Sicurezza non è solo carcere di Paolo Borgna Avvenire, 17 novembre 2023 “Per dare attuazione al principio costituzionale del ruolo educativo della pena, occorre che i detenuti siano posti in condizione di lavorare nel carcere e che abbiano spazio sufficiente per attività quali sport e altre”. Così ha detto il Guardasigilli Nordio al convegno “Vent’anni di Garante di Roma Capitale”. E ha aggiunto che uno dei primi obiettivi è “ridurre l’affollamento carcerario”, non solo individuando “strutture compatibili con l’espiazione della pena, dove esistano spazi idonei allo sport e alla dignitosa vita carceraria”, ma anche diminuendo la popolazione carceraria: “La maggior parte dei detenuti sono in prigione per reati cosiddetti minori e bisognerebbe trovare soluzioni che non li facciano stare in carcere, con forme di espiazione alternativa da eseguire con l’aiuto delle amministrazioni territoriali, predisponendo una serie di strutture alternative alla prigione che possano assicurare la presenza dell’arrestato senza però intasare le strutture carcerarie”. Speriamo che alle parole seguano i fatti. E che questi buoni propositi non siano smentiti (come invece parrebbe, anche da quanto deciso dal Consiglio dei ministri di ieri) da provvedimenti che - ancora una volta - seguano l’opposta filosofia del carcere come unica risposta ai nuovi fenomeni criminali. La pena detentiva come ultima ratio, il ruolo educativo delle pene, il superamento del concetto di carcere come pura segregazione (attraverso lo studio, il lavoro e l’apertura alla società esterna) erano le ricette messe a punto, nel 2017, dalla Commissione presieduta dal professor Glauco Giostra. Ma, in larga misura, quelle misure rimasero disattese. Lo stesso esecutivo che aveva nominato la Commissione arretrò, probabilmente timoroso, di fronte a un vicino appuntamento elettorale, di urtare gli umori di un’opinione pubblica il cui palato, dall’inizio degli anni Novanta in poi, è stato educato all’idea ossessiva del “buttare via la chiave”: più reati, pene più alte, circostanze aggravanti sempre più severe. Questo giornale lo scrive da sempre: l’unico modo per smontare un luogo comune è affrontare i fatti reali che lo alimentano. Questo vale anche per il carcere. Se un ergastolano condannato per l’omicidio della fidanzata, al primo permesso premio aggredisce una donna, non si può ignorare questo fatto. Ma si può combattere l’opinione che questa sia la quotidiana realtà. E l’unico modo per sfatare questa idea è di far parlare i numeri. Ad esempio, ricordando che contro l’1,08 per cento di casi in cui il detenuto che ha ricevuto un permesso commette un reato oppure non rientra in carcere, c’è un 98,92 per cento dei casi in cui va tutto bene. Questo dato non comparirà mai nei titoli dei giornali. Non diventerà mai “virale” nella rete. Così come non verrà mai strillata la notizia (riportata dal magistrato Marcello Bortolato e dal giornalista Edoardo Vigna nel loro Vendetta pubblica, il carcere in Italia), che su dieci detenuti nelle nostre carceri, una volta tornati in libertà sette tornano a delinquere; ma che questa recidiva crolla (fino all’uno per cento) per i condannati che, durante la detenzione, hanno potuto lavorare. La vera notizia è che ciascuno di quelle migliaia di permessi di soggiorno conclusi col regolare ritorno in carcere del condannato è un piccolo passo per restituire alla società, al termine della pena, un cittadino migliore di quando era entrato in prigione. Per diminuire il rischio che il condannato torni a delinquere. Perché, nella quasi totalità dei casi, i permessi vengono utilizzati per visitare la famiglia, per cominciare la ricerca di un lavoro, per riannodare i rapporti col mondo esterno. E tutto ciò serve non solo a rendere il carcere più umano ma anche a garantire più sicurezza all’intera comunità. Non