L’inganno dell’ideologia carceraria di Massimo Cacciari* La Stampa, 20 novembre 2023 Caratteristica dei regimi reazionari è quella di ritenere che carcere e inasprimento “fisico” delle pene costituiscano il deterrente fondamentale per l’atto criminoso. È questo l’aspetto più odioso del giustizialismo, virtù da cui mi illudevo fosse esente il magistrato, dr. Nordio. Tutta la letteratura scientifica ha dimostrato da decenni che non esiste alcuna correlazione significativa tra pesantezza della pena, ivi compresa quella di morte, da una parte, e gravità e ampiezza dei comportamenti criminali, dall’altra. Che l’arcaica idea del “dente per dente, occhio per occhio” serva a meglio garantire la nostra sicurezza è forse retaggio delle zone più oscure del nostro cervello, ma non corrisponde in nulla alla realtà. Il crimine ha cause complesse e diversissime, psicologiche, sociali, storiche. L’ultima cosa che il criminale considera è la pena cui va incontro (fuorché, forse, per i reati economici, nel caso in cui la pena incida profondamente sul patrimonio dell’interessato). Malgrado tali evidenze, questo è il tasto su cui il nostro Governo sembra abbia l’intenzione di insistere. Il diritto penale, diceva Simone Weil, ha sempre l’odore dell’inferno - ma invece di tentare di renderlo respirabile, gli spiriti reazionari amano esaltarne il tratto che più lo avvicina alla vendetta. La nostra civiltà giuridica ha sempre riconosciuto con realismo a volte spietato che è impossibile eliminarlo del tutto, e tuttavia non ha mai cessato di combatterlo. Già difficile è il compito del giudice, chiamato a condannare “al di là di ogni ragionevole dubbio” - quando poi le norme che è tenuto a seguire lo costringono a punizioni sempre più severe in relazione esclusivamente alla fattispecie di reato, tale compito si fa davvero tremendo. In fondo, una sola strada è stata proposta da giuristi, filosofi e politici non reazionari per “rimediare” a tale situazione: che la pena esprima essenzialmente una finalità “rieducativa”. Le contraddizioni cui va incontro tale nobile intento sono, certo, immense, e anch’esse sono oggetto da tempo di una vasta letteratura scientifica. Non solo esso presuppone un “modello” di integrazione sociale che può fondarsi soltanto su norme e valori dello status quo, ma, se davvero si volesse informare al suo principio il sistema penale, ne deriverebbe logicamente che la stessa pena dovrebbe decidersi in base ai “successi” di volta in volta raggiunti nel corso del processo rieducativo. Nonostante tutto ciò, un pensiero davvero cosciente di quell’”odore di inferno” ha sempre insistito sull’idea di un diritto penale “minimo” e sulla pena non come vendetta e segregazione, ma risocializzazione del colpevole. Ebbene, perché il liberale dr. Nordio non esercita in questo senso le sue aspirazioni riformatrici? E invece di inneggiare a inutili inasprimenti della pena, non affronta il dramma della nostra situazione carceraria? Chi meglio di lui la conosce? Tale situazione è semplicemente un’offesa alla lettera e allo spirito della Costituzione. Dunque, coloro che nulla o poco fanno per trasformarla radicalmente commettono un reato nei confronti della nostra Legge fondamentale. E dovrebbero essere chiamati a risponderne. Le nostre carceri (fuorché casi eccezionali, in gran parte dovuti alla provvidenziale presenza di eccezionali funzionari, estranei in toto all’ideologia giustizialistica) sono istituti criminogeni, non rieducativi. Per tentare di svolgere la funzione che la Costituzione assegna loro non solo dovrebbero garantire standard residenziali civili, non solo organizzare con sistematicità al proprio interno attività lavorative e culturali, ma curare anche il reinserimento sociale a pena scontata. Allora e soltanto allora il carcere potrebbe diventare un mezzo per aumentare la sicurezza che la comunità richiede. Nella situazione attuale dovremmo piuttosto dire che il prolungamento della pena, e cioè della detenzione nelle patrie galere, è valido strumento per l’educazione al crimine. Ma nessun ragionamento distoglierà il reazionario dalla sua ideologia carceraria. Poiché sa che essa, ahimè, corrisponde a pulsioni profonde del nostro essere, dalle quali nessuno è pienamente libero. E tali pulsioni si fanno quasi irresistibili in momenti di drammatica crisi economica e civile. Quando il disordine globale sembra dilagare inarrestabile, quando crescono disuguaglianze e ingiustizie e “del doman non v’è certezza” la demagogia ha sempre trovato terreno fertile nel promettere di garantire sicurezza sorvegliando e punendo. Sorvegliare magari con muraglie le frontiere dallo straniero nemico. Infliggere pene, dolorose quanto possibile, a chi infrange la legge. Nell’un caso come nell’altro, non discutere cause e non preoccuparsi degli effetti. Demagogia è espressione del tutto sbagliata: il demagogo non guida ma segue, obbedisce le peggiori passioni della massa di cui tutti siamo parti. Obbedisce alle sue pretese di semplificare i problemi più complessi, di tagliare i nodi con l’accetta invece di scioglierli. Il demagogo illude e inganna, ma nel suo inganno è proprio l’opposto del “duce”. Egli è in realtà il peggior demo-filo. La nostra sicurezza, quella vera di cui abbiamo bisogno, verrà da chi saprà stabilire efficaci norme per il passaggio delle frontiere e per rendere la più breve e produttiva possibile la permanenza in galera. Linea esattamente opposta a quella del nostro Governo presidenzial-decisionista. *Filosofo Il vero potere del Garante dei detenuti è non avere potere di Davide Galliani* L’Unità, 20 novembre 2023 Il potere del Garante sta nel suo non avere potere. A suo modo, partecipa: relazioni annuali al Parlamento, interlocuzioni quotidiane con i ministri, è ricevuto da chi lo nomina (il Capo dello Stato) e assume un significativo ruolo dinanzi alla Corte costituzionale e alla Corte di Strasburgo. Il Garante è un ponte tra le persone e le istituzioni, un biografo-fotografo di vite. Accende i riflettori. Ma perché il suo potere è decisivo proprio perché non è potere? Potremmo spendere molto tempo alla ricerca della figura ideale di Garante: professore, avvocato, magistrato, esponente dell’associazionismo. Si scoprirebbe però che dovrebbe possedere un po’ di tutti questi mestieri, piuttosto che molto ma solo di uno. Non di meno, il punto vero è un altro: il Garante migliore è quello più autonomo e indipendente. E da chi, se non dai poteri? Il Garante è più forte quanto più è in grado di segnare il distacco dal potere. Non bastano Parlamento, Governo, Capo dello Stato e giudici, ma cosa giustifica e può fare un’altra istituzione, peraltro dotata di un potere che è tale perché non è tale? Quanti conoscono cosa accade in una sperduta stazione di polizia, in una cella di un carcere dimenticato da Dio, in un servizio psichiatrico di un ospedale di periferia, in un centro di trattenimento per migranti? Sono luoghi sovraffollati di persone le cui storie non hanno interlocutori, ma non solo perché l’indifferenza è nel DNA di una società capitalistico-finanziaria e quindi più egoistica e meno solidaristica (il laissez-faire antropologico). Il problema è la carenza di conoscenza: la nostra testa non ragiona bene perché i nostri occhi non vedono bene, al massimo intravedono. Possiamo immaginare, ma vedere è un’altra cosa. Ecco il ruolo del Garante: rendere le istituzioni partecipi di quello che combinano. Si mette nel mezzo tra le persone e le istituzioni. Porta le vite delle prime alle seconde e collabora con le seconde per migliorare le condizioni delle prime. Una sorta di coscienza collettiva, il suo motto potrebbe essere videre aude. Nessun paese della Grande Europa ha avuto la nostra fortuna di avere Mauro Palma come Garante: l’uomo giusto al posto giusto. Antonio Cassese sostenne che l’esperienza al CPT del Consiglio d’Europa gli aveva insegnato più di un’intera biblioteca, e nonostante questo a un certo punto non riuscì a proseguire nell’incarico, disse che si era “spezzato”. Cosa è successo con Mauro Palma? Non solo è l’unica persona a essere stata rieletta per tre volte come Presidente del CPT, e possiamo solo immaginare cosa ha visto, ma dopo quell’esperienza ha deciso di iniziarne un’altra, parimenti pesante, se si considerano le nostre carceri, il frequente uso della contenzione fisica nei servizi psichiatrici degli ospedali, il dramma italiano dei centri per il trattenimento dei migranti, senza considerare altri fenomeni dei quali non possiamo dirci orgogliosi. La riprova che è stato l’uomo giusto al posto giusto l’abbiamo considerando l’aumento di attribuzioni riconosciute al Garante. In questi anni di Ministri della Giustizia ne abbiamo avuti, tutto l’arco (più o meno) costituzionale: Orlando, Bonafede, Cartabia, Nordio. Lo stesso agli Interni: Alfano, Minniti, Salvini, Lamorgese, Piantedosi. Idem alla Salute: Lorenzin, Grillo, Speranza, Schillaci. Sul carcere, sull’immigrazione e sulla salute ciascuno aveva la propria idea: è stato forse il caso a far sì che Mauro Palma abbia avuto con tutti un rapporto franco e collaborativo, avanzando critiche e allo stesso tempo ricevendo molta attenzione? No, non è stato il caso, è stato perché lì avevamo Mauro Palma, che la migliore intelligenza artificiale non saprebbe ricreare. Difficile riflettere sul futuro. Intanto, il Garante si fa nelle carceri (anche dentro il 41bis), negli hotspot, negli ospedali, nelle caserme, nelle REMS. La scrivania al massimo il venerdì sera. Inoltre, un parlamentare, un ministro, un giudice hanno di default un surplus da spendere. Il Garante è diverso, il suo peso non sta nel suo potere ma nella sua autorevolezza, che significa autonomia e indipendenza, oltre a esperienza e conoscenza. Infine, in un’ottica di medio periodo, il Garante deve lasciare l’istituzione più forte, non più debole. E la sua forza sta nel saper guardare laddove nessuno vuole vedere e far vedere. L’etimologia non mente: garante deriva dal latino varens che ha una radice in var, guardare. Mauro Palma ha fondato (bene) il Garante. Con Daniela de Robert ed Emilia Rossi ne hanno sviluppato le competenze, incrementandone ruolo e forza. Lasciano un’istituzione autorevole, tanto che non sarà semplice il compito di chi seguirà. Potremmo dirci soddisfatti solo se in futuro i poteri continueranno a lamentarsi del Garante. Se nessuno lo farà, avremo perso la partita. Sono sicuro che Mauro Palma avrebbe voluto fare di più, non è mai pago. Vorrei però concludere dicendo che tutti gli dobbiamo stringere la mano e dirgli grazie. *Professore associato di Diritto pubblico nell’Università degli Studi di Milano Donne incinte in carcere, legge fatta per 100 ragazze rom: governo pensi a riconoscere minoranze di Rita Bernardini* Il Riformista, 20 novembre 2023 Chi si ricorda di Amra, la ragazza rom ventiquattrenne che il 31 agosto di due anni fa partorì sua figlia in una cella dell’infermeria di Rebibbia femminile? L’aiutò un’altra detenuta perché a quell’ora c’era solo un’assistente donna della polizia penitenziaria. Amra raccontava al quotidiano Il Dubbio: “Ho messo la mano sotto e ho sentito la testa, avevo paura cadesse per terra e mi sono sdraiata. È nata da sola e non piangeva”. È stata la compagna di cella a pulire il viso della bambina dalla placenta a mani nude, consentendo così alla piccola di piangere e respirare. Occorre aver visto, aver compreso, prima di mettere mano ad una legge. Dove sono finiti i diritti del minore che per la Consulta devono essere posti davanti a tutto? Si dirà che anziché in carcere queste donne incinte andranno negli Istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri (ICAM) che però in Italia sono solo quattro. Le donne con il bambino in grembo andranno a finire negli ICAM esistenti di Lauro, Venezia, Milano e Torino, allontanate con il bambino dal proprio luogo di residenza e dalle proprie famiglie. Compiuto il primo anno di età che succederà al bambino? È molto probabile che finisca dietro le sbarre di qualcuno di quegli istituti penitenziari che al 31 ottobre scorso ne tenevano incarcerati 23. Eppure, con tutti i governi, di qualsiasi colore, di destra o di sinistra, abbiamo udito scandire la frase “mai-più-bambini-in-carcere!”. Questo modo di fare le leggi senza pensare alle persone in carne ed ossa è un modo subdolo per non risolvere i problemi, per aggravare quelli già oggi esistenti, per scaricare le decisioni in concreto sui magistrati chiamati a intervenire sui casi concreti. In diretta su tutti i mass media si fa la faccia feroce fingendo di prendere di petto il fenomeno delle madri recidive e rassicurando con un raggiro l’opinione pubblica. Già perché i problemi sociali mai sono stati risolti con le pene, con il carcere, con la disumanità. Anziché intervenire per debellare quel fenomeno vergognoso dei bambini detenuti con le loro madri, si inasprisce la legge anziché finalmente istituire quelle “case famiglia protette” che consentirebbero un vero percorso di riabilitazione perché madre e figlio si troverebbero in un ambiente e con un personale più consono alle esigenze di risocializzazione della madre e alla crescita senza traumi del bambino, soprattutto sotto il punto di vista affettivo. Parliamoci chiaro, il provvedimento governativo sembra quasi esclusivamente pensato per qualche centinaio di donne “rom” ed è mortificante il fatto che noi in Italia conosciamo i popoli romanì quasi esclusivamente per i reati che una piccola parte di loro commette, fisiologici in contesti di povertà ed emarginazione sociale. Nulla sappiamo delle radici e delle caratteristiche della loro cultura perché il nostro Paese non ha mai voluto riconoscere i rom, i sinti e i camminanti come una minoranza etnico-linguistica. La loro lingua da noi va via via estinguendosi. Stiamo attenti, si dimentica facilmente, come in questi giorni ci ha ammonito Liliana Segre per lo sterminio degli ebrei. In molti stentano a ricordare lo sterminio nazista dei rom e dei sinti mentre una democrazia si qualifica proprio per il riconoscimento delle minoranze linguistiche che la Repubblica dovrebbe tutelare con apposite norme (art. 6 Cost.). *Presidente di Nessuno Tocchi Caino Giusto il carcere per le donne incinte: così non si userà la gravidanza per delinquere di Grazia Di Maggio* Il Riformista, 20 novembre 2023 Le nuove norme approvate in Consiglio dei Ministri hanno suscitato molte strumentalizzazioni e fake news da parte dei giornaloni della sinistra, in particolare riguardo le presunte detenzioni di donne incinte. È importante chiarire che si tratta di una falsa rappresentazione dei fatti. Non è vero che le donne incinte o con figli di età inferiore a un anno finiranno in carcere in virtù del nostro disegno di legge. Fino ad oggi, durante le fasi di indagine e processo, le donne in queste condizioni potevano essere sottoposte a misure cautelari presso istituti di custodia attenuata per detenute madri. Se condannate, il giudice aveva l’obbligo di differire la pena, a condizione che non superasse i 4 anni. Per pene superiori, la detenzione domiciliare poteva essere una possibilità. Il Governo è intervenuto per eliminare questa incongruenza, consentendo al giudice di decidere se applicare misure alternative alla detenzione, come affidamento in prova, detenzione domiciliare o case-famiglia di cura e assistenza, anche in caso di condanna. L’obiettivo è chiaro: garantire la tutela dei più fragili, senza, dunque, che si utilizzi strumentalmente la condizione di gravidanza o i bambini per continuare a delinquere. Contrariamente alle accuse infondate, si offre a queste madri la possibilità di scontare, appunto, la pena in istituti di custodia attenuata, dove i figli possono essere accuditi. Solo in caso di recidive e di grave pericolo di reati futuri, si considera la pena negli istituti a custodia attenuata, non in carcere. Tutto questo va a regolamentare un mondo che si era trasformato in un far west, con minori spesso fuori da percorsi educativi. Su questo invitiamo la sinistra a ragionare, forse gli istituti di cura e assistenza sono luoghi più appropriati per far crescere quei bambini. Vi sono inoltre nuove misure contro lo sfruttamento minorile e la mendicità con reclusione fino a 6 anni per chi si serve dei bambini nell’accattonaggio, con ulteriore aumento in caso di violenza o minacce. Una norma è stata introdotta per sanzionare chi impiega minori di 16 anni in queste pratiche, affiancandosi alle pene per coloro che organizzano o favoriscono tale attività. Le nostre città sono ormai palcoscenico di borseggiatrici e borseggiatori che incidono sull’insicurezza per tutti i cittadini. Pertanto la questura ora avrà il potere di vietare l’accesso a metropolitane, stazioni ferroviarie e porti a coloro che sono stati denunciati o condannati per reati come furto, rapina o altri crimini commessi in quei luoghi. Anche durante il processo, perfino in caso di sospensione condizionale della pena, il giudice sarà tenuto a prevedere il divieto di accesso a tali luoghi. Un’azione concreta del governo per ripristinare legalità e sicurezza nelle grandi città italiane vittime - come la cronaca testimonia - di uno spettacolo indegno. Ancora una volta la priorità del governo è la sicurezza dei cittadini e la salvaguardia dei più vulnerabili. Con buona pace della sinistra che tenta di cavalcare l’onda del facile consenso confutando la realtà dei fatti. Parole, soltanto parole… *Deputata di Fratelli d’Italia “Io con la mia bimba in un Icam ed è come stare in carcere” di Gabriella Cantafio La Repubblica, 20 novembre 2023 Marcella ha vissuto per più di due anni nell’istituto di Lauro, in Irpinia: “Non ci porterei più Giovanna, è rimasta scioccata per sbarre e perquisizioni. L’unica soluzione per il bene dei bimbi è la casa famiglia”. “Col senno di poi, non porterei mia figlia nell’Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri ndr)”. A ripeterlo, mentre è stato approvato il nuovo