Gli effetti del populismo penale di Pino Corrias Vanity Fair, 22 novembre 2023 Diceva un vecchio giurista che tutti i magistrati, prima di prendere servizio, dovrebbero passare qualche giorno (e qualche notte) nella cella di un carcere. Sperimentare cosa vuol dire avere le sbarre addosso al punto da respirarle. Dormire in sei in una cella da due. Avere un lavandino di acqua fredda e un cesso alla turca di fianco al cibo, con le blatte che escono dal buco nero. Ascoltare di giorno e di notte il rumore delle serrature, le urla nei reparti, la puzza del rancio che ristagna. Imparerebbero quanto brucia il fuoco di una condanna. E quanta responsabilità occorre nel comminarla. Dovrebbero farlo anche i politici. Specialmente ora, viste le nuove norme del Decreto Sicurezza, il terzo in un solo anno di governo, scritte con il fil di ferro a prevedere più reati, più pene, più carcere, più poteri alla polizia. Hanno cominciato giusto un anno fa con il famoso decreto anti rave, i party che sembravano una delle emergenze nazionali. Poi il decreto contro i salvataggi in mare delle ong. La stretta sui centri di prima accoglienza. Il daspo per i membri delle baby gang. L’omicidio stradale. L’omicidio nautico. Quindi il decreto Caivano, che promette il carcere per le famiglie che non mandano i figli minori a scuola: il carcere, non un assistente sociale. Norme più dure e più galera per i borseggiatori, comprese le donne in gravidanza, specialmente le donne Rom, come strillano da mesi i nuovi titolari del giornalismo da caccia, quelli guidati da Mario Giordano, Paolo Del Debbio, Alessandro Sallusti. Si chiama populismo penale, o anche panpenalismo. Vuol dire moltiplicare i reati, moltiplicare le pene già previste, promettere sempre più carcere per assecondare una idea di ordine inflessibile che non vuole interventi e contromisure sociali, ma pretende punizioni esemplari contro un’emergenza sicurezza ingigantita, laddove il disordine percepito è sempre più mediatico che reale. Cavalcare la paura è una scelta politica. Alimenta spinte emotive moltiplicate dai social, dai giornali di destra, dalle tv modello Retequattro. Per trasformarle in consenso politico, sempre promettendo di spazzare via l’insicurezza con il bastone legislativo. Infischiandosene delle conseguenze. Ogni poliziotto, ogni carabiniere, dice il nuovo decreto, potrà girare armato anche fuori servizio, in abiti borghesi con una pistola diversa da quella di ordinanza, comprata a piacere. Vuol dire 300 mila pistole in più in un Paese dove il numero degli omicidi è in diminuzione da vent’anni. E senza tenere conto che maggiore è il numero di armi da fuoco in circolazione, più devastante sarà il numero delle armi da fuoco in azione. L’America dei mass murder ricorrenti e dei 30 mila morti ammazzati l’anno, dovrebbe insegnarci qualcosa. Ma fanno tutti finta di nulla, a cominciare dal ministro di Giustizia Carlo Nordio che da opinionista si vantava di essere garantista - meno reati, più pene alternative - e che da ministro fa l’esatto opposto. Prescrive il carcere per tutti, naturalmente senza esserci mai stato. Un “diritto penale massimo” contro le donne di Susanna Ronconi* Il Manifesto, 22 novembre 2023 Già molto si è scritto sul ddl governativo “recante disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”, capolavoro di populismo penale che mette insieme le figure del più stereotipato immaginario securitario per compiacere l’anima più forcaiola del paese a colpi di nuovi reati, vecchi reati riformulati e pene aggravate. Un’orgia di anni e decenni di galera a colpire detenuti, occupanti di case, cittadini che manifestano, persone che fanno la questua, immigrati e richiedenti asilo. Quell’esercito di “nemici perfetti” sociali della cui repressione penale da sempre si pasce la destra, con buona pace di due ovvietà: che il deterrente rappresentato da pene più alte non funziona a prevenire alcunché, e che i problemi alla base dei comportamenti sanzionati in buona parte avrebbero una miglior gestione se affrontati sul piano delle politiche sociali e del rispetto dei diritti. Ma il “diritto penale massimo” che connota l’attuale destra non parla il linguaggio della razionalità né quello dell’evidenza, figurarsi quello dei diritti. Nelle pieghe del ddl, un articolo, “Disposizioni in materia di esecuzione penale in caso di pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti”, al di là della formulazione neutra del titolo, è in realtà una norma di genere. È mirato alle donne giudicate o condannate che siano in gravidanza o madri di figli e figlie al di sotto di un anno di età e modifica le norme oggi vigenti circa la possibilità di accedere a misure alternative al carcere o alla detenzione domiciliare, per evitare sia la separazione madre-figlio/a in così tenera età o nascitura/a, sia l’incarcerazione dei bambini e delle bambine accanto alla madre. Questa misura minima di civiltà diventa selettiva e la sua applicazione restrittiva rispetto all’oggi. Cosa fa la differenza, per il governo? Il “pericolo di commissione di ulteriori delitti”, cioè la probabilità della recidiva. Probabilità: la norma ha intanto il chiaro intento di orientare la magistratura ad una attuazione a maglie strette delle alternative, e mettere la libertà e la responsabilità del giudice “sotto tutela” di un indirizzo restrittivo a norma di legge. Ma soprattutto ha il fine di discriminare e di punire con una sofferenza aggiuntiva determinati gruppi di donne e i loro bambini e bambine. Chi ha più facilmente comportamenti recidivi? Non certo chi commette gravi crimini, ma chi commette reati minori: il carcere delle donne è affollato di “pesci piccoli”, di donne che hanno pene tra uno e tre anni. Le donne dei piccoli reati sono soprattutto quelle dei reati contro il patrimonio, quelli della povertà e dell’esclusione, che nelle statistiche rappresentano la percentuale maggiore. Quelle che sono e saranno recidive perché, e fino a che, la loro condizione sociale non avrà una chance. Sono spesso le donne Rom, sono spesso le donne che usano droghe intensivamente, sono le donne più povere. A leggerla con una lente sociale e di genere, questa norma ha un profilo sia classista che razzista: del resto il governo esplicitamente ha indicato il bersaglio, le borseggiatrici Rom. Così appartenenza etnica e povertà disegnano la quota di sofferenza imposta alle madri e ai più piccoli e la quota di stigma e discriminazione. Sono passati meno di sei mesi da quando la campagna nazionale Madri Fuori, dallo stigma e dal carcere, si è mobilitata in tutta Italia contro la volontà del governo Meloni di bloccare nuove norme a favore delle detenute madri e, di contro, varare una legge per revocare la potestà genitoriale a tutte le donne con sentenza definitiva sopra i 5 anni. Ma, come si dice, al peggio non c’è limite: il presidio dei diritti delle donne e di chi è detenuto/a non conosce tregua. *Forum Droghe, Campagna Madri Fuori Simspe: “Troppi suicidi in carcere, serve l’Infermiere di comunità penitenziaria” di Ettore Di Bartolomeo La Discussione, 22 novembre 2023 Il 60% dei detenuti è tossicodipendente. Servono dati e analisi per intervenire meglio. Il carcere è da sempre un luogo di situazioni difficili e relazioni umane al limite oltre che limitate. La Società italiana di medicina e sanità penitenziaria (Simspe) per fronteggiare droga, violenza e suicidi propone un nuovo modello organizzativo incentrato sull’istituzione dell’infermiere di Comunità per la Sanità Penitenziaria e di certificazione dei soggetti che si occupano della salute nelle carceri italiane. Simspe rimarca che il 2022 è stato “un anno record” per il numero di suicidi in carcere (84), mentre nel 2023, a metà novembre, sono già 62 le persone che si sono tolte la vita. Molto alte anche le percentuali di coloro che assumono sedativi, ipnotici o stabilizzanti dell’umore e poi i tossicodipendenti che, secondo alcune stime, arriverebbero anche al 60% dei detenuti e detenute. Servono interventi scientifici - “Purtroppo”, spiega Antonio Maria Pagano, presidente della Simspe, “la frammentazione del sistema impedisce il reperimento di dati scientifici precisi, motivo per cui auspichiamo anche la creazione di un sistema di raccolta e analisi dei dati intersettoriali per velocizzare le risposte. Nel caso della tossicodipendenza, infatti - aggiunge Pagano - il fenomeno genera un effetto disinibente che aumenta la violenza, di cui pagano le conseguenze i detenuti stessi, il personale sanitario e la polizia penitenziaria.” Nelle carceri italiani c’è una “situazione operativa di grande difficoltà e frammentazione.” Motivo per il quale Simspe propone “Unità Operative aziendali di Sanità Penitenziaria, dotate di autonomia organizzativa e gestionale, multifunzionali e multiprofessionali e accoglie con favore l’ipotesi di una cabina di regia interministeriale composta da tecnici indicati dal ministero della Salute e dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.” Inoltre, Simspe propone un manuale di accreditamento per le strutture sanitarie penitenziarie sviluppato da uno dei gruppi di lavoro interprofessionale e l’istituzione dell’infermiere di Comunità per la Sanità Penitenziaria. Carenza di personale - La Società è impegnata da anni nel sistema carcerario nazionale, in cui ogni anno transitano oltre 100mila persone, alle quali, sottolinea la Simspe, “deve essere costituzionalmente garantito il diritto alla salute, obiettivo non semplice, complicato da un’organizzazione disomogenea, dal riferimento a due dicasteri, Giustizia e Salute, e alle organizzazioni sanitarie regionali”. Tra i maggiori problemi segnalati, “la grave carenza di personale sanitario e di formazione specifica, le difficoltà operative per il personale infermieristico, l’assenza di un reale coordinamento tra le regioni sono oggi i problemi principali, che si traducono in un’assistenza sanitaria segnata da gravi criticità, prima fra tutte la carenza di personale”. Cure odontoiatriche assenti - Negli anni di impegno Simspe, ad esempio, attraverso i dati raccolti sull’Epatite C ha potuto proporre e organizzare interventi per eliminare il virus nella popolazione carceraria di diversi penitenziari. Gli screening per l’HIV hanno consentito di avviare i relativi trattamenti. Gli stessi detenuti si sono rivelati collaborativi, a seguito delle attività informative che gli hanno permesso di comprendere il contributo che si offriva a tutela della loro salute. Va anche considerato che il reddito del 90% dei detenuti è inferiore al livello della soglia di povertà e altrettanti hanno un basso livello culturale e di istruzione; buona parte dei detenuti è tossicodipendente conclamato e altrettanti fanno uso di psicofarmaci, elementi che portano a una soglia del dolore più elevata con la conseguente indifferenza algica e disinteresse per eventuali cure mediche. Un numero assai elevato di detenuti necessita di cure odontoiatriche. Anche il bruxismo (il digrignamento dei denti) interessa il 30% della popolazione generale ma sale rapidamente al 70% nella popolazione penitenziaria e può rappresentare l’emblema del livello di tensione emotiva dei soggetti privati della libertà. 30 anni di Nessuno tocchi Caino: il viaggio della speranza contro la pena di morte e la morte per pena di Sergio D’Elia Il Riformista, 22 novembre 2023 Ricorre quest’anno il trentennale della fondazione di Nessuno tocchi Caino, che con Marco Pannella e Mariateresa Di Lascia abbiamo costituito per disarmare la giustizia della spada e affermare stato di diritto, libertà, democrazia. Lo celebreremo il 14, 15 e 16 dicembre nella Casa di reclusione di Opera, nel X Congresso dell’associazione radicale che in questi trent’anni è stata la casa della nonviolenza e dell’amore, della tolleranza e della accoglienza. E anche il refugium peccatorum: dei reietti, degli irredimibili, condannati a rimanere tali per tutta la vita. In questi trent’anni, l’eterna lotta tra il bene e il male ha letteralmente mortificato il diritto penale. Principi sacri dello Stato di Diritto sono stati profanati nell’orgia del punire. Ovunque nel mondo, c’è stato un grande spargimento di sangue: pene di morte, pene fino alla morte, morti per pena. Non solo. Ad esempio, in Italia, quando si è scelto di “prevenire” invece che punire, il prevenire è stato peggio del punire. Nel nome della “guerra alla mafia”, ai processi penali si sono aggiunte o hanno surrogato altre misure, dette interdittive e di prevenzione, ma che sono state spesso più distruttive dei castighi penali. “La durata è la forma delle cose”, amava dire Pannella ispirato da Henri Bergson. Quanti si sono scervellati nel cercare di capire il senso di questa frase! Chi ha posto l’accento sulla durata delle cose di per sé artefice della loro forma. Chi, viceversa, ha attribuito alla forma delle cose il potere di renderle durature. A me piace il senso originario della frase del filosofo francese che identifica nella coscienza la forza della durata. La coscienza orientata ai valori umani è il nocciolo duro che, pur sommerso da strati di false credenze e comportamenti errati, non muore mai ed emerge nella vita presente con la memoria della vita passata e il preludio della vita futura. La coscienza è la durata delle cose, dell’umanità, dell’universo. Il principio d’ordine da cui tutto origina, che tutto lega e a cui tutto tende. Trent’anni! Sono passati trent’anni nei quali - grazie al monito antico-testamentario “Nessuno tocchi Caino” - abbiamo chiuso molti bracci della morte e liberato molti condannati a vita. Con le risoluzioni ONU sulla moratoria delle esecuzioni capitali. Con le sentenze della Corte europea e della Corte costituzionale contro l’ergastolo ostativo. Trent’anni! Sono passati trent’anni nei quali - grazie al motto paolino-pannelliano “Spes contra spem” e con la nostra opera laica di misericordia corporale che ci ha portato solo quest’anno a “visitare i carcerati” di 105 penitenziari - abbiamo fatto vivere la speranza nei luoghi dove albergano anime in pena e vite senza speranza: luoghi di privazione non solo della libertà, ma di tutto, dei fondamentali sensi umani e della vita stessa. Visto come stanno andando le cose, per la prima volta in trent’anni, Nessuno tocchi Caino registrerà quest’anno il maggior numero di iscritti nella sua storia: oltre 3.000. Come è potuto accadere, visto che siamo sempre stati poche centinaia? È accaduto che abbiamo vissuto nel senso e nel modo in cui volevamo andassero le cose. In questi anni, abbiamo pensato, sentito e agito in modo radicalmente nonviolento, inclusivo, “ecologico”. Abbiamo avuto una visione di insieme e una cura dell’insieme che noi siamo, convinti che sia l’unione - non l’unità - a fare la forza e a farsi forte, non delle identità comuni, ma delle singolarissime diversità che connotano il nostro - di ognuno di noi - modo d’essere unici e irripetibili. La reductio ad unum, una teoria letteralmente “diabolica” della vita - delle organizzazioni politiche come degli organismi viventi - che pone in mezzo ostacoli, fissa limiti e pietre di confine oltre i quali non v’è salvezza, non corrisponde alla natura delle cose, non collima con la vita dell’universo, il quale vive secondo un ordine “religioso” che si fonda e tende a creare relazioni, interdipendenze tra cose ed esseri diversi. Nessun pianeta, nessun popolo, nessuna comunità, nessun individuo vive se non in relazione ad altri pianeti, altri popoli, altre comunità, altri individui. Per questo intimamente amiamo, rivendichiamo e