Pacchetto sicurezza, il nuovo reato di “rivolta in carcere” è inutile se non oppressivo di Luigi Mastrodonato Il Domani, 18 novembre 2023 “Basta impunità per chi mette a ferro e fuoco le carceri”, dice il sottosegretario alla giustizia Delmastro. Ma le rivolte violente sono già punite dalle leggi esistenti. Mentre il rischio è che la fattispecie di “resistenza anche passiva agli ordini impartiti” si trasformi in una totale repressione di qualsiasi forma di dissenso pacifica all’interno delle carceri. Il 16 novembre il Consiglio dei ministri ha approvato il nuovo pacchetto sicurezza. Una serie di misure radicali che sembrano voler instaurare uno stato di polizia, tra forze dell’ordine che potranno portarsi dietro armi diverse da quelle d’ordinanza, nuovi illeciti penali come il blocco stradale e una stretta sull’occupazione abusiva delle case. Nel pacchetto sicurezza si parla anche di carceri: il disegno di legge punta a togliere l’obbligatorietà del rinvio dell’esecuzione della pena per le donne condannate che sono incinte o hanno figli con meno di tre anni. Un duro colpo all’ideale del “mai più bambini in carcere”, in un paese come l’Italia dove a fine ottobre 2023 erano 23 i bambini costretti a dividere la detenzione con la propria madre. Ma di carcere nel pacchetto sicurezza si parla anche in un altro punto. Il Consiglio dei ministri ha infatti inserito una nuova fattispecie di reato contro la rivolta in carcere e nei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr), con pene che possono andare dai due agli otto anni. “Basta impunità a chi mette a ferro e fuoco gli istituti penitenziari”, ha tuonato Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia. “Mai più rivolte eterodirette dalla criminalità organizzata senza reazione da parte dello Stato”, ha aggiunto. Un probabile riferimento alle rivolte di marzo 2020 nelle carceri, costate la vita a 13 detenuti in circostanze mai del tutto chiarite e in un primo momento associate a una regia mafiosa. Una versione poi smentita da più parti, compreso dalla Commissione ispettiva del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria istituita per indagare su quei fatti. Perché il pacchetto sicurezza entri in vigore si attende l’approvazione del parlamento. A quel punto l’Italia avrà il reato di “rivolta in carcere”. Che però, nei fatti, esiste già. Il governo lo aveva già fatto con il cosiddetto decreto anti-rave party: introdurre una legge ad hoc per punire un reato che di fatto già esisteva, in quel caso l’occupazione illegittima di proprietà pubbliche o private. Una mossa dettata più da propaganda che da necessità, un’iniziativa che ora si ripete. Oggi sono già centinaia i detenuti che si trovano sotto processo per aver preso parte a rivolte. Molti di questi hanno a che fare proprio con le sommosse del 2020, che interessarono decine di istituti penitenziari italiani dopo le limitazioni imposte per il coronavirus. Il 26 ottobre per esempio si è aperto il processo a carico di 97 detenuti del carcere di Pavia per quei fatti, con accuse di saccheggio e devastazione che potrebbero portare a condanne dagli otto ai 15 anni. Più di quanto previsto dal nuovo reato di rivolta in carcere. A maggio scorso invece è iniziato il processo per 23 detenuti del carcere di Cremona, sempre per le sommosse scoppiate durante il Covid-19. Sono accusati di radunata sediziosa, violenza, minaccia e resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento. Processi simili per le rivolte di quel periodo si sono tenuti un po’ in tutta Italia: da Reggio-Emilia, dove l’accusa ha riguardato 19 detenuti, a Roma Rebibbia, dove a giudizio sono finiti 42 detenuti, passando per i 22 di Milano Opera e per molti altri istituti. E in diversi casi sono già arrivate le prime condanne. Sei detenuti del carcere di Padova hanno ricevuto pene di sette anni ciascuno per devastazione, resistenza a pubblico ufficiale e lesioni. A Melfi le condanne nei confronti di quattro detenuti coinvolti nella sommossa del 2020 sono state dagli otto ai dieci anni. Altre quattro condanne fino a due anni e otto mesi hanno riguardato le rivolte alla Dozza di Bologna, mentre a Milano San Vittore le pene hanno superato i cinque anni. A Modena, il luogo simbolo delle rivolte di marzo 2020 con la morte di nove detenuti, è ancora aperto il fascicolo su 70 detenuti che avrebbero preso parte ai disordini. Ma per trovare processi e condanne a tema rivolte non serve focalizzarsi sull’eccezionalità di quelle di tre anni fa. A Trento per esempio 80 detenuti sono a processo per una sommossa del 2018, a Varese sono 28 i detenuti imputati per una rivolta del 2021. Insomma, in Italia le rivolte in carcere sono già punite, al di là della nuova fattispecie di reato inserita dal governo Meloni nel pacchetto sicurezza. “Il reato di rivolta in carcere già esiste nel senso che qualunque comportamento violento è punito dal codice penale, questo dentro e fuori dal carcere. Non si capisce perché dentro al carcere questo debba essere punito diversamente o più che all’esterno”, spiega Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Associazione Antigone. Marietti sottolinea come, semmai, la nuova fattispecie di reato potrebbe agire da deterrente per ogni forma di dissenso in carcere. L’articolo del disegno di legge parla in effetti di “resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti”. Prendiamo il caso della persona detenuta che fa la battitura delle sbarre con le pentole, la classica forma di protesta pacifica attuata in carcere per farsi ascoltare. Il poliziotto gli impone di smetterla e il detenuto va avanti. Secondo il nuovo testo questo comporterebbe da due a otto anni di condanna ulteriore per l’autore della protesta. “Si vuole tornare a un regolamento fascista, che vuole il detenuto zitto e a testa bassa, costretto ad accettare qualsiasi eventuale sopruso senza aprire bocca”, chiosa Marietti. “È uno degli interventi peggiori che il governo potesse fare, cambierà la faccia della vita in carcere”. Il governo Meloni punisce chi si rivolta in carcere, il nuovo reato vale anche per i Centri migranti di Luca Pons fanpage.it, 18 novembre 2023 Il nuovo reato di rivolta in carcere prevede una pena da 2 a 8 anni di detenzione. Vale anche per i Cpr, in cui sono detenute alcune persone migranti che dovrebbero essere rimpatriate. Il governo Meloni ha deciso di punire anche le proteste non violente, come la resistenza passiva agli ordini. Nuovo intervento del governo Meloni, che cambia ancora il codice penale. Non aggravando le pene, come fatto in altri casi, ma istituendo un vero e proprio nuovo reato: la rivolta in carcere. Il testo dell’articolo chiarisce che il reato peraltro vale anche nei casi di proteste non violente, cioè quelle che prevedono una “resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti”. La novità arriva nel cosiddetto pacchetto Sicurezza, cioè tre diversi disegni di legge in materia: ci sono strette anche sugli attivisti per l’ambiente e sulle donne incinte o con figli piccoli. La norma punisce “chiunque, all’interno di un istituto penitenziario”, in un gruppo di tre o più persone, organizza o promuove una rivolta. Può avvenire in diversi medi: “Mediante atti di violenza o minaccia, tentativi di evasione, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti, commessi o posti in essere in tre o più persone riunite”. La pena è da 2 a 8 anni di reclusione. Per chi si limita a partecipare alla rivolta, va da 1 a 5 anni. Le punizioni diventano più pesanti se nel corso della protesta di usano delle armi (da 3 a 10 anni) o se una persona viene ferita o uccisa (da 10 a 20 anni). Lo stesso si applica anche se la morte o ferita avviene dopo la rivolta, come sua conseguenza. Poi il reato si allarga e coinvolge anche tutti coloro che istigano una mobilitazione di questo tipo, con messaggi scritti dall’esterno o dall’interno del carcere. “Mai più rivolte eterodirette dalla criminalità organizzata senza reazione da parte dello Stato”, ha detto il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, che ha aggiunto: “Basta impunità a chi mette a ferro e fuoco gli istituti penitenziari. Nessuna indulgenza per chi aggredisce uomini e donne della polizia penitenziaria. Difendiamo chi ci difende”. Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi ha anche confermato che questa norma si applicherà ai Centri di permanenza per il rimpatrio, o Cpr. Si tratta delle strutture in cui vengono detenute le persone migranti che devono essere rimpatriate ma sono ritenute per qualche motivo socialmente pericolose. Il governo Meloni ha chiarito a più riprese che intende estendere la rete dei Cpr, istituendone uno per Regione. Per chi organizza una rivolta in un Cpr la pena sarà la stessa delle carceri. Il ministro Piantedosi ha sottolineato che in passato in questi centri ci sono stati incendi o altre proteste violente, che hanno “messo a rischio l’incolumità delle stesse persone trattenute”. Mauro Palma: “Non normalizziamo la detenzione: non può essere la risposta a tutti i problemi” di Luca Rondi ltreconomia.it, 18 novembre 2023 Mauro Palma, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, traccia un bilancio dei suoi otto anni di mandato: a dicembre si insedierà infatti il nuovo ufficio guidato da Felice D’Ercole. Un periodo intenso speso a monitorare la vita dei più vulnerabili: migranti, detenuti, anziani e pazienti psichiatrici. “Il carcere è sempre di più una fotografia della società esterna che a sua volta riflette, anche se lo rifiuta, i paradigmi della vita reclusa. Soprattutto dopo il Covid-19 c’è l’incapacità, parlo del fuori, di tornare a uno sguardo libero. Percepisco molta asfissia nei rapporti tra le persone, difficoltà nelle relazioni e soprattutto il tentativo di eludere le complessità, cercando di risolvere i problemi portandoli altrove. Magari in Albania”. Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà personale, non nasconde la sua preoccupazione di fronte a un tempo in cui si assiste sempre di più alla “normalizzazione di parole come separatezza, totalità e incapacitazione, che sembravano aver perso vigore”. Si dichiara pronto a “consigliare” il suo successore, Felice Maurizio D’Ettore, professore di Diritto privato ed ex deputato del centrodestra, che si insedierà il primo dicembre, smorzando le polemiche per una nomina che nelle ultime settimane ha fatto molto discutere per il profilo scelto. È tempo perciò di bilanci per i quasi otto anni (dal febbraio 2016) a presiedere un ufficio che si è occupato scrupolosamente dei luoghi più bui del Paese: dalle carceri (ne ha visitate personalmente oltre 150) ai Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), passando per le navi quarantena, gli hotspot per i migranti e le residenze per anziani. Professor Palma, la popolazione detenuta è in forte aumento, circa 400 persone al mese. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha promesso di costruire nuove strutture. È la strada giusta? Pensare che questo risolva questi ritmi di affollamento è pura utopia, anche perché sono sempre soluzioni che richiedono investimenti, pianificazione e via dicendo. Quello che servirebbe a mio avviso è invece riflettere sul senso della detenzione per chi ha pene molto brevi. Mi riferisco alle circa 4.600 persone detenute con condanne sotto i due anni: spesso sono il frutto di un fallimento sul piano sociale e per loro il carcere è totalmente inutile. Servono strutture diverse che hanno minor impatto in termini di costruzione, perché ad esempio necessitano di meno mura perimetrali, in cui la polizia penitenziaria ha solo un ruolo di supporto nel controllo e si basano soprattutto su un forte rapporto con l’ente locale. Se lo spirito del ministro Nordio era questo e quindi non soltanto una soluzione troppo semplicistica, l’ipotesi di vedere che cosa ha il demanio è interessante; non lo è se l’obiettivo è mettere i detenuti nelle caserme. Ma perché aumentano così tanto i detenuti? Abbiamo trasformato il diritto penale nello strumento primario di risoluzione dei conflitti. Ma non è la sua natura: dovrebbe essere un mezzo sussidiario da mettere in campo solo laddove sono falliti i tentativi di realizzare interventi meno impattanti, più di costruzione e meno di contenimento. Invece oggi è l’unica risposta non appena abbiamo una qualunque contraddizione: dall’ambiente alle relazioni interpersonali e addirittura, oggi, alla dispersione scolastica. Si riferisce al cosiddetto “decreto Caivano”? Sì, rimango un po’ inorridito sotto questo aspetto. Pensare di risolvere la dispersione scolastica, che richiede prima di tutto una prossimità di ricostruzione culturale, con lo strumento penale è la constatazione da un lato del fallimento di quel ruolo proattivo che dovrebbero avere la politica e la gestione amministrativa del territorio, dall’altro è l’ennesima spia dell’aumento dell’area del controllo. E i dati lo dimostrano. Quali dati? Sommando il numero delle persone detenute con quello di coloro che sono in misura alternativa abbiamo raggiunto un numero considerevole di quasi 150mila persone mentre fino a qualche anno fa questo dato si aggirava intorno alle 90mila unità. Questo ci dice che l’idea che le misure alternative comportassero un minor ricorso alla detenzione non ha funzionato: si è creato un sistema parallelo al carcere. È la stessa dinamica che abbiamo visto con la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari: quando sono stati dismessi il numero complessivo dei pazienti internati era la metà della somma di quelli oggi presenti nelle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza pensate per chi è dichiarato incapace di intendere e di volere, ndr) e di coloro che sono in lista d’attesa per entrarvi. Questo la dice lunga sulla nostra cultura giuridica. A proposito, che cosa pensa del disegno di legge che mira a smantellare il reato di tortura? È gravissimo. Prima ancora che dal punto di vista processuale, dell’impunità, credo sia inaccettabile che una società si misuri con alcuni episodi avvenuti pensando che il primo strumento per superarli sia ridurre la possibilità di accertarli e perseguirli. Come Altreconomia abbiamo pubblicato un’inchiesta sull’abuso di psicofarmaci nelle carceri. Come interpreta i dati emersi? Incrocio i dati sugli psicofarmaci con due variabili. Al 9 novembre erano appena 330 le persone riconosciute con patologie di tipo psichiatrico di cui 29 ancora in fase di accertamento collocate nelle 44 Articolazioni per la salute mentale (Atsm) presenti solo in 33 istituti su 189 totali. Non tornano i conti con l’utilizzo di psicofarmaci: c’è un uso improprio del farmaco come elemento rassicurante o di mantenimento dell’ordine interno. Confronto però questi dati anche con la percezione che hanno gli operatori, magari amplificata, che dicono di avere sempre più “matti” reclusi e con il numero degli eventi critici in carcere. Questa situazione a mio avviso è frutto di una lotta tra due polarità: un’amministrazione che spinge per interpretare tutto come disagio psichico per non riconoscere l’impatto delle regole, degli ambienti, dei comportamenti di chi gestisce le strutture e un’area sanitaria che tende a frenare al di là del frenabile perché sa di non avere le risorse per prendere in carico più persone. Ecco che il problema lo riconduco alla scarsa presa in carico da parte delle strutture esterne: diminuirebbero gli ingressi e all’interno la presa in carico sarebbe più semplice. Secondo lei in carcere si vede, in anticipo, quello che sarà la società “esterna”? Penso sia già una fotografia del presente. Per un certo periodo abbiamo pensato che fosse necessario osservare il carcere per modificarlo, come ci insegna la Fisica del Novecento per cui quando osservo una particella elementare ne modifico il comportamento. Attualmente questa dinamica funziona un po’ meno perché il carcere riflette la società esterna che, a sua volta, riflette, anche se lo rifiuta, sempre di più i paradigmi della vita reclusa. Soprattutto dopo il Covid-19 c’è l’incapacità, parlo del fuori, di tornare a uno sguardo libero. Percepisco molta asfissia tra le persone, difficoltà nelle relazioni e il tentativo di eludere le complessità, cercando di risolvere i problemi portandoli altrove. Magari in Albania. Che cosa ne pensa dell’accordo annunciato poche settimane fa tra la presidente del Consiglio Meloni e il primo ministro albanese Edi Rama? Al di là dei principi parto dall’impossibilità pratica: pensiamo a una nave soccorsa, l’accordo dice che soltanto uomini (né donne né bambini) possono essere portati in Albania. Poi dopo lo sbarco dovrò distinguere se queste persone provengono da un Paese di origine sicuro, in caso contrario dovrò riportarle in Italia. A fronte di questi passaggi manca un giudice naturale che possa esprimersi su quelle decisioni. Le norme dicono che può essere individuato nel luogo più vicino, ma riferendosi sempre a un contesto territoriale di cui si ha sovranità. È inutile far finta che quelle strutture siano come delle ambasciate: non è così, la sovranità è albanese. Insomma, per ora sono rassicurato dalla inapplicabilità dell’accordo salvo il rischio di gravi violazioni del diritto internazionale. Ci perde anche l’Albania, tra l’altro, nell’ottica di avvicinamento all’Ue. Restiamo sul tema della detenzione dei migranti. La preoccupa l’ampliamento della rete dei Cpr? Sono preoccupato soprattutto per l’allungamento del periodo di trattenimento: 18 mesi sono un inutile messaggio disincentivate. Già in passato l’aumento del periodo di detenzione non ha inciso sulla percentuale delle persone rimpatriate. Cresce invece il vuoto che vivono le persone nelle strutture per periodi sempre più prolungati che aumenta anche le forme di contrapposizione, di violenza e le difficoltà nel momento in cui si esce: perché molte delle persone trattenute, ricordiamocelo, rientrano, dopo il periodo nel Cpr, nelle nostre comunità. È proprio la formula in sé dei Cpr da rivedere. Mi lascia molto perplesso poi, dal punto di vista culturale, che con il nuovo decreto la realizzazione delle strutture incide sul codice militare con una logica che implicitamente associa il migrante a un nemico. Si è occupato anche di Residenze per gli anziani (Rsa). Che idea si è fatto di quei luoghi? Parto da una premessa: ci occupiamo di queste strutture perché alcune delle persone accolte sono affidate al controllo dello Stato e perché è necessario assicurarsi che, in varie situazioni, l’amministratore di sostegno non diventi sostituto della persona. Le Rsa nel nostro Paese sono tantissime, circa 14mila; quindi, le visite possono avvenire solo a macchia di leopardo. Tra le diverse criticità riscontrate ne segnalo una: la contenzione non può essere uno strumento utilizzato per sopperire alla mancanza di personale. Questo sguardo l’abbiamo mantenuto durante la pandemia e anche dopo e purtroppo abbiamo continuato a riscontrare il rischio di questo improprio utilizzo. Prenderà il suo posto il professor D’Ercole. È preoccupato? No. Mi rendo disponibile a cooperare e a consigliarlo. Nessuno però pensi che la questione sia affrontabile con i propri strumenti accademici, professionali. Questa è un’istituzione complessa perché affronta l’impossibilità di avere soluzioni facili a problemi complessi e soprattutto serve mantenere l’indipendenza rispetto al potere. Io ho attraversato quattro diversi esecutivi: so bene che è necessario tenere la barra