Ddl sicurezza che elimina l’obbligatorietà del rinvio dell’esecuzione della pena per le donne condannate incinte o con figli fino ai 3 anni, è Marcella, 41enne napoletana, che, per 2 anni e 7 mesi, ha vissuto nell’Icam di Lauro, vicino ad Avellino, con la sua piccola Giovanna. Cosa l’ha spinta a cercare una soluzione in un Icam? “Le lacrime versate da mia figlia ogniqualvolta, a fine colloquio, quando ero in carcere a Pozzuoli, doveva distaccarsi da me. Aveva 4 anni quando ho creduto che per assicurarle il mio affetto fosse preferibile trasferirci in uno di questi istituti che immaginavo come una sorta di casa famiglia”. Invece in che realtà si è ritrovata? “Sembra una struttura accogliente, con altalene nel cortile. Ma, seppur le misure siano attenuate e gli agenti indossino abiti civili, dentro ha le sembianze di un carcere con cancelli e porte blindate. Ogni stanza ha finestre con sbarre e spioncini da cui si viene controllati. Il momento più brutto è la sera, quando gli agenti chiudono a chiave le porte delle stanze che vengono riaperte l’indomani. Per mia figlia, era un appuntamento fisso con la disperazione”. Così piccola, sapeva dove si trovava realmente? “No, inizialmente per lei quella era casa di mamma e quando nei weekend usciva equivaleva a una vacanza a casa di papà. Quando, però, mio marito è stato arrestato e non è più venuto a prenderla, si è sentita abbandonata. Allora ho capito che non potevo più mentire. Le ho spiegato cosa era successo e dove ci trovavamo realmente”. Com’è diventata la quotidianità di sua figlia nell’Icam? “Destabilizzata, ma contenta di stare con me. Cercava di vivere la sua quotidianità tra la scuola, dove veniva accompagnata con un pulmino insieme agli altri bambini, e i momenti di svago che, purtroppo, erano davvero pochi. Sono stata tra le prime detenute a entrare nell’istituto di Lauro, non c’era nulla. Poi, piano piano, grazie al Garante dei detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello, siamo riusciti ad assicurare qualche attività ai nostri figli. Visto che sono una cuoca, mi sono offerta di preparare dolci per festeggiare i compleanni dei nostri bambini. Una volta a settimana, venivano alcuni volontari che li intrattenevano con giochi e disegni. Il resto della settimana si organizzavano tra di loro. D’estate, improvvisavano bagni a mare con una pompa dell’acqua”. Quindi si respirava un’atmosfera serena? “Non proprio, anche i bambini, sotto certi aspetti, venivano trattati come detenuti, perquisiti quando rientravano dal weekend fuori o dai colloqui. Tornare in struttura per mia figlia era un incubo. Per convincerla capitava che mio marito le comprasse colori o merendine, ma spesso gli agenti non le permettevano di portarli con sé”. Quale carenza ha percepito maggiormente? “La carenza di educatori, ma anche di psicologi. Gli operatori presenti, talvolta, rispettando troppo l’autorevolezza richiesta dal proprio ruolo, sono privi di umanità. Ciò comporta ripercussioni psicologiche sui bambini”. Nel caso di Giovanna? “Seppur ora siamo a casa con gli altri miei due figli, in attesa di risolvere definitivamente i miei problemi con la giustizia, Giovanna non è serena. Ha rimosso il periodo vissuto nell’Icam, non vuole parlarne. È molto chiusa, diffidente nei confronti dei compagni, teme il loro giudizio. Aver vissuto la fase della crescita solo con me l’ha privata del senso familiare: è gelosa dei fratelli, crede sia soltanto sua madre e teme di perdermi”. Crede che l’epilogo sarebbe stato diverso in una casa famiglia? “Questi contesti comportano sempre problematiche. Me ne assumo la colpa, ma ribadisco che i bambini non devono pagare per i nostri errori. In un ambiente più domestico, il percorso sarebbe stato sicuramente meno difficile. Proprio per questo, dinanzi alle nuove norme previste dal Pacchetto sicurezza, sostengo la battaglia per chiedere di intensificare le case famiglie e assicurare ambienti confortevoli a mamme e figli, senza doversi sentire sotto continuo controllo. Con lo sguardo volto ai bambini che altrimenti faticheranno a conoscere il significato della libertà, come accaduto alla mia piccola”. La soluzione al sovraffollamento delle carceri? Un altro giro di chiave di Claudio Bottan vocididentrojournal.blogspot.com, 20 novembre 2023 Celle chiuse anche al carcere di Busto Arsizio, quello della sentenza Torreggiani, che al 31 ottobre scorso ospitava 430 detenuti a fronte una capienza regolamentare di 240 posti. Nel mio lungo tour delle prigioni ho visto cose che voi umani non potete nemmeno lontanamente immaginare. C’è stato un lungo periodo, durato per diversi anni, in cui il sovraffollamento aveva raggiunto livelli disumani con oltre sessantamila presenze nelle carceri a fronte di 48mila posti regolamentari. Le persone venivano stipate nelle celle peggio degli animali e c’era penuria di ogni cosa, dalla carta igienica al cibo, che non bastava mai per sfamare le bocche di tutti i disperati che affollavano i vari gironi dell’inferno. L’unica cosa che abbondava era il tempo, così ci si ingegnava per impiegarlo. In uno dei momenti di noia e disperazione ho costruito un righello in cartone da venti centimetri, prendendo a riferimento la misura certa di un foglio di block notes, e munito dello “strumento” mi sono steso a terra per ore a misurare la superficie che aveva a disposizione ognuno degli occupanti della cella. Completato il calcolo, è emerso un dato che non ha bisogno di commenti: in quella cella del carcere di Busto Arsizio avevamo a disposizione novanta centimetri quadrati di spazio individuale, più o meno quanto lo schermo del televisore che abbiamo a casa. Non ci voleva molto per capirlo, dato che ci si doveva alzare dal letto a turno perché non si poteva stare contemporaneamente in piedi; perciò, occorreva essere ben sincronizzati e gestire al meglio ogni movimento per non pestarsi letteralmente i piedi. Acrobazie da circo per ventidue ore al giorno, chiusi dentro alla gabbia peggio dei maiali; docce comuni a giorni alterni perché l’acqua non era sufficiente, due ore d’aria al giorno e poi il nulla assoluto. Una sentenza della Corte Europea ha stabilito che questa “cosa” si chiama tortura, mentre i forcaioli benpensanti ritengono che si tratti di un trattamento da hotel: “hanno anche la televisione, di cosa si lamentano?”. Io la TV non la guardo più, ho un rifiuto profondo. Sono trascorsi oltre dieci anni dalla sentenza Torreggiani con cui la CEDU, con una sentenza pilota, condannava l’Italia per il “trattamento inumano e degradante” di sette persone ristrette nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza. In base all’art. 3 della Convenzione, con la sentenza Torreggiani la Corte EDU accusa l’Italia di violare i diritti dei reclusi costringendoli a vivere in celle in cui hanno a disposizione meno di tre metri quadrati ciascuno di spazio. Il nostro Paese deve risarcire i sette detenuti per un totale di cento mila euro per essere stati “torturati”, così come previsto dall’art. 3 della Convenzione. Ma, soprattutto, nel testo della sentenza della Corte europea dei diritti umani si legge chiaramente l’invito al nostro Paese a porre rimedio, subito, al sovraffollamento carcerario. Una soluzione adottata velocemente fu quella di consentire alle persone di trascorrere parte della giornata fuori dalle celle durante il giorno, ma la sorveglianza dinamica venne immediatamente osteggiata dalle organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria. Stando ai dati forniti dal ministero della Giustizia, il carcere di Busto Arsizio, proprio quello della sentenza Torreggiani, al 31 ottobre scorso ospitava 430 detenuti a fronte una capienza regolamentare di 240 posti. Nei prossimi giorni, come in molti altri istituti, anche a Busto Arsizio verrà applicata la circolare ministeriale che prevede il ripristino del regime a celle chiuse per i circuiti di media sicurezza. In altre parole, si riparte dal via: venti ore su ventiquattro chiusi in celle sovraffollate, con poche attività trattamentali e nessuna prospettiva di rieducazione finalizzata al reinserimento sociale. Le persone recluse in condizioni disumane potranno inviare un reclamo al magistrato di Sorveglianza che dovrà ordinare all’amministrazione Penitenziaria di porvi rimedio. A seguito della sentenza Torreggiani, la soluzione adottata dall’Italia consiste infatti, nell’art.35-ter che prevede rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (“nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”). In sostanza, coloro che hanno subito un trattamento non conforme ai criteri stabiliti dalla Convenzione per un periodo di tempo non inferiore a quindici giorni possono ottenere, a titolo di risarcimento del danno, la riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari ad un giorno per ogni dieci durante i quali è avvenuta la violazione del loro diritto. I soggetti che hanno espiato una pena inferiore ai quindici giorni e coloro che non si trovano più in stato di detenzione (o la cui pena ancora da espiare non consente la detrazione per intero del beneficio appena descritto), invece, hanno diritto ad un risarcimento pari ad 8 euro per ciascun giorno di detenzione trascorsa nelle suddette condizioni. Otto euro al giorno, il prezzo della tortura. In ultima istanza rimane sempre la possibilità di ricorrere a Strasburgo, dove è prevedibile che -come nel 2013- si accumuleranno migliaia di reclami ad intasare le attività della Corte EDU. Ma ottenere giustizia costa e molti rinunciano per sfinimento e per mancanza di risorse; probabilmente sarà solo per questo che l’Italia rimarrà impunita. Si rassegnino coloro che vivono in condizioni disumane e degradanti nelle carceri, le proteste potrebbero essere qualificate come rivolte o “resistenza passiva all’esecuzione degli ordini” per le quali l’ennesimo pacchetto sicurezza prevede una pena da due a otto anni di reclusione. La sicurezza nell’Anno Zero di Ezio Mauro La Repubblica, 20 novembre 2023 Il governo della destra lancia un esperimento ambizioso: la creazione di un nuovo scenario sociale, che definisce e determina il contesto in cui i cittadini negoziano quotidianamente le loro quote di libertà. Chi pensava che la battaglia per la conquista dell’egemonia culturale fosse una sfida accademica tra Gramsci e Tolkien, può finalmente ricredersi. Andata al governo, la destra estrema guidata da Giorgia Meloni ha prima bloccato il flusso naturale della storia repubblicana, per neutralizzare lo spirito costituzionale di riconquista della democrazia grazie alla ripulsa della dittatura fascista: rimettendo tutto in gioco, col ritorno all’Anno Zero. Poi ha occupato tutti gli spazi della produzione culturale e della sua diffusione, trasformando la prigionia volontaria della lottizzazione (su cui il centrosinistra si è esercitato a lungo) nella nuova servitù della propaganda, senza più limiti e confini. Ora siamo davanti a un passo in più, un esperimento ambizioso e inedito nella vicenda del Paese: la creazione di un nuovo scenario sociale, che definisce e determina il contesto in cui i cittadini negoziano quotidianamente le loro quote di libertà. Un panorama psico-politico che curva il reale a uso e consumo del potere, oggi pronto a interpretare sentimenti e risentimenti della popolazione ideologizzandoli per inserirli nella sua visione assediata del mondo. È l’ultima sfida: potremmo dire che nell’attuale fase di disordine, il vero sovrano è chi modella il paesaggio sociale in cui tutti ci muoviamo a tentoni. Il nuovo pacchetto sicurezza é un esempio perfetto di questa strategia. Inventando nuovi reati e aumentando le pene, più che rispondere ad un vero allarme diffuso tra la popolazione il governo dichiara di fatto un clima di emergenza certificato dal potere, ma non giustificato dai dati reali del fenomeno. C’è dunque un elemento artificiale nella scelta di cavalcare questo allarme: e c’è molto di ideologico nella decisione di riconfigurare il sociale esclusivamente attraverso il penale, come se non esistesse il politico, cioè lo spazio d’intervento dentro la comunità civile. Quasi che il governo non sapesse agire sugli elementi di disgregazione e ricucitura delle città italiane e si affidasse soltanto alla repressione, delegando la gestione pratica del problema ai magistrati e ai poliziotti, armandoli anche fuori dall’orario e dai compiti di servizio. Gli studiosi del diritto spiegano che la storia della pena “è in realtà la storia di una continua abolizione”, cioè di una progressiva sottrazione: dunque il contrario dell’accumulo sanzionatorio previsto dal governo. E la concezione della pena, da sempre, rivela la natura dello Stato. Un ordinamento laico usa come misura del reato il danno fatto al singolo e dunque alla nazione, e di conseguenza considera sempre il principio di proporzionalità, per cui il costo della pena deve essere bilanciato con il costo del danno sociale: e in ogni caso la pena è inflitta non a chi è “socialmente pericoloso”, ma a chi ha messo in atto azioni socialmente pericolose, individuate specificamente dalla legge. Qui sembra emergere invece l’individuazione di una sottoclasse segnalata dal governo alle forze dell’ordine e alla magistratura come deviante, con particolare attenzione a chi protesta prendendo parte a blocchi del traffico e a “sommosse”, nelle strade, nelle carceri e nei centri di raccolta per stranieri. Le figure a cui si fa riferimento sono quelle che abitano il sottosuolo della nostra società: migranti, accattoni, detenuti, accomunati nel girone infernale della microcriminalità. Naturalmente il problema dei piccoli reati quotidiani esiste, e l’opinione pubblica avverte la nuova insicurezza delle città. Ma presentarlo come causa e non come effetto della disarticolazione del sociale è un inganno, che ingigantisce il fenomeno e di conseguenza incrementa la paura. Proprio perché è “micro” la delinquenza spicciola dei reati di strada inquieta il cittadino qualunque, indipendentemente dalla sua fortuna e dal suo reddito, lo trasforma in bersaglio potenziale. La politica è stata inventata per emancipare la popolazione dalla paura, con lo Stato che tutela l’ordine esercitando il monopolio della forza e la regola democratica che garantisce la convivenza nella libertà. Ma in Italia questo meccanismo si è bloccato. Con l’angoscia che nasce dai due fronti aperti in Ucraina e in Medio Oriente e dalla percezione di un mondo fuori controllo, il cittadino si sente personalmente esposto, non più coperto dal tetto della politica, sopravanzata e resa inefficace dalla portata inarrivabile delle crisi che lo circondano. Questo sentimento di vulnerabilità riduce la sua autonomia, rendendolo gregario del senso comune dominante, e inconsapevolmente bisognoso di protezione. Se all’eco della nuova paura del mondo si aggiunge la falsa credenza di un’emergenza di microcriminalità che investe il suo universo domestico, il cerchio si chiude davvero: isolando l’individuo dentro una solitudine urbana scambiata per l’unica isola di sicurezza ormai possibile, in una visione intimorita del futuro, annichilito dal nuovo egoismo del welfare, dalla moderna gelosia del lavoro. Questa società rattrappita che non produce speranza, irrigidisce anche il suo rapporto con il potere, a cui non chiede più politica, accontentandosi di misure esemplari. E la risposta della destra arriva: pene, condanna, carcere, pugno duro, mano libera alle polizie, armi, tutto il corredo del clima emergenziale che crea il bisogno dell’uomo forte. È il modello del nulla populista che vuole proibire più che liberare, purificare il corpo della nazione più che governare, indirizzando il fascio di paure contro il migrante, eterno bersaglio simbolico, concorrente e pretendente del nostro spazio fisico e concettuale, ospite clandestino da bandire perché si è spezzato ogni vincolo residuo tra noi e il destino abusivo degli “altri”. Quanto al nostro destino indigeno, il suo percorso e il suo esito dipendono dalla nostra capacità di scegliere e di distinguere: se vogliamo vivere nel 2023, col suo deposito di storia, o se accettiamo di iscriverci all’Anno Zero, senza passato e col presente troppo spaventato per progettare un futuro. Sicurezza, non è un ddl ma un palinsesto televisivo di Luigi Manconi La Repubblica, 20 novembre 2023 Carlo Nordio per anni si è detto contrario alla bulimia normativa. Poi è diventato ministro della Giustizia e ora fioccano nuovi reati e pene più severe. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio rivela, palesemente, una scissione della personalità. Nelle sue vite precedenti (di eccellente magistrato, prima, e di editorialista di fede liberale, poi) aveva criticato reiteratamente due delle principali tendenze della produzione legislativa italiana, entrambe attribuibili a una sorta di bulimia normativa. Ovvero, l’ampliamento del numero dei reati all’interno di Codici già pesantemente gravati, e l’innalzamento delle pene per reati già presenti nel nostro ordinamento. In più circostanze, Nordio aveva evidenziato, con ricchezza di argomenti e di dottrina, come quelle due tendenze si mostrassero totalmente fallaci sul piano dell’efficacia e dei risultati conseguiti; e avessero come sola conseguenza certa un ulteriore affaticamento della macchina della giustizia e l’incremento della sua cronica lentezza. Ora, di fronte alle norme penali varate dal governo in 12 mesi il ministro si comporta come un Gasparri qualsiasi: ne fa l’elogio e ne annuncia il successo, con linguaggio felpato e qualche sorriso in tralice. In realtà, più che un pacchetto sicurezza, il disegno di legge approvato giovedì richiama un palinsesto televisivo. Le nuove norme ricalcano e trascrivono in forma di articolo di codice tutte le tematiche prevalenti (talvolta fino al parossismo) nei programmi radio-televisivi ispirati e gestiti dalla destra di governo. L’occupazione abusiva di case, i borseggi in metropolitana, le donne incinte per le quali si differisce la pena, la mobilitazione di Ultima Generazione che blocca il traffico e scrive sui muri, la decadenza di zone dei centri storici e la desolazione delle periferie: sono, come si dice, altrettanti “temi in scaletta” dei talk show radio-televisivi che mettono in scena umori e malumori, frustrazioni e rancori degli strati sociali meno tutelati. Problematiche vere, talvolta drammatiche, ma che i provvedimenti assunti non sembrano in grado in alcun modo di affrontare, risolvendosi in messaggi ideologici e in mera propaganda. Il disegno di legge in 31 articoli si focalizza sul “nemico opportuno” (la definizione è del sociologo Loïc Wacquant), quello più facile da individuare e più remunerativo da colpire sul piano dei consensi: la marginalità e la devianza sociale. Sono, infatti, principalmente i gruppi più deboli i destinatari elettivi delle misure introdotte, che vanno a sanzionare, tra l’altro, i cosiddetti “reati di sussistenza”. Così è per i daspo urbani, i divieti di accesso a luoghi ad alta frequentazione (stazioni, porti, metropolitane) per quanti abbiano precedenti per furto o rapina commessi in quegli stessi spazi. E così è anche per il nuovo delitto di occupazione abusiva d’immobile, per cui sono previste pene che ammettono, addirittura, la custodia cautelare e le intercettazioni. Anche per quanto riguarda l’impiego dei minori nell’accattonaggio, che esige - sia chiaro - un contrasto robusto, la sola misura ipotizzata è di carattere penale: nulla di preventivo che consenta di intervenire sulla causa, prima ancora che sul sintomo, del problema. Viene colpita anche la manifestazione del dissenso: diventa, infatti, reato il blocco stradale che sia previamente organizzato (come se questo di per sé determinasse maggiore ostacolo alla circolazione) e che risulti particolarmente “allarmante”. È inevitabile che una norma dai contorni così sfuggenti si presti ad applicazioni discrezionali tali da mettere a rischio lo stesso esercizio di diritti costituzionalmente garantiti, anche quando non si arrechi alcun danno a terzi. Non mancano, poi, le aggravanti per chi imbratta beni delle forze di polizia o di altri soggetti pubblici per lederne il decoro, e gli interventi sul terreno delicatissimo del sistema penitenziario. Da un lato, si incrimina non solo l’organizzazione o la partecipazione, ma anche l’istigazione alla realizzazione di rivolte in carcere (o nei centri per migranti) con “scritti” diretti ai detenuti; dall’altro si esclude l’obbligatorietà del rinvio dell’esecuzione della pena nei confronti di donne in stato di gravidanza o con figli sotto i tre anni, che potranno dunque finire in carcere. Per quanto riguarda la possibilità per gli appartenenti alle forze di polizia di portare anche fuori servizio armi non di ordinanza, basti il severissimo giudizio espresso su questo giornale da Armando Spataro, ex Procuratore della Repubblica di Torino. Complessivamente, d’un colpo solo, vengono introdotte tre nuove fattispecie penali e una miriadi di aggravanti. A conclusione di un anno di attività del governo che ha alacremente lavorato in questa direzione, intervenendo su: organizzazione di rave illegali (pena fino a sei anni); reato universale di gestazione per altri (in prima lettura, pene fino a due anni); omicidio nautico (pena fino a dieci anni); istigazione all’anoressia aggravata dalla minore età (reclusione fino a quattro anni); dispersione scolastica (aumento della pena fino a due anni per i genitori); incendio boschivo (pena fino a due anni); occupazione abusiva di immobili (innalzamento della pena fino a due anni); pene fino a cinque anni per spaccio e possibilità di custodia cautelare in carcere per i minori. Certo, si tratta di questioni assai gravi, talvolta capaci di suscitare allarme sociale e senso di insicurezza presso gli strati popolari meno garantiti. Ma quello che qui si contesta è l’efficacia delle misure adottate e la strategia complessiva che rivelano, tante volte smentita dalla storia. Tutto questo in un Paese, il nostro, dove gli omicidi volontari registrati nel 1992 erano 1.476 e, trent’anni dopo, sono 314. Ma quale “sicurezza”? Solo “libera” propaganda nei decreti di Piantedosi di Veronica Gentili Il Fatto Quotidiano, 20 novembre 2023 Sicuramente L’unica vera sicurezza che viene fuori dall’ultimo decreto sicurezza approvato dal governo è che quando si ha poco margine d’azione su quasi tutto, bisogna simulare di averne parecchio dov’è possibile. E dunque se l’attuale governo ha scarse possibilità di esprimere la propria individualità in politica estera, dove è chiamato a tener fede a relazioni ed alleanze internazionali, e in economia - al netto di una soggettiva gerarchia tra quali misure sono ritenute primarie e quali subordinabili - dove è costretto a ridottissime possibilità di manovra, non resta che individuare settori altri, più interni e perciò meno vincolanti, nei quali manifestare dei guizzi di personalità. L’occasione per dire qualcosa di destra, o meglio per farlo, non a caso si è presentata al ministro degli Interni, perché è nel cortile di casa che resta quel po’ di agio politico per mostrarsi nerboruti e radicali. Così nel decreto 3 in 1 che porta la firma di Matteo Piantedosi c’è tutto quello che serve per mostrare al Paese di avere polso: più tutele in caso di violenza e condotte offensive nonché porto d’arma privata per le forze dell’ordine, nuovo reato contro le rivolte nelle carceri, contrasto alle occupazioni abusive, pene più severe per chi truffa gli anziani, misure anti-borseggio e anti-accattonaggio dei minori, esecuzione della pena in caso di detenute madri, stretta contro i blocchi stradali (pensata ad hoc contro gli eco attivisti). Insomma, se per caso vi fosse sembrato che della campagna elettorale fosse rimasto poco o nulla, ve lo facciamo vedere chi siamo noi. Sperando che una madre col bimbo di un anno in carcere possa fare le veci della flat tax per tutti, o che un agente in borghese con la pistola in tasca ci faccia dimenticare di quel sospirato blocco navale che alla fine era un miraggio. “La sicurezza è libertà” ha dichiarato la presidente del Consiglio. Ma in realtà è a loro che la libertà resta solo nella sicurezza. Violenze, reati e crimini: fotografia di un Paese dove sono i giovani a delinquere di Francesco Grignetti La Stampa, 20 novembre 2023 Un indicatore significativo per indagare le cause del disagio giovanile può essere rappresentato dal tasso di dispersione scolastica. Spaventoso l’incremento dei reati commessi da giovani e giovanissimi. L’ultimissimo Rapporto sulla criminalità giovanile, a cura del servizio analisi criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza, un ufficio interforze tra tutte le polizie, registra che sono in crescita i reati tra i minorenni e i cosiddetti giovani adulti (fino a 24 anni). Impressionante l’aumento di reati con uso della violenza. I minori denunciati o arrestati per rapina registrano un notevole incremento, in particolare nel 2021 e nel 2022 (1.594 segnalazioni nel 2010 e 3.175 nel 2022). Significa una impennata del 65,62% tra il 2019 e il 2022. L’andamento delle segnalazioni di minori per estorsione mostra un incremento del 69,04% dal 2010 al 2022, seppure i valori assoluti siano molto contenuti. Nel 2019, 476 segnalazioni con un incremento del 35,23% rispetto al 2011. Le segnalazioni di minori stranieri sono superiori a quelle dei minori italiani per i reati di furto negli anni 2013-2015 e 2018-2022, rapina negli anni 2021-2022 e ricettazione nel 2022. Il discorso vale per quasi tutti i reati. “Al riguardo - si legge nelle conclusioni del rapporto - l’adolescenza potrebbe costituire già di per sé un fattore di rischio, data la criticità e la complessità del periodo della vita che ciascun ragazzo attraversa. I giovani che vivono in contesti di deprivazione socio economica o in ambienti familiari disfunzionali potrebbero apprendere comportamenti violenti come mezzo per risolvere i conflitti. La pressione dei pari o l’appartenenza a gang possono indurre una deresponsabilizzazione, che è propria dell’agire in gruppo, ed avviare i giovani alla commissione di atti violenti come rito di passaggio o per guadagnare uno status”. Un indicatore significativo per indagare le cause del disagio giovanile può essere rappresentato dal tasso di dispersione scolastica. Ma il servizio analisi criminale segnala anche le “forme di desensibilizzazione alla violenza in ragione dell’esposizione continua ad immagini violente nei media” oppure come “la spettacolarizzazione di comportamenti antisociali attraverso i social potrebbero ridurre la consapevolezza del disvalore sociale dei comportamenti violenti”. È quanto si intuisce anche dalle storie di cronaca che riguardano le violenze contro le donne. Analizzando le violenze sessuali dell’anno 2022, si scopre che un terzo delle vittime sono minorenni. Ampliando la fascia da 0 a 24 anni, si supera il 50% delle vittime totali. “E in genere - commenta Stefano Delfini, il criminologo responsabile del servizio - questi sono reati tra pari”. Ciò significa che anche tra i giovanissimi, tra i quali i comportamenti violenti stanno dilagando, i comportamenti con l’altro sesso non fanno eccezione. Sempre restando ai dati 2022 sulle violenze sessuali, il 20,7% dei denunciati sono tra i 14 e i 24 anni. Dai 25 anni in su, le statistiche sono meno accurate, ma tutto lascia pensare che siano moltissimi gli autori di violenza entro i 30 anni. Il dramma è che le violenze contro le donne crescono a tutte le latitudini e in tutte le fasce di età. Si prenda l’andamento generale dei reati spia commessi nel decennio 2013 - 2022: c’è un trend in progressivo e costante incremento; sono aumentati del 105% i maltrattamenti contro familiari e conviventi, del 48% gli atti persecutori. Per le violenze sessuali, si è passati da 4.488 casi nel 2013 a 6.291 nel 2022(+40%). “Tale tendenza in evoluzione conferma la necessità di riservare a tale fenomenologia criminale la massima attenzione. Ciò anche se il rilevato incremento dei dati può, almeno in parte, essere interpretato quale parziale “affioramento di un sommerso”“, si legge nel rapporto. E non solo. Nel 2022 e nei primi sette mesi dell’anno in corso, emerge che a subire atti di violenza sessuale in circa il 30% dei casi è stata una vittima minorenne. Esaminando la violenza sessuale di gruppo, fenomeno che ha tristemente contraddistinto la cronaca dell’ultimo periodo, la maggior parte delle vittime minorenni era stata aggredita da coetanei. C’è una disponibilità maggiore dei giovani alla violenza. “Si può immaginare che queste azioni delittuose siano poste in essere dai minori che subiscono in maniera pressante i condizionamenti negativi del gruppo amicale, del cosiddetto “branco” o dell’ambito familiare. Emerge un quadro di giovani alla ricerca disperata di una identità, con un bisogno esasperato di visibilità e di considerazione, in uno stato di forte irrequietezza; tutti elementi che testimoniano una pressante richiesta di aiuto e di considerazione rivolta al mondo degli adulti, che li spinge a compiere azioni estreme e pericolose”. E se questo è il background, purtroppo non fanno eccezione i reati contro le donne. Femminicidi. Nordio: “Faremo una guida per riconoscere i segnali-spia” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 20 novembre 2023 Il Guardasigilli: nuove norme? Utili, non risolutive. Serve un intervento organico, vedo anche emulazione. Bisogna informare gli uomini dei reati e dei rischi che si corrono. “Da magistrato, di violenze e femminicidi ne ho visti tanti. Ma mai come quello di Giulia Cecchettin”. Ministro Carlo Nordio, perché? “Il tempo trascorso mi induceva a pensare a una conclusione tragica, l’alternativa doveva essere una fuga d’amore e non mi sembrava ci fossero premesse così ottimistiche”. Allora, perché? “Non ho gli atti, ma leggo che non c’erano stati accessi di gelosia o violenze. Quella sera sembrava fossero andati a mangiare insieme da amici. E poi è scattata la molla di una violenza “inconcepibile”, come l’ha ben definita Meloni”. Mercoledì sarà varata una nuova legge. È risolutiva? “Le leggi sono tutte utili, nessuna risolutiva. Misure sono state adottate dai governi precedenti e anche dal nostro. Sulla repressione noi abbiamo dato il segnale che lo Stato c’è. Ma la soluzione transita da una forma di rieducazione su questo tema”. Occorre rendere obbligatoria la formazione di magistrati e polizia giudiziaria? “Io ho trovato grande competenza. Più che formare gli agenti occorre formare le persone. Il mio ministero su questo prepara un’iniziativa”. Ovvero? “Come nella mafia esistono i reati spia, così nei femminicidi ci sono gli atteggiamenti spia: sintomi di un possibile aggravamento di violenza. Prepariamo un opuscolo, con una grafica molto comprensibile, da diffondere in scuole, social, posti di lavoro”. Per spiegare cosa? “Ciò che ieri poteva sembrare galanteria, insistenza, messaggi social può essere invece la spia di una futura violenza. E occorre informare anche i maschietti dei reati prefigurati e dei rischi che si corrono con certi comportamenti perché l’addensamento di questi reati mi fa pensare anche a una sorta di emulazione”. In Spagna dopo il varo di una legge organica i femminicidi diminuiscono. Serve anche qui? “Più che una legge organica serve un intervento organico. E una radicale rieducazione soprattutto di giovani e adolescenti, per renderli consapevoli dei loro doveri in particolare verso le coetanee”. C’è una cultura malata frutto del patriarcato. “Partiamo da lontano. È comune all’Occidente. Credo che l’aggressività di molti uomini derivi dalla sedimentazione millenaria del dominio maschile sulla donna, iniziato ai primordi della civiltà quando l’unico criterio di supremazia era la forza muscolare. Da lì la subalternità femminile nell’ambito militare, politico, culturale e sessuale. Solo negli ultimi decenni abbiamo preso atto della pari dignità di genere. Ma se la razionalità accetta questa situazione, il nostro codice genetico è difficile da rimodulare. Poiché le sue radici sono profonde, è su queste che dobbiamo incidere. Ecco perché occorre educare e informare, ascoltare i giovani ma anche dare risposte adeguate”. Elly Schlein propone una legge per l’educazione al rispetto e all’affettività nelle scuole. Siete d’accordo? “Una nuova legge si può anche fare, e ben venga se serve almeno in questo settore a trovare un accordo con l’opposizione. Ma le leggi sfrondano i rami, solo l’educazione sradica i pregiudizi. E su quello bisogna agire”. Come? “Occorre insistere sui doveri piuttosto che sui diritti. E agire anche sui genitori”. In che modo? “Oggi ai ragazzi si concede molto. Nelle scuole, dove ogni giudizio negativo è visto come un’aggressione alla loro individualità. E nelle famiglie, dove si assecondano anche le loro inclinazioni più eccentriche. Questo non significa affatto rimpiangere il buon tempo antico, come da sempre fanno gli anziani”. Allora cosa? “La mia generazione ha vissuto il ‘68, e quella rivoluzione è stata la più incisiva dopo quella francese. Oggi però non assistiamo a un impegno sovversivo contro il conservatorismo, ma piuttosto a una sciatteria etica, molto peggio di una protesta ideologica”. Sciatteria etica? “È un po’ come l’eresia rispetto all’indifferenza religiosa: la prima esprime un progetto alternativo, la seconda è un nichilismo autofagico e dissolutore. Se le famiglie prima e la scuola poi non insegnano il rispetto della dignità e libertà altrui, il ragazzo si sente in diritto di fare ciò che vuole”. Filippo Turetta sarà davvero estradato in tempi brevi? “Trattandosi di delitto commesso in Italia da un italiano, a danno di una italiana, dovrebbe esser questione di pochi giorni”. Non suscitano scandalo le scarcerazioni anticipate di assassini delle donne, come quello di Erika Preti, ora ai domiciliari perché obeso? “Le leggi esistono, e sono adeguatamente severe. Ora sta alla magistratura applicarle. Ho sempre spiegato che la mia visione del garantismo significa principio di presunzione di innocenza prima della sentenza, e di applicazione certa e immediata della pena dopo l’eventuale condanna”. Femminicidi. Roccella: “Una legge bipartisan sull’affettività, la rivoluzione parta dagli uomini” di Flavia Amabile La Stampa, 20 novembre 2023 La ministra per la Famiglia: “Pronti al dialogo con l’opposizione ma prima bisogna verificare quali sono le azioni davvero efficaci”. Sì a una legge condivisa per portare l’educazione all’affettività nelle scuole ma bisognerà aprire un dibattito sui contenuti, sostiene la ministra per la Famiglia Eugenia Roccella a poche ore dall’ennesimo femminicidio. La segretaria del Pd Elly Schlein chiede che maggioranza e opposizione lavorino insieme a una legge per rendere obbligatoria l’educazione all’affettività nelle scuole come avviene nella maggioranza dei Paesi europei. È d’accordo? “Non solo siamo pronti al dialogo ma su questo tema l’abbiamo sempre cercato, e non è un caso che la legge contro la violenza sia stata appena votata alla Camera all’unanimità. La proposta di collaborazione fatta dalla Schlein, raccogliendo l’appello della Cortellesi, va accolta come metodo”. Nell’educazione all’affettività rientra anche l’educazione alla sessualità? “Siamo disponibilissimi a lavorare a una legge con l’opposizione. Su che cosa fare però è necessario aprire una riflessione seria. Bisogna verificare quali sono le azioni davvero efficaci. La Svezia, per esempio, ha un tasso di violenza contro le donne e un numero di femminicidi più alto rispetto all’Italia eppure ha l’educazione sessuale nelle scuole”. Licia Ronzulli di Forza Italia chiede che l’educazione all’affettività inizi fin dalla materna. È d’accordo? “Credo che fin dalla più tenera età sia necessario educare al rispetto. Al rispetto degli altri, al rispetto della libertà di ciascuno, perché la democrazia si fonda su questo. Alla base della violenza