Un suicidio ogni cinque giorni di Angela Stella L’Unità, 1 novembre 2023 I reclusi di Rebibbia a Nordio, Schillaci e all’Ordine dei medici: “Non abbiamo perso il diritto alla salute”. Il Garante uscente Palma lancia l’allarme sulle morti in cella. D’Ettore pronto a succedergli: manca solo la firma del Colle. Dopo il Senato, via libera anche dalla commissione Giustizia alla Camera alle proposte di nomina del Governo per il collegio del Garante nazionale dei detenuti. In particolare è arrivato l’ok alla nomina a presidente di Felice Maurizio D’Ettore e di Irma Conti e Mario Serio come componenti del collegio. In particolare sulla nomina di D’Ettore sono arrivati 20 voti favorevoli e 5 contrari, su quella relativa a Conti 20 voti favorevoli e 5 contrari, mentir sulla nomina di Serio 19 voti favorevoli e 6 contrari. Secondo quanto si apprende, si sono espressi per l’ok alle proposte i gruppi di maggioranza e il Movimento 5 stelle, visto l’accordo raggiunto con la maggioranza sulla loro proposta del nome di Serio. “Abbiamo votato contro il parere sulla nomina del nuovo Garante dei detenuti: nessuna preclusione personale, ma ci è stato impedito di poter audire i soggetti in commissione, anche per la massima trasparenza. Questa blindatura da parte della maggioranza è stata incomprensibile. Auguriamo comunque un buon lavoro, per un ruolo così importante e delicato”: così Devis Dori, capogruppo di Alleanza Verdi Sinistra in commissione Giustizia alla Camera. Ora si dovrà attendere la firma del Quirinale per l’ufficializzazione della nomina. Tuttavia il Garante ancora in carica, ossia Mauro Palma, è tornato a denunciare “la drammatica linea di tendenza che non permette cadute di attenzione”, ossia un suicidio in carcere ogni 5 giorni. L’ultimo episodio in ordine di tempo riguarda un ragazzo di 28 anni: sarebbe uscito tra sei mesi, il prossimo aprile, ma si è tolto la vita due giorni fa nella Casa circondariale di Caltanissetta, dove era detenuto dal luglio del 2021, poco più di due anni fa. Con la sua morte salgono a 54 le persone detenute che si sono tolte la vita dall’inizio del 2023. Per il Collegio del Garante “è una linea di tendenza che si è manifestata costante, nei numeri, negli ultimi cinque anni: a esclusione del 2022 con il picco tragico di 85, i dati dal 2018 indicano una costante di suicidi in carcere intorno ai 60. Una costante che, considerato il numero odierno, alla fine di ottobre, rischia pericolosamente di essere di nuovo superata. A questo conto, in cui ogni caso ha un nome e m vissuto di drammaticità e di fragilità rimasto sostanzialmente inascoltato, devono aggiungersi i ‘morti per causa da accertare’, giacché spesso gli accertamenti riconoscono nel suicidio la causa della morte: sono 21 dall’inizio dell’anno”. Intanto la redazione di “Non Tutti Sanno”, notiziario dei detenuti della Casa di reclusione di Rebibbia a Roma, diretto dal giornalista Roberto Monteforte ha rivolto un appello, tra gli altri, all’Ordine nazionale dei Medici, a quello regionale del Lazio, al ministro della salute prof Orazio Schillaci, al ministro della Giustizia on. Carlo Nordio, al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dott. Giovanni Russo, al garante nazionale e a quelli locali per denunciare la crisi della sanità pubblica per i ristretti. “Siamo cittadini che hanno sbagliato e che per questo stanno scontando la loro condanna in una casa di reclusione, ma non per questo abbiamo perso il diritto alla salute e alla dignità di persona”, si legge nella lunga lettera che prosegue: “Sappiamo delle gravi difficoltà del Sistema Sanitario Nazionale per la mancanza di risorse e di mezzi, ma per noi non ci sono alternative alla sanità pubblica”. Tuttavia “Capita che il medico di base o lo specialista che va in pensione non venga sostituito e che i bandi indetti dalle Asl vadano deserti, oppure che si debba aspettare molto tempo prima che arrivi la nuova nomina e questo significa ulteriori forti disagi per noi “ristretti” che già subiamo gli effetti nefasti del sovraffollamento. Poi non sempre chi si aggiudica l’incarico decide di restare a lungo in un penitenziario. Infatti c’è chi lascia per le responsabilità, i disagi, le difficoltà che considera eccessive a fronte degli scarsi riconoscimenti economici e di carriera”. I detenuti, quasi ricordando che le parole del professor Giovanni Fiandaca per cui il “carcere è spesso più un veleno che una medicina” sottolineano: “di carcere ci si ammala. Uno studio recente attesta che una percentuale compresa tra il 60 e 1’80% della popolazione detenuta è affetta da almeno una patologia. Voi lo sapete bene, meno l’opinione pubblica. C’è il disagio psicologico legato alla carcerazione che riguarda la stragrande maggioranza dei reclusi e che oltretutto abbassa le difese immunitarie, quando non sfocia in più gravi problemi di carattere psichiatrico. Ci sono la scarsa attività fisica e la cattiva alimentazione che favoriscono la comparsa di disturbi gastrointestinali e malattie metaboliche come il diabete, ci sono la promiscuità e la cattiva igiene che aumentano il rischio di malattie contagiose come l’epatite virale, l’infezione da HIV, le malattie trasmesse sessualmente, la tubercolosi, la scabbia e i pidocchi. Ma sono frequenti anche i problemi cardiovascolari, con ictus e infarti, o alle vie respiratorie. Senza trascurare i problemi alla vista, otorinolaringoiatrici o alla masticazione”. Per poi non parlare “delle due principali cause delle patologie nelle nostre carceri: la dipendenza dalle sostanze e il disagio psichico e psichiatrico che andrebbero curati fuori e non dietro le sbarre”. Da qui la richiesta finale: “Venite in carcere, curateci, fate in modo che i giovani medici vi affianchino a fare tirocinio. Che esperienza straordinaria farebbero affermando sul campo il diritto alla cura e che occasione avrebbero per superare paure e pregiudizi e scoprire quanta umanità c’è dietro le sbarre”. Rita Bernardini: “I nuovi Garanti dei detenuti non sono mai stati in un carcere” di Liana Milella La Repubblica, 1 novembre 2023 La presidente di Nessuno tocchi Caino racconta come via Arenula l’ha messa da parte: “Nordio mi voleva ma ha prevalso la lottizzazione”. Cita i già 56 suicidi in cella dall’inizio dell’anno e pensa a un nuovo sciopero della fame nel nome di Pannella. I nuovi Garanti dei detenuti? “Dovranno fare una bella gavetta per capire dove si trovano e che dovranno fare”. Nordio la voleva Garante? “Nordio sì, ma ha prevalso una logica di stretta appartenenza”. La situazione delle carceri? “Oggi scoppiano e siamo già a 56 suicidi nel 2023”. Parla con Repubblica Rita Bernardini, la presidente di Nessuno tocchi Caino per anni accanto a Marco Pannella in difesa dei detenuti, che contro l’immobilismo sulle patrie galere già pensa a un nuovo sciopero della fame. A febbraio l’aveva chiamata il Guardasigilli Carlo Nordio per diventare Garante dei detenuti, come lei stessa racconta, ma poi è stata messa da parte senza un perché, nella logica della lottizzazione di maggioranza. La commissione Giustizia della Camera ieri ha dato il via libera al team che guiderà l’ufficio del Garante dei detenuti, al vertice il meloniano Felice Maurizio D’Ettore, i consiglieri Irma Conti in quota Lega e Mario Serio per M5S. La sua impressione? “Non mi sorprende perché ormai mi ero rassegnata e avevo capito che avevano preso un’altra strada rispetto alle mosse iniziali che mi vedevano coinvolta”. Un Garante lottizzato… come giudica i tre prescelti? “Dalle notizie che leggo sui giornali, perché non mi risulta che siano stati pubblicati dei curricula, non mi pare che si tratti di persone massimamente esperte sia di carceri che dei luoghi in cui sono ristrette le persone, dai Centri per i rimpatri alle Rsa per gli anziani, su cui ha competenza l’ufficio del Garante. E non mi risulta neppure che nella loro carriera abbiano prestato attenzione a questi temi, né che conoscano la situazione. Per cui volendo augurare a tutti e tre buon lavoro penso che dovranno fare una bella gavetta per capire dove si trovano e che dovranno fare”. Non le pare singolare che le due commissioni Giustizia della Camera e del Senato non abbiano neppure voluto sentirli, c’è chi dice che non volevano metterli in imbarazzo… “Sinceramente non so se per il Garante Mauro Palma ci furono audizioni, ma per le candidature in ballo sarebbe stato interessante ascoltarli. Anche per esprimere un voto consapevole, magari chi oggi ha votato contro avrebbe potuto votare sì, oppure qualcuno della maggioranza avrebbe potuto avere dei dubbi e dire che non era il caso di nominarli”. Ma è vero che Nordio voleva lei come Garante? “Con Nordio io non mi sono mai incontrata da quando è diventato ministro. Ma so che lui ha fatto il mio nome perché a febbraio mi hanno chiamata da via Arenula perché il giorno dopo avrei dovuto parlare con il capo di gabinetto Alberto Rizzo proprio per la nomina del Garante. Ero a Palermo, non c’erano voli e ho viaggiato tutta la notte in treno, e la mattina sono andata al ministero. Ho incontrato Rizzo che mi ha fatto una serie di domande. Ricordo in particolare che mi chiese ‘perché vorrebbe fare il Garante dei detenuti?’. Gli risposi che già lo faccio da decenni e quindi avrei finalmente avuto una veste istituzionale. E perché Marco Pannella voleva proprio questo per me, tant’è che fece la battaglia per farmi diventare almeno Garante in Abruzzo, e addirittura, poco prima di morire, fece un appello al Consiglio regionale di quella regione”. E lì cosa accadde? “Il Pd gestì male la questione, ma ci fu anche un’opposizione durissima dei 5S che mi rimproveravano la mia condanna per le disobbedienze civili del 1997 fatte con Pannella per la legalizzazione delle sostanze stupefacenti”. Quella era una battaglia politica, cosa c’entra con il ruolo di Garante? “Tanto più che come Pannella io avevo fatto di tutto per farmi arrestare”. Dopo quel colloquio con Rizzo cos’è successo? “Il 16 maggio mi è arrivata una mail che proveniva dal gabinetto del ministro con la designazione di Nordio per me come consigliere del Garante. E mi chiedevano dei documenti per mandare avanti la richiesta. Due giorni dopo però ecco un’altra mail in cui mi si dice che la richiesta è annullata. La mail aveva come destinatario in copia Giusi Bartolozzi”. Già, la ben nota “Zarina”, la potentissima vice capo di gabinetto di Nordio. Quindi la sua candidatura per il Garante si è chiusa lì? “Sì, rispetto all’audizione di febbraio ho capito che la partita era chiusa”. E secondo lei chi si era messo di traverso? “Ci sono due ipotesi possibili. C’è chi mi ha detto che il no alla mia nomina veniva dal Quirinale, cosa per me inspiegabile visto che proprio da Sergio Mattarella ho ricevuto una telefonata mentre ero in sciopero della fame per le carceri. Altri sostengono che l’opposizione arrivava dalla maggioranza che voleva per quell’ufficio un nome di stretta osservanza, tant’è che adesso c’è un Garante espressione di FdI, una designata dalla Lega, e il terzo nome che si dice sia stato fatto da M5S”. Questa è la storia del Garante lottizzato. Lei conosce come nessun altro le carceri. Dopo un Garante come Mauro Palma c’è il rischio, con le nuove nomine, che la struttura non conti più nulla? “Palma ha avuto la bravura, viste le sue competenze, di mettere in piedi dal nulla un ufficio organizzato molto bene, anche grazie alle sue due vice Garanti. Ha presentato relazioni al Parlamento strepitose con un’analisi dettagliata dei luoghi di privazione della libertà. Io mi auguro solo che questa struttura sopravviva e che i tre prescelti siano in grado di gestirla per garantire davvero i diritti umani fondamentali”. Beh, a vedere i decreti sui migranti, la detenzione nei Cpr, il silenzio di Nordio sul pianeta carcere, a parte l’idea di usare le caserme dimesse, la prospettiva non è buona... “Dall’inizio dell’anno, come Nessuno tocchi Caino, abbiamo visitato 105 istituti penitenziari coinvolgendo sia i magistrati che le Camere penali. E ogni volta abbiamo inviato un rapporto al capo del Dap proprio per segnalare le varie disfunzioni, che spesso diventano vere e proprie illegalità. Perché la situazione delle carceri sta via via peggiorando. Ad agosto, quando si sono verificati a Torino due suicidi, Nordio aveva inviato un messaggio a tutta la comunità penitenziaria in cui prometteva di aumentare il numero delle telefonate concesse ai detenuti”. Ha mantenuto la promessa? “Sulle telefonate, sta accadendo il contrario: diminuiscono mentre i suicidi aumentano e quest’anno siamo già arrivati a 56 reclusi che si sono tolti la vita. La situazione delle carceri va via via aggravandosi anche per le norme approvate nel frattempo che vanno nella direzione opposta, basta leggere il decreto Caivano che aumenta le pene per lo spaccio di lieve entità. Questo significa mandare più ragazzi in carcere anziché l’accesso alle misure alternative. Del resto, nonostante la riforma Cartabia andasse proprio in questa direzione, i detenuti invece di diminuire sono aumentati, e oggi siamo sulla soglia dei 60mila, mentre i posti effettivi sono poco più di 47mila”. Una situazione esplosiva... “In Italia ci sono 189 istituti penitenziari, in 57 non c’è un direttore titolare, in 15 non c’è neppure il direttore reggente, ci sono 43 direttori che dirigono più di un istituto. Gli educatori sono pochissimi, tant’è che in media ce n’è uno per 75 detenuti. Pochi anche gli agenti, 10mila in meno rispetto alla pianta organica. Vorrei parlare dei magistrati di sorveglianza, a cui la politica ha attribuito sempre maggiori compiti, e che sono 246 in tutta Italia, più 29 presidenti dei tribunali di sorveglianza. Con questi numeri è del tutto impossibile, e tutti lo sanno, fare in modo che la pena rispetti la Costituzione”. Da via Arenula le direbbero che la coperta per la Giustizia è sempre stata corta... “Il ministero dispone di 11 miliardi di euro. È mai possibile che solo per le carceri si