Il ritorno del carcere fascista di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 19 novembre 2023 Con il nuovo delitto di rivolta nasce il reato di lesa maestà carceraria. Il governo, a volto e carte scoperte, ha deciso di stravolgere il modello penitenziario repubblicano e costituzionale, ricollegandosi al regolamento fascista del 1931. Il crimine di rivolta carceraria, così come delineato all’interno del pacchetto sicurezza, sarà un’arma sempre carica di minaccia contro tutta la popolazione detenuta. Qualora dovesse essere approvato così come è stato scritto, cambierà la natura del carcere in modo drammatico e autoritario. Il nuovo articolo 415-bis del codice penale punisce fino a otto anni di carcere: “Chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi da tre o più persone riunite, promuove, organizza, dirige una rivolta”. La violenza commessa da un detenuto verso un agente di Polizia penitenziaria, che già prima era ampiamente perseguibile, ora è parificata alla resistenza passiva e alla tentata evasione. In sintesi se tre persone detenute che condividono la stessa cella sovraffollata si rifiutano di obbedire all’ordine di un poliziotto, con modalità nonviolente, scatterà la denuncia per rivolta. Un detenuto, ad esempio entrato in carcere per scontare qualche mese per un furto semplice, ci potrebbe restare per quasi un decennio, senza potere avere accesso ai benefici penitenziari, in quanto la rivolta viene parificata ai delitti di mafia e terrorismo. Ancora più incredibile è l’avere inserito il tentativo di evasione tra le modalità di realizzazione della rivolta (non riuscita visto che il detenuto ha solo tentato di scappare), alla faccia del principio penalistico del ne bis in idem, in base al quale non si può essere puniti due volte e per due delitti diversi a causa della stessa condotta. Nella quotidianità della vita di galera questa norma sarà un’arma di ricatto per indurre alla disciplina e al silenzio una parte dei detenuti che non dovranno mai più dissentire, protestare, opporsi a qualunque ordine carcerario. E chiunque abbia esperienza di vita di galera sa perfettamente quanti ordini irrazionali, talvolta incomprensibili, vengono emanati in un contesto di vita non di rado disumano. È questo l’annichilimento di uomini e donne, così definitivamente esclusi da ogni dimensione di vita autonoma e responsabile. È la trasformazione del detenuto in corpo docile che deve obbedire. Con il delitto di rivolta carceraria, che varrà anche per i migranti reclusi nei Cpr, è evidente il richiamo alle norme presenti nel regolamento carcerario fascista del 1931 quando si prevedeva che “i detenuti devono passeggiare in buon ordine e devono parlare a voce bassa” o che per “dare spiegazioni alle persone incaricate della sorveglianza i detenuti sono obbligati a parlare a bassa voce” o infine che “sono assolutamente proibiti i canti, le grida, le parole scorrette, le domande e i reclami collettivi”. Il governo cerca di mantenere le promesse fatte in campagna elettorale ai sindacati autonomi di Polizia regalando un uso indiscriminato delle armi, un’idea di superiorità assoluta dei lavoratori in divisa rispetto a qualunque altro lavoratore, la trasformazione del carcere in luogo dove i detenuti, come accadeva nel passato, devono camminare lungo le pareti e a testa bassa. In questo modo a ogni denuncia per tortura seguirà la contro-denuncia per rivolta. Neanche Rocco, il ministro fascista che dette il nome al codice penale dell’epoca, era arrivato a concepire un reato del genere. Infine, va ricordato che le rivolte carcerarie del 2020 in pieno lockdown si sono concluse con tredici detenuti morti e le brutalità della Polizia penitenziaria sotto processo a Santa Maria Capua Vetere. *Presidente dell’Associazione Antigone Secondo Delmastro le misure alternative al carcere sono “il nulla”. Ma i dati lo smentiscono di Federica Olivo huffingtonpost.it, 19 novembre 2023 Il sottosegretario ha dichiarato che l’affidamento ai servizi sociali è “bello filosoficamente” ma inefficace. Ma è così? I dati di via Arenula dimostrano il contrario: le revoche sono pochissime e torna a delinquere solo un detenuto su 5. I dati sulla “messa alla prova” sono ancora migliori. L’affidamento in prova ai servizi sociali dei detenuti? Per Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri, “è il nulla”. Perché, dice il politico di FdI - per anni avvocato - “fa acqua da tutti le parti”. Per Delmastro, insomma, la misura che consente di scontare un pezzo di pena fuori dalla cella non fa capire al detenuto di aver sbagliato. Per avvalorare la sua tesi, usa la sua esperienza da avvocato: “Non ho mai trovato qualcuno dei miei assistiti che tornasse dall’affidamento in prova ai servizi sociali dicendomi: ‘ho capito quello che è successo”. Ma cosa dicono i dati su questa misura? L’esatto opposto. Il rischio zero, inutile dirlo non esiste, ma uno studio del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria evidenzia come i detenuti che hanno avuto la possibilità di scontare un pezzo di pena fuori dal carcere tendono a delinquere molto meno di quelli che, invece, non hanno avuto questa possibilità. Nello specifico: tra i primi, torna a delinquere circa un soggetto su cinque (il 19%). Tra i secondi la percentuale è immensamente più alta: parliamo del 68%: sette su dieci. Non solo: come evidenzia uno studio allegato a un disegno di legge proposto alla Camera nella scorsa legislatura, “l’affidamento in prova al servizio sociale è la misura con una minore percentuale di revoche (4,32%) a conferma che in presenza di contenuti rieducativi e di inclusione sociale, il rischio di revoca e di recidiva è molto limitato”. Insomma, il principio del “chiudere in carcere e gettare la chiave” non ha esattamente degli ottimi risultati. Aprire le celle, invece, può essere utile. Almeno in 4 casi su 5. Questi dati lasciano ben sperare anche per il futuro. Allo stato, sempre secondo i report di via Arenula, sono 27.605 i detenuti affidati ai servizi sociali. Se il trend dovesse essere confermato, oltre 20mila di loro, espiata del tutto la pena, potrebbe non delinquere più. Una discreta vittoria dello Stato di diritto, altro che “il nulla”. L’efficacia delle misure alternative è resa ancora più evidente dai dati sulla messa alla prova, che si applica ai reati minori. In questo caso, su richiesta dell’imputato, si sospende il processo e si affida il presunto autore del reato ad attività sociali o di pubblica utilità. Si tratta di uno strumento sempre più usato e - lo dicono i dati del ministero della Giustizia - efficace. Nel 2014 i soggetti in messa alla prova erano appena 503. In numeri sono andati via via aumentando. Nel 2022 hanno iniziato - e finito al momento della redazione del report - la messa alla prova 24.255 persone. L’82% di queste sono italiane, l’84% uomini. Nella maggior parte dei casi, l’esperimento è andato a buon fine. Nel 2022 le revoche sono state poco più di 600: il 2,6%. Un’eccezione? No. Nel 2021, solo il 3,1% delle 24.400 messe alla prova è stato revocato. Nel 2020, anno del Covid, le messe alla prova sono state molte meno - circa 18mila - ma il tasso di revoca è stato ugualmente del 3%. Ne 2019, invece, la percentuale di revoca era del 2,9%. L’esperimento, insomma, funziona. Anche se al governo c’è chi dice il contrario. Cosa sono e quanti sono gli Icam, le strutture detentive per donne incinte e neomamme di Liana Milella La Repubblica, 19 novembre 2023 Il pacchetto sicurezza prevede anche nuove norme per la maternità in carcere. Negli Istituti a custodia attenuata potranno essere recluse condannate in gravidanza o con figli molto piccoli. Giusto in Campidoglio, ed era mercoledì 15, Carlo Nordio aveva detto: “L’espiazione delle pene non dovrebbe essere affidata alle sbarre e ai catenacci ma a misure alternative che già esistono e a cui stiamo lavorando”. Detto fatto. Due giorni dopo ecco proprio il carcere - perché pure i quattro Icam (Istituti per la custodia attenuata delle detenute madri) esistenti in Italia lo sono - anche per le mamme incinte che delinquono, e per i loro figli, anche se hanno meno di un anno di età. Chi conosce le carceri e sa di Costituzione si arrabbia. “La proposta del governo ci fa fare ora un salto indietro di almeno un secolo: perfino il codice Rocco del 1930, firmato da Mussolini, prevedeva il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena per le donne incinte e le neo-mamme” dice il giurista Gian Luigi Gatta che ha lavorato con Marta Cartabia. Che ricorda come “la nostra Carta all’articolo 31 protegge la maternità e l’infanzia tant’è che lo ha riconosciuto anche la Consulta parlando di assoluta incompatibilità con il carcere per la donna incinta o che abbia partorito da meno di un anno”. La dem Anna Rossomando è netta: “Hanno trasformato il “mai più bimbi in carcere” in “carcere anche per donne incinte”. Ma il ministro Nordio dov’è? Gli impegni sul carcere che fine hanno fatto?”. Dal governo rispondono che mamme e figli non andranno affatto in cella, ma negli Icam in cui oggi vivono 15 mamme con 16 bambini. Ne esistono quattro, a Torino, Milano, Venezia e a Lauro, poco lontano da Avellino. Quello di Senorbì in Sardegna non ha mai aperto. Ma sono strutture simili alle carceri? Sentiamo cosa dice chi le ha visitate più volte, come Mauro Palma, il Garante dei detenuti che sta per lasciare il suo incarico. “Sono pur sempre strutture detentive, anche se con elementi meno impattanti: il personale non è in divisa, non ci sono porte blindate come nelle celle di un carcere, c’è la possibilità di portare i bimbi negli asili nido esterni o alla scuola materna. Certo meglio stare lì piuttosto che nelle sezioni “nido” delle carceri che ospitano 5 donne con altrettanti figli con meno di 10 anni”. E guardiamo uno di questi Icam affidandoci a colei che ne è stata la direttrice, Concetta Felaco, che sulle madri detenute con i figli ha scritto la tesi di laurea seguita da Stefano Anastasia, il Garante dei detenuti del Lazio, ma nella sua veste di docente di criminologia all’università Unitelma Sapienza. “L’Icam è un compromesso tra la necessità di tenere in carcere le madri che devono scontare la pena e l’esigenza di formazione e di crescita dei bambini. Una mediazione tra la certezza della pena e l’interesse del minore”. Viaggiamo allora attraverso l’Icam di Lauro, a 50 km dal carcere di Bellizzi Irpino. Abbastanza inserito nel tessuto del paese, non c’è un effetto Rebibbia, i bambini riescono a vedere le mura esterne. Ecco il cancello, una porta che ci fa entrare su due corridoi, uno arancione e uno azzurro, su cui si aprono 20 mini appartamenti di due stanze l’uno. Bilocale con vano cucina, il tavolo con le sedie, poi la stanza da letto e un lettino o la culla. C’è una cucina dove le detenute preparano i pasti per tutti. Gli agenti della penitenziaria indossano gli abiti civili. Fuori un’area verde, altalena, scivolo, la panca di legno, e spazi per giocare, I bambini frequentano la scuola esterna, ma come dice Palma, “c’è il facile rischio che siano identificati, in un posto così piccolo, come i figli delle detenute”. E gli altri tre Icam? Milano è stato l’apripista grazie all’allora provveditore ed ex direttore di san Vittore Luigi Pagano. Un appartamento distante dal carcere con un arredamento che non somiglia a una prigione. “Funziona bene” dice Palma. Il secondo è nato a Venezia, in una sezioncina vicina al carcere della Giudecca, separato dalla sezione femminile solo da un giardinetto. Col tempo è stato costruito, per comodità del personale, un corridoio che lo collega al carcere e quindi è una sorta di sezione staccata. “È quello che meno dà l’idea di essere ‘altro’ rispetto al carcere” dice Palma. Il terzo Icam sta a Torino, stavolta in una costruzione proprio attaccata al carcere. “Buone le soluzioni per l’arredo dell’architetto Cesare Burdese, ma l’impatto complessivo è asfittico” chiosa Palma. Da Rita Bernardini di Nessuno tocchi Caino arriva un ricordo drammatico: “Chi si ricorda di Amra, la ragazza rom di 24 anni che il 31 agosto di due anni fa partorì sua figlia in una cella dell’infermeria di Rebibbia femminile? È stata la compagna a pulirle il viso dalla placenta a mani nude, consentendo alla piccola di piangere e respirare”. Già, accade questo se diventi madre in galera. La Comunità Papa Giovanni XXIII: “No al carcere per le donne incinte, le accogliamo noi” La Repubblica, 19 novembre 2023 Come combattere la microcriminalità con strumenti educativi per rimuovere le cause all’origine della devianza sociale. “Siamo disponibili ad accogliere nelle nostre case le donne incinte o con figli che devono espiare la pena in carcere. Proponiamo di combattere la microcriminalità con strumenti educativi adeguati a rimuovere le cause che portano le loro madri a delinquere. Chiediamo a questo governo di riconoscere le varie comunità che già accolgono detenuti, come luoghi alternativi al carcere”. Il destino di quei bambini. È quanto dichiara Matteo Fadda, presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII, in merito all’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del disegno di legge Pacchetto Sicurezza, che rende non più obbligatorio ma facoltativo il rinvio dell’esecuzione della pena per le donne condannate quando sono in stato di gravidanza o sono madri di figli fino a tre anni. “Siamo preoccupati per il destino di quei bambini, che si trovano ad avere una mamma in carcere o assieme a loro condividono la detenzione. Sono proprio loro a pagare per qualcosa che non hanno commesso - continua Fadda -. Abbiamo già accolto alcune mamme con i loro bambini per permettere l’espiazione della pena in luoghi sicuri, protetti, senza sbarre e in ambienti in cui l’educazione è possibile. Queste esperienze si sono dimostrate efficaci”. La rieducazione con esperienze di servizio. “Da 19 anni abbiamo aperto le Comunità Educanti con i Carcerati (CEC), strutture per l’accoglienza di carcerati che scontano la pena, dove i detenuti sono rieducati attraverso esperienze di servizio ai più deboli nelle strutture e nelle cooperative dell’associazione. - conclude Fadda - Per chi esce dal carcere la tendenza a commettere di nuovo dei reati, la cosiddetta recidiva, è il 75% dei casi. Invece nelle nostre comunità, dove i detenuti sono rieducati attraverso esperienze di servizio ai più deboli, i casi di recidiva sono appena il 15%”. Sicurezza, emergenza gonfiata. “Misure inutili, è solo propaganda” di Giuliano Foschini La Repubblica, 19 novembre 2023 Sindacati, magistrati, avvocati bocciano le nuove norme: “Il risultato sarà solo un ulteriore affollamento delle carceri”. Allarme per il rischio di proliferazione delle armi in circolazione. Si potrà finire in manette per un blocco stradale, e così potranno arrestare i ragazzi di Ultima generazione ma anche i lavoratori in corteo che protestano per la chiusura di una fabbrica. Metteranno