difendiamo i “diritti umani universali”. Perché tutti noi siamo nell’universo e l’universo è in tutti noi, in perfetta armonia. Il “viaggio della speranza” di Nessuno tocchi Caino nel mondo dei delitti e delle pene ha in questi trent’anni contribuito a superare o a ridurre il danno di regimi mentali e ordinamentali letteralmente mortiferi, culturalmente oltre che giuridicamente anacronistici, veri e propri relitti di un passato che nascondiamo nelle segrete stanze, appunto, della morte. Nei bracci dei condannati alla pena capitale e nelle sezioni del “carcere duro” e senza speranza, ma anche nelle celle di isolamento, osservazione e assistenza detta “sanitaria” del “carcere normale”. Tossici, malati terminali e malati mentali che in altri tempi tenevamo nei manicomi e nei lazzaretti, oggi, li abbiamo concentrati in un luogo solo: il carcere. Un istituto inutile e dannoso che continuiamo - giustamente - a chiamare “di pena”, perché questo letteralmente è: una struttura dedita a infliggere dolore, a “cohercere”, reprimere, a “carcar”, sotterrare, anime e corpi di persone vive. Yairaiha Onlus: “C’è bisogno di un superamento culturale riguardo al carcere” di Tiziana Barillà italiachecambia.org, 22 novembre 2023 Dai diritti dei migranti nei centri di detenzione a quelli di chi è detenuto negli istituti penitenziari, fino alle campagne per l’abolizione dell’ergastolo ostativo e del regime detentivo speciale 41 bis. Dal 2006 l’associazione cosentina Yairaiha si occupa della tutela dei diritti umani delle persone private della libertà personale. Ne parliamo con la fondatrice Sandra Berardi. “Speriamo in un mondo senza più carcere”. Con questa speranza è nata a Cosenza nel 2006 l’associazione Yairaiha, che da allora si occupa e preoccupa della tutela dei diritti umani, in particolare delle persone private della libertà personale. Dai migranti rinchiusi nei centri del territorio ai detenuti negli istituti penitenziari, l’associazione si muove attraverso ispezioni conoscitive, supporto a familiari e detenuti, campagne per sensibilizzare e informare su questo aspetto troppo spesso nascosto della nostra società. Avvocati, giuristi, criminologi, ricercatori, psicologi, semplici attivisti. E poi diversi familiari di persone detenute e soprattutto oltre 300 detenuti iscritti all’associazione. In particolare infatti è attraverso i continui rapporti epistolari con centinaia di detenuti e i loro familiari che Yairaiha ha costruito - e continua a farlo giorno dopo giorno - un quadro della situazione sempre aggiornato. La prima cosa che chiedo a Sandra Berardi è cosa significa Yairaiha e lei ci racconta che vuol dire “viaggiatore”. Perché l’associazione prende il nome da un CD inciso da due ragazzi magrebini all’interno del carcere minorile di Catanzaro nei primi anni 2000. Ed è qui in regione che tutto è iniziato, anche se presto il lavoro si è esteso a tutto il Paese. “Siamo nati su impulso dei detenuti nelle carceri calabresi, partendo dalla conoscenza di questi stessi istituti con ricerche e visite ispettive. E poi queste attività si sono estese a tutto il territorio nazionale”, racconta Sandra. “L’azione si è propagata da sé con il passaparola tra i detenuti stessi, siamo diventati un punto di riferimento per centinaia di carcerati. Bisogna tenere presente che le carceri sono una specie di circoscrizioni calabresi o comunque meridionali”. Questa frase potrebbe sembrare una boutade, ma così non è. Analizzando le presenze negli istituti penitenziari, risulta che al 30 giugno 2023, il 45,2% delle persone detenute in Italia proviene dalle regioni di Calabria, Campania, Puglia e Sicilia. Davanti a questo dato si può liquidare il fenomeno con la propensione al crimine in queste aree oppure interrogarsi e scoprire che il carcere è spesso lo specchio di emarginazione sociale, povertà e altri fattori strutturali. La correlazione tra povertà e tasso di criminalità è un tema ampiamente riconosciuto dagli esperti di criminologia. “Rispetto alle carceri c’è una questione meridionale ancora aperta”, dice Sandra. La presidente di Yairaiha è una donna schietta, diretta, non ha peli sulla lingua ed entra nel cuore di un tema assai divisivo quale spesso è la giustizia. “Per esempio, un reato come la distrazione di fondi che altrove diventa appropriazione indebita, qui diventa associazione mafiosa”. Berardi denuncia un vero e proprio sistema punitivo diverso per i meridionali. “Prendiamo il 416 bis: deriva direttamente dalla vecchia Legge Pica che puniva i briganti e arrestava anche i loro familiari. Nelle sezioni femminili di alta sicurezza ci sono in prevalenza donne che non hanno commesso reati, se non quello di essere mogli, figlie o madri di qualcuno. E magari dopo anni di carcerazione preventiva vengono assolte per non aver commesso reati”. Siamo nel campo del pregiudizio nel senso più letterale e repressivo del termine. “È proprio questo l’obiettivo di Yairaiha: provare a rompere questo tabù”. E per farlo c’è bisogno di sensibilizzare il mondo fuori. Uno dei modi è “La prigione e la piazza”, una mostra mercato itinerante di libri dal e sul carcere che da due anni attraversa le città di tutta Italia, non solo al Sud. “Occorre rompere il muro di omertà rispetto al carcere, c’è la necessità di un superamento culturale. È chiaro che il solo intervento repressivo non è sufficiente a superare determinate problematiche”. È una battaglia contro la repressione, non solo in termini etici e umanitari, ma strategica: il ricorso a questo metodo non funziona, non è risolutivo. L’associazione Yairaiha si è costituita parte civile in più di un processo, in qualche caso i processi sono nati proprio grazie al loro intervento. “Il modello carcerario italiano è sotto gli occhi di tutti. Le immagini di Santa Maria Capua Vetere hanno fatto cadere il velo di ipocrisia che sinora ha coperto la mattanza nelle carceri italiane a seguito delle proteste e non solo”. Lezioni di civiltà di Sandro De Nardi Corriere Veneto, 22 novembre 2023 Talvolta le parole pesano come macigni, anche per l’autorevolezza (personale e) istituzionale di chi le pronuncia: tali sono senz’altro quelle proferite da Bruno Cherchi, nell’intervista - pubblicata ieri dal Corriere del Veneto - rilasciata nella sua veste di dirigente della Procura della Repubblica che conduce le indagini sull’omicidio di Giulia Cecchettin. Cosa ha detto, il Procuratore, di così “pesante”? Muovendo dalla premessa che, purtroppo, Giulia è stata ritrovata morta, e che l’indagato è stato arrestato in Germania, ora bisogna consentire alla giustizia di fare il suo corso e proprio a tal proposito ha stigmatizzato il “clima” non positivo, facile alla suggestione, che si è venuto a creare intorno a questa vicenda, stante l’eccessiva morbosa? - partecipazione emotiva dell’opinione pubblica. Ha dunque rivolto a quest’ultima (e forse alla classe politica?) un appello alla “decantazione”, invitando tutti a riflettere e a rispettare alcuni principi, scritti e non scritti, su cui si fonda il garantismo costituzionale in materia penale. In principalità, ha ricordato - talvolta implicitamente - quanto segue: 1°- Nel nostro ordinamento (art. 27 Cost.) vige il principio di non colpevolezza. O meglio, secondo la più accreditata dottrina, vige la presunzione di innocenza fino a condanna definitiva. Con quel che ne dovrebbe conseguire per l’indagato e/o per l’imputato in termini di trattamento protettivo e rispettoso (anche della dignità). 2° - Anche a chi è sospettato o accusato del peggior delitto va garantito un giusto processo (art. 111 Cost.): perché in uno stato di diritto la responsabilità penale (che è personale: art. 27 Cost.) va accertata nel rispetto delle regole sostanziali e processuali pre-stabilite, assicurando in modo pieno le prescritte garanzie di difesa; il che rappresenta un’autentica conquista di civiltà che non può soffrire deroghe di sorta, a meno che non si punti a una tribale vendetta. 3° - Anche nella fase delle indagini occorre garantire un clima di assoluta serenità, pure al di fuori delle aule di giustizia: affinché le stesse possano svolgersi nel rispetto e a garanzia di tutte le persone a vario titolo coinvolte, eliminando anche il mero sospetto che l’accertamento della verità sia inquinato da elementi non obiettivi. 4° Prima di giudicare, occorre conoscere: pertanto, bisogna rifuggire il giudizio aprioristico ed anche il (connesso) fanatismo, il tifo da (curva sud dello) stadio. 5° - Il processo penale è di per sé una pena: ed è tale - oltre che per i famigliari della vittima, naturalmente - anche per l’imputato e per le persone a lui vicine, a cominciare da chi ricopre il ruolo di genitore. 6° - Infine, tutti noi, nei rispettivi ruoli, abbiamo un dovere etico, prima che giuridico: quello di aiutare la giustizia. Quella del Procuratore è insomma una straordinaria lezione di diritto costituzionale: oltre tutto, tenuta con toni sobri ed eleganti. Prima ancora, è un invito a rispettare sempre talune elementari regole, la cui osservanza è fondamentale per garantire una convivenza davvero civile: tali regole impongono di respingere al mittente, ed anzi stigmatizzare, talune affermazioni circolate in questi giorni nei social media, nella parte in cui sembrano addirittura rievocare il barbaro atteggiamento tenuto dalle tricoteuses durante la Rivoluzione francese (che, com’è noto, sferruzzavano imperterrite mentre assistevano, sedute di fronte al palco della ghigliottina, allo “spettacolo” delle decapitazioni). Ora l’auspicio è che l’appello del Procuratore non cada nel vuoto: del resto - come ci ha insegnato Tullio De Mauro - le parole “sono fatte, prima che per essere dette, per essere capite; proprio per questo, diceva un filosofo, gli dèi ci hanno dato una lingua e due orecchie”. A buon intenditor … “Pene esemplari? Sono inutili, la violenza si batte cambiando cultura” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 22 novembre 2023 “Invocare “pene esemplari” forse può soddisfare l’esigenza di dare un segnale rispetto all’emergenza legata alla violenza di genere. Ma difficilmente l’inasprimento delle pene potrà arginare o addirittura porre fine al fenomeno dei femminicidi. Ciò che serve è un cambiamento culturale e sociale”. Ne è convinto Francesco Greco, presidente del Consiglio nazionale forense, che dopo i recenti fatti di cronaca chiama a raccolta l’avvocatura per sollecitare un impegno maggiore sul fronte dell’educazione. Proprio da qui, dalle scuole, bisogna partire per scardinare una cultura basata sulla sopraffazione. Ed è proprio in quest’ottica che si inserisce anche l’iniziativa promossa dalla Commissione pari opportunità del Cnf e dalla Fondazione dell’avvocatura italiana (Fai) in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, che ricorre il 25 novembre. L’appuntamento è in programma questo sabato in piazza dell’orologio a Roma, davanti alla sede amministrativa del Cnf, dove sarà posizionata un’installazione artistica: un tunnel costellato luci, ognuna delle quali rappresentata una storia, un nome da non dimenticare, una vittima di femminicidio. Presidente, la tragedia di Giulia Cecchettin ha riaperto il dibattito sulle attività di contrasto alla violenza di genere. E le nuove norme allo studio, approdate in Senato dopo l’approvazione alla Camera, hanno l’obiettivo di rafforzare la disciplina del Codice Rosso, che già aveva portato all’inasprimento delle pene... Sono molto preoccupato, oltre che addolorato, per la vicenda di Giulia e per i dati sulla violenza diffusi negli ultimi giorni. In un quadro generale in cui il numero di omicidi nel nostro paese è fortunatamente in diminuzione, apprendiamo che il numero di femminicidi è invece in aumento. E questo è un dato estremamente significativo del momento culturale che il nostro paese sta vivendo, e sul quale occorre riflettere. In generale sono sempre un po’ scettico rispetto ai provvedimenti adottati sulla scorta dell’emotività e della cronaca. Non ritengo, ecco, che la soluzione possa ridursi nell’inasprimento delle pene. Come bisognerebbe agire, a suo parere? È necessario un cambiamento culturale e sociale, anche attraverso il Codice rosso, che probabilmente ha bisogno di qualche aggiustamento: troppo spesso sentiamo di vittime che avevano allertato le forze dell’ordine o l’autorità giudiziaria senza che ne siano seguiti provvedimenti. Penso a un movimento culturale che parta dall’educazione dei bambini e degli adulti, nelle scuole e nelle università, per scardinare il “modello del più forte” che si è imposto negli ultimi vent’anni. E forse bisogna impegnarsi di più anche all’interno delle professioni. Che ruolo immagina per gli avvocati? Noi avvocati, che abbiamo una cultura giuridica e umanistica, dobbiamo impegnarci maggiormente per aumentare la nostra presenza nella società e diffondere messaggi ispirati ai valori fondamentali della convivenza. Il Cnf lo fa già, con un programma sul quale siamo molto impegnati. Ma credo che dovremo fare uno sforzo in più, per diffondere la cultura del rispetto e del dialogo. Anche nelle aule di tribunale? Nell’aula di udienza ciascuno ha il suo ruolo. I giuristi hanno un ruolo all’interno dell’attività giudiziaria, certo, ma anche al di fuori di essa. Tutti dobbiamo fare la nostra parte. Noi come i media, che devono impegnarsi a diffondere messaggi che non siano portatori di violenza. Una società non può fondarsi sulla cultura della forza. Sabato il Cnf sarà in piazza dell’orologio a Roma con un’iniziativa dedicata alle vittime di femminicidio, proprio con l’obiettivo di trasmettere un messaggio di segno opposto... Sono fermamente convinto dell’importanza della funzione sociale dell’avvocatura. Noi avvocati abbiamo un ruolo al di fuori delle aule di tribunale, e anche nelle carceri, rispetto al fine rieducativo della pena e alla diffusione dei principi fondamentali della nostra Costituzione. Il Cnf sta lavorando in questa direzione anche riallacciando i rapporti, già in essere, con il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. L’impegno del Cnf in questi anni si è esteso anche a livello internazionale, per ciò che riguarda la violazione dei diritti umani e gli abusi subiti dalle avvocate che si sono battute su questo fronte... Proprio questa settimana proporrò al plenum l’istituzione di un “Premio Nasrin Sotoudeh”, dedicato alla nostra collega iraniana che ha messo a rischio la propria vita per la difesa dei diritti. Un premio ispirato alla sua funzione di avvocato nel mondo, da attribuire annualmente a persone della società civile che si siano contraddistinte per l’attenzione al tema della violenza, in tutte le sue forme, e alla tolleranza. L’attività di Nasrin deve essere di esempio per tutti noi. Perché sono da sempre convinto che noi avvocati di tutto il mondo, con le nostre diverse culture, costumi e leggi, vogliamo tutti la medesima cosa: tutelare i diritti. Tornando all’Italia, lei di recente ha richiamato l’attenzione su una particolare forma di violenza: quella economica. E ha riportato i dati non proprio confortanti sulla disparità di reddito delle professioniste... Questo è un ulteriore elemento che mi vede impegnato personalmente. In un momento di crisi economica generale, la flessione dei redditi riguarda tutti. Ma, secondo i dati diffusi da Cassa forense, questa flessione va ad aggiungersi a una situazione reddituale particolarmente delicata, per le nostre colleghe. E questo noi avvocati non lo possiamo tollerare. Per questo ho intenzione di porre l’argomento al prossimo Congresso