Quando sfugge il significato della “sicurezza” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 21 novembre 2023 Uno dei nuovi reati proposti vorrebbe parificare, nella sanzione di 8 anni, chi in un carcere “usi atti di violenza o minaccia” con chi solo pratichi “resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti”. Il populismo penale come analgesico a buon mercato all’ansia sociale, certo. La moltiplicazione dei reati pescati all’amo dei talk show tv d’area, anche. Ma la vera cifra del testo del disegno di legge pubblicizzato dalla maggioranza come ennesimo “pacchetto sicurezza” è forse lo slittamento del significato delle parole e degli istituti giuridici. Lampante in due esempi. Uno è il compasso dell’immunità riconosciuta agli agenti dei servizi segreti per i reati eventualmente compiuti nell’esercizio delle proprie funzioni: immunità che, diversamente da quelle già esistenti per gli 007, verrebbe ora a cuor leggera traslata ed estesa anche alle loro “fonti”, pur se certo non ne condividono né i vincoli di lealtà istituzionale né le catene di comando. L’altro evidente esempio é che nessuno, nel parlare di carcere, metterebbe mai sullo stesso piano la resistenza passiva con le violenze di una rivolta. E invece uno dei nuovi reati proposti vorrebbe parificare, nella sanzione di 8 anni, chi in un carcere “usi atti di violenza o minaccia” con chi solo pratichi “resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti”. C’è una bella differenza. Assumersi la responsabilità di decidere per protesta di non collaborare a un ordine ricevuto può se mai, per un detenuto, essere fonte di procedimenti disciplinari interni, può magari pesare negativamente sulla concessione o meno di un beneficio penitenziario: ma per slittare da resistenza passiva a rivolta occorre, al legislatore, una certa faccia tosta proprio nei giorni in cui per due ravvicinate volte la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo condanna l’Italia per non aver assicurato cure mediche tempestive e adeguate a un detenuto esposto perciò a “trattamento inumano e degradante, e per aver nel 2016 arbitrariamente trattenuto e (mal)trattato quattro stranieri in un Centro richiedenti asilo. E in un universo in cui, più in generale, a violare sistematicamente e annosamente le regole è proprio l’autorità statale - che stipa i detenuti in celle nel 35% degli istituti prive dei 3 mq. minimi calpestabili a persona, che lascia senza assistenza i 9 detenuti che ogni 100 hanno una diagnosi psichiatrica grave, e che ha fatto arrivare questa estate dopo 26 anni l’acqua corrente nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere - verrebbe quasi curiosità di retroproiettare questa futuribile norma sulle decine di migliaia di detenuti che anni fa con lo “sciopero del carrello” raccolsero l’invito dei radicali alla resistenza passiva del “satyaagraha” per le carceri. Fermezza (agraha) nella verità (satya). Incinte e in cella. La tv spazzatura crea l’allarme, i governi eseguono di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 novembre 2023 Gli esponenti del governo Meloni lo hanno detto chiaramente. La norma del pacchetto sicurezza, che introduce la possibilità di trattenere in carcere le donne incinte e con figli piccoli (fino a un anno di età), è il risultato del fenomeno, come ha dichiarato il capo della Lega Matteo Salvini, delle “borseggiatrici Rom che usano bimbi e gravidanza per evitare il carcere e continuare a delinquere”, associando così un’etnia al reato. Ancora una volta, a dettare legge sono i media. Questo accade con tutti i governi, è successo quando c’era il guardasigilli Alfonso Bonafede, all’epoca dell’indignazione pompata dal Massimo Giletti sulle “scarcerazioni” durante l’emergenza Covid, e subito per reazione c’è stato un intervento legislativo altrettanto disumano. Accade ora con l’attuale governo quando “Striscia la notizia” ha creato allarme sociale sulle borseggiatrici rom della metropolitana di Milano che approfitterebbero della attuale legge sotto accusa. In pratica, si fa politica con la cronaca nera. Il problema della “sicurezza” mette in luce le dinamiche dei rapporti tra l’agenda della politica, dei media e del pubblico. Non è facile individuare quale dei tre attori abbia scelto di prestare attenzione di volta in volta al fenomeno, ma è interessante osservarne le influenze reciproche. Dai discorsi dei politici, ai lanci di agenzia sino ai telegiornali, la sicurezza si definisce come lotta all’immigrazione, al degrado urbano, ora alle “borseggiatrici rom” e in genere al problema della criminalità nelle città. I cittadini assistono e partecipano alle questioni sollevate dalla politica e richiamate dai media che riguardano, di fatto, la qualità della vita e il benessere individuale e collettivo. Infatti, vivere in un contesto sentendosi al sicuro significa poter perpetuare con serenità il proprio stile di vita. Non è più sufficiente registrare il calo dei reati per rendere il cittadino più sicuro, se il quartiere in cui abita è segnato da uno stato di abbandono e di degrado o se vive in un clima di incertezza, paura e angoscia. A questo si aggiunge il ruolo dell’informazione. È il nero della cronaca nei telegiornali e nelle trasmissioni televisive di approfondimento, quelle che raccontano quotidianamente reati di ogni tipo, delitti efferati e storie di vittime e di carnefici. Fatti di cronaca dei quali i media hanno amplificato emozioni e riflessi all’esterno, in una sorta di slalom mediatico che, influenzando la pubblica morbosità, si colloca oltre il recinto o il limite della normalità. E c’è appunto la politica che asseconda. L’allarme sulle borseggiatrici rom è un fenomeno che esiste, seppur estremamente minoritario. Ma attraverso l’amplificazione dei mass media, si è riusciti a dare impulso attraverso un pacchetto sicurezza che in un solo colpo abbatte una legge, frutto di un lungo percorso - tra riforme e sentenze della Consulta - che ci ha reso un Paese più civile e aderente al dettame della Costituzione italiana. Ma ritorniamo alle borseggiatrici rom incinte. Dalla criminalizzazione dell’aborto si passa anche alla criminalizzazione della gravidanza. Viene, così, in un solo colpo, abbattuto il diritto per le madri di vivere fuori dalla cella, accedendo a forme alternative o al differimento della pena, se in gravidanza o con bambini e bambine fino a un anno di età. In sostanza diventa una eccezione selettiva e restrittiva. Eppure non è assolutamente vero che evitano automaticamente il carcere. Alle rom la custodia cautelare in carcere viene applicata senza difficoltà perché considerate inaffidabili. Molti studi evidenziano che negli istituti penitenziari italiani ed europei, la sovrarappresentazione di rom e stranieri risulta ancor più marcata in riferimento al genere femminile e ai minori. Questo fenomeno, confermato dalla netta prevalenza di detenute rom nei reparti nido e nelle carceri minorili, è stato ricondotto a una “discriminazione strutturale” di tali soggetti dovuta sia alle modalità di intervento delle istituzioni penali, sia alla condizione di esclusione nella quale essi si trovano a vivere. A caratterizzare queste persone è soprattutto l’isolamento sociale e culturale di cui sono vittime, le difficoltà di accesso ai servizi pubblici e l’isolamento abitativo. La risposta penale in senso repressivo è quindi il risultato di una cultura che tende a colpevolizzare gli individui per la loro condizione disagiata piuttosto che elaborare progetti politici e sociali che la riducano. Gli indicatori di cui disponiamo sulla condizione dei rom che entrano nel circuito penale mostrano che essi non solo sono fortemente discriminati rispetto agli italiani, ma ricevono anche un trattamento peggiore di quello solitamente riservato agli stranieri. Vengono condannati più spesso e hanno periodi di detenzione cautelare più lunghi. Un caso particolarmente emblematico riguarda le ragazze rom, che rappresentano la quasi totalità delle detenute degli istituti di pena minorili. Le giovani rom vengono incarcerate più spesso non perché hanno commesso reati più gravi delle coetanee che invece riescono a uscire dal circuito penale, ma bensì si trovano in un istituto detentivo, nella maggioranza dei casi, perché non hanno una situazione socio- familiare che corrisponda ai requisiti per assegnare una misura diversa dalla carcerazione. Questo fenomeno è così diffuso che coinvolge spesso anche donne incinte, come nel caso della giovane rom che ha partorito nel carcere di Rebibbia senza assistenza medica. Oppure, peggio ancora, il caso della rom detenuta al carcere di San Vittore. È stata portata in ospedale dopo essersi sentita male, ma il bambino è nato morto. Ma le vere notizie di cronaca enfatizzate dai programmi come “Striscia la notizia”, sono le borseggiatrici. Il programma di Antonio Ricci detta l’agenda politica sulla sicurezza e il governo esegue. Mettono in cella mamme e bambini. Odio, razzismo e classismo, per un pugno di voti di Susanna Ronconi e Grazia Zuffa L’Unità, 21 novembre 2023 Nell’aprile di quest’anno, la campagna Madri Fuori, dallo stigma e dal carcere, con i loro bambini e bambine ha mobilitato molte donne e associazioni in tutta Italia in difesa delle donne detenute madri: in gioco i loro diritti fondamentali e quelli dei loro figli e figlie. Allora, mentre in Parlamento si discuteva su come lasciare definitivamente alle spalle lo scandalo dei bambini che crescono in carcere insieme alle madri, Fdl rilanciava una iniziativa legislativa finalizzata a togliere la responsabilità genitoriale a tutte le donne condannate in via definitiva. Ci siamo opposte/i allora alla grave violazione dei diritti delle donne e dei bambini, contro una legge che avrebbe segnato molti passi indietro rispetto alle norme attuali, che consentono alle madri condannate forme di alternativa al carcere, una legge che avrebbe punito tutte in modo indiscriminato, e sarebbe ricaduta con maggiore sofferenza sui più piccoli. La campagna ha portato all’attenzione pubblica il tema della maternità in carcere, ha concorso a chiarire i termini ideologici, securitari e punitivi della proposta di FdI, il cui iter è parso al momento fermarsi. Ci siamo dette, però, che un compito importante della campagna Madri fuori sarebbe stato quello di monitorare l’iter di quella proposta di legge, e di altre eventuali iniziative contro le donne detenute. Ciò che puntualmente sta accadendo. La guerra contro le donne detenute madri continua. Il “pacchetto sicurezza” del governo Meloni, un condensato di nuovi reati, nuovi aggravi di pena e securitarismo autoritario, torna sulla maternità: il diritto, per le madri di vivere fuori dalla cella, accedendo a forme alternative o al differimento della pena, se in gravidanza o con bambini e bambine fino a un anno di età, diventa una eccezione selettiva e restrittiva. Nella formulazione di questa nuova norma il criterio di esclusione è il “pericolo di commissione di ulteriori delitti”, cioè di recidiva. I media l’hanno già battezzata legge anti-borseggiatrici, del resto gli esponenti del governo non hanno fatto certo mistero della finalità: colpire le donne Rom. E in effetti la norma ripropone tutti i peggiori stereotipi di stampo razzista. Ma non è solo questo: la recidiva, per la gran parte delle donne detenute, non riguarda certo i crimini gravi, ma al contrario i reati minori, a cominciare da quelli contro il patrimonio. Sono le donne Rom, certo, ma sono anche le donne povere e le donne che usano droghe. La norma dunque non solo è razzista ma classista: va a colpire le donne che nella popolazione carceraria sono le più fragili e le più escluse. Ci mobilitiamo e ci opponiamo contro questa norma che umilia e punisce le donne e che colpisce i più piccoli. Ci mobilitiamo e ci opponiamo contro tutto il “pacchetto sicurezza”, soprattutto laddove attacca, mortifica e lede con nuovi reati e nuove pene, i diritti di chi è detenuto/a. Cosa succederà ai bambini messi in carcere con il nuovo pacchetto sicurezza del governo Meloni? di Luca Pons fanpage.it, 21 novembre 2023 Stop al divieto di mandare in carcere le donne incinte o con figli fino a un anno di età. La nuova norma proposta dal governo Meloni nel Pacchetto Sicurezza prevede che in caso di condanna anche una donna con figlio piccolo possa finire in un Icam. Oggi, è obbligatorio per il giudice rinviare la pena in caso di condanna, mentre l’esecutivo vuole renderlo solo facoltativo. Concretamente quindi una donna condannata potrebbe finire in carcere, o meglio in un Icam (Istituto a custodia attenuata per le madri), anche se è incinta o ha un figlio piccolo. Il governo ha detto esplicitamente che è una norma per colpire le donne incinte che effettuano scippi sui mezzi di trasporti. Michele Miravalle, ricercatore che cura il rapporto sulle condizioni della detenzione in Italia per l’associazione Antigone, ha spiegato a Fanpage.it che effetti avrebbe il ddl se diventasse legge. Chiariamo, innanzitutto: in quali casi in Italia un bambino piccolo può finire in carcere? Avviene se non c’è nessuna alternativa di affidamento: altro genitori, nonni, famiglia allargata… Se nessuno può prendersi cura del bambino, resta con la mamma. Oggi quanti ce ne sono? I dati del ministero della Giustizia più aggiornati sono di poche settimane fa [31 ottobre, ndr], parlano di 22 donne con 23 figli al seguito. Negli scorsi anni i numeri erano stati tra i 50 e i 60, poi c’è stato un calo. Con il nuovo ddl del governo Meloni il numero aumenterà? Va fatta una premessa generale: è un intervento che vuole mandare dei messaggi securitari, di ‘mano dura’, senza occuparsi minimamente degli effetti concreti di queste norme. Intanto, giustamente la discrezione resta al giudice. C’è il rischio che avremo un nuovo ‘caso Apostolico’, per cui il primo giudice che deciderà di non incarcerare la donna verrà attaccato dal governo? In ogni caso, spesso la nuova norma non sarà applicata e basta. E nei casi in cui venisse applicata? Gestire in carcere una donna incinta, prossima a partorire, oppure un bambino piccolo, significa innanzitutto fare un enorme danno al bambino e alla donna, ovviamente. E poi creare un grande problema per il carcere e gli operatori penitenziari che ci lavorano. Perché le carceri non sono luoghi adatti ai bambini. Serve un’organizzazione, una presenza di personale sanitario ed educativo, che le carceri italiane non hanno. Non ce l’hanno oggi, che i bambini sono meno di 30, figuriamoci se diventano di più. Però il governo ha insistito che non andranno in carcere, ma in Icam, gli Istituti a custodia attenuata per detenute madri... Negli Icam non si va in automatico, dipende dai contesti. È possibile che ci siano alcuni uffici giudiziari particolarmente efficienti, dove in contemporanea arrivano l’ordine di carcerazione e l’ordine di trasferimento in Icam. Ma non è assolutamente la norma. Quindi cosa succede concretamente alle donne e ai figli? Un esempio è a Torino, dove si trova uno dei pochi Icam in Italia: c’è sempre un momento di carcerazione ‘vera’, nelle cosiddette “celle-nido”, che peraltro a Torino sono di fronte alle celle psichiatriche. Questo dà un’idea delle effettive, concrete difficoltà organizzative. Dopo qualche giorno, o se va male dopo alcune settimane, arriva l’ordine di trasferimento in Icam. In ogni caso, l’impatto con la detenzione c’è sia per la donna che per il bambino, E una volta nell’Icam, come funziona la vita? L’Icam è una soluzione di custodia attenuata, ma pur sempre di custodia. Sicuramente le condizioni sono migliori, sono strutture più simili a quello che ci si può immaginare per una comunità di accoglienza. Ci sono operatori, anche di cooperative sociali, che aiutano a prendersi cura del bambino. Banalmente, per chi ne ha l’età, lo accompagnano a scuola e lo riportano in carcere. Gli spazi non sono detentivi in senso stretto, ma le sbarre esistono comunque, anche se sono meno evidenti. Il bambino nella maggior parte dei casi non può uscire se non per andare a scuola. Quanti Icam ci sono in Italia? Quattro operativi (a Milano, Torino, Venezia e Lauro, in Campania), più un quinto a Cagliari che di fatto è inutilizzato. Nel complesso si parla di una cinquantina di posti, almeno sulla carta. Durante il governo Draghi l’intenzione era quella di cambiare il sistema, passare dagli Icam alle case famiglia. Sarebbe stato uno spazio esterno al carcere, anche perché gli Icam sono formalmente fuori dalle carceri, ma di fatto in molti casi sono attaccati, si entra dalla stessa porta. Si parla comunque di un numero molto basso di posti, no? Sì, infatti è una norma che sarà attuata pochissimo, ma per quei pochissimi farà grandi danni. Non capisco che vantaggio porti passare da 20 bambini in carcere a 60-70, invece di cercare di scendere a zero. Cosa ci guadagna un Paese di 60 milioni di abitanti, in termini di sicurezza? Nella migliore delle ipotesi, danneggeremo la vita di qualche decina di bambini. Non so se sia un obiettivo del legislatore, ma nel caso auguri. C’è un messaggio politico dietro questo intervento? Si porta avanti l’idea che nei confronti di certe situazioni, il carcere sia l’unica soluzione. È almeno il terzo intervento di questo tipo, dopo il decreto Rave e il decreto Caivano. Chi commette il tipo reati che ha in mente il governo, come gli scippi in metro, necessariamente continuerà a entrare e uscire da strutture detentive. Quando invece si potrebbero immaginare percorsi di reinserimento sociale vero. Invece si perde un’occasione e ci si accontenta del populismo penale. Pacchetto sicurezza. Protestano i Garanti, sciopero dei penalisti di Eleonora Martini Il Manifesto, 21 novembre 2023 Il Pd firma l’appello del Comitato anticamorra per la liberazione dei bimbi detenuti. Dagli avvocati penalisti ai Garanti territoriali dei detenuti, dalle associazioni civiche ai parlamentari dem: tutti molto preoccupati per le norme contenute nell’ultimo pacchetto sicurezza approvato venerdì scorso dal Consiglio dei ministri. Per l’Unione delle Camere Penali Italiane, che ha proclamato lo stato di agitazione e chiesto un incontro al ministro della Giustizia Carlo Nordio, la “slot machine” dei reati e delle pene in cui si è trasformato il governo non tiene neppure conto delle correzioni già richieste dall’associazione stessa in sede di riesame della riforma Cartabia sul processo penale. “Si prosegue nella introduzione di nuove fattispecie di reato, nell’inasprimento delle pene per i reati già esistenti, nella previsione di vincoli nel giudizio sul bilanciamento delle aggravanti, nell’estensione del catalogo dei reati ostativi previsti dall’art. 4 bis dell’Ordinamento penitenziario e della limitazione dei benefici penitenziari”, scrivono i penalisti. E anche nel “Decreto Legislativo - proseguono - che dovrebbe attuare le misure correttive alla riforma Cartabia del processo penale non si recepisce alcuna delle numerose proposte di modificazione già da tempo formulate in modo puntuale dall’avvocatura penale”, neppure quelle su cui Nordio si era impegnato. Con il risultato di danneggiare le “categorie di soggetti più deboli sottoposti a procedimento penale che, spesso privi di stabile domicilio e assistite da un difensore d’ufficio, sono poste nella condizione di non potere accedere ai successivi gradi di giudizio”. Ad esprimere “perplessità e preoccupazioni” sono stati, poi, ieri anche 28 Garanti regionali, provinciali e comunali delle persone private della libertà personale che hanno sottoscritto un documento molto critico, diffuso dal portavoce della Conferenza territoriale Samuele Ciambriello. In particolare i Garanti sottolineano la pericolosità della “generale autorizzazione al personale di polizia di portare con sé armi al di fuori dal servizio”, “l’introduzione di una nuova fattispecie (art. 415-bis c.p.) di “rivolta in carcere”“ prevista anche nei centri di trattenimento e accoglienza per migranti, “l’abrogazione dei commi 1 e 2 dell’art. 146 del codice penale che, rendendo solo eventuale il differimento di pena, va a colpire le donne incinte e le madri di prole di età inferiore a un anno”. In linea generale, scrivono, preoccupa “l’innalzamento dei limiti edittali per fattispecie di reato già previste e l’introduzione di nuove ipotesi incriminatrici potrebbe portare in breve tempo ad un aumento sensibile della popolazione detenuta, in costante crescita dalla fine della pandemia (erano 59.715 le persone detenute al 31/10/2023, 3.519 in più rispetto all’inizio dell’anno, 5.581 in più rispetto alla stessa data dell’anno precedente)”. Sull’obbrobrio delle madri detenute i parlamentari del Pd hanno aderito all’appello del “Comitato anticamorra