c’è infatti il problema di una nuova libertà femminile che per alcuni uomini risulta ancora difficile da accettare, da elaborare”. In molti chiedono uno sguardo sulle famiglie e in particolare sull’educazione dei maschi, tema su cui la destra è riluttante. È il momento? “La destra non è affatto riluttante. Le battaglie delle donne partono dalle donne e dalla loro consapevolezza, ma hanno successo quando coinvolgono anche gli uomini. Quindi è fondamentale che le madri educhino i figli maschi ad avere rispetto delle donne e della loro libertà, fuori dagli stereotipi di genere. Sarebbe inoltre un bel segnale una manifestazione di uomini contro la violenza, è un’idea che aveva lanciato tempo fa Ignazio La Russa e che potrebbe dare il senso di uno spirito trasversale. Credo che Elly Schlein potrebbe essere d’accordo”. L’editorialista Marcello Sorgi accusa il governo di dimenticare l’urgenza di reati contro il femminicidio. Come risponde? “È proprio il contrario. La lotta alla violenza contro le donne, e la volontà di creare su questo fronte un’alleanza trasversale, è stata un punto qualificante dell’azione di governo fin dal primo giorno”. Eppure Action Aid denuncia che nell’ultimo anno sono calati del 70 per cento i fondi per la prevenzione della violenza di genere... “Non ci risulta. Abbiamo invece aumentato i fondi per il piano anti-violenza, i centri e le case-rifugio, passati da 35 a 55 milioni in via strutturale, a cui quest’anno ho aggiunto 9 milioni per l’empowerment delle donne in uscita da situazioni di violenza”. Non si può negare che, nonostante il Codice rosso e le promesse che si susseguono dopo ogni femminicidio, le donne continuano a morire. Elena, la sorella di Giulia Cecchettin sostiene che in Italia non c’è un solo posto dove, come donna, si può essere sicura. Che cosa manca ancora? “Purtroppo non c’è un solo posto nel mondo dove le donne siano sicure. Le dinamiche di dominio, lo squilibrio di potere, anche se in misura assai diversa, ci sono ovunque. Pur con la nostra media intollerabile di una donna uccisa ogni tre giorni, i dati ci dicono che l’Italia è fra i Paesi europei in cui il numero di femminicidi è meno alto. Un governo può e deve intervenire, e lo stiamo facendo. Ma il fenomeno va affrontato su molti piani. C’è un problema di cultura e di costume che richiede tempo e uno sforzo comune per cambiare le cose davvero e in profondità”. Il leader della Lega Matteo Salvini ha chiesto il carcere a vita per gli assassini e castrazione chimica per stupratori e pedofili... “Penso che le nostre leggi siano buone. Con questa nuova legge abbiamo proseguito sulla linea del Codice rosso promossa a suo tempo da Giulia Bongiorno, che è quella di interrompere il ciclo della violenza prima che accada l’irreparabile. Con le norme varate dal governo che saranno approvate in Senato la prossima settimana daremo per la prima volta tempi certi per adottare le misure cautelari. Questa è la linea da seguire e credo che Salvini e la Lega condividano questa linea su cui il governo ha lavorato insieme”. Femminicidi. I “mostri” non sono malati, sono figli sani del patriarcato di Elena Cecchettin Corriere della Sera, 20 novembre 2023 La lettera della sorella di Giulia Cecchettin. Fin dalle prime ore Elena ha preso posizione perché la tragedia sia spunto di riflessione sulla violenza di genere. Turetta viene spesso definito come mostro, invece mostro non è. Un mostro è un’eccezione, una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è. I “mostri” non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro. La cultura dello stupro è ciò che legittima ogni comportamento che va a ledere la figura della donna, a partire dalle cose a cui talvolta non viene nemmeno data importanza ma che di importanza ne hanno eccome, come il controllo, la possessività, il catcalling. Ogni uomo viene privilegiato da questa cultura. Viene spesso detto “non tutti gli uomini”. Tutti gli uomini no, ma sono sempre uomini. Nessun uomo è buono se non fa nulla per smantellare la società che li privilegia tanto. È responsabilità degli uomini in questa società patriarcale dato il loro privilegio e il loro potere, educare e richiamare amici e colleghi non appena sentano il minimo accenno di violenza sessista. Ditelo a quell’amico che controlla la propria ragazza, ditelo a quel collega che fa catcalling alle passanti, rendetevi ostili a comportamenti del genere accettati dalla società, che non sono altro che il preludio del femminicidio. Il femminicidio è un omicidio di Stato, perché lo Stato non ci tutela, perché non ci protegge. Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere. Serve un’educazione sessuale e affettiva capillare, serve insegnare che l’amore non è possesso. Bisogna finanziare i centri antiviolenza e bisogna dare la possibilità di chiedere aiuto a chi ne ha bisogno. Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto Femminicidi. Quello che gli uomini non riescono ancora a capire di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 20 novembre 2023 Ventidue anni, un bel sorriso, una laurea che non prenderà mai. Cosa proviamo dopo l’assassinio di Giulia? Rabbia, paura, frustrazione, stupore? Beh, non basta. Rabbia e paura sono comprensibili, perché queste tragedie continuano a succedere, e qualcuno continua a minimizzare. Quelli secondo cui “certe cose sono sempre accadute”, e “un femminicidio è un omicidio come un altro”. Quelli incapaci di pietà. Quelli per cui l’odio è diventato un’abitudine (pandemia, guerre, una giovane donna ammazzata in un parcheggio: tutto uguale). Leggere certi commenti sui social, in queste ore, spaventa. Frustrazione? Certo, perché una soluzione non si trova. Cosa fare per impedire che certi maschi passino dall’ossessione alla sopraffazione? Il fenomeno è esteso, nessun luogo è immune, i confini (geografici, anagrafici, culturali, economici) non esistono. La piazza del Duomo di Crema, ieri, era una distesa di coperte a maglia e all’uncinetto, esposte dall’associazione Viva Vittoria per aiutare le Donne contro la Violenza. Nel cremasco vengono soccorse cento donne l’anno: e chissà quante altre hanno paura di denunciare. Stupore perché nella cultura di massa resiste il concetto di amore criminale, discendente dell’infame delitto passionale. È una pericolosa sciocchezza: se è criminale, non è amore. Invece di giustificarli, anticipiamoli: i nuovi mostri lasciano indizi prima di uccidere. Controllo ossessivo; scatti violenti seguiti da pentimenti lacrimosi; pretese assurde, come quelle di controllare il telefono dell’altra persona. Anche questo faceva, Filippo Turetta. Ricordo un caso simile, nel 2013: la borghesia veneta, il compagno insospettabile (?), l’appuntamento, il litigio, il coltello, l’auto, la fuga, l’arresto. Scrivevo, qui sul Corriere: “Noi maschi dovremmo occuparci di più del femminicidio: parlarne, scriverne, domandare, provare a capire. È invece un dramma confinato in un universo femminile: ne parlano e ne scrivono soprattutto le donne, le fotografie sono sempre delle vittime e raramente dei carnefici. È come se noi uomini volessimo prendere le distanze da qualcosa che non capiamo, e di cui abbiamo paura”. Mi domando cosa sia cambiato in dieci anni. La risposta, purtroppo, è facile: molto poco. Estradizione negata per un ricercato: “La Tunisia di Saied viola i diritti umani” di Marco Preve La Repubblica, 20 novembre 2023 A Genova, la Corte d’Appello respinge la richiesta del paese nordafricano con cui il governo Meloni cerca accordi sulla gestione dei flussi migratori. Da un lato il governo Meloni che, nonostante il raffreddamento dei rapporti con la Ue, spera ancora di poter trovare un accordo con la Tunisia per la gestione dei flussi migratori. Dall’altra, i giudici italiani che alla nazione nordafricana rifiutano di consegnare un narcotrafficante perché “dopo la svolta autoritaria del presidente Kais Saied, nelle carceri tunisine c’è l’alto rischio che un detenuto venga sottoposto a tortura o a trattamenti inumani e degradanti in violazione della, Cedu, Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo”. Viaggiano a due velocità le relazioni fra Roma e Tunisi. Da un lato il governo di destra - ma situazioni analoghe si erano già verificate con leader di centro sinistra e i contestati accordi dell’allora ministro Minniti con la Libia e le sue prigioni medievali - che cerca di stipulare patti operativi per contenere l’arrivo di migliaia di disperati dall’Africa subsahariana e dal medio oriente, dall’altra i magistrati italiani che applicano i principi dello stato di diritto e formalizzano, attraverso delle sentenze, quello che la politica, molto spesso, non può o vuole dire. Sono i giudici della Corte d’Appello di Genova a scrivere questo nuovo capitolo. Ed è importante perché il protagonista di questa storia non è un attivista politico, uno studente contestatore, una ragazza che lotta per un diritto di genere. Bilel Zaghibib ha 33 anni ed è indagato per associazione a delinquere per traffico di droga. Ma una democrazia che difende i principi del vivere civile la si misura proprio quando si schiera dalla parte dei “cattivi”. Infatti, la Corte d’Appello (giudici Giuseppe Diomeda presidente, Nicoletta Cardino e Nicoletta Bolelli) come lo stesso sostituto procuratore generale Enrico Zucca -che nella sua requisitoria aveva chiesto che venisse respinta la richiesta di estradizione -, nega la consegna del detenuto, attualmente in carcere a Marassi, nonostante riconosca la validità sia delle prove a carico del sospetto narcos fornite dalle autorità tunisine, che della Convenzione bilaterale fra i due paesi sottoscritta a Roma nel 1967. Però tutto si ferma quando si passa al “pericolo di sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti o della violazione di diritti fondamentali”. “È noto che nel 2021 la Tunisia - si legge negli atti - è stata interessata da profondi mutamenti istituzionali che hanno portato alla sospensione della Costituzione vigente e in seguito ad un nuovo assetto costituzionale dopo un referendum cui hanno partecipato solo il 30% degli aventi diritto al voto. I mutamenti hanno interessato soprattutto l’apparato giudiziario, la cui indipendenza dal potere esecutivo è stata intaccata”. Si enunciano poi una serie di report e dossier sulle “limitazioni a libertà e interventi repressivi”. L’ Ong Human Rights Watch afferma che “La nuova Costituzione non garantisce pienamente l’indipendenza della magistratura e della Corte Costituzionale che la Tunisia deve ancora istituire”. È poi la volta delle parole di Amnesty International: “I diritti umani sono ancora a rischio dopo i due anni della svolta autoritaria del presidente Saied” .Viene anche citato un rapporto dell’Ufficio Diritti Umani del Dipartimento di Stato degli Usa in cui si parla di “allarmante presenza di episodi di tortura… in particolare nella fase di detenzione preventiva”. I giudici concludono che “sebbene Zaghbib non rientri nella fascia dei soggetti- oppositori politici e simili -più esposti ad abusi e vessazioni , le condizioni di detenzione illustrate si rivelano generalizzate e tali da coinvolgere detenuti anche comuni”… vi sono quindi motivi per ritenere che in caso di accoglimento della domanda di estradizione in ambito penitenziario Zaghbib sarà soggetto a una situazione che non garantisce il rispetto dei diritti fondamentali ed esposto ad atti persecutori, a pene o trattamenti crudeli , disumani o degradanti… viene dichiarata l’insussistenza delle condizioni per l’estradizione”. Bilel Zaghbib era stato coinvolto in un’indagine dell’antidroga tunisina e inseguito da un mandato di cattura spiccato il 14 marzo di quest’anno. Le accuse nei suoi confronti erano partite dal fermo di un camionista nel porto di La Goulette alla guida di un camion appena sceso dal traghetto Cartahage proveniente da Genova. Era stato trovato dello stupefacente e le successive indagini avevano portato a Zaghbib, arrestato a Genova ad aprile. Umbria. Frenata del Ministero sul ritorno del Prap a Perugia: “Solo un’ipotesi” di Daniele Bovi umbria24.it, 20 novembre 2023 Via Arenula interviene sulla scorta delle proteste in corso in Abruzzo, che verrebbe accorpato con Umbria e Molise. Lunedì sindacati davanti alla Regione. Per i tanti che avevano già brindato al ritorno della sede del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria a Perugia, è meglio rimettere la bottiglia in frigo. Sulla scorta delle proteste in corso in queste ore in Abruzzo, domenica il Ministero della Giustizia fa sapere che “l’individuazione della sede a Perugia non è stata ancora effettuata”. La frenata L’istituzione dei nuovi provveditorati “avverrà con il nuovo regolamento di organizzazione del ministero della Giustizia che sarà adottato con Decreto del presidente della Repubblica. A oggi - spiega il Ministero - è stato solo elaborata un’ipotesi tecnica trasmessa ai sindacati per osservazioni. Nulla di più. L’iter, pertanto, è in corso. Ci sarà modo di attuare un tavolo di confronto anche con le regioni interessate”. La situazione A oggi l’Umbria è aggregata con la Toscana e la sede del provveditorato è a Firenze; una soluzione contro la quale nel corso del tempo si sono levate numerose proteste dei partiti e della polizia penitenziaria, che nelle ultime settimane hanno accusato Firenze di inviare regolarmente in Umbria i detenuti più problematici. A fine ottobre in una comunicazione del Ministero firmata dal direttore generale Massimo Parisi, Via Arenula ha inviato ai sindacati lo schema di decreto con il quale si fa nascere il provveditorato Umbria, Molise e Abruzzo, con sede a Perugia. Fino a oggi, Molise e Abruzzo sono state accorpate al Lazio. Le proteste Contro l’accorpamento da diverse settimane si stanno facendo sentire i sindacati abruzzesi della polizia penitenziaria che, lunedì mattina, saranno a L’Aquila davanti alla sede della Regione Abruzzo per protestare. Sappe, Osapp, Uil, Uspp, Cisl, Cgil e Cnpp parlano di “scippo” e chiedono alla Regione di intervenire “con maggiore insistenza presso il Ministro della Giustizia facendo modificare il decreto oggetto del contendere”. Perugia viene giudicata troppo distante: per i sindacati la soluzione per Abruzzo e Molise deve tenere conto di “funzionalità, razionalità ed economicità”. Nei giorni scorsi poi il senatore pd Michele Fina ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia Carlo Nordio, chiedendo alla Regione di intervenire e al Ministero di modificare lo schema di decreto. Torino. Giustizia è sfatta: mancano cancellieri e assistenti giudiziari di Giuseppe Legato La Stampa, 20 novembre 2023 Le assunzioni part-time del Pnrr non bastano: fuga verso incarichi più remunerati. E nella finanziaria non è previsto nessun fondo per la digitalizzazione. L’allarme lo ha lanciato Area Democratica per la giustizia, gruppo di magistratura associata, nei giorni scorsi. Sostiene Roberto Arata, presidente della Quarta sezione penale e membro del coordinamento nazionale: “Il Consiglio dei ministri ha approvato il ddl per la legge di bilancio per l’anno 2024 che non contiene misure di investimento per i prossimi anni per l’amministrazione della giustizia. Nulla è previsto per la crescita del personale amministrativo in servizio da cui si pretende una profonda innovazione organizzativa”. I problemi atavici del Tribunale di Ivrea su questo fronte li abbiamo raccontati nei giorni scorsi e i segnali dal Csm sono arrivati a stretto giro: due magistrati in più (ancora solo in pianta organica) per affrontare i maxi processi in corso e - soprattutto - in vista (Brandizzo su tutti), ma Torino come sta? Male, verrebbe da dire guardando ai numeri aggiornati a giugno 2023. La forbice tra pianta organica e coperture effettive dei posti è stampata nero su bianco nelle analisi che il presidente del Tribunale Modestino Villani analizza ogni giorno per portare avanti una macchina che comunque svolge il suo ruolo con sabauda razionalizzazione e lusinghieri risultati perlomeno rispetto agli organici a disposizione. Vediamoli: pronti, via e salta all’occhio che da due anni manca un dirigente amministrativo. Fino a ottobre 2021, data in cui Villani divenne presidente reggente del Tribunale (poi confermato dal Csm), una figura direttiva ha lavorato a scavalco anche con la Corte d’Appello. Di lì in poi nulla: “I diversi interpelli - racconta Villani - sono andati deserti per Torino”. Problema di risorse o di appeal dell’ufficio? “L’appeal c’è pure dopodiché va detto che quei concorsi non si indicono (né si fanno ergo) da 15 anni”. La graduatoria è dunque poco fluida da tempo. “Chi doveva scegliere una sede comoda alle proprie esigenze lo ha già fatto. E non ha scelto la nostra giurisdizione”. Se manca un capo degli amministrativi le incombenze ricadono - pro tempore - sul presidente che accoglie anche questo con buona pace e senza vittimismi. Ma se non c’è sufficiente personale chi porta avanti processi e incombenze? Al netto dei numeri dei giudici (19 gip su 30 e sezioni penali con 7 giudici sui nove previsti) a Torino il deficit è soprattutto sulle voci “cancellieri” e “assistenti giudiziari”. Dei primi ne mancano 36, i secondi ne contano 47 in meno. Gli ausiliari sono15 in meno sui 42 previsti. Si dirà che con i fondi del Pnrr destinati a potenziare il reparto giustizia, si sono aggiustate le cose. “E certo il lavoro degli addetti all’ufficio del processo arrivati due anni fa è prezioso” spiegano Arata e Villani. Ma da allora c’è da registrare che dei 149 giunti a Torino, 35 hanno lasciato l’incarico. Una fuga preoccupante. Motivo? “Si tratta di un incarico a tempo determinato e nel frattempo sono stati banditi dei concorsi in altre amministrazioni evidentemente più competitive della nostra sul piano quantomeno economico”. E chissà come sarebbe andata se non ci fossero questi problemi di organico visto e considerato che a guardare i numeri che raccontano la mole di lavoro del Tribunale, non