sul mercato potenzialmente 300mila nuove armi, visto che tutti gli agenti di polizia giudiziaria potranno comprarne, senza porto d’armi, una nuova. Finiranno in galera le donne incinta e i bambini da 1 a 3 anni: sono un centinaio all’anno, non di più, ma i titoli in 24 ore sono stati già più del doppio. Si punirà chi “protesta pacificamente” nelle carceri e si metterà fine alle occupazioni abusive. Quasi tutte, però: per come è scritta la norma Casa Pound potrà stare tranquilla. Il nuovo ddl sicurezza, per come è uscito venerdì dal consiglio dei ministri, è “un’accozzaglia ideologica per ridurre lo spazio di dialettica democratica”. “Un compendio da stato delle Filippine”, “un complesso di misure inutili, di propaganda, che producono carcere ma non sicurezza”, “perché aumentare i reati non è mai servito ad averne meno sulla strada”. E che anzi, visto l’aumento esponenziale di armi che saranno in circolazione, “rischia di produrre ulteriore violenza” dicono - giusto per citare alcune delle reazioni che Repubblica ha raccolto pubblicamente e privatamente - magistrati, avvocati, sindacalisti ed esperti dei singoli dossier. I blocchi stradali - Il nuovo ddl punisce con la “reclusione da 6 mesi a tre anni”, invece che con la vecchia sanzione amministrativa che andava da mille a quattromila euro, chi compie un blocco stradale. Perché la norma venga applicata è necessario che la manifestazione debba essere promossa da più persone, risulti particolarmente offensiva e allarmante e risulti organizzata preventivamente. È stata pensato, si è detto, per gli attivisti di Ultima generazione che nel 2023 hanno effettuato una dozzina di blocchi in tutta Italia. Ma ci sono due problemi, anzi tre. Il primo: come per il decreto rave, le statistiche dicono che non ce ne fosse alcun bisogno. “Salvo che - ragiona il segretario Michele de Palma della Fiom - non si volesse colpire altro. Chi? Noi, per esempio: ci capita di organizzare delle manifestazioni all’improvviso, magari per una chiusura di una fabbrica. E bloccare una strada. Che fanno ci arrestano? Mi sembra una norma ideologica di chi ha paura di una dialettica democratica”. Anche perché una legge per “punire” Ultima generazione esisteva già: l’aveva approvata Salvini nel 2018 e punisce da uno o sei anni proprio chi ostruisce il traffico con oggetti: uno striscione, per esempio. Il carcere - Un pacchetto di norme è dedicato al carcere. Due le novità principali: possono finire in galera le donne in gravidanza e con i bambini da 1 a 3 anni. Vengono poi creati specifici reati per le sommosse in carcere, anche pacifiche. “Sono due errori che arrivano dallo stesso percorso ideologico” ragiona l’ex garante dei detenuti, Mauro Palma. “Perché con queste leggi si produrrà carcere e non sicurezza. Con le donne si dà una risposta a pochissimi casi, che fanno molto rumore mediatico. Costringendo però troppi bambini a finire dietro le sbarre con le loro madri, senza prima avere investito sulle strutture. E contemporaneamente si usa il pugno duro non contro le aggressioni del personale, come pure invece sarebbe giusto. Ma per esempio contro chi protesta pacificamente: sono pronto a scommettere che gli episodi di tensione ora aumenteranno”. D’altronde anche i sindacati penitenziari non hanno brindato. Anzi: “Introducendo nuovi reati e inasprendo le pene si finisce per affollare ancora di più le carceri” dice Gennarino de Fazio della Uil. “Questo mese ci sono 70mila detenuti a fronte di 51mila posti. Serviva investire sulla prevenzione”. Le armi - Ed è proprio la prevenzione a essere uno dei temi che allarma di più chi si occupa di armi nel nostro Paese. Il ddl prevede che tutte le forze di Polizia potranno avere una nuova arma, per usarla fuori dal servizio in caso di necessità, oltre alla pistola di ordinanza: ufficialmente è motivato per una questione di comodità, la Beretta in dotazione è poco maneggevole quando non si è in divisa. “Ma si scherza con il fuoco” dice Giorgio Beretta, analista del commercio di armi comuni. Segnalando come le statistiche sui reati andavano in senso opposto. “Non c’è alcuna effettiva necessità, lo si fa per assecondare una richiesta di alcuni sindacati di polizia di destra mettendo in giro nel paese potenzialmente 300mila nuove armi a fronte delle poche migliaia oggi in dotazione a ufficiali e magistrati, per motivi di legittima difesa. Il decreto non prevede controlli medici e nemmeno misure di controllo psicologico”. “Temo” gli fa eco Luca di Bartolomei, figlio di Agostino, e da anni impegnato contro la diffusione delle pistole. “Le statistiche parlano chiaro purtroppo: il numero di suicidi nelle forze dell’ordine e più del doppio della media, proprio per via delle armi. Con questa norma i numeri non potranno che salire”. Le occupazioni - Un’ulteriore norma riguarda l’inasprimento delle pene per chi occupa un immobile abusivamente. Con la possibilità di recupero immediato da parte del legittimo proprietario o assegnatario. “Ma Casa Pound può stare serena” dice, ironicamente, il deputato dei Verdi, Angelo Bonelli. “I loro amici al Governo non hanno fatto alcuno scherzo: per come è scritta la norma sembra che non si potrà utilizzare per la loro sede di Roma, di proprietà della collettività, che occupano senza diritto da troppi anni”. Ma Nordio dov’è? Tutti fanno il ministro della Giustizia tranne lui di Federica Olivo huffingtonpost.it, 19 novembre 2023 Il pacchetto sicurezza è stato scritto da Meloni, Salvini, Piantedosi e dal suo “soprasegretario” meloniano Delmastro. Contiene tutto quello che lui ha sempre avversato, e in conferenza stampa non si fa vedere. I suoi progetti, abortiti o rinviati. Ma perché non si dimette? Per ora è barricato al ministero. E Nordio dov’è? All’indomani di un pacchetto sicurezza che è la summa del panpenalismo securitario - il contrario di ciò che il ministro ha sempre professato - se lo chiedono in molti. Se lo chiede l’opposizione, ma anche chi ha sempre ammirato il suo pensiero liberale e garantista oggi si si domanda: “Ma perché non si dimette?”. L’ex magistrato, per anni editorialista del Messaggero, fine intellettuale che aveva annunciato una rivoluzione in via Arenula, per ora non sembra intenzionato al passo indietro. Nelle prossime settimane ha in agenda alcuni eventi istituzionali: il più importante è il plenum del Csm, il 30 novembre, con Mattarella. Nei mesi scorsi qualcuno lo dava come vicinissimo all’addio - “se non mi vogliono, posso tornare alle mie letture”, avrebbe detto a gennaio ai fedelissimi - ma non ci sono segnali evidenti di un ritorno in auge di questo pensiero. Se un passo indietro formale non c’è, sicuramente c’è un passo indietro di fatto. Un’eclissi, progressiva e costante, che ha raggiunto l’apice in queste ultime 24 ore. Il governo ha approvato un pacchetto variegato di nuovi reati, inasprimenti di pene, rigidità varie ed eventuali. Tutto ciò che il Nordio pre-governo avrebbe osteggiato. Il ministro lo ha seguito da lontano, non figurando in prima fila tra i protagonisti della stesura del progetto. Non che sia stato estraneo del tutto - è pur sempre il ministro della Giustizia - ma non ha certamente giocato il ruolo che al Guardasigilli si chiede. Il pacchetto, ci viene raccontato da chi conosce il dossier, è passato principalmente per le mani di Palazzo Chigi e del Viminale. Per via Arenula se ne è occupato- avendo un ruolo di rilievo - il sottosegretario meloniano Andrea Delmastro. Sulla carta, meno di un vice ministro. Nei fatti qualcosa di più di un ministro ombra. Il “soprasegretario” - così lo chiamano nella sua Biella - ha seguito passo dopo passo la nascita di alcune delle norme importanti di questo pacchetto. E, come ha detto ieri ad HuffPost, rivendica “con orgoglio” quella che introduce il reato di rivolta in carcere, di cui conosce dettagli, genesi e conseguenze. Contrariamente all’entourage del ministro, decisamente poco preparato sul punto. Dal ministero non è uscita una sola parola sul disegno di legge. Non una nota, né un comunicato, né una scheda esplicativa. Soprattutto, nulla di attribuibile al ministro. A quanto apprendiamo è stata una scelta voluta, pensata per lasciar cantare vittoria a chi davvero in questo pacchetto crede - i ministri Piantedosi e Salvini, la stessa premier - facendo trapelare comunque un minimo segnale di dissenso del vertice di via Arenula. Debole, debolissimo, perché nessuno ha sentito la sua voce. Nordio si trova in un vicolo cieco: non può criticare delle norme che cozzano con il suo bagaglio culturale, ma non può neanche elogiarle. Sarebbe troppo. E così si è rifugiato in un silenzio che risulta anche un po’ goffo. Assente dalla conferenza stampa in cui è stato spiegato il decreto - “a illustrare il tutto il Ministro dell’Interno. Qualcuno avvisi Nordio”, scrive Enrico Costa di Azione, che pure del Guardasigilli era grande estimatore - si è chiuso nelle stanze di via Arenula. Oggi era atteso in collegamento al convegno dei giovani avvocati dell’Aiga, a Bari. Anche lì nessuno l’ha visto né sentito. “Non sappiamo se si collega”, ci hanno detto più volte nel corso della giornata gli organizzatori. “Abbiamo fatto tardi ieri, forse non ce la fa”, è la scusa che abbozzano da via Arenula, riferendosi al Consiglio dei ministri. Nel quale, però, come abbiamo visto, il Guardasigilli non ha giocato d’attacco. L’impressione è che voglia sfuggire al confronto, per non vedersi costretto a difendere l’indifendibile pacchetto sicurezza. E per non essere indotto nella tentazione di dissociarsi. Se quella di oggi è la giornata del silenzio, la giornata di ieri per Nordio era iniziata male sin dalla mattina. Nel corso dell’incontro del governo con i sindacati del comparto sicurezza Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria, gli ha fatto notare che “a differenza degli altri ministri del comparto, non ha mai incontrato i sindacati di categoria, nonostante espressa richiesta. “Vi chiedo scusa se fino a oggi non vi ho ricevuto, ma ritenevo che fosse sufficiente la presenza del sottosegretario Delmastro”, ha balbettato il ministro, assicurando che aveva in mente di convocare i sindacati per la prossima settimana. Magicamente questa mattina la convocazione è arrivata: l’incontro, a scoppio ritardato, sarà il 23 novembre. La progressiva sparizione del Guardasigilli ha origini più antiche. Commissariato periodicamente perché aveva osato esprimere il suo pensiero - negli annali è rimasta la querelle sul concorso esterno in associazione mafiosa - di recente ha ricevuto un’altra batosta. Ha dovuto prendere atto che la separazione delle carriere di giudici e pm arriverà, se arriverà, solo dopo la riforma del premierato. Cioè, se tutto va bene, tra due anni, se includiamo anche il referendum. Una disfatta progressiva che mette il ministro in cattiva luce tra i suoi storici estimatori, ma che non lo induce a lasciare. Forse per portare a termine l’impegno preso, forse perché spera ancora di poter incidere in qualcosa. Il ministro, però, appare sempre più isolato. Le sue comparsate in Parlamento sono rade e veloci: scortato dalle sue collaboratrici, difficilmente si lascia avvicinare dai giornalisti e sono sempre meno i parlamentari che lo fermano per chiedergli lumi su qualche provvedimento. Poche settimane fa i cronisti lo hanno visto intrattenersi alla buvette con Marta Fascina, appena rientrata in Parlamento dopo il lungo lutto. Si lasciava andare a un amarcord di Silvio Berlusconi, davanti alle lacrime di Giusi Bartolozzi, sua vicecapo di gabinetto e un tempo deputata di Forza Italia. “Ho sempre Berlusconi nel cuore”, ha detto Bartolozzi a Fascina, stringendola in un abbraccio mentre qualcuno, a pochi metri, ricordava di quando a un certo punto tra l’ex premier e l’ex fedelissima ha smesso di correre buon sangue. E chissà se in quel momento un moto di nostalgia nei confronti di Berlusconi non sia stato provato anche da Nordio. Che nel Cavaliere avrebbe trovato una sponda maggiore di quella che (non) trova in Lega e FdI. Almeno in alcuni ambiti della giustizia. Dal Movimento forense profonda preoccupazione per il nuovo “pacchetto sicurezza” Di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2023 Per la Presidente Elisa Demma è un passo indietro nei progressi compiuti per garantire il rispetto dei principi costituzionali, dei diritti umani e dei minori nel sistema penitenziario italiano. Il Movimento Forense esprime “profonda preoccupazione ed attenzione critica” nei confronti della recente proposta di legge discussa nell’ultimo pacchetto sicurezza, che prevede la reclusione delle donne incinte o con un bambino sotto un anno, in uno dei quattro istituti a custodia attenuata operativi in Italia e, comunque, non attrezzati per ospitare madri in tali condizioni e bambini di così tenera età. La decisione, afferma la Presidente Elisa Demma, rappresenta un passo indietro nei progressi compiuti per garantire il rispetto dei principi costituzionali, dei diritti umani e dei minori nel sistema penitenziario italiano. Critiche, ricorda il Mf, sono state espresse anche dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma. Inoltre, la mancanza di Istituti penitenziari specifici per madri con bambini, specialmente in regioni come il Lazio, comporterà un inaccettabile allontanamento dal proprio territorio, creando disagi significativi. Per Demma così si mette il personale penitenziario in una situazione “ulteriormente difficile e gravosa per l’assunzione delle responsabilità anche professionali, soprattutto nei casi di gravidanza avanzata e complicata”. “La creazione di nuovi reati - prosegue -, l’aggravamento delle pene già esistenti, non serve ad affrontare e risolvere tematiche e problemi che caratterizzano una certa parte del tessuto sociale; invece di ‘rincarare la dose’, è necessario intervenire sui territori, su quella parte di cittadinanza che non riesce ad intravedere il c.d. ascensore sociale”. Non solo, la proposta del Governo contrasta con l’impegno assunto e perseguito in passato e volto ad allontanare l’idea, la possibilità di vedere bambini in carcere. Infine, osserva Demma, “benché la norma non appaia destinata alle donne rom, va da sé che la ricaduta della stessa sarà inevitabilmente maggiore proprio su di loro, contribuendo ad alimentare il processo di esclusione e mancata integrazione”. Il Movimento forense, conclude la nota, rifugge la deriva panpenalistica caratterizzante ormai da lungo tempo la condotta legislativa e sostiene la necessità di avere leggi chiare, tassative e in grado di promuovere un sistema giuridico in linea con i principi costituzionali, giusto ed equo. Anche questo governo ha paura di cambiare la giustizia di Valerio Spigarelli* L’Unità, 19 novembre 2023 Io l’avevo detto che non c’era da fidarsi di questo governo. E infatti: il reato di rave, il reato di stesa, l’omicidio nautico. Aggravanti e aumenti di pena. La galera per le donne