nazionale forense, che si terrà a dicembre a Roma: il gender gap è uno dei temi su cui l’assise dovrà confrontarsi e riflettere. Qualche proposta è già sul tavolo, e mi auguro, se ci sarà condivisione, di poterle sottoporre alla politica. Nordio: “Il pm italiano ha enorme potere e zero responsabilità di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 22 novembre 2023 Il ministro al San Carlo di Napoli: “Separazione carriere è in programma, ma prima viene il premierato”. “La separazione delle carriere è nel nostro programma politico, ma occorre cambiare la Costituzione. Al momento però la priorità politica è il cosiddetto premierato, che porterà ad una riforma della Costituzione e probabilmente ad un referendum”. È quanto ha affermato questa sera a Napoli il ministro della Giustizia Carlo Nordio intervenendo all’iniziativa “Dialoghi con il ministro” organizzato da Polo Sud, nei locali del teatro San Carlo. “I ritardi, se tali vogliono essere definiti - ha proseguito il Guardasigilli - sono dovuti al fatto che le due cose non possono essere accoppiate. Ho letto critiche, ma la riforma non è rinviata: c’è un cronoprogramma, che vede quale priorità la riforma costituzionale sul premierato. Ciò nonostante abbiamo dato già cinque segnali nel senso della riforma con atti che oggi giacciono al Senato: abbiamo chiesto in primis di introdurre il principio dell’ordinanza di custodia cautelare, che deve essere collegiale, oggi si va in prigione con la doppia chiave di pm e gip. Abbiamo poi pensato che l’interrogatorio di garanzia venga fatto prima che scattino le manette, oggi il 50% delle persone che vengono arrestate sono poi scarcerate dopo l’interrogatorio di garanzia. Vogliamo inoltre introdurre l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, chiesto da tutti gli amministratori ed introdurre la riforma che definiscono il “minimo sindacale” sulle intercettazioni, che prevede come il terzo che viene richiamato nelle intercettazioni non può essere nominato e finire sui giornali”. “Il pm italiano ha un enorme potere e senza responsabilità”, ha detto ancora Nordio. Rispondendo ad un quesito del magistrato Arcibaldo Miller, il guardasigilli ha fatto un paragone con la giustizia negli Stati Uniti e in Gran Bretagna: “Quando abbiamo mutuato l’istituto del pubblico ministero dal processo anglosassone, abbiamo creato una figura ibrida, lasciandogli quei poteri ma con le indipendenze dal giudice previste dalla Costituzione: un potere enorme sprovvisto di responsabilità. Quando i padri costituenti hanno scritto la Costituzione avevano davanti il codice Rocco: l’unità delle carriere era indiscutibile, sembrava metafisico parlare di separazione delle carriere. I padri costituenti non avevano pensato poi che il professor Vassalli avrebbe creato un modello anglosassone senza toccare le carriere. Poi lo stesso Vassalli quando è andato in Corte Costituzionale ha iniziato a demolire il suo stesso codice perché si è reso conto che la sua riforma era in contrasto con la Costituzione”. Parlando poi dei tempi dei processi, Nordio ha detto che “la giustizia lunga è una giustizia negata. I tempi dei processi vanno abbreviati: qualsiasi sia l’esito, se la sentenza arriva dopo 10-15 anni siamo di fronte ad una giustizia ingiusta. La celerità del processo è condizione sine qua non per una giustizia giusta. Nel processo accusatorio vanno a giudizio negli altri Paesi il 5% degli indagati, in Italia sono circa il 50-60 per cento e molti sono poi assolti”. Soluzioni? “Era già alla base della riforma Cartabia: bisogna allargare l’adozione del patteggiamento, come avviene negli Stati Uniti, dove se tu patteggi ricevi un forte sconto, ma se non patteggi e vieni condannato ricevi il doppio della pena”. Violenza di genere, un questionario alla Procure da Osservatorio ministero e Csm di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2023 Un questionario, per far emergere le buone pratiche organizzative e le esigenze degli uffici giudiziari rispetto alla gestione dei procedimenti per reati di violenza di genere e domestica. E’ quanto ha elaborato l’”Osservatorio permanente sull’efficacia delle norme in tema di violenza di genere e domestica”, istituito con decreto del ministro della Giustizia, in collaborazione con il “Gruppo di lavoro sulla violenza di genere” costituito presso il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM). Il formulario sarà indirizzato - per ora - a tutte le Procure della Repubblica presso i Tribunali Ordinari ed è articolato in più sezioni, corrispondenti agli ambiti di interesse dei quesiti: specializzazione e formazione dei magistrati sulla violenza di genere e domestica; unitarietà, personalizzazione del fascicolo e distribuzione dei carichi di lavoro; tempestività dell’azione giudiziaria; valutazione del rischio e protezione della vittima; coordinamento tra Uffici Giudiziari; coordinamento con la Procura ed il Tribunale per i minorenni; coordinamento con il Tribunale Ordinario Penale; coordinamento con il Tribunale Ordinario Civile; valutazione della pericolosità dell’indagato; monitoraggio dei dati statistici riguardanti le misure coercitive adottate; reti interistituzionali; principali criticità riscontrate nella trattazione della materia di violenza di genere e domestica. Ministero della Giustizia e CSM hanno ritenuto opportuno, nello spirito di leale collaborazione e come stabilito in sede di Comitato Paritetico, trasmettere agli uffici delle procure un unico questionario, per non gravare gli uffici di un doppio onere di compilazione. Attraverso il questionario congiunto, l’Osservatorio e il CSM, in piena sinergia, intendono favorire una migliore conoscenza delle esigenze in concreto avvertite dagli uffici giudiziari e delle prassi virtuose sperimentate nel settore della tutela delle vittime di violenza domestica e di genere nella prospettiva di renderle patrimonio comune e al fine di promuovere l’adozione di modelli organizzativi uniformi in relazione alle dimensioni e alle risorse degli uffici. Troppi “colonnelli” e pochi “soldati”: i numeri che non tornano a via Arenula di Massimiliano Di Pace Il Dubbio, 22 novembre 2023 Il caso più eclatante è quello degli ufficiali giudiziari, per i quali le 1.563 caselle sono effettivamente coperte per meno del 30%, visto che nel nostro Paese, alla data del 9 novembre, ne risultavano operativi solo 457. Vi è un evidente squilibrio nella pianta organica del ministero della Giustizia, secondo i dati comunicati dal dicastero ai sindacati nei recenti incontri per il rinnovo contrattuale, pervenuti al Dubbio. Infatti, per molti profili vi sono percentuali di scopertura rispetto alle posizioni previste a dir poco inquietanti. Il caso più eclatante è quello degli ufficiali giudiziari, per i quali le 1.563 caselle sono effettivamente coperte per meno del 30%, visto che nel nostro Paese, alla data del 9 novembre, ne risultavano operativi solo 457. Ancora più clamorosa è la situazione degli assistenti tecnici, che dovrebbero essere 137, e invece ve ne sono solo 2, così come degli assistenti alla vigilanza di locali e automezzi, il cui numero dovrebbe essere di 32, mentre ne esistono solo 3. Pochissimi sono gli assistenti linguistici, essendocene solo 5 sui 10 previsti (un numero comunque esiguo, se si considera l’elevato numero di stranieri presenti in Italia). Diventa quindi incomprensibile come sia stato possibile che le 7.003 posizioni di funzionario giudiziario sono occupate da 7.794 dipendenti del ministero, ossia 791 in più di quanto sarebbe necessario. Va detto però che tutte le altre posizioni più o meno apicali dell’amministrazione della giustizia (funzionari Unep, contabili, informatici, statistici, linguistici) il tasso di scopertura oscilla intorno al 25% (ossia una posizione su 4 è scoperta), così come avviene per i direttori, per i quali ne mancano 510 sui 2.044 previsti, pur esistendo, da quanto riferiscono le fonti di chi scrive, 304 soggetti già considerati idonei, e presenti nelle liste risultanti dall’ultimo concorso. Fra i profili dei funzionari, sono quasi tutti a lavoro i 12 destinati all’organizzazione (ne mancano solo 2), mentre quelli tecnici sono in larga parte non operanti (ne servono 45 sui 63 previsti). Ben peggiore è la situazione dei dirigenti, visto che ve ne sono solo 2 di prima fascia, sui 16 previsti, e solo 148 di seconda fascia, sui 393 programmati. Un’altra figura centrale della macchina della giustizia è il cancelliere, e secondo i dati provenienti dal ministero ne mancano ben 2.377 (sui 5.972 previsti). Considerando i due ruoli più importanti delle posizioni intermedie del personale amministrativo, ossia l’assistente giudiziario (11.278 posizioni) e l’operatore giudiziario (4.647 posti), di nuovo si riscontra una evidente penuria di personale, visto che è scoperto il 27,8% delle posizioni nel primo caso (essendoci solo 8.144 assistenti giudiziari), e il 15% nel secondo caso (lavorano 3.949 operatori). Emblematica poi è la situazione dell’ufficio del processo, dove sugli 8mila assunti, risulta da più fonti che ben 3mila si sono dimessi, sia perché il contratto è comunque a tempo determinato (2 anni), sia perché la remunerazione non è molto soddisfacente (1.700 euro lordi), tutte circostanze che spingono a cercare nuovi sbocchi professionali. Per avere un’idea complessiva della condizione di difficoltà in cui versa la giustizia italiana, basti considerare che mancano all’appello 10.808 dipendenti sulle circa 43mila posizioni di lavoro previste, ossia il 25% del personale necessario per far andare avanti la macchina della giustizia. In questo contesto, è giusto segnalare che la legge di bilancio per il 2024, attualmente in discussione al Parlamento, non prevede nessuna risorsa aggiuntiva, e non sono quindi previsti nuovi concorsi rispetto a quelli già programmati. Una situazione, dunque, che rende difficile la vita ai cittadini e agli avvocati. “L’agenda rossa di Borsellino era in procura a Palermo”. Poi sparì… di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 novembre 2023 La testimonianza shock del magistrato Salvatore Pilato è emersa per la prima volta, dopo 31 anni, nel nuovo libro di Vincenzo Ceruso dal titolo “La strage. L’agenda rossa di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. “Sono stati apposti i sigilli alla stanza d’ufficio del procuratore Borsellino, dove era collocata un’agenda rossa che nella fase iniziale delle indagini è stata ritenuta l’agenda contenente gli appunti personali di natura riservata”. A riferirlo è Salvatore Pilato, il quale il giorno della strage di Via D’Amelio era in servizio come magistrato di turno. Testimonianza shock emersa per la prima volta, dopo 31 anni, dal nuovo libro di Vincenzo Ceruso dal titolo “La strage. L’agenda rossa di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” edito da Newton Compton Editor. Per sgomberare qualsiasi dubbio o inevitabili retropensieri va subito detto che Ceruso, uno studioso palermitano allievo di padre Pino Puglisi, ha svolto un lavoro che nessun giornalista e nessuna procura ha mai fatto finora: sentire per la prima volta il magistrato di turno che all’epoca della strage era in servizio presso la procura di Palermo. Grazie al certosino lavoro svolto da Ceruso e ben compendiato nel libro, emerge con tutta chiarezza che le indagini sono tutte da rifare. Oltre trent’anni di deviazioni verso le “entità”, depistaggi da parte di testimonianze che hanno evocato gli uomini in nero sul luogo della strage, non hanno consentito di vagliare tutti quei dettagli che erano in realtà già sotto gli occhi di tutti. Come mai l’agenda rossa era finita in procura come riferisce chiaramente il magistrato Pilato, anche se nel contempo afferma che così un collega gli ha riferito? In realtà, e l’autore del libro lo ha spiegato attraverso fonti documentali, la borsa che Borsellino teneva con sé non era semivuota. Non conteneva solo l’agenda rossa “sparita”, ma era piena zeppa di documenti. Che fine hanno fatto? Una risposta potrebbe esservi e la si evince da altri elementi che attualmente non risultano vagliati dalle autorità competenti e ultimamente evocate in commissione antimafia da Fabio Trizzino, legale dei figli di Borsellino: le audizioni dei magistrati Gioacchino Natoli e Vittorio Aliquò rese innanzi al CMS a una settimana dalla strage di Via D’Amelio. Ma per spiegare bene di che cosa si sta parlando, bisogna riportare ciò che Vincenzo Ceruso scrive dettagliatamente nel suo libro. Al Csm i due magistrati spiegano come Borsellino, dopo una forte resistenza, è riuscito a farsi dare la delega per interrogare l’allora pentito Gaspare Mutolo. Una comunicazione - come ben scrive l’autore nel libro - avvenuta dapprima attraverso una sorta di pizzino, in cui è scritto al magistrato assegnatario: “Ti avvarrai della collaborazione e del coordinamento del collega Borsellino”. Il biglietto viene allegato al fascicolo che raccoglie le prime deposizioni del pentito e che si trovava nella borsa del Giudice, tra i documenti che egli portava con sé. Ceruso scrive che lo sappiamo rileggendo la deposizione di Gioacchino Natoli, resa davanti al Csm il 30 luglio 1992: “Acquisire non è facile, perché si trovava (il fascicolo di Mutolo, ndr) nella borsa di Paolo Borsellino che era con lui ed è stato sequestrato; noi siamo in possesso dei verbali perché Paolo era andato via il venerdì, io resto con Guido Lo Forte a lavorare il venerdì pomeriggio ed il sabato e quindi i verbali li avevamo trattenuti noi. Infatti, noi avevamo i verbali e Paolo aveva tutto il fascicolo”. Quanto riferisce nella sua testimonianza il dottor Natoli è confermato nell’audizione di Vittorio Aliquò: “Sì, dopo la morte di Falcone, nei primi di questo mese. Non posso dire di più perché oltretutto sto dicendo questo a mia memoria, in quanto il fascicolo lo aveva nella borsa Borsellino ed è rimasto chiuso lì tra le carte sequestrate; quindi, non ricordo bene se la nota era a firma di Vigna o se era solo il verbale a firma di Vigna, questo non posso essere preciso, comunque c’è la traccia documentale, il fascicolo è fra le carte di Borsellino”. Sono passati 31 anni dalla strage e incredibilmente a nessuno è balzato agli occhi ciò. Si è sempre pensato che dalla borsa avrebbero sottratto - non si sa chi, dove e come - l’agenda rossa e basta. Invece ora è chiaro che alcuni magistrati di Palermo all’epoca hanno visto le carte nella borsa e legittimamente sequestrate. Giustamente, l’autore del libro dà per scontato che in seguito siano state trasmesse ai pubblici ministeri competenti. In più, sempre grazie al libro, ora sappiamo che c’era anche l’agenda rossa. Altrimenti non si spiega come sia stata vista sopra il tavolo dell’ufficio di Borsellino subito dopo la strage. Ci sono testimonianze discordanti sul passaggio della borsa ed è difficile unire i tasselli. L’autore le elenca e le vaglia attentamente. Bisogna chiarire come sia avvenuto il primo depistaggio che, come ben scrive l’autore, ha a che fare con il movente ultimo dell’attentato. Cos’aveva scoperto di tanto pericoloso Borsellino? Ceruso spiega che egli aveva individuato le connessioni che legavano la strage di Capaci, la penetrazione mafiosa negli appalti pubblici, gli interessi politico-imprenditoriali a livello nazionale (ben prima di Tangentopoli) e le complicità nel mondo giudiziario siciliano dell’epoca. Abbiamo anche la certezza che Borsellino ha annotato nell’agenda qualche appunto di natura riservata. Ma ora abbiamo la certezza assoluta che l’agenda aveva i suoi “allegati”, ovvero i documenti. Ceruso parla di “tesoro documentale” scomparso “dall’orizzonte di interesse dell’opinione pubblica (altra questione è in quale misura sia scomparso da quello investigativo) insieme alla sua borsa, nelle primissime ore dopo l’esplosione”. Ma tali carte, stando alle audizioni di Natoli e Aliquo, sono state viste e sequestrate. Grazie alla testimonianza autorevolissima raccolta nel libro, disponiamo di un dato certo riguardo al momento in cui la borsa di Borsellino sarebbe stata portata via dal luogo dell’attentato: intorno alle sei meno un quarto, un ufficiale dei carabinieri riferisce al magistrato Pilato che la borsa era già stata posta sotto sequestro dagli uomini dell’Arma. Successivamente, e qui risulta particolarmente complesso fare chiarezza, il materiale è giunto in procura. Sicuramente, l’agenda rossa, ora che sappiamo per la prima volta che era sul tavolo dell’ufficio di Borsellino. Quindi, come ipotizza lo stesso autore del libro, la sua scomparsa definitiva non sarebbe avvenuta in via D’Amelio, bensì nel luogo in cui il suo proprietario lavorava quotidianamente e conservava i documenti più importanti. Ma tutti questi documenti che fine hanno fatto dopo il sequestro? Ceruso è ottimista. Si trovano verosimilmente negli archivi di alcune procure siciliane, tra scaffali impolverati e fascicoli. In fondo tante prove sono state dimenticate. Testimonianze comprese. L’autore ripesca una deposizione avvenuta al primo processo Borsellino. Parliamo dell’allora colonnello Enrico Brugnoli: racconta di aver aiutato l’allora magistrato nisseno Cardella (ricordiamo che recupererà la borsa presso la questura di La Barbera solo a novembre del 1992) a repertare il contenuto. Elenco completamente scarno. Ma nell’elencazione, Brugnoli confermerà la presenza di almeno tre documenti. Dalle domande poste dal Pm sembrerebbe che siano state fatte delle fotocopie. Almeno quelle è possibile, quindi, recuperale. Ma per comprendere meglio il quadro bisogna leggere il libro “La strage. L’agenda rossa di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” dove tutto è ricostruito in maniera certosina. Anche ponendo nuovi elementi sulla modalità della strage dove emerge la contraddizione sul rinvenimento del “blocco motore” e non solo. Una ricostruzione che nessuna sentenza sulla strage ha mai fatto e che non troverete mai in nessun altro libro di “inchiesta” sull’argomento. Ora toccherà alla procura nissena vagliare di nuovo da capo. Magari senza gli inevitabili condizionamenti e tesi che hanno allontanato la verità dei fatti. Trovare i documenti, eventuali relazioni di servizio anche da parte dei magistrati di turno, verbali. E magari ascoltando tutti i togati viventi di allora. Quel terribile giorno, in procura, c’erano quasi tutti. Anche questo emerge dalle audizioni al Csm. Verona. Giovanni, 34 anni: secondo suicidio in cella in dieci giorni di Laura Tedesco Corriere Veneto, 22 novembre 2023 Il terzo caso in tre mesi nella struttura detentiva cittadina. L’associazione Sbarre di zucchero: “Altra morte taciuta”. Era detenuto dal 28 ottobre. Il 9 agosto Christian Mizzon, veronese di 44 anni, vittima (pare) di una overdose di farmaci. Dieci giorni fa, un detenuto afghano con cittadinanza austriaca e status di rifugiato: si è impiccato nonostante il tentativo delle guardie di salvarlo; di lui, sono tuttora rimasti ignoti nome ed età. Domenica 19 novembre, l’altro ieri, Giovanni di 34 anni, nato in India, italiano di seconda generazione dopo essere stato adottato insieme alla sorella da una coppia veronese: anche lui, morto impiccato in cella. Giovanni era dentro da tre settimane esatte: lo avevano arrestato sabato 28 ottobre a Verona, per aver aggredito la convivente (colpita alla nuca, prognosi di dieci giorni). Per lui, lunedì 13 novembre, nove giorni fa, la Procura aveva già chiesto il giudizio immediato contestandogli la doppia accusa di maltrattamenti e lesioni alla compagna. Tre casi aperti - Tre vite spezzate in carcere a Verona, tre drammi su cui le indagini sono ancora in corso, tre morti di cui è stato addirittura problematico venire a conoscenza. Tre croci che rischiavano di restare nascoste, come se non si trattasse di persone degne di essere ricordate. Tre suicidi in tre mesi, nel carcere di Verona, dove con la morte appena registrata lo scorso weekend di Giovanni, si registra il triste record di due decessi in soli dieci giorni nella solitudine di una cella. Dell’ultima vittima, il 34enne Giovanni, pubblichiamo la foto per dare umanità alla sua tragedia, per far emergere vedendo la sua giovane età e il suo sorriso da uomo libero, la gravissima piaga dell’escalation di suicidi in cella: con la scomparsa del 34enne, che si è impiccato domenica pomeriggio mentre il compagno di cella era uscito per l’ora d’aria, il totale delle morti volontarie nei penitenziari italiani ha raggiunto quota 62 dall’inizio dell’anno. Sbarre di zucchero - Una piaga su cui si erano prepotentemente accesi i riflettori proprio a Verona nell’agosto del 2022, poco più di un anno fa, quando si era tragicamente tolta la vita nella casa circondariale di Montorio Donatella Hodo. Aveva solo 26 anni, era bionda e bellissima, se ne andò inalando gas dal fornelletto e lasciando una lettera d’amore al fidanzato: “Ti amo, Leo, scusami”, scrisse la ragazza scuotendo con la sua scomparsa le coscienze di tutti. Per “non dimenticare il sacrificio di Dona” e per frenare l’escalation delle morti in carcere, è nata l’associazione Sbarre di Zucchero, in prima linea per i diritti di reclusi ed ex reclusi con iniziative e prese di posizione: “The neverending story! La storia si ripete, un altro suicidio taciuto, a distanza di 10 giorni dal precedente”. Parole che lasciano il segno, quelle che arrivano dagli attivisti di Sbarre all’indomani del dramma di Giovanni: “Eravamo stati allertati già domenica nel tardo pomeriggio, ma abbiamo atteso conferma da fonte certa, conferma appena ricevuta. Verso le 16 del 19 novembre 2023, nella prima sezione del carcere veronese si è tolto la vita un giovane italiano di adozione e, come le volte precedenti, carcere e garante dei detenuti non ne hanno fatto parola. Perché questo silenzio? Cosa impedisce loro di informare su questi gravissimi e troppo frequenti eventi tragici? Le domande che Sbarre di Zucchero si pone meriterebbero una risposta più che urgente e noi queste risposte le pretenderemo, perché nessun suicidio deve passare anche lo sfregio del silenzio”. Questo lo sferzante intervento giunto nelle scorse ore dal direttivo di Sbarre, mentre arrivano toni preoccupati anche dai rappresentanti della polizia penitenziaria: “Due suicidi in soli dieci giorni non possono non suscitare allarme - dice Giovanni Vona del Sappe -. Il principale problema a Verona resta l’altra concentrazione di stranieri, soprattutto giovani italiani di seconda generazione”. Anche Giovanni lo era: aveva problemi di dipendenza, sperava nei domiciliari, si stava cercando per lui una comunità. Purtroppo non c’è stato tempo per trovarla. Né per salvarlo. Verona. La lettera al fratello suicida in carcere: “Eri un buono, voglio la verità” di Laura Tedesco Corriere Veneto, 22 novembre 2023 “Non riesco ancora a credere che mio fratello abbia potuto togliersi la vita in carcere”. Giulia Polin scuote la testa con gli occhi rigati dalle lacrime: “Giovanni - sospira - è sempre stato contrario al suicidio e per di più stava per ottenere i domiciliari. Non aveva motivo di ammazzarsi, era dentro da venti giorni e la sua convivente, che lo aveva denunciato per averla picchiata, voleva ritirare la querela. Lui non l’aveva aggredita, il loro era stato il litigio di una coppia il cui amore era purtroppo giunto al capolinea. Mio fratello non era un delinquente ma solo troppo fragile, era un buono e un gran lavoratore, e soprattutto era ancora innamorato di lei, non le avrebbe mai fatto del male, con lei sognava addirittura di mettere su famiglia e costruire un futuro insieme”. Giovanni Polin, come la sorella Giulia, era nato in India: in tenera età sono stati adottati da una coppia veronese che ha regalato loro il cognome, la cittadinanza e soprattutto l’amore di una famiglia e una prospettiva di vita. Legatissimi da sempre, il loro filo si è spezzato improvvisamente domenica pomeriggio: rimasto solo in cella nel carcere di Montorio perché il compagno di stanza era uscito per l’ora d’aria, Giovanni è stato trovato impiccato con un lenzuolo. Aveva solo 34 anni: era detenuto dal 28 ottobre, meno di un mese fa, per maltrattamenti e lesioni sulla compagna: per lui il gip aveva disposto il processo immediato una settimana prima della tragedia. La prima udienza era prevista a febbraio 2024, intanto il difensore stava già lavorando per fargli ottenere i domiciliari. “Avevo sentito Giovanni al telefono due giorni prima della tragedia, mi ha parlato dei suoi progetti - racconta Giulia, ancora incredula e scioccata dalla disgrazia - voleva tornare dal suo precedente datore di lavoro, Giovanni si occupava di traslochi e montaggio mobili, aveva talmente tante idee da realizzare in testa che mi sembra impossibile che si sia potuto impiccare in cella”. La sorella chiede la verità: “Attendo che vengano svolte l’autopsia e gli esami tossicologici, voglio che venga appurata la dinamica esaminando i video e sentendo eventuali testimoni. Mi auguro che ci sia una indagine approfondita, perché ho molti dubbi...”. In venti giorni di detenzione, a Giulia non è “mai stato concesso una sola volta di poter far visita a mio fratello, gli ho solo potuto fare due telefonate da dieci minuti ciascuna. Addirittura, non mi è mai stato permesso di inviargli un solo cambio di vestiti, nulla, neppure una maglia. Indossava ancora gli indumenti che aveva il giorno dell’arresto, il 28 ottobre scorso, quando faceva ancora caldo”. Al fratello che non c’è più, Giulia dedica una straziante lettera d’amore: “Nel mio cuore è come se avessi sempre saputo che non saresti mai invecchiato, era impossibile immaginare quegli occhi ingenui su un viso maturo. Porterò con me il ricordo della tua ingenua spregiudicatezza, la tua noncuranza delle mode e delle forme, la coerenza con cui rimanevi radicato ai tuoi principi senza farti influenzare dal conformismo - scrive Giulia - Eri talvolta un bambino intrappolato in un corpo di uomo, fragile e insicuro, talvolta pauroso, testardo e incosciente allo stesso tempo, istintivo e passionale. Hai conosciuto la felicità più vera qualche mese fa quando credevi di aver costruito con la tua ragazza già mamma di due figli la tua famiglia, il porto sicuro, avresti fatto di tutto per quei bambini e me ne parlavi come fossero tuoi... Purtroppo spesso la felicità per come era la tua vita era destinata a essere effimera. Mi consolo però perché anche qualche giorno fa al telefono sembravi pieno di progetti per il futuro e nonostante la situazione in cui ti trovavi fosse disperata sentivo nascere in te un soffio di eterna speranza”. Un messaggio traboccante d’affetto, un dolore condiviso da Sbarre di Zucchero: “Con Giovanni i suicidi nel carcere di Verona salgono a tre in tre mesi. Un’enormità - attacca l’associazione per i diritti di reclusi ed ex reclusi -. Ci uniamo allo stato di agitazione dell’Unione camere penali”. Roma. Case-rifugio anti violenza, solo 50 i posti letto: l’Unione europea ne prevede 300 di Maria Egizia Fiaschetti Corriere della Sera, 22 novembre 2023 L’Ue ha stabilito il criterio di un posto letto ogni 10mila abitanti. Scarse anche le risorse destinate ai centri: 67mila euro l’anno in media per ogni struttura. A Roma sono soltanto una cinquantina i posti letto nelle case rifugio per accogliere le donne vittime di violenza: numeri lontanissimi dagli standard indicati dall’Ue, un posto letto ogni 10mila abitanti (su una popolazione di quasi 3 milioni dovrebbero essere 300 mentre sono appena un sesto). Un altro elemento di criticità è l’esigua disponibilità di fondi, in media 67mila euro l’anno a struttura anche a causa del meccanismo sempre più diffuso delle gare al massimo ribasso. L’offerta sul territorio - Nella Capitale i centri antiviolenza sono una ventina distribuiti su tutto il territorio: la mappatura, aggiornata allo scorso aprile, è consultabile sul sito 1522 (il numero antiviolenza e stalking) del ministero delle Pari opportunità. Quelli gestiti dal Comune si trovano in quasi tutti i Municipi (due nel II, tre nel VII) e sono aperte dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 16, un giorno a settimana fino alle 17 con reperibilità 24 ore su 24. Tre sono state aperte nei principali atenei (Sapienza, Tor Vergata, Roma Tre). Nel Lazio si contano invece 35 centri antiviolenza e 15 case rifugio. Per quanto riguarda i luoghi in grado di ospitare donne, sole o con bambini, in fuga da maltrattamenti fisici e psicologici che necessitano di protezione, supporto qualificato per riconquistare la propria indipendenza (economica e affettiva) e programmi di formazione/avviamento al lavoro, il Campidoglio dispone di tre case rifugio, sei case per la semi-autonomia e cinque appartamenti di seconda autonomia. Gare al massimo ribasso - Sebbene Roma sia stata tra le prime in Italia (nel ‘92) a dotarsi di spazi adeguati e abbia potuto contare sulla stabilità delle risorse erogate nel tempo, non mancano le difficoltà come spiega Elisa Ercoli, presidente di “Differenza donna”: “Ogni struttura ha a disposizione meno di 70mila euro l’anno e uno dei problemi principali sono le gare al massimo ribasso: un criterio inconcepibile se si vuole garantire il lavoro di professionisti specializzati nella valutazione del rischio, oltre al counselling di psicologhe e avvocate esperte”. Distanti dai criteri europei - Un altro aspetto sul quale Roma non è ancora allineata al benchmark comunitario è il numero di posti letto nelle case rifugio (dovrebbero essere 300, sono invece poco più di 50): 8 nella struttura di Villa Pamphilj, che però possono arrivare a 25 inclusi i bambini; una decina al Centro maree alla Magliana; 5 (più uno in emergenza) nella struttura sulla Cassia realizzata in un bene confiscato alla criminalità organizzata; 6 a Torre Spaccata con eventuale disponibilità aggiuntiva per i bambini. Vicino a Roma è attivo poi il centro di Valmontone con ulteriori 5 posti. Nel 2023 oltre 2mila donne nei centri - Quest’anno, tra il 1° gennaio e il 30 ottobre, sono 2.026 le donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza del Comune. Nelle case rifugio sono ospitate invece 102 persone (53 donne e 49 minori). Quasi il 50 per cento di quelle che hanno chiesto aiuto sono migranti, mentre è di nazionalità straniera il 40 per cento di quelle accolte in strutture residenziali. “La protezione è fondamentale - sottolinea Ercoli - ancor più dal momento che l’Italia, nel 2013, ha sottoscritto la Convenzione di Istanbul assumendosi l’impegno di tutelare le donne vittime di violenza”. Gli investimenti - Nel frattempo, anche grazie ai fondi Pon europei (in totale 149 milioni del Piano nazionale Metro plus 2021-27), tra i 21 progetti che verranno finanziati sono previsti 6 milioni per il potenziamento dei centri antiviolenza e delle misure di contrato al fenomeno (secondo gli ultimi dati Istat nel Lazio gli accessi al pronto soccorso di donne con indicazione di violenza ogni 10mila ingressi totali sono aumentati dal 4,8 per cento nel biennio 2017-19 al 7,8 per cento nel periodo 2020-21). Firenze. Dietro le sbarre con gli aggressori: “In pochi si pentono” di Pietro Mecarozzi La