si può negare un’abnegazione di tutti. Dal 30 giugno 2022 all’1 luglio 2023 tra settore civile, penale e l’articolatissima area delle “tutele”, la tendenza è questa: “C’è un aumento delle sopravvenienze totali superate, però, dalle definizioni, con conseguente riduzione del carico”. I numeri confermano che con organici diversi si sarebbe potuto fare molto di più soprattutto sull’arretrato. A volte non c’entrano nemmeno i fondi e basterebbe una semplice correzione di merito: al netto dei meriti innegabili del provvedimento, il cosiddetto “Codice rosso”, innalzando le pene edittali per gli autori dei reati ha comportato la migrazione dei processi dal monocratico al collegiale. Risultato: “Tre giudici affrontano un processo per volta, quando avrebbero potuto affrontare un processo ciascuno”. Terni. Casa di accoglienza per i detenuti nel Convento di Stroncone La Nazione, 20 novembre 2023 Inaugurata a Stroncone intende offrire “residenzialità temporanea, formazione e orientamento al lavoro”. Nasce nel Convento francescano la Casa di accoglienza per detenuti gestita dall’associazione “Il Leccio di Disma. “Portato avanti da padre Danilo Cruciani, guardiano del Convento di Stroncone e presidente del Leccio di Disma e da padre Massimo Lelli cappellano del carcere di Terni - sottolinea la Diocesi ternana - il progetto ha incontrato la disponibilità di tante persone nell’impegnarsi nel volontariato”. La Casa di accoglienza “Il leccio di Disma” vuole offrire “servizi di residenzialità temporanea per detenuti uniti a opportunità di formazione e orientamento al lavoro, relazioni di aiuto e discende dalla convinzione che una società che dispone di adeguate reti di reinserimento dei detenuti è una società più giusta, più sicura e più vicina a Cristo”. Presenti al taglio del nastro, sabato scorso, tra gli altri il vescovo Francesco Soddu, il magistrato Fausto Cardella, presidente dell’Associazione Umbria contro l’usura, il magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Perugia, Antonio Minchella, la direttrice del carcere di Spoleto, Bernardina di Mario, la direttrice del carcere di Rieti, Chiara Pellegrini, il comandante della polizia penitenziaria del carcere di Terni, Fabio Gallo, il sindaco Giuseppe Malvetani, la presidente della Provincia di Perugia, Stefania Proietti. Alla ristrutturazione hanno contribuito economicamente anche i detenuti che già hanno usufruito della Casa di accoglienza. “L’inaugurazione è stata l’occasione per la comunità locale di rapportarsi con il mondo carcerario - aggiunge la Diocesi - scoprendone esigenze e opportunità in vista di un comune impegno civile di solidarietà, sicurezza e convivenza civile nel segno dei valori francescani. Un’opera di carità che arricchisce l’impegno di solidarietà con i detenuti e i più bisognosi”. Prato. Dai detenuti una mano agli alluvionati toscani Italia Oggi, 20 novembre 2023 L’Amministrazione Penitenziaria si mobilita in favore dei territori e delle comunità della regione Toscana colpiti duramente dall’emergenza alluvionale. Polizia Penitenziaria in attività di ordine pubblico e controllo del territorio e detenuti al lavoro in interventi di pulitura e ripristino del verde. È il Capo del Dipartimento, Giovanni Russo, a riassumere in una nota il quadro della situazione. Il personale di Polizia Penitenziaria in servizio nella Casa circondariale di Prato ha collaborato per garantire la vigilanza del territorio contro fenomeni di sciacallaggio: durante alcuni controlli svolti insieme a una pattuglia dei Carabinieri della tenenza di Montemurlo, hanno arrestato un uomo sorpreso a rubare 80 chili di fili di rame. L’altra iniziativa prevede l’impiego di 12 detenuti dell’istituto penitenziario Gozzini di Firenze in interventi di rimozione del fango e di ripristino del verde pubblico in aree del territorio fiorentino indicate dalla Protezione Civile. Grazie alla pronta disponibilità della magistratura di sorveglianza di Firenze, i detenuti individuati escono ogni giorno per svolgere lavori di pubblica utilità a beneficio della collettività, come previsto dall’art. 20 ter dell’Ordinamento Penitenziario, e sotto il controllo di personale di Polizia Penitenziaria, dotati di adeguati dispositivi di protezione individuale e di copertura assicurativa. Napoli. “Noi, laureati in carcere, lo strumento del sapere per abbattere le barriere” Il Mattino, 20 novembre 2023 A Secondigliano si guarda al futuro. È stata una giornata da ricordare e incorniciare quella di lunedì 13 novembre. In occasione del nuovo anno accademico sono stati celebrati gli 800 anni dalla fondazione dell’Università Federico II di Napoli, il più importante centro di irradiazione del sapere d’Italia per tanti secoli, ma in generale del panorama accademico europeo. Intitolata a chi considerava la cultura non solo uno strumento di affermazione e manifestazione del potere, ma anche e soprattutto un nutrimento dell’anima, oggi la Federico II rappresenta una realtà che dovrebbe incoraggiare ogni buon napoletano, ma diciamo pure di ogni buon italiano. Per noi detenuti di Secondigliano, l’Ateneo è conosciuto come P.U.P., Polo Universitario Penitenziario, appunto, che dà la possibilità a chi, riflettendo criticamente sulla propria esistenza, cerca una sorta di riscatto iniziando un cammino nella conoscenza che nelle intenzioni potrebbe consentirgli di “ritrovare” un posto nella società, quella sana. Il rapporto tra formazione culturale ed etica, d’altronde, non ha mai lasciato indifferenti i pensatori di diverse epoche, ed è su questo fronte che vorremmo condividere con voi lettori gli effetti della nostra esperienza accademica. Certo, è obiettivamente difficile tornare “tra i banchi” a una certa età, per non parlare delle diverse problematiche che incombono su ogni detenuto e che aggravano la situazione sul piano psicologico. Ma non vogliamo di certo rattristarvi autocommiserandoci, anzi, desideriamo gridare al mondo che sì, stiamo cogliendo pienamente quest’occasione grazie allo strumento del sapere accademico. E davvero crediamo che il sapere, in senso stretto, possa agire sull’animo umano per indirizzare le nostre scelte verso una strada forse mai percorsa. Desideriamo anche che la nostra gratitudine raggiunga il cuore di chi ha ideato e creato questo “ponte” che unisce due realtà che, nell’immaginario collettivo, risultano antitetiche. Ma, paradossalmente, il problema sembra consistere proprio nell’unione di due soli punti, mentre quello di cui c’è davvero bisogno oggi è una “rete”. Parliamo di un tessuto connettivo che dia la possibilità concreta di “sfruttare” socialmente un titolo di laurea conseguito con sacrifici di ogni sorta: anche e soprattutto facendo questo avremmo dato un senso agli 800 anni del nostro amato Ateneo! Fiore, Francesco, Claudio, Joanderson e Salvatore (dalla finestra del carcere di Secondigliano) Lecco. Il carcere apre le porte agli studenti del “Badoni” leccotoday.it, 20 novembre 2023 I giovani hanno svolto una serie d’incontri a scuola e presso la struttura di Pescarenico. I giovani dell’istituto Badoni di Lecco conoscono il carcere di Lecco. Presso l’Aula Gialla della scuola, martedì 10 ottobre, si è svolto il primo appuntamento del progetto in Cittadinanza e Costituzione sulla legalità dal nome “La scuola entra in carcere”, proposto dagli insegnanti del Dipartimento di Lettere dell’istituto Badoni e rivolto alle Quinte. All’incontro erano presenti la direttrice della Casa Circondariale di Lecco, la dottoressa Antonina d’Onofrio, il comandante, dottoressa Giovanna Propato, l’educatrice della struttura, la dottoressa Gloria Cattaneo, l’assistente Pepe Vito e due guardie penitenziarie. La Direttrice ha iniziato il suo intervento ricordando che all’interno del carcere si cerca di reinserire i detenuti attivando corsi di formazione e corsi scolastici, adempiendo così al ruolo di educatori. La missione del carcere è quella di reinserire e allo stesso tempo integrare, grazie all’istituzione di corsi di studio e alfabetizzazione della cultura italiana agli stranieri detenuti in carcere, e fornire quegli strumenti che permettano di non reiterare l’illecito che ha privato loro, se pur momentaneamente, della libertà. L’educatrice ha sottolineato come la Costituzione Italiana, all’articolo 27, citi espressamente di attuare un’azione volta al recupero sociale del condannato, una sfida a cui non possono sottrarsi gli operatori carcerari, l’istituzione statale e la società. Il comandante ha spiegato che, finiti i soldi guadagnati grazie allo svolgimento di mansioni all’interno del carcere, spesso l’ex detenuto commette nuovamente reati. Il lavoro all’interno del carcere, oltre a dare la possibilità di guadagnare soldi per comprare beni come le sigarette e altro ancora, insegna al detenuto il rispetto delle regole e degli orari. I ragazzi hanno ascoltato con curiosità e attenzione gli interventi di tutti i relatori e hanno rivolto loro domande puntuali e pertinenti. Sono stati infine sollecitati alla riflessione attraverso un’attività di interazione fra loro e i relatori che ha portato a comprendere quanto poco conosciuta sia la realtà del carcere. Alla fine dell’incontro la Direttrice si è congratulata con gli studenti perché “hanno dimostrato una attenzione puntuale verso il mondo penitenziario e la volontà di andare oltre il pregiudizio, nell’ottica di valorizzare l’essere umano nella sua completezza come portatore di valori e potenzialità. La disponibilità a superare il confine e incontrare l’altro può favorire una conoscenza più vera e permettere di carpire il buono di ogni persona. La necessità è quella di restituire alla società persone migliori, da formare e in vista del rientro nella società, come richiama la nostra Costituzione”. Un lungo applauso ha concluso una mattinata che sicuramente resterà negli occhi e nel cuore di tutti i presenti. Gli alunni delle undici Quinte del Badoni, per un totale di 180 studenti, divisi in cinque turni, hanno poi visitato la Casa Circondariale di Lecco nelle settimane successive e hanno incontrato i detenuti a cui hanno rivolto domande. Infine, gli studenti hanno offerto loro una merenda. Questo momento è stato molto formativo perché si è creata una socialità più interattiva fra ragazzi e detenuti. Al termine dell’intero progetto gli alunni partecipanti hanno compilato un questionario di gradimento e il feedback ha riportato una loro piena soddisfazione nei confronti di un’attività così altamente formativa e motivante. “Il Dipartimento di Lettere dell’Istituto Badoni ringrazia il comandante, dottoressa Giovanna Propato, l’educatrice della struttura, la dottoressa Gloria Cattaneo e soprattutto la direttrice della Casa Circondariale di Lecco, la dottoressa Antonina d’Onofrio, per la disponibilità, l’attenzione e per la sensibilità educativa dimostrata in questi anni di collaborazione con l’istituto Badoni. Augura alla Direttrice altrettante soddisfazioni nella sua nuova sede e auspica una collaborazione ancora duratura con la Casa Circondariale di Lecco”. Lecco. Perché è sbagliato “buttare via la chiave”? Dibattito al Teatro Sociale di Paolo Moretti laprovinciadilecco.it, 20 novembre 2023 Se, come sostiene un filosofo illuminato - anche solo per il fatto che era sempre a passeggio con una lanterna al seguito - del calibro di Diogene, “il miglior modo per vendicarsi dei propri nemici è diventare migliori di loro”, la sensazione è che per raggiungere la saggezza di quel passato ci sia ancora molta strada da fare, in questo presente. Almeno per quello che riguarda il capitolo “giustizia”. Venerdì il Sociale è stato teatro (non solo in senso letterale) di un evento di grande spessore umano e giuridico. Un pomeriggio di confronto, dibattito e riflessione su un tema clamorosamente scomodo di questi tempi: perché è sbagliato “buttar via la chiave” quando si parla di carcere, di reati e di sanzioni. A organizzare l’incontro gli avvocati delle Camere Penali del Distretto della Corte d’Appello di Milano, ovvero di ben sette differenti province. I quali hanno provato a ragionare sui motivi per i quali, per come è pensato e strutturato oggi, il carcere non è una risposta. Non lo è sul fronte del recupero di chi commette il reato, che quando esce di cella (dati del Cnel) 7 volte su 10 torna a delinquere (contro l’appena 20% di chi è ammesso alle pene alternative); non lo è sul piano costituzionale, che vede nella pena un mezzo di rieducazione del condannato; non lo è nel contesto moderno del mondo sicurezza, visto che tutti i reati più gravi sono in clamoroso calo rispetto a 30/40 anni fa (alcune righe di pazienza prima di dare qualche numero); e infine - e forse soprattutto - non lo è neppure nell’ottica di quella giustizia invocata dalle vittime. Che dalla cosiddetta “certezza della pena” fine a se stessa non ricavano alcun conforto. Perché, proprio come sosteneva Diogene, “il miglior modo per vendicarsi dei propri nemici è” veramente “diventare migliori di loro”. Il fatto è che certe riflessioni sono scomode. Basti leggere i commenti sui social o sul nostro sito, a margine dell’iniziativa delle Camere penali, per rendersi conto del clima in cui viviamo. “Diamogli l’hotel a 5 stelle”. “Giusto a teatro possono andare”. “Eh, se la gente finisse in galera davvero poi come camperebbero (gli avvocati ndr)?”. “Sempre pro delinquenti e mai qualcosa in favore delle vittime”. Sono solo alcuni commenti - i più sereni - sul tema, dai quali già emergono due concetti interessanti. Il primo: l’incapacità di accettare che si possa parlare di un sistema sanzionatorio differente, anche e, paradossalmente, soprattutto pensando alle vittime, più che ai “carnefici”. Il secondo: è evidente il rifiuto totale di provare a immaginare una realtà differente dall’attuale. Milano. Teatro e letture in carcere per Bookcity: i detenuti diventano attori di Miriam Romano La Repubblica, 20 novembre 2023 A San Vittore la rappresentazione tratta dal podcast “Io ero il milanese”, sul palco i ragazzi del Beccaria. Iniziative anche nei luoghi dell’accoglienza e nelle biblioteche di condominio. Negli ospedali, in carcere e nelle case d’accoglienza. Bookcity porta la lettura nei luoghi del sociale. A cominciare dal Carcere di San Vittore, con un appuntamento teatrale (il 16 alle 14,30): Non è la storia di un eroe, il racconto autobiografico della vita criminale, della lunga carcerazione e del riscatto attuale di Lorenzo S., tratto dal podcast Io ero il Milanese. Sarà rappresentato in forma teatrale dall’autore Mauro Pescio, con la voce reale del protagonista, le grafiche di Lorenzo Terranera e, con la partecipazione, musicale e non solo, dei detenuti-pazienti del reparto La Nave di San Vittore gestito dalla Asst Santi Paolo e Carlo di Milano. Mentre sabato 18 alle 10, il Carcere di San Vittore si aprirà alla lettura, con l’appuntamento “In viaggio con Simurgh”: a partire da un poema persiano del dodicesimo secolo, si darà voce agli esiti di un laboratorio di scrittura in otto tappe sul tema del viaggio “Lib(e)ri dentro. Le parole per dirlo” che ha coinvolto i detenuti della Casa Circondariale e gli studenti della Scuola del Fare “Giulia Civita Franceschi” di Napoli. Spazio ai carcerati di San Vittore e alle loro opere, anche il 15, al Giardino del reparto femminile per la presentazione di A proposito di Jackie, romanzo scritto da alcune recluse del reparto femminile e dai volontari. Bookcity porterà lettura e teatro anche nelle altre case di reclusione. A Opera, il 18, si terrà una lettura scenica ispirata al racconto La Panne di Dürrenmatt, curata dal Laboratorio di lettura del reparto Alta Sicurezza; Il carcere di Bollate, il 17, ospiterà la presentazione del libro Abolire il carcere: riflessione sull’inutilità del carcere. Al Carcere Minorile Beccaria, Francesco Maisto, Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Milano, e Cosima Buccoliero, direttrice del Beccaria, dialogheranno sul tema del giudicare, mentre sul palco del Teatro del Beccaria, il 18, salirà la Compagnia Puntozero, composta da giovani detenuti e non. “Anche quest’anno Bookcity porta la lettura nei luoghi più difficili - spiega Antonella Minetto, referente di Bookcity per il Sociale. Dalle carceri agli ospedali, ai luoghi dell’accoglienza, con la partecipazione anche del Comune, dei volontari e di tutto il mondo che a Milano si occupa del sociale”. I reparti degli ospedali del Gruppo San Donato ospiteranno letture ad alta voce per medici, personale, pazienti e parenti. “All’Ospedale San Carlo Borromeo - spiega Minetto - si terrà un incontro sulla scrittura terapeutica e letture di libri nel reparto Day Hospital di Oncologia e Pediatria. Così come al San Paolo”. Bookcity toccherà poi i luoghi dell’accoglienza: la Fondazione Casa della Carità, la Casa di accoglienza Enzo Jannacci e il Centro diurno Punto Ronda. L’Unità Mobile Notturna di Ronda, nei giorni della manifestazione, insieme ai beni di prima necessità, distribuirà libri alle persone senza fissa dimora. “Saranno presenti a Bookcity anche i progetti del Comune - spiega Minetto. Le Case delle Associazioni e del Volontariato come luoghi aperti all’associazionismo, le sedici biblioteche di condominio e gli Spazi di WeMi, gestiti da cooperative sociali che collaborano con il Comune”. Milano. La vita di Lorenzo “il milanese” diventa spettacolo a San Vittore di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 20 novembre 2023 La storia dell’ex carcerato raccontata dall’attore Mauro Pescio, accompagnato dal coro della Nave. Al centro della Casa circondariale di San Vittore, davanti a un folto pubblico, ecco lo spettacolo. Un attore declama la storia e dietro di lui interviene un coro “greco” davvero tutto speciale: canta, e insieme sottolinea su una base musicale alcuni passaggi del racconto. Stiamo parlando del coro della Nave formato da ragazzi detenuti e volontari, al suo primo esperimento di questo tipo. La commozione è tanta e le orecchie sono tutte lì, ad ascoltare la storia eccezionale di Lorenzo S., della periferia del Giambellino, che la prima volta entrò in carcere a dieci giorni dalla nascita: in braccio alla mamma, andava a trovare il padre in cella. Da bambino, Lorenzo credeva a quel che gli raccontavano: ufficialmente il padre faceva “l’elettricista” a San Vittore. Ma quella storia non poteva ovviamente durare: a 8 anni scoprì la verità, e si sentì tradito. Poi il padre uscì di galera e lo portò con sé in Sicilia, a Catania. “Ogni storia nasce da un incontro” declama l’autore-attore Mauro Pescio a San Vittore. Nel caso di Lorenzo, fu un fratellastro in Sicilia, 12 anni come lui, che lo iniziò alla vita criminale. “Ci serviva un’auto per scappare, rubammo un go-kart”: e fu la prima volta. A 14 anni, alcuni giovani catanesi gli propongono di salire a Milano per un colpo: “Ti diamo un milione se fai l’apertura” (che in gergo è il momento in cui un incensurato a volto scoperto grida “Questa è una rapina!”). Assaltarono un’agenzia dell’allora Cariplo al Lorenteggio. Lorenzo venne rinchiuso all’Ipm Beccaria e il resto è cronaca: un numero imprecisato di rapine in banca per comprarsi “champagne, Ferrari e serate al night”, 5 arresti, detenzioni nei penitenziari di tutt’Italia, 26 processi e altrettante condanne per un totale di 57 anni di reclusione, poi ridotti a 30 anni (in Italia è la pena massima se non scatta l’ergastolo ostativo). La svolta è al carcere Due Palazzi di Padova dove viene trasferito nel 2012, con gli incontri nella redazione di Ristretti Orizzonti formata da detenuti e educatori, dove Lorenzo matura le prime riflessioni critiche sul proprio passato. Ma l’incontro è anche quello con un avvocato e una stagista che si fidano del “nuovo Lorenzo” e si convincono che vale la pena fare istanza per ridurre la condanna ascrivendo le sue colpe a un unico reato (la rapina). A sorpresa il giudice accoglie l’istanza, decreta che la pena equa è di 13 anni, e lui ne ha già scontati 17, quattro in più; è un giorno incredibile. All’improvviso gli dicono che l’indomani può uscire. E lui pensa: “Sì, ma adesso io dove vado?”