per la legalità” “che chiede la liberazione dei bambini costretti a crescere nelle carceri italiane insieme alle loro mamme”. “Si tratta - scrivono i gruppi dem annunciando la loro opposizione in Aula - di un atto di civiltà che ogni Paese libero e democratico dovrebbe recepire. Sosteniamo la campagna del Comitato per chiedere la realizzazione di nuove case famiglia dove mamme e bambini possano convivere garantendo alla giustizia le prime, ma consentendo ai piccoli un contesto favorevole allo sviluppo. Non possiamo accettare - concludono - che ogni risposta ai problemi del Paese sia unicamente una risposta securitaria”. Eppure, è proprio questo il punto di vista del governo. Alla fine di una visita al carcere di Viterbo “Mammagialla” (finito in alcune inchieste della magistratura per le violenze denunciate negli ultimi anni da molti detenuti), il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove conferma: “La priorità è ripristinare ordine, legalità e sicurezza all’interno degli istituti carcerari”. Come? “Con una dotazione che sia degna di una forza dell’ordine, con scudi anti sommossa, caschi antisommossa, kit anti sommossa. Con regole chiare e certe di ingaggio, con i protocolli operativi che dicono alla polizia penitenziaria fino dove potersi spingere per ripristinare ordine, legalità e sicurezza all’interno degli istituti. Una volta che gli istituti saranno in sicurezza - afferma Delmastro che della visita ha fatto un appuntamento elettorale - il trattamento sarà più facile da erogare, perché il trattamento è un segmento della sicurezza ma deve essere fatto, appunto in sicurezza”. I penalisti in stato di agitazione contro il nuovo pacchetto sicurezza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 novembre 2023 La giunta dell’Unione delle Camere penali italiane ha proclamato lo stato di agitazione esprimendo la propria “contrarietà” alle norme contenute nel “pacchetto” sicurezza approvato dal Consiglio dei ministri la scorsa settimana. La Giunta dell’Ucpi, ieri con una delibera, chiede anche di poter incontrare il ministro della Giustizia Carlo Nordio, anche per “trattare i temi più urgenti attinenti agli interventi correttivi in materia di processo penale”, riservandosi “ogni ulteriore iniziativa”. I penalisti rilevano che “con l’ennesimo pacchetto sicurezza approvato dal governo si prosegue nella introduzione di nuove fattispecie di reato, nell’inasprimento delle pene per i reati già esistenti, nella previsione di vincoli nel giudizio sul bilanciamento delle aggravanti, nell’estensione del catalogo dei reati ostativi previsti dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario e della limitazione dei benefici penitenziari”. Inoltre, con lo schema di decreto legislativo che “dovrebbe attuare le misure correttive alla riforma Cartabia” sul processo penale “non si recepisce - osserva la Giunta Ucpi - alcuna delle numerose proposte di modificazione già da tempo formulate in modo puntuale dall’avvocatura penale, neppure l’abrogazione dei commi 1 ter e 1 quater dell’articolo 581 cpp, rispetto alla quale il ministro della Giustizia Carlo Nordio aveva assunto in più occasioni un preciso impegno, con un chiaro e deplorevole intento deflattivo in danno delle categorie di soggetti più deboli sottoposti a procedimento penale che, spesso privi di stabile domicilio e assistite da un difensore d’ufficio, sono poste nella condizione di non potere accedere ai successivi gradi di giudizio”. Per i penalisti “affidare al sistema repressivo penale la soluzione di ogni situazione di conflitto sociale, anziché percorrere la strada dell’incremento degli strumenti di prevenzione e della riduzione delle cause di disagio sociale che generano quei fenomeni criminali, finisce con l’alimentare una irrazionale domanda di punizione e con l’incrementare un sistema carcerocentrico produttivo di sovraffollamento e di inaccettabili condizioni di vita, incompatibili con ogni forma di rieducazione, a loro volta causa dell’aumento del fenomeno della recidiva”. Nella delibera della giunta dell’Ucpi si sottolinea come di “particolare gravità risulta essere la cancellazione del differimento obbligatorio della pena per le donne incinte o madri di prole in tenera età e la previsione di detenzione delle stesse negli istituti a custodia attenuata per detenute madri, luoghi evidentemente incapaci di gestire le più elementari urgenze sanitarie, la cui limitatissima presenza sul territorio (4 in tutta Italia), rischia di confinare dietro le sbarre ordinarie dei penitenziari femminili le madri ed i loro neonati, detenuti senza colpa, quando invece si sarebbe dovuto proseguire nel solco della proposta di legge, presentata nella scorsa legislatura, tesa ad istituire in ogni regione case- famiglia per madri detenute e bambini e in questa direzione avrebbe dovuto muoversi l’azione del governo”. I penalisti sottolineano che “il contenuto del pacchetto sicurezza, lungi dal porsi in sintonia con un programma di riforma della giustizia in senso liberale, rivela una matrice securitaria sostanzialmente populista e profondamente illiberale caratterizzata da un irragionevole rigore punitivo nei confronti dei fenomeni devianti meno gravi ed ai danni dei soggetti più deboli, caratterizzandosi per l’introduzione di una iniqua scala valoriale, in relazione alla quale taluni beni risultano meritevoli di maggior tutela rispetto ad altri di eguale natura, in violazione del principio di eguaglianza e di proporzionalità”. Camere penali contro il governo Meloni: “Questo rigore punitivo è irragionevole” di Paolo Pandolfini Il Riformista, 21 novembre 2023 Inasprite le pene per i reati esistenti, e ampliata l’estensione del catalogo dei reati ostativi previsti dall’articolo 4 bis: sembra di essere di fronte ad una deriva giustizialista. È stato deciso ieri mattina dalle Camere penali lo stato di agitazione per protestare contro la deriva sempre più ‘giustizialista’ del governo Meloni che, a detta di molti, starebbe facendo rimpiangere il periodo manettaro e forcaiolo che aveva caratterizzato nella scorsa legislatura gli esecutivi a guida M5s. Nel mirino degli avvocati penalisti italiani, in particolare, l’ultimo pacchetto sicurezza approvato dal Consiglio dei ministri la scorsa settimana e che, come i precedenti, ha introdotto nuove fattispecie di reato, ha inasprito le pene per i reati già esistenti, anche nella previsione di vincoli nel giudizio sul bilanciamento delle aggravanti, ed ha ampliato estensione del catalogo dei reati ostativi previsti dall’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario e della limitazione dei benefici penitenziari. Una beffa in quanto questo provvedimento avrebbe dovuto contenere le misure correttive alla riforma Cartabia del processo penale, recependo qualcuna delle numerose proposte di modifica formulate in modo puntuale dall’avvocatura penale in questi mesi. Nella elaborazione dei correttivi, invece, non si è tenuto conto dei contributi provenienti dal mondo accademico, dall’avvocatura e dalla magistratura, che avevano segnalato profili problematici in sede di applicazione della normativa. Le Camere penali, sul punto, avevano avanzato diversi suggerimenti con lo scopo proprio di “riequilibrare un intervento riformatore animato unicamente da intenti efficientisti e del tutto indifferente alla qualità della giustizia, all’effettività del diritto di difesa, alla centralità dell’accertamento della responsabilità penale attraverso il contraddittorio processuale”. Controsenso - Ma la beffa è doppia in quanto lo stesso ministro della Giustizia Carlo Nordio, fin dal momento del suo insediamento, aveva assunto in più occasioni un preciso impegno in senso contrario. Secondo i penalisti italiani siamo ora davanti ad una “irrazionale moltiplicazione delle fattispecie di reato”, con conseguente “aggravamento delle pene, in violazione anche del principio di offensività e di proporzionalità”. Si tratta di un intervento che risponde alla più tipica logica del “populismo giustizialista” e del “diritto penale simbolico” che mirano esclusivamente “a lucrare consenso, facendo leva sul sentimento di insicurezza strumentalmente diffuso nella collettività”. L’obiettivo, per gli avvocati, è chiaro: “Affidare al sistema repressivo penale la soluzione di ogni situazione di conflitto sociale, anziché percorrere la strada dell’incremento degli strumenti di prevenzione e della riduzione delle cause di disagio sociale che generano quei fenomeni criminali”. Così facendo, si finisce con “l’alimentare una irrazionale domanda di punizione e con l’incrementare un sistema carcerocentrico produttivo di sovraffollamento e di inaccettabili condizioni di vita, incompatibili con ogni forma di rieducazione, a loro volta causa dell’aumento del fenomeno della recidiva”. La rivolta in istituto penitenziario - Ha poi suscitato grande sorpresa la creazione del reato di “Rivolta in istituto penitenziario”, introdotto con il nuovo articolo 415 bis del codice penale. Leggendo il testo dell’articolo da domani potranno essere punite molto severamente anche semplici iniziative di protesta all’interno delle carceri, come la ‘battitura’, la pacifica contestazione da parte dei detenuti realizzata battendo appunto le stoviglie contro la porta della cella e destinata a farsi sentire all’esterno delle mura. La nota dei penalisti - Una decisione, quella di istituire tale nuovo reato, che stride con le recenti attività svolte dal Ministero che avevano sollecitato invece “una riflessione sulle condizioni di degrado e abbandono in cui versavano molti degli istituti penitenziari”. “Il contenuto del pacchetto sicurezza, lungi dal porsi in sintonia con un programma di riforma della giustizia in senso liberale, rivela una matrice securitaria sostanzialmente populista e profondamente illiberale caratterizzata da un irragionevole rigore punitivo nei confronti dei fenomeni devianti meno gravi ed ai danni dei soggetti più deboli, caratterizzandosi per l’introduzione di una iniqua scala valoriale, in relazione alla quale taluni beni risultano meritevoli di maggior tutela rispetto ad altri di eguale natura, in violazione del principio di eguaglianza e di proporzionalità”, si legge quindi nella nota con cui i penalisti annunciano il loro stato di agitazione, riservandosi ogni ulteriore iniziativa, come l’astensione dalle udienze. Prima di ulteriori passi, comunque, gli avvocati hanno voluto chiedere a Nordio un appuntamento per esporre la propria contrarietà agli ultimi interventi di riforma e per trattare i temi più urgenti attinenti agli interventi correttivi in materia di processo penale. Vedremo cosa accadrà. Carcere extrema ratio oppure ospizio dei poveri (e psicofarmaci per tutti)? di Stefano Anastasia garantedetenutilazio.it, 21 novembre 2023 Il problema è che tipo di scelte vogliamo fare rispetto al penitenziario: se pensiamo che veramente il carcere debba essere l’estrema ratio oppure se pensiamo che debba essere l’ospizio dei poveri, il luogo in cui mettere coloro che danno fastidio. Bisogna decidere di tirare una linea. Bisogna avere il coraggio di dire che c’è una soglia oltre la quale il carcere non può andare, non semplicemente sulla base degli gli spazi, di quante persone ce ne entrano. Il problema non è solo quello, ma il sistema: per quante persone può garantire il divieto di trattamento contrario al senso di umanità che significa innanzi tutto un’assistenza sanitaria adeguata? Per quante persone può garantire un percorso trattamentale di reinserimento sociale? Ciò significa non valutare semplicemente gli spazi, ma anche le persone a disposizione dell’amministrazione penitenziaria, le persone a disposizione del servizio sanitario nazionale, gli insegnanti in carcere. Quanti ne posso seguire nel pieno rispetto della Costituzione? Bisogna capire che il nostro sistema può andare bene per trentamila persone e non per sessantamila. Per trentamila persone significa scegliere, chi deve scontare la propria sofferenza in carcere e chi fuori. O sciogliamo questi nodi - ha concluso Anastasìa - o discuteremo all’infinito sul problema che ci trasciniamo da decine d’anni, perché manca questa decisione fondamentale: se vogliamo che il carcere sia l’extrema ratio oppure che sia l’ospizio dei poveri, tutti dentro e psicofarmaci per quanto possibile. La responsabilità degli enti territoriali è quella di offrire opportunità di reinserimento sociale a quelle persone che stanno finendo di scontare una pena, ma hanno molte meno risorse per il sociale. Intanto, però c’è una legge di bilancio nazionale: si istituisca un fondo nazionale per l’housing e l’esecuzione penale esterna. Il ministro Salvini si è vantato di aver stanziato 160 milioni di euro per l’edilizia penitenziaria, di cui 100 milioni sono dedicati alla costruzione di tre istituti di pena che se va bene saranno in funzione tra dieci anni per 1000/1500 persone. Se quei cento milioni fossero viceversa investiti negli enti territoriali, perché possano fare una politica di accoglienza e di sostegno per coloro che scontano una pena inferiore a un anno o che sono a un anno dalla fine della pena, noi avremmo non tra dieci anni ma tra sei mesi dieci mila persone fuori. Salute e carcere. È emergenza tossicodipendenze, violenza e suicidi redattoresociale.it, 21 novembre 2023 Dopo la pandemia aumentato l’uso di sostanze stupefacenti. L’appello dei medici della Simspe in Congresso in queste ore a Napoli: “Occorre nuova organizzazione della Sanità penitenziaria”. Le carceri italiane esplodono tra problemi cronici e conseguenze della pandemia. Da una parte vi sono sovraffollamento, mancanza di personale, strutture fatiscenti, difficoltà per il personale medico, psicologi ed infermieri. Dall’altra, nonostante l’impatto della pandemia sia stato contenuto, vi sono le conseguenze psicologiche sui nuovi detenuti, come si evince dai dati su suicidi, uso di stupefacenti, violenza. Da queste constatazioni nasce la proposta di un nuovo modello organizzativo da parte della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria - SIMSPe, presentato in occasione del XXIV Congresso Nazionale - Agorà Penitenziaria, in corso il 20-21 novembre a Napoli, presso la Sala del Lazzaretto - Ex Ospedale della Pace. L’incremento dell’uso di stupefacenti e il record di suicidi - Il 2022 è stato anno record per il numero di suicidi (84), mentre nel 2023, a metà novembre, sono già 62 le persone che si sono tolte la vita in carcere, collocando anche quest’anno tra quelli con il dato più elevato. Per quanto riguarda la salute mentale, secondo dati recenti, sono significative le percentuali di coloro che nelle carceri italiane assumono sedativi, ipnotici o stabilizzanti dell’umore, anche se il numero di diagnosi psichiatriche gravi resta limitato. A questo si aggiunge il tema della tossicodipendenza. “Tra i detenuti riscontriamo un tasso di tossicodipendenza sempre più elevato - sottolinea Antonio Maria Pagano, presidente SIMSPe, dirigente medico psichiatra responsabile Uosd Tutela Salute Adulti e Minori Area Penale presso Asl Salerno -. Si stima che, considerando anche il sommerso, oltre il 60% dei detenuti faccia uso di stupefacenti, mentre prima del Covid non si arrivava al 50%. Purtroppo la frammentazione del sistema impedisce il reperimento di dati scientifici precisi, motivo per cui auspichiamo anche la creazione di un sistema di raccolta e analisi dei dati intersettoriali per velocizzare le risposte. Nel caso della tossicodipendenza, infatti, il fenomeno genera un effetto disinibente che aumenta la violenza, di cui pagano le conseguenze i detenuti stessi, il personale sanitario e la polizia penitenziaria. La stessa tendenza si riscontra anche all’esterno delle mura carcerarie: non a caso, come emerge da una recente indagine della Asl di Salerno tra i minori autori di reato nella provincia, sono aumentati i reati contro le persone e diminuiti quelli contro il patrimonio. In Campania, il problema atavico del sovraffollamento e questa nuova realtà della tossicodipendenza rappresentano emergenze ancora più dilaganti, con dati al di sopra della media nazionale”. Le nuove unità operative di sanità penitenziaria - Tra le principali difficoltà nella gestione del diritto alla salute nelle carceri italiane, dove ogni anno transitano oltre 100mila persone, vi è una situazione operativa di grande difficoltà e frammentazione sull’intero territorio nazionale. Per questo SIMSPe propone Unità Operative aziendali di Sanità Penitenziaria, dotate di autonomia organizzativa e gestionale, multifunzionali e multiprofessionali e accoglie con favore l’ipotesi di una cabina di regia interministeriale composta da tecnici indicati dal ministero della Salute e dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, come emerso dal recente incontro tra il sottosegretario di Stato alla Giustizia con delega al Trattamento dei detenuti e alla Giustizia minorile e di comunità Andrea Ostellari e il ministro della Salute, Orazio Schillaci, chiedendone l’integrazione con il ministero del Welfare e l’Anci. Inoltre, SIMSPe propone un Manuale di accreditamento per le strutture sanitarie penitenziarie sviluppato da uno dei gruppi di lavoro interprofessionale, presentato proprio in sede di Congresso, e l’istituzione dell’infermiere di Comunità per la Sanità Penitenziaria. “In Italia, l’assistenza sanitaria penitenziaria non è univoca ed è parcellizzata tra tanti servizi, nonostante rappresenti uno degli ultimi presidi di sanità pubblica - evidenzia Antonio Pagano -. Per molti detenuti che provengono da situazioni di svantaggio sociale, infatti, il carcere è il primo contatto con il Ssn. Ma per una sanità penitenziaria efficiente servono Unità Operative aziendali multifunzionali e multiprofessionali cui siano assegnati tutti i professionisti che abbiano esclusivo compito di assistenza nei confronti delle persone private della libertà, dai minori agli adulti, dalle dipendenze alla salute mentale, dall’infettivologia alla medicina legale, dall’odontoiatria all’igiene pubblica, in modo che lavorino in sinergia tra loro e riescano a dare risposte univoche ai bisogni complessi delle persone e alle necessità dell’Autorità giudiziaria e dell’Amministrazione penitenziaria. Una cabina di regia interministeriale rappresenta un processo da noi auspicato da anni e ci candidiamo a collaborare sulla base della lunga esperienza maturata in tema di sanità penitenziaria”. La detenzione come momento chiave per gli screening per Hiv ed epatiti - “I risultati ottenuti in ambito infettivologico sono stati realizzati grazie a importanti progetti come ROSE - Rete dOnne SimspE, che ha affrontato le infezioni da Hiv e da Epatite C nelle donne detenute - sottolinea Sergio Babudieri, direttore scientifico SIMSPe -. L’Hcv è stato eliminato in diversi penitenziari, mentre gli screening per l’Hiv hanno consentito di avviare i relativi trattamenti. I dati sono significativi: se vent’anni fa in carcere la prevalenza di HIV era del 20%, oggi è appena l’1% e sono quasi tutti in terapia, riducendo anche il rischio di contagio. Tuttavia, negli ultimi anni abbiamo riscontrato un aumento delle infezioni da Hiv in cui incorre la popolazione migrante una volta giunta sul territorio italiano a causa delle precarie condizioni igienico-sanitarie a cui è costretta. L’auspicio è quello di ottimizzare il momento di detenzione per favorire screening e trattamenti per persone che accedono con maggiore difficoltà ai servizi di cura e assistenza”. “La realtà penitenziaria rappresenta un setting particolare per intervenire con screening per Hiv, Epatite C, Tubercolosi su uno dei principali serbatoi di queste patologie - sottolinea Roberto Parrella, vicepresidente della SIMIT - Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, Direttore Uoc Malattie Infettive ad indirizzo respiratorio AORN Ospedali dei Colli “Monaldi-Cotugno-CTO” Napoli -. Il momento della detenzione può essere determinante per effettuare screening diffusi, seguiti da immediati avvii al trattamento. Per l’Epatite C i nuovi farmaci antivirali consentono di eliminare il virus definitivamente, in poche settimane e senza effetti collaterali. Per l’Hiv i nuovi trattamenti consentono di cronicizzare l’infezione e, se regolarmente assunti, rendono il virus non più rilevabile nel sangue e non trasmissibile, come sintetizzato anche nell’evidenza scientifica U=U, Undetectable=Untransmittable, da cui deriva il concetto di Treatment as Prevention. Pertanto, come già realizzato negli ultimi anni, sono auspicabili attività di screening presso case circondariali e distretti sia come intervento di salute pubblica per la prevenzione di queste patologie infettive che per il