alimentare o subire certi pregiudizi, tollerando frasi, atteggiamenti e giustificandoli con il “si è sempre fatto così”, o per quieto vivere, per evitare discussioni. Invece bisognerebbe alzare la testa sempre. Anche quando si tratta di piccoli e apparentemente insignificanti atteggiamenti. Una mia amica mi faceva notare che alle cene sono molto spesso le amiche della padrona di casa ad alzarsi per aiutarla. Perché? Perché gli uomini ritengono del tutto naturale rimanere seduti ad aspettare di essere serviti? La quasi totalità degli uomini ritiene normale questi comportamenti e li minimizza, non comprendendo che questo, seppur non li renda certamente violenti o maltrattanti, contribuisce ad alimentare una cultura patriarcale che in altri uomini può sfociare n violenza. Questa rivolta di molte donne e alcuni uomini, che in questi giorni sembra non placarsi, cambierà qualcosa? Sono pessimista, non penso che cambierà granché neanche questa volta. Perché viviamo in un mondo che è stato costruito a misura d’uomo dove l’uomo è sempre stato visto come soggetto più importante, più potente e ha goduto di maggiori diritti e questi pensieri sono sedimentati e radicati in modo più o meno penetrante dentro di noi. Solo in un tempo relativamente recente, rispetto alla stratificazione di questi concetti avvenuta nei secoli, i movimenti femministi hanno iniziato a portare alla luce la disparità di genere nella società, e a rivendicare tutti i diritti negati mettendo la figura maschile non più come essenziale nella vita pubblica e privata, ma come un elemento che coesiste insieme alle donne. Mettere in discussione il patriarcato, un sistema sociale nel quale il potere, l’autorità e i beni materiali sono concentrati nelle mani dell’uomo, ha portato a numerose lotte e riforme che hanno visto le donne maggiormente incluse, ma specularmente a far perdere agli uomini molti privilegi e a metterli perennemente in discussione, come se, una pari equità uomo/donna, fosse una minaccia per la figura maschile. E questo non è accettato da tanti uomini e a volte anche da troppe donne. E come pensare di fare una rivoluzione culturale quando la politica è assente o fuorviante o addirittura respingente rispetto a questi temi? Quando abbiamo una Presidente del Consiglio che, indicata da Lilli Gruber come espressione di una cultura patriarcale, posta una foto che la ritrae insieme alla figlia, alla madre e alla nonna e ironizza dicendo “e questa sarebbe una famiglia patriarcale?”, non cogliendo che non è certo questo il punto e che solo con la consapevolezza di essere tutti immersi in questa cultura possiamo venirne fuori. O quando l’esperto, a cui il ministro dell’Istruzione Valditara avrebbe affidato le linee guida sull’educazione alle relazioni, ha pubblicato un libro La guerra dei sessi dove sostiene tesi su un fantomatico movimento intenzionato a schiavizzare gli uomini e scrive: “Dietro la punta dell’iceberg dei femminicidi, sembra però esserci il grande corpo dell’iceberg costituito dal bisogno di sottomissione maschile. È come se gli uomini, lo ribadiamo, facessero davvero fatica ad avere un rapporto equilibrato col femminile: o sono carnefici, o sono vittime. […] C’è una piccola, ma appariscente popolazione di donne, che approfitta di questa tendenza maschile alla sottomissione, e ne fa una vera e propria fonte di business”. E altre tesi allucinanti di questo tipo. O ancora quando un Consigliere regionale Veneto del centrodestra si permette di attaccare Elena Cecchettin, sorella di Giulia, perché le sue parole sulla cultura dello stupro sarebbero “un messaggio ideologico, pronto per la recita”. Ma soprattutto quando abbiamo un governo che per rispondere al fenomeno della violenza usa solo una politica securitaria che si concentra sull’innalzamento delle pene e che anche per alcuni provvedimenti, che potrebbero risultare utili, non destina le risorse necessarie al loro funzionamento (per esempio il potenziamento degli uffici giudiziari a fronte di una maggiore mole di lavoro). Non vogliamo strumentalizzare il dolore, non vogliamo neppure affermare che i governi precedenti abbiano fatto molto su questo tema, ma non possiamo non rilevare che il linguaggio, le posture, le frasi che sentiamo dagli esponenti politici di questo esecutivo ci fanno fare parecchi passi indietro per sconfiggere quella che rimane l’unica vera causa della violenza contro le donne: il patriarcato. *Attivista e Femminista Femminicidio Cecchettin, le parole scorrette che i giornali hanno usato per raccontarlo di Eliana Cocca* Il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2023 In centocinque sono morte nel 2023 per mano di un uomo, cinquecentosettantasei negli ultimi cinque anni, e ancora non abbiamo imparato a parlare correttamente dei casi di femminicidio. Di qualsiasi studente che compie lo stesso errore centinaia di volte si possono dire tre cose: che non ha gli strumenti per comprendere perché e dove sbaglia, che con il suo atteggiamento ha voglia di prendere in giro la sua insegnante o che, banalmente, non sta prestando attenzione. Tra queste tre opzioni si giostrano i miei pensieri tutte le volte che leggo titoli, articoli, editoriali e interviste sulla violenza contro le donne in cui vengono usate parole e immagini scorrette e a loro volta violente. Mi rendo conto che accanto alla gravità dei casi di cronaca questa può sembrare una piccolezza, eppure sono convinta che attraverso le parole concepiamo e plasmiamo la realtà e che dunque sia nostro compito raccontare la violenza con rispetto, precisione e cura. Purtroppo, invece, il manifesto dei giornalisti e delle giornaliste per il rispetto e la parità di genere nell’informazione giace inesplorato nella cartella download di un pc in qualche redazione. Il 18 novembre Il Corriere scrive che il corpo ritrovato nel Lago di Barcis è quello di Giulia Cecchettin e poi li chiama “i ragazzi scomparsi”. Solo che Giulia Cecchettin non è scomparsa, è stata sequestrata e uccisa dal suo ex, Filippo Turetta, che pure non è scomparso, ma si è nascosto dopo aver pianificato giorni e giorni di sopravvivenza. Siamo sicuri che sia legittimo metterli sullo stesso piano e neutralizzare tutte le differenze tra vittima e carnefice definendoli “ragazzi scomparsi”? Il giorno dopo, sullo stesso argomento, Repubblica apre così: “quell’amore cattivo è finito per sempre, ora lo sappiamo. In un posto da innamorati, con il foliage da fotografare, il lago, le montagne, un posto sperduto e magico”. Ancora lo chiamiamo amore? Le foglie, il paesaggio, la magia… sembra una recensione su TripAdvisor, manca solo il consiglio gastronomico nelle vicinanze. Una ragazza di 22 anni è stata uccisa e si continua a romanticizzare la violenza. Così fa anche Messaggero Veneto, nel titolo, definendo Filippo Turetta “buono e premuroso, ma anche possessivo e geloso”. Ecco qui la scusa della doppia personalità che tanto piace a chi si concentra solo sulla responsabilità personale nei singoli episodi di femminicidio e mai sulla piaga sociale, sul sistema malato che ogni giorno mortifica, oggettifica e abusa. Accostare all’assassino aggettivi positivi dipinge un quadro fuorviante e parziale della realtà: le faceva i biscotti, quindi doveva essere dolce con lei, per forza, zuccheroso per osmosi. Era possessivo, certo, però anche premuroso. Il punto è questo: non è importante. L’articolo sulla morte di una ragazza non è lo spazio per raccontare carattere e hobby del suo assassino. Non l’ha capito nemmeno HuffPost che ci propina un approfondimento sulla vita di Turetta, titolando “riservato, timido e con la passione per il volley”… informazioni fondamentali per comprendere le dinamiche dell’accaduto e di cui proprio non si poteva fare a meno. Esattamente come, mi pare di aver capito in questi giorni, non si può fare a meno di conoscere ogni minuscolo dettaglio sulle crudeltà commesse da Turetta contro Cecchettin. Il Mattino stila uno step by step “dalle coltellate sotto casa alla lunga agonia”. Era necessario? È dovere di cronaca, questo? O come spesso accade per la morte di giovani ragazze si cade nell’ossessione da cronaca nera? Il manifesto di Venezia parla chiaro: “evitare ogni forma di sfruttamento a fini ‘commerciali’ (più copie, più clic, maggiori ascolti) della violenza sulle le donne”. È preoccupante la gara a chi pubblica più dettagli cruenti, non ha alcuna utilità in termini di diritto all’informazione dei cittadini e non fa altro che alimentare la sofferenza già inconcepibile dei familiari delle vittime. La congiunzione perfetta tra mancanza di strumenti, disattenzione e presa in giro la raggiunge La Stampa che il 19 novembre propone un sensatissimo “basta foto insieme di Giulia e il suo carnefice. La scure social sui loro ritratti da fidanzati”. E come lo fa? Abbinando il testo a una foto dei due ex insieme. Farebbe ridere se non facesse piangere. È una pratica ahimè inflazionata, quella di ripescare foto dal passato in cui la vittima e l’uomo che l’ha uccisa sorridono in camera; questa settimana lo hanno fatto FanPage, SkyTg24, Open e tante altre testate. Si tratta di immagini distorte che insinuano ben due informazioni sbagliate: che ci sia una coppia felice e che ci sia una coppia. Non soltanto, invece, non ci è dato sapere se il periodo di sofferenze e abusi fosse già in corso al momento dello scatto, ma così facendo si preferisce dare spazio a un fattore irrilevante: l’apparenza esteriore, che nella maggior parte dei casi nulla dice della violenza. Sempre il giorno successivo alla notizia dell’uccisione di Giulia Cecchettin, dal salotto di Domenica In - con la compiacenza di “Zia” Mara Venier che essendo icona dello spettacolo e regina delle gif trash gode dell’immunità sull’accountability per i contenuti della sua trasmissione - l’ex magistrata e deputata in quota Lega Simonetta Matone afferma che è colpa delle madri se i figli sono disturbati (e poi ammazzano la gente, ndr). Meno di ventiquattro ore dopo