. Recita Pescio interpretando Lorenzo, insieme al coro della Nave di San Vittore: “Ho messo nei sacconi neri dell’immondizia le mie cose, ho salutato oltre le sbarre i compagni. Loro dal carcere non usciranno mai più, eppure... Eppure applaudivano mentre io andavo verso il cielo aperto e libero”. Il presente di Lorenzo è l’esatto rovescio di una vita criminale anche perché lavora nell’ambito della giustizia riparativa facendo del suo meglio, onestamente. Alla fine dello spettacolo il battito di mani è scrosciante. Grazie a un progetto che coinvolge anche la Fondazione Corriere della Sera, i detenuti avevano già letto in cella il libro che Mauro Pescio ha dedicato a questa storia (“Io ero il milanese”). E Lorenzo? Nessuno può sapere se forse, mescolato tra il pubblico, fosse lì a godersi quella voce, quel coro “greco” della Nave e quelle mani: mani tutte per lui, per fargli prolungati e commossi applausi. Milano. “Considero Valore”. La poesia può entrare anche in carcere di Nando dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 20 novembre 2023 Da sgranare gli occhi, da sciogliersi per la sorpresa. Che altro fare quando si scopre che una università all’avanguardia negli studi sulla criminalità lavora da anni sulla stessa poesia con cui si confrontano i detenuti di una casa circondariale? “C’è un disegno più grande”, commenta con commozione una delle loro assistenti. E in effetti sembra davvero così. All’università di Milano nei corsi di educazione alla legalità si discute ogni anno una poesia di Erri De Luca, “Considero valore”. Pubblicata nel 2002, brilla per la grandiosa semplicità e bellezza dei valori che propugna; la cui pratica renderebbe la nostra società del tutto impermeabile al crimine organizzato. Quali valori? “Risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe”, ad esempio; “un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si è risparmiato”, “il vino finché dura il pasto” o anche “due vecchi che si amano”. Perfino “sapere qual è il vento che sta asciugando il bucato” o “La pazienza del condannato, qualunque colpa sia”. E forse, chissà, proprio quest’ultimo valore ha generato negli ospiti della casa circondariale di Brindisi il bisogno di fare proprio lo stile, l’ispirazione della poesia. Tanto da riscriverla, rispettandone l’impianto ma inserendovi con leggerezza quel che più appare loro “valore” per la vita in corso e quella a cui attendono di tornare. Dice così, la loro poesia: “Considero valore la vita./ Considero valore colui che è capace di strapparmi un sorriso genuino, sobrio e spontaneo./ Considero valore il primo caffè del mattino./ Considero valore un sorriso e ogni piccolo gesto rivolto a me nella quotidianità./ Considero valore la mia terra e la domenica con i pranzi di famiglia./ Considero valore l’abbraccio di un figlio che sorride./ Considero valore tutto quello che è accaduto nella mia vita perché le esperienze mi hanno aiutato a capire e mi danno la forza di andare avanti./ Considero valore il Paradiso, ammesso ne esista uno./ Considero valore il ricordo di mia madre./ Considero valore il benessere di un amore./ Considero valore l’unicità di ogni persona che conosco./ Considero valore l’attesa./ Considero valore la libertà./ E considero valore tutti i valori che vorrei aggiungere e che ancora ho voglia di imparare”. Me l’hanno letta ad alta voce durante un incontro tenuto presso la Casa poche mattine fa, facendomi scoprire appunto che università e carcere discutono, nel tentativo di andare “oltre”, la stessa poesia. Ne sono rimasto incantato. E ho subito pensato che andasse portata all’esterno. Così come va portato all’esterno tutto il loro lavoro educativo e partecipativo, in cui li guidano assistenti sociali, professionisti e insegnanti appassionati. Divisi per gruppi e progetti. Ad esempio il laboratorio “Smanettarte”, che ha portato in aprile i detenuti a dare voce, uno alla volta, alle vittime innocenti delle mafie, a “rendere omaggio al ricordo della loro e della nostra umanità” mentre sul pulpito della cappella erano disposte simbolicamente otto tute bianche macchiate di vernice rossa. O al gruppo di scrittura che ha appena dato vita al numero zero di una rivista, “Buona! Il Mondo visto da dentro”. L’ho avuta tra le mani, l’opposto assoluto di quelle patinate, i fronteretro incollati uno sopra l’altro. Pagine contro bullismo e cyberbullsimo (“siamo tutti coinvolti”), critiche verso quei giudici che per giungere alla condanna modellano a loro arbitrio i fatti violando la nostra “gloriosa Costituzione”. Né manca l’ironia di ruolo della redazione. Come nell’oroscopo finale. Bilancia: “Per questo mese misurate a occhio, fate sparire i bilancini!”. O Pesci: “Si prevedono forti perturbazioni e pesca a strascico: attenti alle retate nel fine settimana”. Quando si parla di educazione alla legalità è davvero bene non dimenticare la complessità e creatività dei processi che la alimentano. E che la legalità non la insegnano solo gli adulti ai piccoli, ma certe volte nemmeno (oso dire) solo quelli che stanno fuori a quelli che stanno dentro. Padre Alex Zanotelli: “I poveri sono sempre di più, un errore abolire il Reddito” di Eleonora Camilli La Stampa, 20 novembre 2023 Il missionario comboniano: “Il governo non si occupa degli ultimi. Crescono i senzatetto per gli affitti troppo alti, è una vergogna”. “I poveri non hanno nessuno che parli per loro, la politica non se ne interessa. Eppure sono sempre di più, perché basta davvero poco per finire in miseria”. Missionario comboniano, a 85 anni padre Alex Zanotelli non smette di essere vicino ai più deboli. Passato dagli slums di Korogocho, in Kenya, al rione sanità di Napoli, vive aiutando i senza dimora della città, senza smettere di gridare contro le ingiustizie del mondo: “È incredibile che nessuno faccia nulla per aiutare chi soffre e non è accettabile, è una vergogna per tutti noi”. Padre Zanotelli, l’ultimo rapporto diffuso dalla Caritas fotografa un’Italia sempre più povera e diseguale, dove le persone in povertà assoluta sono in aumento, un fenomeno ormai strutturale... “Certo che è strutturale, al rione Sanità tutto questo che si tocca con mano ogni giorno. La gente comune è sempre più impoverita e senza via d’uscita. Ma questo è dovuto al sistema economico in cui viviamo, che è piramidale e prevede che chi è in cima abbia sempre di più per accrescere la sua ricchezza, mentre chi è in basso ha sempre meno. E va sempre peggio”. Papa Francesco parla di uno scandalo per la società... “È uno scandalo e un fallimento della società e della politica, dei governi tutti e di questo governo. Quello che mi meraviglia è che nessuno abbia voluto fare una patrimoniale per tassare i ricchi, eppure lo scopo del governo dovrebbe essere quello di redistribuire la ricchezza, perché ognuno abbia qualcosa, un posto dove stare, un pezzo di pane da mangiare”. Non vede nessuna azione di aiuto alle persone in situazione di indigenza? “No, non vedo nulla, anzi stiamo andando sempre più a picco. L’obiettivo di questo governo è proteggere quelli che stanno in alto, mentre i poveri non hanno nessuno che parli per loro. Lo trovo davvero incredibile, vedo troppe persone finire in strada facilmente. E non parlo degli stranieri, che pure ormai sono vessati da leggi oppressive che oltre a rendergli la vita impossibile ne fanno anche manodopera a basso prezzo. Parlo degli italiani. A Napoli ne assistiamo moltissimi, diventati senza dimora da un giorno a un altro”. Quali sono le cause che portano le persone in strada? “Io lavoro tanto con i senza fissa dimora. In questo momento ci stiamo preparando al periodo invernale, offriamo docce e lavanderie, ma anche assistenza medico legale a chi ha perso tutto. Solitamente, tra i cinquemila che assistiamo in strada, ci sono soprattutto uomini, le ragioni della loro povertà sono diversi, in molti dopo la separazione dalla moglie hanno perso la casa. Ormai basta davvero un nulla per ritrovarsi senza niente. Inoltre, c’è il problema della casa, gli affitti qui stanno crescendo in maniera paurosa. Al rione Sanità c’è ormai parecchio turismo, non si trova più una stanza, tutti i bassi napoletani finiscono per diventare bed and breakfast per turisti americani. Le persone normali sono espulse dalla città o costrette alla vita in strada”. I dati ci dicono anche che ormai in Italia c’è una povertà intergenerazionale o ereditaria, chi nasce povero difficilmente riesce a riscattarsi da una situazione di indigenza, se non dopo diverse generazioni. È un fenomeno che anche lei sta osservando? “Sì, chi nasce povero lo rimane. E Napoli per me è un osservatorio privilegiato di tutto questo: nelle zone che io frequento ci sono pochissime possibilità di riscatto. Continuo a dire che un antidoto può essere la scuola, eppure nelle periferie registriamo un tasso altissimo di abbandono scolastico. E quando un ragazzino lascia la scuola che fa? Più che andare a spacciare e diventare preda per la camorra non può fare, non ha altro modo di guadagnarsi il pane”. Bisognerebbe, dunque, investire di più nella scuola? “La scuola apre la mente e dà una reale opportunità, soprattutto a chi ha meno. Ma nella scuola non si investe. Qui al rione Sanità, l’istituto più importante, il Caracciolo fino a qualche anno fa aveva 600 studenti, poi è stato accorpato a un altro istituto, Isabella D’Este e oggi ne ha 60, sto lottando con tutte le mie forze per riportare i ragazzi a scuola. Ma se si sposta un istituto così importante da una zona che ne ha bisogno si genera solo una catastrofe educativa. Quella scuola funzionava bene, era un fiore all’occhiello, invece oggi registriamo tassi altissimi di bocciature e abbandono scolastico. Così non c’è alcuna speranza di futuro per le nuove generazioni, servono i servizi, serve la scuola”. Che altro bisognerebbe fare? “Ci vuole la politica, quella seria, che deve assumere il tema della povertà come sua priorità. L’errore che è stato fatto di eliminare il reddito di cittadinanza senza pensare ad alcuna reale alternativa sta ora dando i suoi frutti. Lo vediamo chiaramente, ci sono sempre più famiglie in sofferenza. Questo aiuta la diffusione anche di fenomeni come l’usura su cui guadagna, però, solo la camorra. È un dramma nel dramma, poi le famiglie non sanno più uscirne. C’è troppa gente che sta soffrendo, bisogna ripartire da un sostegno reale, dalla politica dal basso, ma in questo momento è difficile trovare qualcuno che se ne interessi. Non certo chi ci governa”. L’illusione del panopticon. L’ossessione per il controllo che ci rende vulnerabili di Gabriele Segre* Il Domani, 20 novembre 2023 L’informazione oggi è potere non solo nella guerra ma anche nella galassia della comunicazione, ma conoscere tutto non basta. Chi si imbatte nel termine panopticon lo trova solitamente associato al principio ispiratore di un preciso modello carcerario: edifici che consentono a un solo guardiano, al centro del perimetro, di mantenere una visione a 360° di tutte le celle. Col tempo, l’idea formulata nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy Bentham ha finito per assumere un significato quasi orwelliano: nel suo saggio Sorvegliare e punire del 1975, Michel Foucault vedeva nel panopticon il paradigma di potere proprio di una società ossessionata in modo crescente dall’onniscienza del controllo. In questa interpretazione l’idea di Bentham è più che mai attuale: l’occidente, ben consapevole dei prodigi di cui le proprie risorse tecnologiche lo rendono capace, ha ritenuto per decenni di poter mantenere una posizione di vantaggio, “tenendo d’occhio” l’intero pianeta. Lo racconta bene Frediano Finucci nel suo ultimo libro Operazione Satellite, proponendo un’originale cronistoria della guerra fredda “spiata” dall’orbita terrestre. I conflitti di oggi mostrano come la capacità di osservazione a tutto campo sia divenuta un elemento centrale nel determinarne l’esito: per capirne la portata, è sufficiente ricordare che Elon Musk è in grado di cambiare le sorti di una battaglia in Ucraina scegliendo di attivare o meno la sua rete Starlink. Il fallimento - Che le informazioni siano in grado di cambiare radicalmente i rapporti di forza oggi è un principio fondante non solo nell’intelligence, ma nell’intera galassia della comunicazione: persino le nostre frenetiche ricerche sulla rete sono accompagnate dall’inebriante aspettativa di una visione (e comprensione) integrale del presente. Se non che, nella società contemporanea, anche i detenuti si sono dotati di mezzi capaci di far credere al guardiano di stare dormendo nelle proprie celle, mentre, invece, scavano tunnel. La disinformazione esiste da sempre, ma se un tempo gli elaborati trucchi di Ian Fleming per depistare i nazisti richiedevano gli sforzi di un’intera nazione, oggi sono alla portata di chiunque sappia maneggiare l’intelligenza artificiale. E tutti possono esserne ingannati: l’utente medio di Facebook, i grandi network televisivi, finanche la Cia e il Mossad. La striscia di Gaza era, di fatto, una struttura equiparabile a quelle immaginate da Bentham: radar, sentinelle e telecamere garantivano che qualsiasi minaccia ne fosse scaturita sarebbe stata identificata e prontamente neutralizzata. Ma la storia è ricca di episodi in cui osservare, analizzare e persino lanciare allarmi è stato vano: da Pearl Harbour all’11 settembre, il panopticon ha fallito non perché incapace di offrire una visione completa, ma in quanto si è scelto di ignorare parte di ciò che esso rivelava. Il preconcetto del secondino - Satelliti, droni, algoritmi che setacciano il web… incontrano tutti un limite invalicabile attraverso la sola tecnologia: il “preconcetto del secondino”, vincolato da credenze soggettive così potenti e radicate da impedirgli di discernere i fatti dalle opinioni, le informazioni vere dalle false, anche di fronte all’evidenza. Se siamo convinti che l’attacco non arriverà mai, ogni dato acquisito non potrà che essere interpretato in funzione di questo nostro pre-giudizio, rendendo ogni possibile ripensamento poco plausibile. Fenomeni come l’odio verso un popolo o lo scetticismo verso la scienza dimostrano che vi sono convinzioni in grado di resistere al confronto con qualsiasi verità conclamata. Certezze appartenenti non solo a qualche esaltato o paranoico: di fronte alla prospettiva seducente di “controllare” il mondo, la tentazione di rinchiudere la realtà all’interno dei confini della nostra comprensione diventa irrefrenabile. Cosicché, a ben vedere, la “fake news” siamo noi! E se è quasi impossibile evitarlo, sarebbe già un successo prendere atto che le nostre idee aprioristiche finiscono per definire la nostra comprensione. Così, invece di provare a costruire un panopticon migliore, ci renderemmo forse conto che è impossibile conoscere il reale senza prima conoscere noi stessi. *Filosofo Migranti. In Albania centro anti-rivolta. Stanze blindate, struttura circolare e agenti divisi di Francesco Bechis Il Gazzettino, 20 novembre 2023 Pronto il progetto dei Vigili del Fuoco. Limitati all’osso i contatti con la polizia per scongiurare episodi di violenza. Al centro, gli spazi abitativi per i migranti detenuti. Intorno anche: un edificio a cerchi concentrici, composto di moduli attrezzati per ospitare centinaia di persone. Ai lati, invece, le strutture dedicate alle forze dell’ordine italiane: Carabinieri, militari, Polizia, personale di sicurezza. Il governo ha un piano pronto per costruire un maxi Centro di permanenza e di rimpatrio (Cpr) in Albania. La prima pietra del patto fra Giorgia Meloni ed Edi Rama che appalterà al Paese balcanico alleato una parte della gestione degli arrivi del Mediterraneo. Alla progettazione del centro - una struttura circolare, composta di moduli facili da assemblare e da rimuovere - hanno lavorato gli ingegneri dei Vigili del Fuoco. Le