incinte. Ma anche l’avvocatura ha le idee un po’ confuse. A casa mia l’unica che è soddisfatta delle imprese del ministro guardasigilli è Anouk, che è un golden retriever. Era l’unica, infatti, che scodinzolava felice quando in tv la trimurti, costituita, in questo caso, dal suddetto ministro di Giustizia, dal presidente del Senato e dalla sottosegretaria Brambilla, una decina di giorni fa ha annunciato l’ennesima legge carcerocentrica. Quella che stabilirebbe pene fino a cinque anni, con un minimo sostanzioso e pene pecuniarie stratosferiche per chi abbandona gli animali; che pure è un comportamento vomitevole, sia chiaro. Siccome i golden sono notoriamente tra le razze canine più intelligenti un po’ mi sono dispiaciuto di questa reazione istintiva. “Cavolo Anouk” l’ho rimbrottata “ma allora non capisci quando parlo. Non capisci che questa ennesima impresa legislativa del ministro più liberale del mondo è la solita maniera di buttarla, è proprio il caso di dirlo, in cagnara? Si chiama ricerca del consenso attraverso l’abuso della legislazione penale. Di voi cani, ma pure degli altri animali, a questi non gliene importa nulla, sono senza principi, men che meno di quelli di cui si riempiono la bocca. Se avessero a cuore la vostra sorte spenderebbero due lire per i canili, che fanno schifo, invece di inzuppare il pane del consenso nel sugo del disdegno. E sono in buona compagnia visto che anche questa impresa li vede in accordo bipartisan con il resto del mondo parlamentare in nome del politically correct, che nel campo della giustizia fa più danni della grandine. Vedi il caso della legge col bollino rosso della Bongiorno, che comincia a perdere pezzi quando la Consulta si mette a fare il lavoro suo. Te l’avevo detto, Anouk, anche quando avevano fatto il reato di rave party, o quello di omicidio nautico, o quello di deposito di mondezza fuori dei cassonetti. Per non parlare di quello di “stesa” che hanno preso pari pari da qualche serie televisiva: tutte cose che, se non ci fosse da piangere, farebbero ridere. L’avevo detto e scritto quando avevano attaccato il cappello nell’anticamera delle Procure pronti a rimangiarsi quel che avevano in precedenza proclamato sul reato di concorso esterno, o quando s’erano subito inchinati al volere dell’antimafia che strepitava contro una sentenza o due della Cassazione sulla circolazione delle intercettazioni. Non ti ricordi quante parolacce ho detto davanti al TG quando ho sentito che distribuivano aggravanti e aumenti di pena nel sistema penale come fossero le croci da Cavaliere della Repubblica, che non si negano a nessuno, e non si ritirano mai, anche a quelli che poi finiscono in gabbia? Anche un aumento di pena non si nega a nessun fenomeno, dalle baby gang all’evasione dell’obbligo scolastico, dalla droga all’immigrazione, dalle truffe agli anziani ai blocchi stradali. Per non parlare delle pistole private per gli agenti, degli aumenti di pene per le proteste in carcere, la galera per le donne incinte. L’avevo detto che un governo che annovera un sottosegretario alla giustizia che va Santa Maria Capua Vetere a dare solidarietà, invece che ai detenuti pestati, a quelli che sono accusati di averlo fatto, tutto può essere meno che garantista. A un governo, non a caso in compagnia del partito di opposizione più manettaro del mondo, che nomina un Garante dei detenuti che ha la stessa dimestichezza con le galere che io posso vantare sui 33333 dei del pantheon indù, che vuoi che gliene freghi della condizione carceraria? Certo che l’avevo detto, come pure, parlando tra me e me, ma non solo, avevo rimuginato che c’era poco da fidarsi quando questi chiacchieravano di separazione delle carriere. Che poi, Anouk, diciamocelo chiaro: a sentirli parlare solo gli allocchi, o quelli che hanno da rifarsi la livrea nel nuovo regime, continuavano a credergli. Perché in fondo, anche se per sbaglio, ogni tanto lo facevano capire che questa sulla riforma epocale era tutta una ammuina. Ti ricordi il viceministro Sisto al congresso dei penalisti? Interpellato non solo su “quando”, ma anche su “come” l’avrebbero fatta la benedetta separazione delle carriere, se ne è uscito con una supercazzola che al confronto il conte Mascetti di “Amici Miei” era un dilettante. Non solo ha messo su quell’aria da venditori di macchine usate che i rappresentanti del governo - fin da subito per la verità - hanno assunto a proposito dei tempi, spiegando che il tutto sarebbe avvenuto “certamente, ma non subito, giusto il tempo di sistemare un paio di cosucce, tipo l’assetto del Parlamento, o quello del codice di procedura penale, l’abuso di ufficio, le intercettazioni” e magari anche il festival di Sanremo, se avanza tempo. Poi, certo, “sicuro, sicurissimo, la faremo la riforma del Titolo IV della Costituzione, e che ci vuole, stiamo già scrivendo!”. Salvo non specificare non dico una data ma neppure un anno e non scrivere una sillaba. Ma poi, quando gli è’ stato chiesto “come” intendevano farla, se con riforma costituzionale o no, il buon Sisto ha bofonchiato qualcosa che solo uno sciocco non avrebbe capito, e cioè che non c’era nessuna assicurazione sulla riforma costituzionale. Il che, in altre parole, disegnava lo scenario che già s’era profilato ai tempi di Berlusconi, ovverosia quello della trattativa sindacale -sottobanco - con il sindacato dei magistrati che finì per partorire la legge truffa firmata da Castelli. Oggi come allora, la separazione usata come arma di distrazione di massa ma pronta ad andare a ramengo per lasciare il campo al solito copione della Politica sull’attenti davanti alle Procure. Quello col governo che fa “Buh! Ora vi metto al posto vostro, magistrati, e tanto per cominciare separo le carriere!”. E quelli che rispondono facendo finta di incazzarsi, scrivendo articolesse sui giornali amici, oppure sottoscrivendo appelli in cui non riescono neppure a separare i pensionati da quelli che ancora lavorano in Procura, tanto sono sicuri che sul tema i governi se la fanno sotto da cinquant’anni. Per la verità ti ricorderai che, dopo aver visto la scena, tornai dal congresso dei penalisti un po’ deluso dal fatto che non gli avessero amabilmente rammentato che, come diceva Totò, “Cà nisciuno è fesso”. Perché, se uno si legge la sarabanda di dichiarazioni, assicurazioni, retromarce, mezzi rinvii sulla questione che sono usciti dalla bocca di Nordio, anche solo negli ultimi due mesi, e continua a credergli un po’ fesso deve essere. Che poi, ammettilo Anouk, neanche tu o i tuoi compagni di scorribande al parco ci sareste cascati e avreste comprato una ciotola usata da una compagnia di giro che, appena messa al governo, si era impegnata a cancellare quella parte della legge Cartabia che impone di fare lo slalom speciale tra i cavilli per poter fare appello, salvo poi dimenticarselo in un amen. Eppure, se realmente fossero stati dalla parte, non tanto dell’Avvocatura ma del diritto penale liberale - come pure ripetevano ad ogni convegno forense replicando quel personaggio di Corrado Guzzanti che ovunque andasse magnificava “questa splendida città di cui sono figlio…” - quelle norme, che poggiano sul disprezzo più assoluto per la funzione degli avvocati, le avrebbero dovute cancellare al volo perché, oltre a fare a cazzotti con la logica, sono un insulto per i difensori. Vedi quella che impone di far eleggere domicilio a uno che sta in carcere per fargli presentare una impugnazione, come se non si sapesse dove notificargli gli atti. Oppure quella che prescrive una procura speciale nel caso in cui l’imputato sia assente e a rappresentarlo ci sia solo il difensore. Una cosa talmente insensata che in Cassazione sono riusciti a giustificarla solo pigliando a ceffoni tutta l’avvocatura italiana; cioè, spiegando che in questa maniera saremo sicuri che gli avvocati, quando fanno appello o ricorso per Cassazione, lo fanno nell’interesse dei loro clienti e non per tirare su un po’ di grana. Già, Anouk, però anche l’avvocatura deve avere le idee un po’ confuse, altrimenti avrebbe dovuto protestare da tempo di fronte a queste cose, e sul serio, non con pensosi articoli su quei pochi giornali che la ospitano ma piazzando un bello sciopero di quelli di una volta, a rischio di farsi male perché, quando è troppo è troppo. In effetti di questi tempi noi umani sulla giustizia stiamo vedendo cose che fino a qualche anno fa ci sarebbero sembrate più acconce nel tuo mondo. Tipo quello che è accaduto a Bruxelles, dove i questurini belgi hanno fatto avanti e indietro nel Parlamento europeo manco fosse casa loro. Ovvero quando i francesi, che hanno una idea del giusto processo particolare, hanno intercettato mezzo mondo attraverso i loro servizi segreti, salvo poi distribuire il prodotto alle procure amiche. E quando, dopo un bel po’ per la verità, finalmente in Cassazione hanno cominciato ad interrogarsi se quella maniera di fare fosse del tutto regolare, si sono trovati subito avanti al fuoco dei giornali antimafia doc che li hanno accusati di collusione col nemico. Perché la Cassazione, per la “grande” stampa italiana, quando fa qualcosa che non sta bene ai pm è sempre il porto delle nebbie. Per fortuna che ci ha pensato subito la Meloni a specificare che loro stanno dalla parte delle Procure sempre e comunque, tanto che per dimostrarlo è andata alla sede della DNA in processione con mezzo governo. Chissà se a Melillo avrà ricordato la cerimonia del miracolo di San Gennaro.” “Che fai parli col cane?” ha chiesto mia moglie. “Sì almeno lei ascolta, tanto parlare al baraccone del mondo politico giudiziario italiano è una perdita di tempo.” P.s.: comunque il mio cane ha le idee chiare sulla giustizia. Quando ha sentito Lilli Gruber chiedere soavemente a Gratteri se il documento degli avvocati napoletani sulla sua nomina fosse nientepopodimeno che una “intimidazione”, per sentirsi rispondere che ad un uno che ha avuto a che fare con le Farc, la Camera Penale gli fa un baffo, ha cominciato ad abbaiare talmente tanto che ho dovuto cambiare canale. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Più sicurezza e un’altra giustizia di Daniele Capezzone Libero, 19 novembre 2023 Ma, alla fine dei conti, qual è il politico più temibile, quello di cui occorre davvero diffidare? Per paradosso, non necessariamente un politico in mala fede (quello - diciamo così - scatena istintivamente i nostri benefici anticorpi), ma un politico in buona fede e tuttavia completamente scollegato dalla realtà. Sta proprio qui, in questo mancato legame con la vita reale, con l’esperienza concreta dei cittadini, ciò che condanna senza appello alcuni parlamentari, trasformandoli in guidatori che procedono contromano in autostrada. Prendete le norme varate l’altro pomeriggio dal governo in materia di sicurezza, contro cui Pd e stampa embedded (cioè quasi tutta) hanno immediatamente preso a sparare a palle incatenate. Per carità: si possono muovere delle osservazioni (lo faremo tra poco anche qui), ma l’unica cosa che un politico assennato non può proprio permettersi di fare è negare o sottovalutare l’esistenza dei problemi affrontati dall’esecutivo. Eppure, leggendo le dichiarazioni di figure di punta del Pd e pure i commenti dei principali quotidiani nazionali, è automatica la sensazione che alcuni onorevoli e numerose prime firme non vivano a Milano o a Roma, ma - c’è da sospettare - a Lugano o a Ginevra. Non può esserci altra spiegazione. Si prenda la questione dell’occupazione abusiva degli immobili: solo un alieno può sottovalutare il terrore di un proprietario di casa, già tassato e stratassato, all’idea che il suo immobile gli sia sottratto da un inquilino moroso e prepotente. Oppure si prenda la storia degli ecosvalvolati che bloccano il traffico: solo chi non ha mai frequentato una tangenziale all’ora di punta può ignorare il livello di (sacrosanta) rabbia degli automobilisti. E si prenda infine la questione delle borseggiatrici: è inutile che alcuni commentatori progressisti provino a buttarla sul razzismo, quando è sufficiente farsi un giro in bus o in metro per constatare il fastidio delle persone perbene (avviso a Pd e compagni: inclusa la stragrande maggioranza degli elettori di sinistra) davanti alla prepotenza e al senso di impunità di “signore” che hanno già accumulato dozzine di denunce per rapina e furto con destrezza, e che letteralmente ridono in faccia alle loro vittime, usando il pancione e un bimbo non ancora nato come “attrezzatura” per il proprio crimine recidivo. Come dire: un reato più una bestemmia contro l’umanità. Ecco, solo politici e commentatori drammaticamente scollegati dalla realtà, tra una vecchietta scippata a cui viene magari rotto il femore e una borseggiatrice incallita, possono vedere la seconda come “soggetto debole”. E invece è successo anche questo. Ciò detto, però, anche il governo deve fare i conti con una urgenza politica ormai non più procrastinabile. Qui abbiamo convintamente difeso i vecchi e i nuovi interventi in materia di sicurezza: erano e sono sacrosanti. E però serve pure la riforma complessiva della giustizia, di cui per il momento si è vista una prima e ancora parziale tranche. Da settimane ci si dice, e lo fa anche l’ottimo ministro Carlo Nordio nella sua intervista concessa a Hoara Borselli, che arriverà anche una seconda tranche, che tuttavia sarà differita nel tempo. Il ragionamento ha una sua indiscutibile geometria: c’è un rischio di sovrapposizione tra due cambiamenti costituzionali, e la scelta politica del governo è stata quella di partire dal premierato. A onor del vero, non risulta che, dopo il posticipo - da destra - dell’intervento sulla giustizia, ci sia stata - da sinistra - una maggiore disponibilità a discutere sul premierato. Anzi: si rischia l’effetto paradossale di legarsi un braccio sulla giustizia mentre gli altri ti aggrediscono comunque sul cambiamento della forma di governo. Non solo: poiché pure la separazione delle carriere richiede un cambiamento costituzionale (e dunque quattro passaggi parlamentari), se occorre attendere l’esaurimento dell’altra riforma (cosa che avverrà nel 2025), il rischio è che poi, a fine legislatura, non ce la si faccia a completare l’iter della separazione delle carriere. Ci permettiamo da qui di avanzare una proposta rispettosa, ragionevole e costruttiva: se, per qualsiasi ragione (ed in primo luogo per il cronoprogramma spiegato dal ministro Nordio), il governo ha delle remore a presentare adesso un suo disegno di legge sulla separazione delle carriere, esistono già proposte di iniziativa parlamentare su quel tema il cui iter è stato avviato: si potrebbe procedere in Parlamento su quelle, coinvolgendo anche il terzo polo, che su questo ha mostrato di convergere con convinzione (una proposta interessante e già incardinata, ad esempio, è quella dell’onorevole Enrico Costa). Anzi, il governo a quel punto farebbe una figura meravigliosa: non imporrebbe un