riconoscimento di un’equa sanità anche in situazioni di disagio”. Nordio in commissione femminicidi: poche idee e confuse di Mario Di Vito Il Manifesto, 21 novembre 2023 Arrivano in Senato le modifiche al Codice Rosso, ma in un anno i fondi sono stati tagliati del 70%. Domani il ministro della Giustizia Carlo Nordio si presenterà davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sui femminicidi. Un appuntamento annunciato la settimana scorsa ma che, dopo la vicenda di Giulia Cecchettin assume un valore diverso. Lo stesso giorno, peraltro, come annunciato dalla premier Meloni, in Senato arriverà la revisione del Codice Rosso contro la violenza sulle donne, con una serie di misure che in linea teorica dovrebbe contribuire a farlo funzionare meglio: dal braccialetto elettronico alla distanza minima di avvicinamento, fino alla cosiddetta vigilanza dinamica. Aggiustamenti che si chiedono da quando il Codice Rosso è entrato in vigore, anche se ormai rischiano di risultare insufficienti dal momento che, come ha segnalato Action Aid appena una settinama fa, in un anno i fondi sulla prevenzione della violenza di genere sono stati tagliati del 70%, passando dai 17 milioni del 2022 ai 5 milioni attuali. Ad aumentare, in compenso, sono stati quelli in risposta alla violenza subita, ma, anche qui, manca un passaggio: il dpcm sui finanziamenti alle case rifugio per l’anno corrente non è mai stato firmato, nonostante sia passato quasi un anno dalla legge di bilancio che li ha stanziati. La generale sottovalutazione del tema passa anche per altri dettagli: la commissione sul femminicidio che domani ascolterà Nordio è stata sì formata lo scorso febbraio (è stata anche ampliata, divenendo bicamerale con 36 componenti), ma ha eletto la sua presidente (Martina Semenzato di Noi Moderati) soltanto a luglio, con poche riunioni sin qui svolte e nessun documento prodotto: l’ultimo infatti è dell’11 novembre 2021, quando al governo c’era Mario Draghi, e affrontava la questione della “risposta giudiziaria” negli anni 2017 e 2018. Intervistato dal Corriere della Sera di ieri, il meglio che è riuscito a dire Nordio sul tema dei femminicidi e delle violenze contro le donne riguarda l’imminente preparazione di “un opuscolo con una grafica molto comprensibile da diffondere in scuola, social e posti di lavoro” per evidenziare i cosiddetti “reati spia”, cioè dei “sintomi di un aggravamento di violenza”. Una pratica mutuata dalla lotta alla mafia. Per il resto, dice Nordio, nuove norme sarebbero al massimo “utili” ma di certo “non risolutive”: un modo per mettere le mani avanti e non esporsi troppo sul tema, anche perché nell’ultimo anno il governo ha affrontato le varie urgenze più o meno dettate dalla cronaca (i rave, le baby gang, il borseggio, le truffe agli anziani) sempre allo stesso modo: mettendo mano al codice penale. Ora nella maggioranza giurano che su questo tema non agirà in questo modo. Ma non si capisce bene quale sia la linea generale: quando si è discusso dell’adesione dell’Ue alla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, Lega e Fratelli d’Italia si sono astenuti. La giustizia di fronte ai casi di cronaca più terribili di Annarita Digiorgio Il Foglio, 21 novembre 2023 La legge del taglione, la vendetta privata, il rancore. Perché è sbagliato dire “in galera e buttate la chiave”: ce lo insegna l’esperienza di Lara in carcere. “Lo sai che facciamo qui dentro a quelle come te?”, dice con aria minacciosa una detenuta a Lara, dopo che in carcere si è sparsa la voce che ha provato ad ammazzare un neonato. È lo spirito di vendetta privata, giustizia sommaria, la famosa legge del taglione di epoca medioevale, con cui i criminali vendicano crimini che non accettano. Ma con cui sempre più spesso, nonostante l’illuminismo e la società della ragione, ancora oggi spesso abbiamo a che fare. Lo vediamo in questi giorni con le minacce che molti sui social rivolgono a Filippo Turetta, l’assassino di Giulia Cecchittin. E che nello stato di diritto della culla della ragione non dovrebbero contemplare neppure frasi come “in galera e buttare la chiave”. Perché la speranza è l’unico antidoto alla recidiva. È notizia di oggi che il tribunale di Roma ha condannato il carabiniere che nel 2019 scattò una foto al ragazzo americano che fu bendato in caserma durante l’interrogatorio per l’omicidio del brigadiere Cerciello, e che fu condivisa persino dal ministro Salvini. “Non c’era necessità investigativa di fare quella foto né di divulgarla, nulla giustifica la divulgazione di foto in una chat che non era investigativa. C’era una partecipazione emotiva ai fatti, che non c’entrava con le indagini”. Mentre il carabiniere che lo aveva bendato è stato condannato per misura di rigore non consentita dalla legge. L’omicida sconterà la pena che la giustizia reputa congrua, nessuna tortura ulteriore è legittima per chi segue il faro del diritto e non della barbarie. Lo Stato di diritto fatto a pezzi sul web: “La giustizia si fa in pubblica piazza” di Valentina Stella Il Dubbio, 21 novembre 2023 Era inevitabile che la drammatica uccisione della giovane Giulia Cecchettin mettesse in moto il solito corto-circuito mediatico-politico- social(e) intorno alla figura del presunto assassino, Filippo Turetta e del suo legale Emanuele Compagno. Prima ancora che la macchina della giustizia italiana possa compiere i primi passi, sono partiti la mostrificazione del giovane, l’attacco al suo diritto di difesa, e il processo mediatico parallelo. In un batter di ciglia siamo diventati tutti investigatori, psichiatri, sociologi. Ma quasi nessuno davvero ha cercato di indagare sulla complessità delle ragioni che avrebbero spinto il ragazzo a commettere il gesto, così come su quelle del fenomeno in generale di uomini che uccidono le donne, e così la garanzia offerta dallo Stato di diritto a chiunque di potersi difendere in un’aula di giustizia è stata tempestivamente sacrificata sull’altare della rabbia, della vendetta, dell’incitamento alla ghigliottina, e dell’ignoranza dei principi costituzionali. A fare da contraltare la dignità e compostezza del padre della vittima che ha detto “non provo odio. Spero viva a lungo in modo da capire quello che ha fatto”. Invece il primo ad infiammare il popolo è stato il ministro Matteo Salvini: “Per gli assassini carcere a vita, con lavoro obbligatorio. Per stupratori e pedofili - di qualunque nazionalità, colore della pelle e stato sociale - castrazione chimica e galera. Questo propone la Lega da sempre, speriamo ci sostengano e ci seguano finalmente anche altri. Ovviamente, come prevede la Costituzione, dopo una condanna stabilita in Tribunale augurandoci tempi rapidi e nessun buonismo, anche se la colpevolezza di Filippo pare evidente a me e a tutti”. E da lì tutta una scia di commenti feroci: “A me spiace ma non riesco a trovare il motivo per continuare a mantenere in vita questi vermi schifosi”, “Le cinghiate in piazza sono troppo?”, “Non lo mettere in galera in Italia, troppo lusso!!! Lapidazione in Afganistan sarebbe la sua pena”. Ma attacchi verbali sono giunti anche al legale di Filippo Turetta, l’avvocato Compagno, che ha dichiarato in una trasmissione televisiva: “Per 22 anni un ragazzo modello” e comunque “in ogni caso fino al terzo grado di giudizio non possiamo considerarlo colpevole”. Non l’avesse mai detto. “Aveva ragione P Pio che gli avvocati eccetto qualcuno vendono l’anima al diavolo”, si legge tra i commenti e ancora: “Mettete dentro anche l’avvocato cosi la finisce di dire caz… te!”. C’è anche chi scomoda un bel vecchio film “L’Avvocato del Diavolo”, “Avvocato...... Ma mi faccia il piacere Stia zitto... Fa’ più figura!”, “Sì adesso difendiamolo anche e diciamo che non ci stava con la testa”, “Alcuni avvocati, al di là della professione, andrebbe proprio radiati dall’albo per mancanza di etica morale. Esiste una linea sottilissima che non bisogna mai oltrepassare, soprattutto quando si parla di omicidi, e il modus operandi compiuto per la sua efferatezza”, “Con quale coraggio un avvocato difende questo soggetto! Sì, tutti hanno diritto alla difesa ma se fossi in lui (l’avvocato) rifiuterei senza esitare! Per questi tipi di reato ci vorrebbe l’applicazione di una legge in vigore molti anni fa: dare questa gentaglia in mano alla pubblica piazza!”. Ma qualcuno se la prende anche con chi andrà a giudicare il ragazzo nel processo: “È questa magistratura che ci ritroviamo che mi spaventa visto i precedenti poi le parole del suo avvocato dicono tutto”. Alla base di tutto c’è dunque un problema culturale che riguarda i soggetti a rischio - vittime e carnefici - ma anche a chi tocca interpretare la realtà. E tutto dovrebbe - ma forse è banale dirlo - partire dalle scuole per promuovere corsi sull’affettività ma anche sul concetto di legalità e di diritto di difesa. Purtroppo una ricerca condotta nel 2016 ci disse che il 61,9% dei diplomati aveva affermato di aver affrontato in classe lo studio della Costituzione in modo superficiale o di non averlo affrontato affatto; in generale, un diplomato su 5 (20,5%) disse di non aver mai letto la Costituzione durante il percorso di studi e il 54,2% ne ha letto solo qualche articolo. Non serve una “bulimia repressiva” contro la violenza sulle donne di Maria Carla Sicilia Il Foglio, 21 novembre 2023 A dieci anni dall’introduzione della prima legge sui femminicidi le donne continuano a morire. Da allora sono state inasprite sanzioni e introdotte nuove fattispecie, ma la prevenzione è rimasta al palo. Le morti di Giulia Cecchettin e delle altre 102 donne uccise dall’inizio dell’anno raccontano in maniera drammatica come le leggi che nascono sull’onda di un allarme emotivo non bastino per affrontare i problemi. Sono passati dieci anni da quando l’Italia ha recepito nella sua legislazione la convenzione di Istanbul che riconosce per la prima volta una specificità nella violenza di genere. Era il 2013, a capo del governo c’era Enrico Letta e la parola “femminicidio” era entrata nel vocabolario da qualche anno. La legge 199 - conosciuta appunto come legge sui femminicidi - ha incrementato le risposte sanzionatorie di fattispecie già esistenti. Da allora ci sono molte più tutele per le donne che subiscono soprusi e maltrattamenti, anche grazie al successivo Codice rosso, approvato nel 2019 e potenziato più volte, che ha introdotto nuove fattispecie di reato. Ma il numero delle donne uccise in quanto donne ha mantenuto un trend costante secondo i dati del ministero dell’Interno. “L’autore di violenze sulle donne in linea di principio appare refrattario alla minaccia della pena, perché agisce in modo irrazionale: chi commette questi crimini non fa una valutazione costi-benefici”, spiega al Foglio Tiziana Vitarelli, docente di Diritto penale all’Università di Messina e studiosa della materia. Vitarelli è convinta che nell’ambito della violenza contro le donne ci sia una sorta di “bulimia repressiva” da parte del legislatore che tralascia un altro aspetto invece prioritario: quello della prevenzione. Il problema, spiega, è che le nuove fattispecie e le risposte sanzionatorie sono dei palliativi che non hanno una capacità deterrente. “In presenza di problemi sociali causati da fenomeni criminali sistemici che, soprattutto attraverso la trasposizione mediatica, inducono allarme sociale, il legislatore insiste sull’opzione repressiva e continua a ignorare gli strumenti di prevenzione extrapenale”, ha scritto Vitarelli in un paper di qualche anno fa pubblicato sulla rivista di Diritto penale contemporaneo. D’altra parte, l’agenda penale scandita sui temi dei talk show ha evidentemente la funzione un tornaconto politico per dare risposte immediate. “La prevenzione è politicamente meno remunerativa e di lenta attuazione - spiega ancora Vitarelli - ma è innegabile che sarebbe più efficace e meno costosa come argine al fenomeno, oltre che più coerente con la sua caratterizzazione marcatamente culturale”. Eppure in Parlamento è già pronta una nuova legge che mercoledì arriverà in Senato per la sua approvazione definitiva. Le norme che contiene sono state approvate a giugno in un Consiglio dei ministri e riprendono il testo su cui aveva lavorato l’allora ministra Elena Bonetti nel corso del governo Draghi. Lo scopo - da raggiungere a invarianza finanziaria - è rendere più efficace il Codice rosso, con un rafforzamento degli strumenti di prevenzione come l’ammonimento, il braccialetto elettronico e il divieto di avvicinamento, anche per i cosiddetti “reati spia” come lo stalking. Sono previste anche nuove regole per gli arresti in flagranza differita e per favorire la formazione di magistrati e polizia giudiziaria. Ma ha ancora senso stringere le maglie del Codice rosso? “Il fatto che i dati sui femminicidi non siano migliorati impone un rafforzamento delle norme, non certo di arrendersi”, dice al Foglio Elena Bonetti, spiegando che questo nuovo disegno di legge “colma un vulnus, introducendo strumenti che serviranno ad aumentare il livello di vigilanza e protezione della donna”. Ancora una volta. “Ma sappiamo che non è abbastanza: il fenomeno è talmente più ampio da richiedere un costante e incessante percorso operativo da parte di tutta la società per la promozione del pieno rispetto delle donne nelle scuole e nelle università”. Per una legge pronta a essere approvata, eccone allora un’altra pronta a essere proposta. L’idea l’ha lanciata la segretaria del Partito democratico Elly Schlein, che all’indomani della morte di Giulia Cecchettin si è rivolta a tutte le forze politiche per chiedere una legge che introduca l’educazione al rispetto e all’affettività in tutte le scuole d’Italia. Ma anche in questo caso il rischio è dare una risposta d’urgenza per contenere il clamore mediatico senza andare alla radice del problema. “Per insegnare il rispetto e sensibilizzare i giovanissimi non occorre una legge che lo preveda. Per introdurre l’ora di educazione sentimentale probabilmente occorre. Ma non basta, dal momento che la famiglia, nell’educazione, ha un peso maggiore”, dice ancora Vitarelli. Per il momento il governo ha detto di volere avviare una campagna di sensibilizzazione nelle scuole. E tanto basterebbe per iniziare ad affrontare il tema con i ragazzi senza ricorrere in maniera frettolosa a un’altra legge. Gli orfani dei femminicidi: il 42% vive in una famiglia affidataria, uno su tre ha assistito al delitto di Vanessa Ricciardi Il Domani, 21 novembre 2023 Nei casi di femminicidio presi in carico dal fondo Con i Bambini, l’83% delle famiglie beneficiarie del supporto arriva a fine mese con grande difficoltà. Il presidente Marco Rossi Doria: “Questi ragazzi perdono entrambi i genitori nello stesso momento, anche perché il padre o si toglie la vita o finirà i suoi giorni in prigione”. In gergo vengono definiti “orfani speciali”, sono i figli e le figlie delle vittime di femminicidio in Italia. Per la prima volta, il fondo Con i Bambini, in occasione della giornata mondiale dei diritti dell’infanzia si concentra su di loro: nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile ha avviato A braccia aperte, la prima iniziativa di sistema in loro favore e a supporto delle famiglie affidatarie. Accompagna così 157 orfani, presi in carico da quattro progetti. Un dato destinato a crescere, perché altri 260 in tutta Italia sono stati già agganciati dai partenariati gestori, e a breve inizieranno anche loro un percorso di sostegno e accompagnamento con le loro famiglie: si parla di almeno 417 ragazzi. L’Italia proprio in questi giorni sta affrontando il dramma della morte di Giulia Cecchettin, la 22enne uccisa a coltellate dall’ex fidanzato. “La tragedia dei femminicidi purtroppo non finisce - ricorda Marco Rossi Doria presidente di Con i Bambini -. Siamo tutti colpiti da questa condizione terribile”. Lei era una giovane studentessa. Ogni donna uccisa per mano del suo compagno ha la sua storia, così, dice Rossi Doria “centinaia di bambini e ragazzi vivono una situazione difficile, fortemente traumatica: la mamma viene uccisa spesso davanti ai loro occhi dal padre, che finirà i suoi giorni in prigione o si suiciderà come spesso accade”. I bambini sono orfani due volte: “Perdono madre e padre in un solo momento anche perché chi resta in carcere difficilmente vede i propri figli”. Soprattutto al sud - La percentuale più alta di orfani accompagnati riguarda il sud. Al momento, si legge, (ottobre 2023) ci sono 100 orfani presi in carico grazie al progetto Respiro. Ma il dato è fortemente in crescita. Il progetto Orphan of Femicide Invisible Victim segue il Nord Est, mentre nel Nord Ovest opera il progetto S.O.S. - Sostegno Orfani Speciali. Nel Centro Italia è attivo il progetto Airone, al Sud Respiro - Rete di Sostegno per Percorsi di Inclusione e Resilienza con gli orfani speciali. Per il 74 per cento dei beneficiari l’età di ingresso nel progetto è tra i 7-17 anni, per il 17 per cento l’età è compresa tra 18-21 anni e per il rimanente 8% l’età è inferiore a 6 anni. Di questi, il 56 per cento sono di sesso maschile e il 43% femminile (1 per cento non specificato). Il 95% dei beneficiari presi in carico ha la cittadinanza italiana, solo il 5% ha cittadinanza di altri paesi Ue o extra-Ue. Nel 36 per cento dei casi i bambini erano presenti al momento dell’evento. Questo elemento ha conseguenze che condizioneranno ancor più pesantemente per gran parte della vita. I minori che diventano orfani a seguito di tali tragici eventi subiscono un impatto psicologico devastante, il quale inevitabilmente influisce negativamente sulla loro sfera emotiva e relazionale. Le conseguenze psicologiche creano una vera e propria sindrome denominata child traumatic grief. Il bambino, sopraffatto dalla sofferenza e dalla reazione al trauma, diviene incapace di elaborare il lutto, trovandosi intrappolato in uno stato di dolore cronico. Il 13% degli orfani presenta forme di disabilità (precedenti al trauma); tra le più comuni vi sono disabilità intellettive e relazionali e un ulteriore 8% presenta Bisogni Educativi Speciali (BES), disturbi evolutivi specifici o disturbi psichici. I problemi economici - A crescere gli orfani di femminicidio sono soprattutto i parenti più prossimi: nonni, zii, che però, nei fatti, non godono ancora, purtroppo, di costanti azioni di prossimità che le politiche pubbliche si ripromettono da tempo di attuare e vengono lasciati soli ad affrontare un dramma così grande che ha bisogno di un’attenzione specializzata, così come di supporto burocratico, economico, organizzativo, legale. La condizione socio economica degli orfani e delle famiglie affidatarie è un altro elemento discriminante per la crescita di bambini e ragazzi che hanno subito un trauma così forte. ll 52 per cento riceve misure di sostegno al reddito: il 6 per cento reddito di cittadinanza, il 45% altre misure. L’impossibilità ad accedere agli strumenti a loro tutela, o avere le stesse opportunità degli altri ragazzi non fa altro che acuire ancora di più il discrimine che sono costretti a subire anche per il loro futuro. Il 15 per cento di loro dichiara di avere un reddito annuale inferiore a 12 mila euro, l’8 per cento superiore, ma per la maggioranza non si sa. Il 42% oggi vive in famiglia affidataria, il 10% vive in comunità e il 10% con una coppia convivente. Solo il 5% è stato dato in adozione e vive con una famiglia adottiva. L’83% delle famiglie dei beneficiari del supporto di Con i bambini arriva a fine mese con grande difficoltà, spesso per la necessità di circondarsi di professionisti e specialisti per supportarli con i bambini, come emerso dalle interviste ai caregiver, ovvero di chi si prende cura del minore. Per inquadrare meglio il fenomeno, sottolinea Con i bambini, vanno presi in considerazione i fattori che caratterizzavano la vita dei ragazzi orfani di femminicidio antecedenti all’evento. Gran parte dei nuclei familiari ovvero il 65% non era in carico ai servizi sociali prima dell’evento, nonostante la presenza di elementi di vulnerabilità. Tra questi i più comuni sono la presenza di familiari con dipendenze da sostanze o altro, e di familiari con provvedimenti giudiziari prevalentemente di natura penale. Ciò nonostante, gli spazi in cui la famiglia vive risultano essere adeguati ai bisogni dei domiciliati nella gran parte dei casi. I nuclei familiari includono in media tra i 3 e i 5 componenti compresi i bambini. Inoltre, questi dati non significano che non siano coinvolte “le famiglie bene”: per 25 casi, cioè il 35% dei beneficiari, il nucleo familiare di origine non presentava elementi di vulnerabilità. Allarmanti sono i dati relativi ad ulteriori elementi che possono rappresentare eventuali traumi o eventi