a dritta. Che cosa le è pesato di più durante il suo mandato? La non riconoscibilità dei temi. Quell’idea che in fondo ci occupassimo di situazioni che rappresentano la minorità, qualcosa che non ha a che fare con i grandi problemi. Mi pesava quando sentivo dire “Garante dei detenuti”, perché veicolava quell’idea che ci occupassimo di cose che la società ritiene più marginali. Tutelavamo tante altre soggettività che possono attraversare ognuno di noi, dagli anziani ai disabili alle persone psichiatrici. E che raccontano tanto della società in cui viviamo. Una società in cui diventa sempre più centrale “l’idea della detenzione”? Sì. Siamo in una fase in cui termini come separatezza, totalità e incapacitazione tornano a essere accettabili dopo che per diversi anni erano stati messi fortemente in crisi. Sul piano internazionale mi colpisce che i Paesi nordici, storicamente molto aperti, oggi hanno cambiato rotta: quarant’anni fa non l’avrei mai potuto immaginare. Un segno chiaro che sta tornando prepotentemente questa visione normalizzante della “reclusione” delle difficoltà e, quindi, delle persone. Stefano Anastasia: “Pacchetto sicurezza, abuso di carcere e diritto penale” di Angela Stella L’Unità, 18 novembre 2023 Si riaprono le celle per le donne incinte o con figli minori di un anno, arriva il reato di rivolta nelle prigioni e nei Cpr. Il Garante dei detenuti del Lazio: “Segnale elettorale al mondo della sicurezza e della polizia”. Il Consiglio dei Ministri ha approvato un “pacchetto sicurezza” con norme che riguardano diversi ambiti, tra i quali il carcere. Ne parliamo con Stefano Anastasia, Garante dei detenuti del Lazio. Nel ddl sicurezza Giorgia Meloni riapre le celle per le donne incinte o con un bambino sotto un anno pur se negli istituti a custodia attenuata. Fino a ieri la pena veniva differita, adesso cambia tutto... Personalmente ho visto le donne incinte in carcere così come i bambini sotto un anno di età: sono cose che non avrei mai voluto vedere. Auspico che questa norma non veda mai la luce. Nella scorsa legislatura era quasi un mantra: ‘mai più bambini in carcerè. Oggi si va nella direzione opposta... Quel rinvio dell’esecuzione della pena per le donne incinte e le madri con figli sotto un anno è una norma di civiltà. Il fatto che si metta mano a questa norma esclusivamente per ragioni propagandistiche, legate a qualche episodio di cronaca e al fatto che alcune delle forze politiche di Governo hanno deciso di maturare qualche consenso su questa norma la dice lunga sull’idea che c’è sui diritti fondamentali delle persone e sull’uso strumentale del diritto penale. Anche se non c’è scritto, questa previsione sarebbe pensata per le donne rom. Come legge questo aspetto? Nel nostro Paese c’è chiaramente un problema di discriminazione nei confronti delle persone di etnia rom e sinti. Questo è un fatto noto e che è anche all’origine di tanta parte di devianza di queste persone che sono ai margini della società. Bisognerebbe lavorare per percorsi di inclusione e integrazione. In questo modo invece le si mette ancora di più ai margini e si enfatizza la discriminazione che già esiste. Si prevedono fino a 8 anni di carcere per chi organizza e dirige una rivolta in carcere e fino a 5 per chi vi partecipa. Eppure dall’altra parte il Governo vorrebbe modificare il reato di tortura che si consuma proprio in carcere spesso... È del tutto evidente che c’è un referente sociale delle politiche del governo su questa materia. Il referente sociale non è neanche giusto dire che sia la polizia ma sono alcuni sindacati che rivendicano una impunità ingiustificata per chi dovesse commettere reati in carcere; viceversa chiede una punizione oltre misura per - così pare leggere dalle indiscrezioni - rivolte che possano essere compiute anche da tre persone. Vorrei capire quali rivolte sono quelle compiute da tre persone e se non ci siano già gli strumenti penali per punire le aggressioni o altre forme di violenza commesse in carcere. Inoltre Meloni accontenta le forze di polizia: pena aumentata di un terzo se un atto di violenza o minaccia è commesso contro un pubblico ufficiale. Sono norme che non hanno alcuna urgenza di essere approvate. Si tratta di tutti comportamenti violenti che quando si realizzano sono già puniti. Questo pacchetto sicurezza a me sembra sostanzialmente orientato a dare un segnale politico ed elettorale ad una base di consenso del Governo e delle forze di maggioranza che certamente per quel che riguarda il carcere - ma non solo - è il mondo della sicurezza e della polizia. Insomma nuovi reati e innalzamento delle pene. Tutto il contrario del pensiero di Nordio... Ancora due giorni fa il Ministro Nordio intervenendo all’evento per il ventennale dei garanti territoriali ha ribadito che la sua idea del diritto penale è quella per cui occorre ricorrere al carcere solo quando necessario. Ci ha spiegato che le caserme di cui parla dovrebbero servire per far uscire dal carcere le persone che non dovrebbero stare in carcere. Tuttavia io temo che se la politica del Governo continui a essere questa, ossia la previsione di nuovi reati e di innalzamenti delle pene per qualsiasi fatto che succeda nel nostro Paese, credo che le caserme finiranno per essere riempite di persone che non usciranno mai dal carcere. Diventeranno nuove prigioni. Tutte queste contraddizioni del Guardasigilli possono far pensare che in tema di giustizia e sicurezza comandino solo Mantovano e Piantedosi e non Nordio? Le dinamiche interne al Governo non le conosco. Mi pare però che ci sia dall’inizio di questa legislatura una coerenza tutta nel segno dell’abuso sia del diritto penale che del carcere. “Bimbi in carcere, così lo Stato colpisce le fasce deboli” di Valentina Stella Il Dubbio, 18 novembre 2023 Nuovo pacchetto sicurezza: ne parliamo con l’avvocato Alessandro Diddi, professore di Diritto processuale penale Università della Calabria. Partiamo dal fatto che vengono riaperte le porte del carcere alle madri incinte e con bambini piccolissimi... Credo che si tratti di un provvedimento pensato per un caso singolo relativo ad una persona disagiata che ha commesso diversi reati e ha potuto usufruire di questa norma di grande civiltà giuridica prevista nel codice del 1930. Una norma che si calibra su un caso sostanzialmente la trovo davvero ingiusta. Le norme devono avere carattere generale, anche perché credo che lo Stato abbia gli strumenti per poter rispondere a casi isolati, senza emanare norme che vadano a ledere fasce deboli. Si tratta di una norma nociva anche rispetto a convenzioni internazionali sottoscritte dal nostro Paese per la tutela della maternità e del fanciullo. E la questione non è attenuata dal potere riconosciuto al magistrato di poter decidere in relazione al singolo caso se disporre o meno il differimento dell’esecuzione della pena. Una previsione che sta facendo discutere è la seguente: “Chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi da tre o più persone riunite, promuove, organizza, dirige una rivolta è punito con la reclusione da due a otto anni”. In pratica viene inclusa anche l’ipotesi di disobbedire ad un ordine.... Credo che questa sia una delle tante misure straordinariamente punitive. Penso che ci sia un filo conduttore dietro questo nuovo progetto normativo: la consapevolezza - errata - che l’inasprimento del trattamento sanzionatorio e l’efficacia intimidatoria della pena potessero risolvere tanti problemi. Io assisto molti detenuti che protestano per la mancata tutela dei loro diritti in carcere, oramai strutture sempre più degradanti. Togliere la possibilità ai detenuti di protestare è inaccettabile. La polizia penitenziaria potrà scrivere di comportamenti e i detenuti non avranno alcun tipo di difesa. Sarà un modo anche questo per rendere ancora più invivibile la quotidianità carceraria. Il Governo praticamente ha messo in campo misure solo a favore delle forze di polizia... Sì, ma non è stato abbastanza sottolineato un aspetto inquietante: ossia la disposizione che prevede che i servizi di sicurezza possano stipulare convenzioni con esercenti di servizi di pubblica utilità. Cosa si nasconde dietro questa norma? Che i nostri servizi di intelligence potranno ottenere dai gestori telefonici i nostri tabulati? Che potranno intercettare i cittadini senza alcun controllo da parte della magistratura? Io sono molto preoccupato per questa norma. Chiunque avrà una visibilità nel suo lavoro potrà essere catturato - in senso metaforico - dai controlli dei servizi. Questi ultimi fanno un lavoro preziosissimo ma il controllo sul loro operato è praticamente nullo. Guardando anche ai procedimenti precedenti di questo Governo è ormai chiaro che si vuole risolvere tutto con il diritto penale... Sì, scaricando sul processo, già lento e macchinoso, l’incapacità di risolvere i problemi di ordine pubblico. Questo è tipico degli Stati di polizia. In tutto questo il ministro Nordio che responsabilità ha? Perché queste norme sono contrarie al suo pensiero. Come ha detto l’ex ministro Orlando, “sarei curioso di conoscere gli interventi del ministro Nordio in Cdm, ogni volta che in quel consesso si introduce un nuovo reato e si aumentano le pene edittali”. Penso che il Guardasigilli, a cui va tutto il mio apprezzamento perché ha avuto il coraggio di mettersi in gioco, sia stato troppo ingenuo nel pensare di poter fare il garantista in un governo le cui anime già in passato si erano manifestate con atteggiamenti lontani dal garantismo. Purtroppo non si potrà essere garantisti perché la stessa presidente del Consiglio, nel giorno del suo insediamento, ha ribadito concetti come “sicurezza dei cittadini”, “certezza della pena”, “rafforzamento delle carceri”. È quello che sta avvenendo. Secondo lei il ministro dovrebbe dimettersi? Questo ognuno deve valutarlo con la propria coscienza. Per usare una terminologia che piace ai penalisti, “ha lavorato veramente con il dolo eventuale” e la riprova l’ha avuta con il decreto sull’ergastolo ostativo dello scorso autunno. Lui dopo poco tempo dall’insediamento del governo già sapeva a cosa sarebbe andato incontro. Lei ha partecipato a Bari alla presentazione del Libro bianco sulle carceri durante il panel “L’ordinamento penitenziario italiano sotto la lente del primo Osservatorio sulle Carceri guidato da Aiga”. Cosa ne viene fuori? Ringrazio l’Aiga per l’iniziativa: hanno affrontato con entusiasmo il tema delicatissimo della situazione delle carceri in Italia, toccandola con mano durante diverse visite. Abbiamo potuto testimoniare che è quello che è contenuto nella legge italiana del 1975 sull’ordinamento penitenziario in realtà è solo un grande libro dei sogni. Se qualcuno avesse voglia di leggere testimonianze del primo Novecento possiamo dire che non è cambiato nulla da quell’epoca a oggi, in una totale assenza da parte della politica di idee per risolvere il problema. Se guardiamo alle statistiche del ministero della Giustizia troveremo che, ad esempio, in carcere ci sono 3900 detenuti con reati contravvenzionali. Mi chiedo a cosa serve loro il carcere. Si tratta di una delle piccole grandi distorsioni del nostro sistema penitenziario. Lei ha parlato di Stato di Polizia. Dall’altro lato non esiste anche una grossa influenza della magistratura antimafia nelle scelte legislative del governo? Sì, c’è stato in altri interventi un forte rafforzamento delle Procure distrettuali antimafia, attraverso l’utilizzo di un codice di procedura penale diverso rispetto a quello applicato per gli altri cittadini. Pensiamo alle intercettazioni telefoniche che possono essere effettuate solo con sufficienti indizi, le proroghe senza contraddittorio degli indagati. Ci sono una serie di misure che permettono di operare con un bassissimo tasso di garanzie. Quindi potenziare le Dda significa potenziare questo micro codice nato per la criminalità organizzata ma che nel corso degli anni è stato applicato a tantissime altre fattispecie. Reati e carcere? Il solito brutto vizio della politica che ignora educazione, opportunità, servizi di Barbara Rosina* huffingtonpost.it, 18 novembre 2023 L’indimenticato Giorgio Bracardi - il ricordo non vale per i Millennials - nel 1993, urlava dopo affermazioni nonsense. “In galera!”. Non so dire perché, ma scorrendo giornali, facendo zapping in tv e saltando da un online all’altro, oggi ho ripensato a lui, scomparso ormai da quasi 20 anni. Non c’è però da fare ironia su quello che da qualche giorno si preparava e che ieri è stato approvato dal Consiglio dei Ministri e oggi campeggia su ogni angolo informativo. Sto parlando del “Pacchetto sicurezza” che stavolta non si presenta sotto forma di decreto legge, ma di disegno di legge, ciò significa che a differenza del primo che emanato dal Governo ha immediatamente forza di legge, questo DDL dovrà prima passare attraverso il Parlamento. Ma la strada è tracciata - a settembre, con un decreto legge, si era intervenuti sulla criminalità minorile, abbassando a 14 anni l’età minima necessaria per disporre alcuni provvedimenti come il Daspo urbano - più armi, più carceri, più reati. Siamo assistenti sociali, non facciamo solo politica, né ci spingiamo a valutare la costituzionalità delle norme, e da assistenti sociali vogliamo dire la nostra. Del resto abbiamo trascorso gli ultimi anni della nostra vita trentennale - tra la fine 2021 e tutto il 2022 per ricordare l’anno della costituzione dell’Ordine - cercando di interloquire con le istituzioni, le associazioni, i tecnici e gli esperti per esperienza su problemi che, se affrontati, avrebbero migliorato la vita di molti. Abbiamo parlato di povertà, di lavoro, di violenza istituzionale, di periferie. In un anno e mezzo sono cambiati ministri, parlamentari, presidenti del Consiglio, ma null’altro. La povertà è sempre più povertà, lo dice l’Istat non noi; le carceri scoppiano, l’associazione Antigone rilevava a giugno che ci sono 9000 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare, 62 le morti censite come suicidio dal Centro studi Ristretti Orizzonti; le periferie sono sempre più abbandonate e non basta il Decreto Caivano per tutti gli angoli perduti d’Italia; si muore sul lavoro, Anila, 26 anni, è stata stritolata da un robot da qualche giorno, ma la sua morte non ha avuto l’eco di Luana D’Orazio schiacciata da un orditoio a Prato nel 2021. Assuefatti a tutto? Pronti a pensare che la sicurezza si coniuga soltanto con “ordine e disciplina”? No, noi no. Abbiamo scritto qualche giorno fa proprio in questo blog, a proposito della legge di Bilancio e non solo, che i provvedimenti in itinere e/o quelli annunciati, mancano di qualsiasi prospettiva. Che il brutto vizio della politica - non solo quella di oggi, ma anche quella di ieri - che risponde di pancia agli avvenimenti di cronaca o alle emergenze senza mettere neanche un mattoncino per costruire il futuro. Ebbene, tornando al “Pacchetto sicurezza”, alle misure che riguardano l’inasprimento delle pene, i borseggi e l’accattonaggio - norme che sembrano scritte per i Rom, ma su questo si esprimeranno altri - non siamo qui a difendere né chi ruba in metropolitana o truffa gli anziani, né chi manda i propri figli a chiedere l’elemosina, ma avremmo voluto che nella costruzione di un’Italia migliore si fosse fatto qualcosa di diverso. A meno che non si ritenga che si nasca borseggiatori e accattoni, avremmo voluto un investimento sulla scuola, avremmo voluto una sorta di campagna governativa “Illuminiamo il futuro”, mutuata su quella che Save the Children lanciò quasi 10 anni fa per realizzare spazi ad alta densità educativa nei quartieri e nelle periferie maggiormente svantaggiate delle città, per offrire opportunità formative ed educative gratuite a bambini e ragazzi. La risposta non può non deve essere, per noi, armi, carcere, reati, ma educazione, opportunità, servizi. C’è qualcuno che ci vuole ascoltare? *Consiglio Nazionale Ordine Assistenti Sociali Giro di vite sulla “sicurezza”: misure anti truffe e scippi, polizia sempre armata di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 novembre 2023 Il Consiglio dei Ministri ha varato un Ddl che autorizza gli agenti a portare senza licenza un’arma quando non sono in servizio. Si ampliano i reati “ostativi” con la “rivolta in istituto penitenziario”. Si modificano le norme sul rinvio della pena per donne incinte e madri di bambini fino a un anno di età. Il Consiglio dei Ministri ha approvato tre disegni di legge in materia di sicurezza. Il primo introduce nuove norme a tutela delle forze di polizia e delle vittime dell’usura e dei reati di tipo mafioso. Il secondo mira a valorizzazione della specificità del Comparto sicurezza, difesa e soccorso pubblico e di funzionalità dell’amministrazione civile dell’interno; il terzo delega il governo riordino delle funzioni e dell’ordinamento della polizia locale. Il primo Ddl - Ministro dell’interno, Ministro della giustizia, Ministro della difesa - interviene dunque in materia di prevenzione e contrasto del terrorismo e della criminalità organizzata, beni sequestrati e confiscati, controlli di polizia; sicurezza urbana; tutela del personale delle forze di polizia, delle forze armate e del corpo nazionale dei vigili del fuoco; tutela delle vittime di usura; ordinamento penitenziario. Terrorismo, criminalità organizzata, beni sequestrati e confiscati - Si introduce il reato di “detenzione di materiale con finalità di terrorismo” che punisce, con la reclusione da due a sei anni, chiunque si procura o detiene materiale finalizzato a preparare atti di terrorismo e si prevede la reclusione da sei mesi a quattro anni per chi distribuisce, diffonde o pubblicizza materiale contente istruzioni per la preparazione e l’utilizzo di materie esplodenti, al fine di attentare all’incolumità pubblica. Si prevede un ampliamento dei casi in cui gli esercenti il servizio di autonoleggio devono comunicare alla Questura i dati identificativi del cliente e si introduce la sanzione dell’arresto fino a tre mesi o dell’ammenda fino a 206 euro per chi omette tale comunicazione. In considerazione della progressiva diffusione del cosiddetto “contratto di rete”, si inseriscono tra i soggetti sottoposti a verifica del possesso della documentazione antimafia le imprese aderenti al contratto stesso. Inoltre, nell’ambito del procedimento di rilascio dell’informazione antimafia, si prevede che il Prefetto possa escludere, d’ufficio o su istanza di parte, l’operatività dei divieti conseguenti all’applicazione definitiva di una misura di prevenzione personale, ove accerti che verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all’interessato e alla sua famiglia. In materia misure di protezione dei collaboratori e dei testimoni di giustizia, si chiarisce che l’utilizzazione dei documenti di copertura può essere consentita anche ai collaboratori e ai loro familiari che siano sottoposti alla misura cautelare degli arresti domiciliari o che fruiscano della detenzione domiciliare. Inoltre, si consente che il Servizio centrale di protezione utilizzi i documenti di copertura per funzionari e addetti e crei identità fiscali “di copertura”, anche di tipo societario. Si modificano alcune norme relative alla gestione dei beni sequestrati e confiscati, semplificando la gestione delle aziende e stabilendo che l’amministratore giudiziario illustri al giudice le caratteristiche tecnico-urbanistiche dei beni immobili sequestrati, evidenziando gli