spendano 3 miliardi e 300 milioni, mentre per tutta la giustizia solo 5 miliardi e 700milioni? E per le misure alternative al carcere e la giustizia minorile scopriamo che dai miliardi si passa ai milioni, e in tutto sono 369? Nordio nei convegni afferma che bisogna puntare sulle misure alternative perché riducono notevolmente la recidiva rispetto al carcere, ma alla fine i soldi disponibili per farlo sono solo poche briciole. Credo che, dopo un anno di legislatura, occorrerà tornare ad imbracciare l’arma dialogica della nonviolenza affinché governo e Parlamento non si dimentichino più della comunità penitenziaria e dei gravi problemi dell’esecuzione penale”. “Infermieri nelle carceri abbandonati a se stessi e vittime di aggressioni”. Il report Nursing Up quotidianosanita.it, 1 novembre 2023 Nei turni di notte un solo infermiere può arrivare ad avere in carico ben 600 detenuti. “Si contano ben otto aggressioni dallo scorso luglio a oggi: 3 casi drammatici sono di donne, di nostre professioniste, che hanno rischiato di subire una violenza sessuale e uno strangolamento” denuncia il Presidente De Palma. Le situazioni peggiori in Lombardia, Campania, Puglia e Toscana. Abbandonati a se stessi, troppo spesso vittime di disorganizzazione e carenze strutturali che trasformano la loro attività quotidiana di professionisti dell’assistenza in un vero e proprio incubo, in un inferno. È questa la realtà degli infermieri nelle sovraffollatissime carceri italiane che si stanno trasformando in un pericoloso contesto di abusi e violenze che forse ci sono sempre state, ma che ora numeri allarmanti fanno salire alla ribalta. All’interno di carceri di notte un solo infermiere può anche arrivare a dover assistere ben 600 reclusi. E solo dallo scorso luglio a oggi, sono state ben 8le gravissime aggressioni fisiche consumate ai danni di infermieri e infermiere, di cui ben 3 perpetrate contro donne indifese. A lanciare in un Report il grido di aiuto dei professionisti della salute, impegnati nella presa in carico di un numero decisamente spropositato di detenuti, è il Nursing Up: senza nessuna distinzione geografica, con le situazioni peggiori in Lombardia, Campania, Puglia e Toscana, gli scenari sono allarmanti. “La contemporanea drammatica carenza di personale di polizia penitenziaria - denuncia Antonio De Palma, Presidente Nazionale del Nursing Up - non fa che aggravare la situazione. Foggia, Bari, Salerno, Avellino, Vibo Valentia, La Spezia, Firenze, Ascoli Piceno: vere e proprie realtà da terzo mondo, addirittura, in alcuni casi, mancano veri e propri reparti di infermeria, scarseggiano i farmaci e le attrezzature sanitarie e, come accade ad esempio a Bari, sono le vecchie celle ad essere state adattate a luogo di cura”. I numeri, prosegue De Palma sono allarmanti: in Campania per una popolazione carceraria di 6.471 detenuti abbiamo meno di 200 infermieri, che devono lavorare tra tossicodipendente, casi di profondi disagi psichiatrici e soggetti aggressivi e autolesionisti (in costante aumento sono i tentativi di suicidio). La situazione non è certo più rosea in Lombardia, dove solo nelle quattro carceri dell’area metropolitana di Milano si contano 3.726 detenuti, a fronte di un solo operatore sanitario, di notte, ogni 600 reclusi (1 ogni 200 negli orari diurni). “La cosa peggiore, ed è doveroso raccontarlo - aggiunge De Palma - è che solo da questa estate a oggi abbiamo fatto registrare, e parliamo dei casi denunciati perché non escludiamo il sommerso, la triste vicenda di ben tre infermiere. Una a Foggia, nel carcere di San Marco in Lamis, lo scorso 16 ottobre, un’altra a Sollicciano, Firenze, lo scorso luglio, un’altra ancora a La Spezia, sempre questa estate, poco prima, ad agosto: ebbene la prima è stata brutalmente presa a pugni mentre tentava di somministrare un farmaco ad un paziente esagitato, la seconda addirittura sarebbe stata oggetto di pesanti attenzioni, rischiano di subire una violenza sessuale, l’altra ancora in Liguria è stata salvata da un agente penitenziario mentre un detenuto provava a strangolarla”. Fino a qualche anno fa, continua De Palma, erano gli infermieri neo laureati al primo incarico ad accettare il difficile lavoro nelle carceri. “Oggi, che più che mai i nostri giovani sono ambitissimi nelle strutture della sanità pubblica e privata, vista anche la carenza di personale - prosegue - e sono davvero pochi coloro che hanno il coraggio di accettare di ricoprire un ruolo così delicato, laddove mancano strumenti, tutela, e dove una donna prima che una professionista, finisce tristemente e drammaticamente alla mercé di soggetti fuori controllo. L’infermiere presente all’interno delle carceri opera tra la gestione della sicurezza e il diritto della salute, spesso con elevata complessità assistenziale, in un setting difficile, dove a prescindere dal reato commesso, è fondamentale la presa in carico del paziente. Si è erroneamente portati a pensare che il ruolo dell’infermiere all’interno delle carceri sia limitato alla mera esecuzione di procedure e interventi standard. Le competenze dell’infermiere sono anche di natura intellettuale, oltre che tecniche avanzate, soprattutto relazionale e di educazione sanitaria, così come recita il profilo professionale D.M. 739/94: “l’assistenza di natura tecnica, relazionale ed educativa”. La sfera relazionale è spesso costituita da incontri, scambi, e confronti che l’infermiere intrattiene con la persona bisognosa di cure e la sua famiglia, e richiama la vera essenza e la peculiarità della professione infermieristica che andrebbe, in ogni luogo dove c’è un infermiere, valorizzata, difesa, tutelata con piani mirati che ad oggi sembrano totalmente assenti. Perché certo, l’infermiere con il massimo impegno e le sue competenze è uno degli attori principali in tema di diritto alla salute dei detenuti, che va garantito, qualunque sia il reato commesso, soprattutto se si tratta di soggetti difficili con patologie psico-fisiche serie. Ma chi protegge oggi i nostri infermieri e le nostre infermiere? - chiosa De Palma - tentativi di strangolamento e di violenza sessuale solo negli ultimi 4 mesi! Cosa altro deve accadere?”. Cosa “pensa” del carcere l’intelligenza artificiale? di Claudio Bottan vocididentrojournal.blogspot.com, 1 novembre 2023 Abbiamo provato a chiedere a ChatGPT quali azioni si dovrebbero intraprendere per migliorare le condizioni di vita negli istituti di pena. Il nostro esperimento ha ottenuto risposte schematiche, che per gli addetti ai lavori possono sembrare banali e tuttavia dovrebbero farci riflettere sulla necessità di mettere mano al sistema carcerario. Sicuramente l’intelligenza artificiale potrebbe svolgere un ruolo determinante nel miglioramento della quotidianità degli istituti penitenziari, ad esempio per snellire procedure che spesso sembrano essere ancorate al passato. Ecco le “riflessioni” di ChatGPT - “Il miglioramento delle condizioni di vita delle persone detenute nelle carceri italiane è un obiettivo importante sia dal punto di vista umanitario che sociale. Per raggiungere questo obiettivo, diverse misure possono essere adottate, tra cui: Riforme del Sistema Penitenziario: È essenziale rivedere e riformare il sistema penitenziario italiano per affrontare il sovraffollamento nelle carceri e migliorare la qualità delle strutture carcerarie. Riduzione del Sovraffollamento: Una delle sfide principali del sistema carcerario italiano è il sovraffollamento. Si dovrebbero adottare misure per ridurre il numero di detenuti nelle carceri, ad esempio attraverso alternative alla detenzione per reati minori o non violenti. Programmi di Riabilitazione: Offrire programmi di riabilitazione significativi per i detenuti, tra cui corsi di istruzione, formazione professionale, terapie e supporto psicologico. Questi programmi possono aiutare a preparare i detenuti per la reintegrazione nella società. Cura della Salute: Assicurarsi che i detenuti abbiano accesso a cure mediche adeguate. Questo è particolarmente importante per coloro che hanno condizioni mediche preesistenti. Lavoro in Prigione: Creare opportunità di lavoro retribuito in prigione in modo che i detenuti possano sviluppare competenze utili e guadagnare un reddito per il proprio futuro. Visite Familiari: Favorire e semplificare le visite familiari. Mantenere forti legami familiari è cruciale per la riabilitazione e la preparazione al rilascio. Monitoraggio Indipendente: Consentire il monitoraggio indipendente delle condizioni carcerarie da parte di organizzazioni non governative e enti indipendenti. Reinserimento Sociale: Preparare i detenuti per il loro reinserimento nella società, fornendo supporto per il lavoro, l’alloggio e il sostegno psicologico durante il periodo di libertà condizionata o di rilascio. Sanzioni Alternative: Promuovere l’uso di sanzioni alternative alla detenzione per reati minori e non violenti, come servizi comunitari o trattamenti per abusi di sostanze. Sensibilizzazione Pubblica: Sensibilizzare il pubblico sulle condizioni carcerarie e sull’importanza del reinserimento sociale, riducendo così il pregiudizio nei confronti dei detenuti. Formazione dei Dipendenti Carcerari: Assicurare che i dipendenti carcerari ricevano una formazione adeguata sull’etica, i diritti umani e l’approccio alla riabilitazione. Ricerca e Raccolta Dati: Raccogliere dati accurati sul sistema penitenziario per valutare i progressi e le aree in cui è necessario migliorare. Legislazione: Rivedere e aggiornare le leggi penali e le politiche carcerarie per essere più rispettose dei diritti umani e delle esigenze di riabilitazione. Il miglioramento delle condizioni carcerarie è un compito complesso che richiede il coinvolgimento di molte parti interessate, tra cui il governo, organizzazioni non governative, operatori carcerari e la società civile. La promozione di un sistema penitenziario più umano e rieducativo è un obiettivo importante per la giustizia e la dignità umana”. Diritto penale: che fine ha fatto il garantismo? di Giulia Crivellini* Il Dubbio, 1 novembre 2023 Dai raver ai migranti, il carcere di oggi ci restituisce l’immagine profondamente classista della nostra giustizia. Nato per sostenere le democrazie attraverso un sistema di limiti da incriminazioni ingiuste, pene eccessive, arresti arbitrari, processi sommari e controlli pervasivi delle forze di polizia, nato in definitiva dall’esigenza di tutelare i diritti fondamentali della persona, il garantismo in Italia vive oggi una delle sue più profonde crisi. Di fronte all’introduzione massiccia di nuovi reati e di aumenti di pena a pioggia operati dal governo Meloni, di fronte al silenzio e all’immobilismo sullo stato delle carceri che ha contraddistinto l’operato, tutt’altro che liberale, del ministro Carlo Nordio, è ancora possibile parlare di garantismo nel nostro paese? Questa è una domanda che da Radicali dovremmo porci e che dovremmo porre al centro del dibattito pubblico. C’è chi attualmente, nel definirsi “liberale” o nel porsi come forza centrista nel panorama partitico, invoca il garantismo come sistema rigido di limiti alla giurisdizione penale, spogliato, perché non ne necessita, di qualsiasi analisi sociale e di mutamento politico intercorso negli ultimi decenni. Un garantismo spesso ridotto a mera evocazione nostalgica. Eppure sono trascorsi più di trent’anni da quando la destra dei primi processi a Silvio Berlusconi ha iniziato a trasformare paradigmi liberali, come quello del garantismo, in insofferenza per ogni demarcazione e controllo, fino a divenire pretesa di impunità politica ed economica. È da lì che sulla questione giustizia ha preso avvio un’epoca di doppio binario tra i potenti al governo, legittimati e folgorati, come ricorda il giurista Luigi Ferrajoli, “dall’assolutismo del voto di maggioranza”, e “loro”, “gli altri”, i poveri, quelli con cui essere davvero intransigenti. Che poi null’altro significa se non quelli contro i quali poter creare una nuova legalità fatta di illegalità costituzionale e sopruso: i raver, gli anarchici, gli attivisti per il clima, le persone migranti, le gestanti per altri e altre, i padri e le madri ritenute “non tradizionali”. Ed è da questa dimensione che trae nuova linfa il carattere profondamente classista della nostra giustizia penale, di cui il carcere ci restituisce, come uno specchio, l’immagine. Il carcere sovraffollato delle persone dipendenti da sostanze, dei piccoli spacciatori, delle persone straniere, degli imputati per reati di strada. Da qui un diritto penale che da teorico strumento di eguaglianza sta divenendo nei fatti il luogo della massima disuguaglianza sociale. E la punizione lo strumento per regolare fenomeni sociali. “Addirittura un avvocato sul barcone?”, commentava poche settimane fa il ministro delle infrastrutture Matteo Salvini a margine di una delle tante sentenze di non convalida del tratte-nimento di migranti presso i Centri di permanenza e rimpatrio. Ciò che un sistema garantista, democratico, giusto, deve assicurare - una pronta difesa a tutti, a partire da chi non può o non riesce ad averne accesso - viene descritto come privilegio. Privilegio e arma da sottrarre ai nemici, cioè agli oppressi, a chi reclama diritti, a chi invoca cambiamenti. Siamo, in sostanza, di fronte al ribaltamento dei cardini della Giustizia, non solo penale ma anche sociale, e del garantismo come radice su cui poggiano le democrazie. E sembra che su questo, dal polo liberale alla sinistra, tutto taccia. Chi lo ha capito bene invece oggi è chi da questa violenza viene colpito ogni giorno. *Tesoriera Radicali Italiani Prescrizione, primo sì alla legge di riforma di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 novembre 2023 Primo sì alla riforma della prescrizione. L’accordo raggiunto nella maggioranza con l’assenso del ministero della Giustizia regge alla prova del voto. A venire respinti sono così tutti gli emendamenti presentati dall’opposizione e