Nazione, 22 novembre 2023 A Sollicciano i percorsi di lavoro sulla violenza di genere. Qualcuno si pente, piange, si sfoga. Altri rimangono impassibili, non proferiscono parola, lo considerano una perdita di tempo. C’è anche, però, l’uomo che argomenta, giustifica e minimizza l’aggressione che ha perpetuato nei confronti di sua moglie, della sua fidanzata, di una sconosciuta o peggio ancora di sua figlia o di una bambina. Accade tutta in una stanza isolata dentro alle carceri di Firenze, Prato e Pistoia: i detenuti maschi che hanno commesso violenze (fisiche o sessuali) nei confronti di una donna - o di minori - vengono divisi in gruppi, secondo la gravità del reato, e approcciati a un percorso terapeutico che ha l’obiettivo di analizzare e approfondire quanto hanno commesso. A coordinare questo progetto (che va avanti dal 2016) c’è Mario De Maglie, psicologo, psicoterapeuta, coordinatore clinico e attuale vicepresidente del Cam (Centro Uomini Maltrattanti di Firenze). “C’è una prima fase di individuazione e valutazione del soggetto e del suo passato spiega De Maglie -, e successivamente, quando ci sono i presupposti, l’inserimento in un gruppo di altri detenuti che hanno commesso reati analoghi”. Si crea così una bolla interna ma estranea alla struttura carceraria, dove gli uomini possono affrontare i loro errori e parlare dei fantasmi del passato. “Il sistema ‘gruppo’ crea una sorta di scudo che fa sentire a loro agio i detenuti - aggiunge lo psicologo -, che si sentono più liberi di raccontare le loro storie. Non tutti, però, capiscono la gravità delle loro azioni, e on tutti purtroppo mostrano segni di pentimento”. A Sollicciano ci sono tre diversi gruppi, per un totale di una trentina di detenuti. Quasi la metà di loro sono di origine straniera, e la loro lettura del reato commesso passa anche da un background culturale molto distante dai canoni occidentali. “I detenuti stranieri minimizzano il loro comportamenti - continua -, facendo intendere nei loro paesi di provenienza sono condannati in modo meno rigido. A questo si aggiunge il trascorso provato e familiare: in quanto molti detenuti sono cresciuti in contesti difficili e inquinati dalla violenza, hanno subito dei traumi o sono stati educati da padri che usano le botte al posto delle parole. Quindi molti detenuti hanno interiorizzato questi momenti delle prime fasi della loro vita, e pensano quasi che sia normale comportarsi su una donna o sui figli come i loro genitori si sono comportatati con loro”. Non c’è un identikit preciso dell’uomo violento o dell’aggressore. E non c’è indulgenza, né tanto meno redenzione nei gruppi di ascolto che sono stati creati in carcere. “C’è però condivisione e un processo lungo al quale alcuni decidono di prestarsi, mentre altri restano refrattari”, chiosa De Maglie. È difficile anche trovare una ‘ricetta’ buona per tutti, in quanto la confessione del reato può avvenire nell’immediato, a metà percorso o può non esserci affatto. “I nostri appuntamenti (una a settimana a Firenze ndr) si aprono con gli sfoghi dei carcerati sulle condizioni in cui vivono dietro le sbarre - svela ancora - poi c’è chi decide di affrontare i motivi per cui si trovano in quel luogo: riflettono, assorbono le nostre lezioni e in alcuni casi si pentono. Non capita sempre, ma chi crede veramente nel nostro percorso, poi ci segue anche fuori, quando ha permessi speciali o una liberazione anticipata, continuando a partecipare ai nostri corsi nelle sedi sul territorio. Questa per noi è una grande soddisfazione”. E fa dimenticare anche tutto il peso che un lavoro del genere può provocare: “Di storie atroci ne ho sentite tante, non ci si abitua mai. Ma ho deciso di fare questo mestiere perché ci credo veramente, sono sicuro che possa aiutare qualcuno”, conclude De Maglie. Alessandria. Tra le mura del carcere bistrot Fuga di Sapori ansa.it, 22 novembre 2023 Pranzi, aperitivi, eventi con i prodotti realizzati dai detenuti. È stato inaugurato ad Alessandria il nuovo Bistrò Fuga di Sapori, un ulteriore risultato della cooperativa sociale Idee in Fuga, che sostiene la formazione professionale dei detenuti per creare reali opportunità di lavoro. Ha aperto lungo la cinta muraria della casa circondariale di piazza Don Soria, nell’area occupata in precedenza dalla bottega di Fuga di Sapori, chiusa negli ultimi mesi per la ristrutturazione in vista di questa nuovo spazio. Si tratta di realtà enogastronomica gestita con passione e cura: la gestione culinaria e non solo è affidata allo chef Luca Gatti (socio della cooperativa) che si occuperà anche della formazione dei detenuti ed ex che ci lavorano, cinque persone in tutto. Una trentina i posti a sedere e altrettanti al banco. Per ogni preparazione è assicurato l’utilizzo di materie prime di alta qualità, anche provenienti da altre carceri italiane. In vendita i prodotti Fuga di Sapori, preparati nella Casa di “Reclusione di San Michele, alla periferia della città. Con il coinvolgimento dei detenuti il Bistrò Fuga di Sapori non rappresenta solo un nuovo punto di ristoro, ma anche un simbolo di speranza e visione di un futuro migliore, possibili - sottolinea Carmine Falanga, presidente di Idee in Fuga - attraverso il lavoro e il riscatto individuale”. Siracusa. Fornai in carcere, la seconda vita dei detenuti di Francesco Patanè La Repubblica, 22 novembre 2023 Una cooperativa di reclusi sta per aprire accanto al penitenziario Cavadonna un laboratorio di pasticceria grazie ai fondi europei. “Costruiamo inclusione”. Vent’anni fa nasceva a Siracusa la cooperativa L’Arcolaio con il primo laboratorio per la realizzazione di pane e dolci tipici siciliani all’interno del carcere Cavadonna. Oggi sta nascendo il primo stabilimento di produzione dolciaria accanto all’istituto di pena grazie al progetto Small2Big dell’Unione europea, gestito in Italia da Cooperazione finanza impresa (Cfi). Una struttura dove lavoreranno detenuti ed ex detenuti e andrà a completare la filiera di L’Arcolaio che gestisce oltre al laboratorio di dolci anche 13 ettari di campi coltivati ad erbe aromatiche. “Il nostro core business rimangono le mandorle - racconta Giuseppe Pisano, presidente della cooperativa - La nuova struttura ci permetterà di ampliare l’offerta dei nostri prodotti e di potenziare la nostra funzione di reinserimento sociale dei detenuti”. La cooperativa sociale siciliana è stata fondata nel 2003. Dal laboratorio all’interno del carcere Cavadonna sono usciti i dolci tipici siciliani col marchio Dolci evasioni. Un successo a livello nazionale centrato dai 20 dipendenti, fra detenuti ed ex carcerati, che hanno contribuito a portare il marchio sugli scaffali di Altromercato, NaturaSì e Eataly. Oggi L’Arcolaio ha un fatturato di 700 mila euro ed è pronto per raddoppiare i numeri. “Prendo in prestito una frase dell’editore americano Malcom Forbes che diceva: “Mi è del tutto indifferente se un uomo viene da Harvard o da Sing Sing. Noi assumiamo l’uomo, non la sua storia” - continua Pisano - Noi lavoriamo con i detenuti della casa circondariale di Siracusa. Ci occupiamo del loro reinserimento sociale e lavorativo. A tale scopo, la cooperativa ha avviato, all’interno del carcere, un’attività di impresa sociale per la produzione dolciaria da agricoltura biologica. In questo modo, intendiamo dare il nostro contributo all’evoluzione del sistema penitenziario verso una vera funzione rieducativa della pena e la conseguente riduzione della recidiva”. Un successo che ha spinto L’Arcolaio a investire anche grazie al progetto europeo gestito da Cfi. Serviva una nuova struttura produttiva, accanto al carcere, per consentire alla cooperativa di aumentare il volume d’affari e di conseguenza raddoppiare il numero dei lavoratori, tutti con un presente o un passato nel carcere di Siracusa. “Costruire inclusione sociale, welfare di comunità e, insieme, generare buona occupazione e reddito stabile per le persone coinvolte sono, da sempre, “le cifre” dell’attività di Arcolaio - sottolinea Mauro Frangi presidente di Cooperazione Finanza Impresa (Cfi) - La sfida è realizzare un salto di qualità importante e accrescere la capacità di perseguire quegli obiettivi in modo duraturo e sostenibile. Abbiamo investito in 50 imprese cooperative sociali e di lavoro di minore dimensione grazie al progetto “Small2Big”, voluto e sostenuto dalla Commissione Ue”. Grazie al progetto europeo l’Arcolaio si pone l’obiettivo di rafforzare il rapporto con il territorio creato negli ultimi 20 anni di attività per la diffusione di una cultura dell’economia civile e di pratiche che favoriscano l’inclusione delle persone fragili. “L’abbiamo chiamato “Cavadonna Lab” e prevede progetti didattici e formativi legati alla promozione dell’economia civile - dice Giuseppe Pisano. Oltre naturalmente alla realizzazione del nuovo impianto, in grado di rendere più efficiente l’attività produttiva, consentendo alla cooperativa di sviluppare nuove linee di lavorazione, di aumentare i volumi di produzione e di ampliare il paniere dei prodotti, in modo da aggredire nuovi mercati. Una maggiore disponibilità finanziaria significherà investire nel circuito dell’economia sociale e circolare e, in particolare, la possibilità di aumentare i livelli occupazionali di persone fragili, soprattutto detenuti ed ex detenuti”. Palermo. Sport e lavoro, un progetto per reinserire i giovani detenuti di Palermo Giornale di Sicilia, 22 novembre 2023 L’obiettivo è il reinserimento dei reclusi attraverso percorsi di educazione sportiva e di orientamento professionale. Si chiama “Play for the Future” ed è un progetto che mira al reinserimento dei giovani detenuti attraverso percorsi di educazione sportiva e di orientamento professionale. E i primi risultati con la sinergia di Fondazione Ac Milan, Fondazione Cdp e Ministero della Giustizia, a nove mesi dal suo avvio, sono confortanti evidenziando una maggiore autostima e apertura al dialogo dei ragazzi coinvolti. Quattro le città del Sud coinvolte: Bari, Catania, Napoli e Palermo, in un percorso che accompagnerà i ragazzi sino a giugno 2024. “Lo sport - ha sottolineato il ministro della Giustizia, Carlo Nordio - non è solo disciplina e autodisciplina, è rispetto dell’avversario. E’ emozionante vedere che alla fine di una gara gli atleti si stringono la mano, ancora di più sarà emozionante vedere chi ha sbagliato nella vita e ha pagato il conto poi rientrare nella società migliorato. Tutti gli sport, anche quelli apparentemente violenti, sono disciplinati da regole che poi ti insegnano le regole della vita”. I primi dati sui 57 partecipanti coinvolti - tutti maschi e in gran parte minorenni (70%) - dicono che ora svolgono regolarmente attività sportiva, conducono colloqui di lavoro e seguono un percorso di orientamento lavorativo, mentre in precedenza solo l’8,3% praticava uno sport e il 5,6% si era affacciato al mondo del lavoro. L’analisi ha rilevato un generale miglioramento delle condizioni psicologiche dei ragazzi, con una maggiore apertura al dialogo, un aumento dell’autostima e della fiducia in se stessi e una crescita delle competenze sociali e relazionali. Emersi inoltre una maggiore capacità di mantenere gli impegni presi e di valutare i propri limiti e bisogni, come una più elevata attitudine a riflettere sui motivi che hanno portato alla commissione del reato. Bergamo. Il carcere luogo di cultura, in scena vanno i detenuti di Michele Andreucci Il Giorno, 22 novembre 2023 11 detenuti del carcere di Bergamo porteranno uno spettacolo teatrale su un palcoscenico cittadino, per la prima volta, con l’obiettivo di superare il confine tra dentro e fuori. Un’iniziativa che ha richiesto caparbietà e che spera di spiegare il perché non si deve sbagliare. Il carcere come luogo di cultura. La cultura come libertà. Sabato alle 10,30, all’auditorium di piazza della Libertà, per la prima volta i detenuti del carcere di Bergamo porteranno uno spettacolo teatrale su un palcoscenico cittadino. Succederà con “Lo spaventapasseri”, regia di Walter Tiraboschi e Gianluca Belotti dell’associazione Teatro Piroscafo di Sarnico, che da 15 anni opera nella casa circondariale di via Gleno. In scena 11 attori, tutti reclusi a Bergamo, protagonisti di uno spettacolo ambientato in un “non luogo”. Una trama che, spiega Tiraboschi, “tocca i temi dell’assenza, dell’attesa, del tempo che passa”. Se 11 detenuti saranno sul palco, altri 20 - che hanno partecipato alle rappresentazioni all’interno del carcere - saranno presenti in platea. “Con lo spettacolo all’auditorium cadrà una barriera: la detenzione non deve impedire la partecipazione alla vita culturale”, sottolinea l’assessore alla Cultura del Comune di Bergamo, Nadia Ghisalberti. “I detenuti si sono messi in gioco - spiega la direttrice del carcere, Teresa Mazzotta -. Porteranno fuori dalla casa circondariale le proprie emozioni, superando il confine tra dentro e fuori. Lo spaventapasseri è andato in scena più volte all’interno del teatro del carcere, coinvolgendo nel pubblico complessivamente 1.200 studenti. Ora i detenuti si sono messi in gioco, come se quegli studenti fossero loro figli, per spiegare il perché non si deve sbagliare”. Ricorda Fausto Gritti, presidente dell’associazione Carcere e Territorio, che sostiene l’iniziativa: “L’idea è nata nel febbraio 2022, le difficoltà sono state molte, ma la caparbietà di tutti ha permesso la realizzazione”. Napoli. Lo show di Sting in carcere in sostegno del progetto Metamorfosi di Roberta Barbi vaticannews.cn, 22 novembre 2023 La star inglese ha donato la clip del concerto che ha tenuto sei mesi fa nella casa circondariale di Secondigliano, a Napoli, alla Casa dello Spirito e delle Arti che farà partire una raccolta fondi per il progetto in favore di detenuti e migranti. In quell’occasione aveva suonato la prima chitarra prodotta nella nuova liuteria in carcere. Era stato un momento toccante, con Sting che intona “Fragile”, suonando quella chitarra, la prima prodotta nella nuova liuteria del carcere di Secondigliano, accompagnato dai musicisti del Quartetto del Mare, che imbracciavano gli altri strumenti realizzati con il legno dei barconi di migranti arrivati a Lampedusa. Quel momento toccante era stato filmato, grazie al sostegno della Fondazione Con il Sud e delle altre maestranze che vi avevano lavorato gratuitamente; il video, poi, era stato inserito nel film “Posso entrare? An ode to Naples”, firmato dalla moglie di Sting, Trudie Styler. Ora quella clip è stata estrapolata nuovamente e donata alla Casa dello Spirito e delle Arti, che assieme alla Fondazione Comunità di San Gennaro gestisce la liuteria di Secondigliano, e sarà utilizzato per una raccolta fondi di finanziamento del progetto “Metamorfosi”. “È bello vedere artisti sensibili al dramma contemporaneo che vivono le persone migranti - ha commentato con Vatican News Arnoldo Mosca Mondadori, presidente della Casa dello Spirito e delle Arti - a questo si aggiunge la questione della dignità e del lavoro da restituire alle persone detenute, come vuole l’articolo 27 della nostra Costituzione”. A giugno, nella casa circondariale di Secondigliano, Sting, con il Quartetto del mare, esibendosi con i primi strumenti realizzati dalla liuteria in carcere commentò: “Questi strumenti hanno un’anima”. “Suonano in un modo tutto loro - conferma Mondadori - hanno una dolcezza che uno Stradivari non ha, perché sono realizzati con legno intriso di umanità, di dolore e resurrezione insieme”. Un concerto indimenticabile, dunque, una performance che resterà nella storia e di cui esiste anche un documento video, che ora sarà utilizzato proprio a vantaggio del progetto che questa storia l’ha resa possibile. “È stato un momento forte, dedicato solo ai ristretti, un momento lontano dalla mondanità che solitamente circonda questi eventi, in cui l’artista si è fatto vicino a persone che più di chiunque altro hanno bisogno di bellezza, persone solitamente dimenticate, che per una volta, invece, sono state messe al centro della scena”. Il progetto Metamorfosi ha consentito la realizzazione di una falegnameria-liuteria nella casa di reclusione di Milano Opera dove con il legno recuperato dai barconi vengono realizzati violini, violoncelli, contrabbassi e l’oud della tradizione mediterranea; di recente è stata aperta anche una seconda liuteria proprio a Secondigliano dove si realizzano chitarre e mandolini: l’obiettivo è arrivare a costituire una vera e propria orchestra del mare. “Nel progetto ci sono anche altre due carceri coinvolte - prosegue Mondadori - cioè Monza e Rebibbia a Roma, in cui, con il legno delle chiglie delle barche si producono rosari e altri oggetti sacri”. In tutti questi laboratori ci sono detenuti assunti con regolare contratto: “Chi lavora cambia, in carcere si vede benissimo un giorno dopo l’altro il verificarsi di quelle metamorfosi che danno il nome al progetto - aggiunge il presidente - soltanto smontando le barche e trovando gli oggetti personali che sono appartenuti ai migranti si prende atto di questa tragedia contemporanea che è la migrazione. Ma la metamorfosi coinvolge anche i giovani delle scuole che vengono in visita nei laboratori e incontrano rifugiati e detenuti ed è una metamorfosi che deve cambiare anche noi portando a chiederci, come ci ricorda Papa Francesco: perché su quella barca ci sono loro e non noi? Perché in carcere ci sono loro e non noi?”