stressanti antecedenti al crimine domestico. Questi includono soprattutto la violenza assistita: fisica, psicologica, sessuale, indicando che numerosi sono i fattori e i campanelli di allarme che è urgente riuscire a cogliere come predittivi della violenza. In particolare, la violenza assistita psicologica è stata segnalata in 50 casi su 70. “Nessuno sconto di pena per chi ha ucciso le nostre figlie” di Romina Marceca La Repubblica, 21 novembre 2023 L’appello delle madri di vittime di femminicidio. Si rivolgono al governo per chiedere pene certe e nessun permesso premio per gli assassini delle loro ragazze. “Nessuno sconto di pena, nessun permesso premio per chi ha ucciso le nostre figlie. Vogliamo pene certe”. È l’appello al governo da parte delle mamme di ragazze uccise dai loro ex. Mamme che conoscono quell’orrore per averlo visto coi loro occhi sui corpi delle figlie. Pamela, Desirée, Noemi, Giordana, Lauretta, Jennifer, Anna sono state uccise come Giulia Cecchettin. “Questa ragazza è figlia nostra, vorremmo abbracciare il suo papà, stiamo rivivendo tutto il dolore del giorno in cui quegli assassini ci strapparono le nostre ragazze. Adesso mi chiedo quale pena sarà decisa per l’assassino di Giulia”, è la domanda che si fa Alessandra Verni, mamma di Pamela Mastropietro, romana di 18 anni uccisa nel 2018 a Macerata da quattro uomini. La mamma di Roma insieme ad altre sette donne lancia un appello attraverso un video che da qualche giorno gira sui social e dove si chiede giustizia attraverso pene certe per chi ha ammazzato le figlie. “Dei quattro carnefici di mia figlia solo uno è in carcere, gli altri tre girano indisturbati”, spiega Alessandra Verni. “Siamo vittime invisibili di una giustizia non certa”, aggiunge Barbara Mariottini. Sua figlia Desirèe è stata drogata, violentata e trovata morta a San Lorenzo, a Roma: “Giulia è anche figlia di una società che non vuole un cambiamento. Ho sperato tutti i giorni che l’epilogo non fosse stato quello di Desirèe. Invece ha avuto lo stesso destino”. Quello uguale ad altre 104 donne dall’inizio del 2023. “Ci vuole uno stravolgimento legislativo e insieme culturale. Noi andiamo nelle scuole per scardinare gli stereotipi e i pregiudizi. Ma la mostruosità si fa sempre avanti - è il grido di allarme di Barbara Mariottini -. Mia figlia Dalila, oggi 10 anni, soffre ancora tanto per la sorella. Non è venuto mai nessuno a chiedermi come stavo. Siamo state abbandonate, il percorso psicologico lo abbiamo seguito privatamente. Spero che non succeda anche alla famiglia di Giulia. Dare giustizia alle figlie morte è la nostra missione”. Dopo cinque anni il processo per la morte di Desirèe non si è concluso. “Il 20 ottobre è arrivata la Cassazione per il primo mostro, Yousef Salia, condannato all’ergastolo. Per altri due - continua la mamma della ragazzina - è stato confermato l’omicidio ma dobbiamo tornare in appello, un altro è stato condannato per cessione e violenza sessuale ma non per omicidio. È assurdo dopo 5 anni”. C’è sconforto nelle sue parole: “In Italia è difficile vedere in carcere a vita chi uccide. Ci sono gli sconti di pena, la buona condotta, nei processi se non viene rispettata la lingua originale può saltare tutto”. Giordana Di Stefano aveva 20 anni quando Luca Priolo l’ha accoltellata a Nicolosi, in provincia di Catania. Era il 2015. Vera Squatrito, la mamma, adesso dice: “Gli occhi dell’ex di Giulia sembrano gli stessi di Priolo. Mi sento quelle coltellate addosso. Dobbiamo fare rete e formazione tra i genitori e soprattutto con quelli di figli maschi che spesso sono restii a chiedere aiuto perché non vogliono accettare di avere in casa giovani violenti”. Vera adesso è mamma e nonna della sua nipotina, la figlia che Giordana aveva avuto da Luca Priolo. “Chiedere pene certe non significa che siamo mamme vendicatrici ma è un segnale di rieducazione per i giovani. Se noi premiamo chi ha commesso un omicidio abbiamo sminuito il reato che hanno commesso”. È quanto pensa anche Imma Rizzo, mamma di Noemi Durini uccisa a 16 anni a Specchia (Lecce) nel 2017. “Facciamole almeno riposare in pace. Sappiamo come va a finire, purtroppo, perché è stato già detto che Turetta ha disturbi psichici. Si trova sempre un espediente per il carnefice e invece no, ci si deve concentrare sulle vittime”, dice la mamma pugliese. Che ha scoperto come l’assassino della figlia dopo 6 anni dall’omicidio beneficiasse di un minimo di libertà: “Lucio Marzo dal 2020 beneficiava di un permesso premio e poteva così uccidere qualcun’altra, è stato fermato al volante della sua auto ubriaco”. Ma la mamma non si è arresa: “Insieme alla mia avvocata siamo riuscite attraverso varie denunce a farlo spostare nel carcere per adulti e non più in quello minorile. Voglio leggere le motivazioni del permesso premio e aspetto che Matteo Salvini gli revochi la patente. Non può un assassino conseguire la patente in carcere, già beneficia dell’abbreviato e di una pena ad appena 18 anni di carcere”. “Filippo è un uomo come me, per cambiare bisogna ammettere le debolezze” di Sarah Martinenghi La Repubblica, 21 novembre 2023 “Filippo è un uomo come me”. Il post del “Cerchio degli uomini”, associazione torinese che “rieduca” stalker e uomini violenti, lancia un messaggio forte, di identità e di denuncia, per far riflettere sull’origine del problema: la cultura “maschilista e patriarcale che permea ogni anfratto della nostra società”. Roberto Poggi, vicepresidente del Centro, riflette sul femminicidio di Giulia Cecchettin: “Anche questo caso è figlio di una cultura della prevaricazione, “dell’io valgo se sono più di te”. Uccidere la ragazza che si laurea prima di me non è che espressione di fragilità, del fatto che io debba controllarti perché se tu te ne vai, io non sono più niente e resto nel vuoto”. Colpisce la giovane età di Filippo Turetta. La cultura patriarcale non è una questione generazionale? “Lo stereotipo dell’uomo maltrattante come quello che emerge nel film di Paola Cortellesi dell’uomo forte, in canottiera, che ha fatto due guerre, che alza le mani sulla moglie, non è più di moda. Ma il problema è che il maschilismo è pervaso da una fragilità che l’uomo non può ammettere, dovuto a una condizione di analfabetismo affettivo, sentimentale e relazionale. È il mito dell’uomo che non deve chiedere mai e continuerà se ci si basa sui valori del dover essere forti e dell’avere paura”. Perché incide la paura? “Il discorso riguarda anche quello che sta avvenendo: le guerre. Ed è una questione politica, di scelte che vanno in questa direzione, come l’ipotesi di reintrodurre la naia o la corsa al riarmo, decisioni che sostengono un’identità fragile, che fa leva sulla paura. Continuando così, nonostante il percorso di cambiamento che è in atto da anni, si rischia solo di implodere”. Il tema della violenza di genere è sentito e affrontato. Eppure i numeri continuano ad aumentare. Come mai? “Se ne parla tanto, è vero, ma i numeri ci dicono che il 30 per cento delle donne ha subito una violenza (fisica o psicologica). Credo sia dovuto al fatto che l’emancipazione femminile è occasione per troppi uomini che restano indietro, di crisi, di perdita del contatto con se stessi” È comunque un problema di educazione? “Certo, se i ragazzi vengono educati in famiglie che li fanno sentire “super”, di fronte alla realtà di una donna che non sta nei canoni di subordinazione, entreranno in crisi. O la risolvi, o esplodi. La cultura di oggi, lo vediamo con i social, è quella dell’apparire, sottoprodotto della cultura della prevaricazione e della competizione”. Come affrontate tutto questo nei vostri incontri? “Portiamo gli uomini a comprendere le ragioni che li hanno portati all’agire violento. Quando arrivano da noi, spesso perché gliel’ha imposto il giudice, quasi sempre tendono a minimizzare: “ho alzato le mani su mia moglie però è colpa sua”, “mi ha denunciato, ma perché vuole avere i bambini con sé”. Da queste iniziali negazioni li portiamo a comprendere quale sia il problema precedente. Se emerge l’origine della sofferenza, allora c’è possibilità di reale cambiamento”. Quali sono i risultati concreti che ottenete? “Fino a due anni arrivavano da noi uomini per loro scelta. Con il codice rosso, i corsi (33 incontri per due ore a settimana) sono imposti dal giudice e quindi spesso arrivano controvoglia, con un inizio traumatico. La casistica ci dice che il 15-20 per cento degli uomini fa un cambiamento sostanziale in meno di un anno, non cadranno in recidiva nel commettere violenze fisiche, saranno rare quelle psicologiche. Per un altro 15-20 per cento, aver frequentato i nostri gruppi sarà come se nulla fosse: su di loro non abbiamo aspettative. mentre il 60-70 per cento si mette comunque in discussione: si è innescato il processo di svolta. Altri atti di violenza saranno rari. ma c’è bisogno di tempo, a volte di 2 o 3 anni. Da marzo però diventerà obbligatorio in tutti i centri che i corsi durino almeno un anno”. Giustizia riparativa: trasformare il danno in un’opportunità di cambiamento di Andrea Molteni chiesadimilano.it, 21 novembre 2023 A quasi un anno dal varo, la Riforma Cartabia ha inciso positivamente sulla durata dell’iter processuale, meno sull’applicazione delle pene sostitutive. Ma il concetto di “ristoro” non deve limitarsi al piano giudiziario, perché può estendersi alla comunità in generale. Un anno (o quasi) dalla riforma, una settimana per approfondirne contenuti e prospettive. Nel corso della Settimana internazionale della giustizia riparativa (Restorative Justice Week, 19-25 novembre), appare opportuno tentare un primo, parziale bilancio della riforma che in Italia ha reso norma il ricorso alla stessa. Il 30 dicembre 2022 - appena entro il termine imposto dal Pnrr, di cui costituisce una delle condizioni - è entrata in vigore la cosiddetta “Riforma Cartabia”, dal nome della Ministra della Giustizia che l’ha fortemente voluta. Il testo del decreto legislativo n. 150 del 10 ottobre 2022, convertito con alcune modifiche nella legge n. 199/2022, è stato il prodotto di un lavoro lungo e complesso, condotto da sei gruppi di studio costituiti presso il Ministero. È una riforma ampia, che interviene su molti e diversi aspetti della giustizia penale italiana, da quelli procedurali a quelli organizzativi, fino al varo di rilevanti innovazioni riguardanti le pene. E soprattutto fino all’introduzione, nell’ordinamento penale italiano, di una disciplina organica della giustizia riparativa. Tempi ridotti - La riforma pare aver centrato i suoi obiettivi, in linea con gli obiettivi indicati dal Pnrr, nelle parti destinate a incidere sulla durata dei procedimenti. L’abbattimento dei tempi giudiziari appare effettivo: l’ultima relazione sul monitoraggio statistico degli indicatori del Pnrr in materia giudiziaria indica, per il primo semestre del 2023, una riduzione del 29% in riferimento al disposition time (che calcola il rapporto tra i procedimenti pendenti e quelli definiti nell’anno) nel settore penale e del 19,2% nel settore civile. Il sovraffollamento carcerario - Più complesso è invece valutare l’esito della riforma riguardo l’applicazione delle pene sostitutive e il ricorso a percorsi di giustizia riparativa. Sul primo tema non sono ancora disponibili dati precisi sull’utilizzo delle sanzioni sostitutive da parte dei tribunali italiani; sono state emesse, però, diverse sentenze che le impongono come esito del processo. E un numero crescente di tribunali ha stilato schemi operativi relativi alla loro applicazione. Uno degli obiettivi dell’introduzione di queste nuove forme sanzionatorie è ridurre l’affollamento carcerario, tornato ormai a toccare livelli intollerabili. Rispetto a questo auspicabile obiettivo, resta il timore che accada quanto è accaduto con altri tentativi esperiti, in passato, con la medesima intenzione: non hanno di fatto inciso sul sovraffollamento, ma anzi hanno avuto l’effetto concreto e reale di estendere la quota di popolazione complessivamente sottoposta a una misura giudiziaria o penale. Ricomporre i legami sociali - La riforma ha inoltre introdotto, come detto, una disciplina organica in materia di giustizia riparativa, che dispone, parallelamente al percorso giudiziario penale, la possibilità di accedere a forme di ricomposizione dei legami sociali e di riparazione dei danni creati da un reato. Si trattava di dare forma giuridica alla cultura della giustizia riparativa che, come ha ricordato papa Francesco nel suo discorso rivolto ai membri del Consiglio superiore della magistratura, “è l’unico e vero antidoto alla vendetta e all’oblio, perché guarda alla ricomposizione dei legami spezzati e permette la bonifica della terra sporcata dal sangue del fratello”. Novità, questa, che riguarda fortemente anche le nostre comunità territoriali, chiamate ad assumersi, in qualche misura, la responsabilità del fatto penale e della sua soluzione positiva. Applicare pienamente l’ordinamento sulla giustizia riparativa richiederà però ancora un po’ di tempo, necessario per la costituzione dei nuovi Centri di giustizia riparativa o per l’adeguamento alla normativa di quelli già esistenti. Intanto sono stati pubblicati i decreti che regolano la costituzione e i requisiti di iscrizione all’elenco dei mediatori esperti in giustizia riparativa; diverse università stanno avviando percorsi di formazione per i mediatori; i Centri già esistenti (come quello del Comune di Milano) hanno cominciato ad affrontare i primi percorsi di giustizia riparativa sulla base della nuova legge. “Riparare” non solo nel diritto penale - Al di là di una valutazione complessiva di questo nuovo istituto giuridico, che richiederà tempi più lunghi e dovrà tener conto dei suoi aspetti più delicati e controversi (per esempio il diritto di difesa, il ruolo degli esperti nella gestione e nella composizione dei conflitti penali, il rischio di un’estensione del controllo penale sul terreno dei legami sociali o di una qualche forma di “negoziazione” delle responsabilità penali), è bene sottolineare che quello penale non è l’unico ambito di applicazione della giustizia riparativa, che riguarda ogni contesto in cui si faccia esperienza di un danno, in cui si eserciti il “potere di punire”: e dunque può riguardare anche la scuola, la famiglia, il contesto lavorativo, la comunità in generale. Essa è fondata sul dialogo e sul rispetto, e restituisce la “proprietà” del conflitto a chi lo ha vissuto: a chi ha subito un danno anzitutto, insieme a chi lo ha causato e al contesto relazionale e sociale - la comunità - entro cui il conflitto e il danno si sono verificati. La giustizia riparativa, inoltre, non sostituisce né esclude la possibilità di una sanzione, ma ha uno scopo diverso dalla punizione, ovvero quello di comprendere il senso di ciò che è accaduto e trasformare il contesto stesso in cui il fatto dannoso è avvenuto, partendo dal racconto di chi, in una forma o nell’altra, l’ha vissuto in prima persona. Quella riparativa è insomma una giustizia “enzimatica”: gli operatori non sono esperti e professionisti esterni che espropriano il conflitto a chi l’ha esperito, ma agiscono per promuovere e facilitare la sua risoluzione positiva, coinvolgendo tutte le parti in causa e operando per la trasformazione del danno in un’opportunità di cambiamento. La giustizia riparativa, nuovo business. Ma così la riforma rischia di essere un bluff di Felice Manti Il Giornale, 21 novembre 2023 A pochi mesi dal via, l’istituto previsto dalla Cartabia mostra tutti i suoi limiti: le strutture non ci sono, il personale è risicato e serve la formazione perché mediatori e avvocati sono stati fatti fuori. C’è un nuovo business disegnato su misura per le coop. Si chiama giustizia riparativa, una riforma partita lo scorso 30 giugno 2023 grazie all’ex Guardasigilli Marta Cartabia per potenziare il percorso (gratuito) “dal dolore alla riconciliazione”, con una forma di risarcimento economico o morale, con l’intento di svuotare le carceri e ristabilire (finalmente) il principio costituzionale di rieducazione e reinserimento sociale del condannato. “Ci si prende cura del reo e della vittima, con l’esperienza del pentimento e delle scuse, per riparare concretamente e moralmente al pregiudizio inferto, magari riservandosi il privilegio del perdono”, scrive Angelo Monoriti, docente di Negoziazione alla Luiss Guido Carli su “Dall’ordine imposto all’ordine negoziato” (Giappichelli, 2023) in cui descrive la giustizia riparativa come una forma di vendetta “buona” a fronte di una vendetta “cattiva”, cioè la pena, che ha sostituito il diritto alla ritorsione della vittima. Nelle scorse settimane il presidente del Tribunale di Milano Fabio Roia ha pubblicato un protocollo operativo che farà scuola. “È una rivoluzione culturale”, dice. Non senza polemiche, al protocollo avrà accesso Davide Fontana, l’uomo che ha ucciso e fatto a pezzi Carol Maltesi, ma anche Alessandro Impigniatiello (che a Senago ha ammazzato la fidanzata incinta Giulia Tramontano). “Può offrire alternative diverse e più efficienti da quelle proprie di una sentenza semplicemente punitiva - sostiene il pm Stefano Musolino, sostituto procuratore a Reggio Calabria e segretario nazionale di Md - ma la norma si preoccupa molto dell’interesse dell’autore del reato mentre è meno attenta ai diritti della persona offesa del reato, che rischia una vittimizzazione secondaria in un percorso ricco di insidie e altre sofferenze”. Pochi mesi dopo la sua entrata in vigore, con già diverse richieste presentate dai detenuti, questa riforma - al netto di una “cattiva interpretazione nella rappresentazione mediatica” per usare le parole di Roia - mostra tutti i suoi limiti e rischia di essere un bluff pur di accontentare gli appetiti incrociati di chi vede in questa riforma (soprattutto per la formazione delle nuove figure richieste) un business su cui mettere le mani. Le questioni sul tavolo sono fondamentalmente tre: le strutture, tutte da individuare; i professionisti abilitati a seguirle; la valanga di istanze attese: vale astrattamente per qualunque reato, dalle indagini alle sentenze (persino in caso di proscioglimento) e anche in assenza di consenso della vittima. L’obiettivo è il sovraffollamento carcerario, ma anche la rieducazione del condannato. Un’istanza che affonda le sue radici nella nostra Carta, come spiega l’avvocato Ivano Iai: “Il tabù della potestà punitiva esclusiva dello Stato cede di fronte alla capacità umana di ascoltarsi, mettersi nei panni dell’altro, ricercare soluzioni condivise che riparino anche i danni più gravi alla persona. E si tratterebbe di una risposta efficace e pienamente attuativa del principio di rieducazione contenuto nell’articolo 27 della Costituzione”. Oggi ci sono 60mila detenuti per 51.275 posti, tanto che per la ristrutturazione di alcune strutture (Forlì, San Vito al Tagliamento, Brescia, Firenze) sono arrivati 166 milioni. La sinistra invece punta sulle “case territoriali di reinserimento sociale”, strutture alternative per chi deve scontare fino a 12 mesi, guarda caso proprio gli 8mila detenuti in eccesso secondo Pd, Avs e +Europa. Ma al netto del dibattito sul significato della riforma e delle ricadute sulle carceri, a chi sarà affidata la gestione dei programmi? Ai Centri di giustizia riparativa, che oggi però non esistono. Chi ci lavorerà, visto che i numeri del personale sono già al lumicino? Consulenti esterni, ovvero “mediatori esperti” o “enti del terzo settore”. Eccole, le coop, le cui mani si allungheranno sia sulla gestione dei programmi, sia sul ricco mercato della formazione. La complessità dell’accordo riparativo richiederebbe, oltre alla formazione dei mediatori, anche la formazione universitaria di coloro che assistono le parti, perché serve una “figura professionale nuova” così come invocata di recente dalla Cassazione (la 8473 del 2019) che abbia acquisito “ulteriori competenze di tipo relazionale e umano, inclusa la capacità di comprendere gli interessi delle parti al di là delle pretese giuridiche avanzate”, come sottolinea nel libro il professor Monoriti. Di che numeri parliamo? I procedimenti penali pendenti sono 1,5 milioni, le persone coinvolte molte di più. Facile pronosticare che nel giro di un anno - vista la posta in palio, la diminuzione della pena e la gratuità del percorso - le istanze possano lievitare. Quanti sono i mediatori esperti? Al momento nessuno, fra qualche mese poche decine. C’è un elenco al ministero della Giustizia, l’inserimento è ovviamente subordinato al possesso di specifici requisiti: esperienza di giustizia riparativa, aver completato una formazione teorica e pratica, esperienze presso servizi minorili o esecuzione penale