si accoda la ministra Eugenia Roccella che ha il superpotere di dire sempre la cosa sbagliata: “è fondamentale che le madri educhino i figli maschi ad avere rispetto delle donne”. Secondo la posizione di questa combo micidiale di menti che hanno interiorizzato il maschilismo, se gli uomini uccidono è comunque colpa delle donne. Delle madri, nello specifico. A loro è richiesto maggiore impegno nell’educare, mentre di padri che si facciano carico di decostruirsi e accompagnare figli e figlie nell’educazione affettiva… nemmeno l’ombra. Di maschi, invece, fin troppo coinvolti, ci fa dono Grazia con il suo numero speciale contro la violenza sulle donne. Le voci di diciotto uomini bianchi, ricchi e famosi si incontrano per spiegare cosa fanno loro per combattere le discriminazioni di genere. La cover recita “quello che gli uomini non dicono” e ora che lo dicono, effettivamente, si capisce bene perché stavamo meglio prima che lo dicessero. L’attore Andrea Bosca ci fa sapere che “l’uomo violento è in gabbia perché rinnega il suo lato femminile fatto di accoglienza, apertura e ascolto”. Wow, siamo all’angelo del focolare o giù di lì. Combattiamo la violenza armati di stereotipi sulle donne naturalmente più disponibili, dolci e carine. Il cantautore Vasco Brondi ci invita ad ascoltare le donne per rivoluzionare gli uomini e lo fa occupando uno spazio che poteva essere dedicato a far emergere i nostri punti di vista, le nostre paure e le nostre istanze. Per la categoria “nuove proposte”, se la contendono un illuminante Sangiovanni - con le donne iraniane che potrebbero essere sue amiche - e Matteo Paolillo che con una profondità d’analisi da Zecchino D’Oro ricorda che se l’amore fa male, non è amore. Poi, d’improvviso, Ambra Angiolini, unica donna in mezzo ai protagonisti maschili del numero, secondo cui troppi uomini si sono dimenticati di essere nati non solo da una donna ma anche donna. Con una supercazzola degna del peggior Lello Mascetti, Angiolini ci informa che lei proverebbe “a spiegare a tutti che non esiste solo un modo per rivendicare la propria primitiva mascolinita?”. Mi chiedo: ma va rivendicata per forza questa voglia di andare a caccia di mammut e ai raduni di artisti parietali nelle grotte di Lascaux? Scherzi a parte, in cosa consiste questo “essere maschio” o “essere femmina” di cui andare fieri? Perché continuiamo ad attribuire caratteristiche dell’umano al maschile o al femminile per poi dire che in noi convivono? Convivono perché questo binario degli aggettivi non ha senso. Credo che verso la fine del suo discorso abbia detto così anche Angiolini, però mi ha lasciata così confusa che onestamente non ci giurerei. Qualche contenuto dedicato alla decostruzione della mascolinità tossica si salva, nondimeno è surreale: perché lasciare che siano gli uomini a raccontare le violenze che subiamo, proprio alle porte del 25 novembre? Non c’è già abbastanza spazio per la narrazione maschile tutti gli altri giorni dell’anno? Chiudo con l’attore Marco Bonini che pur di non pronunciare la parola “patriarcato”, appoggiandosi a un neologismo coniato dal figlio, usa l’espressione “millenni di imperialismo maschiettistico”. Poesia. E a proposito di poesia - una vera, stavolta - “se domani tocca a me, voglio essere l’ultima”. Alla Dottoressa Giulia Cecchettin e a tutte le altre che non abbiamo saputo raccontare. *Bioeticista Campania. “Fatti a Manetta”: Coldiretti lancia la filiera produttiva delle carceri salernonotizie.it, 23 novembre 2023 Un percorso nell’agroalimentare per avere una concreta opportunità di reinserimento sociale ed abbandonare definitivamente le strade sbagliate. Questo l’ambizioso obiettivo che scaturisce dal protocollo d’intesa siglato fra il Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Campania e la Federazione regionale Coldiretti Campania. A mettere nero su bianco sono stati il Presidente Coldiretti Campania Ettore Bellelli, il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Campania Lucia Castellano e il Direttore UIEPE Campania (Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna) Claudia Nannola. “Tutti meritano di avere una seconda possibilità. Oggi il mondo agricolo può dare a quanti entrano nei percorsi di questo progetto sbocchi ed opportunità. In questo settore c’è una continua ricerca di personale. Inizieranno a capire come funziona una azienda agricola e quali sono i compiti di chi è addetto alla gestione delle stesse. In più forniremo assistenza tecnica per consentire alle aziende agricole che sono all’interno di questi istituti di avere anche una certa redditività. Dobbiamo creare non solo il lavoro ma anche il modello di sostenibilità economica, ambientale e sociale” spiega il presidente Coldiretti Campania Ettore Bellelli. L’accordo prevede l’attivazione di progetti di inclusione socio lavorativa nel settore agroalimentare, attraverso percorsi di orientamento, formazione e inserimento. L’iniziativa vuole coinvolgere più istituti del territorio istituendo filiere produttive e trasformative dei prodotti con il coordinamento dell’Amministrazione penitenziaria e il supporto tecnico di Coldiretti. La Provveditrice Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Campania Lucia Castellano entra nel merito della produzione: “Ringrazio di cuore Coldiretti per questa voglia di sperimentare questo percorso in un terreno così complicato. Si fa promotrice di un vero percorso imprenditoriale all’interno degli istituti penitenziari, uscendone poi con i prodotti che arriveranno sui loro mercatini. Non vediamo l’ora di essere presenti con il nostro marchio “Fatti a Manetta”. I detenuti coltiveranno la terra con le cooperative e poi insieme a Coldiretti provvederemo a vendere all’esterno questi prodotti”. Saremo subito operativi in molti istituti di pena già attrezzati come Secondigliano e poi in quelli che si attrezzeranno come Carinola. Opportunità anche per Aversa, Arienzo e tutti quelli che pian piano si inseriranno. Manca Poggioreale che non ha gli spazi adeguati”. Milano. Sos carceri, il dossier della Camera Penale: “Situazione fuorilegge” Il Giorno, 23 novembre 2023 “L’unica possibile alternativa, nell’attuale situazione, diviene un provvedimento di clemenza generalizzata (anch’esso auspicato dieci anni fa dal Presidente della Repubblica) che solo può far rientrare l’Italia nella legalità rispetto ai parametri costituzionali”. Lo scrivono gli avvocati della Camera penale di Milano in un documento sul tema del sovraffollamento nelle carceri e sulle “condizioni umane di detenzione”. Nel documento, intitolato “il nostro bilancio del carcere di oggi”, la Camera penale milanese spiega che “60 mila detenuti sono oggi ristretti nelle carceri italiane, 4 mila in più rispetto ad un anno fa”. Carenze e problematiche “sono emerse con riferimento alla salute, agli spazi, al lavoro, alle disuguaglianze, alle opacità”. Ancora una volta, si legge nel documento, “è rimessa nelle mani del volontariato e del terzo settore la possibilità per i detenuti di trascorrere tempo utile e produttivo fuori dalle celle. La possibilità di alleviare le sofferenze - scrive la Camera penale - attraverso il supporto dei propri famigliari, con le telefonate quasi quotidiane concesse nel periodo pandemico, è stata ottusamente cancellata, salvo un minimo ritocco oggi inserito in uno dei tanti disegni di legge governativi”. Già dieci anni fa la Corte Costituzionale si era soffermata “sulla intollerabilità di un “eccessivo protrarsi dell’inerzia” e, concludono i legali, “non possiamo non auspicare che la questione sia nuovamente sollevata”. Milano. Violenza sulle donne, il lavoro in carcere con i detenuti autori di maltrattamenti di Chiara Martinoli tg24.sky.it, 23 novembre 2023 Stefano è stato condannato a sette anni per maltrattamenti in famiglia e violenza. All’interno del carcere ha seguito un percorso che lo ha portato a capire ciò che aveva fatto. Anche questo è un tassello fondamentale dello sforzo collettivo da impiegare nella lotta contro la violenza sulle donne. Perché non basta tutelare le vittime, è agli uomini che bisogna insegnare a dire “basta” alla violenza. “Sono iniziati i maltrattamenti verbali. Usavo parole forti. Sei una stronza, sei una poco di buono, sei una bastarda, sei una figlia di puttana, non vali niente… Fin quando poi non riesci più a trattenere la gestione della rabbia e ho iniziato a metterle le mani addosso. E lì arrivi al fondo della bottiglia. Hai toccato il fondo della bottiglia nel senso che non puoi fare più niente. Sei dentro quel meccanismo lì. Per me non è facile parlarne, soprattutto adesso: ultimamente sento al telegiornale delle cose terribili, che mi toccano profondamente… perché io ci sono dentro a questa cosa qua, io so che cosa significa essere violento con una donna”. L’uomo che parla è una persona detenuta nel carcere di Bollate, alle porte di Milano, per reati di maltrattamenti in famiglia e violenza. Lo chiameremo Stefano, è un nome di fantasia. Aveva una compagna, che picchiava ripetutamente, e aveva due figli, che ora non può più né vedere né sentire. Ma quella che vogliamo raccontarvi non è la sua storia, o non soltanto la sua. È il racconto di un percorso, nell’ambito della pena detentiva, che viene svolto dagli uomini autori di violenze contro le donne. Perché sì, non basta tutelare le donne. È sugli uomini che bisogna agire, è a loro che bisogna insegnare a dire basta alla violenza. Se ne occupa il CIPM, cooperativa sociale che dal 2005 lavora presso il carcere di Bollate con un’unità di trattamento intensificato rivolta ad autori di reati sessuali. Dal 2022, è nata una seconda unità rivolta agli autori di reati connessi alla violenza di genere. Assumersi la responsabilità - “Gli autori di questo tipo di reati tendenzialmente sono convinti di essere dalla parte del giusto - spiega Francesca Garbarino, criminologa clinica e vicepresidente del CIPM - e quindi spostano la responsabilità sulla vittima. Non vedono la