eventuali abusi e i possibili impieghi urbanistici. In caso di accertamento di abusi non sanabili, con il provvedimento di confisca viene ordinata la demolizione in danno del soggetto destinatario del provvedimento. In tal caso, il bene non viene acquisito al patrimonio dell’Erario e l’area di sedime viene acquisita al patrimonio indisponibile del Comune territorialmente competente. Infine, si estende da 3 a 10 anni il termine entro il quale poter esercitare la revoca della cittadinanza concessa allo straniero in presenza di condanne definitive per specifici reati. Sicurezza urbana - Si introduce il reato di “occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui”, perseguibile a querela della persona offesa, che punisce, con la reclusione da due a sette anni, chi, mediante violenza o minaccia, occupa o detiene senza titolo un immobile destinato a domicilio altrui o impedisce il rientro nel medesimo immobile da parte del proprietario o di colui che lo detiene legittimamente. La stessa pena viene applicata anche a chi si appropria dell’immobile altrui, con artifizi o raggiri, o cede ad altri l’immobile occupato. Si prevede, inoltre, una procedura volta a consentire a chi ne ha titolo il rapido rientro in possesso dell’immobile occupato, con provvedimento del giudice nei casi ordinari e, quando l’immobile sia l’unica abitazione del denunciante, con intervento immediato della polizia giudiziaria, successivamente convalidato dall’autorità giudiziaria. Si sanzionano più gravemente i reati che riguardano la “truffa aggravata”, per colui che ha profittato di circostanze tali da ostacolare la pubblica o privata difesa. In tali circostanze si prevede anche l’arresto obbligatorio in flagranza. Si estende la possibilità di disporre il cosiddetto “Daspo urbano”, previsto per le manifestazioni sportive, anche per vietare l’accesso alle aree di infrastrutture e pertinenze del trasporto pubblico ai soggetti denunciati o condannati per reati contro la persona o il patrimonio. Inoltre, si estende alle ferrovie la fattispecie di illecito amministrativo che punisce chiunque impedisce la libera circolazione su strada ordinaria e si prevede la trasformazione dell’illecito amministrativo in reato quando il fatto è commesso da più persone riunite. Al fine di assicurare la certezza dell’esecuzione della pena nei casi di grave pericolo, si modificano le norme relative al rinvio della pena per donne incinte e madri di bambini fino a un anno di età, in modo da rendere tale rinvio facoltativo anziché obbligatorio. In tal modo, si allinea la norma a quella che già prevedeva il rinvio facoltativo per le madri di bambini tra uno e tre anni di età. Si prevede, comunque, che la madre con figlio tra uno e tre anni possa scontare la pena, in alternativa rispetto all’istituto penitenziario “ordinario” (come è attualmente previsto), anche presso l’istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam). Nell’ipotesi di donne incinte e madri di prole fino a un anno, ove si escluda il differimento della pena per grave pericolo, si prevede sempre e comunque l’esecuzione della pena presso gli istituti a custodia attenuata. Inoltre, si innalza da 14 a 16 anni l’età dei minori coinvolti per stabilire la punibilità delle condotte relative all’avvalersi, permettere, organizzare o favorire l’accattonaggio, si inasprisce la pena prevista per tali condotte e si introduce la condotta di induzione. Tutela del personale delle forze di polizia, delle forze armate - Si aggrava la pena per le ipotesi in cui la violenza, minaccia o resistenza a un pubblico ufficiale siano poste in essere nei confronti di un ufficiale o di agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria. Inoltre, si estende il reato previsto per chi cagiona lesioni personali a un pubblico ufficiale o agente di pubblica sicurezza o polizia giudiziaria in occasione di manifestazioni sportive, ricomprendendovi tutte le condotte di lesioni cagionate a tali soggetti nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o dell’esercizio del servizio. Al fine di potenziare la salvaguardia dei beni mobili e immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche, si introduce una fattispecie aggravata per colui che imbratta o deturpa tali beni qualora il fatto sia commesso con la finalità di ledere l’onore, il prestigio o il decoro dell’istituzione cui il bene appartiene, con inasprimento della reclusione in caso di recidiva. Si inaspriscono le sanzioni nei casi d’inosservanza delle prescrizioni impartite dal personale che svolge servizi di polizia stradale (ad esempio, inosservanza dell’obbligo di fermarsi intimato, rifiuto di esibire documenti di guida o di far ispezionare il veicolo). Si aggrava la pena prevista per il delitto d’istigazione a disobbedire alle leggi, se è commesso al fine di far realizzare una rivolta all’interno di un istituto penitenziario, a mezzo di scritti o comunicazioni dirette a persone detenute. Inoltre, si introduce il delitto di rivolta in istituto penitenziario, che punisce chiunque promuove, organizza e dirige una rivolta all’interno di un istituto penitenziario e chi vi partecipa, prevendo specifiche aggravanti. Si prevede anche un reato che punisce, con la pena della reclusione da uno a sei anni, lo straniero che, durante il trattenimento presso i centri per i rimpatri o la permanenza nelle strutture per richiedenti asilo o altre strutture di accoglienza o di contrasto all’immigrazione illegale, mediante atti di violenza o minaccia o mediante atti di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti dalle autorità, posti in essere da tre o più persone riunite, promuove, organizza, dirige una rivolta. Per il solo fatto di partecipare alla rivolta, la pena è della reclusione da uno a quattro anni. Si prevede, inoltre, un aggravamento della pena se il fatto è commesso con l’uso di armi o se nella rivolta taluno rimane ucciso o riporta lesioni personali gravi o gravissime. In quest’ultimo caso, l’aggravante sussiste anche nell’ipotesi in cui l’uccisione o la lesione personale avvengano immediatamente dopo la rivolta e in conseguenza di essa. Si autorizzano gli agenti di pubblica sicurezza a portare senza licenza un’arma diversa da quella di ordinanza quando non sono in servizio. Si estende l’esimente penale prevista dalle norme vigenti per il personale che, per le necessità delle operazioni militari, faccia uso o ordini di fare uso di armi, forza o altro mezzo di coazione fisica anche all’uso di apparecchiature, dispositivi, programmi, apparati o strumenti informatici. Si estendono le condotte scriminabili per il personale del Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica con garanzie funzionali ad ulteriori fattispecie di reato, riferibili agli attuali contesti in cui si sviluppa la minaccia terroristica e si attribuisce la qualifica di agente di pubblica sicurezza, con funzione di polizia di prevenzione, anche al personale delle Forze armate che concorra alla tutela delle strutture e del personale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS) o dei Servizi di informazione per la sicurezza. Si interviene con ulteriori norme per il rafforzamento delle attività di contrasto al terrorismo internazionale. Tutela delle vittime di usura - Si prevede la possibilità, per gli operatori economici vittime di usura ai quali venga erogato il mutuo nell’ambito del cosiddetto “Fondo di solidarietà per le vittime dell’usura”, di servirsi di un esperto, con funzioni di consulenza e di assistenza, iscritto, a richiesta, in un Albo istituito presso il Ministero dell’interno-Commissario straordinario per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura, al fine di assicurare un efficace sostegno all’impresa beneficiaria, garantirne il rilancio e il reinserimento nel circuito economico legale. Ordinamento penitenziario - Si inseriscono, tra i reati “ostativi”, le fattispecie già esistenti di “istigazione a disobbedire alle leggi” e di “rivolta in istituto penitenziario”. In questi casi, per concedere benefici penitenziari, il magistrato di sorveglianza dovrà valutare la positiva partecipazione al programma di riabilitazione specifica previsto per il detenuto. Per favorire l’attività lavorativa dei detenuti, si includono, tra le aziende che possono beneficiare delle agevolazioni introdotte dalla legge, anche quelle che organizzano attività produttive o di servizi all’esterno degli istituti penitenziari o che impiegano persone ammesse al lavoro esterno. Inoltre, si aggiungono i condannati e gli internati ammessi alle misure alternative alla detenzione e al lavoro all’esterno nell’elenco dei soggetti che possono fruire dell’apprendistato. Infine, il disegno di legge prevede una delega al Governo per apportare modifiche alle norme che disciplinano l’organizzazione del lavoro dei detenuti. La legge penale dura con i deboli e il ministro che non c’è di Nello Rossi Il Manifesto, 18 novembre 2023 Dopo anni di miraggi, fallimenti e di inganni dell’opinione pubblica, non è credibile una politica che si limita ai proclami sugli aumenti di pena e alle grida repressive. È qui che viene in primo piano la galleria di “stracciati”, per i quali il governo alza al massimo l’asticella della repressione penale, introducendo nuovi delitti - dall’induzione all’accattonaggio alla rivolta in istituti penitenziari - o innalzando le pene per i reati tipici degli emarginati. Una politica penale dura, attuata con una tecnologia legislativa “a spizzico”, che aggiunge, aggrava, infoltisce a senso unico divieti e pene. Ed è da quest’ottica di polizia che scaturisce un disegno di legge che sembra ricalcato su di un mattinale di questura. Solo qualche esempio. Più carcere - da due a sette anni di reclusione - per chi occupa case, ma anche per chi “si intromette o coopera” nell’occupazione. Altro bersaglio, il mondo della mendicità, con sanzioni sino a sei anni per l’organizzazione e il favoreggiamento dell’accattonaggio di minori o di persone non imputabili e pene molto maggiori per i casi di “costrizione”. Su di un diverso piano si colloca l’aumento di pena - da due a sei anni - per le truffe commesse ai danni di persone fragili e indifese e di anziani. Anche se i dati statistici sulla criminalità non segnalano una emergenza sicurezza, alcuni dei reati elencati nel disegno di legge governativo sono particolarmente odiosi ed insidiosi e non se ne può sottovalutare la gravità. Ma dopo anni di miraggi, di fallimenti e di inganni dell’opinione pubblica, non è più credibile una politica che si esaurisca nei proclami sugli aumenti di pena e nelle grida repressive. Grida e proclami, in teoria destinati a rassicurare ma che ormai valgono solo a distogliere da risposte meglio calibrate, fondate su misure sociali, interventi mirati verso le aree di devianza ed efficaci alternative al continuo inasprimento delle pene detentive. L’ottica di polizia del provvedimento si esprime anche su un altro versante: l’attenzione riservata agli apparati di sicurezza. Attenzione che però non si traduce in maggiori investimenti in formazione e dispositivi di tutela ma solo in una raffica di aumenti di pena per i reati di violenza e resistenza ad ufficiali e agenti di polizia e per le lesioni cagionate agli agenti in servizio. Per il resto la risposta è una sorta di “fai da te”, giacché gli agenti, quando sono in borghese, potranno portare un’arma diversa da quella di ordinanza, ritenuta troppo pesante, ingombrante e visibile. Da queste prime osservazioni inevitabilmente parziali - il disegno di legge è composto di ben 21 articoli e spazia in campi molto diversi tra di loro - emerge con sufficiente chiarezza un dato politico: la primazia del ministro dell’interno non solo nel dettare la politica della sicurezza pubblica ma anche la politica criminale. Dal canto suo il ministro della giustizia appare sempre più come uno sbiadito comprimario, una sorta di “intendenza” che segue l’impetuosa avanzata del collega dell’interno, limitando la sua sfera di interessi e di azione alle garanzie da riservare ai colletti bianchi. Del resto di una tale egemonia si è avuta una indiretta ma eloquente riprova nella proposta di recente avanzata, o meglio riesumata, da Nordio, di trasformare il pubblico ministero in “avvocato della polizia”. Proposta, formulata in un passato ormai lontano da Silvio Berlusconi, che porrebbe fine all’indipendenza del pubblico ministero e lo ridurrebbe a terminale processuale delle iniziative penali promosse dalle diverse forze di polizia operanti sotto il comando e l’impulso dei ministri dell’interno, della difesa e dell’economia. Si delineano dunque con crescente nettezza le linee della politica della giustizia del governo di centro destra. Una giustizia penale che privilegia un solo aspetto della questione sicurezza - quello della microcriminalità di strada - ed è incline all’arrendevolezza e al disarmo verso altre forme, non meno gravi ed insidiose, di criminalità: tributaria, finanziaria, politico-amministrativa. Un garantismo a senso unico, soccorrevole ed attento al rispetto delle garanzie solo nei processi degli ottimati. Ed infine un processo penale che si vorrebbe appaltare, nella fase delle indagini, alle diverse polizie, con il pubblico ministero relegato al ruolo “servente” di difensore delle testi accusatorie degli uffici di polizia. Prospettive negative che potranno essere scongiurate solo se il mondo della giustizia saprà trovare una voce concorde e parlare alla più ampia opinione pubblica rappresentandole i rischi dell’attuale politica del diritto. La “slot machine” dei reati che riempie le carceri e intasa i tribunali di Eleonora Martini Il Manifesto, 18 novembre 2023 “Ormai il legislatore è una slot machine di nuovi reati che finiscono per ingolfare tribunali e carceri senza aumentare la sicurezza dei cittadini”. Francesco Petrelli, neo presidente dell’Unione delle Camere penali, non si stupisce più di tanto del nuovo pacchetto sicurezza approvato giovedì in Consiglio dei ministri dopo un “confronto sostanziale e non meramente formale” (“il primo dopo molti governi”, se ne rallegrano Siulp e Siap) della premier Meloni con i sindacati di polizia penitenziaria. D’altronde, fa notare Petrelli, il provvedimento è perfettamente nelle corde di un governo “garantista nel processo e giustizialista nell’esecuzione penale”. Tra le tante brutture contenute nel disegno di legge licenziato dal tavolo dei ministri, infatti, ce ne sono alcune dal sapore non vagamente razzista, come la norma - pensata sostanzialmente per qualche decina di donne rom - che rende facoltativo e non più obbligatorio il differimento della pena per donne incinte o madri di prole fino a un anno di età, mentre con figli più grandi si stabilisce la reclusione delle madri in uno dei quattro Istituti a custodia attenuata (Icam) italiani. Che, si badi bene, sempre carceri vere sono. Soprattutto per i bambini. Ma la norma con la quale Giorgia Meloni deve aver maggiormente soddisfatto i desiderata dei sindacati di polizia penitenziaria più di destra è contenuta nell’Articolo 18 (Disposizioni in materia di sicurezza degli istituti penitenziari), prevede pene fino a 8 anni di reclusione per chiunque promuova o organizzi una rivolta, fino a 5 anni per il solo fatto di parteciparvi. Una norma calibrata sulle rivolte dei detenuti del marzo 2020, quando in decine di carceri italiane la notizia del lockdown per il Covid seminò il panico tra i reclusi, ma gli ammutinamenti vennero soppressi violentemente con un bilancio di 13 detenuti morti. E lo stesso vale (fino a 6 anni di carcere) se la rivolta avviene in strutture d’accoglienza per migranti. “È irrazionale - commenta Petrelli - l’immissione in carcere di persone, in alcuni casi non identificate, con un pericoloso aggravamento del fenomeno del sovraffollamento, con moltiplicazione dei costi e dei rischi”. C’è poi il primo comma dell’Art. 18 del ddl Sicurezza, chiaramente ispirato al caso dell’anarchico Alfredo Cospito, che interviene invece sull’articolo 415 c.p. con un aumento di pena per chiunque, da dentro le carceri o scrivendo ad un detenuto, “istighi alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico”. Insomma, per citare ancora Petrelli, “si sono criminalizzati dei comportamenti in maniera fantasiosa e si è messo in crisi il principio di determinatezza e tassatività”. Ma c’è anche la richiesta, da parte del sindacato Uilpa, per esempio, di “misure organizzative e d’efficientamento, a partire dal rinforzo degli organici della Polizia penitenziaria, mancanti di 18 mila unità, per prevenire e impedire ogni turbativa dell’ordine e della sicurezza carceraria, prim’ancora di doverla reprimere”. Ieri, indirettamente, la risposta è venuta dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro durante un seminario sul sistema carcere organizzato dalla Lumsa a Roma. “In un anno abbiamo trovato le risorse per fare più assunzioni rispetto a quante ce ne siano state negli ultimi quindici anni”. In attesa di vedere allocate queste risorse, la via maestra del governo però è sempre quella carcerocentrica: durante la sua lunga carriera di avvocato penalista, riferisce Delmastro, “non ho mai trovato qualcuno dei miei assistiti che tornasse dall’affidamento in prova ai servizi sociali dicendomi: “ho capito quello che è successo”. L’affidamento in prova al servizio sociale è il nulla. Io sono contrario a questo trattamento che fa acqua da tutti le parti”. Eppure ci deve essere un problema di comunicazione, in via Arenula, perché durante un altro convegno organizzato a Bari dai giovani avvocati dell’Aig, il suo collega Andrea Ostellari ha definito la messa alla prova un “vero strumento di educazione”. Secondo Ostellari, la soluzione al sovraffollamento penitenziario è “investire in strumenti di rieducazione del reo, a cominciare dal lavoro, coinvolgendo direttamente le imprese negli istituti penitenziari”. A blindati chiusi, però. Perché, stando alle intenzioni di Delmastro, “ci raccontiamo che tutti i detenuti vogliono le celle aperte. È falso, ipocrita perché facciamo finta di non sapere che c’è una logica di sopraffazione all’interno degli istituti”. Dunque, ha concluso il sottosegretario, “ci sono due risposte: o chiudo le celle, o aumento il numero di agenti che controllino che non ci siano sopraffazioni”. È la slot machine. Dei reati, e delle idee. A volte un po’ confuse. Un pacchetto di repressione, ma Nordio resta in silenzio di Mario Di Vito Il Manifesto, 18 novembre 2023 Tutti dentro. Il ministro “garantista” non si trova. E i veri nodi di giustizia e sicurezza restano irrisolti. Dov’è Nordio? La domanda rimbalza tra i parlamentari dell’opposizione, quando ormai dall’annuncio del nuovo pacchetto sicurezza sono passate ventiquattro ore, del Guardasigilli non sembra esserci traccia. Già giovedì pomeriggio, dopo il consiglio dei ministri, a illustrare e a compiacersi della stretta repressiva c’era il solo Piantedosi, ben lieto di entrare nei dettagli e di circostanziare le varie misure. Meloni era assente giustificata - trasferta in Croazia - ma il ministro della Giustizia non si è presentato senza fornire alcuna giustificazione. E nessuno ha la più pallida idea di cosa pensi delle ultime notizie, anche perché tutti ricordano cosa disse all’indomani del suo giuramento al Quirinale, un anno fa: “La velocizzazione della giustizia transita attraverso una forte depenalizzazione, quindi una riduzione dei reati”. Peccato che da quel dì il