passano solo quelli concordati a due riprese negli ultimi giorni fra le tre forze che sostengono il Governo. Il testo del disegno di legge approderà in Aula la prossima settimana, ma la strada sembra ormai segnata per quello che sarà verosimilmente il quinto intervento in 18 anni sul punto. E se, per restare alle ultime modifiche, nel 2019 l’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede aveva promosso il blocco dei termini dopo il primo grado, con l’avvento del Governo Draghi il faticoso punto di equilibrio era stato trovato, ed è la disciplina tuttora in vigore, con la conferma dello stop dopo il primo grado e l’improcedibilità in appello e Cassazione nel caso di mancato rispetto dei termini di fase. Ora, architrave della riforma, è la distinzione, nel giudizio di primo grado, fra assolti e condannati, dove per i primi i termini ordinari, calcolati sulla base della “vecchia” ex Cirielli, continueranno a correre, mentre per i secondi, scatterà una doppia sospensione, in appello di 24 mesi e in Cassazione di 12, se la condanna sarà stata confermata. Se tuttavia, disposizione che punta a evitare rallentamenti, la sentenza di appello o Cassazione non arriverà entro il periodo di sospensione, allora la prescrizione tornerà a correre, conteggiando anche il tempo oggetto del blocco. Per i reati caratteristici di violenza domestica, invece, i termini saranno comunque più estesi. Critiche le opposizioni che hanno sottolineato, oltre che i continui rimaneggiamenti di un istituto chiave del processo penale, anche i rischi che l’Italia potrebbe correre nel contesto del Pnrr, visto che la disciplina attuale era stata oggetto sul piano formale di un confronto con l’Europa e poi, sul piano sostanziale, sta contribuendo, sia pure in via indiretta, a migliorare in maniera significativa i tempi di durata dei giudizi penali (diminuzione del 27% in appello e del 40% in Cassazione, con riferimento al 2019, anno pre-Covid e parametro per il Pnrr). Così, se per il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove la riforma permette di archiviare anni di modifiche motivate soprattutto da ragioni ideologiche, “mai più cittadini indagati e imputati a vita secondo la sgrammaticata parentesi bonafediana e contro ogni principio garantista”, Debora Serracchiani, responsabile giustizia del Pd, osserva che “sul Pnrr è stato raggiunto l’obiettivo sul disposition-time, i magistrati hanno riorganizzato il lavoro, sono stato abbattuti i tempi nei giudizi in appello e nei tribunali. Non riteniamo necessaria una riforma che allunga i tempi e pone problemi sull’applicazione”. Prescrizione, la maggioranza tiene. Ma Nordio ormai è commissariato di Mario Di Vito Il Manifesto, 1 novembre 2023 Respinti gli emendamenti delle opposizioni, da lunedì si va in aula. Il Guardasigilli è ai margini. È alla fine di una seduta notturna durata quattro ore che la commissione Giustizia della Camera ha concluso l’esame degli emendamenti alla proposta di legge sulla prescrizione, attesa adesso in aula a partire da lunedì della settimana prossima. Le modifiche che avrebbero voluto le opposizioni sono state tutte respinte, compresi i tentativi in extremis del M5s di quintuplicare i termini per alcuni reati e di fare dell’abuso d’ufficio un reato privo di prescrizione. Passano invece un emendamento tecnico di Forza Italia e uno a doppia firma Costa-Pellicini, che di fatto configura la nuova disciplina dei tempi giudiziari. Si prevede infatti che “il corso della prescrizione” rimanga “sospeso, in seguito alla sentenza di condanna di primo grado, per un tempo non superiore a due anni e, in seguito alla sentenza di appello che conferma la condanna di primo grado, per un tempo non superiore a un anno”. L’accordo della maggioranza (insieme ad Azione) era arrivato la settimana scorsa e riporta in sostanza le lancette indietro ai tempi della legge Orlando. Inizialmente l’idea presentata dal forzista Pietro Pittalis consisteva nel ritorno in auge della ex Cirielli, la legge che nel 2005 accelerò in maniera molto decisa i tempi di prescrizione. Dodici anni dopo, nel 2017, il ministro della Giustizia Andrea Orlando riallungò tutto stabilendo due anni di tempo per il giudizio di Appello e uno per la Cassazione. Nel 2019 il pentastellato Alfonso Bonafede riformò nuovamente la materia, con lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado o un decreto di condanna. Nel 2021, infine, Marta Cartabia stabilì che non c’erano limiti di tempo per il processo di primo grado ma che l’Appello non poteva andare oltre i due anni e la Cassazione non oltre i 12 mesi. Questo curioso gioco dell’oca finisce adesso con la decisione di riprendere quanto stabilito nel 2017. In Commissione hanno votato a favore i partiti della destra e Azione, mentre contro si sono espressi il M5s (“Così i processi si allungheranno e molti andranno in fumo”) e il Pd, che avanza anche dubbi sull’abrogazione della riforma Cartabia, che venne approvata in accordo con l’Ue durante le trattative per il Pnrr. Il timore dei dem è che adesso questi fondi siano a rischio. Denis Dori dell’Alleanza Verdi Sinistra si è astenuto, sostenendo che l’emendamento Costa-Pellicini sia “un miglioramento rispetto ai contenuti iniziali della proposta di legge Pittalis”. E se il relatore Enrico Costa (Azione) parla di “grande passo avanti”, dalle parti del governo si esulta in maniera ancora più esplicita. Il sottosegretario Delmastro: “Archiviamo anni di rimaneggiamenti volti a piazzare bandierine ideologiche”. Così anche il presidente della Commissione, Ciro Maschio (FdI) che sostiene siano state eleminate “le bizzarrie giuridiche della sospensione della riforma Bonafede e dell’improcedibilità della Cartabia”. Grande assente dal dibattito è il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che se in questi giorni è giustificato perché in trasferta tra Stati Uniti e Canada, sul resto della vicenda sembra non aver toccato palla. Anzi, la sensazione è che siano stati i suoi a non permettergli di toccarla: lunedì della settimana scorsa, a palazzo Chigi, la premier Meloni aveva incontrato diversi esponenti del suo governo proprio per parlare di prescrizione, per una riunione che a molti è parsa come una specie di commissariamento del Guardasigilli. In attesa, ormai da mesi, della sua grande riforma della giustizia: mille volte annunciata e mille e una volta rinviata. La destra scarica Nordio, Meloni pronta a liberarsene di Paolo Comi L’Unità, 1 novembre 2023 Fratelli d’Italia stufa del ministro e del suo cerchio magico che ha provocato numerose tensioni con le toghe tra gaffe e scivoloni. Carlo Nordio nuovo giudice costituzionale? L’indiscrezione è stata pubblicata ieri da Repubblica che ha intercettato i ‘desiderata’ dei vertici di Fratelli d’Italia i quali non vedono l’ora di sbarazzarsi del quanto mai evanescente ministro della Giustizia. L’occasione propizia sarebbe l’elezione da parte del Parlamento del sostituto di Silvana Sciarra, nominata nel 2014 in quota Pd e che il prossimo 11 novembre dovrà lasciare l’incarico. Una exit-strategy di tutto rispetto che consentirebbe così a Giorgia Meloni di risolvere un problema che ha creato ella stessa impuntandosi lo scorso anno sull’ex procuratore di Venezia invece di nominare, come avrebbe voluto Silvio Berlusconi, un esponente di Forza Italia. Dopo averlo indicato senza successo alla presidenza della Repubblica, la premier lo aveva infatti imposto agli alleati di governo e a Berlusconi che per quel ruolo aveva messo sul tavolo una lunga lista di fedelissimi: Elisabetta Casellati, Francesco Paolo Sisto, Pierantonio Zanettin. Il ruolo di Guardasigilli, l’unico ministro indicato in Costituzione, non si può “improvvisare”, avevano detto da Arcore a Meloni, ricordandogli che serviva un giurista ma anche una persona che conoscesse bene le dinamiche parlamentari e che fosse in grado di coltivare i rapporti con il Consiglio superiore della magistratura. A distanza di un anno, il bilancio di Nordio è quanto mai deludente. Oltre a non essere ancora andato al Csm per esporre il proprio programma, un fatto mai successo nella storia della Repubblica, gli unici provvedimenti governativi in materia di giustizia di questi mesi portano infatti la ‘firma’ del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi: dal decreto Rave, al Cutro, al più recente Caivano. Gli altri provvedimenti sulla giustizia sono tutti d’iniziativa parlamentare: dalla riforma delle intercettazioni, con la regolamentazione del trojan, alla modifica della prescrizione. L’unico provvedimento veramente voluto da Nordio è quello che prevede l’abolizione dell’abuso d’ufficio, la riforma del reato di traffico d’influenze, e nuove regole per le misure cautelari, ed è però impantanato da mesi in commissione Giustizia al Senato. Dopo settimane di audizioni, molte anche inutili essendo dei doppioni, la presidente della Commissione Giulia Bongiorno (Lega) evidentemente senza il fiato sul collo di Nordio, ha dato tempo fino al prossimo 4 novembre per presentare gli emendamenti. Le opposizioni hanno già fatto sapere che chiederanno una proroga. Il ‘problema’ sarà l’accavallamento con la sessione di bilancio che inizierà proprio al Senato e che determinerà lo stop a ogni discussione di legge che impone nuove spese, come questa voluta da Nordio e che ha previsto l’assunzione di circa 500 giudici, oltre la pianta organica, che dovranno occuparsi solo di misure cautelari. Lo slittamento dell’approvazione del testo all’anno prossimo causerà inevitabilmente un ritardo sulla tabella di marcia delle altre riforme sulla giustizia che sono nel programma di governo, ad iniziare dalla separazione delle carriere fra pm e giudici che prevede peraltro la modifica della Costituzione. Si tratta di riforme di sistema che vanno fatte ad inizio della legislatura avendo tempi lunghi, con una doppia votazione a distanza di non meno di sei mesi. E se non si trova la maggioranza assoluta è necessario un referendum confermativo. Come se non bastasse, Nordio in questo anno ha infarcito le Commissioni che devono scrivere i decreti delegati della Riforma Cartabia di magistrati che stanno ‘annacquando’ tutto ciò che limitava lo strapotere delle toghe. A parte ciò, i vertici di Fratelli d’Italia non hanno mai gradito il ‘cerchio magico’ che a via Arenula blinda il ministro e provoca scivoloni a ripetizione con le toghe. Nel mirino l’estrema conflittualità fra il capo di gabinetto Alberto Rizzo e la sua vice Giusi Bartolozzi, entrambi magistrati. Se Rizzo dovesse lasciare, avendo fatto domanda per alcuni incarichi direttivi, quale presidente della Corte d’appello di Brescia e Firenze, Bartolozzi, vicinissima a Nordio, sarebbe in pole per prenderne il posto suscitando più di un mal di pancia. Meloni, che non voleva occuparsi a tempo pieno di magistrati, sarebbe dunque pronta a spedire Nordio alla Consulta. Tecnicamente però per fare il giudice costituzionale bisogna essere, o essere stati, professori di materie giuridiche o avvocati con una determinata anzianità. Requisiti che Nordio non avrebbe. Per uscire dall’impasse, allora, sarebbe già pronto un piano B: mandare Nordio in qualche Authority. Un ruolo sicuramente meno esposto, dove l’ex pm veneziano potrebbe far bene portandosi i suoi collaboratori di fiducia e lasciando via Arenula ad un politico esperto. “Prescrizione, sì ai diritti”: il timbro di Delmastro di Errico Novi Il Dubbio, 1 novembre 2023 “Addio a Bonafede e all’improcedibilità che uccideva i processi”: così il partito di Meloni s’intesta la riforma. Grazie alla “perseveranza”, come lui stesso la definisce, di Enrico Costa, già nella scorsa legislatura si arrivò, in campo penale a traguardi tutt’altro che scontati. Basti pensare alle norme sulla presunzione d’innocenza, che il deputato di Azione trascinò al centro del dibattito politico quando nessuno, praticamente, sapeva che in quella materia l’Italia avrebbe dovuto recepire una direttiva Ue. Ma sulla prescrizione, la pur legittima rivendicazione di Costa va intrecciata con un altro, decisivo segnale politico: le parole con cui il sottosegretario Andrea Delmastro intesta a se stesso, dunque anche a Fratelli d’Italia e, in ultima analisi, a Giorgia Meloni, il ritorno al regime “sostanziale”. Nel primo pomeriggio di ieri, Delmastro ha innanzitutto tenuto a comunicare che la commissione Giustizia della Camera aveva completato la propria mission: “Approvato il mandato al relatore per la riforma della prescrizione”. Poi il sottosegretario ha aggiunto: “Con la prescrizione sostanziale, mai più cittadini indagati e imputati a vita secondo la sgrammaticata parentesi bonafediana e contro ogni principio garantista”. Che è un concetto di un certo peso se declinato dal partito di maggioranza relativa, considerato comunque il più intransigente, nel centrodestra, in materia penale. Proprio Delmastro, oltretutto, del rigorismo di FdI sulla giustizia è sempre stato il principale alfiere. Certo, il sottosegretario che a via Arenula rappresenta il partito della premier legge l’altro aspetto della riforma targata centrodestra, il superamento della “Cartabia”, in una chiave piuttosto singolare: “Voltiamo pagina anche rispetto alla improcedibilità che avrebbe rottamato migliaia di processi, contro ogni pulsione verso l’accertamento di una verità giudiziaria”. Magari è anche vero, per i reati memo gravi: i due anni concessi come termine base dalla riforma del 2021 per arrivare alla “decadenza” dell’azione penale in appello rischiavano di lasciare nel limbo del nulla di fatto parecchi processi. Ma è vero pure che l’improcedibilità contemplava una così intricata rete di deroghe ed eccezioni, anche per i reati di corruzione, da risultare innanzitutto di non facile applicazione per gli stessi giudici. In ogni caso è una notizia che il partito di Meloni rivendichi il ritorno alla prescrizione sostanziale. A un regime come quello previsto dal testo uscito ieri dalla commissione