esterna. Tutti parametri molto stringenti, che da un lato avvantaggiano le coop che già lavorano col ministero, dall’altro penalizza chi dal 2013 opera in forma non organizzata, come lamenta l’avvocato Demetrio Calveri, fondatore della Camera di Mediazione Nazionale e responsabile scientifico dell’Airac. La sua richiesta al Senato di valorizzare mediatori familiari e civili con anni di esperienza non è stata accolta. “Esperti in programmi di giustizia riparativa o in tecniche di risoluzione alternativa dei conflitti, anche con esperienza decennale, non potranno svolgere la professione - dice al Giornale - posto che l’articolo 9 del decreto attuativo, che disciplina i requisiti soggettivi e di onorabilità, prevede il non essere iscritti all’albo dei mediatori civili o familiari... mettendo così sullo stesso piano professionisti e chi ha una condanna o procedimenti in corso. “Questa follia ha una logica - continua l’avvocato - ovvero cercare di escludere quanti più soggetti possibili”. Perché? Poi c’è il tema dei centri. Dove avverranno gli incontri “riparativi” tra vittime e carnefici? Qualcuno maligna che proprio le “case territoriali di riferimento” tanto care alla sinistra potrebbero diventare i nuovi centri di giustizia riparativa. E il cerchio (del business) si chiude. Un indizio ed è finita. La follia delle misure di prevenzione di Antonio Gagliano* Il Dubbio, 21 novembre 2023 Il sospetto come valore assoluto: è l’abnorme principio che regola le misure di prevenzione antimafia. Così ventidue anni fa si è aperta una voragine nel diritto. Va dato merito al “Dubbio” di essere tra le poche testate che hanno denunciato la ripresa e la diffusione delle immagini dell’arresto dell’ex magistrato Silvana Saguto, e così l’esecrabile costume di “mettere in scena” con accorta regia - è proprio il caso di dirlo- un momento così tragico della vita di una persona e dei suoi familiari, per darlo in pasto ad un pubblico sempre più bramoso di compiacersi della sofferenza e della umiliazione specie di chi, già potente, sia caduto in disgrazia. Generale è stata, nell’avvocatura italiana, la riprovazione per lo scempio della riservatezza e della dignità della persona, seppure proprio gli avvocati vivano ogni giorno le degenerazioni di un sistema - certamente non estraneo alla carriera dell’ex magistrato- che da decenni mortifica diritti anche fondamentali delle persone oltre che le facoltà e prerogative difensive. La vicenda merita qualche ulteriore riflessione. Una delle inaccettabili conseguenze della grottesca, spietata spettacolarizzazione delle sequenze dell’arresto della dr. ssa Saguto è quella di concentrare l’attenzione dei molti sulla responsabilità del singolo e di distrarla dalle aberrazioni di quel sistema in cui gli illeciti, secondo la sentenza di condanna, sono maturati. L’esposizione al pubblico ludibrio del mostro di turno torna utile per distogliere lo sguardo dell’opinione pubblica dalle enormi disfunzioni del sistema delle misure di prevenzione e delle amministrazioni giudiziarie sicché, nei fatti, risulta più facile che quello stesso sistema, immutato, si perpetui come se nulla fosse accaduto. A ben guardare, è già successo anche di recente: sulla persona del dr. Palamara, ormai ex magistrato, si sono concentrate tutte le critiche afferenti al funzionamento del Csm e al governo della magistratura e però, individuato l’unico capro espiatorio e additatolo come l’origine e la causa di ogni presunta malefatta, le prassi e i metodi a quegli attribuite non sembrano affatto archiviate nel passato. La vicenda giudiziaria della dottoressa Silvana Saguto e dei suoi dichiarati concorrenti non deve esser letta come un fatto isolato e personale cui sia estraneo il sistema, innanzitutto, normativo delle misure di prevenzione, specie patrimoniali e di conseguenza delle amministrazioni giudiziarie. È incontestabile che l’estensione quantitativa - sia per numero che per valore- dei sequestri e delle confische di prevenzione abbia assunto una dimensione talmente sproporzionata rispetto alle complessive attività economiche da rendere inverosimile che ad essa corrisponda il reale perimetro dell’economia illegale o comunque dei beni o attività di derivazione illecita. Nessuno ha dati completi e aggiornati sulla quantità di beni e aziende in sequestro, ma già i numeri parziali in vario modo raccolti - ad esempio, quelli dell’Osservatorio sulla raccolta dei dati dei beni sequestrati e confiscati, doviziosamente riportati nell’ottimo saggio “L’inganno” di Alessandro Barbaro - appaiono inquietanti: oltre 2.200 aziende e oltre 215.000 beni (quest’ultimo dato non comprende i beni strumentali delle aziende - che ovviamente sono tantissimi-, ma solo le proprietà personali) sono nelle mani degli amministratori giudiziari, e ben oltre il 90% di quelle aziende sono già chiuse, cioè sostanzialmente fallite, spesso ancor prima che sia intervenuto un definitivo provvedimento di confisca, mentre quell’enormità di beni mobili e immobili sono spesso in totale stato di abbandono. È molto difficile credere che sia così ampia la fetta di economia illegale nel nostro Paese e, di converso, necessariamente così esigua quella della “economia legale”. È plausibile che una porzione così grande di operatori economici e di comuni cittadini sia riuscito a procurarsi e ad accumulare così tanti proventi illeciti? Siamo veramente un popolo di mafiosi e riciclatori? Sorge persino il dubbio che l’enormità del fenomeno dei sequestri sia il prodotto di un recondito fattore culturale in forza del quale si è portati a presumere, sino a prova contraria, che sia illegale ogni forma di privata attività economica, sicché l’entità e quantità di sequestri non debba incontrare nemmeno un limite di ragionevolezza in un qualche rapporto di misurata proporzionalità tra il complesso delle attività lecite e quelle di presunta natura o di derivazione illecita. Invero le presunzioni, spesso insuperabili, di fatti o condotte illecite, accompagnate dall’esaltazione del sospetto quale criterio di ogni giudizio, rappresentano i due pilastri su cui si regge il nostro sistema delle misure di prevenzione e, di conseguenza, quello dei corrispondenti sequestri e confische. In tema di misure patrimoniali l’illiceità dell’accumulazione di beni o attività è presunta, addirittura per volontà normativa, e si fonda sul sospetto che si sostituisce ad ogni accertamento e che, ovviamente, non abbisogna di prove e nemmeno di gravi indizi: è più che sufficiente anche il mero, labile indizio anche se risulti contraddetto da altre risultanze di segno contrario. Il fulcro “normativo” del sistema sta nell’art. 4 del “codice antimafia” (d. lgs. 159/ 11) laddove (lettere “a” e “b”) si prevede che le misure di prevenzione “si applicano” (si noti la forma completamente “dispositiva”, che tende a precludere ogni spazio di autonoma valutazione da parte del Giudice) ai soggetti “indiziati” di appartenenza mafiosa ovvero di un reato in vario modo connesso o collegato a quello di associazione mafiosa. Esiste termine più ambiguo, equivoco, sfuggente, scivoloso di quello di “indiziato”? A differenza del codice di procedura penale quando ad esempio si occupa delle misure cautelari, il codice antimafia non contiene alcuna indicazione sulla “qualità” dell’”indizio” (come ad esempio l’aggettivazione di “grave” o almeno di “sufficiente”), sicché l’elemento fattuale che induce verso una possibile responsabilità (quale appunto è l’indizio) può essere anche labile o congetturale. Né si richiede che si riscontri una pluralità di indizi ovvero l’assenza di elementi di segno contrario, in quanto favorevoli al destinatario della misura. E, di certo, non può tranquillizzare il fatto che l’indiziato di 416 bis o reato collegato sia un soggetto iscritto nel registro delle notizie di reato perché sottoposto ad indagini: è paradossale, infatti, che il dato formale di “indagato”, concepito quale strumento di garanzia, nell’ambito delle misure di prevenzione sia mutato in una sorta di subdolo cavallo di Troia da cui arriva, in modo pressoché automatico, il disfacimento del patrimonio e della vita del malcapitato. È noto peraltro quanto spesso sia strumentale, o anche solo negligente, l’iscrizione di un cittadino nel registro delle notizie di reato ovvero il suo permanervi per lungo tempo: si rabbrividisce al solo pensiero che la semplice condizione di indagato possa comportare conseguenze così tragiche e nei fatti irreversibili. La mera condizione di “indagato/indiziato” - di nessun significato sul piano sostanziale perché un’indagine in corso, o anche un indizio, non rappresenta un giudizio di responsabilità- comporta l’adozione del sequestro del patrimonio, o di parte di esso, di aziende, beni produttivi, risparmi, persino beni e valori di affezione per il caso in cui vi sia sproporzione tra il valore di tutti i compendi e i redditi dichiarati, ovvero quando, sempre sulla scorta di meri indizi e non già prove, risulti la provenienza illecita. Il tema della sproporzione patrimoniale (tra il valore dei beni o aziende e i redditi formalmente dichiarati) è uno dei più sofferti nella concreta applicazione delle misure di prevenzione. La sproporzione viene valutata - quasi sempre dalla Guardia di Finanza- in assenza di qualsivoglia contraddittorio, nel segreto dell’attività di Polizia giudiziaria. Il dato non ha valenza solo formale perché l’interessato potrà provare a smentire - ovviamente quando sia in possesso di probanti elementi a suo favore- la valutazione di “sproporzionalità” soltanto dopo l’esecuzione del sequestro e le sue ragioni verranno valutate nei tempi mai brevi del giudizio innanzi al Tribunale di prevenzione. In altre parole, le sue giustificazioni potranno avere ingresso quando la “feconda” azione degli amministratori giudiziari avrà già avuto il suo infausto corso, insomma quando l’azienda sarà già chiusa o decotta ovvero quando i beni, specie se produttivi, saranno da tempo stati abbandonati al loro destino o, nella migliore delle ipotesi, quando clienti e committenti saranno spariti, crollato il giro di affari, disdettati gli appalti e via discorrendo. Ma quel che è più grave è che le indagini “patrimoniali” sulla presunta sproporzione quasi sempre si fondano su dati che è impossibile contestare in ragione del fatto che l’interessato non ha più accesso a documenti o atti della amministrazione o di terzi (ad esempio, banche) che ben potrebbero giustificare la provenienza dei suoi averi. Ma quale sentenza storica: i giudici hanno stroncato la presunta cupola politico-mafiosa di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 21 novembre 2023 Rinascita-Scott di Gratteri finisce con 131 assoluzioni, si tratta di vite e carriere spezzate. Undici anni di carcere a Pitteli, simbolo del processo. Sentenza storica proprio no, quella emessa nella maxi-aula di Lametia per il processo “Rinascita Scott”. Certo, c’è la bandierina simbolica della condanna a 11 anni di carcere per l’avvocato Giancarlo Pittelli, ma è appunto poco più che una sagoma di cartapesta, e non c’è bisogno di ricordare Enzo Tortora e i tanti condannati al primo processo e poi assolti in appello. Ma i numeri parlano chiaro: 131 assolti su 338 vuol dire non solo che circa il 39% delle persone arrestate nel famoso blitz del 19 dicembre 2019 era composto di innocenti, ma anche che pm e gip non hanno fatto bene il proprio dovere. Perché è detto e scritto in ogni norma, in ogni riforma, e poi nei congressi e nei convegni che si deve andare a processo solo quando si hanno buone probabilità di arrivare a condanne. Se no, oltre a creare gravi danni alla vita delle persone, si fa anche perdere tempo e denaro. E questa non è giustizia. E quella grande aula di Lametia rischia di somigliare sempre più a un set cinematografico. Inoltre la storia della Dda di Catanzaro non brilla per efficienza, dopo l’ultimo fallimento del processo “Stige”, con il 60% delle assoluzioni tra primo e secondo grado. L’aspetto più scandaloso di questo processo è quel che è accaduto fuori dall’ aula. Ancora oggi era tutto un tripudio mediatico perché con questa inchiesta sarebbe stata scoperta la saldatura tra ‘ndrangheta e mondo della politica. Ma è proprio questo il punto debole di questo processo. Perché per esempio un personaggio di grande rilevanza politica come Gianluca Callipo, ex sindaco di Pizzo e responsabile regionale dell’Anci, l’associazione dei comuni calabresi, dopo aver scontato in via preventiva diversi mesi di carcere, è stato assolto. E pensare che il 7 giugno scorso il procuratore Gratteri in persona aveva invocato per lui 18 anni di reclusione. E l’ex consigliere regionale Pietro Giamborino invece dei vent’anni richiesti dalla Dda per mafia, ne dovrebbe scontare, qualora la sentenza fosse confermata nei successivi gradi di giudizio, uno e mezzo per traffico di influenze, piccolo reato evanescente. Non è un mafioso, quindi. Ma non lo è neppure l’avvocato Giancarlo Pittelli, come lui stesso ha detto e ridetto al processo. La sua condanna è legata alla presunta diffusione dei verbali del “pentito” Mantella, su cui, come ricordano i suoi legali Giandomenico Caiazza, Salvatore Staiano e Guido Contestabile “solo pochi mesi fa la Corte di Cassazione prima e il Tribunale per il riesame dopo, avevano escluso la sussistenza anche solo di indizi gravi di colpevolezza”. È tutto così scontato, ed era anche così prevedibile la condanna simbolica del fiore all’occhiello di tutta l’inchiesta, che lo stesso avvocato ex ex parlamentare di Forza Italia non se la sente di dare giudizi (“non sono abituato a commentare le sentenze”), se non per lasciare “agli sciacalli di turno”, il compito di “sbandierare le proprie opinioni nelle tv nazionali e locali”. Ovvio che non allude al procuratore Gratteri, lui non va mai in tv. In molti in questi mesi hanno criticato le modalità di composizione del tribunale e la giovane età, soprattutto professionale, della presidente Brigida Cavasino e delle due giudici laterali Claudia Caputo e Germana Radici. Si è detto che mai avrebbero trovato il coraggio di contraddire la Dda di Catanzaro e colui che fino a poco tempo fa l’aveva presieduta, Nicola Gratteri. Un personaggio di grande visibilità, non cercata ovviamente, un magistrato che viene ospitato spesso e volentieri da giornalisti e conduttrici ossequiosi, e che gira l’Italia con i suoi numerosi libri editi da Mondadori, uno che non ha paura di irridere le riforme. E quando dice nelle conferenze stampa “abbiamo arrestato presunti innocenti”, tutti pensano che le persone cui lui ha contribuito a far mettere le manette siano in realtà tutti colpevoli. Abbiamo visto che non è così, e i 131 assolti di questo processo sono lì a dimostrarlo. Oltre ai tanti dimezzamenti di pena. Poi, se qualcuno si aspetta il totale degli anni per tutti gli imputati, vada a leggere Travaglio, lì c’è, ma sappia che da queste parti quel totale non lo avrà mai. Perché chi fa quel calcolo per sparare come pallottole titoloni con numeri pieni di zero non rispetta la Costituzione, per cui “la responsabilità penale è personale”. Poi, se si vuol sapere se gli uomini delle cosche sono stati castigati dalla sentenza di primo grado, possiamo guardare le pene più alte comminate, come i 30 anni di carcere per Saverio Razionale o i 28 per Paolo Lo Bianco. E non siamo neanche in corte d’assise, qui non ci sono i reati di sangue, ma è sempre l’articolo 416 bis del codice penale a innalzare le pene. Il procuratore vicario della Dda di Catanzaro Vincenzo Capomolla non si sbilancia nel commento, come sicuramente avrebbe invece fatto il suo predecessore: “È stata dimostrata -dice-la contaminazione che la ‘ndrangheta vibonese esercita sul territorio”. Ma tutto sommato ha in mano solo lo scalpo di Giancarlo Pittelli. E sa bene che in appello, lontano dai riflettori e dalle grida sulle “sentenze storiche”, le carte vengono esaminate con maggiore cura, e che poi la stessa cassazione difficilmente potrà smentire se stessa. Entro due anni si dovrà celebrare l’appello, se no le carceri calabresi si svuotano per prescrizione. Ci sarà da lavorare per i 600 avvocati difensori che in questi anni hanno popolato la maxi-aula di Lametia. Ma anche per la procura “antimafia”, perché la sua teoria sulla “zona grigia” che sostiene la ‘ndrangheta dall’esterno è sempre più traballante. Verona. Un uomo di 34 anni si è tolto la vita nel carcere di Montorio rainews.it, 21 novembre 2023 La tragedia domenica pomeriggio a dieci giorni dal caso precedente. Il compagno di cella uscito per l’ora d’aria. Le lenzuola strette attorno al collo e annodate alle sbarre. Erano le quattro del pomeriggio di domenica quando Giovanni Polin, 34 anni, ha deciso di togliersi la vita nel carcere di Montorio, a Verona. Stessa scelta, dieci giorni fa, di un altro detenuto, deceduto poi in ospedale. Polin, che aveva 34 anni, era stato arrestato di recente a seguito della denuncia per maltrattamenti sporta dalla ex compagna. L’uomo è solo l’ultima vittima di un’emergenza di cui si fatica a invertire la rotta. In Italia il 2022 è stato l’anno nero dei suicidi nei penitenziari: 84 le vittime. Mai così tante dal 1992. Quest’anno, con Polin, i casi sono arrivati a 63. Suicidio nel carcere di Verona: detenuto si è tolto la vita a Montorio, di Andrea Aversa (L’Unità) Due suicidi in dieci giorni presso il penitenziario veneto, il terzo dal mese di agosto. Anche in questo caso non c’è stata alcuna comunicazione da parte dell’amministrazione penitenziaria o del Garante per i diritti dei reclusi. Ancora un suicidio in carcere, ancora a Montorio, penitenziario di Verona. Si è trattato del secondo caso in dieci giorni. E anche questa volta, senza il contributo dell’associazione Sbarre di zucchero, la notizia non sarebbe stata resa pubblica. È evidente che il silenzio e l’indifferenza sono diventate il metodo prediletto dell’amministrazione penitenziaria veronese. Una sindrome che pare abbia contagiato anche il Garante per i diritti dei detenuti. È stato così per il giovane Cristian Mizzon lo scorso agosto. Lo stesso è accaduto dieci giorni fa per un cittadino di origine afgana e con problemi psichiatrici. E in questo modo siamo arrivati a 55 suicidi avvenuti nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno. Insomma, la mattanza di Stato continua senza fine. I fatti sono accaduti verso le 16 della giornata di ieri. Secondo quanto riportato da Sbarre di zucchero, il detenuto in questione aveva 25 anni ed era cittadino italiano di adozione. Il giovane era recluso presso la prima sezione del carcere veronese di Montorio. “Come le volte precedenti, carcere e garante dei detenuti non ne hanno fatto parola. Perché questo silenzio? Cosa impedisce loro di informare su questi gravissimi e troppo frequenti eventi tragici?”, ha scritto in una nota il direttivo dell’associazione. Dieci giorni fa è toccato a un uomo di origini afgane ma con cittadinanza austriaca (perché rifugiato politico). Addirittura in questo caso era stata diramata la notizia di un suo salvataggio. Invece, la vittima si era impiccata e il suo decesso era avvenuto due giorni prima della diffusione di quelle comunicazioni. Il detenuto era affetto da problemi psichiatrici. Come spesso accade in Italia, le persone con tali patologie invece di essere destinate a strutture sanitarie adeguate vengono sbattute in carcere. E questi sono i risultati. Lo scorso agosto, sempre nel carcere di Montorio (il penitenziario dove si è tolta la vita Donatella Hodo), è deceduto il giovane Mizzon. A raccontarci l’inferno che c’è all’interno della struttura, è stata l’attivista Micaela Tosato: “A Montorio sono due le emergenze che meriterebbero particolare attenzione. La prima è quella dell’assenza di lavoro. La cooperativa che si occupava di organizzare le attività professionali nel carcere è stata fatta fuori dopo tanti anni di collaborazione. Il motivo? Anomalie fiscali emerse, così, improvvisamente. Poi c’è l’abuso della terapia, con la somministrazione troppo facile di farmaci pesanti. Ma non è da trascurare la questione igienico - sanitaria: sono solo due le sezioni che hanno la doccia in cella. Immaginiamo 20-25 persone che in un’ora devono farla e condividerla”. Torino. Migranti isolati in un loculo: ecco la stanza segreta del Cpr di Alice Dominese Il Domani, 21 novembre 2023 È “l’ospedaletto”. In questa sezione, distaccata dal corpo centrale, si è suicidato Balde nel 2021. Nell’indagine, archiviata, i pm hanno rilevato numerose violazioni. Ora il governo vuole riaprirlo. Dodici locali, ognuno di 28 metri quadri scarsi perché cinque sono occupati dal bagno, senza finestre. Questo è il famigerato “ospedaletto”, una sezione del