governo di cui è ministro (incidentalmente proprio della Giustizia) non abbia fatto altro che inventare nuovi reati e alzare le pene di quelli già esistenti. “Sarei curioso di conoscere gli interventi del ministro Nordio in Consiglio dei ministri - scrive su X l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando -, ogni volta che in quel consesso si introduce un nuovo reato e si aumentano le pene edittali, facendo esattamente il contrario di quello che lui ha annunciato e sostenuto (sempre meno)”. Un concetto simile lo esprime anche Enrico Costa di Azione: “Nuovi reati, pene più alte, stretta sui differimenti dell’esecuzione delle pene. E ad illustrare il tutto il Ministro dell’Interno. Qualcuno avvisi Nordio”. Del resto dal Consiglio dei ministri Nordio è uscito a mani vuote, oltre che sconfitto nelle sue convinzioni (se tali le vogliamo considerare) garantiste: sulla giustizia non c’è un bel niente infatti. “Il governo non fa nulla per far funzionare la giustizia, non assume personale amministrativo, sembra lasciare naufragare il processo penale telematico - spiega Ciccio Zaccaro, segretario di Area democratica per la giustizia -. La mancanza di risorse e di investimenti danneggia i cittadini più deboli perché sono quelli che possono trovare tutela sono nei tribunali e delegittima la giurisdizione, più delle polemiche politiche, perché non le consente di difendere i diritti e le garanzie”. È assai improbabile che, nel compilare questo ennesimo pacchetto sicurezza, il governo abbia pensato a diritti e garanzie, ma più semplicemente a dare l’idea che le città siano più sicure. Zaccaro però smonta anche questo punto: “Non nego che ci sia una percezione di insicurezza, esasperata dalla propaganda politica, ma l’esperienza insegna che le città diventano più sicure se sono più accoglienti, più vive, più illuminate e non minacciando pene o perseguitando i mendicanti”. Da Zagabria, comunque, la premier Giorgia Meloni continua a dirsi molto soddisfatta, anzi “orgogliosa”, e sottolinea come una grossa parte del nuovo pacchetto sia stata dedicata a “consentire alle forze dell’ordine di essere tutelate anche nella dignità del lavoro che fanno”. Un messaggio anche morale: “È importante per le persone che difendono la nostra sicurezza sapere che lo Stato riconosce il valore di quello che stanno facendo, spesso in condizioni non facilissime”. Da qui l’inasprimento delle pene per aggressione, oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale. Ma anche un miliardo e mezzo di euro da mettere sul piatto per rinnovare il personale. In realtà i veri problemi del comparto restano inevasi: il precariato continua ad essere prevalente e, anche a proposito di dignità, non si affronta quella che è la prima causa di morte non naturale tra gli uomini e le donne in divisa: il suicidio (72 casi nel 2022), là dove, sottolineano i criminologi, “il tasso di depressione è cinque volte più alto che tra i civili”. Su questi elementi tante associazioni e sindacati riflettono e discutono ormai da anni, nel sostanziale disinteresse di chi dice di volerne tutelare la dignità. Forse perché si tratta di temi che non godono di grande considerazione nei talk show, cioè tra i veri cattivi maestri che ispirano le strette repressive. In quest’ottica funziona molto di più la decisione di consentire a poliziotti, carabinieri, soldati e marinai di poter girare dopo il lavoro con addosso una pistola diversa da quella di servizio. Ma è solo un dettaglio, in fondo, il piatto forte resta il miliardo e mezzo da destinare al “rinnovamento del personale” delle forze armate, come chiesto a più riprese dal ministro Crosetto. Si verrà così a creare almeno l’embrione di quella riserva che servirà a rendere il nostro paese più simile alla Svizzera e a Israele, con decine di migliaia di cittadini pronti a imbracciare le armi in caso di bisogno. È la tesi che Crosetto ha detto ai parlamentari dieci giorni fa: “Bisogna prepararsi al peggior scenario possibile”. Più carcere e più armi, il governo fa un passo verso lo stato di polizia di Stefano Iannaccone Il Domani, 18 novembre 2023 Approvato il pacchetto sicurezza, che comunque dovrà passare l’esame del Parlamento prima di entrare in vigore. Tra le norme carcere anche a chi viene sfrattato e l’aumento delle pene per i blocchi stradali. Inasprimento delle pene a cascata, contrasto alle forme di protesta più sgradite, e maggiore facilità per il possesso di pistole, seppure solo per gli agenti delle forze dell’ordine. “Potranno avere delle armi non di ordinanza”, ha confermato in conferenza stampa il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. Le misure, contenute dal corposo disegno di legge approvato a Palazzo Chigi nella giornata di ieri, sono la sintesi della filosofia securitaria del governo. Si scrive pacchetto sicurezza, si legge scivolamento verso lo stato di polizia. Poco male, però. La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, può gongolare e dirsi “orgogliosa”, facendo partire la batteria dello storytelling degli interventi a favore dei cittadini e contro la criminalità. Attingendo dal solito armamentario di pene più severe. Securitari e divisi - Il disegno di legge nasconde un altro intento, nemmeno troppo implicito: non parlare, ancora una volta, della debole manovra economica, provando allo stesso tempo a mettere insieme le forze della maggioranza. In teoria non ci dovrebbero essere distinguo in materia di sicurezza tra Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia. Solo che il tentativo di una propaganda a reti unificate è naufragato un minuto dopo il via libera al provvedimento. La Lega ha messo subito il cappello al pacchetto sicurezza: “In cdm è stata approvata una norma per punire chi truffa gli anziani, disegno di legge a nostra prima firma già approvato in prima lettura di recente in Senato, e per il maggior contrasto alle occupazioni abusive, tema già in discussione alla Camera. Il governo apprezza particolarmente le nostre proposte”, ha rivendicato il capogruppo leghista al Senato, Massimiliano Romeo. Un messaggio di Matteo Salvini all’alleata Meloni: i leghisti non ci stanno a regalare alla premier i loro argomenti. Una competizione tutta muscolare che ha portato al provvedimento di matrice securitaria. “Il ministro Nordio evidentemente si è definitivamente convertito al panpenalismo, più armi, più repressione, più esibizione di muscolare potere”, ha attaccato la capogruppo alla Camera dell’Alleanza verdi-sinistra, Luana Zanella. “Per una donna al comando niente male”, ha aggiunto rivolgendosi direttamente alla premier. Il testo è un concentrato di populismo legislativo, a cominciare dalla possibilità di arrestate le donne in gravidanza o con bambini piccoli. Un intervento che sembra costruito a misura sulle donne rom e sinti, che nella narrazione della destra si macchiano di reati nella certezza dell’impunità. I giudici ora potranno valutare caso per caso. “Più pene perfino per i bambini colpevoli solo di essere figli di donne condannate”, denuncia il senatore del Pd, Alfredo Bazoli, secondo cui il provvedimento dimostra una “concezione autoritaria del diritto in palese spregio di qualunque idea liberale e garantista”. Sfratti e armi - A pagare il conto della securitarismo made in Meloni sono pure le persone più in difficoltà, sotto sfratto, che rischiano di finire in carcere con l’accusa di occupazione abusiva. Il cortocircuito è clamoroso: da un lato il governo non sostiene le famiglie in difficoltà a pagare l’affitto, dopo lo stop al fondo contro la morosità incolpevole, e dall’altro è pronto a inasprire le sanzioni penali. La povertà diventa una colpa nella visione governativa. “Abbiamo già fatto intervenire l’Onu sulla questione, che aveva già spiegato al governo che il testo del ddl Bisa (in parte assorbito dal provvedimento del governo, ndr) violava i diritti umani”, dice la presidente dell’Unione inquilini, Silvia Paoluzzi. Nel mirino della svolta securitaria finisce un altro nemico della destra: i manifestanti. Sono previsti aumenti delle pene per le proteste con blocchi stradali, molto praticate dagli ambientalisti negli ultimi mesi. Nel disegno di legge, infatti, viene introdotto questo reato “nel momento in cui risulti particolarmente offensiva ed allarmante, sia per la presenza di più persone sia per il fatto che sia stata promossa e organizzata preventivamente”, spiegano da Palazzo Chigi. Il ministro Piantedosi ha poi spiegato che è stata introdotta una reclusione, fino a 6 anni, per chi provoca o partecipa a rivolte nelle carceri. “La norma vale anche le strutture di trattenimento per i migranti”, ha sottolineato il ministro dell’Interno. Una delle misure più impattanti è poi la possibilità per gli agenti di polizia di avere un’arma non di ordinanza, senza dover ricorrere alla licenza. “Una misura inutile e pericolosa”, la definisce Giorgio Beretta, analista dell’Opal di Brescia. L’impatto non sarà quello di un incremento della sicurezza e d’altra parte sarà una spinta alla circolazione delle pistole. Le norme del pacchetto sicurezza, comunque, non entreranno immediatamente in vigore. Non si tratta di un decreto, a differenza di altri casi, e bisognerà quindi attendere l’incardinamento e l’esame parlamentare. Ma la direzione securitaria è a prova di smentita. Sicurezza, in Cdm va in scena il trionfo del panpenalismo di Valentina Stella Il Dubbio, 18 novembre 2023 Il pacchetto approvato dal governo tenta di rimediare con la solita stretta alle inefficienze della prevenzione. Il diritto penale usato per sopperire alle inefficienze della prevenzione: è questo il senso del ddl sicurezza varato due giorni fa in Consiglio dei ministri e che ora dovrà passare per il vaglio del Parlamento. Il filo rosso che lega i provvedimenti è quello dell’inasprimento delle pene e dell’introduzione di nuovi reati. Una vera epifania di panpenalismo al servizio delle forze dell’ordine. Ma non c’è da meravigliarsi, considerato lo spirito affatto garantista delle principali forze di maggioranza. Il tutto, come ha detto l’ex ministro Orlando, porta a chiedersi: “Sarei curioso di conoscere gli interventi del ministro Nordio in CdM, ogni volta che in quel consesso si introduce un nuovo reato e si aumentano le pene edittali, facendo esattamente il contrario di quello che lui ha annunciato e sostenuto (sempre meno)”. Ma quali sono le misure principali soprattutto in materia di carcere e sicurezza? Come ha spiegato un comunicato di Palazzo Chigi, “si aggrava la pena per le ipotesi in cui la violenza, minaccia o resistenza a un pubblico ufficiale siano poste in essere nei confronti di un ufficiale o di agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria”. Inoltre “si inseriscono, tra i reati “ostativi”, le fattispecie già esistenti di “istigazione a disobbedire alle leggi” e di “rivolta in istituto penitenziario”. In questi casi, per concedere benefici penitenziari, il magistrato di sorveglianza dovrà valutare la positiva partecipazione al programma di riabilitazione specifica previsto per il detenuto. Come nei Cpr, anche negli istituti di pena ci sarà un inasprimento della pena con reclusione fino a 6 anni per le rivolte. A proposito di questo ieri il sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro delle Vedove, intervenendo al seminario “Valutare il sistema penitenziario - Organizzazione, performance e percorsi di riforma” organizzato dal Dipartimento Gepli dell’Università Lumsa e dal Master in Management e Politiche pubbliche della Lumsa Master School ha dichiarato: “La funzione rieducativa, che deve esserci, parte dal primo motivo per cui tu sei dentro: il riconoscimento dell’autorità, della legalità. Se io sono un detenuto che come vede una divisa gli viene voglia di darle un pugno, posso aver partecipato con esito positivo a tutti i corsi di ceramista che facciamo in carcere, ma non ho ancora cominciato a rieducarmi. Perché ciò che non ti hanno insegnato tuo padre e tua madre te la insegno io, cioè che l’autorità non ti deve far scattare la voglia di menarla. Che poi è quello di cui parliamo tutti i giorni, cioè delle aggressioni che patiamo all’interno degli istituti penitenziari”. Confermato “un regime più articolato per l’esecuzione della pena per le donne condannate quando sono in stato di gravidanza o sono madri di figli fino a tre anni. Non è più obbligatorio il rinvio dell’esecuzione della pena, ma è mantenuta tale facoltà in presenza dei requisiti di legge”. Tra gli elementi che possono influire nella valutazione del giudice “ci sarà, per esempio, la recidiva. È stata poi prevista la possibilità che la pena sia scontata presso gli istituti a custodia attenuata per detenute madri, fermo restando il divieto del carcere per le donne incinte e le madri dei bambini più piccoli (fino a un anno di età)”. Si autorizzano gli agenti di pubblica sicurezza a portare senza licenza un’arma diversa da quella di ordinanza quando non sono in servizio. È introdotto un “nuovo delitto, perseguibile a querela della persona offesa, che punisce con la reclusione da 2 a 7 anni chi, con violenza o minaccia, occupa o detiene senza titolo un immobile altrui, o comunque impedisce il rientro nell’immobile del proprietario o di colui che lo deteneva”. Per rendere più efficace questa norma vengono introdotte “due misure. La prima: è prevista una causa di non punibilità per l’occupante che collabora all’accertamento dei fatti e rilascia volontariamente l’immobile occupato; la seconda: viene disciplinato un apposito procedimento, molto veloce, per ottenere la liberazione dell’immobile e la sua restituzione a chi ne ha diritto”. In via ordinaria su questo provvederà il “giudice, ma nei casi urgenti, in cui l’immobile occupato sia ad esempio l’unica abitazione della persona offesa, è prevista la possibilità che la liberazione/ restituzione dell’immobile sia effettuata direttamente dalle forze di polizia che hanno ricevuto la denuncia, fermo l’intervento successivo di convalida del pubblico ministero e del giudice”. Prevista una stretta sulle truffe commesse ai danni degli anziani e delle persone più fragili. Viene aumentata la pena di reclusione da 2 a 6 anni per la truffa aggravata e viene prevista, per quest’ipotesi, anche la possibilità per le Forze dell’Ordine di procedere ad arresto in flagranza. Infine il ddl prevede che il “Questore potrà disporre il divieto di accesso nelle metropolitane, nelle stazioni ferroviarie e nei porti per chi è già stato denunciato o condannato per furto, rapina o altri reati contro il patrimonio o la persona commessi in quei luoghi”. Inoltre, si innalza da 14 a 16 anni l’età dei minori coinvolti per stabilire la punibilità delle condotte relative all’avvalersi, permettere, organizzare o favorire l’accattonaggio, si inasprisce la pena prevista per tali condotte e si introduce la condotta di induzione. Sicurezza, emergenza gonfiata. “Misure inutili, è propaganda” di Giuliano Foschini La Repubblica, 18 novembre 2023 Sindacati, magistrati, avvocati bocciano le nuove norme: “Il risultato sarà solo un ulteriore affollamento delle carceri”. Allarme per il rischio di proliferazione delle armi in circolazione. Si potrà finire in manette per un blocco stradale, e così potranno arrestare i ragazzi di Ultima generazione ma anche i lavoratori in corteo che protestano per la chiusura di una fabbrica. Metteranno sul mercato potenzialmente 300mila nuove armi, visto che tutti gli agenti di polizia giudiziaria potranno comprarne, senza porto d’armi, una nuova. Finiranno in galera le donne incinta e i bambini da 0 a 3 anni: sono un centinaio all’anno, non di più, ma i titoli in 24 ore sono stati già più del doppio. Si punirà chi “protesta pacificamente” nelle carceri e si metterà fine alle occupazioni abusive. Quasi tutte, però: per come è scritta la norma Casa Pound potrà stare tranquilla. Il nuovo ddl sicurezza, per come è uscito venerdì dal consiglio dei ministri, è un’ “accozzaglia ideologica per ridurre lo spazio di dialettica democratica”. “Un compendio da stato delle Filippine”, “un complesso di misure inutili, di propaganda, che producono carcere ma non sicurezza”, “perché aumentare i reati non è mai servito ad averne meno sulla strada”. E che anzi, visto l’aumento esponenziale di armi che saranno in circolazione, “rischia di produrre ulteriore violenza” dicono - giusto per citare alcune delle reazioni che Repubblica ha raccolto pubblicamente e privatamente - magistrati, avvocati, sindacalisti ed esperti dei singoli dossier. I blocchi stradali - Il nuovo ddl punisce con la “reclusione da 6 mesi a tre anni”, invece che con la vecchia sanzione amministrativa che andava da mille a quattromila euro, chi compie un blocco stradale. Perché la norma venga applicata è necessario che la manifestazione debba essere promossa da più persone, risulti particolarmente offensiva e allarmante e risulti organizzata preventivamente. È stata pensato, si è detto, per gli attivisti di Ultima generazione che nel 2023 hanno effettuato una dozzina di blocchi in tutta Italia. Ma ci sono due problemi, anzi tre. Il primo: come per il decreto rave, le statistiche dicono che non ce ne fosse alcun bisogno. “Salvo che - ragiona il segretario Michele de Palma della Fiom - non si volesse colpire altro. Chi? Noi, per esempio: ci capita di organizzare delle manifestazioni all’improvviso, magari per una chiusura di una fabbrica. E bloccare una strada. Che fanno ci arrestano? Mi sembra una norma ideologica di chi ha paura di una dialettica democratica”. Anche perché una legge per “punire” Ultima generazione esisteva già: l’aveva approvata Salvini nel 2018 e punisce da uno o sei anni proprio chi ostruisce il traffico con oggetti: uno striscione, per esempio. Il carcere - Un pacchetto di norme è dedicato al carcere. Due le novità principali: possono finire in galera le donne in gravidanza e con i bambini da 1 a 3 anni. Vengono poi creati specifici reati per le sommosse in carcere, anche pacifiche. “Sono due errori che arrivano dallo stesso percorso ideologico” ragiona l’ex garante dei detenuti, Mauro Palma. “Perché con queste leggi si produrrà carcere e non sicurezza. Con le donne si dà una risposta a pochissimi casi, che fanno molto rumore mediatico. Costringendo però troppi bambini a finire dietro le sbarre con le loro madri, senza prima avere investito sulle strutture. E contemporaneamente si usa il pugno duro non contro le aggressioni del personale, come pure invece sarebbe giusto. Ma per esempio contro chi protesta pacificamente: sono pronto a scommettere che gli episodi di tensione ora aumenteranno”. D’altronde anche i sindacati penitenziari non hanno brindato. Anzi: “Introducendo nuovi reati e inasprendo le pene si finisce per affollare ancora di più le carceri” dice Gennarino de Fazio della Uil. “Questo mese ci sono 70mila detenuti a fronte di 51mila posti. Serviva investire sulla prevenzione”. Le armi - Ed è proprio la prevenzione a essere uno dei temi che allarma di più chi si occupa di armi nel nostro Paese. Il ddl prevede che tutte le forze di Polizia potranno avere una nuova arma, per usarla fuori dal servizio in caso di necessità, oltre alla pistola di ordinanza: ufficialmente è motivato per una questione di comodità, la Beretta in dotazione è poco maneggevole quando non si è in divisa. “Ma si scherza con il fuoco” dice Giorgio Beretta, analista del commercio di armi comuni. Segnalando come le statistiche sui reati andavano in senso opposto. “Non