siamo così ingenui da pensare che la funzione del carcere possa essere esclusivamente “rieducativa”. Sappiamo che, nel caso di reati gravi, il carcere ha anche una funzione di deterrenza e di difesa sociale, diretta a impedire che ciascuno si faccia giustizia da solo. Il punto è che ognuna di queste funzioni “tradizionali” deve essere letta e lumeggiata dall’articolo 27 della Costituzione. La “rieducazione del condannato” deve essere la lente con cui interpretare anche l’inevitabile necessità della difesa della convivenza civile. E a chi ancor oggi, non avendo mai messo piede in un carcere, lo racconta come un lussuoso albergo, bisognerebbe ricordare la battuta del protagonista del film Riso amaro del 1949: “ Il carcere l’ha inventato qualcuno che non c’è mai stato”. “Sostegno e rispetto, ecco cosa chiediamo a Nordio noi direttori” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 novembre 2023 La lettera-appello dei dirigenti penitenziari al ministro e ai vertici del Dap per un aumento dell’organico e un adeguato riconoscimento economico del ruolo. Aumento dell’organico dei Direttori di carcere, in modo da garantire a ciascuno di loro un solo incarico. Un riconoscimento economico adeguato al ruolo e alle responsabilità di tale figura. Un maggiore sostegno psicologico e sociale per questa professione complessa e impegnativa. Sono le richieste che numerosi dirigenti penitenziari hanno rivolto, tramite una lettera, al ministro della giustizia Carlo Nordio e ai vertici del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Un accorato appello, un grido di dolore, dopo la morte improvvisa della dottoressa Patrizia Incollu, direttrice dell’Istituto penitenziario di Nuoro, della Casa circondariale di Lanusei e della Casa di reclusione di Mamone. Una seria e diligente dirigente, costretta a ricoprire più incarichi contemporaneamente, a causa della carenza di organico. Un lavoro gravoso, stressante e pericoloso, che non è mai stato adeguatamente riconosciuto. La lettera inviata dai direttori penitenziari alle istituzioni ha rivelato una profonda preoccupazione e insoddisfazione nel settore. Il motivo di tale accorato appello, come detto, è la recente perdita della dottoressa Patrizia Incollu, una figura di spicco che ha ricoperto ruoli chiave presso i tre penitenziari sardi. Patrizia Incollu non era solo una direttrice, ma anche un’amica e collega per molti nel mondo penitenziario. La sua prematura scomparsa è stata attribuita al costante viaggiare da un istituto all’altro, cercando di colmare le lacune lasciate da un’amministrazione che, secondo i dirigenti penitenziari, è stata per troppo tempo lontana, distratta e indifferente ai sacrifici richiesti. Nella lettera, i direttori lamentano una mancanza di rispetto per il loro lavoro, evidenziando il peso gravoso di essere responsabili delle vite di coloro che lavorano e vivono in carcere. Questo senso di responsabilità si acuisce quando vengono loro affidati più istituti a causa della carenza di personale, nonostante le recenti assunzioni. Gli autori dell’appello sottolineano la mancanza di rispetto per il lavoro dei direttori, che non conosce orari fissi e che li espone a fatiche emotive di difficile gestione. Inoltre, denunciano l’indifferenza nei confronti delle loro vite personali, vissute in simbiosi con il carcere a causa del loro innato senso del dovere. La lettera descrive un grido di dolore, una richiesta di aiuto e speranza affinché l’amministrazione penitenziaria e la politica ascolti le preoccupazioni dei direttori del carcere. Essi chiedono un riconoscimento adeguato per la dedizione e la missione svolta nel garantire la sicurezza, tutelare chi lavora in carcere e restituire dignità a coloro che hanno commesso errori. Infine, i dirigenti penitenziari concludono affermando che il loro malessere ha radici