centro di permanenza temporanea per migranti di Torino più simile a una cella per via del piccolo cortile circondato da muri e sbarre sul soffitto. È qui che il giovane migrante Moussa Balde si è tolto la vita, dopo 10 giorni di isolamento, il 22 maggio 2021. Come lui, le persone recluse in questa cella sono state costrette per giorni, e in alcuni casi per svariati mesi, a dormire nella stessa stanza del bagno, senza finestre, e a mangiare in solitudine, senza accedere alla mensa. Le carte della procura di Torino, ottenute da Domani, rivelano come le persone detenute in isolamento in questo luogo hanno subito trattamenti degradanti che violano i diritti costituzionali e la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. La valutazione dei pubblici ministeri, emersa nel corso del processo per la morte di Balde, si accompagna alla richiesta di archiviazione delle accuse di sequestro di persona nei confronti del dirigente dell’ufficio Immigrazione, responsabile della sorveglianza del centro, e dei due funzionari che hanno rinchiuso Balde nell’ospedaletto. Il sorvegliante accusato di averlo abbandonato rinchiuso senza osservazione è stato prosciolto. Secondo i pm, che hanno rinviato a giudizio la direttrice della struttura e il responsabile sanitario per l’accusa di omicidio colposo di Balde, gli uomini della polizia hanno agito seguendo una prassi consolidata e nella convinzione che quella prassi fosse legittima, “seppure priva di qualsiasi supporto legale”: in mancanza di spazi adatti in cui isolare le persone recluse nel cpr, l’ospedaletto era infatti diventato il luogo dove i funzionari trasferivano i soggetti considerati a rischio per motivi sanitari e di ordine pubblico. Lo stesso Balde era stato trasferito lì per “un’ipotesi di psoriasi”, ma nel bagno di quella cella è morto impiccandosi con un lenzuolo. Una prigione non ufficiale - Diversi sopralluoghi, come quelli effettuati dalla commissione del Senato nel 2014 e dal Garante nazionale nel 2018, avevano portato a definire l’ospedaletto un luogo di grave afflizione per le persone detenute, si legge negli atti. La procura ha stabilito che in questo luogo si è verificata “una condizione di isolamento e di restrizione della libertà di movimento esorbitante rispetto a quella prevista”. Il poco spazio a disposizione dei detenuti e le caratteristiche delle celle rendono le condizioni di vita all’interno dell’ospedaletto “evidentemente più degradanti” rispetto a quelle degli altri spazi abitati del cpr. L’ospedaletto era un vero buco nero: un caso unico in Italia, sostiene la procura. Nei cpr infatti “non sono previste, e quindi non sono presenti, celle di isolamento, neppure per ragioni sanitarie”, è scritto nella nota del ministero dell’Interno dell’ottobre 2021 agli atti dell’inchiesta. Anche se il decreto per la regolamentazione dei cpr e dei centri di accoglienza stabilisce che l’isolamento può essere previsto “per ragioni strettamente sanitarie” e sempre sotto sorveglianza medica, la reclusione nell’ospedaletto è stata per anni adottata come soluzione impropria a situazioni di varia natura. Ciò sarebbe avvenuto in mancanza di altre strutture adeguate dove collocare in isolamento le persone recluse. Venivano portate lì persone in attesa di essere trasferite in ospedale, chi doveva essere isolato per evitare la trasmissione di malattie infettive, persone con problemi psichiatrici, persone transessuali, e anche coloro che i sorveglianti ritenevano necessario allontanare dagli altri detenuti per evitare scontri fisici. Sistema infernale - La questura, emerge dalle carte, ha ammesso che l’ospedaletto è stato utilizzato a lungo su espressa disposizione degli ispettori di vigilanza anche per motivi di ordine pubblico, in assenza di una procedura che definisse la durata della permanenza del recluso al suo interno. In alcuni casi, l’isolamento sarebbe avvenuto su richiesta degli stessi trattenuti, per timore di subire attacchi personali nei locali comuni del cpr. Di questa prassi illecita sarebbero stati a conoscenza tutti gli organi che avrebbero dovuto vigilare. Quando poi il trasferimento nei locali dell’ospedaletto è avvenuto per motivi sanitari, ciò si è verificato senza che il medico responsabile del centro offrisse la sua necessaria valutazione, e senza sorveglianza. Contrariamente a quanto previsto, infatti, nella cella il recluso non poteva essere tenuto sotto osservazione, perché all’interno di una stanza chiusa. Questi locali si trovano inoltre a decine di metri di distanza dall’infermeria dove operava il personale sanitario. A questo proposito la procura sostiene “che Balde, che del resto non presentava alcuna patologia che consigliasse l’isolamento, non avrebbe avuto modo di suicidarsi se fosse rimasto sotto osservazione”. La mancata assistenza sanitaria nel cpr di Torino è un problema ampio: le indagini hanno rilevato che il cpr non ha adottato alcuna forma di prevenzione nei confronti del suicidio di Balde, ma nemmeno ha saputo rispondere in maniera efficace agli obblighi di cura nei confronti di tutti gli altri detenuti, compresi coloro che presentavano segnali di disagio psichico. Un’ulteriore violazione dei loro diritti. In questa situazione, il dirigente dell’ufficio Immigrazione a capo della sorveglianza del centro e i due funzionari che hanno chiuso illegalmente Balde nell’ospedaletto avrebbero agito in linea con le direttive stabilite dalla questura, mai sanzionate, nonostante le drammatiche conseguenze messe in luce dalle indagini. A marzo 2023 lo stesso ministero dell’Interno ha sostenuto in una nota che nei cpr l’isolamento può avvenire anche per motivi di ordine pubblico, “con interpretazione - a parere dei pm - non conforme con la ratio normativa”. In pratica la morte di Moussa Balde sarebbe il frutto di un fraintendimento della legge. Il cpr di Torino è chiuso da marzo 2023, dopo l’ultima rivolta dei reclusi. Nonostante le anomalie riscontrate, il centro è nell’elenco, rivelato da Domani alcune settimane fa, delle strutture che il governo avrebbe intenzione di rimettere in funzione. Tuttavia, dice Marco Grimaldi, deputato di Alleanza verdi e sinistra, “i lavori di ristrutturazione sono fermi e quegli spazi non sono affatto idonei a ospitare detenuti per così lunghi periodi di tempo”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Torture in carcere, picchiati anche detenuti disabili casertanews.it, 21 novembre 2023 La testimonianza di una delle vittime dei pestaggi del 6 aprile 2020 ma è scontro sui riconoscimenti. “Non hanno risparmiato nessuno, nemmeno gli invalidi”. Così Carmine Di Saverio, uno dei detenuti picchiati durante il pestaggio avvenuto il 6 aprile 2020 al carcere di Santa Maria Capua Vetere e per cui è in corso il processo a carico di 105 imputati, tra cui agenti, funzionari del Dap e medici dell’Asl. Di Saverio, cieco ad un occhio ed oggi libero, nei video mostrati proiettati dinanzi alla Corte d’Assise - presidente Roberto Donatiello - è nella stanza della socialità inginocchiato e faccia al muro, ad un certo punto un agente con mascherina lo prende per la maglia, e lo trascina per la stanza, fino alla porta d’ingresso, dove ci sono altri agenti, tra cui alcuni con caschi, che si accaniscono contro il detenuto. “Non hanno risparmiato nessuno, neanche gli invalidi” dice il teste, che poi parla delle botte prese dal detenuto sulla sedia a rotelle Vincenzo Cacace. Con gli avvocati degli imputati, così come avvenuto per altri testimoni, è invece scontro sui riconoscimenti, in particolare quello della Commissaria della polizia penitenziaria Annarita Costanzo, imputata e ritenuta dalla Procura (pm Alessandro Milita, Alessandra Pinto e Daniela Pannone) una delle funzionarie sul campo nel corso della perquisizione straordinaria poi degenerata in pestaggi, anche perché in servizio allora al carcere sammaritano (oggi è ancora sospesa). Di Saverio racconta che quando era inginocchiato nella stanza della socialità aveva sentito una voce di donna dire che ‘stanno bene inginocchiati, come a La Mecca’, e rispondendo al pm durante l’udienza indica la Costanzo; Di Saverio, che ammette però in aula di non aver mai visto la Costanzo il sei aprile nel corso dei pestaggi, e di averla dunque solo sentita, collegando la voce femminile proprio alla funzionaria perché un altro detenuto gli aveva raccontato che la Costanzo lo aveva colpito “con il manganello nell’area socialità”. “Ma lei - chiede l’avvocato della Costanzo, Luca Tornatora - durante l’interrogatorio reso ai pm un mese dopo i fatti, in sei ore non ha mai fatto il nome della Costanzo, ne l’ha mai riconosciuta dopo aver visto 40 video”. Di Saverio ha così ribadito di non averla mai vista, mentre il legale della Costanzo ha fatto rilevare che non esiste alcun video che ritrae la funzionaria dare una manganellata, per cui la dichiarazione di Di Saverio è stata smentita. Verona. Reinserimento dei detenuti: nasce il tavolo di lavoro tra Comune, Carcere e Circoscrizione veronasera.it, 21 novembre 2023 “Molti dei detenuti sono residenti in città, come le loro famiglie, lavoriamo nell’ottica di un loro reinserimento nella società. Nel tavolo di lavoro verranno raccolte le necessità del carcere per le quali si cercheranno risposte concrete”, ha spiegato l’assessora Zivelonghi. Per la maggior parte delle persone che entrano in carcere, la detenzione è un’esperienza transitoria, terminata la quale tornano ad essere cittadini a tutti gli effetti. Un ritorno nel territorio che non può prescindere dal territorio stesso, considerato anche che molti dei detenuti nel carcere di Montorio sono residenti del Comune. Partire da zero, una volta usciti dal carcere, può significare isolamento sociale, mancanza di integrazione, difficoltà economiche, situazioni che ricadono inevitabilmente sul tessuto sociale della comunità. Per creare i presupposti di un’integrazione tra ex detenuti e territorio, è stato avviato il primo tavolo di lavoro tra Comune, Casa Circondariale di Verona e 8a Circoscrizione. L’obiettivo è quello di raccogliere e mappare i bisogni del carcere e tradurli in proposte concrete, coinvolgendo il Terzo Settore e le sue numerose associazioni in percorsi, iniziative e progetti di formazione, nella realizzazione di corsi e cicli di incontri da realizzarsi con continuità e presenza. Importante sarà promuovere la pratica dello sport e dei valori ad esso legati. Fanno parte del tavolo l’assessora alla Sicurezza Stefania Zivelonghi, l’assessora alle politiche sociali Luisa Ceni, l’assessore al Terzo Settore Italo Sandrini, la direttrice della Casa Circondariale Francesca Gioieni, il Garante dei detenuti Carlo Vinco e la presidente della 8a Circoscrizione Claudia Annechini. L’idea è di ampliare il confronto anche ad altri assessorati e alle circoscrizioni limitrofe, per creare i presupposti di una collaborazione proficua e duratura. “Questo tavolo segue alle diverse interlocuzioni già avvenute nei mesi scorsi e avvia una stretta collaborazione tra i soggetti coinvolti - spiega l’assessora alla Sicurezza Stefania Zivelonghi -. Partiamo dal presupposto che il carcere è una realtà complessa che insiste sul territorio e come tale ha ricadute e influenze su diversi settori. Molti dei detenuti sono residenti in città, come le loro famiglie, lavoriamo nell’ottica di un loro reinserimento nella società. Nel tavolo di lavoro verranno raccolte le necessità del carcere per le quali si cercheranno risposte concrete. Per il Comune sono coinvolti tre assessorati e la 8a Circoscrizione in cui insiste la casa circondariale ma l’obiettivo è ampliare la partecipazione per favorire una maggiore integrazione tra istituzioni e territorio”. “Come Terzo Settore saremo coinvolti in un primo tavolo di co-programmazione con le associazioni che si occupano del tema del carcere - commenta l’assessore al Terzo Settore Italo Sandrini. Un primo concreto esempio dell’applicazione dell’importante Riforma che ha dato vita all’istituzione del primo Assessorato che si occupa del Terzo Settore. Crediamo che questo nuovo approccio di affrontare una problematica così complessa, possa sicuramente portare a dei risultati significativi, che potranno essere estesi anche ad altri settori”. Verona. Giustizia riparativa: il progetto “Tra Zenit e Nadir, rotte educative in mare aperto” vita.it, 21 novembre 2023 Quasi uno su quattro, tra i nuovi ingressi nel sistema penale, ha fra i 14 e i 15 anni: i minori che commettono reati tendono ad essere esclusi dalla società, inquadrati come soggetti da cui è meglio stare lontani. Un ciclo di incontri gratuiti approfondisce gli strumenti e il senso della giustizia riparativa. Prossimo appuntamento il 22 novembre. Spesso i minori che commettono reati tendono ad essere esclusi dalla società, inquadrati come soggetti da cui è meglio stare lontani. Troppo facilmente si dimentica però che sono ragazzi molto giovani - anzi sempre più giovani - che nella maggior parte dei casi pagano una situazione di forte disagio familiare e di mancanza di punti di riferimento. Secondo i dati del ministero della Giustizia, tra i nuovi ingressi nel sistema penale il 23,26% è costituito da minori tra i 14 e i 15 anni, ragazzini che si trovano a fare i conti con pene da scontare o con percorsi di inserimento sociale. Il progetto “Tra Zenit e Nadir, rotte educative in mare aperto” - partito nel 2021 in Lombardia, Veneto e Trentino, frutto della consolidata collaborazione tra la Fondazione Don Calabria e il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (CNCA) nel campo della giustizia riparativa e finanziato dall’impresa sociale Con i Bambini - cerca di far sì che anche da un fatto negativo come il reato di un minorenne possa nascere qualcosa di positivo, sia per il ragazzo, sia per la comunità in cui vive. Tra gli obiettivi del progetto c’è quello di ridurre il rischio di recidiva per i minori autori di reato, sperimentando nuovi strumenti di giustizia riparativa che coinvolgono la comunità nel percorso di reinserimento sociale. Per approfondire i temi della giustizia riparativa, il progetto promuove un ciclo di sei webinar di approfondimento gratuiti e aperti a tutti. I primi due incontri hanno avuto il duplice obiettivo di fornire nuovi quadri interpretativi relativi alle problematiche comportamentali emergenti dei minorenni autori di reato e di promuovere il paradigma della giustizia riparativa nelle pratiche sociali, al fine di coinvolgere istituzioni e comunità locali. Il terzo webinar si terrà mercoledì 22 novembre dalle 10 alle 13 e si intitola “Il coinvolgimento della comunità territoriale nei programmi di Giustizia riparativa”. Vi parteciperanno, tra gli altri, Giancarlo Tamanza, professore associato di Psicologia clinica alla Facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, direttore del master Giustizia riparativa e mediazione penale, Lucio Camaldo, professore associato di Diritto processuale penale presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Milano e responsabile scientifico del Corso di perfezionamento in Giustizia penale minorile, e Alessandro Padovani, della Fondazione Don Calabria. Il quarto webinar invece è previsto martedì 19 dicembre, sempre dalle 10 alle 13, sul tema “Strutture di personalità e coinvolgimento dei minori autori di reato nei programmi di Giustizia riparativa”. Interverranno Silvio Ciappi, criminologo, psicoterapeuta, psicopatologo clinico e forense e docente universitario, esperto di programmi di giustizia riparativa, Antonio Calvanese, psicologo e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, vicepresidente dell’ambulatorio sociale di psicoterapia della Fondazione Don Calabria di Verona, e Filippo Resenterra, psicologo e psicoterapeuta a orientamento psicanalitico, responsabile dei progetti di area penale esterna di Areté cooperativa sociale di Legnago (VR). Guarda il programma dei due webinar e le modalità per iscriversi. https://percorsiconibambini.it/trazenitenadir/wp-content/uploads/sites/392/2023/10/III-e-IV-Webinar-Tra-Zenit-e-Nadir-Programma-2.pdf. Il progetto “Tra Zenit e Nadir: rotte educative in mare aperto” coinvolge una sessantina di soggetti pubblici e del Terzo settore e ha l’obiettivo di promuovere e facilitare l’adozione del paradigma della giustizia riparativa come prassi metodologica per l’approccio ai minorenni coinvolti in procedimenti penali e alle loro famiglie. Il modello di intervento si basa sulla relazione tra l’autore del reato, la vittima e la comunità locale di appartenenza, considerando il reato come una rottura di questa relazione e interpretando l’azione riparativa come un’opportunità per ricostruire un senso di appartenenza reciproca. Torino. Così gli studenti imparano a conoscere il carcere e i carcerati di Francesco Munafò giornalelavoce.it, 21 novembre 2023 Il progetto innovativo di una scuola del territorio che lascia un segno positivo sui partecipanti. Per capire il carcere e i carcerati ci va empatia. E l’empatia può anche essere imparata e sviluppata attraverso l’istruzione. “Capire il carcere” potrebbe essere infatti una buona locuzione da usare per riassumere il progetto che il professor Davide Pelanda ha pensato per i suoi alunni dell’Istituto Fermi di Cirié. Un esperimento cominciato l’anno scorso e che ha lasciato una grande impronta negli alunni che vi hanno partecipato. C’è persino chi ha mantenuto una corrispondenza epistolare con uno dei carcerati, così come c’è chi ha deciso di cominciare, dopo la fine della scuola, a fare volontariato negli istituti carcerari del territorio. “Il carcere non è ancora la morte, benché non sia più la vita” diceva Adriano Sofri. Una sorta di condizione di mezzo dove una persona che ha commesso un crimine viene teoricamente instradato alla riabilitazione sociale e alla riflessione. E per capire questo percorso bisogna prima capire chi sono le persone che lo compiono. Bisogna “sospendere il giudizio” mentre si visitano le carceri, esattamente come hanno fatto l’anno scorso gli alunni ciriacesi andando a visitare la casa circondariale Lorusso Cutugno di Torino. Si è anche cercato di declinare il progetto per approcci, accordandolo con la vocazione di ogni classe: “Gli apprendisti geometri, ad esempio, hanno ragionato sulla struttura del carcere” spiega Pelanda, che di carceri e carcerati ha scritto molto. Un tema, quello della struttura del carcere, che da Bentham a Foucault ha impegnato anche e soprattutto i filosofi. “Gli studenti del Liceo, invece, si sono concentrati su Beccaria grazie alle insegnanti di italiano e storia, e hanno anche analizzato la giornata del detenuto” spiega Pelanda. Ma anche i docenti di diritto hanno contribuito al progetto: “Al Fermi è stato analizzato il processo penale e si è parlato del ruolo e del lavoro delle guardie carcerarie” continua il professore, che del progetto è il coordinatore nonché colui che l’ha originariamente proposto. Quest’anno si è partiti mercoledì scorso con l’intervento di Cosima Buccoliero, direttrice del carcere di Monza dopo aver ricoperto lo stesso incarico a Torino. Buccoliero ha illustrato agli alunni ciriacesi alcuni dati riguardanti le difficili situazioni nelle carceri italiane. Si è concentrata sui minori, sulle donne e sulle persone con disabilità detenute. Centrale è stato anche il tema delle pene alternative al carcere e della condanna da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nei confronti dell’Italia in merito alla pessima gestione delle carceri. Il prossimo incontro sarà il 29 novembre e vedrà i ragazzi del Fermi-Galilei confrontarsi con il Garante dei Detenuti piemontesi Bruno Mellano. Le visite a Le Nuove e al “Lorusso-Cutugno” sono invece programmate per il 29-30-31 gennaio 2024 e 1 febbraio 2024. La visita al carcere è sempre uno dei momenti più sentiti dagli studenti: “L’anno scorso - dice ancora Pelanda - i ragazzi hanno potuto fare ai detenuti le domande che venivano loro in mente, ma sempre tenendo presente di sospendere il giudizio. È stata una bella esperienza perché hanno potuto visitare il panorama umano del carcere, e tanti alunni sono cambiati tantissimo dopo il progetto”. Forlì. Venti attori detenuti impegnati nello spettacolo “Città sul filo” di Rosanna Ricci Il Resto del Carlino, 21 novembre 2023 Il festival “Trasparenze di Teatro Carcere”, giunto alla 3ª edizione e che vede impegnati gli istituti penitenziari di Ferrara, Reggio Emilia, Parma, Bologna, Forlì, Ravenna, Modena, arriva a Forlì oggi alle 16, con lo spettacolo “Città sul filo- storie di esseri alati, viaggiatori e uomini”, che sarà presentato all’interno della Casa Circondariale forlivese con la regia di Sabina Spazzoli, Michela Gorini, Alberto Zaffagnini, e con la drammaturgia di Sabina