c’è alcuna effettiva necessità, lo si fa per assecondare una richiesta di alcuni sindacati di polizia di destra mettendo in giro nel paese potenzialmente 300mila nuove armi a fronte delle poche migliaia oggi in dotazione a ufficiali e magistrati, per motivi di legittima difesa. Il decreto non prevede controlli medici e nemmeno misure di controllo psicologico”. “Temo” gli fa eco Luca di Bartolomei, figlio di Agostino, e da anni impegnato contro la diffusione delle pistole. “Le statistiche parlano chiaro purtroppo: il numero di suicidi nelle forze dell’ordine e più del doppio della media, proprio per via delle armi. Con questa norma i numeri non potranno che salire”. Le occupazioni - Un’ulteriore norma riguarda l’inasprimento delle pene per chi occupa un immobile abusivamente. Con la possibilità di recupero immediato da parte del legittimo proprietario o assegnatario. “Ma Casa Pound può stare serena” dice, ironicamente, il deputato dei Verdi, Angelo Bonelli. “I loro amici al Governo non hanno fatto alcuno scherzo: per come è scritta la norma sembra che non si potrà utilizzare per la loro sede di Roma, di proprietà della collettività, che occupano senza diritto da troppi anni”. Sicurezza, Armando Spataro: “Che errore quegli agenti armati fuori servizio” di Liana Milella La Repubblica, 18 novembre 2023 Meloni dice di essere “orgogliosa di questo importante pacchetto sicurezza”. Lei Armando Spataro che ne dice? “Certe forme di orgoglio sono per me incomprensibili. Le scelte del “pacchetto” appaiono in buona parte classificabili, ancora una volta, come forme di populismo penale. Si creano nuovi reati e il panpenalismo cresce, nonostante si affermi di voler semplificare il sistema-giustizia. Si inaspriscono le pene per reati già esistenti e ci si accredita come i custodi della tolleranza zero. E si inserisce il termine sicurezza nel titolo del provvedimento, com’è avvenuto innumerevoli volte negli ultimi quindici anni, in modo da poter dire alla gente ‘pensiamo noi alla vostra tranquillità’”. La norma più criticata di tutte è quella delle donne recidive che rischiano di finire in carcere con i figli. A meno che non abbiano un anno, galera anche per loro... “È uno degli esempi di quanto dicevo. Magistrati esperti di esecuzione della pena e il Garante dei diritti delle persone private della libertà Mauro Palma hanno ben spiegato che, pur essendo in qualche modo frequente il fenomeno delle borseggiatrici incinte, esso andrebbe prima contrastato con maggior presenza pubblica delle forze dell’ordine. E inoltre anche la Corte costituzionale ha spiegato che i minori vanno tutelati sicché, a prescindere dall’insufficienza delle case protette per le detenute madri, non si può accettare l’ipotesi di una diffusa permanenza in carcere dei bambini. E anziché la marginalizzazione, va perseguita l’integrazione, per quanto non facile, anche dei responsabili di certi reati”. Per Piantedosi è “un po’ sgradevole” l’uso della maternità, ce l’ha con le rom, già vittime dei loro compagni… “Il Ministro usi pure il suo lessico, ma spieghi con chiarezza a quali soggetti la norma si riferisce. È una legge contra personam?”. Le armi, siamo al rischio Far West. Tutti gli appartenenti alle polizie potranno girare con un’arma propria. Parliamo di centomila persone armate anche se non sono in servizio e il ministro dell’Interno non vede rischi… “Ci risiamo. Le strade dovrebbero essere piene di poliziotti e carabinieri armati, in servizio o fuori servizio, ma anche in pensione. Come dimenticare la filosofia delle “ronde”, tecnicamente “associazioni tra cittadini non armati al fine di segnalare alle Forze di polizia dello Stato o locali eventi che possono arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale”, che vennero previste nel disegno di legge denominato “pacchetto sicurezza” (guarda caso!) e definitivamente approvato all’inizio di luglio del 2009? E, al di là delle aspettative della Lega, c’era anche chi voleva istituire ronde di ex carabinieri e poliziotti. Un fallimento totale, anche perché la sicurezza pubblica è una funzione tipica affidata alle istituzioni dello Stato, come stabilito anche nell’articolo 117 della Costituzione, non un rito da tempo libero o da volontariato”. Le manifestazioni vengono criminalizzate? Da 2 a 5 anni per chi colpisce un agente, basterà un pugno in un corteo.... “Credo che le forze dell’ordine sappiano ben fare il loro lavoro, anche in condizioni difficili, mantenendo il controllo anche di manifestazioni “turbolente”. Lo dimostrano fatti recenti. Queste possibili nuove pene non servono certo a renderne più “protetta” l’azione, né a dissuadere chi partecipa a cortei con propositi di violenza”. Anche il reato di blocco stradale, imbrattare o deturpare un edificio pubblico è misura anti cortei? E cosa pensa della previsione di una pena elevata per chi occupa la casa di un altro? È un’altra misura anti poveri? “Si tratta certo di reati che devono essere puniti, specie quando, nel primo caso, finiscono per danneggiare strutture di valore storico-culturale e nel secondo con il trasformarsi in una specie di “diritto di proprietà”. È giusto punirli, ma le pene devono rispettare il principio di proporzionalità rispetto al grado di offensività di tutti i fatti-reato che determinano la condanna. C’è da chiedersi se siano più offensivi questi reati o quelli commessi contro la Pubblica amministrazione: il reato d’abuso d’ufficio è punibile con la reclusione fino a quattro anni. Idem quello di malversazione di erogazioni pubbliche. Forse sarebbe più giusto, al di là del progetto di cancellare dal codice certi reati, aumentare le pene per queste condotte: il volto truce del legislatore sarebbe forse più guardabile”. Questo governo fa la guerra ai migranti revocando la cittadinanza allo straniero condannato da 3 a 10 anni e punendo con 8 anni chi organizza rivolte nei Cpr e in carcere? “Il tema del contrasto dell’immigrazione illegale è uno dei terreni su cui maggiormente si è scatenata, dal 2008 almeno, una politica securitaria che ha prodotto danni incalcolabili agli equilibri che devono caratterizzare ogni democrazia, con violazione di diritti e divieti sanciti dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo, dalla nostra Costituzione, da convenzioni sovranazionali e da leggi ordinarie. Gli ultimi provvedimenti del 2023, anche quello post-Cutro, ne sono un esempio. Nessuno, sia ben chiaro, può contestare la necessità di punire i reati che possono essere commessi nei Centri di permanenza e rimpatrio. Ma ci si deve chiedere se non siano anche il prodotto della trasformazione di quei centri in prigioni amministrative, dove la possibilità di esservi trattenuti a lungo cresce nel tempo. Li si renda vivibili, rispettando il diritto all’asilo e facendo funzionare i meccanismi per eventualmente riconoscerlo ai richiedenti in tempi brevi” Il Daspo nelle stazioni dei treni e della metro a chi è stato condannato o solo denunciato per furto chi potrà mai realizzarlo? “Non ne ho la minima idea, sarà difficile che riesca a farlo la polizia ferroviaria pur efficiente nei molteplici compiti di sicurezza che le sono affidati” Per le truffe agli anziani ecco l’arresto in flagranza e una pena da due a sei anni. Solo una norma manifesto? “Gli anziani vanno tutelati efficacemente come tutti i soggetti deboli. Questa nuova previsione è una delle poche che condivido, al pari di quelle che riguardano una più efficace protezione e tutela di nuova identità, anche fiscale, per collaboratori e testimoni di giustizia. I cittadini e chi li rappresenta devono rifiutare posizioni estreme, utilizzare informazioni attendibili e comunque prestare ogni possibile attenzione al rispetto dei diritti fondamentali delle persone. La ragione aiuterà a stare lontani da populismi di ogni segno, tra cui quello legislativo e quello giudiziario che pure esiste. Ma è certo che, se queste norme fossero approvate, la loro interpretazione (non facile visto il lessico usato) e la loro applicazione determineranno nuove accuse e polemiche nei confronti della magistratura”. Giustizia penale, toghe e politici si confrontano al congresso di Aiga di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 18 novembre 2023 Magistratura e politica a confronto nella tavola rotonda dedicata alla giustizia penale e all’ordinamento giudiziario, durante il XXVII congresso dell’Aiga. Nell’incontro, moderato da Errico Novi, vicedirettore del Dubbio, sono intervenuti a Bari Filippo Donati (professore di diritto Costituzionale nell’Università di Firenze), Stefano Latorre (segretario generale Unicost), Giuseppe Santalucia (presidente Associazione nazionale magistrati) e Carolina Varchi (Commissione Giustizia della Camera, deputata di Fratelli d’Italia). La magistratura, secondo il pubblico ministero Stefano Latorre, “non deve essere né forte né debole, deve essere giusta”. Se alcune volte il dibattito è caratterizzato da forti e poco edificanti contrapposizioni, probabilmente, è perché si sottovaluta l’aspetto della comunicazione all’esterno del lavoro dei magistrati e degli avvocati. Tema rilevante anche quello di un giusto bilanciamento in merito alla partecipazione nei Consigli giudiziari degli avvocati per le valutazioni professionali dei magistrati. Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), Giuseppe Santalucia, ha commentato la lunga stagione delle riforme nella giustizia. A tal riguardo ha rilevato che “ogni innovazione nella giustizia penale richiede tempo”. Per questo motivo dare giudizi affrettati rispetto a quanto realizzato potrebbe essere fuorviante e nient’affatto utile. L’intervento della parlamentare di Fratelli d’Italia, Carolina Varchi, ha avuto come filo conduttore la realizzazione del programma - compreso quello nella giustizia - che ha permesso poco più di un anno fa alla coalizione di centrodestra di vincere le elezioni politiche. Non esiste, ha chiarito la deputata, alcun dualismo tra il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e Fratelli d’Italia. “Il ministro Nordio - ha commentato Varchi - è diventato per il mio partito un punto di riferimento. Quando si interviene in materia di giustizia, lo si deve fare per tutti i cittadini. Per questo motivo i protagonisti della giurisdizione e della politica devono fare la loro parte”. Sulla separazione delle carriere, l’esponente di FdI è stata altrettanto chiara: “L’architrave del nostro programma è la separazione delle carriere. Un impegno assunto con gli elettori. Essendo una riforma costituzionale non verrà abbinata a quella del premierato. La separazione delle carriere deve andare avanti e deve basarsi su un confronto che vada oltre le appartenenze politiche. È una riforma da fare”. Viking, adibita a salvare i naufraghi. 20 giorni ferma. Molti salvataggi saranno impossibili. Forse ci saranno dei morti. Supero tutti i dubbi: fascisti! Quella visione militare del processo penale suggellata dal patto tra governo e Procure di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 18 novembre 2023 Non siamo ingenui. Nessuno pensa che gli equilibri fra i diversi partiti di maggioranza o l’insorgere di diverse esigenze e priorità non possano mutare i programmi di un governo. O che la dialettica politica propria di un’azione di governo non possa essere condizionata dalla ricerca dei pur necessari equilibri fra i poteri dello Stato. Ma se in passato eravamo abituati ai colloqui fra rappresentanti dell’Associazione Nazionale Magistrati e i Ministri o all’”influenza” esercitata dai magistrati fuori ruolo all’interno del Ministero della Giustizia, in questo caso il confronto si è svolto direttamente fra i più alti rappresentanti del Governo e la Procura Nazionale Antimafia, che costituisce una superprocura sotto tutti i profili, nella normativa che la istituisce, nei fatti con i quali opera e nell’immaginario collettivo. Si tratta del più potente dispositivo giudiziario, articolato in ventisei Procure Distrettuali, sul quale si fonda la stessa capacità investigativa e repressiva dello Stato. Risulta piuttosto evidente come a tale potere giudiziario corrisponda un altrettanto ampio potere politico, esemplificato non solo dalle molteplici transizioni dei Procuratori Nazionali Antimafia all’interno dei singoli partiti e del Parlamento, ma rappresentato in particolare dalla attenzione che i desiderata di tale Ufficio ricevono oramai da parte del Governo. È per questo motivo che le parole spese dalla Presidente del Consiglio all’incontro con i Procuratori Distrettuali, avvenuto pochi giorni fa presso la sede di Via Giulia a Roma, devono essere lette con attenzione: “Mi aspetto - ha detto Giorgia Meloni al Procuratore nazionale - che anche quando non fossimo completamente d’accordo sulle norme che vanno portate avanti, questo non diventi uno scontro tra poteri. Perché si possono avere punti di vista diversi, ma ciò non vuol dire che non stiamo lavorando per lo stesso risultato. Perché si lavora sempre per lo stesso datore di lavoro, lo stato italiano, e contro lo stesso avversario”. Non dice la Premier quali sono le norme sulle quali si potrebbe non essere d’accordo, ma offre invece un quadro chiarissimo nel rappresentare quale sia l’oramai imperante ideologia del processo che vale la pena di decifrare. Corre infatti una visione militare della Giustizia e dello Stato - bizzarramente inteso come un “datore di lavoro” - alla cui vittoria concorrono assieme la politica e le Procure Distrettuali. Ora, se immaginare la politica e le procure che lottano assieme contro la criminalità può rassicurare qualcuno, questa immagine suscita in noi qualche non ingiustificata perplessità per il semplice fatto che c’è una politica che si identifica interamente ed esclusivamente con il potere punitivo dello Stato. Una simile visione del processo e della giustizia penale elimina totalmente dal suo orizzonte i giudici che quella stessa giustizia dovrebbero amministrare. Inevitabile porsi una domanda: in tutto questo, i giudici da che parte dovrebbero stare, su quello stesso fronte di guerra accanto alla politica e alle Procure? E infine e non da ultimo, i cittadini dove sono? Questa visione alterata e belligerante della giustizia finisce infatti per emarginare proprio quelli che dovrebbero essere i punti di riferimento di uno stato di diritto costituzionale: i titolari e i garanti dei diritti. Una visione distante dalla visione liberale nella quale l’autorità dello Stato esercita la sua potestà punitiva restando sempre in equilibrio con le insopprimibili libertà fondamentali ed i valori della costituzione. Si sta qui assistendo ad una sorta di upgrade nella dislocazione utilitaristica dei diversi poteri, che va ben oltre quel fenomeno da noi più volte denunciato dei magistrati fuori ruolo collocati all’interno del Ministero della Giustizia, e che va piuttosto realizzando una nuova insolita alleanza fra la visione illiberale ed autoritaria del diritto penale e i gangli conservatori del potere giudiziario inteso soprattutto come indiscussa conservazione del suo autarchico status quo. Siamo qui di fronte a due distinti problemi. Il primo riguarda il Ministro e le sue ambizioni “garantiste” travolte da quel patto. Il secondo riguarda quella cosa che si chiamava Politica. Due problemi evidentemente connessi. Infatti, a fronte di quella profonda degenerazione dei rapporti fra poteri dello Stato, della quale non ci si avvede e non ci si cura, sono oramai evidenti i segni di una turpe degenerazione del diritto penale, inteso come una sorta di slot- machine di nuovi reati e di nuova penalità. Basti pensare al nuovo pacchetto- sicurezza ed allo spirito puramente carcero- centrico, repressivo e securitario che lo anima, in quella chiave puramente simbolica che il populismo penale predilige. Per non dire del processo penale oramai trasformato in un pericoloso gioco dell’oca, collocato fuori dal paradigma dell’originario modello accusatorio, nel quale le sanzioni poste a garanzia dei diritti sono state sopravanzate dalle inammissibilità volte a tutelare paradossalmente il processo dall’esercizio dei diritti dell’imputato. Di questa oramai vincente truffa delle etichette dovrebbe farsi carico la stessa informazione, mettendo in guardia l’opinione pubblica dai rischi di simili retoriche giustizialiste che fingendo di assecondare un’esigenza di sicurezza, finiscono con l’erodere il difficile equilibrio che corre fra l’Autorità dello Stato, la libertà e le garanzie dei cittadini. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Palermo. “Ormai spero solo nell’eutanasia”, il doppio inferno del fine vita in carcere di Irene Carmina La Repubblica, 18 novembre 2023 Giovanni è affetto da una grave neuropatologia. Il Garante dei detenuti: “La sua carcerazione è già stata dichiarata dal direttore sanitario incompatibile con le sue condizioni di salute”. Ha già tentato di togliersi la vita quattro volte e il suicidio assistito gli sembra, ora, l’unica possibilità. Per non rimanere inchiodato al letto della cella dell’Ucciardone dove è stato trasferito dal carcere di Rebibbia ad agosto. Quando non è a letto, se ne sta sulla sedia a rotelle: una grave neuropatologia ai nervi delle vertebre gli impedisce di camminare. Ha un occhio bendato, a stento ci vede. Non va mai in cortile a guardare il cielo, lo fa stare male, gli attacchi di claustrofobia lo assalgono ogni volta. Preferisce stare sdraiato e chiudere gli occhi, forse per sognare una vita diversa. Da quando è stato trasferito nel carcere di Palermo, non si è mai fatto la doccia. Si lava come può usando una bacinella, gli altri detenuti gli danno una mano. Nel bagno adiacente alla sua cella non ci sono le maniglie a cui aggrapparsi. Non c’entra neppure la carrozzina. Neanche la cella di 12 metri quadrati, che condivide con altri due detenuti, è idonea per i disabili. Una adatta a lui ci sarebbe all’Ucciardone. Ma è già occupata da altri due disabili in sedia a rotelle. Giovanni (il nome è di fantasia) ha 54 anni, è nato a Siracusa e deve ancora scontare dieci anni di pena in carcere, dopo i due a Rebibbia. Ed è stanco di vivere così. “Non ce la faccio più. Se dovesse essere approvata una legge sull’eutanasia legale, ti prego di farmi sapere perché non posso resistere tutti quegli anni in queste condizioni”. Quando Pino Apprendi, garante dei detenuti di Palermo, qualche giorno fa ha sentito queste parole, è rimasto di sasso. Sgomento. “Stiamo lottando per affermare il diritto di essere liberi fino alla fine”, è stata la sua risposta. Due anni fa Apprendi è stato uno dei volontari che hanno raccolto le firme per il referendum sull’eutanasia legale e il suo impegno a fianco dell’associazione Luca Coscioni, stavolta per una legge regionale d’iniziativa popolare, l’ha rinnovato ieri mattina davanti a Marco Cappato. Eppure, Apprendi vuole tentare il tutto per tutto per salvare Giovanni, perché sa che è a rischio. A rischio di sprofondare, di desistere, di farla finita. In Italia, l’anno scorso ci sono stati 15 suicidi ogni 10mila detenuti, una morte su 4 in carcere è un suicidio e dal 2000 al 2020 di suicidi in carcere se ne sono contati 1.400, 70 in media all’anno, a cui vanno aggiunte 4mila morti dietro le sbarre senza una spiegazione precisa. “Giovanni è chiaramente un soggetto ad alto rischio e va aiutato perché sta vivendo un carcere nel carcere. Un inferno. Anche chi entra perfettamente sano di mente, dopo qualche settimana, può andare fuori di testa - racconta il garante dei detenuti - Chi, come Giovanni, è affetto da una grave patologia neurodegenerativa non dovrebbe stare qui: esistono i domiciliari e luoghi più adeguati come le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza e le case-famiglia. D’altronde, la sua carcerazione è già stata dichiarata dal direttore sanitario incompatibile con le sue condizioni di salute”. Incompatibile. Ma tant’è. La malattia di Giovanni potrebbe avere un nome preciso, la Sla: sono in corso accertamenti medici. “Se questa fosse la diagnosi, tenerlo in carcere sarebbe una follia”, dice Apprendi. E punta il dito contro il servizio sanitario offerto nelle carceri: “Non è assolutamente dignitoso. Se per noi i tempi della sanità sono lunghi, per un detenuto sono infiniti. Sei mesi diventano 12 e tutto in carcere diventa complicato, anche un semplice mal di denti”. All’Ucciardone c’è un’infermeria con un direttore sanitario, un medico 24 ore su 24, le visite specialistiche avvengono periodicamente. Il 54enne di Siracusa non è l’unico detenuto in sedie a rotelle all’Ucciardone. Due sono nella cella per disabili. Altri cinque, come Giovanni, sono stati sistemati in celle diverse, non adatte alle loro esigenze. “Un carcere per cinquecento persone non può avere una sola cella per disabili”, accusa Apprendi. Intanto Giovanni se ne sta fermo a letto, aspetta un pacco da Rebibbia con dei presidi medici e, una volta a settimana, la visita della compagna. “Nel frattempo potrebbe essere trasferito a Siracusa così da avere un conforto familiare - osserva il garante - Per fortuna, i compagni di cella lo aiutano, se lo caricano in braccio e lo mettono in piedi. Ma se Giovanni non vuole neanche più andare in cortile a vedere il cielo, che è il momento della giornata più atteso da tutti i detenuti, c’è poco che possano fare i suoi compagni di cella. È gravemente malato, va aiutato da chi ne ha le competenze”. Viterbo. Hassan Sharaf si uccise in cella, chiesta la condanna per i tre imputati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 novembre 2023 Nel corso della terza udienza preliminare svoltasi il 16 novembre presso il tribunale di Viterbo, la procura generale di Roma ha formulato richieste di condanna nei confronti di tre imputati legati alla tragica morte del detenuto egiziano Hassan Sharaf nel luglio del 2018. L’ex direttore del carcere, Pierpaolo D’Andria, è stato accusato di omicidio colposo e omissione di atti di ufficio, mentre il comandante della polizia penitenziaria Daniele Bologna e l’agente Luca Floris affrontano l’accusa di omissione di atti d’ufficio per il mancato trasferimento di Sharaf in un carcere minorile. La richiesta di condanne avanzata dal sostituto procuratore generale Tonino Di Bona prevede 12 mesi di reclusione per D’Andria e otto mesi ciascuno per Bologna e Floris. È importante notare che tutti e tre gli imputati hanno scelto di essere giudicati col rito abbreviato, il quale, in caso di condanna, consente lo sconto di un terzo della pena. Il detenuto egiziano di 21 anni, Hassan Sharaf, si è impiccato nella sua cella di isolamento nel carcere di Viterbo, notizia che ha scosso l’opinione pubblica e sollevato domande sulla gestione penitenziaria. La madre, la sorella e il cugino di Sharaf sono parti civili in questo processo. Durante l’udienza del 16 novembre, si è discusso sia della pubblica accusa che delle testimonianze delle parti civili. È emerso che Sharaf, nonostante il provvedimento disciplinare in isolamento, avrebbe dovuto trovarsi in un istituto penale minorile secondo la sentenza del tribunale dei minorenni di Roma. La procura ha sottolineato che la sua detenzione al “Mammagialla” era impropria e che le condizioni del detenuto richiedevano un monitoraggio attento, considerando il rischio di suicidio. In un precedente sviluppo del caso, il ministero della giustizia e la Asl sono stati citati come responsabili civili, e medici e poliziotti sono stati coinvolti nei procedimenti ordinari per omicidio colposo. L’udienza successiva, fissata per il 7 dicembre, si concentrerà sulle arringhe dei difensori degli imputati, mentre il 22 febbraio è prevista la camera di consiglio per decidere sui riti abbreviati e un eventuale rinvio a giudizio per altri imputati. Sulla vicenda di Sharaf la procura di Viterbo aveva aperto un’inchiesta per istigazione al suicidio che ha poi archiviato. La sua vita, nel luglio del 2018, si è tragicamente interrotta quando si è impiccato nella sua cella presso il carcere di Viterbo, noto come “Mammagialla”. Gli avvocati della famiglia del giovane egiziano hanno ottenuto, però, la riapertura del caso e l’avocazione. La procura generale di Roma, infatti, ha tolto le indagini ai magistrati viterbesi e le ha portate avanti in autonomia svelando dettagli raccapriccianti sulla gestione penitenziaria e le circostanze che hanno portato alla morte di Sharaf. L’avviso di conclusione delle indagini, firmato dal sostituto procuratore generale Tonino Di Bona, ha notificato sei persone, quattro delle quali sono state indagate per omicidio colposo in concorso. Questi includevano il direttore del carcere, medici e membri del corpo della polizia penitenziaria. La procura generale ha sottolineato che, in base alla sentenza del tribunale dei minorenni di Roma, Hassan Sharaf avrebbe dovuto scontare una pena di quattro mesi in un istituto penale minorile. Tuttavia, al momento dei fatti, si trovava “impropriamente detenuto” presso la casa circondariale di Viterbo. La ricostruzione dettagliata della procura ha rivelato che Sharaf non avrebbe dovuto essere nella cella d’isolamento il 23 luglio 2018, data in cui ha compiuto il gesto estremo. Una sanzione disciplinare, che escludeva l’attività in comune, era stata applicata il 9 aprile 2018 mentre il detenuto era ancora in espiazione di pena per un reato commesso quando era minorenne. Il procuratore della Repubblica presso il tribunale dei minorenni di Roma aveva chiaramente specificato che Sharaf avrebbe dovuto essere trasferito in un istituto penale minorile. Nonostante le condizioni particolari di Hassan Sharaf, soggetto tossicodipendente e con problemi psichiatrici, il provvedimento disciplinare è stato eseguito. Le tragiche circostanze hanno portato alla morte di Sharaf, che si è impiccato con una corda artigianale ricavata da un asciugamano legato alla terza sbarra della finestra a grate della sua cella. Subito dopo la sua morte, il garante dei detenuti del Lazio Steano Anastasìa ha presentato un esposto e aperto un fascicolo per istigazione al suicidio, sottolineando che Sharaf era stato maltrattato da due agenti prima di essere trasferito in isolamento. Nonostante la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura, la famiglia del giovane egiziano ha strenuamente opposto resistenza, cercando giustizia per la tragica fine del loro caro. Milano. Cinque minuti di reclusione per capire cosa significa vivere in una cella di San Vittore di Micol De Pas linkiesta.it, 18 novembre 2023 Uno sguardo sulla situazione di alcune carceri grazie a un’installazione immersiva che simula la degenza dietro le sbarre. In quei luoghi senza spazio, senza privacy e spesso senza umanità, il tempo scorre lentissimo. Quartiere Bicocca, Milano. Un edificio molto recente - come tutti qui - bianco, che corre pulito e ordinato lungo i marciapiedi di viale dell’Innovazione. Si entra qui, al BiM, uno spazio innovativo in cerca di una riqualificazione del quartiere che a trent’anni dalla sua creazione si riorganizza per rispondere alle nuove esigenze di chi lo vive e lo abita. Ma questa è un’altra storia. O quasi, perché BiM è un luogo ibrido che ospita anche l’arte e la cultura. Questa volta l’appuntamento è con “Extrema Ratio”, un’installazione di Caritas Ambrosiana curata da C41, nell’ambito degli incontri messi a punto dal Polo universitario penitenziario di Milano Bicocca per raccontare i suoi dieci anni di attività (dal 16 di ottobre fino al 19 novembre). Quello che mi porta al BiM è un’esperienza immersiva. Ammetto di essere un pochino distratta mentre percorro il corridoio a piano terra che ospita una piccola mostra di fotografie prima di giungere alla mia destinazione, l’installazione. Mi soffermo su uno scatto, molto bello, opera dei detenuti che hanno partecipato a un laboratorio di fotografia proposto dall’organizzazione di volontariato sociale Ri-Scatti, nel carcere di Bollate insieme alla polizia penitenziaria. Un lavoro interessante di cui qui sono esposte solo tre foto, parte di una grande mostra, “Ri-scatti. Per me si va tra la perduta gente”, che si è tenuta negli spazi dell’ateneo. Sul muro opposto, tre videointerviste firmate C41 a Ileana Montagnini di Caritas Ambrosiana, Amedeo Francesco Novelli dell’ODV Ri-Scatti e Gaia Pollastrini dell’Università Milano-Bicocca. Guardo il cellulare, l’orologio, penso agli impegni successivi. Sul fondo del corridoio una tutor mi accoglie, insieme a un altro partecipante, per dare inizio all’esperienza. Nulla di tecnologico, anzi: sto per entrare in una cella. O meglio, nella riproduzione esatta per misure e arredi di una cella della casa circondariale di San Vittore a Milano. La tutor ha in mano alcuni sacchetti che ci distribuisce spiegandoci l’uso che dobbiamo farne. La sua voce e i suoi ordini interrompono i miei pensieri: “Lacci delle scarpe e cinture sono pericolosi soprattutto per il detenuto stesso. Il tasso di suicidi in entrata è altissimo”, ci spiega, “come è altissimo alla fine di una detenzione lunga. Soldi e oggetti di valore possono essere strumenti di corruzione; dunque, pericolosi e il cellulare consentirebbe di avere rapporti con l’esterno, vietati”, continua. Consegno tutto, in un improvviso risveglio dalla mia distrazione (e benedicendo la scelta mattutina di indossare un paio di stivaletti senza stringhe). “Da questo momento in poi non fate domande” ci dice con gentilezza ferma la tutor. “La cella in cui state per entrare è la riproduzione esatta di una cella di San Vittore, gli arredi sono un prestito della casa circondariale: tutto quello che vedete è dunque reale”. Ci fa entrare e chiude la porta. Non sappiamo quanto tempo staremo lì dentro. Siamo solo in due e fatichiamo a dividerci lo spazio. Il bagno non ha la porta, una bottiglia di plastica copre lo scarico del wc alla turca, un lavandino piccolissimo è incastrato dentro una mensola su cui è appoggiato anche il fornelletto da campeggio: si può cucinare. Due letti a castello, un tavolo con il televisore e un mobiletto (mezzo rotto) completano l’arredamento, occupando quasi interamente i metri quadrati disponibili. Un sacco di domande mi passano per la testa, l’occhio è catturato da piccole mensole realizzate con i pacchetti delle sigarette e appese al muro, insieme a qualche ritaglio di giornale. Tra un piano e l’altro del letto non si può stare seduti: l’altezza non è sufficiente. La porta della cella, “il blindo”, è chiusa da un po’. Il tempo è già sospeso. Desolazione, ansia, claustrofobia, impotenza, paura, anche. Guardo l’altra persona, cerco un po’ di fiducia. I suoi occhi chiari me la rimandano: la nostra è una simulazione. Eppure, la sensazione fisica di claustrofobia e di attesa è così reale, fa pensare a chi si trova davvero in una cella, per la prima volta, per le prime ore, con altre persone, sconosciuti destinati a diventare intimi compagni di vita, magari per anni… nessuna finzione. La porta si apre. Sono passati solo cinque minuti, infiniti. Si può parlare ora e le domande ottengono risposte. In quella cella possono stare un massimo di sei persone. Misura otto metri quadrati, quando arriva il sesto detenuto viene aggiunto un piano al letto a castello (che diventa a tre posti), ma occorre decidere se la finestra resterà aperta o chiusa. Una volta per tutte: il letto poi la bloccherà e non si potrà cambiare idea. La bottiglia nel wc serve a limitare la circolazione degli scarafaggi. Il fornelletto da campeggio consente di cucinare: i detenuti possono scegliere se mangiare il cibo della mensa interna o acquistare dei prodotti da preparare da sé. Non si usano soldi, naturalmente, ma il detenuto ha un conto gestito dal carcere con cui pagare la spesa settimanale (in base a una lista dei prodotti scelti da lui). Se la cella è piena si cucina in bagno, perché non c’è altro spazio. A San Vittore, dunque in quella cella, si può rimanere fino a cinque anni (anche se poi la scadenza non è così precisa, perché ci sono molte variabili che possono determinare condizioni detentive diverse) e ogni giorno si può uscire per un massimo di quattro ore (su ventiquattro). Non in tutte le carceri la vita è questa. A Bollate, esempio modello in Lombardia, è diverso: è consentita una maggiore mobilità tra la cella e le altre aree del carcere e in maniera più fluida; molte celle sono singole e i detenuti possono personalizzarle realizzando degli arredi nel laboratorio di falegnameria o scegliendo di dipingerle con colori. Laboratori e attività di studio sono disponibili per tutti, rendendo quel tempo un pochino meno sospeso. E in effetti la maggior parte delle persone ristrette che scelgono di studiare è ospite di Bollate o di Opera. Il polo penitenziario dell’Università è nato proprio dalla necessità di permettere a un gruppo di detenuti studenti di completare la propria formazione. Era il 2006 e in circa sei anni si è arrivati a un accordo formale che si è concretizzato con una convenzione tra Prap (Provveditorato Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria) e ateneo. Dal 2013, anno della sua nascita, il progetto è cresciuto, e attualmente l’università lavora con ottanta studenti, sei istituti che comprendono due case di reclusione e quattro circondariali, dodici dipartimenti e ventisei corsi di laurea. L’idea è di fare dell’università anche un luogo di riflessione e di cultura dove ragionare intorno alla detenzione, come spiega Maria Elena Magrin, docente di psicologia alla Bicocca e giudice onorario al tribunale dei minori, coordinatrice del Polo. “Certamente le condizioni di vita interne al carcere sono determinanti per avviare una progettualità in un tempo che è vuoto, sospeso, da trasformare in qualcosa che possa accompagnare le persone ristrette a una nuova vita”. Argomento enorme, che emerge senza mezzi termini dall’esperienza nell’installazione al BiM e che fa parte di un dibattito forse ancora più grande: “Portare il mondo nel carcere e il carcere fuori sono gli obiettivi. Così, parliamo di stelle tra le sue mura e allestiamo una vera cella per accogliere chi sta fuori” conclude Magrin. Vittorio Veneto (Tv). Agnese Moro dialoga con l’ex brigatista Bonisoli che rapì suo padre di Francesco Dal Mas La Nuova Venezia, 18 novembre 2023 “Ecco cos’è la giustizia riparativa”. Incontro a Vittorio Veneto promosso dalla Caritas prima con 200 studenti, poi con la cittadinanza: “Persona al centro, al di là degli errori commessi”. Metti un ex brigatista, la figlia di Aldo Moro, ucciso dalle Br, e un ex detenuto a spiegare agli studenti, e poi al pubblico, temi valoriali quali la dignità della persona, l’importanza della relazione, la gratuità e l’empatia, la libertà dai fantasmi. È accaduto giovedì mattina in seminario a Vittorio Veneto. C’erano Agnese Moro, giornalista pubblicista e figlia di Aldo Moro, leader della Dc ucciso nel 1978 dalle Br; Franco Bonisoli, ex brigatista, uno dei membri delle Br che rapì Aldo Moro, ma oggi impegnato in percorsi di giustizia riparativa; Lorenzo Sciacca, ex detenuto, mediatore penale e presidente della cooperativa sociale La Ginestra. A moderarli un prete, don Andrea Forest, direttore della Caritas e della Pastorale sociale e del creato. Tutti concordi nella centralità del valore della persona, non riducibile ai suoi errori, per quanto grandi e gravissimi essi siano. Si celebrava la Giornata della Giustizia riparativa, a cura della diocesi, reduce, tra l’altro di un protocollo con le pubbliche istituzioni per accogliere percorsi di riparazione. È importante puntare sulle relazioni, sul parlarsi, sul confrontarsi, hanno condiviso gli intervenuti. Sciacca: “In carcere usavo solo 100 parole”, ha riferito. E Agnese Moro: “La democrazia si fonda sulla persuasione del potere della parola, più forte del potere della violenza”. Per tutti gli ospiti il cambio radicale nella propria vita è avvenuto grazie a una “sorpresa” data dalla gratuità. “Qualcuno ha ascoltato i miei punti di vista riconoscendo che avevano una dignità”, ha ammesso Sciacca. “A un certo punto per tutti ero un traditore”, ha riferito Bonisoli, “mentre solo un prete, don Salvatore Bussu, pubblicamente mi ha chiamato fratello, senza mai giudicare. Presi atto di non credere più a quella rivoluzione, ho imparato che la violenza è mortifera, non libera. La logica di guerra che avevo sposato disumanizzava le persone, in carcere invece sentivo parlare di dignità umana”. Agnese Moro ha testimoniato che qualcuno si è accorto del suo dolore “quando mi hanno proposto dei percorsi di giustizia riparativa”. In questi casi è stato fondamentale accorgersi del dolore presente nella vita dell’altro, trovando su quel dolore un tratto comune di umanità. Perciò”, ha sottolineato Moro, “occorre liberarsi dai fantasmi, dalle etichette che mettiamo addosso alle persone”. “Le persone vivono processi dinamici, non sono riducibili ai fotogrammi di un punto della loro vita, in cui hanno sbagliato”, ha aggiunto don Forest. I numerosi studenti delle classi terze degli istituti superiori di Vittorio Veneto, con i quali era stato fatto un percorso di preparazione, hanno dato vita a un animato dibattito, dimostrando grande interesse per questi temi: L’incontro era stato organizzato, oltre che dalla Caritas diocesana, anche da associazione La Voce, Tavolo provinciale giustizia riparativa, gruppo Il Nodo, pastorale sociale, pastorale giovanile, centro missionario diocesano. Don Andrea Forest ha ricordato che la giustizia riparativa è la declinazione “laica” della misericordia, per cui anche le proprie ferite, assunte con consapevolezza, diventano un tesoro prezioso per la propria maturazione umana e la crescita tanto della persona quanto della società. Ieri sera nuovo incontro con Anna Cattaneo, pedagogista, mediatrice e formatrice alla mediazione penale al posto di Lorenzo Sciacca. Medesimo tema ma con gli adulti. È intervenuto anche il vescovo Corrado Pizziolo. Napoli. A Poggioreale 24 detenuti hanno ricevuto l’attestato di qualificazione professionale anteprima24.it, 18 novembre 2023 Consegnati gli attestati di qualificazione professionale per il corso ‘Ponteggi’ a 24 detenuti del carcere di Poggioreale. La cerimonia di consegna si è tenuta questa mattina alla presenza della direzione dell’istituto penitenziario, di Massimo Sannino vice presidente del Cfs Napoli e Mattia D’Acunto direttore Cfs Napoli, Rita Lucido e Alfredo Foglia rispettivamente coordinatori delle aree formazione e sicurezza del Cfs Napoli. Grande soddisfazione è stata espressa anche da Sannino: “Il corso di formazione ‘Ponteggi’, promosso nell’ambito del protocollo d’intesa sottoscritto dal Cfs Napoli e il ministero di Grazia e Giustizia dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, rappresenta una finestra sul futuro dei detenuti”. “C’è sempre soddisfazione quando si arriva alla conclusione di un percorso come quello formativo affrontato dai detenuti - dice D’Acunto - Il Cfs Napoli è in prima linea quando si tratta di offrire corsi di formazione caratterizzati