profonde, ma credono che un cambiamento sia possibile attraverso un impegno rinnovato dell’amministrazione nel rispetto e nel riconoscimento del lavoro da loro svolto, che considerano una vera e propria missione. Nel frattempo, il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, ha recentemente accolto, anche se virtualmente, i 56 nuovi dirigenti penitenziari che prenderanno servizio entro il 20 novembre nei rispettivi istituti. Questi dirigenti rappresentano i vincitori dell’ultimo concorso per dirigenti penitenziari bandito da Via Arenula dopo un’attesa di 25 anni. Dopo un anno di formazione specifica e pratica sul campo, sono ora pronti ad assumere il loro ruolo chiave nell’amministrazione penitenziaria. Nordio ha sottolineato la presenza di una “nuova generazione di direttori”, evidenziando i volti “a volte estremamente giovani” di questi dirigenti provenienti da diverse parti d’Italia. Nel suo saluto, il Guardasigilli ha enfatizzato il principio della rieducazione, richiamato dalla Costituzione italiana e sottolineato come l’utilità e la convenienza sociale siano fondamentali. Il Ministro ha annunciato contatti con diverse associazioni per un progetto chiamato “recidiva zero”, mirato a garantire opportunità di lavoro ai detenuti al momento del rilascio, riducendo così il rischio di recidiva. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo, ha descritto il percorso che attende i nuovi direttori come delicato ma coinvolgente. Ha elogiato questa “nuova generazione di direttori” come giovani professionisti altamente motivati e ben preparati dal punto di vista della formazione e degli ideali. Tuttavia, se da una parte c’è l’entusiasmo per l’arrivo di nuovi dirigenti, dall’altra c’è la nota di preoccupazione espressa nella lettera precedente da parte dei direttori penitenziari già in carica. Essi, ricordiamolo nuovamente, hanno evidenziato la mancanza di ascolto delle loro istanze da parte delle autorità competenti, sottolineando la necessità di rispetto e riconoscimento per il lavoro svolto dagli attuali dirigenti. Mentre il Ministro Nordio si concentra sulla promozione della rieducazione e sulla preparazione dei nuovi dirigenti per affrontare questa sfida, la comunità dei direttori penitenziari spera che le istanze sollevate nella loro lettera siano prese in seria considerazione, garantendo così un equilibrio tra il rinnovamento auspicato e il rispetto per l’esperienza acquisita dagli attuali dirigenti penitenziari. “Mettere i bambini in cella non renderà l’Italia un Paese più sicuro...” di Valentina Stella Il Dubbio, 17 novembre 2023 Via libera al “pacchetto sicurezza”, parla Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. Ieri sul tavolo del Consiglio dei Ministri si è discusso del pacchetto sicurezza sotto vari aspetti, tra cui il carcere. Ne parliamo con Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, quando il Cdm è ancora in corso, ma alcuni elementi sembrano esseri certi. Nel ddl sicurezza Giorgia Meloni riapre le celle per le donne incinte o con un bambino sotto un anno pur se negli istituti a custodia attenuata. Fino a ieri la pena veniva differita, adesso cambia tutto... Penso che dopo tanti dibattiti fatti per dire che si sarebbe dovuto superare questo aspetto grave del bambino detenuto, una norma che ce ne porta degli altri mi sembra un punto di arrivo incredibile. Tutto ciò non è alleggerito dal fatto che le detenute saranno collocate in istituti a custodia attenuata. Perché? Basti guardare dove sono gli Icam. Ad esempio nel Lazio non ci sono. Pertanto questa previsione normativa comporterà anche uno spostamento pesante dal proprio territorio. Poi c’è un’altra questione. Quale? Quella delle donne incinte mette il personale in una difficoltà enorme soprattutto negli ultimi mesi di gravidanza e quindi affida agli operatori una grande