suo testo, ma accompagnerebbe in Commissione e in Aula il dibattito parlamentare delle forze di maggioranza e di quelle di opposizione. Ci sono quindi molte strade per arrivare al traguardo. L’essenziale è non infliggere una delusione agli elettori garantisti. Troppe volte, nelle passate legislature, c’è stata l’occasione di riformare la giustizia e, per una ragione o per l’altra, l’opportunità non è stata colta. Sarebbe davvero un peccato se il film dovesse ripetersi. Confidiamo che ciò non accada. Nordio sulle Procure: “Troppi sprechi, ognuno spende come vuole” di Chiara Spagnolo La Repubblica, 19 novembre 2023 Arriva da Bari la difesa delle nuove misure varate dall’Esecutivo e subissate di critiche, tramite la voce del viceministro Francesco Paolo Sisto al XXVVII Congresso dei giovani avvocati: “Pacchetto a favore dei cittadini”. E arriva a stretto giro anche la risposta del sindaco del capoluogo pugliese e presidente Anci Antonio Decaro: “I problemi della sicurezza si risolvono attraverso la prevenzione, animando le piazze, tenendo insieme le comunità”. “Il pacchetto sicurezza approvato dal Governo è in favore dei cittadini: la cosa più importante è che si sentano sicuri quando escono di casa”: arriva da Bari la difesa delle nuove misure varate dall’Esecutivo e subissate di critiche, tramite la voce del viceministro Francesco Paolo Sisto al XXVVII Congresso dei giovani avvocati. E arriva a stretto giro anche la risposta del sindaco del capoluogo pugliese e presidente Anci Antonio Decaro: “I problemi della sicurezza si risolvono attraverso la prevenzione, animando le piazze, tenendo insieme le comunità”. Mentre la prima presidente della Corte di Cassazione, Margherita Cassano, ricorda come “il nostro Paese ha affrontato emergenze ben peggiori di quelle che vengono prospettate, trovando l’elemento di forza nel rispetto dei diritti della persona. Responsabilità significa anche razionalità e pacatezza nell’affrontare le diverse questioni - dice - Il nemico mortale per un giurista è l’emergenza, il rispondere a fenomeni che vengono da presunti nemici”. E il riferimento, probabilmente, non è solo agli ultimi decreti sicurezza ma anche alle norme sui migranti. Oltre a difendere i decreti, Sisto rilancia sulla separazione delle carriere e anche su questo Cassano taglia corto: “È un problema che non ritengo né drammatico né attuale. L’assetto costituzionale prevede l’unità della magistratura e un unico Csm. Se la politica intende procedere dovrà necessariamente modificare la Costituzione”. Unità di vedute invece, sulla necessità di revisione delle circoscrizioni giudiziarie, “oggetto di studio - dice il ministro della Giustizia Carlo Nordio in videocollegamento - perché in passato probabilmente sono stati eliminati dei tribunali che andavano mantenuti”. Sul punto il Governo non ha una risoluzione in tasca ma “la stiamo studiando”. Mentre sulle carceri, il guardasigilli ribadisce la volontà di “recuperare strutture pubbliche in disuso come le caserme, perché la costruzione di un carcere nuovo è molto difficile, ci vogliono 10-15 anni”. Nordio non entra nel merito delle Riforme ma non risparmia una stoccata alle Procure, quando parla dei soldi spesi dagli uffici giudiziari: “Non c’è un controllo preventivo e ognuno li spende come gli pare. Ho letto qualche giorno fa che in un tribunale periferico sono stati spesi quattro milioni di euro in intercettazioni telefoniche per un’indagine per abuso d’ufficio finita con assoluzione. Ci sono forti sprechi, serve una migliore rimodulazione delle spese di giustizia”. Serve, per esempio, per rimodulare le risorse destinate al gratuito patrocinio, rispetto al quale “stiamo agendo in via normativa, perché ci siamo accorti che vi è iter burocratico intollerabile tra liquidazione parcella e incasso”. Per il ministro la parola chiave per la giustizia resta “efficienza” nonostante gli obiettivi fissati dal Pnrr siano difficili da seguire, perché “i tempi sono stringenti e le risorse limitate”. L’efficientamento del sistema giustizia, secondo Nordio, è l’elemento che potrebbe arginare l’emorragia di iscritti agli Ordini forensi (“Non vorrei che tra qualche anno ci fosse la stessa carenza che oggi c’è di medici”), testimoniato anche dal dato fornito dal presidente del Consiglio nazionale forense, Francesco Greco, sulla riduzione a 10mila degli iscritti agli esami per l’abilitazione forense, a fronte dei 15mila dello scorso anno. In tale situazione, Greco chiede al ministero di “ragionare sulla previsione di una gamma di specializzazioni per i giovani avvocati”, mentre Sisto ritiene che l’università debba dare a Giurisprudenza “delle caratteristiche tali da poter avviare i giovani alla professione, come fanno già altre facoltà”. A proposito di giovani, digitalizzazione e nuove tecnologie, mette tutti d’accordo il tema dell’intelligenza artificiale, “strumento utile anche per la giustizia - dice Nordio -ma che non potrà mai sostituire l’iniziativa, l’intelligenza, l’emotività ed il buon senso della persona umana”. “L’algoritmo non potrà mai sostituire il nostro quotidiano impegno scientifico” aggiunge Cassano, stimolando i giovani a “mettere da parte la pigrizia e il conformismo culturale” e a “esercitare con slancio l’attività interpretativa del diritto”. Alla fine, è proprio il viceministro a lanciare il ramoscello d’ulivo alla magistratura: “La parola chiave in questo momento deve essere riappacificazione, dobbiamo avere la consapevolezza che le guerre tra pm e avvocati, tra magistratura e politica, sono finite perché non possiamo vivere costantemente nella giustizia un clima di belligeranza. La parola pace significherà per i cittadini maggiori tutele”. Al termine del Congresso di Bari è stato eletto presidente l’avvocato 43enne bergamasco Carlo Foglieni, che succede al barese Francesco Paolo Perchinunno. Nel corso del Congresso è stato anche firmato un protocollo tra Anci e Aiga, tramite i presidenti Antonio Decaro e Francesco Perchinunno. “Questo protocollo di collaborazione, che firmo a nome dei sindaci di tutta Italia, lo abbiamo costruito in questi mesi - ha detto Decaro - e avvierà un percorso per impegnare le amministrazioni comunali ad adottare criteri di rotazione delle professionalità, di trasparenza, di meritocrazia, di equo compenso nell’affidamento degli incarichi, in particolare nella valorizzazione dei giovani professionisti nel nostro paese”. Gli esodati della giustizia: l’avvocato è un lusso per 3 milioni di famiglie di Maria Sorbi Il Giornale, 19 novembre 2023 Troppo ricchi per il patrocinio gratuito ma troppo poveri per pagare le parcelle. Allo studio una norma per estendere il beneficio: “Almeno uno su 5 rinuncia al tribunale”. Fanno fatica a tirare la fine del mese, rimandano l’apparecchio dei denti per i figli, non vanno in vacanza. Figuriamoci se si possono permettere le parcelle dell’avvocato. Le famiglie che traballano e campano con un’entrata mensile di 1.100 euro sono 3 milioni e tra queste almeno 600mila rischiano di dover rinunciare a difendersi, anche quando hanno subìto un torto grave. Sono troppo ricchi per poter accedere al patrocinio gratuito (che viene concesso a chi ha un reddito lordo di 12.838 euro) ma troppo poveri per permettersi un’azione legale, o almeno per anticiparne le spese vive che - in cause con risarcimenti fra i 52mila e i 260mila euro - possono arrivare a 5mila euro, tra bolli, perizie e notifiche. Tra gli esodati della giustizia ci sono persone che hanno avuto infortuni gravi sul lavoro ma che non osano intentare una causa contro il capo, pazienti vittime di errori medici che non hanno i mezzi per andar contro i big della sanità o delle assicurazioni, famiglie che trovano più conveniente tacere e convivere con avvilimento e torti subiti. Perché la giustizia diventa un lusso e quel diritto a difendersi, definito “inviolabile” nella Costituzione, resta lettera morta. Per dare una risposta a questa “zona grigia” della giustizia, è in corso d’opera una modifica sulla legge, innanzitutto per rivedere i parametri del patrocinio gratuito e rendere i tribunali realmente “uguali per tutti”. A promuovere il nuovo provvedimento è Chiara Tacchi, studio Tacchi & Tosini di Gallarate, autrice del libro “La giustizia degli ultimi”, che ha già preso contatti con la Commissione giustizia in Parlamento. Ad appoggiarla è anche l’associazione degli avvocati Pro Bono, presieduta da Giovanni Carotenuto, che già da tempo si sta occupando di importare la cultura dell’avvocatura pro bono in Italia, a supporto dei fragili: “Abbiamo già redatto le linee guida per la gestione del pro bono in team misti di avvocati e giuristi d’impresa e ci rifacciamo al modello anglosassone dove gli studi legali che si prestano all’assistenza legale senza parcella sono molti”. In Italia ce ne sono una cinquantina e si spera aumentino perché nessuno rimanga senza giustizia. Al momento lo Stato rimborsa con 20 milioni di euro gli avvocati che prestano patrocinio gratuito ma si ipotizza anche di rivedere questa cifra per poter ampliare la buona pratica. Di questo e altri aspetti si discuterà il 22 novembre a Milano in occasione della sesta edizione dell’Italy Pro bono day. “È intollerabile pensare ci siano persone che non si sentano legittimate a difendere i propri diritti. Vogliamo che la difesa sia accessibile e inclusiva” spiega Chiara Tacchi. L’occasione per avviare la riflessione che presto si tradurrà in legge è la presentazione del suo libro a Book city (Milano): una raccolta di casi seguiti in questi anni che testimoniano quanto la vita di una persona possa stabilizzarsi e cambiare se viene appagato il suo diritto alla giustizia. Un elemento fondamentale perché in Italia l’accesso al pro bono funzioni è il volontariato. Le associazioni vicine alle famiglie in difficoltà (o potenziale difficoltà), se ben preparate, possono essere il tramite giusto per mettere in contatto clienti e avvocati e promuovere la cultura di una giustizia realmente accessibile. “L’emergenza dei diritti riguarda non più solo gli ultimi, ma i penultimi - sostiene Alessandro Pezzoni, servizio Grave emarginazione di Caritas - Sono quelle famiglie a cui basta un problema di lavoro per crollare. Metterle in grado di far fronte a un’ingiustizia è garanzia di equità sociale”. E di democrazia. Femminicidi: tocca agli uomini ribellarsi (anche contro loro stessi) di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 19 novembre 2023 È proprio arrivato il momento di una grande mobilitazione dell’”orgoglio maschile”: non in difesa (tardiva) delle donne, ma contro la violenza dei maschi, contro i maschi violenti. Cari uomini, è arrivato il momento di interrogarsi, di battere un colpo, magari di muoversi. Persino di ribellarsi a noi stessi. Nella giornata del ritrovamento del corpo massacrato di Giulia Cecchettin, si viene a sapere dello stupro subìto da una donna in un ristorante del centro di Milano. Si viene a sapere anche che due ragazzine di 14 anni sono state drogate e violentate a Novara, e altro ancora. In Italia quest’anno sono state uccise cento donne, oltre la metà delle quali per mano di mariti, ex mariti, partner, ex partner, fidanzati, ex fidanzati. L’ex uccide perché il suo desiderio non viene soddisfatto. La rassegna stampa quotidiana è una lista interminabile di stupri, violenze maschili, femminicidi. Non succede solo in Italia, ovviamente. Non che la cosa ci debba consolare, anzi. Mal comune non è affatto mezzo gaudio, è mal comune e basta. Certo, per noi il culmine è arrivato ieri. Se le cose sono andate come sembra, la vicenda di Giulia e di Filippo aggiunge angoscia e motivi di riflessione seria e profonda anche, ma non solo, sull’educazione familiare. Perché quel che impressiona ancora di più rispetto ad altri casi è la giovane età dell’assassino, che per altro i genitori descrivono come un ragazzo “mite, normale, positivo”, che “non ha mai torto un capello a nessuno…”: Filippo “ha sempre continuato ad amare Giulia”. Fatto sta che siamo ingenui se, connettendo la sopraffazione al retaggio della cultura patriarcale, diamo per scontato che comunque la modernità abbia migliorato, con il benessere, anche le relazioni tra i sessi. Tant’è vero che mentre il numero dei delitti va in generale diminuendo quello dei femminicidi aumenta. Erroneamente, il nostro immaginario tende a inquadrare l’abuso sessuale nel contesto adulto, ma scopriamo sempre più che quell’eredità arcaica è ben viva e resistente oltre ogni, appunto, immaginazione. Proprio ieri il convegno milanese dell’associazione “Senza veli sulla lingua” ci ha informato che il maltrattamento delle donne interessa sempre più i minorenni: l’età si sta abbassando anche perché cresce la violenza digitale. Ci ritroviamo dunque increduli di fronte a un ventenne che sprigiona il suo furore contro una coetanea colpevole di averlo lasciato e magari in aggiunta (ulteriore affronto) di volersi laureare prima di lui. Non uomini d’altri tempi, ma uomini di questi tempi, dunque. E poi. Inutile chiedersi come sia stato possibile non cogliere, in famiglia, nella comunicazione quotidiana di una famiglia “normale”, i segnali di tanta aggressività: tutti e sempre più scopriamo quanto ci sia indecifrabile la persona vicina (specie i figli, ahimé). Ma astraendosi dall’ultimo caso, bisognerebbe interrogarsi in profondità su come cresciamo i nostri figli (specie i maschi), con quali parole, modelli e valori. E come mai la violenza tra i sessi è sempre, fin dentro la Generazione Zeta, a senso unico (maschi su femmine)? Cominciando a sgombrare il campo dal tormentone del “raptus”, una specie di riflesso condizionato mentale che ci fa incasellare certe forme di brutalità dentro categorie tutto sommato rassicuranti. La confutazione si riassume in una semplice domanda: perché allora questi raptus presunti capiterebbero solo ai maschi? E le femmine non hanno anche loro tutto il diritto di andar fuori di testa? (E ciò sia detto non per auspicare che le donne prima o poi ripaghino i partner e gli ex con la stessa moneta). Ma infine, senza colpevolizzare solo l’istituzione famigliare o quella scolastica, è una gigantesca questione che riguarda la società, anzi la cultura di una società. Prima di tutto, la cultura dei maschi. I quali non dovrebbero aspettare di essere chiamati a coorte dalle donne-vittime per solidarizzare, ma dovrebbero uscire spontaneamente dalla vergogna della zona grigia, muoversi - e in fretta - per iniziativa propria verso la pubblica piazza. Uscire (provvisoriamente) dalla solidarietà ed entrare nella lotta. È proprio arrivato il momento di una grande mobilitazione per l’”orgoglio maschile”: non in difesa (tardiva) delle donne stuprate, ma contro la violenza dei maschi, contro i maschi violenti. Femminicidi, Schlein a Meloni: serve una legge per educare i giovani di Giulia Merlo Il Domani, 19 novembre 2023 La segretaria Dem propone una legge bipartisan per