Giustizia, equilibrato e ispirato alle raccomandazioni della commissione Lattanzi. Come segnalato sul Dubbio di ieri, con il voto in commissione prima sugli emendamenti (nella notturna iniziata alle 21 di lunedì sera) e poi per il mandato ai relatori Costa e Andrea Pellicini di FdI (nella riunione di ieri mattina), è tutto pronto per la discussione nell’Aula di Montecitorio, fissata per lunedì prossimo: si partirà con la discussone generale, mentre il voto finale sul provvedimento potrebbe arrivare martedì o mercoledì al massimo. Toccherà poi al Senato. Dove, considerata l’elaborata mediaszine politica condotta, innanzitutto da Carlo Nordio e dal suo vice Francesco Paolo Sisto, già in occasione dell’esame alla Camera, difficilmente la maggioranza rimaneggerà ancora il testo. Anche perché la legge di Montecitorio rappresenta un punto di sintesi difficilmente migliorabile. Sempre per citare la nota di Andrea Delmastro, “la giustizia non deve più essere ostaggio di contrapposte curve di oltranzisti, ma il luogo ove si coniugano, con equilibrio, garanzie e diritti da un lato e necessità di pervenire a una verità giudiziaria dall’altro”. Ed è tutto sommato una valutazione calzante, perché se decade l’abnormità del processo potenzialmente infinito concepita con la riforma Bonafede (che la legge Cartabia ha dovuto a suo modo disinnescare), si evita anche che la prescrizione possa intervenire come una mannaia senza lasciare un margine di tempo perché si celebrino i giudizi di impugnazione: sono previsti, come è noto, una sospensione di 24 mesi dopo l’eventuale condanna in primo grado, e un’altra di 12 mesi qualora in appello sia confermata la condanna del tribunale. In due casi è previsto un meccanismo di reimmissione di queste sospensioni nel computo del “tempo necessario a prescrivere”: se il giudice dell’impugnazione (quindi la Corte d’appello o la Cassazione) deposita la propria sentenza dopo la scadenza del “bonus”, oppure se quella fase del processo o quella successiva si conclude con un proscioglimento (o se “la sentenza di condanna è annullata nella parte relativa all’accertamento della responsabilità ovvero sono accertate le nullità indicate negli articoli 604, commi 1, 4 e 5- bis, del codice di procedura penale”, tanto per citare alla lettera la nuova norma). Il tutto vale anche per l’eventuale giudizio d’appello bis “conseguente all’annullamento della sentenza con rinvio” da parte della Suprema corte. Insomma, è una legge non lontana dalla riforma Orlando e quasi del tutto sovrapponibile alla proposta della commissione Lattanzi: il prodotto dell’accademia al più alto livello. Il che non ha impedito al Movimento 5 Stelle di esibirsi in un fuoco pirotecnico di emendamenti che Costa ha definito “provocatori”. Tutti respinti, ricorda il deputato di Azione: alcuni, spiega, puntavano a “quintuplicare i termini di prescrizione di alcuni reati o a rendere imprescrittibile l’abuso d’ufficio”. Ce n’era pure qualcuno che “peggiorava” la Bonafede, con l’anticipazione del blocco della prescrizione alla richiesta di rinvio a giudizio: il lodo Davigo- Di Matteo. Normale “movimentismo” da opposizione. Colpisce però che la capogruppo pentastellata in commissione Giustizia, Valentina D’Orso, avvocata, si esibisca in un attacco ai propri colleghi: “Grazie al governo Meloni, nei processi penali torneranno in pompa magna tutte le tecniche dilatorie per allungare i tempi”. Cioè secondo lei i ricorsi in appello e in cassazione non sono espressione del diritto di difesa ma trucchi ignobili. E poi dicono che l’avvocatura può contare in Parlamento su una lobby di ferro. Inamovibilità dei giudici: è un problema oppure un valore? di Bruno Ferraro* Libero, 1 novembre 2023 Nel Paese che ha conosciuto nella sua storia forti ondate di emigrazione, in Europa come nelle Americhe, la scarsa propensione alla mobilità dei giudici fa da controtendenza. Una ragione è da ricercarsi nella inamovibilità che, garantita a livello costituzionale come presidio di indipendenza, consente a tutti i magistrati, fatta eccezione per gli uditori di prima nomina, di scegliere il posto ove esercitare la funzione, al limite fino all’ultimo giorno di carriera. Nel tempo si è cercato di porre un rimedio, limitando ad un periodo massimo di otto armi la permanenza dei capi di ufficio (Presidente di Tribunale e di Corte di Appello, Procuratore della Repubblica e di Corte presso gli stessi uffici), senza poter estendere la normativa anche ai singoli giudici a causa dello sbarramento della norma costituzionale. Così però registriamo un paradosso perché normalmente i capi di ufficio esercitano le funzioni giudiziarie in misura ridotta al contrario dei giudici che ne hanno una titolarità piena e che per la maggior parte delle cause decidono da soli senza il controllo di un collegio. L’inamovibilità è ancora un valore? Posto che è miseramente fallita anche la politica degli incentivi economici per quanti scelgono di andare in una sede disagiata, mi sembra di poter indicare come soluzione praticabile quella di non consentire tramutamenti (rectius trasferimenti funzionali) nell’ambito dello stesso Distretto di Corte di Appello: e ciò sempre, anche per la richiesta di funzioni analoghi ed a maggior ragione ad ogni cambio di qualifica (leggasi promozione). Prenderebbero vigore, con una maggiore mobilità dei giudici, gli stimoli procurati dalla conoscenza di nuove realtà territoriali e dalla necessaria convivenza con funzioni diverse. Personalmente nei 45 anni trascorsi all’interno della magistratura ho avuto modo di assaporare esperienze di spostamenti diverse, sia funzionali che territoriali, che mi piacerebbe veder diventare una norma per tutti i colleghi. Infatti ne trarrebbero vantaggio sul piano del fervore, del dinamismo funzionale, della vivacità spirituale, dell’entusiasmo complessivo, di un modo positivo di leggere ed interpretare la realtà di tutti i giorni. Il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ci faccia un pensiero, ponendo rimedio all’appiattimento funzionale ed alle incrostazioni di potere che il sistema attuale inevitabilmente comporta. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Arresto in flagranza e carcere per gli eco-attivisti che bloccano il traffico: la proposta della Lega di Luca Pons fanpage.it, 1 novembre 2023 Una nuova proposta di legga della Lega concretizza le richieste fatte da Matteo Salvini nelle scorse settimane: misure più stringenti per gli attivisti climatici, dal Daspo urbano all’arresto in flagranza di reato se si blocca il traffico. La Lega ha presentato una proposta di legge che prevede l’arresto in flagranza di reato e il carcere per chi blocca il traffico, oltre alla possibilità di Daspo urbano. L’inasprimento delle misure per casi simili, che andrebbe a colpire chiunque protesta pacificamente bloccando la circolazione delle auto, ha l’obiettivo soprattutto di punire le iniziative di attivisti climatici come quelli di Ultima generazione. Più volte negli ultimi anni, e anche nelle scorse settimane, i giovani di Ug hanno lanciato manifestazioni di protesta sedendosi sulla carreggiata di una strada e bloccando il traffico, per attirare l’attenzione sulla lotta al cambiamento climatico e sulle misure politiche che sarebbero necessarie per metterla in atto. La Lega ha sempre duramente contestato queste iniziative: a metà ottobre Matteo Salvini ha detto che gesti simili da parte di “eco-imbecilli” andrebbero puniti con “multa pesante, carcere e arresto in flagranza”. Ora la proposta è arrivata in Parlamento. Arresto in flagranza, carcere e Daspo: le nuove misure che la Lega propone - L’iniziativa si collega al reato di blocco stradale, re-introdotto proprio da Salvini nel 2018 con il decreto Sicurezza (dal 1999 era stato depenalizzato). Invece di una multa (da mille a 4mila euro) scatterebbe il carcere da sei mesi a tre anni. In più, si estenderebbe il Daspo urbano anche a chi blocca il traffico. Infine, si modificherebbe l’articolo 380 del Codice penale per inserire il blocco stradale tra i reati che richiedono l’arresto in flagranza. L’arresto in flagranza in Italia è previsto dal codice penale (articolo 380) per reati particolarmente gravi (quelli che hanno pene superiori ai 20 anni di carcere) oppure per casi come devastazione e saccheggio, furto e rapina, violenza sessuale, traffico di armi o di droghe, terrorismo. Prevede che la persona venga fermata dalle forze di polizia e trattenuta per alcuni giorni: entro 48 ore dall’arresto deve attivarsi un giudice, che può convalidarlo oppure no. In molti casi, dopo l’arresto seguono misure cautelari come gli arresti domiciliari o la custodia in carcere. Ostellari (Lega): “No fanatismo, l’ambiente si difende con buonsenso” - Secondo il carroccio, sarebbe giusto applicare queste misure anche a chi protesta bloccando il traffico: “Abbiamo già assistito a tristi scene di sedicenti gruppi attivisti ambientalisti ed ecologisti che impediscono, spesso con il proprio corpo, la mobilità, soprattutto nelle ore di punta, provocando un grande disagio fra gli automobilisti”, ha commentato il primo firmatario della legge, il deputato Gianangelo Bof, che ha definito il testo una “soluzione di buon senso a tutela di chi la mattina si alza per andare a lavoro”. Anche il sottosegretario alla Giustizia, il leghista Andrea Ostellari, si è detto soddisfatto della proposta che contrasta “i fanatici green”. Questa “estende la fattispecie di illecito penale anche a chi ostacola i trasporti senza l’uso di strumenti, ma semplicemente con il proprio corpo. Esattamente come fanno alcuni prepotenti, che credono di cambiare il mondo, impedendo alle persone di raggiungere scuole, luoghi di lavori e ospedali. L’ambiente e la salute si difendono con buonsenso e responsabilità, non bloccando il Paese”. “La proposta della Lega è paradossale. Una repressione, l’ennesima, messa in moto contro di noi. Invitiamo Salvini a occuparsi di emergenze più serie, come quella climatica”, ha replicato Laura Paracini, attivista di Ultima generazione. “I nostri politici scelgono di reprimere in modo così duro alcuni atti, quando invece c’è un silenzio assordante su altre crisi. È chiaro che certe problematiche vengano ignorate per motivi specifici. Si prendono come capri espiatori dei ragazzi che stanno esercitando il loro diritto alla protesta. Non possiamo che condannare questa classe politica e quella che l’ha preceduta, perché non hanno fatto nulla per rispondere al collasso climatico”, ha concluso Paracini. Così un gip scrupoloso ha messo in crisi anni di teoremi antimafia di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 1 novembre 2023 La vicenda degli arresti chiesti dal pm e non concessi dal gip a Milano ha riacceso una polemica annosa. Dalla Roma di “Mafia capitale” alla Milano del “Consorzio” che avrebbe unificato le cosche storiche di cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra. Visioni di pubblici ministeri e direzioni antimafia che finiscono con il vedere metaforiche lupare ovunque, con un radar così ossessivamente puntato in una sola e univoca direzione, tanto da finire sconfessati dalle ordinanze e sentenze dei giudici. È capitato a Roma, quando la procura diretta da Giuseppe Pignatone nel 2014 ha lanciato una bomba che per potenza mediatica ha raggiunto i luoghi più lontani del mondo e ha battezzato la capitale d’Italia come centro mafioso. La cosca è lì, nel cuore dell’Italia, dissero in coro i capitani coraggiosi che si chiamavano Michele Prestipino, procuratore aggiunto, e i sostituti Paolo Ielo, Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini, che affiancavano il dottor Pignatone nella fatica delle indagini. Dopo sei anni, e dopo che i giudici dell’appello avevano sconfessato, con un vero appiattimento sula teoria dell’accusa, la lungimiranza dei giudici di primo grado, la cassazione disse parole chiare. Prima di tutto evidenziando quel che dovrebbe essere lapalissiano, e cioè che l’interpretazione del reato la dà la legge, non la fantasia del magistrato, singolo o collettivo che sia. Il “Mondo di mezzo”, stabilì il giudice di legittimità il 22 ottobre del 2019, non era mafia, ma semplice corruzione. C’erano i reati contro la pubblica amministrazione e c’erano i responsabili che li avevano commessi. Ma mancavano i presupposti previsti dall’articolo 416-bis del codice penale, il metodo mafioso nei comportamenti dei soggetti coinvolti e anche quella “fama” conquistata dall’associazione criminale che produce l’assoggettamento omertoso di una porzione di società. Lucciole scambiate per lanterne, che avevano danneggiato nel mondo la reputazione dell’Italia e della sua capitale, e scaricato come merce avariata e pericolosa nelle carceri speciali i due principali responsabili Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, mentre fiorivano successi editoriali e filmografici di coloro che a quell’ipotesi fantasiosa e infondata avevano creduto, o finto di credere. Quasi dieci anni dopo il problema dell’interpretazione dell’articolo 416-bis del codice penale si ripropone a Milano, e non c’è bisogno di arrivare alla cassazione. Perché un giudice, quello delle indagini preliminari, forse anche sulla scia di quel fatto così grave di allora, ha dato un primo stop alle richieste della procura diretta da Marcello Viola, avanzate dal capo della Dda Alessandra Dolci con l’ausilio della pm Alessandra Cerreti. Il fatto nuovo non consiste tanto nel fatto che il gip Tommaso Perna abbia accolto solo 11 delle 140 richieste di custodia cautelare (per quanto l’enorme differenza nel numero sia significativa), ma nell’esclusione tassativa dell’esistenza di una sorta di Supermafia che la procura ha creduto di aver individuato a Milano e al nord. Un “Consorzio” nuovo di zecca come associazione, frutto della fusione tra cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra di cui gli stessi procuratori delle Dda delle tre Regioni degli insediamenti storici di queste