responsabilità. Capisco che si vuole intervenire su un problema sociale, ma come sempre c’è il rischio di pensare che la penalità possa intervenire sui problemi sociali. Se si vogliono colpire situazioni come quelle del coinvolgimento dei bambini nell’accattonaggio, che non nego siano gravi, bisognerebbe capire che lo strumento della penalità non aiuta a ridurre questi fenomeni, anzi crea semplicemente delle ulteriori difficoltà. Non dico che non occorra intervenire perché una società ha la responsabilità ad esempio di impedire questo utilizzo grave dei bambini o che talune madri possano utilizzare la propria gravidanza per evitare il carcere e compiere sempre reati, ma non sono questi i metodi giusti per rimediare alla situazione. Quelli giusti sono quelli di intervento sociale. Questi messi in piedi dal Governo invece creano maggiore dolore e distanza dalla vita sociale, non favorendo alcuna forma di ritorno ad una vita più normale. Nella scorsa legislatura era quasi un mantra: “mai più bambini in carcere”. Oggi si va nella direzione opposta... Devo dire che sulla questione di evitare che i bambini fossero in carcere ho sentito anche tante dichiarazioni del centrodestra, non solo del centro sinistra, per cui occorreva intervenire. La consapevolezza di questo problema è una consapevolezza che ritenevo ampiamente condivisa. Su altri temi ci si divideva ma su questo credevo ci fosse una volontà comune. Quindi, questi provvedimenti mi sembrano più dei messaggi simbolici di voler far vedere il volto truce che neppure corrisponde alla consapevolezza sociale di quell’elettorato che magari è molto più duro rispetto alla risposta da dare ai reati. Anche se non c’è scritto, questa previsione sarebbe pensata per le donne rom. Come legge questo aspetto? La mia frequenza oramai pluridecennale mi porta a dire che questa presenza dei bambini molto spesso ha riguardato le donne rom. Quindi credo che questa norma, seppure non esattamente pensata per loro, vada inevitabilmente a influire su di loro, creando maggiore esclusione; sicuramente la norma sull’accattonaggio va ad influire su marginalità che hanno a che vedere con il mondo dei campi rom. Questo mi riporta al discorso di prima: c’è una esigenza di integrazione che può avere anche dei momenti di “durezza” ma questa deve essere funzionale all’integrazione e non sono certamente né il carcere né la norma penale ad aiutare. Si prevedono fino a 8 anni di carcere per chi organizza e dirige una rivolta in carcere e fino a 5 per chi vi partecipa. Eppure dall’altra parte il Governo vorrebbe modificare il reato di tortura che avviene proprio in carcere... Distinguiamo i due aspetti. Quello che mi stupisce in maniera grave è che c’è scritto anche: “Chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi da tre o più persone riunite, promuove, organizza, dirige una rivolta è punito con la reclusione da due a otto anni”. In pratica viene inclusa anche l’ipotesi di disobbedire ad un ordine. Se passasse così la norma sarebbe paradossale. Quando, ad esempio, si va all’aria in carcere c’è un elemento collettivo di essere più di tre persone; se c’è una volta una protesta anche pacifica può essere interpretata come istigazione alla rivolta, termine peraltro giuridicamente non definito. Quindi mi sembra una norma scritta male, priva del principio di tassatività e a rischio di interpretazione molto estesa. L’espressione non violenta della propria insoddisfazione non può essere elemento di punibilità. Quanto alla tortura? Per ora ho visto soltanto qualche iniziativa di singoli parlamentari e non una iniziativa del Governo e mi auguro che non voglia assumerne nessuna. Inoltre Meloni accontenta le forze di polizia: pena aumentata di un terzo se un atto di violenza o minaccia è commesso contro pubblico ufficiale... Diciamo che l’aggravante per la