l’educazione nelle scuole. Il ministro Valditara: “Ci stiamo già lavorando”. La ministra Roccella ha fatto sapere che in settimana il Senato dovrebbe approvare in via definitiva il ddl contro la violenza sulle donne. La vicenda della ventiduenne veneta, Giulia Cecchettin, ha avuto l’esito più tragico. Di lei e dell’ex fidanzato si erano perse le tracce sabato scorso e ieri il suo corpo è stato ritrovato in un canalone, vicino a un lago in provincia di Pordenone. Del ragazzo, Filippo Turetta, invece, non c’è ancora traccia ma la sua auto è stata ritrovata in un parcheggio vicino al lago e la procura ha lanciato un appello perché si costituisca. La vicenda, che è culminata in quello che ha tutti i connotati dell’ennesimo femminicidio, ha provocato le reazioni anche del mondo politico. In particolare la segretaria del Pd, Elly Schlein, ha lanciato un appello direttamente alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, per “lasciare da parte lo scontro politico e fare un passo avanti in parlamento” perché si possa approvare una legge bipartisan che “introduca l’educazione al rispetto e all’affettività in tutte le scuole d’Italia”. La premessa della segretaria, che si è rivolta a Meloni ma anche a tutte le altre forze politiche, è che “Non basta la repressione se non si fa prevenzione”. Ha poi lanciato un appello rivolto soprattutto agli uomini, “perché non può essere un grido e un impegno solo delle donne in lotta per la propria libertà. Il problema della violenza di genere è un problema maschile. Serve consapevolezza per sradicare la cultura patriarcale di cui è imbevuta la nostra società”. Anche Meloni è intervenuta sui social per commentare la tragica notizia, parlando di “notizia straziante. Ci stringiamo al dolore dei suoi familiari e di tutti i suoi cari. Mi auguro sia fatta presto piena luce su questo dramma inconcepibile”. Nessun commento, invece, sulla proposta lanciata da Schlein. Non è la prima volta che la segretaria del Pd ha proposto a Meloni una collaborazione sul tema e a lei ha invece risposto il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara: “Apprezzo che Schlein condivida con noi l’idea di educare al rispetto nelle scuole contro la violenza e la cultura maschilista. Già ci stiamo lavorando”, ha detto, e “la proposta è pronta e verrà nei prossimi giorni presentata ufficialmente”. Serve educare - Già la prossima settimana potrebbe diventare legge il ddl contro la violenza sulle donne: varato dal consiglio dei ministri di giugno e approvato alla Camera con l’astensione dell’opposizione, ora passa al Senato dove dovrebbe svolgersi una votazione lampo. Le norme hanno lo scopo di rendere più efficace il Codice rosso, con un rafforzamento degli strumenti di prevenzione come l’ammonimento, il braccialetto elettronico e il divieto di avvicinamento, anche per i cosiddetti “reati spia” come lo stalking. Sono previste anche nuove regole per gli arresti in flagranza differita e per favorire la formazione di magistrati e polizia giudiziaria. La ministra della Famiglia, Eugenia Roccella, ha fatto sapere che “è già pronta una campagna di sensibilizzazione nelle scuole che illustreremo nei prossimi giorni”. La questione assume dunque inevitabili risvolti politici, proprio nei giorni in cui il governo ha portato e approvato in consiglio dei ministri un nuovo pacchetto sicurezza. La linea del governo fino ad oggi in materia penale è stata principalmente quella di inasprire le pene per i reati, oltre che introdurne di nuovi. “Anche Giulia è stata uccisa da un uomo. Anche stavolta ci diremo che non deve accadere mai più, ma perché davvero smetta di succedere non bastano pene severe, serve educare alle relazioni sane. O lo capiamo in fretta o questa strage continuerà ancora”, ha scritto la vicepresidente della Camera del Pd, Anna Ascani. La Cedu all’Italia: è disumano non curare i detenuti di Roberto Ghini e Pina Di Credico L’Unità, 19 novembre 2023 Accolto il ricorso di un ergastolano ostativo. Sentenza importantissima in un paese dove i tempi della medicina carceraria sono dilatati. Importante decisione quella della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha accolto il ricorso presentato nell’interesse di un detenuto che da oltre 22 anni sta scontando la pena dell’ergastolo ostativo all’interno di un carcere italiano. Tutto era iniziato il 27 aprile del 2020 attraverso la richiesta di adozione di una misura provvisoria urgente ex art. 39 del Regolamento della Corte. Il detenuto da anni soffriva di patologie che lo avevano portato, già nel 2018, a chiedere il differimento della pena. La Cassazione aveva annullato la prima decisione negativa del Tribunale di Sorveglianza di Napoli ma, nonostante questo, il TDS non fissava udienza. Si decideva allora di investire la CEDU lamentando la violazione dell’art. 2 poiché il detenuto era esposto al rischio di perdere la vita e per violazione dell’art. 3, in quanto, a cagione di cure totalmente inadeguate alla sua condizione patologica, risultava costantemente esposto a un trattamento inumano e degradante. Ad acuire la situazione precaria vi era l’esposizione al rischio di contrarre l’infezione da Covid-19. Nello specifico il detenuto era sprovvisto da mesi di uno strumento salvavita denominato CPAP necessario per agevolare la respirazione e non era stato sottoposto alle visite specialistiche richieste. La mancanza dello strumento salvavita, poi, rischiava di compromettere le precarie condizioni di salute del detenuto in quanto incideva sulle altre patologie pregresse del recluso. Non potendo attendere le tempistiche del TDS di Napoli che tardava a fissare l’udienza di rinvio a seguito della pronuncia favorevole della Cassazione, si investiva della questione la Corte di Strasburgo con una procedura d’urgenza ai sensi dell’art. 39 affinché essa adottasse una “misura urgente e provvisoria” ovvero che al detenuto venisse concesso il differimento della pena affinché potesse ottenere le cure altamente urgenti. Si chiedeva inoltre alla CEDU, qualora fosse stato necessario, di disporre che un “Soggetto Terzo” indipendente dallo Stato Italiano e dall’Amministrazione Penitenziaria effettuasse un controllo sulle reali modalità di trattamento sanitario. La CEDU, dopo due soli giorni dalla presentazione del corposissimo ricorso, ci informava di aver richiesto chiarimenti al Governo che avrebbero dovuto essere forniti entro le ore 12 del 6 maggio. Si apriva così una lunga “battaglia” con il Governo italiano. Più volte la CEDU interveniva pretendendo dei chiarimenti dal Governo Italiano e nello specifico richiedendo di fornire le generalità dei sanitari che avevano provveduto a più riprese a visitare il detenuto esprimendo pareri di compatibilità con il regime carcerario e soprattutto di adeguatezza delle cure. Con la sentenza Riela c. Italia resa dalla Prima Sezione all’unanimità, la CEDU ha riconosciuto la violazione dell’articolo 3 della Convenzione. La decisione risulta di particolare rilevanza e attualità - oltre che per il tema tecnico della “ricevibilità” sancendo di fatto che un detenuto NON può attendere i tempi della giustizia italiana se in precarie condizioni- per il giudizio di avvenuta violazione dell’articolo 3. Il ricorrente non aveva ricevuto cure mediche tempestive e adeguate e ciò ha determinato la sua esposizione a un trattamento inumano e degradante. Come noto a chiunque si occupi di salute e detenzione, i tempi della medicina carceraria sono, troppo spesso, incredibilmente e inutilmente dilatati. Possiamo quindi affermare che ogniqualvolta il ritardo nelle cure mediche non sia realmente giustificato e ogni volta senza reali giustificazioni si ritardi nella cura di patologie, nella effettuazione di esami, nella fornitura di presidi sanitari, possa esservi una diretta violazione dell’art. 3. Sono, purtroppo, molteplici le situazioni simili (se non peggiori) a quella vissuta dal nostro assistito e dai suoi famigliari. Questa decisione ha il pregio di rimettere al centro della questione carcere le effettive condizioni di salute dei detenuti, dei detenuti, ovviamente a prescindere dal titolo di detenzione, sia esso ostativo o meno. Da parte nostra ci sarà il massimo impegno perché questa decisione possa comportare per il nostro assistito - che sta affrontando con incredibile dignità questo difficile periodo - la prosecuzione del regime detentivo in ambiente domestico, risultando le sue patologie incompatibili con il regime sanitario attualmente in essere in carcere a cagione del fatto che, nonostante la pronuncia della Corte, di fatto il detenuto continua a non potere utilizzare il CPAP che, sebbene formalmente fornito risulta sostanzialmente inutilizzabile per la mancanza di “taratura”. Pertanto riteniamo che il detenuto continui a essere assoggettato a un trattamento inumano e degradante con la conseguenza che le cure approntate non sono, a oggi, solo tardive ma del tutto inadeguate. Non escludiamo, pertanto, di potere nuovamente investire la CEDU se la condizione di Riela continuerà a rimanere la stessa. La Corte europea condanna l’Italia a pagare per i maltrattamenti ai migranti di Claudio Laugeri La Stampa, 19 novembre 2023 Spogliati “senza alcuna ragione convincente”. Maltrattati e “arbitrariamente privati della libertà”. Ecco perché, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia a risarcire quattro migranti sudanesi con cifre che vanno dagli 8 ai diecimila euro ciascuno. La sentenza della prima sezione della Corte (presieduta da Marko Bošnjak) è datata 16 novembre, ma riguarda episodi accaduti nell’estate del 2016. Dopo aver avviato le pratiche per far attribuire ai loro clienti lo status di rifugiato, nel febbraio 2017 gli avvocati (Nicoletta Masuelli, Gianluca Vitale e Donatella Bava, tutti di Torino) avevano deciso di rivolgersi alla Corte di Strasburgo. I quattro erano arrivati in Italia in momenti diversi: due “in un giorno imprecisato di luglio” del 2016 a Cagliari, un altro il 14 luglio a Reggio Calabria, uno il 6 agosto sempre a Reggio Calabria e l’ultimo l’8 agosto “in un luogo imprecisato della costa siciliana”. Il più giovane ha 30 anni, il più vecchio 43. In comune, i quattro hanno che sono stati tutti trasferiti nello stesso centro di accoglienza gestito dalla Croce Rossa a Ventimiglia. Sono stati “costretti a salire su un furgone della polizia”, trasportati in una caserma dove sono stati “perquisiti”, obbligati a consegnare “i telefoni, i lacci delle scarpe e le cinture” e poi “è stato chiesto loro di spogliarsi”. Sono rimasti nudi dieci minuti, in attesa che gli agenti rilevassero le loro impronte digitali. Concluse le procedure, la polizia ha fatto salire i quattro (assieme a una ventina di connazionali) su un pullman. Destinazione: l’hotspot di Taranto. Secondo quanto ricostruito nella sentenza, i migranti sono stati “costretti a rimanere seduti per l’intero viaggio” e potevano andare in bagno soltanto scortati e lasciando la porta spalancata, rimanendo “esposti alla vista degli agenti e degli altri migranti”. Il 23 agosto, i quattro (con un gruppo di compatrioti) sono risaliti su un pullman diretti a Ventimiglia, dove hanno incontrato un rappresentante del governo sudanese che li ha riconosciuti come cittadini del suo Paese. A quel punto, è stata avviata la procedura per il rimpatrio. In aereo, dall’aeroporto di Torino Caselle. Ma sul velivolo c’era posto soltanto per sette migranti, così il questore aveva firmato un provvedimento di trattenimento e i quattro sono stati accompagnati al Centro di identificazione ed espulsione di Torino. Uno, però, è stato prelevato pochi giorni dopo dalla polizia. Per lui, era pronto un posto sull’aereo per il rimpatrio. Lui non voleva, arrivato a bordo ha incominciato a dare in escandescenze assieme a un altro migrante finché il comandante del velivolo ha deciso di chiedere alla polizia di farli sbarcare entrambi, per problemi di sicurezza. Appena rientrato al Cie, l’uomo ha ribadito la sua intenzione di ottenere la protezione internazionale. Lo stesso hanno fatto gli altri tre. Tutti hanno ottenuto lo status di rifugiato. La sentenza della Corte condanna l’Italia a pagare per varie violazioni. Una riguarda “la procedura di spogliazione forzata da parte della polizia”, che “può costituire una misura talmente invasiva e potenzialmente degradante da non poter essere applicata senza un motivo imperativo”. E per i giudici di Strasburgo “il governo non ha fornito alcuna ragione convincente” per giustificare quel comportamento. Poi, ci sono le accuse dei quattro di essere rimasti senz’acqua e cibo nel trasferimento Ventimiglia-Taranto e ritorno. Il governo aveva ribattuto fornendo “le copie delle richieste della questura di Imperia a una società di catering”, che però “riguardavano altri migranti”. Per la Corte, quella situazione “esaminata nel contesto generale degli eventi era chiaramente di natura tale da provocare stress mentale”. E ancora, le condizioni vissute in quei giorni “hanno causato ai ricorrenti un notevole disagio e un sentimento di umiliazione a un livello tale da equivalere a un trattamento degradante”, vietato dalla legge. I giudici di Strasburgo ritengono, poi, che i quattro siano “stati arbitrariamente privati della libertà”, pur se in una situazione di “vuoto legislativo dovuto alla mancanza di una normativa specifica in materia di hotspot”, già denunciata nel 2016 dal garante nazionale dei detenuti. Per la Corte, ce n’è abbastanza per condannate l’Italia a risarcire i quattro: uno dovrà ricevere 8 mila euro, un altro 9 mila e altri due diecimila “a titolo di danno morale”. Rimini. In 90 lasciano la scuola: “Carcere per i genitori? Piuttosto serve educare” di Andrea Oliva Il Resto del Carlino, 19 novembre 2023 La vicesindaca Bellini contro l’inasprimento delle pene per i genitori. Nello scorso anno circa la metà degli studenti è poi tornata in classe. Una novantina di studenti, dalle elementari alle scuole superiori, si perdono per strada nella città di Rimini. È la dispersione scolastica che il governo intende combattere con la reclusione per i genitori fino a due anni. Un errore, dice chiaramente la vicesindaca Chiara Bellini. Sarebbe un po’ come usare la clava quando serve affiancare ed educare. Non è un’opinione, perché il punto di vista della vicesindaca viene suffragato dai dati. “Delle 91 posizioni segnalate - spiega Chiara Bellini -, la metà (45), sono state recuperate in corso d’anno grazie ad un importante lavoro di richiamo e sollecito sulle famiglie. In particolare hanno ripreso la frequenza 22 alunni della scuola primaria, 2 delle scuole medie, 6 delle scuole superiori. Altri 15, hanno spostato la residenza, e recuperato la frequenza, in altri comuni o all’estero. Le posizioni di evasione accertata sono state 44. Di queste, la maggior parte (37) si sono registrate nella scuola primaria, il resto nella scuola media (3) e nelle scuole superiori (4)”. La strategia