cosche, Sicilia, Calabria e Campania, avevano mai sospettato l’esistenza. Siamo alle luccioline per lanternone? Se il gip Tommaso Perna ha studiato anche, cosa di cui è stato accusato dai giornali che si nutrono delle veline dei pm, qualche scritto dell’avvocato Salvatore Del Giudice, ha fatto benissimo, perché sono molto approfonditi. Piuttosto, è singolare il fatto che quegli stessi quotidiani abbiano fatto notare come la figura dell’avvocato, nel processo, sia la parte avversa del pm, dando per scontato che agli scritti di questi ultimi dovrebbe se mai ispirarsi il giudice. Ma resta il fatto che la qualificazione del reato di associazione mafiosa non possa essere accertata se non secondo criteri “legali”. E che perché quello specifico reato esista occorre che l’associazione abbia effettivamente e in concreto in un determinato territorio mostrato la propria capacità di intimidazione. E bisogna accertare anche che di questa capacità la popolazione abbia una tale certezza da sentirsene intimorita e condizionata fino all’assoggettazione “spontanea” alla violenza del gruppo. Ora, nelle cinquemila pagine stese dalla procura di Milano, che ha avanzato le richieste dopo indagini durate quattro anni, il gip Perna non ha ravvisato gli elementi fondativi che mostrino come la gran parte degli indagati, alcuni dei quali apparteneva o era appartenuto nel passato a qualche associazione di tipo mafioso, abbia avuto la forza di costruire il “Consorzio” unificante delle tre mafie storiche come nuovo soggetto criminale. E che abbiano commesso reati avvalendosi di quella forza intimidatrice che ha posto come condizione per il 416-bis il legislatore quando lo ha introdotto nel codice penale, in seguito agli omicidi di Pio La Torre e del generale Dalla Chiesa. Situazione in fieri a Milano comunque, poiché la procura ha presentato ricorso al tribunale del riesame. Ma in un’altra regione italiana, la Calabria, potrebbe presentarsi un caso di studio di qualche interesse. La Dda di Catanzaro ha chiuso nei giorni scorsi un’inchiesta su 82 indagati del “clan degli zingari”, qualificando quel gruppo come associazione mafiosa. Non era mai successo che una procura della repubblica indagasse la comunità rom oltre che per reati specifici, in questo capo narcotraffico, estorsioni e detenzione di armi, anche per il reato previsto all’articolo 416-bis del codice penale. Uniformità in questo caso tra le parole pronunciate nella conferenza stampa dell’aprile scorso, in cui al fianco del procuratore Nicola Gratteri sedeva anche il Direttore centrale anticrimine della polizia Francesco Messina, con l’ordinanza del gip Filippo Aragona. Il cui contenuto però lascia qualche dubbio, che potrebbe trovare cittadinanza nei prossimi gradi di giudizio dell’eventuale processo. Perché il gip usa un particolare linguaggio nello spiegare come questo gruppo di nomadi a partire dal 2017 e dopo aver svolto il ruolo di manovalanza nelle associazioni mafiose dedite in particolare al narcotraffico, si sia reso autonomo. In questa nuova fase, scrive il gip Aragona, “le cosche mafiose storiche operanti a Catanzaro, Cutro e Isola di Capo Rizzuto hanno conferito ai capi del clan degli zingari doti di ‘ndrangheta…Tale apertura ha determinato le condizioni perché gli zingari progressivamente acquisissero l’expertise necessaria per costituire un gruppo indipendente operante nel settore degli stupefacenti, armi estorsioni e reati contro il patrimonio, avvalendosi della forza di intimidazione mafiosa”. Doti di ‘ndrangheta? Expertise? Saranno sufficienti perché altri giudici che saranno chiamati a decidere, se ci sarà un rinvio a giudizio, confermino l’esistenza di una nuova mafia, quella degli zingari? E solo in Calabria? L’imbarazzato silenzio dell’Anm se ad attaccare un giudice è un pm di Valentina Stella Il Dubbio, 1 novembre 2023 Nessuna presa di posizione da parte del sindacato delle toghe dopo l’attacco subito da Perna, il gip di Milano che non ha accolto le richieste d’arresto della procura antimafia. Silenzio da parte dell’Anm nazionale e locale intorno alla vicenda che ha coinvolto il gip milanese Tommaso Perna, che non ha accolto la richiesta di 143 arresti da parte della procura antimafia attirando su di sé pesanti critiche da parte dei media ma anche la contromossa della procura nel suo ricorso già depositato al Riesame, in cui lo accusa, impropriamente, di fare ‘copia e incolla’ da un blog di un avvocato. In un clima avvelenato, ad intervenire a difendere il collega solo il presidente del Tribunale di Milano, Fabio Roia: “Il controllo del gip - ha scritto in una nota - lungi dal dover essere classificato come una patologia evidenzia il fondamentale principio dell’autonomia della valutazione giurisdizionale in un sistema organizzativo e tabellare che impone il rispetto del principio del giudice naturale e che, quindi, è indicato secondo criteri oggettivo e predeterminati e non è scelto secondo criteri preferenziali”. Per il resto, tutti trincerati in un imbarazzante mutismo. Abbiamo chiesto una dichiarazione anche al dottor Leonardo Lesti, da non molto presidente della sezione locale dell’associazione nazionale magistrati, ma ci ha risposto in pratica con un ‘no comment’. Il sostituto procuratore Lesti è un indipendente, ritenuto una persona seria dai colleghi, mai appartenuto ad una corrente anche se nella elezione che lo ha portato al vertice dell’Anm milanese si è presentato nella lista della (fu) corrente Autonomia e indipendenza, della quale faceva parte pure Alessandra Dolci, a capo della Dda del capoluogo lombardo, nonché moglie di Piercamillo Davigo, la cui tesi investigativa è stata smontata da Perna. Le due circostanze appena descritte, come ci riferiscono alcune fonti dell’Anm, potrebbero lasciar pensare che non sia in grado di gestire questa complessa situazione. Anche da Roma tutto tace, benché la prima mossa sarebbe dovuta venire probabilmente dall’Anm locale più a conoscenza diretta dei fatti. Abbiamo interpellato anche i singoli gruppi associativi ma l’unico a parlare con noi è stato il neo eletto Segretario di AreaDg, Giovanni Zaccaro, che ha preso il posto di Eugenio Albamonte da meno di una settimana: “Innanzitutto, la circostanza che un gip ha rigettato la richiesta di misura cautelare dimostra che i giudici non sono appiattiti sui pm. Per il resto, vale per tutti il principio che si può criticare - anche aspramente - la motivazione di una decisione ma non chi la prende perché così si delegittima la giurisdizione. Non so cosa farà l’ANM Milano, non conosco il suo presidente, le sue idee e le sue intenzioni. So che il gruppo di Area è molto sensibile al tema”. Tutto questo cosa ci porta a dire? Che forse l’Anm usa due pesi e due misure in certe circostanze: quando ad attaccare un magistrato è un partito politico o il Governo scatta quasi un riflesso pavloviano di difesa del collega e della sua autonomia e indipendenza, mentre quando i dissidi sono interni si preferisce soprassedere e dei principi costituzionali, spesso sbandierati anche eccessivamente, ci si dimentica. Basti ricordare il caos Artem Uss: il ministero della Giustizia Carlo Nordio ha avviato un procedimento disciplinare contro i giudici della Corte d’Appello di Milano, incolpandoli di “grave e inescusabile negligenza” per avergli concesso il 25 novembre 2022 gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, al posto del carcere. E per questo l’Anm convocò un’assemblea a giugno. Poi spostandoci ai giorni nostri abbiamo assistito al duro scontro tra magistratura associata e governo dopo il video pubblicato da Salvini in cui si vedeva la giudice Iolanda Apostolico, che aveva bloccato l’ingresso di otto migranti nel Cpr di Pozzallo, ad una manifestazione per liberare cinque anni fa i migranti dalla nave Diciotti. Ed anche per questo a fine novembre è convocata un’altra assemblea. Invece nessuna parola spesa per Tommaso Perna, figuriamoci una richiesta di pratica a tutela da parte del Csm: sarebbe troppo impopolare dover chiedere di tutelarlo dagli attacchi subiti internamente dalla Dda milanese che, a quanto appreso, non ha trovato sostegno nella sua iniziativa neanche dalle altre Dda coinvolte. Comunque quanto successo contro Perna avvenne due anni fa per la strage del Mottarone: la gip Donatella Banci Bonamici, contro il parere del procuratore Olimpia Bossi, scarcerò tre indagati. Immediatamente fu fuoco amico e gogna mediatica sulla gip ma nessuno la difese. Sappiamo che i tempi di risposta dell’Anm spesso solo lunghi ma ci auguriamo di veder smentita la nostra teoria entro la settimana e di poter leggere un comunicato nel quale il ‘sindacato’ delle toghe “denuncia i tentativi di delegittimazione subiti dal Giudice per le indagini preliminari di Milano e manifesta la propria approvazione per l’autonomia e imparzialità dimostrata nell’esercizio funzioni di controllo e verifica delle richieste cautelari del P.M.; sottolinea l’esistenza di un pericoloso attacco all’autonomia della giurisdizione, portato sia dall’interno, che dall’esterno alla magistratura”. Sapete a chi appartengono paradossalmente questi virgolettati che sarebbero dovuti essere pubblicati immediatamente dall’Anm? Alla giunta dell’Unione delle Camere Penali che si è espressa sul caso, ovviamente altresì per ribadire la necessità di una riforma ordinamentale che preveda due Csm separati. Ma questo è un altro capitolo. Cassazione. Stefano Cucchi, in prescrizione il reato di falso per i due carabinieri Tedesco e Mandolini Il Manifesto, 1 novembre 2023 Bastano poche parole a Ilaria Cucchi per trasmettere tutta la sua amarezza: “Roberto Mandolini colpevole, salvato dalla prescrizione”. La sorella di Stefano Cucchi, il giovane goemetra romano morto nel 2009 dopo essere stato arrestato per possesso di droga, affida ai social la delusione per la decisione della Corte di cassazione di dichiarare prescritto il reato di falso per il maresciallo Mandolini, all’epoca dei fatti comandante della caserma Appia, e per il carabiniere Francesco Tedesco, che aveva assistito al pestaggio e grazie alla cui testimonianza si sono riaperte le indagini e si è giunti alla verità processuale. I due militari, condannati nel luglio scorso nel corso del processo di Appello bis a 3 anni e sei mesi (Mandolini) e 2 anni e 4 mesi (Tedesco), avevano presentato ricorso in Cassazione. E i giudici della Suprema Corte hanno annullato senza rinvio, riconoscendo il reato estinto per intervenuta prescrizione. Il procuratore generale in udienza aveva chiesto di dichiarare non ammissibili i ricorsi, in modo da mantenere la sentenza emessa a luglio, prima della prescrizione del reato. Se i giudici avessero accolto il ricorso, invece, ci sarebbe stato un nuovo processo d’Appello. La terza opzione, quella scelta dagli ermellini, ha di fatto “salvato” i due carabinieri accusati di avere falsamente attestato, nel verbale di arresto di Cucchi, la rinuncia da parte del giovane romano alla nomina del difensore di fiducia. I due militari sono stati processati nei tre gradi di corte d’Assise insieme ai carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, condannati in Cassazione ad aprile 2022 per l’omicidio preterintenzionale del giovane pestato a sangue dopo l’arrestato effettuato ad ottobre 2009 a Roma. In quella stessa circostanza (aprile 2022) la Cassazione aveva rinviato gli atti in Appello per le sole posizioni di Mandolini e Tedesco poi condannati in secondo grado con sentenza dello scorso luglio. Sardegna. Dichiarata la morte cerebrale della direttrice di Badu e Carros di Fabio Ledda L’Unione Sarda, 1 novembre 2023 È stata dichiarata la morte cerebrale di Patrizia Incollu, direttrice del carcere Badu e Carros di Nuoro, coinvolta nel pauroso incidente sulla statale 389, in cui era morto l’assistente capo coordinatore nel carcere nuorese, Peppino Fois. Il verdetto dei medici questo pomeriggio, poco dopo le 19, nel reparto di Rianimazione all’ospedale di Nuoro, dov’era stata ricoverata subito dopo lo schianto in condizioni gravissime. L’incidente era avvenuto lo scorso 19 ottobre sulla Nuoro-Lanusei. Incollu e Fois stavano tornando dal carcere di Lanusei, dove insieme avevano passato una lunghissima giornata di lavoro ed erano attesi nella casa circondariale di Badu’e Carros. Ma il viaggio di ritorno di Peppino Fois, assistente capo coordinatore nel carcere nuorese, e della direttrice dell’istituto, Patrizia Incollu, si è interrotto improvvisamente al chilometro 18 della statale 389. La loro auto, una Skoda Octavia si è scontrata frontalmente con il camion di un operaio di Fonni, Bruno Loche. L’agente, 52 anni originario di Illorai, è morto praticamente sul colpo, nonostante diversi tentativi di rianimazione da parte dei medici del 118. La dirigente del carcere invece, dopo esser stata rianimata, era stata trasportata in gravissime condizioni all’ospedale San Francesco, dov’è rimasta ricoverata per dodici giorni nel reparto di Rianimazione in condizioni gravissime. Sino a questa mattina, quando le sue condizioni sono improvvisamente precitate: alle 12 e 30 è stata avviata la procedura, durata poco più di sei ore. Poco dopo le 19 l’esito peggiore. Sardegna. Patrizia Incollu camminava leggera sull’isola-carcere di Giampaolo Cassitta La Nuova Sardegna, 1 novembre 2023 Ci eravamo conosciuti all’Asinara. Io educatore, lei fresca vincitrice di un concorso per operatore amministrativo. Erano i primi anni novanta ed eravamo giovani, aggrappati alla vita e a un futuro tutto da disegnare. Patrizia Incollu costruiva sorrisi con gli occhi, camminava leggera su quell’isola carcere. Avrebbe poi partecipato al concorso per direttori e l’avrebbe vinto. Perché era brava, perché era determinata. Perché quello era il suo mestiere. Un mestiere ruvido, con molte strettoie e pochissime pianure. Il direttore di un carcere è come una vera e propria missione: difficile, complicata, a volte intrigante a volte quasi inutile. Si lavora sul filo delle