propria responsabilità né si rendono conto dei danni che provocano alla vittima. È per questo che abbiamo introdotto un trattamento specifico, per offrire uno spazio di riflessione a queste persone: l’obiettivo è che riescano ad assumere una responsabilità non soltanto formale, cioè comminata dalla pena, ma sostanziale, ovvero una presa di coscienza reale di ciò che si è fatto. È una forma di giustizia ancora più profonda”. “Quando sono finito in galera, in seguito alla denuncia della mia compagna, io non avevo assolutamente capito perché mi trovassi dietro le sbarre - ammette Stefano - il fatto è che per me la violenza era diventata quasi un automatismo, una cosa che faceva parte di me. Avevo problemi di alcol, bevevo, picchiavo la mia compagna e non mi importava né di lei né dei figli che vedevano quello che facevo e che piano piano si sono allontanati da me perché facevo loro paura. La galera è stata un trauma. Sono stato costretto a convivere con me stesso e con il male che avevo fatto. Poi ho iniziato a seguire il percorso all’interno dell’unità di trattamento intensificato e piano piano tutto ha iniziato a prendere forma: mi sono reso conto della violenza che ho conosciuto durante l’infanzia e che per me era diventata la normalità, una normalità che ho poi trasferito all’interno della mia famiglia. Ma questa volta ero io a fare del male alle persone che mi volevano bene”. L’importanza di fare rete - Attraverso un’equipe multidisciplinare, l’unità di trattamento intensificato offre ai detenuti una serie di proposte che affrontano gli aspetti psicologici, culturali, educativi legati ai reati commessi. Si tratta di un tassello fondamentale, nell’ambito del lavoro nella lotta contro la violenza sulle donne. Importantissimo è riuscire a fare un lavoro di rete, che coinvolga tutte le strutture e le associazioni impegnate in questa battaglia: dai centri per la tutela delle vittime agli enti che si occupano degli uomini autori di violenza. “Una persona migliore” - All’interno del carcere di Bollate, il lavoro svolto grazie a questi progetti, si inserisce pienamente nell’ambito della finalità rieducativa della pena: “Questo trattamento - continua Francesca Garbarino - favorisce un lavoro di elaborazione rispetto al reato, che metta al centro proprio la vittima. Ciò è fondamentale per questo tipo di reati, che sono relazionali. Perché chi compie questa tipologia di reati tende a non vedere la vittima e a non vedere il dolore che è stato provocato. È importante quindi che la pena sia riempita di contenuto, che il periodo trascorso in carcere non sia solo un momento di congelamento delle proprie azioni ma un’occasione di trasformazione”. Il lavoro svolto all’interno dell’unità di trattamento intensificato è molto duro e faticoso dal punto di vista emotivo. “Guardare in faccia i propri errori e il male che si è fatto è qualcosa che ti distrugge dentro. Ma è importantissimo. Io sono stato fortunato, perché non tutti hanno la possibilità di fare un percorso come questo. Adesso, grazie a questo percorso, ho ben chiaro che persona sono. Ho ben chiaro chi ero e ciò che facevo. Qui in galera sto capendo tante cose. Il carcere mi ha aiutato a essere una persona migliore”. Se potesse parlare ad altri uomini autori di violenze, Stefano non avrebbe dubbio su cosa dire: “Chiedete aiuto. Se la vostra compagna ha paura di voi, se i vostri figli hanno paura di voi, chiedete aiuto. Perché anche se pensate che la colpa non sia vostra, scoprirete che è così. E salverete voi stessi e le persone che vi vogliono bene”. Giustizia per le vittime - “Il lavoro svolto all’interno del carcere di Bollate - conclude Francesca Garbarino - va nella direzione della sicurezza delle vittime: sì, perché l’obiettivo più immediato e concreto è quello di evitare la recidiva, evitare nuove vittime”. Ma c’è anche molto più di questo: “Il lavoro va anche nella direzione della giustizia riparativa: sì, perché comprendere il male che si è fatto è un modo per rendere giustizia alla vittima, ai familiari della vittima, a chi è rimasto”. Padova. Il prefetto Messina: “Femminicidi in calo. Bisogna saperli riconoscere” di Antonio Scolamiero Corriere del Veneto, 23 novembre 2023 Superamento della violenza di genere in collaborazione con il Bo. È questo il filo rosso che lega la prefettura di Padova e l’istituzione accademica, che ieri hanno presentato un’iniziativa pubblica “Un altro domani-indagine sulla violenza nelle relazioni affettive”, sul tema, appunto, della prevenzione della violenza di genere e del femminicidio, in programma martedì 28 novembre 2023, alle 18, presso la Sala dei Giganti di Palazzo Liviano. “Una casualità del tutto non voluta”, ha esordito il prefetto Francesco Messina, illustrando l’iniziativa assieme alla pro rettrice con delega alle pari opportunità, Gaya Spolverato, che ha ricordato l’importanza di fare rete tra istituzioni, “soprattutto per affrontare fenomeni di questa portata e affrontarli da prospettive differenti”. “Mi piace ricordare che l’ateneo sin dalla sua costituzione - ha ricordato la professoressa - è partner del tavolo per prevenire e promuovere un protocollo per il contrasto alla violenza contro le donne. E l’incontro del 28 è un tassello di questo percorso. Facciamo attività quotidiane per i nostri studenti e per il nostro personale, tanto è vero che a dicembre lanceremo un corso dal titolo “equità e inclusione” che verterà proprio sui temi dell’inclusione e della giustizia sociale”. Inevitabile nel corso della presentazione toccare il tema che in questi giorni sta tenendo banco e che ha colpito l’opinione pubblica, ovvero l’uccisione della giovane studentessa del Bo Giulia Cecchettin per mano dell’ex fidanzato Filippo Turetta. “Occorre superare gli stereotipi per arrivare alla parità di genere che ancora non c’è”, esordisce sull’argomento il prefetto, che poi spiega tecnicamente la situazione. “Il tema dei femminicidi è presente da anni e ogni volta che muore una donna subiamo l’impatto emotivo: è una sconfitta di chi fa questo lavoro, perché la nostra finalità, parlo da ex poliziotto, resta sempre quella di salvare vite”. “Il tema è - aggiunge - che i reati di femminicidio stanno scendendo, sono 40 rispetto ai 51 dello scorso anno. E affermo questo perché la definizione che noi troviamo nella convenzione di Istanbul, purtroppo, non fa parte del nostro codice penale e da qui nasce l’equivoco che si trasforma qualsiasi omicidio di una donna sic et sempliciter in femminicidio”. “In queste situazioni - spiega ancora il prefetto - occorre intervenire con tempestività assoluta quando si manifestano i primi segnali, e le norme che il Senato di appresta ad ampliano i comportamenti tipici ai quali il questore può riferirsi per emettere l’ammonimento, uno strumento validissimo che viene emesso in una fase in cui il maltrattante può essere recuperato, ma soprattutto un momento in cui una vita può essere salvata”. Il prefetto ha infine sottolineato di non essere preoccupato dalle manifestazioni che si stanno ripetendo in diverse città, Padova compresa: “È giusto che la società risponda - ha chiosato - ma bisogna tener presente che questa è una guerra che si vince in orizzontale, facendo rete, perché esiste un momento nel ciclo della violenza in cui la vittima sottovaluta la situazione e crede di poterla gestire da sola. È questo il momento in cui si deve intervenire e il confronto del 28 è orientato anche a questo scopo: addetti ai lavori che parlano, informano e si confrontato con tutti. Perché, ripeto, questa è una guerra di tutti”. Sanremo (Im). Torturato e picchiato in cella da due detenuti: è grave in ospedale di Giulia Mietta Corriere della Sera, 23 novembre 2023 Era già stato picchiato selvaggiamente da un compagno di cella un mese fa nel carcere di Marassi, a Genova. Per questo Alberto Scagni, condannato a 24 anni e 6 mesi di carcere per avere ucciso la sorella Alice, era stato trasferito nel penitenziario di Valle Armea, a Sanremo. Qui, questa notte, il 42enne genovese è stato nuovamente pestato a sangue. Di più. “Torturato”, si legge in una nota dei sindacati di polizia penitenziaria Sappe e Uilpa. Secondo quanto riportato due detenuti di nazionalità marocchina lo hanno tenuto in ostaggio. “Torturandolo per ore, fino quasi a ucciderlo”, afferma Vincenzo Tristaino, segretario del Sappe per la Liguria. Mentre un quarto detenuto, italiano, veniva minacciato e chiuso in bagno per non intervenire. Tutto è avvenuto nel reparto dove sono ospitati i detenuti cosiddetti protetti. Scagni è stato ricoverato con ferite da arma da taglio e contusioni su tutto il corpo. I sindacati dicono che “gli artefici del sequestro di persona e delle lesioni gravi, erano alterati dall’abuso di farmaci e alcolici preparati artigianalmente in cella macerando la frutta”. I due marocchini hanno anche distrutto la cella. Anche Fabio Pagani, segretario regionale della Uilpa conferma l’aggressione, parlando di “brutale omicidio sventato”. A evitare un possibile omicidio l’intervento degli agenti, coordinati dal vicecomandante sul posto, che hanno dovuto utilizzare caschi e scudi per farsi strada tra la ressa scoppiata. A ottobre, nel carcere di Marassi, Scagni era stato picchiato dal compagno di Cella. Si trattava di un detenuto di origini romene. L’uomo aveva preso Scagni a pugni procurandogli varie lesioni. Secondo quanto emerso, aveva letto su un articolo di giornale che era in prigione per avere ucciso la sorella e questo era stato il motivo che lo aveva portato ad aggredirlo. I fatti di questa notte sembrerebbero più legati a un raptus dovuto all’abuso di sostanze e alcool, ma non è escluso che i due marocchini sapessero il motivo di detenzione di Alberto Scagni. Bari. Pestaggio di un detenuto. L’agente in tribunale: “Chiedo scusa” Corriere del Mezzogiorno, 23 novembre 2023 “Chiedo umilmente scusa del mio comportamento, dettato dall’esasperazione e dallo stato emotivo dovuto a quanto accaduto. Chiedo scusa a