violenza contro un pubblico ufficiale ha una sua ragionevolezza; simmetricamente è maggiormente punito un atto di violenza compiuto da un pubblico ufficiale. Il problema è capire qual è l’atto di violenza. In carcere siamo in una profonda asimmetria: se viene interpretato come violenza qualunque elemento di opposizione minimamente reattiva la cosa può diventare molto pesante. E poi ancora una volta: non è che queste nuove previsioni affievoliscono il fenomeno delle aggressioni e degli atti di violenza. Faccio l’esempio di quando è stata introdotta qualche anno fa la norma per cui diveniva reato introdurre i telefoni in carcere. Lei ha visto un carcere dove è diminuito il numero di cellulari introdotti? Assolutamente no, aumenta solo questa elefantiasi del carcere. Insomma nuovi reati e innalzamento delle pene. Tutto il contrario del pensiero di Nordio... Devo dire che questa idea che il penale sia la forma risolutiva non è solo di questo Governo. È stata socialmente una idea malauguratamente diffusa da molti anni. Quanti pacchetti sicurezza abbiamo commentato insieme? Quello che trovo non in sintonia è il discorso di due giorni fa del ministro Nordio e sui cui concordavo per cui ci sono reati gravi ma anche altri frutto di contesti sociali particolari che vanno affrontati in modo diverso dal carcere. Se a 24 ore di distanza vedo quest’altra situazione non riesco a dare più una interpretazione della sua posizione. Pacchetto sicurezza: mamme borseggiatrici, c’è l’arresto. La stretta sulle truffe agli anziani di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 17 novembre 2023 Meloni: orgogliosa. Opposizioni all’attacco, no alle armi private per gli agenti: “È il Far West”. Stretta per borseggiatrici sul metrò, occupanti abusivi di case, truffatori di persone anziane e giovani autori di blocchi stradali che mandano in tilt la circolazione: il Consiglio dei ministri ha approvato ieri un nuovo “pacchetto sicurezza” che riguarda anche loro. Il disegno di legge ora dovrà passare al vaglio del Parlamento, ma intanto il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, citando proprio le “borseggiatrici nelle infrastrutture di trasporto”, ieri ha annunciato la volontà del governo nei casi di “eccezionale rilevanza” di rendere facoltativa e non più obbligatoria la sospensione dell’esecuzione della pena (sempre comunque in istituti a custodia attenuata, non in carcere) per le donne incinte. Questo, per evitare “il fenomeno - ha detto il ministro - dell’uso della condizione di maternità come esimente in caso di commissione di reato”. Pensiamo alle decine di ragazze rom incinte o con figli piccolissimi (fino a 3 anni) che ogni giorno soprattutto tra Milano, Roma, Venezia e Firenze, colte in flagrante, vengono poi rilasciate e tornano a delinquere. Condannate sì, ma la pena poi viene “rimandata” o “sospesa”. Più in generale, secondo il ddl, il questore potrà comunque disporre il divieto di accesso nelle stazioni per chi è già stato denunciato o condannato per i reati commessi in quei luoghi. Una sorta di Daspo del borseggiatore. Ma non solo: col nuovo pacchetto il blocco stradale (pensiamo agli attivisti di Extinction rebellion che si siedono in mezzo alla strada) da illecito amministrativo diventa reato e la pena innalzata da sei mesi a due anni di carcere. Ed è previsto “l’arresto obbligatorio in flagranza” per chi truffa gli anziani: pena da due a sei anni (quasi 22 mila pensionati sono stati raggirati in Italia da gennaio ad agosto 2023). E gli occupanti abusivi di case, se il ddl diventerà legge, saranno puniti con la reclusione da 2 a 7 anni e ci sarà una “procedura lampo” per la liberazione degli immobili ad opera delle forze di polizia. Inoltre, gli agenti di pubblica sicurezza, già autorizzati al porto di un’arma di servizio, secondo il ddl potranno detenere anche