da una forte componente sociale come in questo caso. Siamo certi di aver fatto la nostra parte nel trasferire competenze professionali che potranno servire, a chi sta scontando la sua pena, una volta fuori dalle mura carcerarie”. Roma. A Regina Coeli detenuti di religioni diverse pregano per la pace gnewsonline.it, 18 novembre 2023 Una preghiera interreligiosa per la pace come risposta alle grandi tensioni globali di questo periodo. Con questa finalità, la direzione della Casa circondariale di Roma Regina Coeli, in accordo con il cappellano padre Vittorio Trani, ha voluto valorizzare la convivenza all’interno dell’istituto di tante etnie, culture e religioni diverse. All’iniziativa, svoltasi nel pomeriggio nella sala teatro del carcere romano, hanno partecipato rappresentanti e ministri di culto delle principali confessioni religiose. Fra questi, l’imam della moschea romana della Magliana, un delegato del rabbino Capo della Sinagoga di Roma, ministri di culto cristiano copti, cristiani dell’Unione Protestante, un rappresentante dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, sacerdoti cristiano ortodossi e cristiano cattolici. L’evento è stato introdotto da una riflessione sulla pace e dalla preghiera di San Francesco a cura di padre Vittorio Trani. Nel corso dell’incontro la voce della soprano Tania Di Giorgio ha intonato alcuni intermezzi musicali. Sono circa 18.500 i detenuti stranieri in Italia, 145 i Paesi di provenienza e 15 le confessioni religiose praticate all’interno degli istituti penitenziari. Quella cattolica e musulmana le religioni più rappresentate. Pavia. Colletta alimentare: anche i detenuti tra i volontari per la raccolta di Giovanni Scarpa La Provincia Pavese, 18 novembre 2023 Volontari “arruolati” anche a Tor del Gallo per raccogliere cibo da donare alle persone più bisognose. Anche i detenuti del carcere di Torre del Gallo parteciperanno sabato 18 novembre a Pavia alla “Giornata Nazionale della Colletta Alimentare” organizzata dalla Fondazione Banco Alimentare. Ad annunciarlo è stata Stefania Mussio, direttrice della casa circondariale pavese, nella conferenza stampa che si è tenuta in Comune nella quale è stata presentata l’iniziativa. “Alcuni detenuti, che svolgono un programma di lavoro esterno, saranno al fianco dei volontari nei supermercati - ha spiegato la direttrice -. Inoltre all’interno delle 14 sezioni del carcere altri detenuti, che indosseranno le pettorina arancione con il logo dell’iniziativa, passeranno con i carrelli per raccogliere gli alimenti donati”. “A Torre del Gallo _ ha aggiunto ancora la direttrice del carcere _ sono recluse spesso persone indigenti, che però sono disponibili a rinunciare a qualcosa di loro per aiutare chi è in difficoltà”. “Il Comune sostiene da tempo la “Colletta alimentare” - ha aggiunto Anna Zucconi, assessore ai Servizi sociali -. Negli ultimi anni purtroppo è cresciuta la richiesta di sostegno da parte di persone e famiglie in crisi. Il Comune di Pavia è da anni in campo a fianco di questa iniziativa”. Nel corso del 2022 il Banco Alimentare ha donato in provincia di Pavia circa mille tonnellate di alimenti, sostenendo 58 enti caritatevoli (16 dei quali nel capoluogo) e 8.424 persone (2.725 a Pavia). In Lombardia lo scorso anno sono state donate 9 mila tonnellate di prodotti alimentari, garantendo un sostegno a circa 200mila persone, come spiega Carlo Grignani, responsabile della Colletta per Pavese e Lomellina. “La presenza dei detenuti è senz’altro una cosa positiva e rientra senz’altro nella “mission” di Banco Alimentare, cioè quella di far emergere il buono che c’è in ognuno di noi”. Nella raccolta che verrà effettuata sabato, sono particolarmente richiesti prodotti come verdure o legumi in scatola, polpa o passata di pomodoro, tonno o carne in scatola, alimenti per l’infanzia. Elenco supermercati che aderiscono Pavia: Carrefour via Cassani, via Torretta, viale Matteotti; Esselunga via Fabio Filzi. In’s Mercato via dei Mille, via Vigentina. Famila via Olevano; Md, viale Lodi, Unes via Fratelli Cervi. Inoltre il banco alimentare sarà presente in altri supermercati dei Comuni sia della Lomellina, sia dell’Oltrepo e del Pavese. Sabato 18 novembre la “Colletta Alimentare” nei supermercati di Pavia e provincia (ilticino.it) All’iniziativa, organizzata dalla Fondazione Banco Alimentare, parteciperanno anche i detenuti del carcere di Torre del Gallo. Anche i detenuti del carcere di Torre del Gallo parteciperanno sabato 18 novembre a Pavia alla “Giornata Nazionale della Colletta Alimentare” organizzata dalla Fondazione Banco Alimentare. Ad annunciarlo è stata oggi, giovedì 16 novembre, Stefania Mussio, direttrice della casa circondariale pavese, nella conferenza stampa nella quale è stata presentata l’iniziativa. “Alcuni detenuti, che svolgono un programma di lavoro esterno, saranno al fianco dei volontari nei supermercati - ha spiegato la direttrice. Inoltre all’interno delle 14 sezioni del carcere altri detenuti, che indosseranno la pettorina arancione con il logo dell’iniziativa, passeranno con i carrelli per raccogliere gli alimenti donati. A Torre del Gallo sono recluse spesso persone indigenti, che però sono disponibili a rinunciare a qualcosa di loro per aiutare chi è in difficoltà”. “Il Comune sostiene con convinzione la Colletta alimentare - ha aggiunto Anna Zucconi, assessore ai Servizi Sociali -. Negli ultimi anni purtroppo è cresciuta la richiesta di sostegno da parte di persone e famiglie in crisi”. Nel corso del 2022 il Banco Alimentare ha donato in provincia di Pavia circa mille tonnellate di alimenti, sostenendo 58 enti caritatevoli (16 dei quali nel capoluogo) e 8.424 persone (2.725 a Pavia). In Lombardia lo scorso anno sono state donate 9mila tonnellate di prodotti alimentari, garantendo un sostegno a circa 200mila persone. Nella raccolta che verrà effettuata sabato 18 novembre, sono particolarmente richiesti prodotti come verdure o legumi in scatola, polpa o passata di pomodoro, tonno o carne in scatola, alimenti per l’infanzia. Sono 53 i punti vendita di Pavia e Provincia che partecipano alla Colletta 2023. Palmi (Rc). Teologia e carceri, il convegno “Chiesa e carcere in dialogo” avveniredicalabria.it, 18 novembre 2023 I percorsi per i detenuti tra dialogo e Sinodalità, per un servizio di Riconciliazione. Mercoledì 15 novembre si è tenuto, presso il Centro di Riconciliazione Presenza di Palmi (RC), un incontro dalla tematica “Carcere, Chiesa e Pastorale” con i Teologi del VI anno del Pontificio Seminario Teologico Interregionale “San Pio X” di Catanzaro, accompagnati dal loro Rettore Don Mario Spinocchio. L’evento, che ha visto coinvolte diverse figure impegnate in questo ambito sul territorio locale e distrettuale, mirava a riflettere sulle strade da percorrere, in sinergia con le istituzioni e le comunità cristiane, per realizzare un progetto che sia efficace nella vita della persona reclusa, anche in prospettiva al reinserimento familiare, sociale ed ecclesiale. Numerosi, infatti, i partecipanti (volontari, presbiteri, seminaristi, operatori del diritto), sintomo dell’interesse che suscita la tematica al centro dell’incontro, “Chiesa e carcere in dialogo”. Il Presidente dell’Associazione “Presenza”, Don Silvio Mesiti, ha aperto i lavori presentando il Rettore, Don Mario Spinocchio, il quale ha fortemente desiderato questo momento di fraternità, anche in occasione dell’avvio del nuovo anno Pastorale; la dott.ssa Daniela Tortorella, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria, attuale giudice del medesimo Ufficio nel Distretto Giudiziario di Reggio Calabria, la quale opera nella fase dell’esecuzione della pena nel rispetto dei diritti dei detenuti e degli internati; la dott.ssa Marisa Gambi, esperta nel diritto penale e nel diritto penitenziario, da diversi anni impegnata nel volontariato; Don Vittorio Castagna (sacerdote volontario presso la Casa Circondariale di Palmi), i volontari laici e religiose, Sorella Loredana Abate (FA.MO.MA.C.), Emanuela Triunfo, novizia (FA.MO.MA.C.), da quattro anni in servizio presso la Diocesi di Oppido M. - Palmi; Marisa Gambi e Giuseppe Camiciotto della Parrocchia Sant’Ippolito Martire di Gioia Tauro. Tra le tematiche trattate durante l’incontro emergono le sfide ed i frutti di un servizio rivolto alle persone recluse ed alcune testimonianze sull’accoglienza dei detenuti o ex detenuti nella Comunità, in particolare, presso il “Centro di Riconciliazione Presenza” di Palmi. Da non trascurare, infine, l’importanza della partecipazione della comunità esterna e l’impegno dei volontari laici e consacrati all’interno degli Istituti Penitenziati presenti sul territorio. “Questo incontro - ha sottolineato Don Silvio Mesiti - ci ha fatto ritrovare insieme, pastori, Istituzioni, operatori penitenziari, volontari e uomini di buona volontà. Il nostro servizio è un modo concreto per rendere più vicina la comunità, rendendola consapevole e partecipe della sofferenza, tramite sacerdoti e volontari, per annunciare il Vangelo della Misericordia: “ero carcerato e siete venuti a visitarmi” (Mt 25,35,44). Per questo motivo il carcere è una grande sfida pastorale e di evangelizzazione”. L’Istituzione penitenziaria ha bisogno di dialogare con la società, e la Chiesa rappresenta per noi un interlocutore fondamentale, ha esordito la dott.ssa Marisa Gambi, citando “il titolo dell’incontro “Carcere, Chiesa e Pastorale”. Il dialogo con gli operatori pastorali, sacerdoti e volontari, con le Istituzioni, con la società, deve essere sempre autentico e collaborativo. L’iniziativa di questo incontro promosso da Don Mario Spinocchio, Rettore del Seminario Maggiore di Catanzaro, in collaborazione con Don Silvio Mesiti, quale Cappellano della Casa Circondariale di Palmi; la doverosa informazione di quest’Opera di Misericordia intrapresa nel mondo delle Carceri, nonché la collaborazione e la benedizione da parte dell’Amministratore Apostolico Mons. Francesco Milito, del Vescovo eletto Mons. Giuseppe Alberti, del Parroco Sac. Antonio Scordo della Comunità di appartenenza dei volontari ammessi a prestare servizio in ambito penitenziario, lasciano ben sperare nella riuscita di un buon Cammino Sinodale, non solo tra parrocchie, ma anche tra Diocesi. Questo è il vero senso della Sinodalità e della Missione della Chiesa”. Genova. “Dirimpetto”: studenti e detenuti si incontrano di Erica Manna La Repubblica, 18 novembre 2023 Lo spettacolo al Teatro dell’Arca a Marassi. In via Fontevivo, a Spezia, ci sono due edifici. Uno di fronte all’altro, vicinissimi, quasi si toccano. Eppure sono due universi lontanissimi: uno è un carcere. Uno, una scuola. I due edifici si guardano da anni e le persone che li vivono e che li abitano non sanno chi ci sia dall’altra parte o, forse, possono solo immaginare chi sono i loro dirimpettai. Fino a quando studenti e detenuti si sono incontrati davvero. Nasce così l’idea dello spettacolo “Dirimpetto - Sinfonia di un tratto di strada”: per far interagire questi due gruppi di persone in un luogo libero, ovvero il teatro. L’incontro tra un gruppo di detenuti e un gruppo di studenti delle scuole superiori, partecipanti al laboratorio “No Recess!”, ha visto circa 60 persone, distanti per età e percorsi di vita, mescolarsi alla pari nell’azione scenica. Con il supporto della direzione del carcere, i due gruppi di attrici e attori nei mesi scorsi hanno svolto diverse prove all’interno dell’istituto penitenziario. Il risultato è uno spettacolo che andrà in scena stasera alle 20.30 al Teatro dell’Arca, a Marassi: “Dirimpetto - Sinfonia di un tratto di strada” ideato e diretto da Enrico Casale, di Scarti - Centro di Produzione teatro d’innovazione, che porta avanti la direzione artistica del progetto all’interno della Casa circondariale di Spezia. Il progetto si inserisce nell’ambito di “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, un progetto che porta avanti nelle carceri italiane percorsi di formazione professionale innovativi e duraturi nei mestieri del teatro, che riguardano non solo attori e drammaturghi, ma anche scenografi, costumisti, truccatori, fonici, addetti alle luci. Dal 2018 il progetto, promosso da Acri e sostenuto da 11 Fondazioni di origine bancaria tra cui Fondazione Carispezia, ha coinvolto in tutta Italia oltre mille detenuti, che hanno partecipato a più di 300 ore di formazione ciascuno. La Compagnia degli Scarti e Teatro Necessario, uniche realtà liguri di “Per Aspera ad Astra”, operano nelle carceri di Spezia e Genova: realtà vicine, anch’esse idealmente dirimpettaie. Unite per abbattere i muri. Dimenticare la povertà di Michele Serra La Repubblica, 18 novembre 2023 Essere derubati è molto spiacevole. Specie il furto in casa è una violazione durissima da reggere. Lì per lì, se il ladro fosse acciuffato, lo vorresti ai ceppi, punto e basta. Ma il “lì per lì” dura poco, è l’attimo istintivo che la legge poi si occupa, per nostra fortuna, di sottoporre ai modi della civilizzazione. Apposta esistono norme e convenzioni che guardano alla comunità nel suo complesso: al derubato ma anche al ladro, persona meritevole di punizione e, al tempo stesso, di assistenza: legale e, nelle carceri più avanzate, professionale. L’idea che una recrudescenza delle pene scoraggi il crimine è antica (appartiene all’istinto atavico) e sopravvive anche all’evidenza e alle statistiche, che non confermano affatto quell’ipotesi. Il cosiddetto “pacchetto” governativo sull’ordine pubblico è in questo senso patetico, perché disperatamente avvinghiato all’idea che le cattive maniere siano la sola via per affrontare il crimine (almeno: il crimine di strada, non certo quello erariale e finanziario, anche se la refurtiva è spesso molto superiore). Nel mucchio ha fatto specie, giustamente, il provvedimento che non considera la gravidanza e la maternità ostative alla detenzione. Qualcuno ha pensato a certe ragazze rom svelte di mano che si fanno scudo della loro prolificità. A me, forse per ragioni anagrafiche, è venuta in mente Sophia Loren in Ieri, oggi, domani di Vittorio De Sica, ininterrottamente incinta per evitare il carcere. Ma essere stati poveri e avere vissuto di espedienti - così come l’essere stati migranti - non fa più parte, da tempo, della memoria nazionale. Il primo impulso di un popolo di arricchiti è dimenticare la povertà. In Italia sempre più poveri: sono 6 milioni, e uno su 4 di loro ha un lavoro di Paolo Foschini Corriere della Sera, 18 novembre 2023 Poveri in crescita, anche se uno su quattro di loro ha un lavoro. Significa 2,1 milioni di famiglie e 1,2 milioni di minori. È l’ultimo Rapporto Caritas sulla povertà, intitolato “Tutto da perdere”. Tra le cause anche la perdita del Reddito di Cittadinanza. Tre milioni e mezzo gli interventi di aiuto forniti dagli sportelli Caritas. “Se non saremo aperti a una vera solidarietà abbiamo tutti e tutto da perdere: come ci ricorda papa Francesco nessuno si salva da solo, se non si salvano tutti non si salva nessuno”: la realtà italiana di oggi sono 5,6 milioni di poveri nonostante il fatto che uno su quattro di loro abbia un lavoro, con una percentuale crescente di giovani, e il dato non guarda solo loro ma appunto tutti noi. Davvero per mille motivi, se ne può scegliere giusto uno come punto di partenza: i poveri di oggi diventeranno, prestissimo, i pensionati poveri di domani. Così il presidente mons. Carlo Roberto Maria Redaelli ha introdotto il filo conduttore e il itolo (“Tutto da perdere”, appunto) della 27esima edizione del Rapporto Caritas su povertà ed esclusione sociale presentato alla vigilia della VII Giornata mondiale dei poveri (19 novembre) istituita da papa Francesco. I dati rel Rapporto mettono insieme quelli di fonte Istat (completi in relazione al periodo 2021-2022) e quelli raccolti attraverso le domande di aiuto presentate presso gli sportelli Caritas. Con una modalità aggiuntiva in più e finora inedita o quasi, quella della “ricerca partecipativa” consistente nell’ascolto diretto delle persone coinvolte, in diverse diocesi tra cui quelle di Brescia, Messina, Napoli, Palermo, Viterbo, anche in questo caso per mettere in pratica una sollecitazione di marca Bergoglio, secondo cui non basta “studiare i poveri”, bisogna farlo “con” i poveri. E dunque: i poveri assoluti in Italia sono oggi il 9,7% della popolazione (pochi anni fa erano il 3%). Vuol dire oltre 2,1 milioni di famiglie povere , corrispondenti a 1,2 milioni di minori. “L’Italia - si legge nella sintesi del Rapporto - è il Paese in Europa in cui la trasmissione inter-generazionale delle condizioni di vita sfavorevoli risulta più intensa. Chi nasce povero molto probabilmente lo rimarrà anche da adulto”. Il Rapporto sottolinea la contraddizione tra il progresso tecnologico crescente in praticamente tutti i settori e la crescita delle povertà che si traduce il “perdita della cittadinanza” per milioni di persone: come “una macchina in apparenza che continua ad accelerare ma intanto perde pezzi per strada” e “a perdere in realtà siamo tutti”. Qualcuno più degli altri, naturalmente. E i perdenti appartengono a categorie piuttosto precise a cominciare da quella più attuale, i “working poor”, che come ha ricordato Marco Bentivogli - già leader dei metalmeccanici italiani e cofondatore di Base Italia - sono persone che “lavorano tantissimo e guadagnano pochissimo”. Le altre sono i giovani, gli stranieri, i fragili. Le cause della povertà in crescita? Federica De Lauso, dell’ufficio studi Caritas, ne elenca alcune. Una è per forza di cose l’aumento dell’inflazione, mai così altra dal ‘75 a oggi. Le altre sono strutturali: formazione da rivedere e adeguare ai temi, soprattutto da rendere permanente; allargamento della forbice tra lavoro e stipendi; allargamento, più in generale, delle disuguaglianze. Gli stranieri in Italia sono l’8 per cento della popolazione, ma tra gli under 18 un povero su 5 è stranieri e più in generale è di origine straniera il 30 per cento dei poveri. Ancora, parlando di working poor: su 100 famiglie povere il 47% non ha un problema di lavoro, ma tra i poveri stranieri questa situazione riguarda l’81%. E poi c’è stata la riforma del Reddito di Cittadinanza, con la transizione verso le nuove misure di Supporto alla formazione e al lavoro (Sfl) e l’Assegno di inclusione (Adi) che ha lasciato scoperte alcune specifiche tipologie di poveri: le stime disponibili indicano in circa il 33% i nuclei già beneficiari di RdC che non avranno diritto all’Adi, per un numero di 400mila nuclei su 1,2 milioni di famiglie. A fronte di questo gli sportelli Caritas risposto alle domande di 256mila persone, il che corrisponde a diversi tipi di supporto fornito all’11,7% cento delle famiglie rispetto al totale delle famiglie bisognose. Divise in gruppi che corrispondono a famiglie con fragilità non solo economica ma anche sociale, persone sole, e appunto stranieri. Tre milioni e mezzo il numero degli interventi. Cin una “stabilizzazione” negli ultimni mesi, che se da una parte sembra un dato positivo dall’altra indica una “cronicizzazione” delle situazioni. E una parola che in quella ricerca “partecipativa” di cui si è detto risulta essere la più frequente tra tutte quelle pronunciate dagli intervistati: “Sopravvivere”. Indice di una sfiducia nella possibilità di cambiare, che è forse i dato più avvilente tra quelli raccolti. Scuola, carceri, salute: i diritti violati dei minori e gli errori del governo di Michela Di Biase Il