Spazzoli, Giovanna Casalboni, Daniela Romanelli, Paolo Turroni. Le scene sono firmate da Stefano Camporesi. Prodotto da Con…tatto Aps e Malocchi & Profumi Aps, lo spettacolo vedrà in scena 20 attori e attrici detenuti della Casa Circondariale di Forlì e 5 allievi del liceo classico Monti di Cesena. Verrà raccontato un viaggio attraverso luoghi invisibili e città ideali verso la libertà, partendo da Aristofane e Calvino, il tutto racchiuso nella cornice del circo. Ogni città è un documento perché di essa rimangono i nomi delle vie e i ricordi degli abitanti. Ogni città possiede il passato e il futuro, in essa tutto può cominciare e finire. Il festival ‘Trasparenze di Teatro Carcere’ ha come obiettivo un tema comune da sviluppare in tre anni da parte di 7 compagnie teatrali operanti in varie città. Il tema del triennio 2022-2024 è ‘Miti e Utopie’ che si sviluppa attraverso tre parole: errare, perdono, comunità, particolarmente significativi per il luogo, il carcere, in cui avvengono le attività di produzione. L’accesso agli spettacoli è subordinato al permesso dell’Autorità Giudiziaria Competente. Per lo spettacolo è prevista una replica domani alle 14. Per info su tempi e modalità di partecipazione agli spettacoli scrivere a teatrodelpratello@gmail.com. Cagliari. Va in scena “La luna del pomeriggio”, scritto dai detenuti di Nuchis L’Unione Sarda, 21 novembre 2023 La pièce prende spunto dai loro racconti originali, riadattati dal regista Simone Gelsomino. Racconta una visione dell’universo carcerario, libero da stereotipi e pregiudizi. Arriva a Cagliari “La luna del pomeriggio”, lo spettacolo teatrale nato da testi originali dei detenuti nel carcere ad alta sicurezza “Paolo Pittalis” di Nuchis. L’appuntamento è sul palcoscenico del Teatro Del segno, giovedì 23 e venerdì 24 novembre, con la terza tappa della tournée regionale. La pièce indaga differenti punti di vista su due dimensioni intime del carcere, quella personale e quella collettiva/familiare, attraverso l’intreccio delle vite di nove personaggi e una narrazione spazio-tempo sfumata e onirica. L’intento è quello di consegnare allo spettatore una visione dell’universo carcerario libero da mitizzazioni, stereotipi e pregiudizi, mostrando come lo stato di detenuto sia contingente e transitorio a quello dell’esser padre, marito, amico, figlio. Il lavoro prende vita dai testi redatti durante un corso di scrittura creativa curato dal giornalista Giovanni Gelsomino. Il giovane regista Simone Gelsomino e la professoressa Luisanna Cuccuru li hanno poi riadattati, in chiave teatrale. Il progetto è patrocinato dai due comuni che hanno ospitato le prime due tappe: Nuoro e Tempio Pausania, con il sostegno della Fondazione Sardegna e da Credisar Group srls. Ad arricchire quanto mostrato alla platea, i Circuiti della Luna del pomeriggio, una serie di appuntamenti e incontri sul territorio, che fanno conoscere al pubblico concetti quale quello di “giustizia riparativa”. Arricchiscono gli incontri le testimonianze di protagonisti ed esperti vicini al progetto che compaiono in calendario, come la docente dott.ssa Patrizia Patrizi, Ordinaria di Psicologia giuridica Uniss e presidente del Forum europeo per la giustizia riparativa, o come Don Gaetano Galia, cappellano del carcere di Sassari, direttore dell’ufficio di Pastorale penitenziaria della Diocesi di Sassari e direttore della comunità d’accoglienza per detenuti “Don Graziano Muntoni”. Il patriarcato inconsapevole si combatte a scuola, aumentare le pene serve a poco di Simona Musco Il Dubbio, 21 novembre 2023 Più carcere, meno omicidi? Balle, le uccisioni sono più diffuse nei Paesi in cui si fa largo uso della pena capitale e di ergastoli. Sotto il post con il video dell’intervista a Elena Cecchettin, sorella di Giulia, uccisa e abbandonata in un burrone, c’è una sfilza di uomini che le dicono come dovrebbe parlare, come dovrebbe soffrire, che dovrebbe stare a casa a piangere, altrimenti il suo dolore non vale, non è credibile. Che la maglietta che indossa non è adeguata, che l’eyeliner è fuori luogo, perché la sorella è appena morta. Lei ce l’ha col patriarcato, non solo con l’assassino di sua sorella, che non è la prima, non sarà l’ultima. E giù insulti, per quell’anello al naso e i post sui social, subito depredati per mettere su una biografia totalizzante, che le valgono l’accusa di satanismo e dell’imperdonabile (presunta) volontà di candidarsi con la sinistra, Laura Boldrini ed Elly Schlein in prima fila. Ma il patriarcato, la cultura maschilista, la cultura della sopraffazione non esistono, ribadiscono loro, che di sentirsi chiamati in causa proprio non ne vogliono sapere. L’omicidio di Giulia Cecchettin ha colpito tutto il Paese e riaperto un dibattito che in Italia ha luogo ogni tre giorni, statistiche alla mano. Senza alcun esito, se non quello di inneggiare alla gogna, alla castrazione chimica, alle torture fisiche e - ça va sans dire - all’esenzione dal processo, che tanto non serve. Un dibattito impregnato, per buona parte (e in buona fede, per una certa percentuale), dalla stessa cultura paternalistica che lo genera: le donne non si toccano nemmeno con un fiore. Perché diverse, fragili, da proteggere. Ovvero, ancora una volta, subalterne. E quando gli uomini sono violenti, se non sono dei mostri (dunque un’eccezione, la colpa è delle madri, che non li hanno saputi educare. Perché questo è il loro compito. “Io non ho mai incontrato soggetti gravemente maltrattati e gravemente disturbati che avessero però delle mamme normali”, dice la deputata leghista Simonetta Matone. Una sola frase da prendere come esempio, senza bisogno di saccheggiare il web di tutte le bestialità scritte nelle ultime ore. Le soluzioni sono tutte uguali: pene più dure. Un antidoto a costo zero, buono per la propaganda ma che non porta alcun risultato. Se non bastassero l’evidenza e le dichiarazioni pubbliche della vecchia versione di Carlo Nordio, attuale ministro della Giustizia che i reati voleva ridurli ma li ha aumentati, si potrebbe fare riferimento agli studi. Uno dei più accreditati, in Italia, è “Omicidi e uccisioni violente nel mondo” e porta la firma di Adolfo Ceretti e Roberto Cornelli, professori di criminologia dell’università Bicocca di Milano, che incrociando varie ricerche sui crimini violenti tra il 1950 e il 2010 hanno scoperto che la “tolleranza zero” non riduce i reati violenti. Anzi, gli omicidi sono addirittura più diffusi nei Paesi in cui si fa largo uso della pena capitale e di ergastoli. Tant’è che in 11 Paesi dove è stata abolita la pena di morte - spesso invocata in casi come quello di Giulia - gli omicidi sono diminuiti, come certificato dallo studio “Cosa succede al tasso di omicidi quando la pena di morte viene abolita? Uno sguardo a 11 nazioni che potrebbe sorprendere”, svolto dall’Abdorrahman Boroumand Center. Non solo. Il professor Ben Crewe e la dottoressa Susie Hulley, dell’Università di Cambridge, e la dottoressa Serena Wright, della Royal Holloway, Università di Londra, per valutare l’impatto del Prison Reform Trust di Boris Johnson hanno analizzato i dati delle carcerazioni nel Regno Unito, concludendo che non vi è alcuna prova chiara che l’aumento delle pene incida sulla sicurezza, producendo solo sovraffollamento e disagio nelle carceri. Ma alla fine basta anche ragionare su un fatto: il 34 per cento degli uomini che ammazza le donne, dopo, si suicida. A riprova del fatto che il carcere non spaventa affatto. L’elenco delle prove scientifiche sarebbe lungo. Ma non serve, perché la propaganda è facile, veloce e indolore e non accetta consigli. Mentre per risolvere il problema serve “educazione all’affettività”. Un’urgenza rilanciata ieri dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, Carla Garlatti, in occasione della giornata mondiale dell’infanzia. Perché l’età della violenza si abbassa e i rapporti violenti sono diventati sempre più frequenti anche tra gli adolescenti, mentre i segnali vengono ignorati e troppo spesso non riconosciuti. “È dall’8 marzo 2021, poco dopo il mio insediamento, che ho chiesto l’introduzione nelle scuole di un corso per l’educazione all’affettività, alla parità di genere e al rispetto dell’altro - ha detto ieri incontrando i giornalisti nell’ambito dell’evento “Vincere il silenzio” -. E questo non in base ad una mia idea particolarmente originale, ma perché lo dice la Convenzione di Istanbul, che chiede agli Stati di introdurre questo percorso di formazione nelle scuole, sin dall’infanzia. Non sono mai stata ascoltata. C’è stato anche chi ha avuto dell’ironia pungente per questa mia uscita. Ora, invece, il problema emerge, perché si è visto che inasprire le pene non serve. È giusto punire chi sbaglia, ma bisogna investire nella prevenzione, perché questi fatti non devono accadere. A chi è stato ucciso non serve a nulla che il suo assassino prenda l’ergastolo”. Già, la Convenzione di Istanbul, che è stata ratificata dall’Italia nel 2013, ben 10 anni fa, rimanendo quasi lettera morta. All’articolo 14, giusto per citarne uno, il documento invita i Paesi a “includere nei programmi scolastici di ogni ordine e grado dei materiali didattici su temi quali la parità tra i sessi, i ruoli di genere non stereotipati, il reciproco rispetto, la soluzione non violenta dei conflitti nei rapporti interpersonali, la violenza contro le donne basata sul genere e il diritto all’integrità personale, appropriati al livello cognitivo degli allievi”. Tutta roba rimasta sulla carta e in alcuni casi anche ostacolata, se si pensa, ad esempio, che in Europa Lega, Fratelli d’Italia e tre deputati di Forza Italia, solo pochi mesi fa, si sono astenuti quando si è trattato di votare la proposta della Commissione di aderire alla Convenzione. E addirittura, le leghiste Alessandra Basso e Susanna Ceccardi hanno votato contro. È una questione culturale, di visione, dunque. Non solo la violenza in sé, ma anche il suo contrasto. Molte volte, spiega Garlatti, “sono le stesse vittime a non rendersene conto, perché non ci sono lividi. Ma una violenza non sempre ha i lividi. Il controllo del cellulare, il contestare le uscite con gli amici e altro sono prodromiche ad una vera e propria violenza”. La soluzione è aumentare l’autoconsapevolezza, ad esempio con “questionari” che consentono di capire se si è vittima. E a corollario, la creazione di centri specifici anche per minorenni, sperando sempre che ci siano i fondi e la voglia di usarli. Ma è necessario anche semplificare le segnalazioni, con linee guida semplici e chiare, una maggiore protezione per chi denuncia e aumentare la consapevolezza di tutta la società. Perché “c’è indifferenza”, spesso, nei confronti della violenza, che “è la negazione di tutti i diritti”. E non riguarda gli altri, ma tutti. Allora, tocca “educare” non solo i minori, ma anche gli adulti. “Un genitore che tollera sopraffazioni e abusi non veicola un messaggio positivo ai propri figli - conclude Garlatti -. Ma bisogna iniziare da piccoli, nelle scuole primarie”. Minori, cresce la violenza. Capotondi: “Colpa della trap” di Eleonora Camilli La Stampa, 21 novembre 2023 Una ragazza su dieci ne è vittima nel rapporto di coppia con coetanei. I trapper replicano all’attrice: “Qualunquismo in stile italiano”. Può bastare un post sui social o un selfie non gradito a far scattare una scenata di gelosia o un’aggressione. Sono sempre di più i ragazzi adolescenti che controllano in maniera ossessiva il cellulare della fidanzata, che ne condizionano i comportamenti di vita, il modo di vestire, il tempo libero. Gesti troppo spesso scambiati per attenzione o amore ma che raccontano di come la violenza di genere sia in crescita anche tra i più piccoli. Gli esperti lo chiamano “teen dating violence”, un fenomeno ancora poco conosciuto e studiato. Secondo uno studio universitario, basato su un questionario somministrato a oltre 700 ragazzi delle scuole superiori in Friuli Venezia Giulia, più di una ragazza su dieci, di età compresa tra i 15 e i 19 anni, ha avuto un’esperienza di violenza nella coppia con un coetaneo. “Dati nazionali non ne abbiamo, non c’è un unico database, ma di certo si tratta di un fenomeno largamente sommerso perché spesso non viene percepito come tale” sottolinea Carla Garlatti, Garante nazionale dell’Infanzia e adolescenza che ieri, durante la Giornata mondiale dell’Infanzia, celebrata nei giorni del dolore per l’uccisione di Giulia Cecchettin, ha voluto lanciare l’allarme sulle relazioni disfunzionali anche tra i più piccoli. “Molte volte si ha percezione della violenza solo quando essa si traduce in lividi o botte, ma questi comportamenti di controllo sono molto gravi, perché prodromici della violenza, vanno guardati con attenzione per evitare quello che la cronaca ci riporta anche in questi giorni”. Per la Garante servono strumenti ad hoc di contrasto: innanzitutto centri antiviolenza pensati solo per adolescenti, che operino in rete con i servizi già esistenti, ma nei quali ragazze e ragazzi possano ricevere supporto e informazioni adatti alla loro età da personale specializzato. Si sta anche pensando di produrre un questionario di autovalutazione, da compilare online in maniera anonima, per capire la gravità della propria situazione, cioè se si è in una relazione di coppia pericolosa. Qualcosa di simile al sistema Isa, (Increasing self awareness), un modulo riservato agli adulti. “Dovrebbe essere fruibile per tutti, quindi veicolato sugli smartphone - aggiunge Garlatti -. Inoltre, anche i centri devono essere creati pensando alle esigenze dei minorenni. Ci sono già delle esperienze virtuose, come un centro nel Lazio, dove i minori ricevono informazioni utili, in maniera semplificata attraverso protocolli tarati su di loro. Dobbiamo seguire lo stesso modello ma con un focus sulla violenza di genere”. Ma a finire sotto la lente di ingrandimento in queste ore sono anche i modelli di riferimento dei giovani, dopo una polemica sollevata dall’attrice Cristiana Capotondi, ospite di “In altre parole” di Massimo Gramellini su La7: “Ma l’avete ascoltata la musica trap, che ascoltano gli adolescenti? Come viene trattata la donna nella musica trap? Di che ci sorprendiamo se un giovane di 22 anni considera una donna come un oggetto, tale per cui ti tolgo la vita?”. Pronta la risposta di un trapper fra i più seguiti: Niky Savage su Instagram si domanda che musica ascolti Filippo Turetta, “sono sicuro che rimarremo tutti stupiti”, dice chiedendo rispetto per le vittime. Anche il napoletano Luché è stanco di questo “qualunquismo in classico stile italiano”. E aggiunge: “Come se la donna non fosse stata trattata come un oggetto nelle fantasie degli italiani, sin dall’inizio delle tv private dagli anni Ottanta”. Educazione affettiva a scuola, si cerca l’intesa bipartisan di Giovanna Casadio La Repubblica, 21 novembre 2023 Il ddl femminicidi domani in commissione Giustizia. La segretaria: “Occorre approvare una legge che renda obbligatoria l’educazione all’affettività e al rispetto delle differenze in ogni ciclo scolastico”. Non basta reprimere, non basta inasprire le pene, se non si riesce a prevenire. Elly Schlein si è rivolta alla premier Giorgia Meloni affinché la politica si muova e affronti la tragedia dei femminicidi dal punto di vista dell’educazione affettiva e sessuale. Perciò la segretaria del Pd spiega: “Non ci sono stati contatti diretti con la premier. Ma mi sono rivolta a lei per proporre di approvare una legge che renda obbligatoria l’educazione all’affettività, al rispetto delle differenze in ogni ciclo scolastico. Noi confermiamo la nostra disponibilità a lavorare insieme anche sul versante fondamentale della prevenzione, che manca nel disegno di legge sui femminicidi che sarà all’esame del Senato”. Non è un passo da poco. La destra apre, però, con un piano del ministro dell’Istruzione Valditara alla “educazione alle relazioni”: un’ora alla settimana per tre mesi all’anno, 12 sessioni. Non esattamente quello che vogliono la sinistra e i 5Stelle. Il vice premier Matteo Salvini non potrebbe essere più esplicito, facendo rifermento all’omicidio di Gulia Cecchettin: coinvolgere la scuola bene, ma non basta. Per Salvini è “la famiglia che deve fare la famiglia”. Dice: “Noi come Lega abbiamo fatto la battaglia per l’educazione civica, che adesso è realtà, lo dico da papà, però la scuola non può arrivare ovunque, sono la mamma ed il papà che devono capire se hanno in casa qualcuno che rischia di diventare un problema”. Parole che alimentano polemiche. Il M5Stelle ricorda l’emendamento presentato su educazione affettiva e sessuale nelle scuole e rispedito al mittente dalla Lega solo due mesi fa. Lo ripresenta in Senato dove domani in commissione giustizia approda il ddl femminicidi. Scuola. Valditara vuole gli influencer in classe per “educare alle relazioni” di Luciana Cimino Il Manifesto, 21 novembre 2023 Solo critiche per l’idea del ministro. Niente lezioni sulla sessualità: l’Italia resta lontana dal resto d’Europa. Elaborato subito dopo gli episodi di stupro di gruppo avvenuti a Palermo e Caivano, il piano “Educare alle relazioni” del ministro dell’Istruzione (e merito) Giuseppe Valditara, sarebbe dovuto partire a settembre. Dopo due mesi di oblio è spuntato fuori all’indomani del femminicidio di Giulia Cecchettin e sarà presentato mercoledì prossimo con i ministri alla Famiglia, Eugenia Roccella e della Cultura, Gennaro Sangiuliano. Si capirà quindi se ci saranno aggiornamenti o se ricalcherà le bozze già circolate che non poche perplessità avevano suscitato tra le associazioni di psicologi, insegnanti e studenti e nell’opposizione, che le aveva definite insufficienti. Il piano del ministro aggiorna le linee guida del 2015 e non introduce per l’ora curriculare di educazione alla sessualità e all’affettività che manca nel sistema educativo italiano e che ci metterebbe al pari con il resto d’Europa. Di certo è molto diversa dalla proposta di legge Costantino (Sel) del 2014 che prevedeva l’introduzione dell’educazione sentimentale nelle scuole di ogni ordine e grado, e da quella di Zan (Pd), affossata con il resto della legge che portava il suo nome. Il piano Valditara prevede incontri extra curricolari nelle scuole superiori, per un totale di 12 appuntamenti, e si basa su sedute di autocoscienza tra studenti, condotte saltuariamente con esperti del settore. Saranno reclutati anche influencer e testimonial. “Mi sono rivolta alla presidente del Consiglio per approvare una legge che renda obbligatoria l’educazione all’affettività in ogni ciclo scolastico”, ha ricordato la segretaria del Pd Elly Schlein, ribadendo, a proposito del ddl Femminicidio in discussione al Senato, che “la repressione non basta, la legge non prevede la parte di prevenzione che passa dall’educazione”. Sulla stessa linea il Movimento 5 Stelle: “un’ora a settimana per 3 mesi non cambierà la cultura patriarcale che corrobora il nostro Paese - ha detto la deputata Anna Laura Orrico - serve una legge che introduca in maniera sistematica l’educazione sessuale fin dal primo ciclo”. Anche gli esperti sono critici. Per la ginecologa Alessandra Kustermann iniziare ai superiori non basterà “perché a quell’età hanno già strutturato come si gestisce una relazione affettiva, è troppo tardi: se vogliamo fermare queste stragi annunciate dobbiamo partire dai bambini”. Mentre il sindacato dei presidi Dirigenti Scuola, chiede di smetterla con “interventi annunciati sull’emozione”. Il piano del governo scontenta anche le associazioni studentesche. “Il dibattito che si sta aprendo nel nostro Paese a seguito del 105º femminicidio del 2023 è lontano dalle giuste prospettive”, ha detto Camilla Velotta della Rete degli Studenti Medi. Mentre ieri scuole e università si sono mobilitate in tutta italia in nome della studentessa uccisa dall’ex compagno e in vista delle manifestazioni del 25 novembre, giornata contro la violenza sulle donne. A partire da Padova, dove Giulia Cecchettin aveva frequentato le scuole. Centinaia di studenti si sono radunati in mattinata per un flash mob rumoroso nel cortile di Ingegneria, mentre la Rete degli Studenti ha esposto nel suo liceo, il Tito Livio, lo striscione: “che questa Scuola possa cambiare, perché sia davvero l’ultima”. Anche nella Capitale ci sono state occupazioni e cortei. Gli studenti hanno anche deciso di rispondere con manifestazioni rumorose all’invito di Valditara a osservare oggi un minuto di silenzio in tutte le scuole. E, in apertura della plenaria di Strasburgo, anche la presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, ha ricordato anche Giulia Cecchettin: “è spaventoso, dobbiamo rispondere alla restante cecità istituzionale nei confronti di