tutti, ai giudici, ai colleghi e al personale sanitario. Sto seguendo un percorso dallo psichiatra e ho chiesto la pensione”. Lo ha detto, rendendo dichiarazioni spontanee in tribunale, l’assistente capo della polizia penitenziaria di Bari, Giacomo Delia, uno degli agenti a processo con l’accusa di tortura nei confronti di un detenuto 41enne che sarebbe stato picchiato dopo aver appiccato fuoco nella sua cella nel carcere di Bari il 27 aprile 2022. “Mi riconosco nel video - ha detto ancora Delia - e chiedo scusa del mio comportamento”. L’imputato ha deciso di non sottoporsi all’esame della procura come alcuni coimputati; altri invece hanno deciso di rispondere alle domande degli inquirenti e degli avvocati. Gli imputati in questo processo sono undici: cinque sono accusati di tortura, agli altri imputati la procura contesta di non aver fermato o denunciato le violenze. Il sovrintendente di polizia penitenziaria Domenico Coppi è stato condannato a tre anni e sei mesi in abbreviato. Nell’udienza di ieri è stato nuovamente mostrato il video del pestaggio nei confronti del detenuto. “Se avessi visto quanto stava succedendo - ha detto l’assistente capo coordinatore Francesco Ventafridda, tra gli agenti accusati di tortura avrei denunciato i miei colleghi. C’era confusione, c’era fumo, avevo gli occhiali appannati e sporchi di fuliggine, ero preoccupato per aver lasciato scoperta la sezione di alta sicurezza. In passato mi è capitato di denunciare colleghi che si erano comportati male”. Ventafridda, per la procura, avrebbe assistito “a tutta la fase dell’aggressione e, pur non partecipandovi, non impediva la condotta attiva dei colleghi”. “Non sapevo come comportarmi, era una situazione assolutamente anormale - ha dichiarato invece l’assistente capo Giovanni Spinelli, a cui pure è contestata la tortura - il detenuto era fradicio e sporco di fuliggine, ci minacciava, urlava contro di noi. E nel carcere c’era una situazione di caos totale”. Reggio Calabria. Presentato il progetto “Libere dentro”, rivolto alla sezione femminile del carcere ilreggino.it, 23 novembre 2023 Promosso dall’ufficio del Garante Metropolitano per i diritti delle persone private e/o limitate della libertà personale e dall’ufficio Metropolitano della Consigliera di parità, in collaborazione con alcune associazioni. Si è svolta nel pomeriggio di ieri presso la sezione femminile dell’Istituto Penitenziario di San Pietro di Reggio Calabria, la presentazione del progetto “Libere Dentro” promosso e curato dall’ufficio del Garante Metropolitano per i diritti delle persone private e/o limitate della libertà personale e dall’ufficio Metropolitano della Consigliera di parità. Alla presentazione hanno preso parte, oltre al Garante Metropolitano Paolo Praticò, la componente dell’ufficio M. Cristina Arfuso e la consigliera metropolitana di parità Paola Carbone, le diverse associazioni e le persone che a vario titolo ed in maniera volontaria provvederanno a portare avanti il progetto anzidetto: Non una di meno, Medici del Mondo, Cuore di Medea Onlus, Fausta Canzoneri, Adexo Aps, NUDM RC. Il progetto “Libere Dentro” vuole offrire uno strumento di miglioramento alle ospiti del Penitenziario attraverso una serie di attività volte a fornire non solo la possibilità di acquisizione di nuove conoscenze culturali e ma anche personali. Difatti, lo stesso è stato pensato in diversi moduli: Laboratorio di scrittura creativa e di teatro in scena, visite senologiche per la prevenzione del tumore al seno, informative sanitarie sulle malattie sessualmente trasmissibili (IST) ed incontri di sensibilizzazione per la prevenzione di violenze fisiche e psicologiche nonché lezioni di inglese (a cura di Fausta Canzoneri). L’obiettivo, quindi, è quello coinvolgere le detenute in un processo di trasformazione positiva sotto il profilo culturale, artistico, pedagogico e sanitario, fornendo l’arricchimento dei percorsi educativi attraverso processi di studio indirizzati all’incremento di nuove abilità comunicative e creative, individuali e di gruppo nonché concorrere alla mitigazione del disagio psicologico e sociale connesse alla detenzione. Il progetto avrà la durata di un anno e prevede che le attività siano svolte tre volte alla settimana. Si ringrazia per la collaborazione la direzione dell’Istituto Penitenziario nonché l’Area Educativa, sempre attenti alle attività formativa e rieducative degli ospiti. Si ringrazia, altresì l’Accademia delle Belle Arti, per la preziosa collaborazione che la vedrà partecipe al Progetto in un secondo momento con la realizzazione di arte scenica e coreografica. “Riteniamo che ogni seme piantato, prima o poi, germoglierà. Per il bene dell’intera comunità”, si legge nella nota. Firenze. Solliccianino, imparare a far la pizza per avere un futuro di Francesco Bertolucci firenzetoday.it, 23 novembre 2023 Il corso per i detenuti finanziato dalla Città Metropolitana ha terminato la parte teorica, festeggiata con una pizzata. Via ora al tirocinio da Pizzaman. Armentano: “Abbiamo dato un domani a questi ragazzi”. La fine del corso teorico è stata festeggiata nel migliore dei modi: con una pizzata. I quattro detenuti del Mario Gozzini, meglio noto come Solliccianino, impegnati nel corso di formazione di 120 ore per diventare pizzaioli hanno potuto festeggiare la fine della prima parte del corso che ora proseguirà con un tirocinio. “Era una pizza buonissima, come di quelle che si trovano in pizzeria - ha detto Nicola Armentano, consigliere della Città Metropolitana che ha finanziato il progetto - Crediamo di aver dato la possibilità di un futuro a questi ragazzi”. Un corso nato per caso - L’idea del corso era venuto a Maria Paola Monaco, delegata della rettrice dell’Università di Firenze all’inclusione e diversità. “Ero stata invitata dal direttore a fare una visita al carcere - ricorda Monaco - e dopo aver visto questo bellissimo forno con copertura inutilizzato, è venuta l’idea di fare un corso coi detenuti. Quindi abbiamo chiamato le istituzioni della città metropolitana per capire se c’era modo di finanziare questo progetto”. La Città Metropolitana ha subito colto la palla al balzo. “È un’opportunità per loro - prosegue Armentano - ed è un modo per sottolineare che non deve essere lasciato senza speranza chi è dentro al carcere, che oltre a essere un luogo di reclusione lo è anche di reinserimento. Sono competenze che potranno usare una volta che torneranno ad essere persone libere”. Ora il tirocinio - Il corso è diretto dal docente Mattia Rossini - che ha parlato anche di comunicazione e marketing - e Pierluigi Madeo, titolare del gruppo Pizzaman. Dopo la prima parte teorica, ora farà seguito una parte pratica con tanto di tirocinio. “Abbiamo fatto questa giornata a conclusione della parte teorica - spiega Madeo di Pizzaman - dove i detenuti hanno lavorato nel forno a legna presente nel carcere. Ora hanno iniziato a mandare le richieste ai magistrati per avere il permesso di fare lo stage nei nostri ristoranti. Poi i migliori saranno selezionati e assunti. Quando abbiamo presentato il progetto, era pensato per 3-4 detenuti. Si sono presentati in 25. Non so se ci saranno fondi per rifarlo anche già a gennaio ma nel caso ho dato la mia disponibilità”. Un corso da replicare - “I detenuti ci hanno chiesto un rifinanziamento del corso” ammette Monaco dell’Università di Firenze, a margine della giornata. “Se ci sarà la disponibilità economica per ripeterlo, lo faremo ben volentieri - sostiene Enzo Tedeschi, direttore della struttura - il corso sta andando molto bene e finirà ai primi di dicembre. I detenuti coinvolti stanno lavorando sia sul vecchio forno che avevamo che su uno portato appositamente dall’esterno. Fare iniziative del genere all’interno di un carcere, è fondamentale per il futuro di chi oggi è detenuto. A breve infatti inizieremo il corso per pasticceri, poi quello di smaltimento rifiuti, pelletteria, elettricisti. Speriamo di poter ripetere anche questo”. Vicenza. Dal carcere i dolci che profumano di libertà di Rubina Tognazzi Giornale di Vicenza, 23 novembre 2023 Aperto un punto vendita voluto dalla cooperativa Mventicinque. Padrino l’attore Andrea Pennacchi. Da qualche giorno si possono trovare anche a Schio i prodotti da forno realizzati nel carcere di Vicenza. A tenere a battesimo il negozio Libere golosità, aperto al civico 37 di via Martiri della Libertà, l’attore Andrea Pennacchi, legato a doppio filo al progetto, perché ha tenuto per diversi anni i corsi del Campus company, ma anche perché ha tenuto laboratori di teatro in carcere a Padova. “Ed è stata un’esperienza meravigliosa e terribile: vedere da vicino come cambiassero i ragazzi che partecipavano e che davano un senso al proprio tempo e quindi alla propria vita aveva un profumo dolcissimo”. Come i dolci che ora gli scledensi potranno acquistare grazie al progetto voluto dalla cooperativa Mventicinque, che ha lo scopo di dare formazione e lavoro ai detenuti, offrendo loro una seconda possibilità, pensando a quando avranno scontato la loro pena. Nel corso del 2023 Mventicinque ha coinvolto in attività lavorative 54 detenuti. Il negozio diventa così un ponte tra il carcere e il territorio, per condividere le esperienze positive e di rieducazione. “Favorire l’occupazione in un luogo come il carcere - ha ricordato il vice sindaco Cristina Marigo - è importante perché permette di guardare al futuro con una prospettiva di libertà”. Poi la benedizione agli ambienti affidata a don Mariano Ronconi. Bergamo. Quando il teatro porta i detenuti fuori dal carcere di Chiara Roncelli L’Eco di Bergamo, 23 novembre 2023 L’iniziativa di “Piroscafo”: sabato prossimo 25 novembre per la prima volta l’incontro con la città. Uno spettacolo all’Auditorium di Piazza della Libertà. Il teatro porta i detenuti della Casa circondariale “Fausto Resmini” di Bergamo fuori dalle mura del carcere. Da quindici anni, infatti, i detenuti della Casa circondariale partecipano ad un