per recuperare alunni e studenti che lasciano la scuola non può essere il carcere per i genitori, ribatte la vicesindaca. “Non si può pensare che l’unica soluzione a questi problemi sia la punizione. Mentre sui territori lavoriamo quotidianamente per il coinvolgimento attivo dei genitori, proponendo di dialogare di più e meglio con la scuola, la soluzione dello Stato è mandare in galera mamme e papà. Questo accanimento verso i genitori è inutile e dannoso, quasi un proclama elettorale più che una azione governativa mirata a risolvere i problemi”. Al posto del carcere servono risorse e progetti. “Ciò che serve non sono slogan di corto respiro, ma investimenti seri di lungo termine sulla scuola e il diritto allo studio. Risorse per diminuire l’impatto dei costi delle mense e dei trasporti (come facciamo autonomamente a Rimini e in regione, in assenza di contributi nazionali) o per aumentare le dotazioni territoriali per il tempo pieno e prolungato. Ma anche questo non basterebbe perché, sul tema dell’abbandono scolastico l’unico approccio risolutivo rimane quello educativo”. Il prossimo anno scolastico Rimini sarà protagonista per l’osservazione e la sperimentazione di strumenti per il contrasto all’evasione scolastica. È stata scelta dal Garante regionale per l’infanzia assieme a Reggio Emilia e Modena. Verona. Dai detenuti di Montorio una spesa per chi è in difficoltà Corriere di Verona, 19 novembre 2023 È la solidarietà che abbatte le sbarre. Anche quelle di un carcere. Una solidarietà fatta di cose semplici: farina, pasta, lievito, legumi, grissini, ciambelle. “Armi” con le quali ieri ad essere abbattute sono state le sbarre del carcere di Montorio. Quella casa circondariale in cui le situazioni di vita non sono sempre facili, ieri si è aperta all’esterno con quel pacco carico di prodotti che le detenute e i detenuti di Montorio avevano comprato per se stessi allo spaccio. Non c’erano, in carcere, i volontari con la pettorina gialla e i sacchetti da riempire. Non c’era, soprattutto, la libertà di girare tra gli scaffali rigonfi di uno dei 14mila supermercati che hanno aderito all’iniziativa. Ma quella “spesa” le detenute e i detenuti hanno voluto metterla assieme per donarla alla “colletta alimentare” organizzata dal Banco Alimentare. E, forse, tra tutte le spese donate, quella di chi è in difficoltà in cella per chi è in difficoltà fuori, è stata la più preziosa. Brescia. In mostra progetto fotografico sulla pena di morte di Valerio Servillo La Discussione, 19 novembre 2023 La pena capitale non lascia spazio all’umanità. Testimonianze fotografiche di Luisa Menazzi Moretti. Il tempo medio che un condannato a morte attende è di diciassette anni. Un tempo persecutorio che diventa una condanna nella condanna. Su questa attesa, spesso disperata, a volte di speranza, Luisa Menazzi Moretti ha cercato altrettanti scatti fotografici che ora sono in mostra in Italia. Immagini che dopo la Biennale di Fotografia di Berlino (EMOP Berlin 2016) e il premio dell’International Photography Awards di New York arriva anche a Brescia, a conclusione del programma “Bergamo-Brescia Capitale Italiana della Cultura 2023”. Profondo Texas - Il progetto fotografico sulla pena di morte di Luisa Menazzi Moretti si intitola Ten Years and Eighty-Seven Days/Dieci anni e ottantasette giorni. Si tratta di opere che trasformano in immagini le frasi, le dichiarazioni e i testi delle lettere scritte dai detenuti del carcere di Livingston, vicino Huntsville, in Texas, in attesa dell’esecuzione. Fotografie singole, dittici o trittici di grande formato con accanto i testi delle lettere conservate nella Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Le fotografie di Luisa Menazzi Moretti non raccontano le parole, ma danno forma e immagine ai pensieri degli uomini e delle donne che le hanno scritte e pronunciate: una sorta di antologia visiva sui travagli interiori dei condannati a morte. Dal 1982 uccisi 583 detenuti - La mostra sarà aperta al pubblico dal 25 novembre al 24 dicembre al Macof - Centro della fotografia italiana di Brescia ed è inserita all’interno delle iniziative di Bergamo-Brescia Capitale Italiana della Cultura 2023. Nessun intento di reportage, né documentaristico. L’opera di Luisa Menazzi Moretti immortala la solitudine, i silenzi, crea uno stato d’animo e innesca una comunicazione non verbale. Non parla di morte, ma narra la vita sospesa dentro quel luogo e in quello Stato americano (dove l’artista ha vissuto per molti anni) in cui, dal 1982 al marzo di quest’anno, sono stati giustiziati 583 detenuti. Condizioni brutali - “Da quando la mostra è stata presentata a Siena, nel 2016 - sottolinea Luisa Menazzi Moretti - ci sono state oltre 50 esecuzioni. In questi giorni ho letto le storie e le dichiarazioni degli ultimi condannati. A fine ottobre l’esecuzione di un uomo è stata sospesa due ore prima: sono state considerate valide testimonianze che non erano state prese in considerazione durante il processo e ha influito nella decisione delle autorità la sua buona condotta. Ma è incredibile che da oltre 22 anni quell’uomo abbia vissuto nel braccio della morte, in attesa di una esecuzione che poteva avvenire in qualsiasi momento.” A novembre sono previste ad Huntsville altre due esecuzioni, tra le proteste di attivisti e familiari. Brescia capitale della dignità - “La pena capitale non lascia spazio all’umanità. Si tratta - sottolinea la Sindaca di Brescia Laura Castelletti - di una punizione crudele, impietosa e degradante ormai superata, abolita nella legge o nella pratica da più di due terzi dei Paesi nel mondo, come ci ricorda Amnesty International. Sostituendo la vendetta alla giustizia, appaga più l’istinto che la ragione. Per questo il lavoro di Luisa Menazzi Moretti, italiana cresciuta in Texas, si rivela particolarmente prezioso. Dieci anni e ottantasette giorni, mostra fotografica dedicata ai detenuti nel braccio della morte in Texas, restituisce umanità ai carcerati e dignità alle loro esistenze. È un viaggio attraverso la sofferenza che, senza nascondere le colpe e le responsabilità, rimette al centro l’uomo. Ringrazio davvero di cuore l’artista per aver portato nella nostra città questo lavoro”. Il dolore dei poveri non deve restare inascoltato di don Luigi Ciotti La Stampa, 19 novembre 2023 “Non immagini per commuoversi ma persone che chiedono dignità”: questo ha detto Papa Francesco annunciando la settima “Giornata mondiale dei poveri”. E sempre Francesco, dieci anni fa, all’inizio del pontificato, aveva sottolineato nella “Evangelii Gaudium” la centralità dell’impegno della Chiesa per le persone private della loro dignità: “Qualsiasi comunità di Chiesa che pretenda di stare tranquilla senza occuparsi dei poveri rischia di essere sommersa da una mondanità spirituale dissimulata con pratiche religiose, riunioni infeconde, discorsi vuoti”. Al rinnovamento della Chiesa auspicato e promosso dal Papa nel segno dell’impegno per i poveri e contro le ingiustizie economiche e sociali causa di povertà, non ha però corrisposto, a livello locale e globale, un impegno della politica. Il dolente popolo dei poveri si è fatto più numeroso - il recente rapporto della Caritas parla di 5, 6 milioni di persone nel nostro Paese - e, di conseguenza, sono aumentate l’emarginazione e l’abbandono, la disoccupazione o l’offerta di lavori indegnamente retribuiti, incapaci di garantire una sussistenza. Ma è nel mondo intero che si perpetua questa quotidiana offesa alla dignità, come testimoniano le tragedie delle migrazioni, dello sfruttamento ambientale, delle guerre mosse da interessi economici e da un sistema economico che opera secondo una logica bellica, negando l’universale diritto ad esistere. La stessa parola povertà è diventata troppo generica, spesso condimento di vacui discorsi che promettono e non mantengono, esercizi retorici dell’imbonitore di turno. Al dilagare delle povertà materiali ha infatti corrisposto l’impoverimento etico-culturale della politica, perché una politica che non promuove e tutela il bene comune non è più politica ma esercizio di potere. Se la parola povertà designa un “deficit” materiale, nel mondo governato da una politica che sacrifica la giustizia sociale alla “crescita economica”, quel deficit è conseguenza di una perdita, anzi di una emorragia di umanità. È necessaria allora una rivoluzione delle coscienze, un radicale cambiamento culturale. Che comprende anche una cura delle parole, un ripensamento dei significati. Povertà significa, nel concreto, “stato di bisogno”, ma la parola bisogno non riguarda solo la sfera materiale: il bisogno è anche, anzi prima di tutto, una necessità di relazione, un bisogno di riconoscimento. Le persone povere non basta accoglierle: bisogna anche riconoscerle, cioè metterle nella condizione di raggiungere quell’autonomia alla base della dignità. Per questo bisogna sottolineare con forza due cose. La prima è che i bisogni sono desideri negati. La seconda, che i desideri non sono appetiti che cercano soddisfazione e, quando non la trovano, se la procurano con violenza non sopportando la frustrazione: non c’entra nulla il desiderio con questa smania di possesso conseguenza della mercificazione delle vite, dei corpi, dei beni. I desideri sono speranze che il genere umano nutre da sempre. Speranze che migliaia di anni fa, quando mise piede sulla Terra, gli fecero rivolgere gli occhi al Cielo alla ricerca di un segno, di un riscontro, di una risposta. Non a caso la parola desiderio deriva dal latino sidera, che significa stelle, astri. I desideri dell’essere umano - oggi come allora - sono speranze di trovare casa su questa Terra, desideri di comunità dove sentirsi non solo amato e protetto ma riconosciuto nel suo impegno a “fare casa” per tutti, a costruire un bene comune. Perciò una politica che non sappia trasformare quei desideri in diritti, cioè che non sappia costruire ponti fra Cielo e Terra, presente e futuro, uguali e diversi, è una politica che combatterà la povertà solo a parole abbandonando nel frattempo i poveri al loro destino o addirittura moltiplicandoli, come accade in questo tempo di crisi dell’umano. L’universalità dei diritti sociali e ambientali - la casa, il lavoro, lo studio, le cure del corpo e dell’anima - è l’unico vero antidoto alle povertà, alle crisi climatiche, alle guerre. Ben vengano allora le analisi e le statistiche sui “nuovi poveri”, sulle povertà “relative” ed assolute, ma non ci si fermi al dato quantitativo. Le persone non sono numeri, le speranze e i desideri non sono voci di bilancio. Occorre affrontare la questione a partire dalle cause, senza fermarsi alla fotografia e all’illusorio governo dei sintomi. Sempre nella “Evangelii Gaudium” Papa Francesco ha definito il sistema economico che decide della vita di milioni di persone “ingiusto alla radice” e, sempre in quel testo, ha invitato ad “ascoltare il grido dei poveri”. È arrivato il momento di ascoltare quel grido diventato nel frattempo “voce che implora nel deserto”, perché l’idolatria del denaro ha fatto e continua a fare attorno ai poveri solo terra bruciata. Esseri umani come “scarti”? Se esistono è anche colpa mia di Fabio Balocco* Il Fatto Quotidiano, 19 novembre 2023 Ogni giovedì, nella piazzetta qui sotto casa, si siedono sulle panchine degli immigrati - solitamente, da quel che intuisco, slavi, in buona parte rumeni. Sono lì perché hanno ritirato il pacco settimanale di generi di conforto dalle suore vincenziane. Di solito hanno un bicchiere di plastica in mano con un caffè caldo e si fermano a chiacchierare tra loro. Generalmente sono persone anziane, apparentemente anche male in arnese, più uomini che donne. Sono gli scarti del sistema. Il primo, se non erro, ad associare il termine “rifiuto” all’uomo fu Zygmunt Bauman, nel suo “Vite di scarto”. Secondo l’illustre sociologo era rifiuto colui che non poteva più essere impiegato nel processo produttivo, ma anche chi consumava male perché troppo poco, ma anche il rifugiato, e comunque le vittime del sistema. Similmente Papa Francesco dall’inizio del suo pontificato parlava di “cultura dello scarto” nella nostra società, cultura che si adatta anche agli esseri umani. E poi nell’enciclica Laudato Sì: “La cultura dello scarto colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura”. Ma chi ha sistematizzato il concetto di rifiuto umano è stato Marco Armiero, nel suo “L’era degli scarti”, nel quale gli “scarti umani” sono coloro che sono vittime del sistema ma in un senso molto ampio, per cui sono tali anche coloro che vivono nella Terra dei Fuochi, o vicino ad una discarica, o gli immigrati e i rifugiati, oppure quelli che furono travolti dall’onda della diga del Vajont. Scarti non funzionali al sistema, ma talvolta anche sì, come quando raccolgono e riciclano i rifiuti, come accadeva nella discarica di Jardim Gramacho (ora chiusa e in via di ripopolamento da parte delle mangrovie). Scarti che - ironia della sorte - spesso sono addirittura colpevolizzati di essere tali, perché non sanno cogliere le opportunità che il sistema economico gli offre. Tipica la visione statunitense del povero come colui che non ce l’ha fatta. Scarti di cui la narrazione corrente, i media di regime si astengono dal parlare, perché la Storia con la esse maiuscola è fatta dai vincenti; delle vittime delle vittorie è bene tacere. Ma, aggiungo io, la platea degli scarti deve estendersi anche a coloro che vivono vicino o lavorano dentro ad Agbogbloshie, in Ghana, la più grande discarica di rifiuti elettronici al mondo (che anche Armiero ricorda). E ai contadini, quelli suicidi in India, e a quelli segnati dal Roundup negli Usa. E altresì a coloro che in tutto il mondo permettono a noi occidentali di avere solo il bello del “progresso”: non solo i cellulari e i pc, ma anche le auto elettriche, i pannelli solari, l’ecologico insomma che ecologico alla fonte è tutt’altro, come ricorda Guillaume Pitron nel suo “La guerra dei metalli rari”. Chi parla qui da noi dei villaggi del cancro in Cina, come Dalahai? Io le guardo, queste persone in piazzetta ogni giovedì. Mi verrebbe di parlare con loro, capire di più. Anche se non c’è niente da capire, tutto è in realtà molto chiaro. Anni fa ne intervistai uno sotto Natale: era un rumeno che tornava a casa, per continuare ad essere povero là, ma almeno con la sua famiglia. E allora mi astengo, mi limito a guardare, a sentirmi stringere il cuore, a sentire chiaramente che se quegli scarti esistono è anche colpa mia. *Scrittore Migranti. L’accordo Meloni-Rama e l’invenzione dei “posti sicuri” di Marco Bascetta Il Manifesto, 19 novembre 2023 Un colpo di teatro modello: in Europa, e in Germania, l’idea di trasferire in paesi terzi l’”aggravio” di accoglienza, procedure per l’asilo e respingimenti non è affatto disdegnata. Ogni politica è sempre anche un gioco di finzioni, un’arte del far credere, del “come se”. E nei casi in cui la