opportunità e della paura. Quella di non farcela, quella di non riuscirci, quella di non essere all’altezza. Patria Incollu era nata direttrice. Lo si capiva da subito, dalle sue pause, dalla sua voglia di ascoltare e intervenire, da quel suo modo pragmatico di vedere le cose, di annusarle e di provare a risolverle. Ha diretto moltissimi istituti, soprattutto Sassari San Sebastiano, Sassari Bancali e Nuoro. È stata anche a Mamone, a Tempio, a Lanusei e in quella strada ha restituito gli ultimi attimi della sua vita terrena. Perché questo è un altro discorso che riguarda i penitenziari della Sardegna ed è un discorso squisitamente politico. Non ci sono direttori e quelli che ci sono occupano tutti gli istituti. È così da anni e, conoscendo le politiche del Dipartimento, sarà così per altri anni. Ci sarà qualcuno che verrà per qualche mese, per qualche anno e poi lascerà questa terra gonfia di carcere e di detenuti che non sono i suoi. Abbiamo oltre duemila posti a disposizione per una popolazione detentiva sarda che non supera le 800 unità. Non avevamo bisogno di quelle carceri disegnati ai confini dell’ignoto, non ne avevamo bisogno perché il tasso di delinquenza in Sardegna è tra i più bassi d’Italia. Avremmo dovuto chiudere il carcere di Lanusei nel 2014 ed era quasi fatta ma c’era il Tribunale e gli interessi di bottega sono sempre più importanti della programmazione e della vita di chi in carcere ci vive e ci soffre tutti i giorni. Così Lanusei è rimasto aperto e da anni senza nessun direttore. Con pochissimi detenuti e con una spesa assurda e, adesso, anche con il sangue di un poliziotto e di una direttrice. Quante saranno le parole che si leveranno a chiedere una politica penitenziaria degna di questo nome? E quanti saranno i fatti? Patrizia Incollu ha lasciato domande inevase, ha lasciato un vuoto incolmabile, ha lasciato la rabbia e l’impotenza di chi tutti i giorni nelle carceri ci lavora per restituire dignità ha chi ha sbagliato, per garantire la sicurezza ai cittadini, per onorare uno Stato oggi distratto e lontano. Suoneranno le campane a morto, suoneranno le parole e le promesse in una terra ormai lontana e abbandonata. Quanto tempo ci vorrà ancora affinché ogni Istituto penitenziario abbia un dirigente effettivo senza che questo viaggi tutti i giorni per le strade tortuose dell’isola ma si limiti soltanto ad appianare le strade di chi ha sbagliato? Patrizia Incollu sarà quel grido ultimo, quella richiesta di dignità per tutti i lavoratori dei penitenziari sardi? Lo spero, ma non ne sono convinto. Troppo silenzio, troppa poca forza nelle scelte, troppo poco Stato da queste parti. E la vita di una direttrice ha concluso di correre e sperare. Lei, che ha fatto ballare il candeliere a Bancali ci ha regalato l’ultimo sguardo acerbo, duro, triste. Ed è difficile, davvero, poter dire “fallo ballare”. Milano. Detenuto a Opera muore, la famiglia chiede “verità” di Eleonora Martini Il Manifesto, 1 novembre 2023 Oggi a Milano, alle 15 in piazzale Cadorna, nei pressi del carcere di San Vittore, un presidio a sostegno delle richieste dei parenti. Di sicuro si sa solo che è morto il 26 ottobre nella clinica Humanitas di Milano, il detenuto bergamasco Oumar Dia, proveniente dal carcere di Opera. Non è chiaro il motivo della sua morte: suicidio, malattia o, come sospettano alcuni amici e parenti, forse perfino “altro”. Aveva 21 anni e doveva scontare una pena di 4 anni e sei mesi, in tutto, per una serie di reati tra cui una rapina di un cellulare avvenuta tre anni prima (fine pena 2027). Era stato arrestato a giugno e rinchiuso nel penitenziario di Bergamo, la sua città di residenza. Il primo ottobre era stato trasferito ad Opera. E qui sorge il primo interrogativo: come mai un detenuto che deve scontare una così breve pena viene trasferito? Di solito, spiega il garante dei detenuti di Milano Franco Maisto che si sta interessando al caso, chi sconta pene così brevi viene trasferito semmai a Bollate. La famiglia non sarebbe stata avvisata neppure del trasferimento. Le notizie apparse sul web dopo la notizia del decesso parlavano addirittura di un cadavere riconosciuto dai familiari nell’”obitorio di San Vittore”. Ma, a parte il fatto che San Vittore non dispone di un obitorio, nel carcere del centro cittadino Oumar Dia sarebbe passato solo per tre giorni nel 2021, secondo quanto ricostruito da Antigone Milano. Secondo Radio Onda d’Urto, “la mamma, arrivata all’obitorio, denuncia di avere trovato “il corpo del figlio legato con dei fili, mentre era passata ben una settimana dalla morte biologica”“. Voci che non è possibile confermare. Sappiamo però che il 20 ottobre viene ricoverato nell’ospedale convenzionato Humanitas. Le motivazioni non sono chiare: si parla di una malattia improvvisa ma anche di uno o addirittura più tentativi di suicidio negli ultimi tempi. Il ragazzo muore sei giorni dopo. Ma - ed ecco un altro importante passaggio non chiaro - il 23 ottobre gli viene notificata la detenzione domiciliare, per incompatibilità con il carcere per motivi di salute. Dunque quando muore non è più “piantonato” in ospedale e non è più in carico all’amministrazione penitenziaria. La procura - come di prassi - ha aperto un fascicolo, per il momento senza ipotesi di reato né indagati. Oggi a Milano, alle 15 in piazzale Cadorna, nei pressi del carcere di San Vittore, l’associazione No peace without justice ha indetto un presidio di sostegno alle richieste di “verità” della famiglia. Milano. La scuola va in carcere, per imparare. “Così proviamo a prevenire i reati” di Viviana Daloiso Avvenire, 1 novembre 2023 I percorsi di giustizia riparativa a Opera vengono condivisi con gli studenti delle medie e diventano occasione di confronto educativo nelle aule degli istituti di periferia. Come al Gratosoglio. Ryan ripete che no, il carcere non se l’aspettava così. E nemmeno la barca raffigurata nella grande stanza allestita appositamente per la classe. Evoca quella affondata a Lampedusa il 3 ottobre di dieci anni fa, col suo carico di 368 vite. I ragazzi ci girano attorno e osservano gli oggetti raccolti e imbustati nella plastica: cellulari, scarpe, “una pagella che sembra la mia”. Li ha portati il medico legale Cristina Cattaneo, che li ha raccolti nel suo lungo lavoro di ricerca sui naufragi nel Mediterraneo. I detenuti sono seduti poco lontano, partecipano al laboratorio in cui si costruiscono salvagenti di cartone e si tenta di mettere in parole l’emozione di una canzone di De André. Uno racconta la sua storia di morte e di dolore, la platea ascolta in silenzio: la sua, di barca, l’ha portato in carcere. Un altro spiega come la barca, dietro quelle sbarre, viene trasformata in violini grazie al progetto Metamorfosi; come ogni morte e ogni dolore possano “suonare”, per trovare un senso e farne bagaglio per gli altri. Ci sono i ricordi dei migranti affogati, i professori e i giudici, i ladri e gli assassini, ci sono i parenti delle loro vittime. E poi ci sono gli studenti delle scuole medie, che in gita - proprio così - son venuti a vedere la vita dietro le sbarre di Opera. Dove non ci sono solo la colpa, e la pena, ma qualcosa da costruire e ricostruire insieme. Chiamatela giustizia riparativa, ma aggiungete l’ambizione di farne strumento educativo e sociale. A coltivarla, da ormai vent’anni, è il pm milanese Francesco Cajani, che per lavoro si occupa di metter dentro chi compie reati e per passione prova a ricostruire lo strappo che quei reati hanno determinato fuori. O che potrebbero determinare, se nessuno pensa di spiegare prima ai ragazzi (quelli “a rischio”, ma non solo) di che cosa stiamo parlando. È il punto di partenza del Gruppo della Trasgressione creato alla fine degli anni Novanta dallo psicoterapeuta Angelo Aparo a San Vittore, che riunisce ogni settimana nei penitenziari milanesi decine di studenti, universitari, magistrati, giudici, detenuti ed ex detenuti: “Il lavoro con lui nacque come un “patto tra macellai” - scherza Cajani -, io da buon educatore scout gli proposi uno scambio di prigionieri: carne giovane contro carne meno giovane, i primi prigionieri dei preconcetti tipici dei loro 19 o 20 anni, i secondi delle mura del carcere. In comune il desiderio di evadere, prima di tutto da se stessi, per mettersi a nudo ed essere fatti a pezzi per poi cambiare”. Progetto dopo progetto, incontro dopo incontro, quell’intuizione fa strada: Cajani, insieme ad alcuni colleghi e amici (il giornalista Carlo Casoli, il criminologo Walter Vannini), incontra Libera, ne nasce il documentario “Lo strappo. Quattro chiacchiere sul crimine” che viene portato ai convegni, agli incontri con le associazioni, ai ragazzi, il carcere inizia ad aprirsi alla società e viceversa, coi familiari delle vittime di mafia che entrano per la prima volta ad Opera il 21 marzo del 2017 a leggere i nomi dei loro cari morti per mano criminale. Fino a qui, a oggi, a questa scuola - siamo alla periferia sud di Milano, quartiere difficile del Gratosoglio - dove la “gavetta” può succedere che si faccia in carcere, i detenuti sono spesso eroi e i reati stellette da apporre alla felpa di marca tarocca, già alle medie. La linea di frontiera si chiama istituto comprensivo Arcadia: oltre la metà dei ragazzi nelle aule sono nati da famiglie straniere, oltre il 10% è costituito da minori non accompagnati e stranieri neoarrivati (per ricongiungimenti familiari o per recente immigrazione), 4 su 10 hanno bisogni speciali, molti provengono da famiglie in difficoltà economica. Sono anche loro ad essere entrati ad Opera, meno d’un mese fa, e oggi in classe il pubblico ministero è venuto a trovarli per chiedere loro se quella giornata li ha cambiati e come. Alice alza la mano col suo sorriso gioioso: “Ho sempre visto il carcere come un posto dove non si vuole andare, scuro, triste. E invece mi sono trovata a mio agio, sembra strano. Le storie che ho sentito raccontare mi hanno colpito”. L’incontro coi detenuti è stato emozionante anche per Simone: “A me uno di loro s’è avvicinato - racconta - e mi ha parlato dell’erba, che non calpesta da vent’anni. M’ha detto che devo capire, quanto sono fortunato, a poterlo fare io. Mi ha chiesto di non fare il suo errore”. In classe si rincorrono le risatine, finché Cajani non tira fuori la lettera che si è ritrovato tra le carte di quel giorno. L’ha scritta proprio quel detenuto, dicendo “Grazie, ragazzo, che sei venuto qui. Oggi voi mi avete dato speranza, mi avete fatto toccare quell’erba con la vostra semplicità”. Sentirlo dire ad alta voce lascia tutti immobili, per un istante. Poi Rebecca chiede “ma perché? Perché abbiamo fatto questa cosa?”. E Cajani risponde: “Per farvi vedere coi vostri occhi che c’è luce, che c’è il verde”. Oltre il carcere, oltre il male che in carcere può portare. A novembre i ragazzi potranno tornare ad Opera con le proprie famiglie per assistere al concerto dei violini e chiudere idealmente il cerchio della loro esperienza: “Non so quanti saranno, non so se a tutti questa esperienza avrà lasciato qualcosa di tangibile - spiega ancora Cajani - ma vorremmo che questo fosse un progetto pilota, vorremmo che nelle scuole, tutte, questo messaggio arrivasse e che questa esperienza, insieme a quella del Gruppo della Trasgressione, fosse considerata dalle istituzioni come un patrimonio comune da mettere a frutto”. Dove “trasgressione” sta per coraggio di riconoscere il proprio errore (dentro e fuori dal carcere), “punizione” per il diritto ad essere giustamente puniti (recuperando dignità e relazioni) e “giustizia” per il rammendo allo strappo che potrebbe e dovrebbe non consumarsi più. A scuola, prima che dietro le sbarre. Pisa. Garante dei detenuti: aperto il bando per presentare le candidature comune.pisa.it, 1 novembre 2023 Scadenza fissata per mercoledì 15 novembre. “Una figura - dichiara l’assessore alla pari opportunità Gabriella Porcaro - istituita dal Consiglio Comunale per tutelare la vita delle persone che si trovano ristrette all’interno degli Istituti di pena affinché non si sentano invisibili e lese nella propria dignità, ma siano inserite in percorsi di graduale recupero mediante il riconoscimento dei diritti garantiti dalla Costituzione. La figura del Garante costituisce il riconoscimento di come le persone private della libertà personale siano parte integrante della cittadinanza, siano riconosciuti titolari di molteplici diritti fra cui quello della partecipazione alla comunità locale attraverso politiche di integrazione, di promozione delle relazioni tra società dei detenuti e società dei liberi per rendere effettivo il principio costituzionale del reinserimento sociale. Il carcere non è uno spazio estraneo alla comunità ma un luogo dove le vite devono poter cambiare, ripartire e ricominciare. Il Garante dovrà preservare l’incolumità e garantire i diritti dei detenuti e assicurare un costante dialogo con le istituzioni, le associazioni e gli altri soggetti coinvolti nel mondo penitenziario. È infatti interesse dell’intera comunità che i detenuti siano riabilitati nel tessuto sociale al fine di ridurre il tasso di recidiva”. Per presentare domanda c’è tempo fino al 15 novembre. La funzione di Garante oltre al possesso di comprovata competenza nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani ovvero delle attività sociali negli istituti di prevenzione e pena e nei centri di servizio sociale, richiede la massima garanzia di probità, indipendenza, obiettività e competenza. E’ possibile presentare domanda tramite Pec scrivendo a comune.pisa@postacert.toscana.it o consegnandola a mano all’Ufficio Relazioni con il Pubblico, lungarno Galilei n. 43 - Palazzo Pretorio - nei giorni da lunedì a venerdì dalle ore 8,30 alle ore 12,30 con apertura pomeridiana martedì e venerdì dalle ore 15,00 alle ore 17,00. Il bando è consultabile al seguente link: https://albopretorio.comune.pisa.it/web/trasparenzaj/papca-p/-/papca/display/3750922?p_auth=ZbviupGq Castelfranco Emilia (Mo). Un progetto di recupero detenuti: “Lavoriamo al loro reinserimento” di Marco Pederzoli Il Resto del Carlino, 1 novembre 2023 L’iniziativa prevede la convivenza in un appartamento seguiti da personale specializzato. Poi con associazioni e imprese si cercherà di facilitarne il coinvolgimento lavorativo e formativo. Quattro persone internate all’interno della Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia avranno presto un’opportunità del tutto inedita per reinserirsi nella società. Ad annunciarlo è stata in questi giorni l’amministrazione comunale di Castelfranco, nell’ambito delle iniziative della settimana della salute mentale “Màt”, che ha visto in questa edizione una serie di eventi. Il progetto prenderà il via già nelle prossime settimane ed è finanziato da Cassa delle Ammende e dalla Regione. A favore di 4 internati saranno attivati nel biennio 2024-2025 percorsi sperimentali d’inclusione sociale, abitativa e inserimento lavorativo. “I quattro soggetti a cui è rivolto il progetto - spiegano dall’amministrazione comunale - saranno avviati a un percorso verso la valutazione della revoca della misura di sicurezza da parte del Magistrato di sorveglianza. In sostanza, per due anni queste quattro persone condivideranno un appartamento a Castelfranco Emilia, seguiti da educatori e personale specializzato, in un percorso che ha come obiettivi l’empowerment (percorsi sul rafforzamento della persona e il reinserimento sociale), percorsi formativi e inserimento lavorativo. Per realizzare il progetto, sarà necessario costruire una rete, all’interno del Patto per il Lavoro territoriale, con le associazioni di categoria, di volontariato e le imprese. L’obiettivo è quello di facilitare l’inserimento formativo e lavorativo dei detenuti. Il progetto si inserisce nel quadro degli interventi che l’Unione dei comuni del Sorbara e l’amministrazione comunale di Castelfranco Emilia hanno messo in campo negli anni per favorire il benessere dei detenuti, la prevenzione terziaria e percorsi di inclusione”. Il sindaco Giovanni Gargano commenta: “Il progetto sperimentale vedrà una forte integrazione fra l’Ufficio per l’esecuzione penale esterna, gli Istituti di pena, i servizi sociali territoriali, l’azienda Usl e i Servizi della formazione e del lavoro, per sperimentare un modello d’intervento che possa essere riconosciuto come una buona prassi e messo a sistema in quest’ambito, dando gambe a valori costituzionali quali rieducazione e reinserimento”. La vicesindaca con delega al welfare Nadia Caselgrandi aggiunge: “Il percorso vede in campo diversi soggetti (nei settori sociale, sanitario, educativo, detentivo) che attraverso attività multiprofessionali assicureranno il controllo e il sostegno al progetto, che sarà strettamente monitorato per verificarne anche la possibile futura sostenibilità e diffusione”. Oristano. Carcere, un progetto-pilota per la medicina penitenziaria a Massama asl5oristano.it, 1 novembre 2023 La Asl 5 di Oristano ha messo in campo un progetto pilota per rispondere al fabbisogno di medici di medicina penitenziaria nel carcere di Massama, che ha avuto il parere favorevole dei sindacati. Un progetto straordinario per rispondere al fabbisogno di medici di medicina penitenziaria nel carcere oristanese di Massama. È la soluzione messa in campo dalla direzione generale della Asl 5 di Oristano, che questo pomeriggio ha ricevuto anche il parere favorevole dei sindacati. Previsti incentivi per i medici già operanti nel carcere per coprire i turni rimasti scoperti a causa della carenza di medici nello stesso istituto penitenziario. “Siamo soddisfatti”, ha esordito il direttore generale della Asl 5, il dottor Angelo Maria Serusi, “riusciremo così a garantire il servizio sanitario nel carcere di Oristano con una condizione di maggiore sicurezza sanitaria dei detenuti, ospiti nella struttura penitenziaria”. L’obiettivo del progetto straordinario di assistenza penitenziaria della Asl di Oristano ha come finalità la copertura dei turni dei medici nelle 24 ore nel carcere di Massama. Questo progetto pilota prevede incentivi economici per i medici, che già lavorano nella casa di reclusione di Oristano e che si metteranno a disposizione per coprire i turni rimasti scoperti. “La Asl 5 di Oristano richiederà comunque ad ARES Sardegna la pubblicazione di ulteriori bandi per il reclutamento di medici di medicina penitenziaria, con l’auspicio che questo progetto pilota motivi anche nuovi medici a mettersi a disposizione per prestare servizio nel carcere di Massama”, ha spiegato sempre il dottor Serusi. Ieri pomeriggio nella sede della Asl 5, in via Carducci, la direzione generale ha sottoscritto un Accordo Attuativo Aziendale con i sindacati, che hanno accolto favorevolmente questo progetto pilota. Erano presenti per la Fimmg Fabrizio Atzei e Peppino Canu, per il Smi Ornella Flore e per la Cisl Medici Antonella Meloni. Per la direzione generale della Asl 5 il direttore generale, il dottor Angelo Maria Serusi, il direttore sanitario, il dottor Antonio Maria Pinna, il direttore amministrativo, la dottoressa Maria Rosalba Muscas, il direttore del distretto sanitario di Oristano, il dottor Peppinetto Figus. Adolescenti difficili, il carcere e il recupero: non buttate via la chiave di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 1 novembre 2023 La storia di Bruno Mazza, il fondatore di “Un’infanzia da vivere”: da dodici anni di detenzione all’impegno per strappare i ragazzini dalla strada e dalla camorra. “Mio padre è morto quando avevo 12 anni. Mia madre da sola non ce la faceva. Io e i miei fratelli eravamo difficili. Io la prima media l’ho ripetuta per sei volte, nessuno a scuola capiva che era difficile. (...) Del gruppo dei miei 14 amici nessuno aveva i genitori. Erano tutti morti o tutti in carcere. Ma adesso anche i miei 14 amici sono tutti morti: assassinati o per overdose. Pure mio fratello è morto per droga, tutti qua muoiono per droga. Mi sono salvato perché in carcere mi sono avvicinato alla scuola. (...) A me la scuola in carcere mi ha salvato. Lì ho capito realmente cosa fosse la libertà. E quindi da lì ho iniziato a vivere”. La storia di Bruno Mazza, il fondatore di “Un’infanzia da vivere” che dopo aver passato dodici anni in carcere cerca ora di strappare alla strada e alla camorra i ragazzini allo sbando come era lui è una delle tante raccontate da Anna Spena nell’ebook “Caivano non è persa” (Vita ed.). Una storia che dovrebbe spingere a riflettere quanti invocano di sbattere gli adolescenti difficili in galera e “buttar via la chiave”. L’avessero buttata via con Bruno Mazza sarebbe stato un delitto. La Corte europea dei Diritti dell’Uomo cambiava volto 25 anni fa di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2023 Il suo peggior nemico? Il sovranismo. Il 1° novembre 1998, esattamente 25 anni fa, entrava in vigore il Protocollo 11 alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che cambiava il volto della Corte di Strasburgo e la rendeva quello strumento potente di tutela dei diritti umani che oggi conosciamo. Quello di una giustizia sovranazionale che protegga i diritti di tutti è stato un grande sogno europeo del secondo dopoguerra, e speriamo che continui a esserlo. Nel 1959 entrò in funzione a Strasburgo, in seno al Consiglio d’Europa, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Nei decenni successivi si cercò di renderne sempre più effettiva la capacità di impatto. Con il Protocollo 11 si parla addirittura di “nuova Corte”, tanto è fondamentale la rivoluzione che esso opera. Finalmente i cittadini possono accedere alla Corte senza filtri, qualora ritengano violato uno dei diritti protetti dalla Convenzione del 1950. La sola condizione è l’aver prima esperito senza esito i rimedi giurisdizionali nazionali. Dopo il ‘98 i ricorsi seguiti dalla Corte di Strasburgo diventano infatti moltissimi. Ma non è questo il solo motivo per cui il 1998 fu un anno fondamentale per la giustizia internazionale. Pochi mesi prima, il 17 luglio, era stato firmato a Roma lo Statuto della Corte Penale Internazionale, che prevedeva la possibilità per un tribunale sovranazionale di giudicare i crimini contro l’umanità (genocidio, tortura) e i crimini di guerra. È stato il crescente sovranismo, in questi venticinque anni, il peggiore nemico della giustizia internazionale. Le grandi potenze - prime tra tutte Usa, Russia e Cina - non hanno mai aderito alla Corte e hanno anzi tentato di sabotarla. Crescente è stata anche l’insofferenza di una parte dei governi europei nei confronti dell’attivismo dei giudici di Strasburgo in materia di diritti umani. Non di rado è accaduto che gli Stati non abbiano rispettato i contenuti delle sentenze di condanna. Quando un ricorso è accolto dalla Corte, oltre alla condanna dello Stato a risarcire il ricorrente, potrà aversi la necessità di modificare una legge, di introdurne una nuova, di cambiare una politica amministrativa per evitare future analoghe violazioni di diritti. Ed è allora che il mantra del mondo sovranista continua a ripetere che “a casa mia faccio quello che voglio”. Lo sentiamo reiterare di fronte a condanne su temi che hanno a che fare con scelte populiste da parte dello Stato. Non è un caso che nelle campagne pro-Brexit si evocava l’uscita dal sistema di controllo giurisdizionale di Strasburgo. Va sempre ricordato che la storia dei diritti umani e delle libertà civili ha origine proprio in Europa. La straordinarietà della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo va preservata, se non ulteriormente rafforzata. Ogni anno circa 70.000 ricorsi pendono davanti ai giudici europei. Un numero enorme, che vede gli italiani buoni protagonisti. Se gli Stati offrissero maggiori risorse economiche al Consiglio d’Europa, le procedure decisionali potrebbero venire velocizzate. Nel campo della giustizia penale e dei diritti delle persone private della libertà, si sono avute sentenze di enorme rilievo giurisdizionale e politico che nel nostro Paese hanno messo in moto processi di riforma altrimenti impossibili. Se non avessimo avuto, a partire dal 2015, le sentenze relative alle torture nella scuola Diaz di Genova durante il G8 del 2001, non avremmo avuto una legge che nel 2017 ha finalmente introdotto il reato di tortura nel codice penale italiano, permettendo oggi di perseguire davvero chi si macchia di questo delitto. Se non avessimo avuto la sentenza Torreggiani del 2013, non ci sarebbe stata una presa di coscienza sul sovraffollamento carcerario quale causa di oggettiva violazione della dignità umana delle persone recluse e non avremmo avuto probabilmente l’istituzione del Garante Nazionale delle persone private della libertà. Il sovranismo produce tragedie. In un periodo drammatico di guerre come quello che stiamo vivendo, ricordiamoci che non bisogna mai subordinare il diritto e i diritti alla pericolosissima ragion di Stato. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Migranti. Tribunale di Firenze, tre nuove sentenze dicono che la Tunisia non è un paese sicuro di Giansandro Merli Il Manifesto, 1 novembre 2023 Secondo i giudici la valutazione del governo sul paese governato da Kais Saied non è più valida. L’ultimo aggiornamento risale a ottobre 2022 ma da allora le condizioni democratiche e di sicurezza si sono deteriorate. Ci sono tre nuove sentenze del tribunale di Firenze che vanno a toccare il perno della strategia governativa di contrasto dei flussi migratori nel Mediterraneo: la Tunisia di Kais Saied. Secondo i giudici toscani quel paese non può più essere considerato “sicuro”. La data in calce ai documenti è il 25 ottobre 2023, la firma quella del presidente del collegio Luca Minniti. Come per l’analoga decisione del 20 settembre scorso che, insieme alle non convalide del trattenimento dei richiedenti asilo da parte del tribunale di Catania, aveva mandato su tutte le furie l’esecutivo Meloni. Proprio a quel provvedimento si sono appellati tre cittadini tunisini che hanno impugnato quanto deciso dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Firenze. In due casi la richiesta di asilo era stata giudicata “inammissibile”, in uno “manifestamente infondata”. Per tutti la stessa ragione: la Tunisia è nella lista dei paesi considerati sicuri dal governo italiano. Il tribunale però, riaffermando lo stesso ragionamento giuridico della prima sentenza, ritiene che quella valutazione non sia più valida. Perché l’ultimo aggiornamento risale al 28 ottobre 2022 e da allora sono cambiate molte cose, proprio sui punti salienti della scheda relativa al paese di Saied. In particolare è rilevata una forte limitazione dell’indipendenza della magistratura attraverso destituzioni e arresti di massa, un crollo della partecipazione alle elezioni politiche di dicembre 2022 (fino al 9% dell’elettorato) e dei livelli di trasparenza delle stesse, il deterioramento delle condizioni di vita di migranti e rifugiati documentato da Unhcr e Consiglio d’Europa. “Ad oggi gli elementi che hanno portato l’Amministrazione a ritenere che la crisi del sistema democratico tunisino non fosse talmente grave da determinare la sua esclusione dalla lista paesi sicuri, devono esser riconsiderati alla luce di alcuni recentissimi e gravi sviluppi che hanno riguardato proprio alcuni degli elementi valorizzati dall’amministrazione in sede istruttoria”, si legge nella decisione dei giudici. Del resto la revisione periodica della lista dei paesi sicuri è un obbligo previsto dalla cosiddetta “direttiva procedura” dell’Ue. “Quando gli Stati membri vengono a conoscenza di un cambiamento significativo nella situazione relativa ai diritti umani in un paese designato da essi come sicuro, dovrebbero provvedere affinché sia svolto quanto prima un riesame di tale situazione e, ove necessario, rivedere la designazione di tale paese come sicuro”, recita il considerando 48. La premessa a tutto il ragionamento è il potere/dovere dei giudici di valutare la