questa epidemia”. Contro i femminicidi dobbiamo agire subito. L’educazione è solo retorica da social di Jonathan Bazzi* Il Domani, 21 novembre 2023 L’idea dell’educazione di genere come farmaco miracoloso per l’emergenza attuale non mi convince. Credo che l’agency femminile (e, in generale, dei soggetti più deboli) vada rinforzata. Ho pensato in queste ore all’extrema ratio, l’autodifesa, non solo letterale ma anche in termini di consapevolezza, prontezza nel riconoscere precocemente certe dinamiche. Servono strumenti nuovi, dispositivi tecnologici per chiedere aiuto, strutture che consentano di allontanarsi dalle situazioni a rischio. Giulia Cecchettin è stata uccisa brutalmente dal suo ex fidanzato: mentre i social si riempiono di post e storie tutti uguali, di invettive in serie e proposte degli influencer, io mi sento a disagio. Sono cresciuto in una famiglia con gravi problemi di violenza domestica. Vittima della cosiddetta violenza assistita, sono stato un bambino queer terrorizzato dall’aggressività e dagli abusi che avevo attorno. La paura è stata mia compagna tutti i giorni, per almeno un ventennio. In casa e fuori ero l’anello debole, le ho prese, a dirla tutta, dai maschi e dalle femmine. Conosco il problema, ne porto ancora i segni, e anche per questo non posso che trovare insufficiente, e forse persino controproducente, la risposta media che sta prevalendo. Risposta veicolata dai creator di Instagram (non userei la parola “attivisti”), i cui termini - semplicistici, unilaterali, autopromozionali - vengono ripresi poi anche da editorialisti e politici. Perché “c’è un’emergenza in corso”, “le donne vanno protette”, certo, ma sui social soprattutto oggi vogliamo piacere, dunque ci si accoda ai trend, a ciò che si vede funzionare. La reazione instillata, dicevo, è banalizzante, non specialistica, e piegata alle logiche del personal branding. Più semplifico e polarizzo, e più sarò visto. Che sia utile, tolta la fiammata di indignazione del momento, non è ciò che conta. Il coro dei commentatori digitali in queste ore ha offerto principalmente una soluzione: l’educazione affettiva. E siccome oggi c’è grande crisi - nell’editoria, nei giornali, nella classe politica - molti si sono affiliati a questo grido, intravedendo nell’educazione di genere, il rimedio impellente per la situazione che abbiamo sotto gli occhi. L’educazione di genere - Purtroppo, temo non sia così semplice: l’educazione di genere, sia chiaro, è una necessità - anche per molti altri problemi del nostro paese - ma si tratta di un investimento sul futuro, che potrà credo al massimo, nel corso di generazioni, aiutare a gestire l’entità del fenomeno (gli studi dicono che non funziona sugli abuser adulti). Inoltre, ci sono grandi aree del nostro paese in cui il tessuto sociale è compromesso, in cui il rapporto con la scuola è compromesso: fare appello a questa panacea, una sorta di manna dal cielo che pioverebbe ovunque, anche lì dove a scuola non si va o dove le famiglie sono afflitte da gravi problemi economici e legali (io vengo precisamente da uno di quei posti), è quantomeno ingenuo. Un conto è l’educazione di genere ai Parioli, un altro a Rozzano: intenderla come il rimedio per cambiare le cose nell’immediato sembra un feticcio retorico buono giusto per Instagram, qualcosa che dà conforto in uno scenario smarrito in cui a prevalere è un attivismo che in realtà è intrattenimento. La violenza di genere è più complessa di quel che ci dicono i social, luoghi in cui ogni riferimento all’autodeterminazione e all’agency delle donne in questi casi viene vista come colpevolizzazione (victim blaming). La violenza maschile si lega ad altre questioni, dato che in ballo c’è il desiderio: i maschi problematici non sono solo nemici, ma sono anche le persone da cui sei attratta, che ami, che ricerchi. Anche per questo tutto è così rischioso e invischiante in questi territori: l’altro è insieme la fonte del bene e del massimo male. È chiaro che, quando si arriva a certi picchi, prevale chi ha forza fisica maggiore (altro rimosso nella prospettiva disincarnata di Instagram), ma il lavoro da fare, in alcuni casi, è biunivoco. Nella mia famiglia, per esempio, era così: è ancora forte in me la sensazione che, da bambino, provavo quando mia madre - anche lei una persona violenta - in modo oscuro, e davvero disturbante, sembrava voler arrivare al punto di rottura, usando ogni risorsa a disposizione per quella sorta di mortifera catarsi che metteva a rischio lei e noi figli. Una psicoterapeuta, che lavora con le donne maltrattate e fa formazione nelle aziende, di recente mi ha detto che non è raro che le donne vittime di abusi partano già con fragilità, disturbi psicologici o persino di personalità, e c’è una non causale ricerca di certi partner, ma oggi la polarizzazione social ammette solo alcune letture. Pro o contro, buoni o cattivi, rigidamente contrapposti come brand. I provvedimenti - L’idea dell’educazione di genere come farmaco miracoloso per l’emergenza attuale non mi convince anche perché, nel concreto, si tratterebbe, immagino, di un’ora o due a settimana, che diventerebbe una materia tra le altre, facilmente sommersa nella sciatteria del sistema scolastico che ci ritroviamo. Studiare la storia, purtroppo, non rende cittadini consapevoli delle dinamiche storico-politiche. Bisogna agire ora, con una serie di provvedimenti contingenti, multilivello, più lucidi e realistici di quello che ci sta dicendo Instagram. L’educazione è un auspicio condivisibile, in generale, ma bisogna prendersi cura nell’immediato delle donne che moriranno domani, l’anno prossimo. Qualcuno dice che finora si è puntato proprio sulla gestione delle emergenze, e non sulla prevenzione: io dico che lo si è fatto troppo poco. Servono strumenti nuovi, o l’intensificazione di strumenti già usati - anche in termini di strutture e risorse -, per bloccare quello che non è più possibile che accada. La retorica social che (per evitare dinamiche di colpevolizzazione) non vuole sentir parlare di possibilità attive delle donne, è problematica: le cartoline digitali urlano che sono i maschi e solo i maschi a dover cambiare, ma cosa succede se i maschi, alcuni maschi, non cambiano? La realtà, ancora una volta, resiste alle nostre idealizzazioni digitali. Credo che l’agency femminile (e, in generale, dei soggetti più deboli) vada rinforzata, e da vari punti di vista. La vittimizzazione assoluta, l’idea che la donna nulla possa fare, cambiare, attrezzarsi (aiutata dalle istituzioni), parlando di rischi in corso, non è funzionale, calandosi nella vita quotidiana. Aumenta i like e le condivisioni, ma non tutela. Ho pensato spesso in queste ore all’extrema ratio, l’autodifesa, non solo letterale (che può essere un’opzione non accettata o praticabile per tutte), ma anche in termini di consapevolezza, prontezza nel riconoscere precocemente certe dinamiche. Servono strumenti nuovi, anche in termini di dispositivi tecnologici, più efficaci nel richiedere, con prontezza, l’intervento delle forze dell’ordine, e servono protocolli e strutture che consentano alle donne di allontanarsi immediatamente dalle situazioni a rischio, anche per lunghi periodi (dunque più investimenti, anche per assicurare un’autonomia economica che a volte non c’è). Le storie dei femminicidi insegnano che spesso denunciare non serve, che i divieti di allontanamento e i domiciliari non servono, ma di fronte alla volontà indefessa di uccidere qualcosa - ora, adesso - bisogna iniziare a fare. Sporcandosi le mani, intervenendo sul campo. La complessità - Non si può pensare che gli assassini di domani smettano di esserlo con l’autocoscienza: le letture semplicistiche e galvanizzanti dei social danno la convinzione di occuparci dei problemi, ma non è così. Creano falò di indignazione ed empowerment, ma la realtà poi, con le sue opacità, le sue contraddizioni, le sue richieste precise e allo stesso tempo diverse di caso in caso, rimane a guardarci. Siamo sedati da questa valanga di verbosità polarizzate e performative, fatte di frasi sempre uguali, che occultano la verità delle relazioni concrete, dei corpi immersi nel mondo, che violano e soccombono, nonostante le nostre buone intenzioni e le campagne a mezzo Instagram. In questo tempo, in cui ognuno è brand di sé stesso, nessuno più vuole dire cose scomode: la bestia nera, più o meno ammessa, riconosciuta, è la perdita della reputazione, l’inciampo rispetto alle aspettative della community. Questo ci porta a non avere più molto interesse per la complessità, che fa rima con realtà, e ha a che vedere anche con lo studio, la sospensione del giudizio, le proposte magari meno capaci di aggregare consenso ma più necessarie. Complessità che richiede spesso di sacrificare qualcosa, e non di guadagnare - collaborazioni e sponsor, commissioni e contratti - come accade oggi, a chi sfrutta questi temi per ingraziarsi gli algoritmi. *Scrittore Migranti. La revoca della cittadinanza, ferita che sanguina di Francesco Pallante Il Manifesto, 21 novembre 2023 Tra le misure previste nell’ennesimo provvedimento-sicurezza del Governo, quella che prevede l’inasprimento della norma sulla revoca selettiva della cittadinanza riapre una ferita che sanguina nel nostro ordinamento costituzionale dal 2018. Il colpo iniziale era stato inferto dal primo Governo Conte - con Matteo Salvini spadroneggiante dal Viminale - tramite l’introduzione nella legge sulla cittadinanza di un’inaudita discriminazione interna alla categoria dei cittadini, consistente nella possibilità, in caso di condanna definitiva per reati di matrice terroristica, di revocare la cittadinanza a coloro che l’hanno acquisita nel corso della loro esistenza e non anche a coloro che cittadini lo sono per nascita da genitori italiani. Una scelta dal chiarissimo significato politico e giuridico. Anche una volta acquisita la cittadinanza, le persone non nate da cittadini italiani mai potranno essere realmente ritenute italiani come gli altri (vale a dire, al pari di coloro nelle cui vene scorre sangue italiano), ma rimangono comunque soggetti da guardare con sospetto: una potenziale minaccia alla pubblica sicurezza, da mantenere in condizione di perenne minorità giuridica. È incredibile che si sia sentito il bisogno di adottare una simile misura in un Paese rimasto sinora immune da attentati terroristici analoghi a quelli che hanno sconvolto la Francia, il Belgio, la Spagna, il Regno Unito e altri Paesi. Ma, soprattutto, è incredibile che si sia così sottovalutato il nodo costituzionale sottostante. Il fatto è che la cittadinanza è istituto necessariamente unitario, non ripartibile in categorie differenziate pena la sua stessa negazione. Cittadini si diventa, con la Rivoluzione francese, nel momento in cui i molteplici status cetuali che, in età premoderna, definivano peculiarmente il rapporto dei singoli esseri umani con l’autorità si fondono in una condizione universale, definibile in termini di diritti e doveri uguali per tutti. L’idea di cittadinanza è indissolubilmente legata a quella di uguaglianza. Se l’autorità può di più o di meno nei confronti di qualcuno, allora a venire in rilievo è il privilegio di chi ha meno doveri o più diritti, vale a dire lo status che differenzia il privilegiato rispetto agli altri. Esattamente com’era prima del 1789. Ed esattamente com’è, dal 2018, nell’ordinamento italiano. Quando, infatti, si tratterà di punire il responsabile di talune condotte criminali, a contare non sarà cosa si è fatto, ma chi si è: se un membro della categoria privilegiata oppure no. La stessa azione produrrà conseguenze differenti a seconda di chi ne è l’autore, in clamorosa violazione del principio di uguaglianza formale sancito dalla Costituzione. Replicare che l’ordinamento già prevede ipotesi in cui la cittadinanza può venire revocata sarebbe sbagliato, perché quelle ipotesi valgono ugualmente per tutti, siano cittadini dalla nascita o lo siano diventati nel tempo. Sono ipotesi che, nel rispetto dell’uguaglianza formale, non creano una categoria di cittadini di secondo rango, come invece fa il decreto-sicurezza del 2018. Dal punto di vista pratico, la normativa attualmente in vigore prevede che la cittadinanza sia revocata con decreto del Presidente della Repubblica, su iniziativa del ministro degli Interni, entro tre anni dalla condanna penale definitiva. La modifica proposta dal Governo vorrebbe estendere il termine a dieci anni, così prolungando il periodo durante il quale il cittadino inferiore per status rimane in balìa delle decisioni del potere. È chiaro che, dal punto di vista teorico, siamo al cospetto del più grave scostamento dal quadro costituzionale mai verificatosi nella storia repubblicana. Il Presidente della Repubblica, garante della Costituzione, sbagliò non rinviando alle Camere la disposizione in parola nel 2018. Altrettanto farebbe se non la rinviasse oggi. La prima promulgazione non è un buon motivo per decidere anche la seconda. Due errori non fanno una cosa giusta e saper agire a, sia pur parziale, correzione dei propri sbagli sarebbe una dimostrazione di forza, non di debolezza. Migranti. Sul trattenimento dei richiedenti asilo decideranno le Sezioni unite di Giansandro Merli Il Manifesto, 21 novembre 2023 È stata fissata per il prossimo 30 gennaio l’udienza della Cassazione che deciderà il destino del dl Cutro in merito al trattenimento dei richiedenti asilo provenienti dai “paesi sicuri” durante l’iter della domanda di protezione internazionale. Un provvedimento ad hoc ha stabilito la data e unificato la discussione dei dieci ricorsi presentati dall’Avvocatura dello Stato. A occuparsi della questione, che da un lato vede il Viminale e dall’altro le decisioni del tribunale di Catania firmate dalla giudice Iolanda Apostolico e dal collega Rosario Maria Annibale Cupri, saranno le Sezioni unite. Tale destinazione è stata motivata dalla prima presidente di Cassazione Margherita Cassano: i ricorsi “sollevano una questione di massima di particolare importanza circa le condizioni che consentono il trattenimento alla frontiera del richiedente la protezione internazionale” e presentano “aspetti di novità nel panorama giurisprudenziale, anche per il rapporto tra fonti diverse e per il necessario confronto con le pronunce della Corte di giustizia”. In effetti la questione rappresenta un inedito nell’ordinamento italiano dal momento che il trattenimento dei richiedenti asilo appena sbarcati è una novità introdotta dal dl Cutro di marzo scorso, con lo scopo di far svolgere in detenzione le procedure accelerate di frontiera la cui durata massima sarebbe di quattro settimane. Da fine settembre, però, i giudici catanesi hanno emesso 19 ordinanze di non convalida dei trattenimenti disposti dal questore di Ragusa, disapplicando la norma nazionale per far valere quella europea. In particolare la “direttiva rimpatri”. In tutti i casi si trattava di cittadini tunisini arrivati a Lampedusa e condotti successivamente a Modica (Rg), nella provincia siciliana che un decreto dell’agosto 2019 firmato dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini ha trasformato in una zona di transito e di frontiera. Il meccanismo risulta al momento sospeso, con quel centro praticamente svuotato in attesa del pronunciamento della Cassazione che arriverà con tempi più celeri di quanto molti credessero. Il governo punta al trattenimento sistematico dei richiedenti provenienti dai paesi considerati sicuri, principalmente dalla Tunisia sulla cui valutazione di sicurezza però il tribunale di Firenze ha sollevato dubbi e chiesto al ministero un aggiornamento, per poter realizzare rimpatri a tempo di record. L’esecutivo spera probabilmente di ottenere un effetto di dissuasione sulle partenze complicando la vita alle persone sbarcate attraverso detenzioni, ridotte possibilità di ottenere il permesso di soggiorno e trasferimenti coatti in Albania. Ma le possibilità di successo di questa strategia sono tutta da verificare. Tribunale di Firenze, tre nuove sentenze dicono che la Tunisia non è un paese sicuro - Ieri intanto la Cassazione ha stabilito che quando un migrante viene soccorso in mare dalla Marina non si può parlare di “ingresso clandestino” nel territorio dello Stato. Israele. In Parlamento sbarca la pena di morte. I parenti degli ostaggi: “Pazzi irresponsabili” di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 21 novembre 2023 Un dibattito ad alta tensione, durissimo quello che si è svolto ieri alla Knesset, il parlamento israeliano. Otzma Yehudit, Potere ebraico, il partito di estrema destra guidato dall’oltranzista ministro per la Sicurezza Nazionale Itamar Ben- Gvir, che è una componente fondamentale del governo di Benjamin Netanyahu, ha avanzato alla commissione parlamentare un disegno di legge che prevede la pena di morte per terrorismo. Proposta arrivata sull’onda della strage compiuta da Hamas lo scorso 7 ottobre ma che è da molto tempo un cavallo di battaglia di Gvir: molti analisti israeliani individuano in questo radicalismo il segreto della sua ascesa rapidissima sulla scena politica nazionale in un paese già estremamente polarizzato. La discussione di ieri mattina alla Knesset è stata molto aspra, a tratti drammatica, con i deputati dell’opposizione all’attacco e anche con alcuni distinguo all’interno della maggioranza come dimostrano alcune dichiarazioni più moderate di esponenti del Likud e il fatto che il dibattito continuerà nei prossimi giorni mentre la legge non sarà probabilmente approvata in tempi brevi. Contro il provvedimento anche i familiari dei 238 ostaggi ancora in mano ad Hamas e tenuti prigionieri, a quanto pare, in diversi siti della Striscia di Gaza. Le famiglie delle persone detenute dal 7 ottobre hanno espresso con rabbia e grande emozione la loro preoccupazione che l’approvazione della legislazione possa mettere in pericolo la vita dei loro cari e far precipitare le compèlicate trattative per il rilascio. Contemporaneamente nell’aula scoppiavano tumulti e diversi legislatori dovevano essere scortati all’esterno. In realta Ben-Gvir aveva gia dato fuoco alle polveri prima della discussione parlamentare attraverso X: “Oggi Potere Ebraico corregge un’ingiustizia storica e porta in discussione nel Comitato per la Sicurezza Nazionale, presieduto dal legislatore Tzvika Fogel, la legge sulla pena di morte per i terroristi presentata dal legislatore Limor Son Har Melech. Sono sicuro che la legge riceverà il sostegno di entrambi gli schieramenti”. Cosi non è stato evidentemente, urla e schiamazzi hanno accompagnato la discussione che è presto degenerata. Il deputato del partito laburista israeliano Efrat Rayten è statp espulso dall’aula, mentre durissime sono state le dichiarazioni del rappresentante delle famiglie dei prigionieri in mano a Hams, Noam Dan: “Il dibattito sulla pena di morte per i terroristi è un attacco terroristico mentale, un attacco infiammabile che mette a rischio la vita dei bambini rapiti” aggiungendo che “la pena di morte è un argomento delicato che deve essere discusso in riunioni chiuse e in forum professionali”. Ma lo scontro si è acceso quando il deputato di Potere Ebraico Almog Cohen ha scatenato una tempesta replicando alle famiglie che non hanno “un mandato sul dolore”. Troppo anche per i colleghi della maggioranza visto che il ministro dell’istruzione, in quota Likud, ha detto chiaramente che la legge non sarebbe stata approvata in queste settimane e che le scene di alta tensione in parlamento non erano necessarie. Stessa posizione di altri compagni di partito, tra cui il presidente della coalizione Ofir Katz, il quale ha chiuso il dibattito promettendo che la legge per il momento non sarebbe stata portata in plenum per essere votata. Difficile capire se quanto successo alla Knesset possa avere qualche riflesso sul conflitto in corso ma è chiaro che in un momento così delicato Israele non mostra un atteggiamento compatto e moltiplica i conflitti al suo interno, la debolezza politica di Netanyahu è ormai conclamata così come quella del suo esecutivo nazionalista che si tiene in piedi “grazie” alla guerra contro il movimento islamista palestinese. Il sospetto è che con la sua mossa Gvir stia preparando già un dopo conflitto, tentando di acquisire ancora più potere presentando il conto finale a Bibi. Rimane da vedere la tenuta dell’opposizione in questo de capitanata dall’ex primo ministro Yair Lapid il quale gioca la carta dell’unità nazionale e della responsabilità: “Non c’è limite all’ottusità e alla mancanza di vergogna dei membri della coalizione di governo. Le famiglie degli ostaggi stanno gridando il loro dolore che è lo stesso dolore di un’intera nazione”.