planimetrie sono pronte e danno da sole l’idea dell’edificio che dovrà servire a trattenere fino a diciotto mesi i migranti senza diritto di asilo arrivati sulle coste albanesi come conseguenza del “patto di Tirana”. Un edificio imponente, a forma di cerchio, composto di più strati. Disegnato e immaginato con un obiettivo preciso: limitare al minimo, lo stretto necessario, qualsiasi forma di contatto tra gli agenti in servizio nella struttura e i migranti ospitati. E dunque prevenire eventuali episodi di violenza all’interno del Cpr albanese, di cui dovrebbero occuparsi esclusivamente le forze dell’ordine e militari italiane. Il dossier è da settimane al Viminale, sulla scrivania del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. E questo perché, in un primo momento, il progetto dei Cpr “a cerchio” era stato scritto e architettato per i centri di raccolta dei migranti in Italia. I venti Cpr, uno per Regione, che il governo ha promesso di costruire la scorsa estate per tamponare l’emergenza sbarchi. Poi le cose sono andate diversamente. A fine settembre l’input della premier Meloni cambia la regia del piano: non più il Viminale, ma il ministero della Difesa e il Genio militare dovranno costruire in tempi record - tra i tre e i sei mesi secondo i pronostici del governo - i centri per il rimpatrio dei migranti illegali. Di qui la decisione, presa durante una riunione di Meloni con i vice e i ministri coinvolti la scorsa settimana, di rispolverare il piano dei Vigili del Fuoco per il Cpr albanese. Come annunciato sorgerà a Gjader, un’area dell’entroterra venti chilometri a Nord della capitale Tirana. Vi saranno ospitate, appunta il governo in una nota sul patto albanese, “persone in attesa di rimpatrio dopo l’accertamento dell’assenza dei requisiti per il soggiorno in Italia”. Esclusi minori, vulnerabili, donne in gravidanza. La struttura circolare studiata dai Vigili del Fuoco sarà composta di diversi moduli prefabbricati assemblati fra di loro. Stanze e spazi abitativi al loro interno saranno blindati e circondati da pareti in materiale resistente, così prevede il progetto del Viminale ed è facile che qui si concentrino le proteste sonore di opposizioni e ong contro la “carcerizzazione” dei Cpr da parte del governo. Dal ministero rimbalzano le accuse e spiegano che le importanti misure di sicurezza previste nella planimetria serviranno a sventare possibili agitazioni ed episodi di violenza dentro al centro in Albania. Per questo gli spazi dove risiederanno agenti e militari saranno separati e distanziati dall’area destinata ai migranti. Così si spiegano anche le strutture rialzate - delle torri di controllo - che permetteranno al personale italiano addetto alla sicurezza di monitorare la situazione all’interno. “Lo abbiamo visto nei Cpr italiani, il rischio di rivolte è concreto”, spiega un funzionario che sta seguendo il dossier. Nei Cpr, è il ragionamento, sono spesso ospitati migranti in attesa di espulsione con precedenti penali o risultati recidivi e violenti. Per questo i centri, e quello in Albania non fa eccezione, sorgono in aree isolate, perimetrate da forze di polizia (in questo caso, all’esterno, saranno gli agenti albanesi a garantire la sicurezza). E per lo stesso motivo il governo ha appena inasprito le pene, nel nuovo pacchetto di sicurezza, per chi fomenta o guida una rivolta all’interno dei Cpr. Sulla capienza massima del centro a Nord di Tirana dovrà intervenire un decreto attuativo ad hoc. Il protocollo si limita a piantare un paletto: sul territorio albanese, contemporaneamente, non potranno stanziare più di 3mila migranti portati dalle navi italiane. I costi invece sono noti: l’intera operazione, comprensiva del centro per le prime verifiche che sorgerà nel porto di Shengjin, costerà allo Stato italiano 16,5 milioni di euro l’anno, per cinque anni. Antisemitismo la storia infinita: alle origini del pregiudizio razziale contro gli ebrei di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 20 novembre 2023 Dalla Giudeofobia cristiana ai campi di sterminio nazionalsocialisti. Nei primi anni del XX Secolo gli ebrei erano destati in egual modo e per ragioni opposte dalla destra reazionaria e dalla sinistra socialista. I primi li accusavano di voler ordire un complotto comunista mondiale per disintegrare lo spirito delle nazioni, il cosiddetto giudeo-bolscevismo. I secondi li associavano al rapace capitalismo finanziario delle grandi banche d’affari, apolide e sfruttatore, nemico del movimento operaio. Su fronti diversi, entrambi attingevano al più trito complottismo e alla più superstiziosa mitologia anti-ebraica per portare acqua al proprio mulino politico. E questa cosa funzionava, sia tra le élites che nel risentimento “dal basso” delle classi popolari. La grande fortuna dell’ideologia antisemita è infatti la sua “porosità”, e cioè la capacità di adattarsi a intenzioni, classi sociali e contesti culturali differenti, tramandando nelle generazioni i vecchi pregiudizi e combinandoli in nuovi, feroci paradigmi. Ad uso e consumo di qualsiasi schieramento politico e religioso. È una vicenda senza fine che attraversa le epoche e le civiltà, una storia di spettri e di persecuzioni efferate nei confronti di un piccolo e antichissimo popolo a cui è stato attribuito ogni male fin dalla notte dei tempi, una specie di capro espiatorio permanente della Storia. Per lunghi secoli l’avversione nei confronti del popolo ebraico è stata una faccenda tutta cristiana, i “deicidi” del Sinedrio che mandano a morire in croce Gesù Cristo, meritandosi la dannazione perpetua sono immediatamente accostati ai “figli di Satana”. Nel Vangelo di Matteo il celebre apostolo li chiama “farisei ipocriti”e pronuncia una terribile maledizione, destinando gli ebrei a venire sommersi per sempre dal sangue di quel Dio redentore che avevano assassinato. Poco importa che la condanna a morte per Gesù fu decisa da Ponzio Pilato e dalla giustizia dell’impero e che il supplizio della croce fosse un’usanza tutta romana. Ancora più estremo un altro evangelista, Giovanni, che fa dire a Gesù: “Vi cacceranno dalle sinagoghe; anzi verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio”. Uccidere gli ebrei da quel momento non solo non è peccato ma è un atto meritevole, un omaggio al dio dei cristiani. Nel quarto secolo (editto di Tessalonica) il cristianesimo diventa la sola religione autorizzata; gli ebrei vengono esclusi dalla pubblica amministrazione, gli è fatto divieto di sposare donne cristiane, mentre per l’imperatore convertito Costantino la circoncisione è un atto immondo, un crimine da punire con la confisca dei beni. Risalgono a quel periodo i primi assalti ai templi ebraici da folle di fanatici cristiani sotto lo sguardo bonario delle autorità romane: “La sinagoga non è soltanto un bordello e un teatro, è anche un rifugio di briganti e una tana di bestie feroci, è un’abitazione di demoni”, sentenziava con inaudita violenza il patriarca di Costantinopoli San Giovanni Crisostomo all’inizio del quinto Secolo. La frattura tra i due monoteismi è ormai consumata, come la messa ai margini delle comunità ebraiche. L’ondata persecutoria li spinse nel ghetto in tutta Europa, il loro monoteismo intransigente, l’ermetismo delle pratiche, il nucleo irriducibile del loro credo erano ritenuti incompatibili con le esigenze del potere temporale della Chiesa e con la sua vocazione evangelica; l’unica salvezza era la conversione forzata, come nella Spagna della Santa inquisizione che perseguitò con tenacia i suoi marranos come venivano chiamati gli ebrei convertiti che in privato continuavano ad osservare il proprio culto. Paradossalmente, gli ebrei hanno goduto di una significativa tolleranza soltanto durante i califfati musulmani, i quali hanno sempre garantito libertà di culto alle loro minoranze religiose. La giudeofobia cristiana ha però continuato ad alimentare stereotipi e pregiudizi per tutto il Medioevo; nel XIV secolo il re di Francia Filippo il Bello li espelle dal territorio confiscando i loro crediti da usura e le loro proprietà che vengono messe all’asta. Non è una rappresaglia religiosa fino a pochi anni prima Filippo era in affari con diversi commercianti ebrei - ma un atto di opportunismo e avidità che però trae legittimità dal pregiudizio ideologico nei confronti di mercanti e di banchieri che lavorano per interessi “stranieri” o comunque contrapposti a quelli del popolo. Fu dopo la Rivoluzione francese, in piena era napoleonica (1806), che gli ebrei videro l’emancipazione con l’ottenimento della cittadinanza e la parità di diritti politici e sociali nonostante alcune ambiguità di Bonaparte che personalmente non nutriva grande simpatia per le religioni pur ritenendole un male necessario in quanto “impediscono ai poveri di uccidere tutti i ricchi”. Nell’Ottocento, con l’emergere del capitalismo moderno, del movimento socialista e soprattutto del nazionalismo assistiamo a un improvviso slittamento della giudeofobia classica a vantaggio di un’ideologia tutta nuova, che rimescola gli antichi pregiudizi in un inedito paradigma complottista, attingendo persino alla biologia razziale per decretare la loro inferiorità. Fu l’ideologo e pubblicista tedesco Wilhelm Marr a utilizzare per la prima volta il termine di antisemitismo nel raggelante opuscolo La strada verso la vittoria del Germanismo sul Giudaismo (1879) in cui rappresentava gli ebrei come “un pericolo per la razza germanica”, invocando la loro completa rimozione dal paese. Insondabili nel loro credo spirituale, inarrestabili nella loro capacità di creare reticoli complessi di ricchezza: la mitologia dell’ebreo infido dalle mani nodose e il naso arcuato che si arricchisce con i suoi commerci obliqui ai danni della comunità si impasta con l’odio dei cristiani, cattolici e riformati e con la ferocia delle borghesie reazionarie e nazionaliste, ma contagia anche le menti più stimabili e illuminate. Fanno impressione, ad esempio, le considerazioni abiette di Voltaire (padre delle Lumières e del moderno concetto di tolleranza) nelle forme e nei contenuti espressi nel celebre Dictionaire Philosophique: “In loro vedrete soltanto un popolo ignorante e barbaro che unisce da sempre l’avarizia più sordida alla superstizione più detestabile”, un popolo “rampante nell’infelicità e insolente nella prosperità” (Essai sur le Moeurs). Anche quando si tratta di gettare fango contro i musulmani, Voltaire si accanisce sui loro fratelli maggiori: “Proprio come gli ebrei sono posseduti dalla brama di conquista, senza generosità, senza clemenza, senza ospitalità”. E così le persecuzioni subite sono nient’altro che la conseguenza di questa “natura” deviata che influenza il loro infausto destino: “Se gli ebrei volevano conquistare il mondo e sono diventati degli asserviti la colpa è soltanto la loro”. Anche i socialisti utopisti come Pierre-Joseph Proudhon e Charles Fourier ci lasciano pagine degne di un propagandista del Terzo Reich. Guardate cosa scrive nei Carnets il gentile sognatore Proudhon, sentimentale filosofo “della miseria”: “Bisogna opporsi a questa razza che avvelena tutto e si infiltra ovunque senza mai fondersi con nessun popolo; bisogna abolire le sinagoghe e impedire loro di lavorare, fino a vietare del tutto il loro culto. Non è per nulla che i cristiani li chiamano deicidi: gli ebrei sono i nemici del genere umano, la loro razza deve essere mandata in Asia o al limite sterminata”. Meno estremo ma ugualmente livido è Fourier, inventore del “falansterio”: “La nazione ebraica non è civilizzata, è patriarcale, non ha sovrano e crede lodevole ogni furberia, si dedica esclusivamente ai traffici, all’usura e alle depravazioni mercantili. Ogni governo dovrebbe costringere gli ebrei al lavoro produttivo e accettarli solo in minima percentuale” (Oeuvres complètes). Nel XIXesimo secolo, con l’esplosione del capitalismo industriale, si modellano i tratti dell’antisemitismo contemporaneo che scioglie le antiche credenze misogiudaiche del cristianesimo nell’immagine cospirazionista dell’ebreo burattinaio che, mosso dalla cupidigia, muove le fila dell’economia mondiale, lo stesso figuro che, per dirla con lo storico Jules Michelet “ha un’unica patria: la borsa di Londra. E un’unica radice: la terra dell’oro”.(Le peuple). Il caso Dreyfus, l’ufficiale ebreo francese accusato di alto tradimento, oltre a costituire uno degli errori giudiziari più celebri della Storia, è in tal senso il prodromo di quanto accadrà qualche decennio dopo nella Germania del Terzo Reich, che giunge all’idea folle del genocidio per eliminare alla radice il “problema ebraico”. È in questo grumo ideologico che nasce il vero “romanzo di formazione” di ogni antisemita, i Protocolli dei savi di sion, un falso fabbricato nel 1903 dall’Okhrana, la polizia segreta dello Zar, che in pochi anni diventa un best-seller in tutta Europa e persino negli Stati Uniti, dove viene pubblicato su The Dearborn Independent, il giornale del magnate dell’auto Henry Ford, un antisemita viscerale. I Protocolli sarebbero dei verbali immaginari in cui i leader dell’ebraismo descrivono i loro “piani segreti” per conquistare e dominare il mondo, e giocheranno un ruolo di rilievo nell’arsenale della propaganda na- zista tanto che dal 1933, anno dell’ascesa di Adolf Hitler, entrano a far parte dei programmi scolastici tedeschi. Tutto culmina nell’incomparabile tragedia della Shoah, nell’industria del genocidio nazionalsocialista, un’apocalittica “messa in opera” dell’odio razziale accumulato nei secoli che trova la sua soluzione finale nei campi di concentramento e sterminio di Auschwitz-Birkenau, Treblinka, Sobibor, Chelmo, Dachau, Buchenwald. I sopravvissuti all’Olocausto pensavano che quel tributo inumano potesse bastare, che la nostra civiltà avesse destinato all’oblio eterno giudeofobia e antisemitismo. Era solo un sogno però, come ci mostra la storia recente, con le sue sovrapposizioni continue e abusive tra gli ebrei e i governi di Israele, con l’odio verso gli Yahoud che ormai dilaga nel mondo musulmano e quell’avversione piena di pregiudizi e stereotipi razziali che ancora oggi trova cittadinanza nel mondo occidentale e democratico. Donatella Di Cesare: “Boicottaggi e negazionismi, vi dico che l’odio anti-ebraico non è mai davvero finito” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 20 novembre 2023 La guerra in Medio Oriente sta avendo dirette ripercussioni anche in Europa. I fenomeni di antisemitismo sono la preoccupante spia di una società che si è incattivita ulteriormente con il confitto nella Striscia di Gaza. Proprio dall’antisemitismo parte la filosofa Donatella Di Cesare per riflettere su quanto avviene a poca distanza da noi. Professoressa Di Cesare, con la guerra tra Israele e Hamas si sono verificati molti episodi di antisemitismo. C’è da preoccuparsi? Secondo me, sì. Ma dobbiamo partire, prima di tutto, da una premessa. Sul termine antisemitismo ci sarebbe molto da discutere, perché è un termine antiquato. Quando è stato coniato era già fuorviante. Ecco perché io preferisco parlare di odio antiebraico. Purtroppo, sappiamo bene che anche dopo la Shoah, dopo lo sterminio perpetrato durante il nazionalsocialismo, anche dopo il 1945, l’odio nei confronti degli ebrei non è mai venuto meno. Quando io parlo di odio non intendo nulla di personale, ma mi riferisco ad un odio che ha una sua base molteplice: religiosa, politica ed etica. Questo odio non si è mai arrestato e se andiamo a vedere, già negli anni Sessanta, in riferimento alla guerra del 1967, è riemerso. Evidentemente, oggi assistiamo ad una ondata di odio antiebraico in Europa e persino negli Stati Uniti. In questi giorni c’è stata un’iniziativa da parti di alcuni professori universitari che ha provocato non poche polemiche… Non mi aspettavo che l’ondata di odio assumesse certe dimensioni. Addirittura, si sostiene, mi riferisco all’appello che trovo ripugnante dei 4 mila accademici, che l’occupazione risale a 75 anni fa. Una iniziativa in cui si dà per ovvia la delegittimazione di Israele. Secondo alcuni, Israele è abusivo e sta dove non dovrebbe stare. Questo mi pare un punto fondamentale delle nostre riflessioni. Io l’ho scritto anche per la Treccani: l’antisionismo è una delle forme attuali dell’antisemitismo. Quelli che sostengono che l’antisionismo non ha nulla a che vedere con l’antisemitismo o sono in malafede o sbagliano. Stiamo assistendo anche ad una divisione tra gli intellettuali? Nell’accademia ci sono sempre delle contrapposizioni e sono benvenute. Rispetto all’appello dei 4 mila è stato realizzato un controappello contro il boicottaggio delle università israeliane. Questo documento, non appena è stato pubblicato, ha subito ottenuto moltissime adesioni da parte anche di accademici italiani. Il boicottaggio delle università israeliane è insensato. Si fa il contrario di quanto dovremmo assistere nelle università. Anziché vedere nella cultura un modo per creare ponti, qualcuno pensa di abbatterli. Qualcuno pensa di abbattere i ponti con le università israeliane, dove lavorano, studiano e pensano persone che sono molto critiche nei confronti di Natanyahu. Negli anni passati, dopo gli attentati di Parigi contro la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo, in tanti hanno espresso indignazione e hanno usato l’espressione “ Je suis Charlie”. Con gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, pochi hanno detto “Io sto con Israele”. Cosa ne pensa? Il 7 e l’8 ottobre scorsi non erano ancora chiare l’entità e le modalità degli attentati. Nel giro di alcuni giorni sono emerse le mostruosità che rievocavano il passato, lo sterminio. Inizialmente, c’è stata una reazione sentita da parte dell’opinione pubblica. Questa reazione, però, nel giro di poco tempo, si è molto affievolita, perché da una parte, purtroppo, Israele è stato fatto conoscere negli ultimi anni attraverso il volto del primo ministro Benjamin Netanyahu. Una presenza