laboratorio teatrale con l’associazione Teatro Piroscafo: il teatro è un luogo privilegiato per giocare sulla comunicazione e sulle relazioni, è un’occasione preziosa per potersi raccontare ed aver qualcuno con la voglia di ascoltare; diventa, a tutti gli effetti, un’occasione di riflessione e un pretesto per favorire l’incontro e il confronto tra il mondo “dentro”, quello dei detenuti, e il mondo “fuori”, quello della città. Fino ad ora gli spettacoli, frutto del laboratorio, sono andati in scena solo all’interno della Casa circondariale e sono stati rivolti agli studenti delle scuole superiori di Bergamo e della provincia. Prima volta - Questo sabato, per la prima volta in occasione di Bergamo Brescia Capitale italiana della Cultura 2023, lo spettacolo “Lo spaventapasseri” uscirà fuori dalle mura del carcere e andrà in scena all’Auditorium di Piazza della Libertà di Bergamo a partire dalle 10,30. Lo spettacolo racconta di “un non luogo”, un mondo a parte, di un rapporto con la presenza e con l’assenza, che fa i conti con il lento passare del tempo e con l’attesa. Tutte tematiche che evocano la realtà della detenzione carceraria. Il copione alterna pezzi autobiografici, scritti dagli stessi detenuti che hanno partecipato al laboratorio, con parti del capolavoro di Samuel Beckett “Aspettando Godot” e testi di canzoni dei Sulutumana, di Lorenzo Monguzzi ma anche di Giorgio Gaber. In scena ci saranno 11 attori, detenuti della Casa circondariale di Bergamo, diretti da Walter Tiraboschi e Gianluca Belotti. “L’attenzione, nella costruzione di spettacoli come questo, è nella funzione del teatro come “motore di pensiero”, come strumento per favorire la conoscenza, l’incontro e la riflessione - spiega il regista Tiraboschi -. Fin dai primi incontri laboratoriali, questi obiettivi sono condivisi con gli attori e si chiede loro di farsene carico. Il risultato lo potrete vedere in scena il 25 novembre, giornata che carica ancor più di significato i temi e le situazioni raccontati nello spettacolo”. Uno spazio di dibattito - Al termine dello spettacolo è previsto uno spazio di dibattito e dialogo con il pubblico. Un passaggio che è stato possibile anche grazie alla presenza del volontariato all’interno della Casa circondariale, che da anni permette di agevolare i processi di relazione tra dentro e fuori il carcere. Dal 2021 ogni settimana, infatti, 42 volontari e volontarie entrano con regolarità all’interno della Casa circondariale per accompagnare i detenuti e le detenute in attività come il forno, i colloqui per i nuovi giunti, la biblioteca, la sartoria, l’affiancamento alle funzioni religiose e l’animazione liturgica, il laboratorio di ceramica, i percorsi di giustizia riparativa, la lavanderia, la consegna dei pacchi e degli indumenti, il supporto ai cappellani, le attività di patronato, il laboratorio di scrittura, l’affiancamento ai percorsi scolastici. Altri 12 volontari fanno riferimento all’Ufficio locale di esecuzione penale esterna per l’accompagnamento ai percorsi di reinserimento sociale degli autori di reato. Volontari e associazioni - Oltre a questi volontari, formati e supportati da Csv Bergamo, quotidianamente entrano in Casa circondariale i volontari di alcune associazioni che hanno nella propria mission la vicinanza alla situazione carceraria. I posti per partecipare allo spettacolo sono ormai tutti esauriti, segno di come la città mostri un’attenzione particolare verso gli abitanti di quel quartiere che è il carcere. L’iniziativa è promossa e organizzata da Casa circondariale di Bergamo, Csv Bergamo ets, Teatro Piroscafo, Associazione Carcere e Territorio in collaborazione con il Comune di Bergamo. Per maggiori informazioni scrivere a cultura.bergamo@csvlombardia.it. Napoli. Lo sport riduce il rischio recidiva per i giovani detenuti askanews.com, 23 novembre 2023 È positivo il primo bilancio del progetto ‘Play for the future’, nato dalla collaborazione tra Fondazione Milan, Fondazione Cdp e ministero della Giustizia, che terminerà a giugno 2024. Un programma mirato al reinserimento sociale dei giovani detenuti attraverso percorsi di educazione sportiva e di orientamento professionale. A distanza di nove mesi dall’inizio delle attività, a Napoli c’è stata la condivisione dei risultati registrati fino a questo momento. I 57 ragazzi coinvolti, in gran parte minorenni, svolgono ora regolarmente attività sportiva, conducono colloqui di lavoro e seguono un percorso di orientamento formativo. Sono migliorate anche le condizioni psicologiche, con un aumento dell’autostima e della fiducia in sé stessi e una maggiore capacità di mantenere gli impegni presi. Risultati che rivestono un ruolo fondamentale nella riduzione del rischio di recidiva. “Lo sport è una delle attività che insegna il rispetto verso l’avversario, è una fonte di autocontrollo, è un’espressione, quindi, anche di educazione civica quando viene professato rispettando le regole - ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio - sono convinto che lo sport sia fondamentale per il futuro, per educare soprattutto le giovani generazioni al rispetto verso i propri simili. Iniziative come queste, che coniugano lo sport con l’elemento doloroso dell’espiazione e dell’esecuzione di una pena, sono elementi e momenti di grande importanza”. Per Franco Baresi, vice presidente onorario AC Milan: “È una cosa molto bella verso i ragazzi che, magari, hanno sbagliato nella loro vita ma che devono avere un’altra opportunità. Lo sport è un veicolo molto importante perché trasmette valori che ti possono aiutare a combattere le avversità, le difficoltà che, magari, ha incontrato. È un progetto che, per i ragazzi, può trasmettere strumenti importanti per la vita, per il futuro, quindi, dare a loro la speranza di avere un futuro migliore”. Per Giovanni Gorno Tempini, presidente Fondazione Cdp “il tema dell’inclusione sociale minorile è una delle priorità strategiche della Fondazione. Sostenere il percorso di messa alla prova dei ragazzi inseriti nei percorsi penali, attraverso attività che puntano alla riscoperta dei loro valori e delle loro consapevolezze, significa garantirgli migliori prospettive e pari opportunità nella società”. Quando un fallimento smaschera la devianza di Alberto Cisterna L’Unità, 23 novembre 2023 È la frontiera più delicata da presidiare, perché è un confine impercettibile, sottile, silente, su cui vivono tante donne in bilico tra la vita e la morte. La morte di Giulia Cecchettin dovrebbe segnare, in una società che fosse meno esposta della nostra a mere sollecitazioni, il momento per una riflessione profonda sulla repressione penale e sulla sua capacità di deterrenza. Non si tratta di contrastare la violenza di strada, i rave party, le scorrerie in armi nei luoghi dell’abbandono e del disagio, le borseggiatrici sui bus, le truffe agli anziani. È in discussione la capacità dello Stato di fermare Caino prima che uccida Abele, la forza della legge di impedire che il sangue innocente sia versato. Al momento è chiaro, dinanzi all’ennesima vittima, che né la punizione né il carcere impediscano la violenza; le conseguenze dei gesti violenti non rientrano in alcun modo nel calcolo omicida del carnefice che pur di cancellare la persona un tempo amata sopporta qualunque risposta, è incurante di qualunque processo. L’assassinio delle donne è, sotto questo profilo, un gesto eversivo, terroristico che nega in radice la società e prescinde dall’esistenza stessa di un ordinamento giuridico, delle leggi, dei tribunali. È la violenza pura, anarcoide che esplode senza avvertire il peso del giudizio morale e della condanna civile dei consociati. È l’autocrazia feroce di chi giudica l’altra colpevole di una qualunque mancanza, anche la più insignificante, e da solo esegue la condanna in un circuito asfittico, privo di mediazioni, incapace di comunicazione. Da questo punto di vista chi uccide una donna a sé vicina si colloca interamente al di fuori del consesso umano perché compie un gesto non solo sproporzionato o ingiustificato, ma del tutto incomprensibile. Certo i mafiosi uccidono per potere o per denaro, in una rissa qualcuno perde la vita, in una rapina si uccide per fuggire, ma alla fine una linea di razionalità, di prevedibilità, di corrispondenza si intravede sempre nella filigrana dei gesti anche nei più violenti ed esasperati. Ogniqualvolta si toglie la vita a una donna la mente non riesce a cogliere neppure i segni più sfocati di un ragionamento, le ombre più tenui di una motivazione. Si aggirano solo fantasmi di spiegazioni, spettri di giustificazioni farfugliate, smozzicate nei verbali di interrogatorio o nelle aule dei processi. Una ferocia muta, ineluttabile, claustrofobica. Se lo Stato non riesce a imprimere forza deterrente alle proprie pene, se finanche l’ergastolo non argina e dissuade, se la cella non spaventa, allora si deve interamente ripensare il modo con cui la violenza sulle donne e il femminicidio sono stati sino a oggi contrastati dal legislatore. Lo scopo della sanzione non è quello di rassicurare i cittadini che i malvagi saranno puniti, che la giustizia sarà inesorabile; non è una vendetta collettiva la pena, una ritorsione pubblica perché mai più accada. Probabilmente chi ha ucciso Giulia Cecchettin non avrebbe torto un capello a un’altra ragazza, né avrebbe ucciso ancora se le manette non gli fossero state serrate ai polsi. Risponderà del proprio delitto come merita e, forse, con la detenzione a vita in un carcere, in condizioni drammatiche per lunghi anni. Ma quella legge implacabile, come non è servita a salvare Giulia, così non servirà neppure al suo carnefice che - nella cecità morale e sociale del proprio gesto - non avrà neppure modo di ravvedersi, di riflettere sull’enormità di ciò che ha fatto. Il corpo delle donne è l’ultimo diaframma tra la barbarie nichilista e la civiltà della tolleranza, oltraggiarlo equivale a collocarsi in un territorio senza alcuna regola, buio, pieno di