Domani, 18 novembre 2023 Lunedì 20 novembre sarà la Giornata internazionale per l’infanzia e l’adolescenza. Ma da Caivano al carcere minorile, all’istruzione, la direzione del governo non punta a dare a tutti le stesse possibilità. La Giornata Internazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza che sarà celebrata il prossimo lunedì 20 novembre ci dà la possibilità di fermarci a riflettere sullo stato di salute dei diritti dei bambini e degli adolescenti, sulla loro attuazione, sulle tante iniziative che ancora mancano all’appello e su quelle che sono state prese e che hanno, colpevolmente, minato i diritti di taluni; mi riferisco in particolare alla demolizione, operata da questo governo, dello smantellamento del sistema penale minorile. Per questo governo i minori non sono tutti uguali, non hanno tutti gli stessi diritti. A questa cruda considerazione ci conducono le azioni che il governo Meloni ha messo in atto dai primi giorni del suo insediamento. A partire dalla bocciatura in Commissione politiche europee del certificato europeo di status filiationis, a significare che nel nostro paese non esiste un diritto superiore del minore a veder riconosciuto il proprio stato di figlio, determinando incertezza e instabilità nei rapporti familiari. E poi ancora l’istituzione del reato universale per la maternità surrogata, un vero obbrobrio giuridico. Modello Caivano - Il pensiero va alle mamme arcobaleno che a Padova stanno manifestando per i loro 37 bambini che rischiano di rimanere orfani per decreto e su cui in questi giorni dovrebbe esprimersi la Consulta. E da ultimo la volontà di mandare in carcere le donne incinte o madri di figli più piccoli di un anno eliminando il rinvio della pena detentiva prevista dall’art.146 del codice penale. In questo anno abbiamo visto casi di cronaca gravissimi, le cui vittime e i cui carnefici erano minori, nel caso di Caivano addirittura bambine. Un’onda di sdegno e dolore ha investito il paese, a cui questo governo ha risposto per decreto, inasprendo le pene, minando il sistema della messa alla prova, aumentando a dismisura la possibilità di applicare ai minori le misure cautelari e la loro durata. Di fatto diventa più facile l’entrata in carcere per i minori, non comprendendo che ogni volta che si aprono le porte di un carcere per un minore è lo Stato ad aver fallito. Vale per Caivano e vale per le tante altre zone complesse del nostro paese: non sarà solo attraverso la repressione che cambieremo la vita di quei ragazzi, sarà attraverso la scuola. Com’è attuale la lezione di Don Milani: se si perdono i ragazzi difficili - scrisse infatti il parroco di Barbiana - la scuola non è più scuola, è un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Per questo le misure poste in essere sono del tutto insufficienti. La “scuola del merito” a cui aspira il ministro Valditara è particolarmente inadeguata ad affrontare il mondo dell’infanzia e dall’adolescenza così come ci è stato consegnato dal periodo post pandemico. Abbiamo assistito ad un aumento drammatico delle fragilità neuropsichiatriche, con aumenti significativi di autolesionismo, tentativi di suicidio, ansia e depressione e tendenza all’isolamento; per non parlare dei disturbi del comportamento alimentare, che sono triplicati in Italia, con un abbassamento dell’età dell’insorgenza di queste patologie. Vogliamo davvero rispondere a questa angoscia con il principio che si è migliori solo se si arriva primi? Il merito è ridotto a competizione, e questo non aiuta i nostri ragazzi ma li spinge ancora di più verso l’isolamento. La comunità educante - Il gruppo del Partito democratico in Commissione Infanzia e Adolescenza ha depositato un emendamento alla legge di bilancio per chiedere l’istituzione del fondo per la salute mentale giovanile al fine di rafforzare i servizi di neuropsichiatria. Lo Stato deve occuparsi di dare a tutti le stesse possibilità, colmando divari territoriali, mettendo in rete la comunità educante, promuovendo l’inclusione sociale e culturale. Invece che del merito dobbiamo parlare di opportunità, che oggi per troppi giovani Italiani sono precluse. Il nostro impegno dovrà andare in questa direzione, nell’attuazione completa dei diritti dei bambini, ponendo il minore al centro delle scelte politiche. Dobbiamo essere qui, qui dove cresce il futuro. Migranti. Strage di Cutro, dietrofront sui risarcimenti alle vittime: deciderà l’Avvocatura di Stato di Carmine Di Niro L’Unità, 18 novembre 2023 La scelta della Consap, la concessionaria servizi assicurativi pubblici (del ministero delle Finanze) a cui fa capo il Fondo di garanzia dello Stato per il risarcimento delle vittime di incidenti stradali o del mare, di opporsi alle richieste di risarcire i familiari delle vittime della strage di Cutro, il naufragio di un caicco davanti alla spiaggia calabrese del 26 febbraio scorso in cui morirono 94 migranti, provoca un corto circuito all’interno del governo. Palla all’Avvocatura di Stato - L’esecutivo Meloni, di fronte ad una situazione gestita con “poco tatto”, per utilizzare un eufemismo, sembra pronto a fare retromarcia. Lo si legge nelle dichiarazioni sibilline del ministro degli Esteri Antonio Tajani, vicepremier e leader di Forza Italia, che sul parere espresso dal Consap sui risarcimenti ha voluto sottolineare che “sarà l’Avvocatura dello Stato a decidere il da farsi”. Bongiorno si tira fuori - A ruota sono arrivate le dichiarazioni di Giulia Bongiorno, senatrice della Lega che col suo studio legale rappresenta proprio la Consap nel processo in corso presso il Tribunale di Crotone. “In merito alla questione Consap lo studio legale di cui sono titolare ha illustrato una questione giuridica rilevante che si affaccia per la prima volta in un’Aula giudiziaria. Il nostro incarico era estremamente circoscritto ed è iniziato e si è concluso con l’intervento dell’avvocato Fancesco Colotti all’udienza del 15 novembre”, le dichiarazioni rese all’Ansa dalla presidente della Commissione Giustizia del Senato. La motivazione adottata in aula di Tribunale per dire “no” ai risarcimenti era che il caicco affondato a pochi metri dalla costa calabrese non può “ritenersi un’imbarcazione adibita al trasporto e dunque assoggettabile al codice delle assicurazioni”. Per questo Colotti aveva presentato richiesta di estromissione dal processo che vede alla sbarra, accusati di naufragio colposo, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e morte in conseguenza del favoreggiamento all’immigrazione clandestina, i presunti scafisti del caicco. La linea di Piantedosi - Le parole più nette arrivano però dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, oggi proprio a Crotone. Parlando della scelta della Consap di richiedere l’estromissione dal processo, il titolare del Viminale ha detto che si è tratto di un “dato formale, una di quelle eccezioni processuali che si fanno in contesti giudiziari”. Il ministro ha così assicurato che “lo Stato non si volta dall’altra parte e farà tutto quello che gli compete per indennizzare le vittime di questa drammatica, tragica sciagura che successe a febbraio scorso”. La retromarcia - Frasi, quelle della Bongiorno, Tajani e Piantendosi, che sembrano far intendere una inversione di rotta del governo sui risarcimenti ai familiari delle vittime del naufragio. Tesi sostenuta anche dall’avvocato Francesco Verri, legale di parte nel procedimento giudiziario. “Le parole del ministro Tajani e dell’avvocata Bongiorno sono un dietrofront? Sono la manifestazione di un saggio ripensamento? Lo Stato si è reso conto di aver agito in modo impietoso e sta correndo ai ripari? Se gli avvocati dicono che il loro lavoro è finito significa che non insisteranno nella loro tesi? Se il Ministro dice che la palla passa all’Avvocatura, vuol dire che ci stanno ragionando sopra? Bene. La Consap ritiri prima del 29 novembre la richiesta di estromissione presentata al Tribunale di Crotone e, in caso di condanna dei presunti scafisti, paghi i danni ai familiari delle vittime”, le parole dell’avvocato. Il riferimento al 29 novembre è dovuto alla decisione del giudice Edoardo D’ambrosio, che presiedeva il collegio penale di Crotone, di rinviare il processo per poter esaminare la richiesta di estromissione del Fondo di garanzia dello Stato. Medio Oriente. La catena di errori del disastro di Gaza di Nicholas Kristof La Stampa, 18 novembre 2023 Con il massacro bilaterale in corso in Medio Oriente, che continua a sprigionare veleni che acutizzano l’odio in tutto il mondo, permettetemi di delineare quelli che reputo essere tre falsi miti che infiammano il dibattito. Il primo mito da sfatare è che nel conflitto in Medio Oriente vi siano un lato giusto e un lato sbagliato (anche se si è in disaccordo su quale è l’uno e quale è l’altro). Nella vita niente è tutto bianco o tutto nero. La tragedia del Medio Oriente è che questo è lo scontro di un lato giusto e di un altro lato giusto. Ciò non giustifica il massacro e la brutalità di Hamas o la distruzione da parte di Israele di interi quartieri di Gaza. Dietro al conflitto, tuttavia, vi sono legittime aspirazioni che meritano di essere soddisfatte. Gli israeliani meritano il loro Paese, costruito dai profughi scampati alle tenebre dell’Olocausto; hanno creato un’economia hi-tech che conferisce potere alle donne e rispetta i gay, dando nel contempo ai suoi cittadini palestinesi più diritti di quanti la maggior parte delle nazioni arabe dia ai loro stessi cittadini. I tribunali, la libertà dei media e la società civile di Israele sono di ispirazione per l’intera regione, ma di fatto vi sono due pesi e due misure: i critici stigmatizzano gli abusi di Israele e spesso ignorano le violenze prolungate contro i musulmani, dallo Yemen alla Siria, dal Sahara occidentale a Xinjiang. Nello stesso modo, i palestinesi meritano un Paese, libertà e dignità, e non dovrebbero essere sottoposti a una punizione collettiva. Abbiamo raggiunto una soglia straziante: in sole cinque settimane di guerra è stato ucciso l’uno per cento della popolazione di Gaza. Per comprendere questo dato, in percentuale e in prospettiva corrisponde a più della popolazione americana rimasta uccisa durante tutta la Seconda guerra mondiale nel corso di quattro anni. Una grande maggioranza dei palestinesi uccisi era formata da donne e bambini, secondo il ministero della Sanità di Gaza controllato da Hamas, e un indicatore della ferocia e della natura indiscriminata di alcuni bombardamenti aerei è che sono rimasti uccisi più di cento dipendenti delle Nazioni Unite, numero che - secondo le Nazioni Unite - è superiore a quello di tutte le morti di suoi dipendenti registrate dalla sua fondazione. Forse, ciò dipende dal fatto che, come ha detto un portavoce dell’esercito israeliano all’inizio del conflitto, “l’attenzione è stata data ai danni, non alla precisione”. “Siamo persone normali che cercano di fare la loro vita” mi ha detto a telefono un ingegnere di Gaza che disprezza Hamas e vorrebbe che fosse destituita dal potere, e secondo cui i combattenti di Hamas sono nei tunnel al sicuro, mentre lui e i suoi bambini sono tra le persone maggiormente esposte ai pericoli. “Siamo noi civili a pagare il prezzo”. A prescindere dal lato verso cui siete più propensi, ricordate che l’altro è fatto di essere umani disperati che sperano soltanto che i loro figli possano vivere e prosperare in una loro nazione. Il secondo mito da sfatare è che con i palestinesi si possa procrastinare all’infinito, che essi possano essere sistemati da Israele, dagli Stati Uniti e da altri Paesi. Questa è stata la strategia del Primo ministro Benjamin Netanyahu. Questo è stato il suo modo di evitare uno Stato palestinese. E per un certo periodo ha funzionato. Proprio come la pentola a pressione funziona, fino a quando esplode. È difficile conoscere “cosa sarebbe successo se”, sapere se uno Stato palestinese sarebbe stato meglio ai fini della sicurezza degli israeliani. In ogni caso, in retrospettiva la mancanza di uno Stato palestinese non ha reso sicuro Israele. E i rischi potrebbero aggravarsi qualora l’Autorità Palestinese sprofondasse in seguito alla sua corruzione, alla sua inefficacia e alla mancanza di legittimità. Il presidente israeliano Isaac Herzog ha detto che uno dei miliziani di Hamas che hanno perpetrato gli attacchi del 7 ottobre aveva con sé istruzioni per usare armi chimiche e questo ci deve rammentare il rischio da cui per anni ci hanno messo in guardia gli esperti di terrorismo in relazione ai gruppi estremisti che potrebbero ricorrere all’uso di agenti biologici e chimici. Israele ha il diritto di sentirsi preoccupato in ogni caso, ma temo che il modo migliore di garantirne la difesa possa non essere quello di procrastinare le aspirazioni dei palestinesi, bensì quello di onorarle con la soluzione dei Due Stati. Questa non è soltanto una concessione agli arabi, ma un pragmatico riconoscimento del vero interesse di Israele, e di quello del mondo intero. Il terzo mito da sfatare è quello comune a entrambe le parti in conflitto, che la pensano suppergiù in questi termini: peccato che dobbiamo affrontare questa carneficina, ma dall’altra parte capiscono soltanto la violenza. Me ne parlano amici favorevoli alla guerra a Gaza che mi considerano benintenzionato ma malconsigliato, quasi fossi un ingenuo che non riesce a capire la triste realtà per cui l’unico modo di mantenere Israele al sicuro è polverizzare Gaza e sradicare Hamas a qualsiasi costo in termini di vite umane perse. Hamas di fatto capisce soltanto la violenza, ed è stata efferata nello stesso modo sia nei confronti degli israeliani, sia nei confronti dei palestinesi, ma Hamas e i palestinesi non sono la stessa cosa, proprio come i coloni violenti in Cisgiordania non rappresentano tutti gli israeliani. Io sono favorevole a colpire Hamas in maniera chirurgica e selettiva e sarei felice se Israele riuscisse a porre fine all’estremismo a Gaza. Fino a questo momento, però, temo che l’efferatezza e la mancanza di precisione dell’attacco di Israele abbiano concretizzato l’obiettivo di Hamas: far degenerare la questione palestinese e trasformare la dinamica in Medio Oriente. Hamas è indifferente alle perdite di vite umane palestinesi. Da questo punto di vista, Hamas forse sta vincendo. A cinque settimane dall’inizio di questa guerra, non vedo niente da cui desumere che l’esercito israeliano abbia danneggiato Hamas in maniera significativa. Vedo, però, che ha ucciso un gran numero di civili, ha messo la lotta palestinese al primo posto dell’agenda globale, ha dissipato il rigagnolo di simpatie manifestate all’inizio a Israele, ha incalzato la gente di tutto il mondo a scendere in piazza per manifestare a favore della Palestina, ha distolto l’attenzione dagli israeliani rapiti e ha mandato in frantumi qualsiasi possibilità per Israele di normalizzare a breve termine le relazioni con l’Arabia Saudita. Il mio amico Roy Grow, esperto di relazioni internazionali al Carleton College scomparso nel 2013, aveva l’abitudine di dire che un obiettivo cruciale delle organizzazioni terroristiche è far sì che l’avversario reagisca in maniera sproporzionata. Paragonava questo modus operandi al jujitsu, per cui le organizzazioni terroristiche usano tutto il peso dei loro avversari contro di loro. Proprio quello che ha fatto Hamas. Ogni lato ha disumanizzato l’altro, ma le persone sono complesse e nessuno dei due è un monolite. Ricordiamo, poi, che le guerre non riguardano i popoli, ma le persone. Si tratta di persone come Mohammed Alshannat, un dottorando di Gaza che sta spedendo messaggi disperati ai suoi amici che li condividono con me e che ha acconsentito a farmeli pubblicare per dare un’idea della vita a Gaza di questi tempi. “Sono in corso forti bombardamenti nella nostra zona” ha scritto in un messaggio in inglese. “Per salvarci dobbiamo correre e scappare. Ho perso due miei figli nell’oscurità. Io e mia moglie abbiamo trascorso la notte intera a cercare i bambini in mezzo a centinaia di bombe. Miracolosamente, siamo sopravvissuti e al mattino li abbiamo trovati svenuti. Pregate per noi. La situazione qui è indescrivibile”. Se esiste una strada da percorrere per arrivare alla pace - che si tratti di due Stati o di uno - inizia sicuramente dal nostro saper andare aldilà degli stereotipi. Gli israeliani non sono Netanyahu e i palestinesi non sono Hamas. Medio Oriente. Baby jihad, la storia dei ragazzini del campo profughi pronti a morire da martiri di Francesco Semprini La Stampa, 18 novembre 2023 Viaggiano imbracciando fucili. Sulla “Piccola Gaza” piovono missili e volano droni israeliani, ma il nemico è l’Anp: “Ci ha traditi”. Due cavalli di Frisia assestati ai fianchi di un incrocio di strade sterrate definiscono l’ingresso del campo rifugiati di Jenin: “Benvenuti nella piccola Gaza”. Una polveriera a cielo aperto mappata dai droni israeliani da cui i palestinesi si riparano issando tendoni scuri da una palazzina all’altra del fitto abitato, macabri aquiloni che disegnano una copertura forzata e asfissiante di quell’immenso dedalo di vicoli e stradine. Non c’è slargo che non sia cadenzato da detriti lasciati dall’esercito israeliano nei raid divenuti sempre più frequenti già prima del 7 ottobre 2023, data dell’attacco terroristico condotto da Hamas al di là della striscia di Gaza. Entriamo a “Camp Jenin” il giorno successivo a uno dei più intensi scontri che si sono verificati tra le Forze di difesa israeliane (Idf) e la resistenza interna, con un tributo di sangue per quest’ultima di 15 morti al termine di una guerriglia dai contorni della guerra che ha visto irrompere le forze dello Stato ebraico nel campo rifugiati. “Perché noi, perché qui?”, è il lamento di una donna seduta su una malconcia sedia di plastica mentre tenta di tenere in braccio il proprio bimbo. Ha poco più di un anno e una vivacità fanciullesca che viene domata dal paziente aiuto della sorellina di qualche anno più grande. Fatima, questo il nome della signora, spiega che “in quella palazzina c’erano solo donne e bambini ma l’Idf ha lanciato due razzi” che hanno carbonizzato il piano superiore. Saliamo accompagnati da Amir, che indica un cumulo di cenere sul pavimento di quella che era la sua cameretta. Tenta di recuperare un libro, lo raccoglie, lo sfoglia a fatica e ci guarda azzardando un sorriso, come dire “non tutto è perduto”. Il mantra straziante di Fatima è comune alla quasi totalità dei circa 22 mila dannati - secondo i dati dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa) - che popolano Camp Jenin. Una città nella città dove, almeno ad occhio nudo, non si vedono simboli dichiarati, come i vessilli verdi di Hamas, quelli neri della Jihad islamica palestinese o la miriade di bandiere che inneggia a gruppi e sottogruppi di diversa entità, ad esempio le Brigate Balata, la Brigata Nablus, la Brigata Yabad e la Fossa dei Leoni. Tutte però con un denominatore comune, una deriva estremistica che le distanzia sideralmente dall’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen. Ovvero quel punto di riferimento che del campo dovrebbe avere il controllo politico e militare, come di tutta l’Area A della Cisgiordania. Ne sono traccia evidente i giovani che pattugliano i vicoli imbracciando M-16 o Ar-15 modificati. Loro il sussidiario lo hanno messo da parte già da tempo, raccogliendo il fucile lasciato in dote dal padre arrestato o dal fratello maggiore morto durante gli scontri.