. Suoni, suonatori e suonati dal mondo delle prigioni di Ilaria Dioguardi vita.it, 22 novembre 2023 L’associazione Antigone dal 2010 cura Jailhouse Rock, con storie di musica e di carcere che si attraversano le une con le altre. Alla trasmissione radiofonica collaborano detenuti del carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso e del carcere milanese di Bollate, che realizzano il giornale radio e suonano le cover degli artisti. Da 14 anni ogni settimana va in onda Jailhouse Rock, su Radio Popolare e altre radio italiane. Curato dall’Associazione Antigone e realizzato con la collaborazione di detenuti delle carceri di Rebibbia e di Bollate, è la prima esperienza del genere. “Ogni settimana, i detenuti realizzano anche un Giornale radio dal carcere trasmesso all’interno del programma, e le cover degli artisti che ascoltiamo nella puntata”, dice Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, che conduce Jailhouse Rock insieme a Susanna Marietti. Gonnella, come nasce Jailhouse Rock? È una trasmissione radiofonica fatta a due voci, due teste e quattro mani, che siamo io e Susanna Marietti. Siamo alla quattordicesima stagione radiofonica, siamo nati su Radio Popolare, la trasmissione viene ripresa anche da altre radio. 14 anni fa io e Susanna abbiamo condiviso un’idea e due passioni. Le due passioni sono la musica e le storie di carcere, condividiamo 27 anni di militanza nell’associazione Antigone. Ci siamo chiesti: come possiamo coniugare i temi della giustizia penale, dei diritti dei detenuti insieme alla passione musicale? Abbiamo pensato di fare una trasmissione che unisce l’informazione, la cultura e l’intrattenimento. Dal 2010 dedichiamo ogni puntata ad un musicista o cantante che ha avuto un arresto, un’accusa, che in qualche modo è andato a finire tra le maglie della giustizia. Questo ci consente, a partire da una storia, di raccontare altre storie. Patrizio Gonnella e Susanna Marietti, conduttori di Jailhouse Rock Qualche esempio di storia di musica che si intreccia con i temi trattati? Nella trasmissione abbiamo parlato, ad esempio, di un grande cantautore sudamericano, Victor Jara, e di Screaming Jay Hawkins, uno dei più grandi del blues del secondo dopoguerra. Entrambi hanno avuto storie di torture alle spalle: Jara da un regime di Pinochet, morto nello stadio di Santiago del Cile, Hawkins è stato ucciso dai giapponesi nella seconda guerra mondiale. Queste storie ci consentono di parlare di torture, di attualizzare il tema, raccontandolo a nostro modo, con le conoscenze di Antigone. Come si è arricchita nel tempo la trasmissione? Si è arricchita di spunti che arrivano dalle carceri, con contributi audio dal carcere romano di Rebibbia e da quello milanese di Bollate. Alcuni detenuti preparano ogni settimana una sorta di giornale radio, che trasmettiamo durante ogni puntata. Inoltre, a Milano abbiamo una nostra cover band, formata da persone recluse in carcere. Noi qualche giorno prima comunichiamo loro l’autore di cui parleremo e che andremo ad ascoltare in trasmissione, loro ci mandano una cover di quest’autore interpretata da loro e la mandiamo in onda. La nostra trasmissione è anche diventata un libro Jailhouse rock. 100 musicisti dietro le sbarre (editore Arcana). A breve uscirà un altro libro Jailhouse Rap. Come avviene il lavoro di redazione? Il Giornale radio dal carcere (Grc) elaborato è il lavoro di una settimana delle persone detenute che collaborano con noi nelle due carceri. Si incontrano con i nostri giornalisti volontari e costruiscono le notizie. Ogni puntata il Grc va in onda per una decina di minuti, anche con questo format andiamo in onda da 14 anni. Si cerca di stimolare la produzione di notizie e di costruire la capacità di capire cosa è notizia e cosa non lo è. Nel caso di Roma, ci si incontra due volte a settimana, una prima volta per scegliere i temi su cui approfondire le notizie, la seconda per produrre le notizie. Quali sono i temi che solitamente si approfondiscono? Le notizie possono essere temi che hanno a che fare con il carcere, oppure si ragiona su qualcosa che è accaduto fuori, a volte si tratta di temi legati alla pena ma non necessariamente. Una delle cose più raffinate che è stata prodotta, qualche anno fa, è stata una serie di puntate girate sul tema del suicidio in carcere. È stata una vera e propria inchiesta. Dei detenuti si sono trasformati in giornalisti interni e hanno fatto agli operatori (psicologa, direttore, altri detenuti) domande sul suicidio, sia dal punto di vista della prevenzione sia della tragedia. A Milano il giornalista volontario è Paolo Aleotti, autore Rai molto noto. A Roma abbiamo avuto, come volontario giornalista, per dieci anni Giorgio Poidomani (ex amministratore delegato de L’Unità e tra i fondatori de Il Fatto Quotidiano. Poidomani ha messo in piedi la redazione romana, fino all’anno scorso, all’età di 87 anni, due volte a settimana prendeva la metropolitana e andava a Rebibbia, mi ha detto che forse sono stati i dieci anni più belli della sua vita. Ora abbiamo due giornalisti, Stefano Bocconetti e Federica Delogu. Quanto c’è bisogno di progetti come questo in carcere? Ce n’è bisogno come il pane, di tutto ciò che è offerta culturale, lettura, musica. La musica potrebbe avere un grandissimo effetto terapeutico. I detenuti a Bollate hanno una sala prove, dove possono suonare e provare. Questo dovrebbe essere più facile, nelle carceri, invece si può solo vedere la televisione digitale. Se ai detenuti fosse data loro l’opportunità di avere un pc o un tablet, anche slegato dalla rete, per far loro sentire la musica, vedere dei film, leggere dei libri, li aiuteremmo a crescere, a emanciparsi dai loro precedenti. La musica è importante, è un luogo privo di pregiudizi che altri mondi hanno. Se una persona esce dal carcere, è difficile che trovi un lavoro come baby sitter, ma se si presenta per fare il tecnico del suono nei concerti, è più facile che si assuma: è un mondo che ha bisogno di manodopera e che ha meno pregiudizi. Se vogliamo costruire sicurezza nel paese e prospettive di reinserimento si tratta di ragionare non con la pancia, ma con il cervello. Bisogna pianificare, fare fatica, organizzare, creare occasioni e aprire. La parola rieducazione, da più parti, non sembra più la più idonea, quando si parla di detenuti... La stessa Corte costituzionale più volte ha ribadito che la rieducazione dei detenuti è offerta di recupero sociale, integrazione. È molto difficile, anche perché se vediamo la composizione della popolazione detenuta, capiamo che una parte delle persone che arrivano in carcere già ha subito forme di esclusione sociale all’esterno. Ci sono persone con problemi psichiatrici, immigrati che hanno già fatto un percorso di emigrazione, tossicodipendenti, persone che vivono in povertà estrema. Il compito è molto complesso, è chiaro che è difficile chiedere al carcere di essere l’ultima frontiera del welfare. Ma in realtà è proprio questo: il carcere oggi è l’ultimissima frontiera del welfare. Se fallisce anche il carcere, è finita per quella persona. Lo sciacallaggio “bipartisan” sul corpo di Giulia Cecchettin di Francesco Damato Il Dubbio, 22 novembre 2023 Per quanto bipartisan lo sciacallaggio politico e la sua appendice mediatica della tragica fine di Giulia Cecchettin è stato, anzi è di uno squallore certamente prevedibile ma non per questo accettabile. Chi abbia cominciato per prima è difficile dire. Forse la sinistra cavalcando certe reazioni internettiane della sorella, Elena, della giovane assassinata da quell’aguzzino che alla fine si è rivelato il fidanzato Filippo Turetta. La congiunta, in particolare, facendo per me un po’ di confusione fra potere, al minuscolo, e Stato, con la maiuscola, ha definito l’assassinio di Giulia un omicidio di un potere, appunto, ancora patriarcale nella concezione dei rapporti sociali, affettivi e familiari e quindi di uno Stato rivelatosi incapace di prevenire, educare e quant’altro. La ciliegina sulla torta già intossicata ce l’ha messa il giornale debenedettiano della radicalità - Domani - scrivendo in fondo ad un titolo ispirato ad una frase di Elena Cecchettin - “Se tocca a me voglio essere l’ultima” - che delle leggi necessarie “Per educare alla libertà e all’affettività la destra ha paura”. Una destra - si deve dedurre - ancora attaccata alla già ricordata concezione patriarcale della società e della famiglia, da cui deriva la riduzione della donna a persona posseduta dall’uomo sino a diventarne vittima nel senso anche sanguinario della parola. La destra peraltro oggi guidata da una donna anche alla testa del governo- una giovane francamente difficile, con la sua storia personale, da immaginare come partecipe convinta di una simile concezione dei rapporti umani- non è rimasta naturalmente silenziosa o passiva davanti a questa rappresentazione di se stessa. Ma, ahimè, è scesa al livello della sinistra - o pseudosinistra - d’attacco pregiudiziale, antipatica - direbbe Luca Ricolfi - nel rivendicare superiorità morale ed educativa anche in questo, Vi è scesa rivendicando il merito dei femminicidi diminuiti, rispetto al passato, nel 2023 contrassegnato dal governo della Meloni. Un 2023 peraltro non ancora finito - vorrei ricordare al Giornale, che se n’è vantato - e perciò capace ancora di riservare brutte sorprese anche a questo modo di misurare, calcolare e quant’altro meriti e demeriti di una parte politica o dell’altra. Come si fa del resto in tema di migranti approdati sulle coste italiane. Piuttosto che proseguire su questa strada oscena della strumentalizzazione o dello sciacallaggio di turno, sarebbe ora che almeno di fronte a certi fenomeni drammatici come il femminicidio la politica scoprisse il dovere o quanto meno il buon gusto di non dividersi e di esercitare in positivo la pratica bipartisan. Cioè affrontando unitariamente e solidarmente quella che è ormai diventata un’autentica emergenza, senza sgambettarsi e intestarsi da soli successi più o meno effimeri. Mamme, artisti trap, destra patriarcale e sinistra permissiva: è caccia al colpevole di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 22 novembre 2023 Quella smania di trovare un responsabile che inquina il dibattito sui femminicidi. Lo spietato omicidio di Giulia Cecchettin sta suscitando un’ondata di empatia e un dibattito pubblico come raramente si era visto per un fatto di cronaca nera. È segno che la nostra società, anche a fronte della diminuzione dei crimini violenti, è oggi molto più evoluta e sensibile alla piaga dei femminicidi, ritenuti ormai socialmente intollerabili. Si sono mobilitate le istituzioni, promettendo una legge bipartisan che introduca corsi di affettività nelle scuole, si sono mobilitati i giovani e le giovani dei licei, che sono scesi in piazza e hanno ricordato con un “minuto di rumore” le vittime della violenza maschile. E poi intellettuali, sociologi, pedagoghi, editorialisti, personaggi dello spettacolo e dello sport, non solo a condannare la ferocia di un atto estremo come l’omicidio, ma anche a indagare e comprendere la cultura che alla base della sopraffazione di genere che si annida nei dettagli della vita quotidiana, l’ossessione del possesso che molti maschi hanno verso le loro compagne, il ruolo centrale dell’educazione. Nonostante i particolari morbosi da cronacaccia nera e il sensazionalismo da clickbait in cui sguazzano alcuni media, il dibattito provocato dalla tragica morte di Giulia Cecchettin è un fatto più che positivo che segna un avanzamento nella nostra consapevolezza. Peccato che questo prezioso momento di riflessione e mobilitazione collettiva sia accompagnato dalla solita schiera di soloni e bigotti con il ditino puntato e la predica pronta, o peggio ancora di aspiranti inquisitori. Costoro non hanno bisogno né interesse nel capire un fenomeno complesso e stratificato come la violenza sulle donne, vogliono soltanto trovare un colpevole, un capro espiatorio a cui accollare la responsabilità corale dei femminicidi. Per esempio le famiglie, sbattute sul banco degli imputati perché incapaci di insegnare ai propri figli maschi il rispetto delle donne. Lasciando da parte la volgarità degli insulti rivolti ai genitori di Filippo Turetta, anche loro con una vita segnata per sempre dal dolore e dall’angoscia, sono proprio le famiglie in quanto tali e, paradossalmente le madri a finire alla simbolica sbarra di questi giudizi violenti e superficiali. Fanno impressione in tal senso le parole della leghista ed ex magistrata Simonetta Matone ospite di Domenica in, che spara dal nulla: “Non ho mai incontrato soggetti gravemente maltrattati e gravemente disturbati che avessero delle mamme normali”. Secondo Matone, che rovescia il rapporto vittima-carnefice, le madri sarebbero responsabili di non ribellarsi alla violenza domestica, autorizzando implicitamente i propri figli a comportarsi in quel modo con le loro future compagne: “Prendere le botte dal padre e non reagire, far vivere il figlio in un clima di terrore e violenza e fargli credere che tutto questo è normale, impone al figlio un modello familiare”. Insomma la colpa non è di papà che ti picchia, ma di mamma che non ha la forza (o le “palle”?) per reagire ai soprusi. Facile no? In forma più civile ma altrettanto sciatta è intervenuto Paolo Crepet, l’onnipresente psicologo televisivo ha rispolverato un suo vecchio pallino, accusando entrambe le figure genitoriali, troppo protettive con i loro piccoli e immature come loro: “Sono i genitori i primi a voler essere eternamente giovani. E quindi è ovvio che i loro figli a loro volta non crescano”. Andiamo invece sul classico con la chiamata in causa dei