anfratti mefitici che nessuna legge è in grado di penetrare e illuminare. Non ci si può rassegnare all’ineluttabilità del male, soprattutto di questo male, ma non è neppure giusto rincorrere le paure agitando solo la forca della repressione. Una società solidale, premurosa, vigile non si limita a scrutare minacciosa le debolezze dei propri cittadini, ma tenta di coglierne il disagio, l’estraneità, l’avulsione e cerca di porvi rimedio per tempo, con mitezza, con pazienza. Prima di impugnare pistole, bastoni, coltelli, acidi quegli uomini hanno innanzitutto progressivamente tagliato ogni relazione con il mondo per concentrare tutta la propria esistenza su una donna, su un corpo da possedere e da distruggere quando l’inevitabile fallimento delle relazioni smaschera devianze, turbe, paranoie. È la frontiera più delicata da presidiare, perché è un confine sottile, impercettibile, silente, su cui vivono tante donne in bilico, spesso senza accorgersene, tra la vita e la morte. La scuola e quei progetti per trasformazioni profonde di Vittorio Lingiardi La Stampa, 23 novembre 2023 In questo momento è importante sentirsi soggetti di un fronte comune, dove ciascuno può fare la sua parte, nel tentativo di incidere sull’educazione scolastica. Purtroppo senza ricette sicure e senza troppe illusioni. Il progetto presentato ieri dal ministro Valditara, pensato dopo le orribili vicende estive di Palermo e Caivano, ha un bel nome: Educare alle relazioni. L’accento sulle relazioni mi sembra opportuno. In un mondo sempre più virtualizzato e banalizzato, è nostro compito educare al rispetto dei corpi e delle relazioni e diseducare alla trasmissione acritica degli stereotipi di genere. Giusta anche l’idea di procedere con gruppi di discussione. Spesso dico di non credere a interventi puramente “didattici” tipo l’”ora di educazione civica”. Coi ragazzi e le ragazze è infatti importante un’esperienza più immersiva, capace di esprimere soggettività e specificità, di ascoltare testimonianze dirette ed esempi, di lavorare su case studies. Il progetto del ministro è una sperimentazione: molto dipenderà dalla qualità e dalla competenza degli “educatori” coinvolti. Se sono incapaci è un bel problema. Già saper fornire informazioni non è semplice (buona l’idea di “docenti referenti” e “docenti moderatori”, anche se per i docenti è un grande carico e una notevole responsabilità), ma quando occorre mettersi in gioco su e con temi emotivamente forti, ci vuole una formazione professionale, che significa, tra le altre cose, specificità, aggiornamento, astensione dal giudizio. Bene sentire che “all’Ordine degli Psicologi chiederemo aiuto per la formazione dei docenti, per la loro assistenza e per il monitoraggio conclusivo”. David Lazzari, presidente dell’Ordine, me lo conferma. Sono contento sia stato interpellato e ascoltato: pensare di realizzare un progetto come questo senza coinvolgere figure di psicologhe e psicologi sarebbe stato un errore, di metodo e contenuto. Dicevo che è un esperimento: 30 ore all’anno alle medie e nel triennio delle superiori. Quando leggo “extra curricolare” e, soprattutto, “adesioni facoltative” ho paura che tutto rischi di finire nel vago. Speriamo non sia così. Il monitoraggio e lo studio dei feedback sarà fondamentale per sviluppi futuri. Proprio ieri, a lezione, le mie studentesse e i miei studenti, future psicologhe e futuri psicologi, si domandavano e mi domandavano (l’esperto!) dove inizia il tema della cultura sociale (detto in breve, troppo in breve, il patriarcato) e dove quello della patologia personale, del disturbo di personalità (mancanza narcisistica di empatia, gelosia e controllo paranoidi, violenza psicopatica, disprezzo sadico). E lì a spiegare che personalità e cultura crescono insieme. Ma anche che, a complicare il discorso, ci sono il ruolo intrinseco della biologia e, in alcuni casi, quello estrinseco dell’assunzione di sostanze. Insomma, niente è semplice o monodimensionale. Educare alle relazioni non può che essere un progetto a lunghissimo termine in vista di trasformazioni culturali profonde. Partire dal coinvolgimento scolastico delle e dei più giovani, appassionandoli a un racconto alternativo a quello millenario dell’inferiorità femminile, può e deve essere un primo passo. Magari con storie capaci di disattivare fallacie cognitive tipo “se l’è andata a cercare” oppure “il raptus di un bravo ragazzo”. Sarà importante parlare della violenza degli aggressori, ma anche fornire alle ragazze strumenti “diagnostici” per riconoscere certi segnali e sfilarsi da incontri pericolosi e relazioni tossiche. E per conoscere meglio se stesse. In molti casi l’ideale sarebbe un rapporto individuale e/o di gruppo con figure professionali competenti nell’ascolto, nell’esplorazione e nel sostegno. Mentre lavoriamo perché questo ideale sia realizzabile, promuovere azioni di terapia sociale e scolastica, se con gli strumenti giusti e le capacità adeguate, è un passo da guardare con favore. “La legge sull’affettività a scuola c’era, ma in Commissione venne inabissata” di Alessandra Pigliaru Il Manifesto, 23 novembre 2023 “Se non c’è un testo scritto che ci spiega che cos’è l’educazione all’affettività, in questo momento niente può essere chiaro e stiamo ragionando solo per titoli, per temi ma questo vale anche per molto altro, per esempio la violenza contro le donne o la pace nel mondo”. Celeste Costantino, attivista e femminista, da molti anni si occupa di diritti, antimafia e questioni relative al genere e all’antiviolenza. Sulla recente proposta del ministro Valditara tuttavia, il suo percorso politico le consente di dire qualcosa nel merito perché, ormai dieci anni fa, quando era deputata nelle file di Sel, aveva firmato, insieme ad altre, una proposta di legge proprio sulla educazione sentimentale nelle scuole. Come definirebbe l’educazione all’affettività? Intanto non è una materia unica. Dobbiamo immaginare una multidisciplinarità che entra dentro il racconto dell’educazione all’affettività. E poi c’è anche la partita legata al sostegno psicologico che in tante e in tanti ragazzi nelle scuole stanno richiedendo e che dopo la pandemia non fa altro che essere più pressante. La ratifica della Convenzione di Istanbul da parte dell’Italia dava occasione già nel 2013 di predisporre misure e iniziative di prevenzione e contrasto della violenza maschile contro le donne. Si trattava allora di una proposta costruita dal basso perché, nel momento in cui ho pensato di chiedere l’introduzione dell’educazione sentimentale nelle scuole, avevo fatto un viaggio nei centri antiviolenza italiani con lo spirito di farmi dire dalle operatrici quale potesse essere uno strumento utile di prevenzione primaria. Dieci anni fa delle azioni ancora pionieristiche però c’era già Scosse, appena costituita, e quindi provavo a capire anche insieme a loro. Nel 2016, dopo 3 anni, la proposta di legge comincia l’iter parlamentare. E poi? Arrivata in Commissione cultura fu inabissata. Di emendamenti e di proposte alternative. Ricordo che Buttiglione venne appositamente pur non facendo parte della Commissione a discutere la loro proposta di legge perché c’era il fantasma della teoria gender. Quindi tutto il lavoro che veniva indirizzato dalla Convenzione di Istanbul venne invece raccontato come un tentativo di voler indottrinare i ragazzi a questa fantomatica teoria gender. Nel frattempo intorno a questi temi cosa è accaduto? Per esempio si è votato per le unioni civili e il percorso soprattutto del movimento Lgbqt+ è stato dirompente. Questo per dire che se allora l’educazione sentimentale veniva percepita solamente da una fetta di popolazione oggi si è allargato molto di più lo spettro del consenso nei confronti di questa opportunità. Il punto non è dire se sia necessaria o no perché il bisogno mi sembra venga da più parti ormai. E allora la questione che approda nell’agenda oggi? Credo sia il “come” si decide di fare educazione all’affettività. Il modello che proponevo io andrebbe ripensato, non nelle linee principali ma dieci anni fa si parlava di cyberbullismo e ancora non erano diventate così tante e numerose le forme di violenza all’interno del web quindi si dovrebbe parlare con attenzione dei dispositivi digitali e di tutta la partita online. Cosa manca dunque in quanto si sta discutendo a proposito del tema? Ci vogliono risorse da investire, perché è un lavoro e come tale deve essere retribuito. Sentendo poi le parole di Valditara si parla di educazione al rispetto e mi vengono tanti dubbi anche su chi loro pensano di coinvolgere. La figura di chi è “esperto” potrebbe suscitare delle obiezioni. Insieme alla legittima domanda di chi decide e chi forma... Tanti passi in avanti sono stati fatti nella pedagogia di genere, nelle università, abbiamo delle professionalità che si possono mettere a disposizione. Non ho mai pensato a come si dovrebbero nominare. So che però ormai questa professionalità esiste, c’è stato un lavoro intenso da parte delle organizzazioni che in questi anni se ne sono preoccupate. Come Vicepresidente della fondazione “Una Nessuna Centomila”, è ancora impegnata su questo fronte... Non prendiamo soldi pubblici ma solo donazioni da privati. Stiamo sostenendo e finanziando progetti di educazione all’affettività all’interno delle scuole e con quei dirigenti scolastici che decidono di aprirci le porte. Non vogliamo però ripristinare un modello di scuola di serie A e di scuola di serie B in cui chi ha le risorse e la sensibilità lo fa e chi invece non ha nessuno di questi due aspetti non si pone neanche il problema. Medio Oriente. Israele-Hamas, la difficile trattativa di Lucio Caracciolo La Repubblica, 23 novembre 2023 L’annunciato scambio tra ostaggi israeliani catturati da Hamas e detenuti palestinesi nelle carceri israeliane è ancora in bilico ma può essere il primo raggio di luce dopo un mese e mezzo di guerra a Gaza. Accompagnato da una tregua di quattro giorni, potenzialmente