complessità o l’enormità di un fenomeno, di un evento o di uno sviluppo storico sono del tutto fuori dalla portata dei poteri costituiti e della loro immaginazione politica, allora la finzione prende completamente il sopravvento. È quanto accade con tutte le misure e gli strumenti messi in campo per arginare, governare, dirottare la circolazione dei migranti diretti in Europa. Ricorrentemente, soprattutto in prossimità delle scadenze elettorali, la demagogia dominante attiva, con un abusato gioco di sponda, la paura irrazionale dell’”invasione” e le ricette miracolose per contrastarla. L’accordo tra Roma e Tirana è un esempio da manuale di simili messe in scena, letteralmente un “colpo di teatro”, e in questo, solo in questo, può assumere il valore di modello. Tali e tanti sono gli ostacoli giuridici, finanziari e operativi che incontrerà sulla sua strada da renderne risibili se non inesistenti i risultati. Per non parlare delle “trovate” che si arenano già in tribunale come l’allucinazione neo imperiale dell’asse Londra-Rwanda. E però il messaggio resta: “Stiamo facendo qualcosa per proteggere voi le vostre abitudini e i vostri privilegi di occidentali”. Nessuno intende privarsi di questa leva, logora, elementare, ma di sicura efficacia. In gran parte d’Europa, e in Germania prima di tutto, l’idea di trasferire in paesi terzi tutto il rognoso pacchetto dell’accoglienza, delle procedure per l’asilo e dei respingimenti non è affatto disdegnata. Lo sforzo è tutto rivolto a come aggirare principi e regole che l’Unione stessa si è data per aver mano libera nella fittizia risoluzione demagogica di un fenomeno che soluzione non ha. A questo scopo si rende necessaria una sostanziale falsificazione della realtà del mondo che passa soprattutto attraverso gli pseudoconcetti di “paese sicuro” e “migrazione legale”. Sulla seconda è presto detto: nessuna fuga si dà mai in maniera legale, trattandosi, almeno alla sua origine, di un’evasione. Quanto al paese (o porto) sicuro, di che cosa si tratta?Sicuro per chi? Da quando e fino a quando? E a quali condizioni e imposizioni? Con quale trasparenza? Prendiamo due esempi, ancora una volta tedeschi. Il governo federale di Berlino ha voluto l’inclusione della Moldavia e della Georgia nel novero dei “paesi sicuri” verso i quali i migranti possono essere respinti. Le obiezioni non hanno tardato a venire. Per quanto concerne la Moldavia, chi si occupa della tutela dei Rom ha prontamente segnalato la pesante discriminazione degli zingari in quel paese, mentre la Georgia si distingue nel rendere gli orientamenti sessuali motivo di persecuzione, come ha segnalato una deputata dei Verdi, partito che, contro le proprie tradizioni, ha avallato la promozione dei due paesi. Gli esempi chiariscono in concreto che di paesi sicuri per tutti i loro cittadini ne esistono, se ne esistono, ben pochi. Che per molti e molte, per ragioni di genere, di appartenenza culturale o religiosa, di opposizione politica e sociale, di diritti negati, sussistono indubbie ragioni di fuga che per altri, integrati e maggioritari, non sussistono. I migranti, come le società da cui provengono, non sono masse omogenee. Fino all’indecorosa revoca della protezione, imposta da Ankara per l’ingresso nella Nato, Svezia e Finlandia consideravano quegli stessi rifugiati curdi che la Turchia bollava come terroristi, perseguitati politici meritevoli di asilo. Mentre l’autocrazia turca di Erdogan godeva di una tale fiducia nell’essere rispettosa dei diritti umani da venire prescelta a Berlino come principale parcheggio a pagamento dei migranti in fuga dalle guerre medio orientali. Ed ecco l’ennesima finzione: l’esistenza (o la possibilità) di efficaci accordi con alcuni paesi di transito dei flussi migratori verso l’Europa per fermare, trattenere o respingere i migranti in forme possibilmente non troppo barbariche. La realtà si è invece palesata nei campi di concentramento libici, nella caccia tunisina ai subsahariani, nelle ronde dei gendarmi marocchini intorno a Ceuta e Melilla. Sostanzialmente in una rete di loschi traffici, ricatti politici e schermaglie diplomatiche, il tutto aggravato dall’esiguità dei fondi resi disponibili per queste operazioni. La scomoda enclave italiana in Albania difficilmente varcherà i confini della rappresentazione per conseguire qualche risultato, ma in fondo il suo compito lo ha già svolto: rinverdire il mito dell’arte di arrangiarsi con pochi soldi e ancor meno idee. Il cancelliere Scholz ha apprezzato. Lo sterminio di rom e sinti, quella parte dimenticata del nazifascismo di Diletta Bellotti L’Espresso, 19 novembre 2023 Il “divoramento”, cioè l’internamento e l’uccisione nei campi di concentramento, dei popoli romanì è un fatto storico sottoposto ad autentico memoricidio. Il destino di un numero di persone tra 200 mila e un milione in Europa è avvolto dall’oscurità. Secondo alcune fonti, Tadeusz Joachimowski, ebreo polacco sopravvissuto alla prigionia nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, riuscì a seppellire un archivio dei rom e sinti internati nel Zigeunerlager, l’apposito settore per gli “asociali”, ovvero coloro che venivano socialmente riconosciuti come romanì, ritenuti intrinsecamente criminali e su cui venivano condotti i principali esperimenti di eugenetica per separare il gene “ariano” da quello “criminale”. Grazie a Tadeusz e ad altri due prigionieri, sappiamo i nomi dei 20 mila rom e sinti uccisi nei forni crematori, quando si decise di fare spazio per l’arrivo delle prigioniere politiche. Soprattutto, conosciamo i nomi di coloro che la notte del 16 maggio 1944 appresero, dall’archivista Tadeusz, la notizia del trasferimento e si ribellarono, ispirando migliaia di prigionieri dentro Auschwitz-Birkenau a fare lo stesso. La loro rivolta contro le Ss, nata da barricate e guerriglia, armata di pettini e forchette, durò quasi tre mesi. Fu soppressa con la fame, le epidemie e, infine, i forni. Per i romanì internati nei campi non c’erano registri di morte e, anche per questo motivo, i numeri dello sterminio in Europa variano dai 200 mila al milione. In Italia, il memoricidio nei confronti del cosiddetto “Porrajmos”, del “divoramento” dei popoli romanì, cioè rom, sinti, manush e kalé, durante il nazifascismo, persiste. In Italia, dove il primo campo di prigionia per i romanì anticipa le leggi razziali di dodici anni, il memoricidio sembra tramandarsi di decennio in decennio, affinché, sulla loro pelle, si possa sempre fare campagna elettorale. Tra i campi di prigionia ad hoc ricordiamo quello di Agnone, di Berra, di Bolzano e di Prignano sulla Secchia, in provincia di Modena, a cui sopravvissero i “Leoni di Breda Solini”. I Leoni erano un distaccamento partigiano di sinti circensi e giostrai attivi al confine tra l’Emilia e la Lombardia, specializzato nel disarmo e nel sabotaggio. Si conquistarono il soprannome di “Leoni” dopo aver disarmato una pattuglia dell’avanguardia tedesca. Sono ricordati perché rifuggivano, il più possibile, la violenza e perché alternavano mattinate di spettacoli nelle piazze con nottate di azioni sabotatrici. Il memoricidio del divoramento dei popoli romanì nei campi di prigionia è superato forse solo dall’oblio intorno al loro ruolo nella Resistenza: non ricevettero mai compensazioni né riconoscimenti. Tra i partigiani romanì fa eccezione Amilcare “Taro” Debar, partigiano nella 48° Brigata Garibaldi “Dante Di Nanni”, attiva nella liberazione di Torino. Finita la guerra di Liberazione, a Taro non fu riconosciuto il suo impegno durante la Resistenza finché Sandro Pertini non divenne presidente della Repubblica. Nel dopoguerra, né la Germania né l’Italia avviarono alcun procedimento per il riconoscimento formale dello sterminio etnico compiuto nei confronti delle popolazioni romanì: in Germania figurano fra le “altre vittime”. In Italia, la legge che ha istituito il Giorno della Memoria non fa alcun riferimento al Porrajmos. Dal 2015, la comunità internazionale ha istituito una giornata per ricordare il divoramento: il 2 agosto, anniversario della repressione della rivolta di Auschwitz. Canta così l’inno rom “Gelem, gelem”: “Sono andato, sono andato per lunghe strade, ho incontrato rom felici […] una volta avevo una grande famiglia, la legione nera li ha uccisi”. La “rule of law” è a rischio in tutta Europa di Barbara Benzi* Il Domani, 19 novembre 2023 La dignità dell’uomo, lo Stato di diritto, la democrazia, la separazione dei poteri sono principi fondanti dell’Unione Europea e sono oggi soggetti a stress ed al rischio di ridimensionamento, tanto repentino quanto pericoloso. Area Democratica per la Giustizia è da sempre attenta al panorama internazionale, consapevole che i magistrati non possano sottrarsi alla riflessione sui grandi temi del nostro tempo - le migrazioni, la sostenibilità ambientale, la minaccia terroristica, la pace fra i popoli. In questo senso è importante seguire il dibattito sul rispetto, anche negli altri Stati e negli altri ordinamento, dei principi fondativi dello Stato di diritto, sulla democrazia, sulla tutela dei diritti umani: la rule of law, infatti, non costituisce un patrimonio acquisito per sempre, va preservato e sostenuto. Per questo è stato organizzato, nel corso dell’ultimo anno, un bellissimo convegno a Torino e nel corso del recente congresso di Palermo abbiamo ascoltato l’intervento del giudice polacco Bogdan Jerdrys. C’è infatti una tendenza comune che porta alla erosione dell’indipendenza del potere giudiziario, che è invece un indicatore fondamentale della salute della democrazia e soprattutto è funzionale alla tutela dei diritti ed all’accesso alla giustizia dei cittadini. In Polonia, da quando, nel 2015, il partito conservatore Diritto e Giustizia aveva ottenuto la maggioranza assoluta, sono cominciate riforme del sistema giudiziario che, sebbene assunte con il dichiarato scopo di renderlo più efficiente e meno corrotto, in realtà sono state giudicate in pieno conflitto con il principio di separazione dei poteri, tanto da indurre la Commissione Europea a prospettare la necessaria operatività dell’Art. 7 del Trattato sull’Unione ed il Parlamento Europeo ad adottare nel 2021 una risoluzione denominata “Crisi dello Stato di diritto in Polonia e primato del diritto della UE”; su altro fronte, quello della tutela dei diritti LGBT, l’adozione, nel 2019, della Carta per i diritti della famiglia era sfociata nell’apertura di un’altra procedura di infrazione; infine, la guerra in Ucraina e la gestione della crisi di confine con la Bielorussia ha indotto la Commissione Europea ad adottare misure di sostegno temporanee per la Polonia in tema di misure di asilo e rimpatrio, la cui verificabilità tuttavia parrebbe poco riscontrabile. Le recenti elezioni in Polonia, con il ridimensionamento del partito Diritto e Giustizia, aprono altre e più ottimistiche prospettive per il rispetto del principio di separazione dei poteri. Sul fronte turco, la situazione ha assunto tratti di drammaticità, soprattutto considerando che dal 1999 la Turchia possiede lo status di paese candidato ad entrare nella Unione Europea. La situazione era precipitata dopo il 15 luglio 2016 quando il governo aveva predisposto una decretazione di urgenza contenente liste di proscrizione ed, improvvisamente, molti magistrati, insieme ad accademici, intellettuali, giornalisti, difensori dei diritti umani venivano sottoposti a custodia cautelare in carcere. L’attenzione alle condizioni di esercizio della giurisdizione negli altri paesi, per fortuna, diventano patrimonio comune come dimostra il Seminario, tenuto presso il CSM nel luglio 2021 e fortemente voluto da Alessandra Dal Moro, dal titolo “La crisi dello Stato di Diritto e l’indipendenza della Magistratura”. La dignità dell’uomo, lo Stato di diritto, la democrazia, la separazione dei poteri sono principi fondanti dell’Unione Europea e sono oggi soggetti a stress ed al rischio di ridimensionamento, tanto repentino quanto pericoloso: è importante, per questo, monitorare la salute della Rule of Law, per cogliere segni premonitori e avvisaglie di un suo depotenziamemto. *Magistrato, coordinamento nazionale di Area DG Dal Medio Oriente all’Ucraina, la globalizzazione dell’odio di Domenico Quirico La Stampa, 19 novembre 2023 Nel terzo millennio la parola d’ordine è annientare, si uccide senza castigo. Quante vittime può tollerare una “guerra giusta”? È strano come in guerra tutte le cose acquistino una nuova dimensione, come se ci mostrassero per la prima volta il loro nero aspetto e ci invitassero, perentoriamente, a evitare scappatoie ipocrite e a riconoscere la realtà. I bombardamenti a tappeto, indiscriminati, i civili massacrati e usati come mezzo di scambio, le stragi degli innocenti, gli ospedali smantellati come se fossero fortezze assediate, i profughi aggrappati a frontiere impietose, voragini, bunker, terre svuotate di genti dall’espressione sbalordita e il passo incerto, uomini il cui mitra sembra nato con loro: tutto è così chiaro e tangibile. Siamo chiusi in un pozzo, siamo in trappola: è la guerra. Dobbiamo imparare a esser contenti, noi, per il semplice fatto di essere vivi. La guerra di Gaza come quella che si svolge in Ucraina: due posti dove c’è sempre qualcuno che non doveva esserci. È come la pietra filosofale, muta la natura dei metalli, fa l’alchimia delle cosiddette buone regole dei conflitti, del tentativo donchisciottesco, spesso ipocrita, di controllare l’incontrollabile. La selvaggia risolutezza della guerra, di qualsiasi guerra che sia condotta da democrazie o da tirannidi, da fanatici che invocano dio come garante dei loro delitti o da eserciti di Paesi che rendono omaggio ai diritti dell’uomo, da guerriglieri e da generali, non conosce ostacoli né morali né spirituali. Ed è questa spietatezza la causa e la condizione della vittoria. Adesso, nel 2023, non possiamo più fingere, arrendiamoci, disfatti, alla realtà: sono inutilizzabili i calepini con le regole per ammazzare in buona forma, le corti penali che acchiappano, e non sempre, solo i vinti di basso lignaggio, la radiografia delle intenzioni di chi uccide, distrugge, annienta, con la lanterna di Diogene dei codici penali che nessuno, a cominciare da noi occidentali, riconosce a meno che non gli faccia comodo. Non manca nemmeno un bottone alle uniformi del nostro reggimento di virtuosi sillogismi giuridici. Eppure come si vede il Male è perseverante. La guerra, capitalista, rivoluzionaria, jihadista, nazionalista è una divinità feroce che conosce solo scopi e risultati, i propri. Quando si sa che si può uccidere senza castigo né biasimo si uccide. L’essere umano, quello della propria parte e quello nemico, è solo una materia prima da utilizzare. Volete una parola simbolo per il terzo millennio? Eccola: annientare! La strillano tutti, Netanyahu e gli ayatollah di Teheran e di Gaza, Putin e Zelensky: annientare i palestinesi di