cosiddetti “modelli negativi” che la società dello spettacolo offre alla nostra gioventù, su tutti la pericolosissima musica trap, ricettacolo di cultura sessista e testosteronica. Ad accusare i trapper non è stato un attempato boomer come Crepet ma l’attrice Cristiana Capotondi per la quale se ascolti quei testi “non poi c’è da sorprendersi se un giovane considera una donna un oggetto a cui togliere la vita”. C’è poi sullo sfondo una polemica politica un po’ triste e un po’ sciacalla . Diversi esponenti della sinistra ritengono infatti che i loro avversari non abbiano diritto a parlare di violenza di genere in quanto la destra sarebbe storicamente portatrice di una cultura maschilista e patriarcale. Lo ha sottolineato Lilli Gruber, attaccando per questo motivo Giorgia Meloni e precipitando in un surreale cortocircuito con la prima premier della storia repubblicana, una che, tra le altre cose, è cresciuta senza un padre in una casa di sole donne. Specularmente la destra punta l’indice contro il “lassismo” e la “cultura permissiva” della sinistra, che abbandona i giovani a se stessi, senza valori e senza disciplina. Destra e sinistra divise sull’educazione affettiva nelle scuole. Oggi l’ultima mediazione di Emanuele Lauria La Repubblica, 22 novembre 2023 Intesa in salita per introdurre in classe lezioni per sensibilizzare alle relazioni. Nel piano Valditara psicologi e influencer in classe. Al Senato l’ok al ddl femminicidi. Voci di contatti Meloni-Schlein. La disperata ricerca di unità, sulla lotta ai femminicidi, vivrà stamattina l’ultimo tentativo: un ordine del giorno unitario — maggioranza e opposizione insieme — sulla soglia minima dell’educazione affettiva nelle scuole. Ma che si arrivi a questo traguardo, al Senato, sono in molti a dubitare. Di certo, il clima che precede l’ultimo miglio del dibattito politico è contraddittorio. Da un lato, c’è il dichiarato intento comune di dare un segnale al Paese, sull’onda emotiva delle cento donne vittime e dell’omicidio di Giulia Cecchettin. Dall’altro, una bufera attorno al piano di sensibilizzazione negli istituti scolastici che oggi il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara presenterà assieme ai colleghi Roccella e Sangiuliano. Piano gravato dal contributo di un consulente, Alessandro Amadori, che in un libro autoprodotto disserta con tono scientifico sulle “donne cattive” che “agiscono come amazzoni giustiziere che vendicano l’intero genere femminile attraverso una totale svalutazione del maschile”. Parole che, in questo momento, non possono che accendere la protesta del centrosinistra. A fatica, stamattina, Valditara presenterà la risposta del governo alla violenza di genere: lezioni extracurriculari per studenti con il contributo di psicologi, avvocati, assistenti sociali. Il progetto vedrà protagonisti anche influencer, cantanti, personaggi amati dai giovani. E gli allievi, alla fine di questa esperienza, potranno produrre cortometraggi sul tema della violenza contro le donne da mettere a concorso. Un’iniziativa che, al di là del caso Amadori, viene considerata positiva ma non sufficiente dalle opposizioni. Poco più che un pannicello caldo. Il problema è la risposta normativa da dare sul tema dell’educazione affettiva nelle scuole. Oggi andrà al voto in Senato la legge contro le violenze di genere e domestiche che mira a rafforzare la tutela della vittima accrescendo l’attenzione verso i “reati spia” e inasprendo le misure di protezione preventiva. Il provvedimento fissa tempi stringenti per l’adozione delle misure cautelari, come l’utilizzo più rigoroso del braccialetto elettronico, e dispone l’arresto anche in “flagranza differita” con l’acquisizione di documentazione video-fotografica. Un testo che, proprio in seguito all’assassinio di Giulia, ha subito un’accelerazione: già approvato all’unanimità alla Camera, ieri ha visto lo stesso via libera unitario nella commissione Giustizia di Palazzo Madama. I gruppi parlamentari hanno ritirato tutti gli emendamenti. Ma si profila, per oggi, una battaglia sugli ordini del giorno. Le opposizioni, in particolare, hanno presentato diversi atti da far approvare dall’aula. Mirano all’istituzione di un’educazione all’affettività che, nelle intenzioni del Pd, dovrebbe essere oggetto di corsi nelle scuole di ogni ordine e grado. Vanno oltre i 5Stelle, che in un odg a firma di Alessandra Maiorino chiedono esplicitamente l’introduzione dell’ora di educazione sessuale, che esiste in altri Paesi europei. Ma su questo punto il centrodestra fa muro: c’è il no secco all’educazione sessuale anche nelle scuole superiori. In un campionario di proposte che operano dei distinguo non solo semantici, l’iniziativa di Fratelli d’Italia, portata avanti dal capogruppo Lucio Malan, parla di lezioni di “educazione al rispetto”. La contrapposizione esiste, malgrado la volontà dichiarata di marciare uniti contro i femminicidi. Anche se i leader dei partiti rappresentati al Senato cercheranno fino all’ultimo di trovare una convergenza su un ordine del giorno comune fra governo e minoranza. A Palazzo Madama si è diffusa con insistenza la voce di un dialogo fra la premier Giorgia Meloni e la segretaria del Pd Elly Schlein, con l’intento proprio di trovare modi e forme di un messaggio condiviso da lanciare dal Senato. Gli staff delle due esponenti dei fronti contrapposti smentiscono però contatti. Un velo di riservatezza copre le ultime trattative prima del voto. Patriarcato, violenza e femminicidi: intervista a Emma Bonino di Graziella Balestrieri L’Unità, 22 novembre 2023 “L’educazione affettiva? Mi piacerebbe che la scuola si occupasse del rispetto per l’altro: donna, omosessuale...” “Le donne spesso non vengono credute, anche le forze dell’ordine hanno bisogno di una formazione”. In Italia dal 2 gennaio ad oggi sono 102 le vittime di femminicidio. Il femminicidio è l’apice di una violenza che parte da lontano. Ne parliamo con Emma Bonino. Qual è ruolo degli uomini di fronte a tutto questo? Lo dico da anni alle riunioni femminili e femministe: guardate che non dovete sbrigarvela da sole, dovete assolutamente coinvolgere gli uomini. Quindi vedo con piacere, anche se molto in ritardo, sfogliando le pagine dei giornali e leggendo alcuni editoriali, che qualcuno ha iniziato a dire: “ma in effetti siamo parte principale di questo problema, c’eravamo distratti (tono ironico eh)…” . Benvenuti! Comincia -mi sembra- timidamente e con grandissimo ritardo, ad apparire sullo schermo l’assunzione di responsabilità o forse meglio qualche senso di colpa di uomini editorialisti. A loro dico: bene, così almeno iniziamo a seppellire quello stereotipo insopportabile del “se l’è cercata”. Quando si sente dire “è lei che lo ha portato a comportarsi così”… Beh in effetti io vedo pochissime donne andare in giro con il motosega! Eppure anche le donne sono frustrate, magari hanno perso il lavoro. Che poi un’altra forma di giustificazione è: ah ma lui aveva perso il lavoro, era depresso, turbato… E perché, le donne non sono depresse o turbate? È fondamentale che questo stereotipo cominci a rompersi, anche attraverso l’ammissione del fatto che l’uomo è parte integrante del problema, se non proprio il problema principale. Mi dispiace che per tanti anni i gruppi femminili e le femministe non mi abbiano ascoltato, era sempre un fai-da-te, parlarsi tra di noi. Non sono mai stata ascoltata su questo, e non so perché. La donna percepisce uno stipendio più basso rispetto a quello di un uomo: non è lo Stato che autorizza questa mortificazione ? Sì. Questo lo abbiamo denunciato Ho visto non so quanti articoli ben documentati sulla disparità di salario. È colpa di un altro fenomeno, ovvero che le competenze e il merito non sono valorizzati. Sono valorizzati altri criteri. Però adesso voglio dire a questi uomini che cominciano a prendere coscienza, che non si mettano seduti, ma che si diano da fare . Io ho lanciato questa “suggestione”: vorrei vedere una grande manifestazione organizzata da uomini, con uomini in piazza, insieme alle donne ma vorrei che venisse organizzata da loro e che pubblicamente rendano esplicito e plastico questo loro “ripensamento”. Non mi importa di sapere se in queste piazze si possono portare le bandiere…. è un genere di dibattito che non mi interessa. Mi interessa che questa assunzione di responsabilità non si limiti ai sensi di colpa che non aiutano nessuno, ma che si muova in direzione di un maggiore attivismo, di attività esplicita e pubblica. Si parla molto di educazione affettiva e di introdurla come materia scolastica. Ma la famiglia in tutto questo? Passa molto dalla famiglia ma non tutto. Perché i ragazzi oggi e gli uomini di oggi non è che hanno solo la famiglia come unico riferimento. Ci sono anche i social, che spesso hanno una funzione veramente deleteria. Ci sono i gruppi a scuola, i bulli. La famiglia è un punto di riferimento molto importante, però stiamo attenti perché ci sono stimoli che arrivano da molte altre parti. Non è anche colpa del linguaggio dei media che tende sempre a giustificare il maschio? Certo, è proprio un riflesso condizionato che fa parte dello stereotipo di cui parlavamo prima. E tornando alla famiglia, le devo dire che ho profonda pena, ma veramente profonda, non solo per la famiglia di Giulia ma anche per i genitori del ragazzo in questione, i quali passeranno la vita con i sensi di colpa, a chiedersi dove avranno sbagliato, perché non hanno visto. Mi pare che il padre del ragazzo abbia detto: “sarà dura ma è pur sempre mio figlio” e che “quando me la sentirò andrò dai genitori di Giulia”. Alla fine, in modo completamente diverso, ma sono due famiglie “distrutte” . Anche perché non si parla di ambienti degradati, anzi.. È un fenomeno che attraversa generazioni, ceti sociali, è veramente trasversale e questo è il dramma della situazione, dove non è proprio facilissimo trovare delle soluzioni. Per esempio, l’educazione affettiva che io non so bene in cosa consista francamente e chi se ne occupa prima o poi ce lo spiegherà. Bisognerà prima formare i formatori, perché è una materia molto delicata e c’è qualche ignorante che la confonde con l’educazione sessuale. Stiamo parlando di una cosa per il momento vaga. Più modestamente a me piacerebbe che la scuola si occupasse del rispetto dell’altro, che sia donna, disabile, omosessuale o altro. Il rispetto dell’altro che è ovviamente previsto dalla Costituzione ma che è anche molto difficile da insegnare. O basterebbe riprendere in mano l’Educazione Civica… Credo che sarebbe importante anche perché stiamo parlando proprio di educazione civica, cultura, patriarcato. A me pare e mi auguro che qualche signore/personaggio più o meno autorevole e che abbia un qualche seguito, davvero si lanci in queste manifestazioni pubbliche, e ripeto pubbliche, per far sentire la loro voce. Perché fino ad ora sono sempre stati al riparo, nessuno li ha mai interpellati e loro non si sono fatti certo avanti. Alcuni hanno alzato le mani, gli è bastato dire “non siamo tutti così”. Però poi si sono girati dall’altra parte…. Questo atteggiamento deve finire e tutta una comunità deve esprimersi su questa intollerabile situazione, in attesa di commuoverci per la prossima vittima. Una questione di cultura da sempre, una violenza nascosta anche nelle battutine, nelle barzellette, quando dicono: “stavo solo scherzando” o “non è un mestiere da donna”… Adesso si crede alla violenza, ma quando una donna si presenta con gli occhi gonfi per le botte però. Tutte le altre forme che rispondono allo stalking - e non so perché lo abbiamo chiamato in inglese, così non lo capisce nessuno, io lo chiamo persecuzione - di quello che hai lasciato e ti ossessiona con venti messaggi al giorno, ti segue come un’ombra…questo è molto difficile da denunciare e quando qualcuna si azzarda è difficile che venga creduta. Si parte subito con: signora non esageri, forse sta drammatizzando. E quando si va a denunciare, anche le forze dell’ordine magari non credono alla persecuzione che la donna subisce, per questo secondo me anche le forze dell’ordine hanno bisogno di una formazione. Quando Salvini parla di castrazione chimica e galera a vita come punizione… Non è aumentando le pene che si sconfigge un fenomeno di questo tipo. Questo è uno stato mentale che viene da lontano e che si è sicuramente aggravato con questa maggioranza e mi fermo qui. La sinistra in tutto questo? Tradizionalmente la sinistra che ho conosciuto dagli anni 70 in poi sui diritti civili è sempre stata molto timida. Noi abbiamo cercato per molto tempo di far capire che i diritti civili sono spesso diritti sociali. Le persone, con tutto il rispetto per i sindacati etc etc, non sono solo gli operai della fabbrica, perché anche l’operaio della fabbrica quando torna a casa affronta altri tipi di problemi. Questo negare la complessità e lo stretto rapporto tra diritti civili e diritti sociali e benessere dei cittadini, come se fosse un salame da tagliare a fette, evidentemente non regge. Puoi parlare di pensioni, ma il pensionato a casa ha anche altri problemi da affrontare. “Il patriarcato è ferito, per questo è più feroce”, parla Ida Dominijanni di Graziella Balestrieri L’Unità, 22 novembre 2023 “Questo è un post patriarcato: ferito dalla libertà femminile, reagisce in modo efferato. È ovvio che in paesi come la Svezia i femminicidi sono più che da noi, perché lì le donne sono più emancipate”. L’uccisione di Giulia ha riaperto una ferita politica, sociale e culturale. Di femminicidio, di patriarcato e di come il patriarcato si è adattato e si adatta ci parla Ida Dominijanni, giornalista, scrittrice, femminista. Ieri uomo di 70 anni a Fano ha strangolato e ucciso sua moglie. Da 20 ai 70 anni, la violenza copre ogni età… Si, la violenza copre ogni età e si sentono nei talk, in televisione dei dibattiti inascoltabili, perché c’è un vasto schieramento di centro e di destra, schieramento mediatico e non solo politico, che continua a dire che non è un problema sociale, né politico, che è un problema individuale, di criminalità individuale. Questo è veramente inascoltabile. Devo dire che sono molto molto colpita positivamente dalla reazione delle studentesse e degli studenti di Padova che hanno messo le cose molto in chiaro ieri, dicendo che il problema è sociale e politico e che loro non si faranno ridurre all’immagine delle donne in lutto silenzioso, hanno detto che urleranno, che vogliono bruciare tutto e quindi ci sarà una reazione politica giovanile a questa tragedia di Giulia. È un fatto molto importante, questa reazione delle amiche, degli amici e non solo, calcolando che c’era mezza Padova in piazza con loro, che risponde sulla linea che ha dato egregiamente la sorella di Giulia, questa meravigliosa sorella. Sorella che è stata anche attaccata… Si certo, e questa rivolta giovanile risponde agli attacchi che lei ha avuto, le dà ragione, e fa anche capire come questa destra che si vuole maggioritaria in realtà sia minoritaria. Però al Governo c’è la destra… Al Governo c’è la destra e dobbiamo fare conto con questa destra. Prendiamo Amadori, che dovrebbe coordinare il gruppo che istruisce questa educazione affettiva nelle scuole superiori: è un signore, che tra l’altro il ministro paga profumatamente, che ha scritto un libro che si intitola La guerra dei sessi nel quale sostiene che il problema è la cattiveria, sostenendo che le donne sono più cattive degli uomini, che non c’è un problema maschile e che in giro c’è un grande complotto femminile per ribaltare il