prolungabile. Ma quanto avvenuto nella notte appena trascorsa conferma che le intese in piena guerra fra nemici mortali sono esposte a mille incidenti, malintesi o pretesti per sabotarle. Di sicuro Hamas resta “padrone degli orologi”. Con alle spalle la lunga ombra dell’Iran, che detta i tempi delle operazioni sul fronte Nord (Hezbollah) come su quello Sud, mentre la battaglia di Cisgiordania - centrale sotto ogni profilo - s’inasprisce. Riportare tutti gli ostaggi a casa è obiettivo improbabile. Hamas ha mostrato di poterli centellinare per guadagnare tempo e costringere lo Stato ebraico a negoziati di tragico stile levantino, con qualche intermediario di troppo. Inoltre, non sappiamo quanti e chi siano i prigionieri della Jihad Islamica, che prende ordini solo da Teheran e talvolta li evade. Se guardiamo oltre la cronaca, restano incerte tutte le partite strategiche riaperte dal 7 ottobre. Quando le armi taceranno ci sarà comunque un Israele e un Hamas, perché nessuno dei due può azzerare l’altro. Ma i rapporti di forza saranno molto diversi. Sul piano militare, l’organizzazione islamista uscirà seriamente indebolita, almeno nel breve termine. Sul piano della propaganda Hamas ha già vinto perché Israele va alla sostanza, il soft power interessa poco. Si è mai visto un qualsiasi soggetto politico che poche settimane dopo aver provocato un’orrenda strage di civili guadagna consensi ovunque perché viene percepito da buona parte dell’opinione pubblica non solo islamica o araba come vittima anziché carnefice? Hamas rischia di impossessarsi in esclusiva della causa palestinese e di garantirsi un vasto bacino di reclutamento fra giovani aspiranti al martirio, in base al noto principio, inutilmente ricordato dagli americani a Netanyahu, che ogni terrorista morto ne genera una ventina. Israele non ragiona per generazioni ma per minuti secondi, considerandosi in permanente pericolo di vita. Ma Gerusalemme può trarre vantaggio geopolitico dall’equazione Palestina=Hamas. E’ quanto immaginano i sostenitori dell’attuale governo di destra estrema, e non solo. Lo stesso Netanyahu afferma che una volta debellato Hamas non riconsegnerà Gaza ad altra struttura palestinese né intende accettarvi un protettorato internazionale. E il progetto di annettere Giudea e Samaria (Cisgiordania), confermato dal leader israeliano, è semmai accelerato. Né si esclude la penetrazione nel Libano di Hezbollah. Tutto questo a condizione di espellere gran parte della popolazione palestinese dai territori occupati dopo la guerra dei Sei giorni e da allora contestati. Egitto e Giordania tremano all’idea di vedersi sommersi da milioni di palestinesi in fuga. Per Netanyahu si tratterebbe di sanzionare l’esistente: di fatto Israele controlla già direttamente o indirettamente - l’Autorità di Abu Mazen è pura maschera - lo spazio tra Mediterraneo e Valle del Giordano. Operazione ad altissimo rischio, che susciterebbe enormi reazioni nel mondo. Ma che cos’altro significa la “vittoria decisiva” di cui parlano da qualche anno i vertici di Tsahal e le destre prevalenti nella Knesset? E che agli albori di Israele il movimento dei kibbutz traduceva nella formula dello “Stato socialista del popolo ebraico e degli arabi che vivono sulla Terra d’Israele”, distinguendo fra diritti nazionali e individuali? Lo scenario opposto è l’impantanamento di Israele nella guerra al terrorismo. Ne conseguirebbe una crisi domestica senza precedenti. Al fronte patriottico delle prime settimane subentrerebbe il caos, con le tribù israeliane impegnate in mischia autodistruttiva. La liberazione degli ostaggi è festa provvisoria. Va goduta. Ma la festa della pace è molto lontana. A celebrarla sarà uno solo dei duellanti. Medio Oriente. Ostaggi e tregua: scatta l’accordo (appeso a un filo) di Lorenzo Vita Il Riformista, 23 novembre 2023 Il Paese attende il rientro dei primi 50 ostaggi rapiti il 7 ottobre. Per Hamas e Israele quattro giorni di tregua, a cui si unisce anche Hezbollah. Ottimismo e cautela da parte Usa. Per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, l’accordo concluso con Hamas per il rilascio del primo gruppo di ostaggi è stato un passaggio difficile. Parlando ai suoi ministri, Bibi ha espresso tutta la complessità della scelta con una frase trapelata dopo l’incontro con il gabinetto di guerra: “Una decisione difficile ma una decisione giusta”. Un concetto espresso anche dal presidente Isaac Herzog che sul social X ha parlato dell’accordo definendolo “doloroso e difficile”, ma con l’auspicio che questo possa essere “un primo passo significativo per riportare a casa tutti i rapiti”. La difficoltà nel dare l’ok all’accordo è stata compresa anche nelle drammatiche ore precedenti all’approvazione, quando si è consumato lo strappo tra Netanyahu, gli apparati di difesa e intelligence, e l’ultradestra israeliana. L’ala più radicale del governo ha manifestato la sua contrarietà all’accordo votando contro. Ma il pressing interno ed esterno su Netanyahu ha prevalso, oltre che il desiderio del Paese e dei familiari di riabbracciare le persone sequestrate il 7 ottobre. L’attesa è tanta, così come molti sono i timori. Lo hanno confermato ieri sera anche le parole del portavoce dell’esercito Daniel Hagari, che parlava di questioni ancora da definire. Sei ospedali israeliani sono pronti a ricevere gli ostaggi. E anche i soldati coinvolti nelle procedure sono stati istruiti su come comportarsi con le persone liberate, specialmente con i bambini. Ieri, proprio per evitare che qualcosa andasse storto, il direttore del Mossad, David Barnea, è tornato a Doha: crocevia delle trattative e sede dei massimi dirigenti di Hamas. Scopo del blitz è stato quello di limare gli ultimi dettagli. Il patto prevede da parte di Hamas la liberazione di 50 ostaggi israeliani (in larga parte donne e bambini). In cambio, l’organizzazione islamista e il governo di Israele hanno concordato una tregua di quattro giorni, il rilascio di 150 detenuti palestinesi (donne e minorenni), lo stop dei voli dei droni sulla parte settentrionale della Striscia per sei ore per ogni giorno di tregua e l’arrivo di aiuti umanitari. Un’altra postilla - che sembra soprattutto un modo per lasciare aperta la porta a nuovi scambi di questo tipo - è poi l’eventuale liberazione di altri dieci ostaggi per ogni ulteriore giorno di tregua oltre ai quattro prefissati. A questo proposito, è doverosa la massima cautela. La tregua, che dovrebbe scattare alle 10 di questa mattina, si regge, infatti, su un filo sottilissimo. Ed è chiaro che, se per lo Stato ebraico la guerra non sarà terminata fino alla completa distruzione di Hamas nella Striscia di Gaza e la completa liberazione degli ostaggi, altrettanto pensa l’organizzazione che controlla l’exclave palestinese e le altre fazioni al suo interno, a partire dal Jihad islamico palestinese. Il premier Netanyahu lo ha ribadito più volte. E a testimonianza dell’impegno delle Israel defense forces anche nelle fasi di avvicinamento alla prima tregua, ieri è stato comunicato l’ingresso delle truppe dello Stato ebraico nel quartier generale della “Brigata Gaza Nord” di Hamas. La roccaforte dell’organizzazione, non lontana dal campo profughi di Jabaliya, è stata conquistata dalla Brigata di fanteria israeliana “Givati”, che ha scoperto all’interno del compound anche diversi accessi alla famigerata rete dei tunnel. Inoltre, sempre le Idf hanno mostrato ieri il video della distruzione del quartier generale dell’intelligence di Hamas a Gaza. Su tutto questo, resta poi alto il rischio delle violazioni di questa tregua, posto che l’ormai indebolita struttura di Hamas, specialmente nel nord della Striscia, potrebbe rendere possibile l’attivazione di frange sempre più indipendenti o di gruppi estranei o addirittura rivali. Un alto funzionario israeliano ha raccontato al Times of Israel che i soldati risponderanno alle violazioni senza che le reazioni possano essere interpretate come la fine della tregua. Perché l’imperativo resta quello di arrivare alla liberazione di tutti gli ostaggi. Sono fragilità insite in accordi di questo tipo e gli indizi di un conflitto che a oggi non è affatto terminato. Tuttavia, il patto sugli ostaggi rappresenta un possibile fondamentale giro di boa. E non a caso l’ottimismo, anche qui con tutti i paletti imposti dalla realtà sul campo, trapela anche negli Stati Uniti, dove il presidente Joe Biden può inserire questa intesa come una sua vittoria diplomatica nel conflitto mediorientale. Il capo della Casa Bianca si è detto “straordinariamente grato” del ritorno a casa dei primi ostaggi. E ringraziando per il lavoro svolto dalla sua amministrazione, dall’Egitto, dal Qatar e dal governo di Israele, ha quasi voluto mettere il timbro di Washington non solo sul negoziato, ma anche sulla regione. Per Biden si tratta di un elemento significativo, tanto più dopo l’incontro dei Brics sulla questione di Gaza. E dal momento che l’altra priorità di Washington è evitare l’allargamento del conflitto, non va sottovalutata nemmeno l’adesione di Hezbollah alla tregua di quattro giorni sancita tra Hamas e Israele. Il movimento sciita non era coinvolto nelle trattative sugli ostaggi. Tuttavia, anche a causa della guerra latente che si combatte nel sud del Paese dei cedri tra fazioni islamiste e forze israeliane, il segnale assume un connotato rilevante. Washington ha più volte chiesto sia a Israele che a Hezbollah (e quindi indirettamente all’Iran) di evitare a ogni costo l’allargamento del conflitto. Il fatto che Nasrallah abbia mostrato una certa predisposizione al raggiungimento di un’intesa è un indicatore importante, soprattutto perché non si placano le tensioni nella regione con altre forze legate a Teheran. Ieri un caccia israeliano ha abbattuto un missile sul Mar Rosso diretto contro Eliat, e che si ritiene sia stato lanciato dagli Houthi dello Yemen. Mentre il Pentagono ha confermato di avere effettuato un raid in Iraq dopo un nuovo attacco