Hamas, annientare gli ebrei, annientare i fascisti di Kiev, annientare i nazisti di Mosca... La Storia è piena di scheletri misteriosi di mammut: uno di questi è l’idea del diritto internazionale, la ragnatela di accordi, convenzioni, da Kant a Nicola secondo (proprio lui Nicola secondo, lo Zar russo propose una conferenza sul disarmo, i popoli applaudirono, i governi la definirono “una fesseria”, “una commedia” ) per salvare, anche nel massacro, la dignità della vita umana. Patti che valgono fino a quando non scoppia un conflitto. La guerra nella sua spaventosa realtà assoluta si è avventata prima sui villaggi di frontiera di Israele il 7 ottobre e poi sulla Striscia. Tutto brucia come un infiammabile materiale di sobillazione: le memorie antiche e recenti, la azioni disumane che sono sempre solo quelle dell’altro, il dio nostro e quello loro, i martiri che sono i nostri e i morti che l’hanno meritato, i loro, ovviamente. Non so se il Segretario di Stato americano Blinken sia un uomo sincero o semplicemente un cinico politicante smaliziato. Quando afferma, in tono perentorio, cercando di arginare, un pochino, la vendetta di Israele (o solo per fingere di farlo): a Gaza ci sono troppi morti civili! Mi soffermo sul troppo. Che gettiamo dentro quella parola? Che numeri, intendo? E come li definiamo antropologicamente quei numeri? Cento mille civili bastano, sono normali, accettabili, fermiamo la calcolatrice? Rientrano nelle regole della guerra buona? E di questi quanti possono essere bambini o donne o vecchi o malati perché si galleggi virtuosamente al di qua della soglia che a Washington, specializzata nelle guerre giuste, sia considerata canonica? Forse Blinken rammenta le parole del generale nordista Sheridan, condottiero della implacabile marcia su Atlanta segnata dagli allegri roghi di città e villaggi: “Alla gente bisogna toglier tutto eccetto gli occhi con cui piangere per la guerra”. Per il generale (le sue statue credo abbiano retto alle ruspe del politicamente corretto) i cannoni lavoravano, già nell’Ottocento, come una catena di montaggio, qualsiasi prezzo pagato dagli altri era giustificato dalla necessità di evitare perdite ai suoi. Un ragionamento che ha seguiti forsennati. Il ministro della Difesa britannico Shapps paragona Hamas e Gaza alla Germania nazista e quindi, con cartesiano contrappasso, spiega che raderla al suolo e uccidere i civili è una giustificata condotta di guerra. Già. Concorda anche Israele. Viene in mente che, a Norimberga, l’unico delitto che non fu inserito tra i capi di accusa ai criminali nazisti fu il bombardamento a tappeto, quello che si sintetizzava in gergo tremendo con “coventrizzare”. Perché era un delitto che anche gli alleati avevano largamente commesso. Chissà se Netanyahu ricorda che un ingenuo sapiente ebreo Maimonide, si era da poco superato il fatidico anno Mille senza danni, suggeriva in guerra di non distruggere gli alberi da frutta e che le città fossero assediate solo da tre lati per lasciar la possibilità a chi voleva andarsene di imboccare “un corridoio umanitario”? La carica di odio che è il motore di ogni guerra travolge tutto, perfino la buona fede di alcuni che pensano di renderla decente, accettabile, beneducata, e che ne moltiplicano semplicemente la ipocrisia. È impossibile cercare di imporre regole alla guerra, perché non è un gioco. I fatti, ahimè, valgono più dei sogni. Che cosa è rimasto della certezza del presidente americano Wilson secondo cui le sanzioni avrebbero reso inutili le guerre? Le sanzioni! Nel 1942, nella guerra in Cina, i generali giapponesi adottarono la regola dei tre assi: uccidere tutti, bruciare tutto e distruggere tutto. Semplice, vero? Molto comprensibile. Senza dirlo, tutti, con il drone o con il machete, con il kalashnikov e con il missile ipersonico, tutti vi si attengono quando il grosso mostro si espande come una nebbia e riempie l’atmosfera della sua sensibile presenza. Medio Oriente. A chi conviene l’attacco di Hamas di Ugo Mattei L’Espresso, 19 novembre 2023 I massacri del 7 ottobre potrebbero provocare l’annessione della Cisgiordania e l’allargamento del conflitto anche a Libano e Siria da parte di Netanyahu. Vorrei si riflettesse anche in Italia sull’ipotesi, peraltro avanzata anche da Paul Craig Roberts, ex vicesegretario all’Economia di Ronald Reagan, per cui i fatti del 7 ottobre non potrebbero essere considerati una inspiegabile débâcle di Benjamin Netanyahu e del Mossad. Piuttosto, essi costituirebbero un fulgido e complesso esempio di infiltrazione di Stato, un po’ come l’incendio del Reichstag, le bombe di Piazza Fontana negli anni della strategia della tensione, o secondo parecchie ricostruzioni, l’altra storica débâcle di servizi segreti mai davvero spiegata e per la quale nessuno ha pagato, quella dell’11 settembre. Ipotesi certo non dimostrabile, ma almeno plausibile quanto le “verità ufficiali”. Anche perché della dinamica concreta dei fatti del 7 ottobre nulla si sa. Del resto, che Hamas sia stata almeno in parte una creatura israeliana, volta a delegittimare il fronte laico e di sinistra nell’Anp, non è un mistero; così come non lo è che l’Isis sia stata ben vicina alla Cia (gli spettacoli osceni dei prigionieri sgozzati toccano gli stessi tasti emotivi dei bambini israeliani decapitati, orrore spettacolare capace di effetti devastanti); né, grazie a WikiLeaks, è più un segreto che le armi sottratte a Gheddafi in Libia siano state trasferite ai fondamentalisti di Al Qaeda, proprio a cura della stessa Cia, (coperta della finta ambasciata Us di Bengasi) con la piena consapevolezza di Hillary Clinton. Il tentativo era di distruggere l’ultimo esponente del Baath scampato alle attenzioni occidentali, ossia Bashar al-Assad (che deve la pelle a Vladimir Putin). Aver smascherato quest’ultimo verminaio costituisce la ragione della efferata vendetta contro Julian Assange. Gli esempi possono continuare. È in ogni caso certo che qualunque atto terroristico di portata significativa rafforza il potere contro cui si rivolge, come mostrato da Gianfranco Sanguinetti nel suo noto “Del terrorismo e dello Stato”, scritto nel 1978 in occasione del sequestro Moro, ricco di esempi storici anche antichi. Sappiamo inoltre, almeno fin da quando Victor Serge fu autorizzato da Lenin ad aprire gli archivi dell’Ochrana, antenata dei servizi segreti di tutto il mondo, voluta dallo zar Alessandro II, che l’infiltrazione costituisce la migliore strategia per il potere e che conviene infiltrare quanto già esiste piuttosto che fondare nuovi soggetti (il manualetto di Serge pubblicato a Parigi nel 1925 è stato tradotto in italiano proprio quest’anno). Chi è stato a Gaza sa bene che è estremamente improbabile riuscire a importare strutture e armamenti imponenti come quelli che sono stati usati da Hamas senza disattenzione complice da parte dei gatekeepers. Altrettanto difficile è spiegare la fuoriuscita simultanea via terra, aria e mare di centinaia di miliziani fanatici e armati fino ai denti, lasciati liberi di scorrazzare per ore. Conviene allora almeno riflettere sul cui prodest. Proprio come il potere italiano nel 1969, anche Netanyahu era negli ultimi mesi oggetto di contestazioni durissime per il suo tentativo di fascistizzare le istituzioni mettendo la mordacchia alla Corte Suprema. Proprio come l’attacco dell’11 settembre ha reso possibile l’istituzione del regime statunitense della sorveglianza (Patriot Acts) e il completamento del disegno neocon in Afghanistan e Iraq, altrettanto il 7 ottobre consentirà a Netanyahu (con un governo di salvezza nazionale) di: completare l’annessione illegale della West Bank (oggetto di contestazione locale e internazionale); distruggere definitivamente Gaza e con essa la viabilità della “two states solution”; allargare il conflitto al Libano meridionale, annettendone finalmente le ambite sorgenti idriche; forse estendere a Iran e Siria l’offensiva, rafforzando il proprio legame con l’Arabia Saudita (molto ben visto dal dipartimento di Stato che soffre l’iniziativa russa di avvicinare Arabia Saudita e Iran), offrendo così ai dem americani la possibilità di rifarsi dello smacco loro inflitto da Putin, proprio mentre le cose non sembrano mettersi benissimo in Ucraina. Più in generale, il fronte occidentale incassa il rafforzamento dello stereotipo: Medio Oriente = fondamentalismo islamico, strategia comunicativa da sempre utilizzata dagli Stati Uniti con il loro lavorio di supporto ai Fratelli Musulmani fin dai tempi di Gamal Nasser. Del resto, infiltrare e corrompere la leadership di Hamas è un gioco da ragazzi (come lo era stato con diversi uomini forti dell’Olp) come lo è stato far esplodere la pentola di Gaza, dando a tanti giovani miliziani cresciuti in cattività l’occasione per sfogare il loro odio. Giulio Andreotti una volta disse: “Se fossi cresciuto in un campo profughi in Libano probabilmente sarei diventato un terrorista anch’io”. Certo, a distanza di qualche settimana la spropositata violenza della reazione lascia annichiliti. Medio Oriente. La guerra si sta combattendo anche sui social di Alessandro Longo L’Espresso, 19 novembre 2023 Fake news, disinformazione, immagini manipolate con la IA. Sulle piattaforme i conflitti esasperano tendenze già dominanti. Ma dietro le regole necessarie si affaccia il rischio della censura. Un bambino che piange, tra le rovine di un quartiere raso al suolo dalle bombe. Sembra Gaza. Ma è una finzione. I terroristi di Hamas cominciano a utilizzare i nuovi strumenti di intelligenza artificiale per creare immagini ad alto impatto emotivo; come se in quella striscia tormentata di terra non ci fosse già troppa sofferenza reale, verrebbe da dire. Ma, si sa, immagini create ad arte fanno più colpo, sui social media. Un’altra foto “artificiale” raffigura bambini abbracciati alla bandiera palestinese: pura propaganda. Sono finzioni smascherate da uno studio dell’Università di Berkeley. Immagini e video falsi, creati con il computer o provenienti da altre guerre; disinformazione; immagini reali ma orripilanti, diffuse per fare propaganda alla causa di Hamas o terrorizzare gli israeliani - tanto che molti di loro hanno dichiarato di dovere evitare i social network per paura di trovare immagini terribili di propri parenti o amici. Ci sono tutti questi elementi nell’ultimatum che la Commissione europea ha mandato nelle scorse settimane ai social media: X (già Twitter), Meta (Facebook, Instagram), TikTok, YouTube. Li sprona a dimostrare di stare facendo il massimo per ripulire le proprie piattaforme. Era già successo con altre guerre - compresa l’ultima in Ucraina - ma stavolta l’Europa ha, da agosto 2023, un’arma in più: la normativa Digital Services Act consente di infliggere sanzioni miliardarie (fino al 6 per cento del fatturato) alle piattaforme trovate in fallo. Fino alla possibilità di bandirle dall’Europa. Al tempo stesso, molti palestinesi sui social stanno accusando Meta di censurare i loro racconti e le loro opinioni; lo affermano anche i media del mondo arabo (come Al Jazeera). Meta ha risposto che alcuni account di legittime organizzazioni palestinesi sono stati bloccati solo per motivi di sicurezza (si temeva che i loro account fossero controllati da terroristi) e di avere bollato per errore come terroristi profili di persone normali. È anche vero però che l’anno scorso un rapporto interno, indipendente e commissionato dalla stessa Meta, ha rivelato che il social ha violato i diritti umani dei palestinesi perché ne aveva censurato le voci durante gli attacchi di Israele a Gaza. Molti esperti, anche in Italia, considerano questi eventi come cartina di tornasole di un problema più grande. Certo, la guerra scoppiata in Medio Oriente ha denudato - ancora una volta, e con più forza - il ruolo controverso dei social. Ma non solo: a mostrarsi sono ora le contraddizioni dell’Occidente; diviso tra la tutela del profitto e della libera espressione da una parte e la difesa dei propri valori e confini dall’altra. Come dice Guido Scorza, dell’Autorità Garante Privacy: “Bisogna fare una distinzione netta tra contenuti violenti, orripilanti e la cosiddetta disinformazione. Quelli non dovrebbero esserci su nessun media e l’Europa può spingere i social a fare di più; sulla disinformazione invece sono scettico: il rischio è la censura”. È d’accordo Juan Carlo De Martin, ordinario al Politecnico di Torino dove è uno dei fondatori del Centro Nexa su Internet e Società: “Preoccupa che i governi e l’Europa sempre più cerchino di manipolare l’opinione pubblica intervenendo sulle piattaforme social”. “La disinformazione è un problema reale, ma lo è altrettanto che la politica la usi come un randello per mettere a tacere il libero dibattito, le opinioni divergenti; soprattutto sui social, temuti perché qui anche voci alternative possono costruirsi un’audience”, aggiunge. Secondo il professore vent’anni fa l’Occidente era più aperto; ma ora si sente fragile, per l’avanzata culturale ed economica dell’altro blocco, e così tollera meno il pensiero alternativo. Come avvenuto durante il maccartismo (la crociata anti-comunista negli Usa nel dopoguerra). Ma, ancora, al tempo stesso: la libertà di espressione sui social è a volte solo una bandiera dietro cui si nascondono interessi di profitto. Legali sì, ma potenzialmente pericolosi per la società. “Le piattaforme non dovrebbero viralizzare così tanto certi contenuti”, riconosce De Martin. I social sono progettati in modo da catturare di più la nostra attenzione, per fare più soldi con la pubblicità. A questo scopo preferiscono farci vedere soprattutto ciò che ci emoziona e conferma le nostre idee. Meta per questo motivo qualche anno fa ha cambiato l’algoritmo per rendere meno visibili le fonti giornalistiche professionali. Il social cinese TikTok è stato sempre pensato in questo modo; X, sotto la guida di Elon Musk, è diventato l’alfiere di questa “libertà di espressione” priva di scrupoli. Il risultato è aumentare la polarizzazione tra opinioni e all’interno della società occidentale, come evidenziano le analisi (tra gli altri) di Davide Bennato (Sociologia dei media digitali all’Università di Catania) e Walter Quattrociocchi (Università la Sapienza di Roma). Gli esperti concordano: una mano pesante sui social, armata dal Digital Services Act, rischia di essere controproducente. “Gli utenti che si sentono censurati migrerebbero su piattaforme fatte apposta per loro; aumenterebbe così solo la polarizzazione”, dice Quattrociocchi. Un esempio è già Trust, il nuovo social creato da Donald Trump. La soluzione di fondo è una sola: “Costruire una cittadinanza informata, dotata di senso critico; unico antidoto sia alla disinformazione sia al pensiero unico”, dice De Martin. È la soluzione più complessa di tutte - sulla cultura i governi disinvestono da anni - ma è la sola che possa “salvare la democrazia dal diventare un guscio vuoto”, dice De Martin.