che non ha giovato a Israele. Dall’altra parte influisce la considerazione secondo cui Israele è uno Stato paria. Uno Stato non considerato come gli altri e che è perennemente sotto accusa. Nel momento in cui c’è stata una minima reazione, a quel punto si sono invertite le parti. Le vittime sono diventate di nuovo i carnefici. Questo gioco dell’inversione delle parti viene realizzato nei confronti degli ebrei già dal 1945. I nostri media, rispetto ai fatti del Medio Oriente, hanno creato, come già avvenuto in passato, delle tifoserie. È una trappola in cui cadiamo spesso? Purtroppo, sì. La trappola della tifoseria esiste. Spiace dirlo, ma manca quell’approfondimento, quella zona grigia, quel bianco-nero che permetterebbe di superare le tifoserie. Un approccio che consentirebbe di andare oltre l’emotività immediata e che consentirebbe di riflettere, analizzare e considerare con lucidità gli eventi. Questo, secondo me, è un grosso limite dell’informazione in Italia, che ci distingue dagli altri Paesi. Badiamo bene, però, le ragioni e i torti sono sempre distribuiti. L’esercito israeliano è entrato a Gaza. Come vede il futuro prossimo di quella parte del Medio Oriente? Potranno essere ricostruiti dei rapporti di convivenza tra palestinesi e israeliani? Si deve distinguere il piano militare-tattico dal piano politico-strategico. Il timore è che questo intervento militare, anche se non conosco alcuni particolari, come l’entità dei tunnel di Hamas, debba porre questioni politiche e strategiche nel futuro. La grande questione è quella della convivenza tra i due popoli; è come superare quelle barriere che l’odio e la guerra hanno innalzato con grande esasperazione. Però, su questo punto, io sono molto pessimista. Non credo che si possa sradicare Hamas militarmente. Si potrà depotenziare la sua forza militare, ma i motivi politici per cui Hamas ha avuto un ruolo e costituisce un punto di riferimento resteranno. Lo sradicamento è ben diverso e, a mio avviso, sarà un grande problema per il futuro. Come valuta la posizione italiana nel conflitto mediorientale? È simile a quella di altri Stati europei. È una posizione di chi si muove tra imbarazzo e difficile neutralità. Mi sarei inoltre aspettata, come credo come molti altri italiani, un ruolo più decisivo dell’Europa, il Medio Oriente è per noi il “Vicino Oriente”. Israele è vicinissimo, così come la Palestina, da tutti i punti di vista. Noi siamo coinvolti e toccati da quello che sta accadendo. È sconfortante invece constatare la passività dell’Europa, ma soprattutto la disgregazione. Assistiamo all’incapacità dei Paesi europei di coordinarsi e trovare una linea unica con un ruolo più dirompente. Altro che Unione Europea, dunque? Lo abbiamo già visto a proposito della guerra in Ucraina. In questi ultimi due anni stiamo assistendo impotenti ad una sorta di disgregazione dell’Europa e non sappiamo se è un processo irreversibile. Yocheved Lifshitz, quel “folle” gesto di pace e il sogno tradito di un’armonia tra arabi e ebrei di Francesca Spasiano Il Dubbio, 20 novembre 2023 L’85enne liberata da Hamas che stringe la mano al suo carceriere è tra gli attivisti che ancora sperano in una società condivisa. Le immagini della guerra che ogni giorno entrano nei nostri salotti ci sconvolgono e ci indignano. Qualche volta ci lasciano indifferenti, assuefatti di fronte all’ennesimo orrore che scorre via rapido tra i titoli del tg. Ma quasi mai succede che un’immagine ci restituisca fiducia e speranza, come invece è successo quando abbiamo visto un’anziana signora afferrare la mano del suo carceriere. La foto ha fatto rapidamente il giro del mondo: ritrae Yocheved Lifshitz, 85 anni, uno dei due ostaggi di Hamas che ha lasciato la Striscia di Gaza nella notte del 24 ottobre. Suo marito Oded, 83 anni, è ancora in quella ragnatela di cunicoli dove il movimento islamista trattiene gli oltre 200 civili israeliani rapiti durante il massacro del 7 ottobre. Yocheved Lifshitz lo racconterà di lì a breve da un ospedale di Tel Aviv, quell’inferno al quale temeva di non sopravvivere. Ma dopo due settimane passate negli abissi di Gaza, l’orrore della guerra non ha ancora spazzato via il desiderio di pace. E allora Yocheved si volta un’ultima volta verso l’uomo che l’ha appena consegnata nelle mani della Croce rossa internazionale e gli dice: “Shalom”. Benda verde in testa e fucile in spalla, lui accetta volentieri la stretta. È sorpreso oppure un po’ compiaciuto? Non possiamo saperlo: è impossibile indovinare l’espressione di quel miliziano col volto interamente coperto. Ma sappiamo che una donna, reduce da una delle esperienze più traumatiche che si possano immaginare, è riuscita con un semplice gesto a tenerci incollati davanti allo schermo per incassare la lezione che aveva da darci. Un messaggio di pace che Yocheved Lifshitz coltivava insieme a suo marito da sempre - lui giornalista, lei appassionata di fotografia -, come attivisti per i diritti umani impegnati in quel territorio nel sud di Israele colpito così duramente da Hamas. La mattina del 7 ottobre si trovavano nella loro casa nel Kibbutz Nir Oz, uno dei luoghi presi d’assalto dai miliziani. Che hanno “fatto saltare in aria la recinzione elettronica, quella recinzione speciale la cui costruzione è costata 2,5 miliardi di dollari ma non è servita a nulla”, spiega la donna. “Hanno assalito le nostre case, picchiato la gente, preso ostaggi, non facevano distinzione tra giovani e anziani”, racconta ancora Yocheved ai giornalisti riuniti davanti all’ospedale Ichilov di Tel Aviv. È su una sedia a rotelle, visibilmente provata per quell’incubo che ora rivive attraverso i ricordi, ma le sue parole tradotte in inglese dalla figlia accorsa in fretta e furia dalla Gran Bretagna lasciano sbigottiti l’intera platea. Chi si aspettava rabbia e vendetta ha fatto male i suoi conti. “Ho attraversato un inferno al quale non pensavo che sarei sopravvissuta. Non pensavo che saremmo arrivati fin qui”, dice Yocheved. È stata caricata su una motocicletta e colpita con dei bastoni di legno durante il trasferimento verso la Striscia. Le costole le fanno così male che non riesce a respirare. Ma la “mostrificazione del nemico” che un po’ tutti erano pronti ad accogliere, non è mai arrivata. “Abbiamo camminato sottoterra per chilometri, per due o tre ore, in una ragnatela di tunnel, fino a raggiungere una grande sala, dove eravamo un gruppo di 25 persone e ci hanno separato in base al kibbutz di provenienza. Ci hanno detto che credono nel Corano, che non ci avrebbero fatto del male e che avremmo vissuto come loro nei tunnel. Poi un medico è arrivato e ci ha visitato a giorni alterni”. E ancora: “Eravamo sdraiati su materassi, si assicuravano che tutto fosse igienico, che non ci ammalassimo. Si assicuravano che mangiassimo, lo stesso cibo che mangiavano loro: pita con formaggio bianco e cetrioli. Ci hanno trattato con gentilezza e si sono presi cura di noi”. Insomma, dice Yocheved, ci hanno trattato bene. Ma un fatto è certo: quelle immagini le torneranno in mente per sempre. Insieme al dolore per la comunità israeliana che viveva intorno alla Striscia e che è stata “abbandonata” a se stessa: “Tre settimane fa, masse di gente sono arrivate alla recinzione” al confine ma “le forze armate non hanno preso la cosa sul serio. Siamo stati lasciati a noi stessi. Eravamo il capro espiatorio”, accusa la donna. La cui testimonianza non è passata inosservata: nei giorni a seguire le parole e quel gesto riservato a chi l’aveva rapita hanno sollevato più di un interrogativo tra gli israeliani. La figlia di Yocheved spiega alla stampa che quel miliziano a cui sua madre ha stretto la mano era un paramedico che si era preso cura di lei. Ma “come si può attribuire gentilezza a un gruppo che ha appena brutalmente spazzato via gran parte del kibbutz, Nir Oz, che era la sua casa? Potrebbe essere la sindrome di Stoccolma da manuale? O forse ha sentito il bisogno di parlare bene dei suoi rapitori, dato che stanno ancora trattenendo suo marito?”, si chiede Linda Dayan su Haaretz. “Lifshitz non sta dimostrando che Hamas sia umano - scrive la giornalista -, sta dimostrando di esserlo lei”. Ma la storia di Yocheved racconta qualcosa di più. È la storia di una donna che da anni aiuta i palestinesi di Gaza feriti e malati a lasciare la Striscia per essere curati negli ospedali israeliani. Li accompagnava lei stessa come faceva anche Vivian Silver, l’attivista italo-canadese di 74 anni dispersa dal 7 ottobre. La sua famiglia teme che sia finita tra gli ostaggi di Hamas, rapita dal Kibbutz Bèeri dove viveva dagli anni 90. Lì al confine, tra le comunità di attivisti che hanno deciso di dedicare la propria vita alla costruzione di una società condivisa tra ebrei e arabi. Lì dove quel sogno ora sembra essersi spezzato per sempre. Estirpare le radici dell’odio: con Hamas non c’è futuro di Maurizio Delli Santi Il Domani, 20 novembre 2023 La popolazione di Gaza è soggiogata da un movimento oscurantista che rivendica una storia di violenza. Le comunità occidentali devono convincere i palestinesi a liberarsi del tutto da questa ideologia. Le uccisioni disumane con la cattura degli ostaggi di Hamas come anche la catastrofe umanitaria che si sta riversando su Gaza per la reazione israeliana vanno lette entrambe senza giustificazionismi e imputando a ciascuno le diverse responsabilità. Su quelle di Israele c’è poco da aggiungere, visto che le rivolte delle piazze arabe e occidentali hanno rilanciato le accuse contro lo stato ebraico richiamando le sue politiche discriminatorie nei territori occupati, l’islamofobia alimentata dagli ultimi governi ultranazionalisti, e persino riproponendo pulsioni antisemite e un antioccidentalismo che sembra assecondare le retoriche di Putin e dell’Ayatollah Khamenei. Per questo va dato valore al ruolo che Stati Uniti e Unione europea stanno svolgendo nell’intento di moderare l’azione di forza di Israele, che per quanto legittimata dal diritto di difesa non può certo superare i limiti che il diritto internazionale umanitario pone per la tutela della popolazione civile. E ciò anche quando i terroristi si fanno scudo di ospedali, ambulanze e degli stessi civili tenuti in ostaggio. Alle origini delle responsabilità di Hamas Sul fronte delle responsabilità di Hamas occorre però una riflessione più compiuta che inquadri i tragici fatti del 7 ottobre non solo in una svolta repentina per rilanciare la questione palestinese. Si tratta di ripercorrere le origini della scelta storicamente strutturata del terrorismo, un percorso che necessariamente riconduce alle matrici originarie dell’Islam radicale, fondamentalista e integralista. La Fratellanza Musulmana - La continuità di questi elementi storici nelle azioni attuali di Hamas non può considerarsi frutto di una ricostruzione forzata sull’onda emotiva delle ultime tragiche stragi, perché essa si rinviene a tutto campo nel suo statuto costitutivo, un documento connotato da ampi riferimenti al movimento originario della Fratellanza Musulmana, massima espressione dell’Islam radicale. Hamas è l’acronimo di ?araka al-muq?wama al-isl?miyya, il “Movimento della resistenza islamica” fondato nel 1987 da Ahmed Yassin che presentò un’organizzazione politico-religiosa. Il primo statuto è datato 18 agosto 1988 e anche se risulta modificato nel 2017, molti tratti essenziali sono confermati nella impostazione integralista originaria che alla luce delle violenze compiute il 7 ottobre è bene ripercorrere. All’articolo 2 dello statuto del 1988 Hamas si propone come la diramazione palestinese dei Fratelli Musulmani, il movimento fondato in Egitto nel 1928 da Hassan al Banna che ha rappresentato il più forte presidio del rinnovamento teologico e filosofico del mondo arabo che mirava a riscattarsi dalla caduta dell’impero ottomano e introduceva la “retrotopia” del Califfato delle origini per emanciparsi dal colonialismo e dall’imperialismo occidentale. Da qui l’interpretazione religiosa e politica della storia contemporanea della Fratellanza Musulmana di cui si appropria lo statuto originario all’articolo 22, che è bene rileggere nei suoi passaggi finali: “A proposito delle guerre locali e mondiali, ormai tutti sanno che i nostri nemici hanno organizzato la Prima guerra mondiale per distruggere il Califfato islamico. Il nemico ne ha approfittato finanziariamente e ha preso il controllo di molte fonti di ricchezza; ha ottenuto la Dichiarazione Balfour e ha fondato la Società delle Nazioni come strumento per dominare il mondo. Gli stessi nemici hanno organizzato la Seconda guerra mondiale, nella quale sono diventati favolosamente ricchi grazie al commercio delle armi e del materiale bellico, e si sono preparati a fondare il loro Stato. Hanno ordinato che fosse formata l’Organizzazione delle Nazioni unite, con il Consiglio di sicurezza all’interno di tale Organizzazione, per mezzo della quale dominano il mondo. Nessuna guerra è mai scoppiata senza che si trovassero le loro impronte digitali. “Ogni volta che accendono un fuoco di guerra, Allah lo spegne. Gareggiano nel seminare il disordine sulla Terra, ma Allah non ama i corruttori” (Corano 5, 64)”. Il destino della Palestina - Quanto al futuro della Palestina e ai rapporti con Israele, conseguentemente, la linea dello statuto è netta. Nell’introduzione dello statuto originario è richiamata una citazione di al Banna: “Israele esisterà e rimarrà esistente fino a quando l’Islam non lo annullerà come ha annullato ciò che era prima di esso”. La frase è stata perciò letta come l’enunciazione chiara di una “soluzione finale” che preveda in ogni caso l’annientamento di Israele. Lo statuto del 1988 chiariva il disegno generale. Emblematico è l’articolo 7: “Il Profeta - le preghiere e la pace di Allah siano con Lui - dichiarò: “L’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l’albero diranno: O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me, vieni e uccidilo; ma l’albero di Gharqad non lo dirà, perché è l’albero degli ebrei” (citato da al-Bukhari e da Muslim)”. Ma nella lettura di tutto il documento del 1988 l’excursus dell’antisemitismo è in crescendo. All’articolo 32 si legge: “... lo schema sionista non ha limiti, e dopo la Palestina cercherà di espandersi dal Nilo all’Eufrate. Quando avrà digerito la regione di cui si è cibato, guarderà avanti verso un’ulteriore espansione, e così via. Questo è il piano delineato nei Protocolli degli Anziani di Sion, e il comportamento presente del sionismo costituisce la migliore testimonianza di quanto era stato affermato in quel documento”. Dubbi sullo statuto del 2017 - Lo statuto del 2017 ha modificato queste posizioni integraliste tra cui l’espresso richiamo alla Fratellanza Musulmana, e tuttavia la scelta è stata vista come una convenienza “tattica” volta ad avvicinare soprattutto l’Egitto che ha bandito gli ultimi seguaci del movimento fondamentalista delle origini. Varie interpretazioni hanno comunque intravisto un’evoluzione moderata di Hamas, riscontrata anche in esternazioni manifestate da alcuni suoi componenti. In particolare si è osservato che allo stesso articolo 20 dello statuto del 2017 si indica: “Hamas considera la creazione di uno stato palestinese pienamente sovrano e indipendente, con Gerusalemme come capitale sulla falsariga del 4 giugno 1967 (nota: cioè prima della guerra dei Sei giorni), con il ritorno dei rifugiati e degli sfollati alle loro case da cui sono stati espulsi, come una formula di consenso nazionale”. Per alcuni interpreti questa posizione aprirebbe alla formula dei due Stati, ma per lo storico Claudio Vercelli la “considerazione” di uno Stato palestinese delimitato sarebbe solo “una tappa intermedia nel cammino verso la “liberazione” di tutto il territorio, non riconoscendo dunque a Israele il diritto all’esistenza”. Insomma non ci sarebbero concrete aperture da parte di Hamas per la formula “Due popoli, due stati”. Quanto ad altre posizioni “quietiste” che taluni osservatori avrebbero intravisto nel dibattito interno di Hamas rimane il forte dubbio che non siano riuscite a prevalere, come purtroppo dimostrano i fatti del 7 ottobre. D’altro canto già la dichiarazione di accompagnamento con cui Hamas aveva presentato il nuovo documento del 2017 aveva dettato la linea: da un lato si rassicura che “Hamas non conduce una lotta contro gli ebrei perché sono ebrei”, ma subito si precisa che “conduce una lotta contro i sionisti che occupano la Palestina… sono i sionisti che identificano costantemente l’ebraismo e gli ebrei con il loro progetto coloniale e la loro entità illegale”. E ancora alla presentazione dello statuto Ismail Haniyeh, dall’ufficio politico di Hamas, aveva precisato: “Il nuovo documento non minerà né i nostri principi né la nostra strategia”. Contro il disordine globale - Una riflessione conclusiva dunque non può essere ancora una volta che l’amarezza di constatare che la popolazione palestinese è stata soggiogata per troppo tempo da un movimento oscurantista. Le comunità occidentali in questi giorni stanno manifestando la loro solidarietà ai palestinesi di cui hanno giustamente compreso l’immane sofferenza per i combattimenti cui sono esposti e hanno chiesto ai loro leader di assumere un ruolo responsabile per moderare la reazione di Israele, anche al costo di appellarsi alla Corte penale internazionale. Occorrerà però che la stessa popolazione palestinese faccia al più presto una scelta di campo: se vuole perseguire davvero un futuro di dignità per la Palestina dovrà liberarsi dei terroristi di Hamas. Spetterà soprattutto alle comunità occidentali convincere i palestinesi che ora è il momento di affidarsi alla diplomazia e al diritto internazionale. Ma occorrerà farlo anche con Israele, che da un lato non andrà assecondato nelle derive ultranazionaliste e antidemocratiche e dall’altro non può essere lasciato solo di fronte al disegno perseguito da tanti altri attori del disordine globale.