classificazione. Un punto delicato perché nelle scorse settimane il governo ha sostenuto che non spetti ai magistrati immischiarsi nei rapporti internazionali con altri Stati e la decisione sia soltanto politica. Il 13 ottobre il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano aveva dichiarato che le corti non possono sostituirsi “a organi nazionali o sovranazionali nel qualificare le relazioni tra gli Stati”. In generale secondo Mantovano, che è politico e magistrato, il giudice è chiamato ad applicare la norma a meno che non dubiti motivatamente della sua coerenza con la Costituzione, in quel caso “la strada obbligata non è la disapplicazione ma la questione di legittimità”. Il tribunale di Firenze, invece, sostiene che la sindacabilità dei giudici sulla lista dei paesi sicuri è fondata nel fatto che la presenza di uno Stato in quell’elenco incide sui diritti fondamentali dei relativi cittadini giunti in Italia. Il diritto alla sicurezza, alla libertà personale o persino alla vita. A livello comunitario il caso italiano non è un unicum perché in Francia il Conseil d’État ha esercitato lo stesso sindacato. Del resto, si legge in una delle sentenze, dal momento che il regolamento sui paesi sicuri si colloca “nella gerarchia delle fonti su un piano secondario rispetto alle fonti primarie, è chiaro che non può porsi in contrasto né con la Costituzione né con il diritto dell’Ue né con le leggi ordinarie. Spetta quindi al giudice verificare e risolvere direttamente eventuali antinomie tra la fonte primaria e la fonte secondaria essendo il sindacato di costituzionalità previsto solo per le leggi e gli atti aventi forza di legge”. Le tre decisioni non hanno a che vedere direttamente con il merito della richiesta d’asilo, ma sospendono i rigetti delle commissioni territoriali e implicano che l’iter sia svolto in forma ordinaria e non accelerata. Se i tre cittadini tunisini hanno o meno diritto alla protezione internazionale, dunque, sarà stabilito successivamente. Al di là delle vicende individuali, però, le sentenze sollevano una questione politica. Su cui si è espresso il segretario e deputato di Sinistra italiana Nicola Fratoianni: “Il manifesto ha rivelato [con la prima versione di questo articolo pubblicata martedì mattina, ndr] tre nuove sentenze che smontano giuridicamente la costruzione ideologica fatta in questi mesi dal governo: la Tunisia di Saied non può essere considerata un paese sicuro per accogliere in modo civile migranti e naufraghi. Meloni non può non tenerne conto”. Medio Oriente. Guerra “giusta” e “scudi umani”: che cosa è legale e chi lo decide? di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 1 novembre 2023 Le atrocità di Hamas, i bombardamenti di Israele. La protezione dei civili, usati come scudi umani. Sono giorni di angoscia, ma anche di accese discussioni sui limiti della guerra, fissati dal diritto internazionale. 1. Quali sono le norme di riferimento? Punto di partenza è la “Carta delle Nazioni Unite”, pubblicata il 24 ottobre del 1945 e sottoscritta dai 193 Paesi che fanno parte dell’Onu. Da notare che la Palestina, che si è proclamata Stato nel 1988, è presente come osservatore permanente dal 2012, insieme con Taiwan e il Vaticano. Il “diritto umanitario”, invece, si condensa nelle quattro Convenzioni di Ginevra, messe a punto il 12 agosto 1949, con l’aggiunta dei Protocolli del 1977. Israele ha aderito alle Convenzioni il 6 luglio 1951; la Palestina il 2 aprile del 2014. Infine è di grande importanza lo “Statuto di Roma” (17 luglio 1998), che istituisce il Tribunale penale internazionale con sede all’Aia. Attenzione a questo passaggio: Israele non ha mai firmato lo Statuto, come per altro gli Usa, mentre la Palestina ha aderito il primo aprile 2105. 2. Quando è legittimo l’uso della forza militare? La Carta delle Nazioni Unite esclude l’uso della forza nei rapporti internazionali. Con una sola eccezione: il “diritto naturale all’autotutela”, previsto dall’articolo 51. I legislatori del dopoguerra hanno affidato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu il compito di mettere ordine, ricorrendo, solo in ultima istanza, anche a mezzi militari. Il problema è che l’organo direttivo delle Nazioni Unite è paralizzato dai veti incrociati tra i cinque membri permanenti, cioè Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito e Francia. È successo con l’aggressione putiniana all’Ucraina; succede ora con l’attacco di Hamas e la risposta di Israele. 3. Il diritto internazionale può punire i crimini di Hamas commessi il 7 ottobre? La dimensione di Hamas è controversa. Per Stati Uniti, Unione europea ed altri Paesi è un’organizzazione terroristica; per altri è espressione del governo palestinese, almeno nella Striscia di Gaza. Ma qualunque sia il loro status giuridico, il 7 ottobre scorso i miliziani di Hamas hanno violato in blocco le Convenzioni di Ginevra e lo Statuto di Roma, attaccando, torturando e uccidendo “deliberatamente” civili inermi. La tesi prevalente è che potrebbe attivarsi il Tribunale penale internazionale, come spiega Philippe Sands, romanziere e professore di diritto criminale internazionale all’University College di Londra: “Le azioni di Hamas sono perseguibili. Su questo non ci sono dubbi. Il Procuratore del Tribunale internazionale ha piena giurisdizione (come abbiamo visto la Palestina ha firmato lo Statuto di Roma, ndr) per individuare i responsabili dei crimini del 7 ottobre”. 4. La reazione di Israele è sproporzionata? Il governo Netanyahu invoca il diritto di autodifesa, fissato dalla Carta delle Nazioni Unite. Ma anche la reazione, avverte ancora il professor Sands, “deve rispettare i limiti di legge”. La Quarta Convenzione di Ginevra impone “la protezione delle persone civili in tempo di guerra”. Per cominciare viene previsto l’allestimento di zone sicure per i non combattenti. Inoltre è prescritto lo “sgombero dei fanciulli, dei feriti, dei malati da una zona assediata”. Toccherebbe al governo israeliano, dunque, far uscire da Gaza almeno i bambini e le persone più vulnerabili. Non dovrebbe essere necessario fare pressioni sull’Egitto. Infine le azioni di guerra devono risparmiare obiettivi non militari. E tra questi è davvero difficile inserire le condotte d’acqua potabile o le linee elettriche. Il punto è: il Procuratore dell’Aia potrà indagare anche sull’operato dell’esercito israeliano? E con quali conseguenze? È l’aspetto forse più controverso, perché Israele non riconosce il Tribunale penale internazionale. 5. In guerra è consentito usare i civili come “scudi umani”? Il Tribunale penale internazionale ha chiarito che “costituisce crimine di guerra utilizzare la presenza di civili per rendere immuni da attacchi alcuni punti, alcune zone o alcune forze militari. Anche la cattura degli ostaggi è un crimine di guerra”. 6. È ammesso l’attacco agli ospedali? Di nuovo troviamo la risposta nella Quarta Convenzione. Ma questa volta ci sono margini di interpretazione. O meglio: l’articolo 18 vieta ogni attacco agli ospedali, anche se vi fossero ricoverati dei militari. Ma l’articolo 19 prevede un’eccezione: una casa di cura può diventare un bersaglio “soltanto qualora ne fosse fatto uso per commettere, all’infuori dei doveri umanitari, atti dannosi al nemico”. E uno dei Protocolli del 1977 aggiunge: “In nessun caso unità mediche possono essere usate per schermare infrastrutture militari”. L’intelligence israeliana sostiene che Hamas abbia mimetizzato basi di comando nell’ospedale Shifa, a Gaza. Pakistan. Afgani detenuti rischiano il rimpatrio forzato assieme ai rifugiati La Repubblica, 1 novembre 2023 Il governo pakistano sta usando minacce, abusi e detenzioni per costringere i richiedenti asilo afghani senza status legale a tornare in Afghanistan o ad affrontare l’espulsione entro domani, 1° novembre. Lo ha reso noto oggi l’Ong Human Rights Watch, che ha la sua sede centrale a New York. Molti afgani sono a rischio di espulsione e sono in attesa di essere reinsediati negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Germania e in Canada. Da quando il governo di Islamabad ha annunciato la sua politica di espulsione, il 3 ottobre scorso, il numero di afgani che hanno lasciato il Pakistan, compresi quelli che sono stati registrati, è molto aumentato. Al 15 ottobre, circa 60.000 persone avevano lasciato il Pakistan dopo l’annuncio. Circa l’87% di loro, secondo l’Unhcr e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, ha citato la paura di essere arrestati in Pakistan come motivo per tornare indietro. L’aumento degli abusi della polizia. Il ministero dell’Interno pakistano il 3 ottobre scorso aveva annunciato che tutti i migranti che vivono senza status legale in Pakistan hanno 28 giorni di tempo per andarsene volontariamente o rischiare l’espulsione. Gli ampi appelli dei funzionari pakistani per la deportazione di massa hanno istigato un aumento degli abusi della polizia contro gli afgani, tra cui molestie, aggressioni e detenzioni arbitrarie. Anche se non esplicitamente dichiarato, è improbabile che agli afgani in lista per l’espulsione venga data l’opportunità di contestare l’azione. Detenzioni, pestaggi ed estorsioni. “La scadenza annunciata dal Pakistan per il ritorno degli afgani ha portato a detenzioni, pestaggi ed estorsioni, lasciando migliaia di afgani nella paura per il loro futuro”, ha dichiarato Fereshta Abbasi, ricercatrice sull’Afghanistan di Human Rights Watch. “La situazione in Afghanistan rimane pericolosa per molti che sono fuggiti e la deportazione li esporrà a significativi rischi per la sicurezza, comprese minacce alla loro vita e al loro benessere”. Cacciati anche con il visto valido. Khaliq Atifi, un rifugiato afghano a Islamabad che aveva lavorato come giornalista sportivo a Kabul ed era fuggito nel dicembre 2021, ha riferito a Human Rights Watch che, dopo l’annuncio, anche gli afghani registrati presso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) non sono immuni dalla detenzione o dalla deportazione. “Ci sono posti di blocco della polizia ovunque”, ha detto. “Anche se hai un visto valido, verrai comunque trasferito alla stazione di polizia e, nella maggior parte dei casi, dovrai pagare una tangente per essere rilasciato”. Ha detto che nella maggior parte dei casi, i rifugiati afgani hanno dovuto pagare tra le 10.000 e le 40.000 rupie pakistane (da 36 a 144 dollari) in tangenti alla polizia pakistana. Impossibile fare acquisti liberamente. Zarmina Rafiee, un’attivista per i diritti delle donne che ha lavorato con la Mezzaluna Rossa Afghana in Afghanistan, ha descritto il costo mentale ed emotivo per i rifugiati afghani che vivono in Pakistan e che rischiano la deportazione. “La maggior parte dei corsi e delle opportunità per i rifugiati afgani, in particolare per i bambini, stanno chiudendo e le persone non possono fare acquisti liberamente per paura della deportazione”, ha detto. “Non riusciamo a dormire, perché abbiamo sentito che la polizia fa irruzione nelle case durante la notte e chiede documenti”. La storia di Nazir Ahmadi. Ha lavorato con progetti finanziati dalla Nato in Afghanistan ed è stato in Pakistan negli ultimi 18 mesi, ha detto: “Non ho nulla lì. Ho perso tutto. Se torno in Afghanistan, non c’è alcuna garanzia per me di rimanere in vita”. Molti afghani arrivati in Pakistan dopo la presa del potere da parte dei talebani nell’agosto 2021 erano stati incoraggiati a fare domanda per programmi di reinsediamento in vari paesi, tra cui Stati Uniti, Regno Unito, Canada e Germania, ma sono stati lasciati in uno stato di limbo con visti pakistani scaduti e lunghi processi di reinsediamento che li hanno resi vulnerabili alla detenzione e all’espulsione. La storia di Elias Shafaee. Che in precedenza ha lavorato per un progetto finanziato dagli Stati Uniti in Afghanistan, ha dichiarato: “La maggior parte di queste procedure di visto richiede di trasferirsi in un paese terzo. Per ottenere un visto [temporaneo] per gli Stati Uniti, ho dovuto trasferirmi in Pakistan. Da allora, ho aspettato per 15 mesi senza alcun progresso da parte dell’ambasciata degli Stati Uniti, e ora il Pakistan vuole deportarmi in Afghanistan”. Le donne sono le più ostacolate. Le donne e le ragazze afghane hanno spesso affrontato maggiori ostacoli per ottenere il reinsediamento, poiché i paesi di destinazione hanno spesso dato la priorità all’assistenza agli afgani - per la stragrande maggioranza uomini - che hanno contribuito ai loro sforzi militari. Niloofar Neda, medico e attivista della società civile, ha detto di essersi sentita in dovere di lasciare l’Afghanistan dopo che i talebani hanno ucciso sua sorella. Ha detto che la minaccia di espulsione incombe su di lei ogni giorno: “Vivo nella paura di poter essere espulsa in qualsiasi momento. Sto aspettando che l’ambasciata degli Stati Uniti elabori il mio visto, che ha già richiesto più di un anno”. La storia di Parwana Salihi. Aveva lavorato per più di 10 anni con organizzazioni dedicate all’emancipazione femminile in Afghanistan e se n’era andata quando aveva iniziato a ricevere minacce dopo la presa del potere da parte dei talebani. “Ho dovuto lasciare l’Afghanistan perché non era sicuro per le persone come me”, ha detto. “E ora vivo nella paura di poter essere deportato in Afghanistan da un momento all’altro”. Una politica che vìola gli obblighi. Queste espulsioni violano gli obblighi del Pakistan in quanto parte della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e in base al principio di diritto internazionale consuetudinario di non respingimento: non rimpatriare forzatamente le persone in paesi in cui affrontano un chiaro rischio di tortura o altre persecuzioni. Il respingimento si verifica non solo quando un rifugiato viene respinto o espulso direttamente, ma anche quando la pressione indiretta è così intensa da portare le persone a credere di non avere altra scelta che tornare in un paese in cui affrontano un serio rischio di danni.