delle milizie sciite contro la base internazionale di Al Asad. Israele. L’unico Paese che manda i ragazzini davanti ai tribunali militari di Stefano Mauro Il Manifesto, 23 novembre 2023 Nella lista dei detenuti da liberare donne e minori. Ma non mancano militanti di Hamas. La condizione nelle carceri di Israele resta critica: torture e 6 morti dal 7 ottobre. Dal 7 ottobre Hamas ha fatto del rilascio dei prigionieri palestinesi uno dei suoi principali obiettivi, indicando che la cattura degli ostaggi aveva lo scopo di “ottenere il rilascio di tutti i detenuti palestinesi”. Prima dell’operazione “Tempesta di al-Aqsa”, il loro numero nelle carceri israeliane era di circa 5.300. Ma sono diventati “10mila in un mese, con oltre 2mila in detenzione amministrativa, senza nessuna accusa precisa”, secondo quanto riporta Human Rights Watch. L’elenco dei prigionieri inclusi nell’accordo di mercoledì è stato rivelato ieri dal ministero della Giustizia israeliano. Secondo il quotidiano Haaretz la lista include 300 nomi - prevalentemente donne e minori -, un numero dunque doppio rispetto a quanto concordato, “nel caso Hamas localizzi altri ostaggi israeliani che possano essere rilasciati in cambio di altri prigionieri”. Tel Aviv ha rifiutato di rilasciare i prigionieri condannati per omicidio, mentre sempre secondo Haaretz ha detto sì alla liberazione di “detenuti e attivisti appartenenti ad Hamas, al Jihad islamico o al Fronte popolare per la liberazione della Palestina”. Ieri Addameer - un’organizzazione non governativa palestinese che monitora le condizioni di detenzione dei prigionieri - e la Commissione Indipendente per i Diritti Umani hanno fatto un aggiornamento relativo alla condizione dei detenuti nelle prigioni israeliane. “Il servizio carcerario israeliano (Ips) - indica l’ultimo report dell’Ong - continua a reprimere i prigionieri in modo brutale con numerose forme di tortura fisica e psicologica tra cui la disidratazione, la fame, la confisca dei beni di prima necessità e la mancanza di cura per i malati”. Dal 7 ottobre, “sei prigionieri palestinesi sono morti in prigione”, ha dichiarato Qaddoura Fares, ministro dell’Autorità palestinese responsabile per i detenuti palestinesi, che accusa Israele “di negare l’accesso alle cure”, sostenendo che Tha’er Abu Asab, l’ultimo prigioniero deceduto, sia morto di cancro per “mancanza di cure adeguate”. Addameer ha indicato che attualmente sarebbero in detenzione oltre “200 minorenni e 75 donne”. Tra loro spicca anche l’incarcerazione di Ahed Tamimi, attivista per la causa palestinese, accusata “di aver pubblicato su Instagram un post incitante la resistenza alle violenze israeliane”. Come denunciato da Save the Children, Israele è l’unico paese al mondo che “detiene e persegue i minori nei tribunali militari con processi iniqui, arresti violenti e interrogatori coercitivi”. Dal report Injustice, pubblicato dall’ong lo scorso luglio, emerge che ogni anno “tra i 500 e i 1000 minori della Cisgiordania sono trattenuti all’interno del sistema di detenzione militare israeliano” e la principale accusa a loro carico sarebbe “il lancio di pietre”, che può comportare una condanna a 20 anni di carcere. Serbia. Diritti inesistenti per gli Albanesi: due pesi e due misure di Belgrado di Federica Woelk Il Riformista, 23 novembre 2023 Spesso e volentieri si parla dei serbi in Kosovo, ma quanto poco sappiamo degli albanesi in Serbia? Eppure sono due facce della stessa medaglia. E sempre di diritti delle minoranze si tratta. Con la differenza che della minoranza albanese in Serbia non si parla mai, mentre della minoranza serba in Kosovo sempre e comunque (e spesso anche spargendo disinformazione), nonostante la minoranza serba in Kosovo sia molto garantita, con molti diritti, mentre non si può sostenere lo stesso per gli albanesi in Serbia. Per fare un esempio concreto, il governo kosovaro ha confermato l’aumento dei fondi destinati all’Ufficio del Commissario per le lingue. Un altro passo avanti verso la piena attuazione di questa legge è rappresentato dal fatto che le dirette streaming delle riunioni di governo sono state rese disponibili in serbo. Sono misure, queste, che in Serbia nemmeno vengono discusse, mentre si discute continuamente dei (pochi) diritti degli albanesi. La regione di Bujanovac e Preševo, in cui vivono gli albanesi in Serbia, è nota come valle di Preševo dove la situazione può essere così rappresentata: nei comuni di Presheva e Bujanovac gli albanesi costituiscono la maggioranza della popolazione (93,7% a Preševo e 62% a Bujanovac secondo il censimento del 2022). Nel comune di Medve?a, gli albanesi sono il secondo gruppo etnico più grande (dopo i serbi), e rappresentano in questo comune il 32% della popolazione nel censimento del 1981, il 28,67% nel 1991 e il 26,17% nel 2002. Nonostante tale concentrazione locale, i diritti degli albanesi in Serbia sono molto limitati. Non hanno, ad esempio, nessun diritto di essere ad essere rappresentati da un proprio partito nel Parlamento della Serbia; a differenza dei serbi in Kosovo, che hanno un proprio partito politico con la garanzia di seggi riservati in Parlamento. Gli albanesi in Serbia sono spesso soggetti a discriminazione molto estesa; il tasso di disoccupazione è particolarmente alto fra loro. Ma non vengono nemmeno riconosciuti: Infatti, i leader di etnia albanese sostengono che il governo abbia sottoposto gli albanesi alla cosiddetta “passivizzazione” per ridurre il loro numero ufficiale nel territorio serbo. L’articolo 18 della legge sulla residenza dei cittadini in Serbia permette al Ministero dell’Interno di rimuovere le persone dal registro civile (cioè “passivizzarle”) se il Ministero stabilisce che non vivono attualmente al loro indirizzo registrato. Frequentemente, le forze dell’ordine attuano questa decisione attraverso visite spontanee a casa, spesso durante l’orario di lavoro, e una sola visita in cui non trovano nessuno è solitamente sufficiente per comportare la conseguenza della cancellazione della residenza all’indirizzo indicato. Secondo un rapporto del 2021 del Comitato Helsinki per i diritti umani in Serbia1, l’applicazione sproporzionata di questa legge da parte del governo nei confronti degli albanesi equivale a “pulizia etnica condotta attraverso mezzi amministrativi”. La Serbia usa quindi due pesi e due misure: da una parte si lamenta che i kosovari serbi non abbiano abbastanza diritti e pretende un’apposita Associazione delle municipalità serbe, dall’altra, non provvede alla protezione delle proprie minoranze nel sud della Serbia. Proibisce, come unico paese della regione, l’uso del simbolo nazionale per la sua minoranza, attraverso la legge sulle minoranze. Non così invece nei territori kossovari, in cui la minoranza serba legalmente usa la bandiera serba a Gracanica, Kumanove e Kotorr. Invece nella Valle di Presheva, in Serbia, la bandiera albanese rimane vietata. Questa ovvia differenza di standard di protezione stride se si cercano criteri comuni di protezione delle minoranze nei due paesi limitrofi. Neanche nel dialogo fra Kosovo e Serbia la discussione sui diritti degli albanesi in Serbia trova collocazione. Questo è un problema cruciale da affrontare presto, perché destabilizza la situazione e impedisce di trovare un accordo sostenibile a lungo termine. Concentrarsi solo sui serbi nel Kosovo è parte della strategia del governo serbo per non dover affrontare le proprie mancanze in fatto di diritti umani e diritti delle minoranze; una tattica diversiva. Il fatto che questo tema non sia incluso nel dialogo fa venire il dubbio che più che di un dialogo si tratti di un monologo. È ora di cambiare approccio e di focalizzarsi sul riavvicinamento e il buon vicinato fra i due stati. Per questo, ci deve essere un approccio equo, che tratta tutte le cose importanti per entrambe le parti, non solo quelle rilevanti per una sola parte. Un approccio equo che porta ad un dialogo vero. Nel frattempo, è necessario che i diritti della popolazione albanese in Serbia vengano non solo riconosciuti dalla controparte, ma anche effettivamente rispettati. Un altro esempio concreto per spiegare la situazione: il Kosovo ha attuato l’accordo di Bruxelles e ora permette ai serbi di riconoscere i loro diplomi presso l’Università di Mitrovica. Tuttavia, gli albanesi in Serbia non hanno la stessa possibilità di vedersi riconosciuti i diplomi dalla Serbia, anzi, per loro non esiste nemmeno un’università dedicata. L’esempio è significativo, perché il tema dell’educazione è fondamentale, la base per poter mantenere e trasmettere la propria identità, anche culturale. Non creare le condizioni affinché ciò avvenga significa non rispettare l’altra identità culturale presente nel paese. Il problema è sentito, dalla minoranza albanese, tanto che in questa regione esiste un ufficio che si occupa proprio della situazione degli albanesi residenti in Serbia, e che segnala la loro grave situazione della quale si parla troppo poco; con tutto l’impegno e la pressione nei confronti del Kosovo per rispettare i diritti dei kosovari serbi, perché non si discutono anche le garanzie a favore degli albanesi in Serbia? La reciprocità dovrebbe essere parte integrante e principio fondamentale di un processo di “normalizzazione” (termine molto usato, ma svuotato del suo significato perché l’attuale contesto ha poco a che fare con la normalità). Ultimamente sono usciti diversi articoli sul tema, ma ritengo che sia fondamentale un’attenzione ancora maggiore per il problema. Si tratta di diritti, della garanzia per delle persone di poter vivere in un luogo che è casa loro senza sentirsi “di troppo”, di garanzie per il rispetto della cultura e della lingua diverse. Parliamo di riconoscere un’identità, diversa di quella della maggioranza, e di rappresentanza a partecipazione della minoranza: due concetti chiave per una società inclusiva e sostenibile. Che sia per i serbi in Kosovo, o per gli albanesi in Serbia.