potere. Diciamo che sono le solite stupidaggini da maschio alfa. Fino ad un anno fa si leggevano queste sciocchezze nei siti dei maschi alfa, siti minoritari che attaccavano le femministe sulla base di queste idiozie. Adesso queste idiozie sono al governo, però noi risponderemo con la verità di chi veramente si sente colpita da questa vicenda così, colpita in prima persona, perché colpisce tutte. In giro si legge di un manuale da consegnare alle ragazze per riconoscere i campanelli d’allarme: ma serve a qualcosa? Ma intanto sgombriamo il campo da una tentazione ovvero quella di colpevolizzare di nuovo le donne che non si accorgono dei campanelli d’allarme. Poi non è facile accorgersi dei campanelli d’allarme, perché ognuna di noi ha avuto ed ha una vita sentimentale. E le relazioni sentimentali sono fatte di chiaro scuri, non sono tutte limpide e solari. Una donna si può trovare un ragazzo o un uomo davanti con dei comportamenti che possono essere sospetti ma che possono essere anche normalmente malinconici, per esempio, o normalmente aggressivi. È difficile interpretare come campanelli d’allarme cose che spesso campanelli d’allarme non sono. Per esempio: il padre di questo ragazzo che ha ucciso Giulia continua a dire che era un figlio modello, che non gli aveva mai dato problemi, era sempre andato bene a scuola. Io ci credo perché purtroppo una delle cose che abbiamo dimenticato è che spesso la perversione si cela nella normalità. Anzi proprio le persone che sembrano più conformi e conformiste spesso poi hanno delle manifestazioni di violenza efferata. Quindi sulla questione dei campanelli d’allarme ci andrei abbastanza piano. Ci andrei piano anche sulla “psicologizzazione” di questa storia, perché certamente ci sono cause psichiche molto profonde che però non sono solo individuali, sono anche questi sintomi sociali, perché la psicoanalisi riguarda il legame sociale non riguarda solo l’individuo. Però noi non possiamo analizzare dall’esterno questa dimensione, quello che possiamo fare è riaffermare il carattere sociale e politico o, meglio, politicizzabile di questa vicenda dei femminicidi. Allora su questo vorrei dire due cose essenziali. Punto primo: c’è tutta una parte di opinion maker che si stupisce del fatto che in Italia ci siano meno femminicidi che nei paesi del nord Europa e ne trae la conclusione che quindi è sbagliato attribuire il femminicidio ad una cultura patriarcale. Perché loro dicono “in paesi meno patriarcali del nostro i femminicidi aumentano”. Dietro questa obiezione c’è una totale ignoranza di che cos’è il patriarcato. Il patriarcato è un sistema socio simbolico transculturale, che cioè si ritrova sotto varie forme in diverse culture, non viene sconfitto dalla democrazia. Questo modo di ragionare è molto figlio di un ventennio in cui si è attribuito il patriarcato solo al mondo islamico, come se l’occidente se ne fosse liberato è come se via via che si va verso la parità, i diritti, etc il patriarcato si estingue: non è così! Il patriarcato si adatta. Il problema è: che tipo di patriarcato abbiamo davanti noi oggi? Abbiamo davanti un patriarcato che in verità io chiamo da molti anni un post patriarcato, un post patriarcato diciamo che non è più quello tradizionale, in cui le donne non c’era neanche bisogno di ammazzarle, perché erano addomesticate. Adesso abbiamo un patriarcato ferito, ferito dalla libertà femminile guadagnata, che quindi reagisce a questa libertà in modo efferato. E questa vicenda di Giulia è molto paradigmatica sotto questo punto di vista: c’è chiaramente una competizione maschile da parte di uno che non si rassegna al fatto che lei si laureasse prima di lui, che fosse più brillante, lo aveva lasciato, quindi c’è una reazione efferata al fatto che esattamente il patriarcato non è più quello di una volta ed è molto ferito dalla libertà femminile. Questo vuole anche dire che nei paesi più sviluppati questa dinamica si accentua, nei paesi più modernizzati diciamo. Quindi, è ovvio che in Svezia i femminicidi sono di più che da noi, proprio perché in Svezia le donne sono più emancipate. E poi noi viviamo in un mondo in cui il romanzo di formazione maschile è ridiventato un romanzo di formazione maschile militare e violento. Queste cose, che stanno accadendo in Italia, avvengono comunque in un contesto internazionale di guerra, di rivalutazione dell’eroismo, di rivalutazione della mascolinità, del virilismo più becero, in un quadro in cui di giorno in giorno si scoprono le violenze sessuali interne a quello che sta succedendo in Israele e a Gaza, fra maltrattamenti e stupri. È assolutamente demenziale non capire che questo quadro di violenza generalizzata influisce sui giovani maschi, come pure influisce un quadro culturale dove la violenza è stata completamente sdoganata: al cinema, nelle serie televisive, in tv. Queste sono cose che influenzano moltissimo la formazione di un giovane uomo. Se non viene messa a tema la questione di genere in automatico scattano i ruoli di genere più tradizionali, quindi è estremamente importante tirarla fuori, far capire a chi cresce che la relazione con l’altra, l’altro deve essere una relazione fatta di rispetto e di libertà reciproca. La violenza sulle donne c’è sempre stata, possibile che non sia cambiato nulla? Il successo enorme che ha avuto il film di Paola Cortellesi naturalmente dice che quel film tratta di un problema tuttora presente. Non siamo come eravamo negli anni Quaranta ovviamente. Insisto su un punto: in Italia c’è stato un enorme movimento femminista da cinquant’anni a questa parte e questo ha ferito il patriarcato e c’è una reazione esattamente a questo, perché gli uomini non hanno ancora trovato un modo per rapportarsi a donne che non sono più spontaneamente sottomesse. È una questione con cui gli uomini non hanno ancora imparato a fare i conti. Sono solo confortata dal fatto che dopo l’omicidio di Giulia si sia aperto un dibattito anche tra uomini in quanto uomini. Polemica Gruber-Meloni: quanta importanza ha dire “la Presidente” piuttosto che farsi chiamare “il Presidente? Ma moltissima importanza. La Meloni ha risposto dicendo che lei viene da una famiglia di donne, ed è verissimo questo, nella sua autobiografia la madre ha un ruolo molto importante mentre il padre no. Però lei da questo punto di vista è portatrice di un’enorme ambiguità perché è figlia di un’epoca di cinquant’anni di femminismo, di presa di coscienza femminile, di modificazione della famiglia tradizionale e poi sulla scena pubblica e politica quello che lei porta è il maschile invece del femminile, provvedimenti che non vanno certo nella direzione di un aiuto per le donne, e soprattutto un’ideologia di Dio, Patria e famiglia che esattamente fa da sfondo e da supporto al patriarcato. Cosa pensa dell’Educazione affettiva? In linea di principio io sono d’accordo però bisogna stare molto attenti, ovviamente è una cosa positiva se è un’educazione pensata in senso emancipativo, se invece è un’educazione pensata per riaddomesticare le donne oppure per dare delle direttive etiche, allora non sono d’accordo. Bisogna capire che il problema è un problema trasversale, molto profondo, che non si risolve meglio con un governo di sinistra o peggio con un governo di destra. Il problema è trasversale, però un conto è affrontarlo nell’ambito di una politica orientata alla libertà e all’emancipazione delle donne, un conto è affrontarlo all’interno di una visione del mondo come quella di Amadori, che dice che le donne vanno punite perché sono cattive oppure come quella della Presidente del consiglio, che dice: Dio patria e famiglia, fa una politica militarista e nazionalista e che questa è una politica virile. Se ne dovrebbe solo andare da lì Amadori, come dovrebbe essere cacciato il consigliere veneto che ha gettato fango sulla sorella di Giulia. Migranti. Patto Italia-Albania, sì al ddl di ratifica dell’Aula. Esultano le opposizioni di Giacomo Puletti Il Dubbio, 22 novembre 2023 La svolta dopo le comunicazioni di Tajani Il testo tornerà in Parlamento per il via libera. L’accordo tra Italia e Albania sui migranti firmato dalla presidente del Consiglio Giorgia meloni e dal premier albanese Edi Rama si trasformerà in un ddl che sarà ratificato in Parlamento. È quanto spiega la risoluzione di maggioranza approvata ieri dalla Camera con 189 sì e 126 no dopo le comunicazioni, in mattinata, del ministro degli Esteri Antonio Tajani. Comunicazioni dalle quali è subito emersa la necessità del passaggio parlamentare e dopo le quali le opposizioni hanno parlato di “giravolta” da parte del governo. Da due punti di vista differenti, però. Cioè presentando due risoluzioni distinte: la prima, firmata dai capigruppo di Pd, Italia viva, Azione, Alleanza Verdi Sinistra e Più Europa; la seconda, espressione del solo Movimento 5 Stelle. L’Aula ha poi approvato all’unanimità, con 317 sì e nessun voto contrario, il dispositivo della prima risoluzione che prevede l’approdo in Parlamento del testo, mentre ha bocciato con 130 sì e 187 no le premesse della stessa risoluzione. La Camera, si legge nel testo firmato dai capigruppo di maggioranza, “impegna il governo ad adottare ogni iniziativa necessaria, anche tramite un disegno di legge di ratifica, per un’efficace e urgente attuazione del Protocollo” Italia- Albania sui migranti. Sottolineando poi che l’accordo “rappresenta una forma innovativa di cooperazione che potrà essere preso a modello per future forme di cooperazione in ambito migratorio anche con altri importanti partner” e che “la lotta all’immigrazione irregolare è una priorità che il nostro paese non può affrontare da solo, tanto più in una fase in cui il contesto internazionale accresce la pressione migratoria”. Ma l’opposizione è andata all’attacco. L’accordo, spiega il testo targato Pd- Iv- Azione- Avs- PiùEu, “prevede aspetti di cruciale rilievo sul piano giuridico e immigratorio” e “la mancata ratifica dell’accordo con legge, pregiudicherebbe anche il possibile vaglio di legittimità della Corte costituzionale” . Il passaggio parlamentare è dunque necessario, e sul punto la maggioranza ha dato parere favorevole. Un cambio di strategia accolto con soddisfazione dalle opposizioni. Per la leader del Pd, Elly Schlein, “il governo va a sbattere il muso sulla Costituzione” annunciando battaglia in Parlamento perché “questo accordo ha profili di violazione del diritto internazionale e della Costituzione”. Di “ravvedimento operoso” parla il segretario di PiùEuropa, Benedetto Della Vedova, mentre per il leader di Azione, Carlo Calenda, l’accordo non è altro che “fuffa elettorale a spese dei contribuenti”. Il Movimento 5 Stelle ha preferito invece presentare una sua risoluzione perché, spiegano fonti pentastellate, “oltre alla questione Albania” il testo “tratteggia in maniera più articolata la questione immigrazione e rilancia i capisaldi della nostra terza via”. La lettura del Protocollo, si legge nella risoluzione, “lascia oscuri non pochi aspetti della vicenda, in primis la sua base giuridica, la compatibilità con l’ordinamento giuridico nazionale e comunitario”, nonché “alle successive azioni e misure che saranno intraprese, non definite, ma solo genericamente menzionate”. Il deputato Alfonso Colucci ha parlato di “una redenzione di Tajani, se non la vogliamo chiamare una giravolta”. La risoluzione è stata poi votata per parti separate alla Camera e alcuni punti sono stati approvati dall’Aula. Ma il botta e risposta è andato avanti per buona parte del pomeriggio. Da un lato, Forza Italia che parla di un governo “che agisce e porta a casa risultati” e la Lega che descrive l’Italia come “di nuovo protagonista nel Mediterraneo”; dall’altro, Sinistra Italiana che commenta la decisione sulla ratifica come “una vittoria del Parlamento” e Italia viva che parla di “una goccia nel mare” perché l’accordo “riguarderà tremila persone e il trasferimento in Albania sarà gestito interamente da personale italiano”. Una discussione che, a questo punto, proseguirà quando il ddl di ratifica arriverà in Parlamento. Migranti. Le Ong: “L’accordo Meloni-Rama viola Costituzione e diritto internazionale” di Federica Rossi Il Manifesto, 22 novembre 2023 “L’Italia chiede a paesi come Tunisia, Libia e adesso anche Albania di cooperare nella gestione delle sue frontiere, sostenendo strumentalmente di non potercela fare da sola. Ma l’accordo con Tirana è contrario al diritto internazionale”, afferma Filippo Miraglia, di Arci immigrazione. L’occasione è una conferenza stampa sulla recente intesa tra la premier Giorgia Meloni e il suo omologo d’oltre Adriatico Edi Rama che il Tavolo immigrazione e asilo, rete delle principali organizzazioni italiane che si occupano di immigrazione, ha tenuto ieri nel centro di Roma. “L’accordo è in contrasto con la direttiva 32 del 2013. La norma Ue stabilisce che l’esame deve essere effettuato all’interno del territorio dello Stato membro”, spiega Riccardo Noury. Il portavoce di Amnesty International sottolinea come nell’accordo non compaia la menzione esplicita di esclusione dei minori e vulnerabili dal trattenimento in Albania: “questo potrebbe porre le basi per l’attuazione di pratiche di sbarchi selettivi che già in passato sono state considerate illegittime”, afferma. Per quanto riguarda gli aspetti collegati ai salvataggi nel Mediterraneo Giorgia Linardi, di Sea Watch, dice: “Le persone soccorse in mare devono essere sbarcate in un porto vicino e l’Albania non si può considerare tale”. Mentre Flaminia Delle Cese, avvocata di International Rescue Committee Italy, concentra le sue critiche sulla privazione della libertà personale dei richiedenti asilo: prima della detenzione vanno valutate tutte le misure alternative e ogni caso deve essere processato individualmente. L’accordo, infatti, fa riferimento alla “permanenza” dei migranti nelle due strutture albanesi, ma de facto si tratta di una forma di detenzione. Non è ancora stato chiarito se per un massimo di quattro settimane, come prevedono le procedure accelerate di frontiera, o 18 mesi, come previsto nei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr). Un altro capitolo ricco di problemi è quello economico: per ora di certo c’è solo il terreno dove sarà realizzata la struttura, messo a disposizione dal governo albanese, e il fatto che il personale sarà italiano, dunque verosimilmente retribuito come fosse in trasferta. “La spesa di questo piano è dieci volte più alta rispetto ai finanziamenti ordinari ma effettivi che si potrebbero fare alle prefetture o ai comuni”, spiega Cristina Molfetta di Fondazione Migrantes. Anche per questo le diverse associazioni chiedono di impegnare quelle risorse per una maggiore pianificazione del soccorso in mare e dell’accoglienza di chi arriva in Italia. Anche perché, sostengono, i numeri degli sbarchi non sono tali da giustificare un’emergenza e quelli dei centri in Albania non saranno comunque risolutivi (151mila le persone arrivate via mare nel 2023; 3mila quelle che, al massimo, potranno essere mandate contemporaneamente al di là dell’Adriatico). “A guadagnarci sarà solo l’Albania”, taglia corto il deputato Pd Matteo Mauri, presente alla conferenza stampa con i colleghi di partito Giuseppe Provenzano e Graziano Delrio. Ad affacciarsi, un po’ a sorpresa, anche la segretaria dem Elly Schlein, di ritorno dal parlamento con la notizia che il protocollo dovrà passare dalle camere: “L’accordo viola la Carta, la quale afferma che lo straniero ha diritto di chiedere l’asilo sul territorio della Repubblica”.