un’arma da fuoco privata. Una norma, si sottolinea, “molto attesa dal comparto e che consentirà di avere fuori dal servizio un’arma più leggera al posto di quella d’ordinanza, di solito molto più pesante”. Previsto poi un nuovo reato per chi organizza (pene da due a otto anni) o partecipa (da uno a cinque) a una rivolta in un carcere o nei Cpr per migranti (da uno a sei anni). Il governo ha stanziato 1,5 miliardi di euro per i rinnovi contrattuali del personale in divisa e ha previsto pure, nel pacchetto, la reclusione da due a sei anni per chiunque si procura materiale finalizzato a preparare atti di terrorismo e da sei mesi a quattro anni per chi diffonde istruzioni per fabbricare una bomba. C’è un passaggio anche sull’intelligence, con i nostri 007 coperti da garanzie funzionali (cioè non punibili per i reati che dovessero commettere) se infiltrati al vertice di organizzazioni terroristiche. “Sono orgogliosa di queste misure”, ha detto la premier Giorgia Meloni. All’attacco le opposizioni: “Armi private agli agenti? Meloni ci porta nel Far West”, tuona Avs. Duro il M5S: “Furti e rapine sono in aumento ma Meloni non stanzia un euro per nuove assunzioni”. “Più pene e armi solo per coprire l’incapacità nel rispondere alle emergenze economiche”, accusa il presidente dei senatori del Pd Francesco Boccia. Con un altro decreto legislativo, infine, ieri Palazzo Chigi ha disposto l’obbligo assicurativo (RcAuto) anche per i veicoli elettrici leggeri: a rischio minicar, bici e monopattini. L’elenco sarà stabilito da un successivo decreto interministeriale. Carcere anche per le donne incinte. Ecco il pacchetto sicurezza di Meloni di Valentina Stella Il Dubbio, 17 novembre 2023 A Palazzo Chigi vince ancora la linea securitaria. L’ira delle opposizioni: “Tutti gli impegni sul carcere di Nordio che fine hanno fatto?”. Introduzione di nuovi reati e innalzamento delle pene, tutto a favore delle forze di polizia: è questo il succo del “pacchetto sicurezza” approvato oggi in Cdm dopo l’incontro a Palazzo Chigi tra il presidente del Consiglio Giorgia Meloni e i ministri competenti, tra cui Carlo Nordio, con le organizzazioni sindacali e le rappresentanze del personale del comparto difesa, sicurezza e soccorso pubblico. Numerose le novità. Fonti di Palazzo Chigi hanno così riassunto il provvedimento: “Più tutele per le Forze dell’ordine oggetto di violenza o lesioni, l’introduzione di un nuovo reato per punire chi partecipa e/o organizza rivolte nelle carceri, il contrasto alle occupazioni abusive con procedure “lampo” per la liberazione degli immobili, la stretta alle truffe nei confronti degli anziani, misure specifiche anti-borseggio e anti-accattonaggio dei minori”. Le misure nel dettaglio - Viene introdotto un nuovo reato che “punisce chi organizza o partecipa ad una rivolta in un carcere con atti di violenza, minaccia o con altre condotte pericolose. La pena è da 2 a 8 anni per chi organizza la rivolta e da 1 a 5 anni per chi partecipa. Sono previste apposite aggravanti, fino a dieci anni, nel caso di uso di armi”. Un’ulteriore fattispecie di reato “punisce chi istiga la rivolta, anche dall’esterno del carcere, con scritti diretti ai detenuti”. Punita anche la disobbedienza: “Chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi da tre o più persone riunite, promuove, organizza, dirige una rivolta è punito con la reclusione da due a otto anni”. Come anticipato nella bozza è confermato “un regime più articolato per l’esecuzione della pena per le donne condannate quando sono in stato di gravidanza o sono madri di figli fino a tre anni. Non è più obbligatorio il rinvio dell’esecuzione della pena, ma è mantenuta tale facoltà in presenza dei requisiti di legge”. Tra gli elementi che possono influire nella valutazione del giudice “ci sarà, per esempio, la recidiva. È stata poi prevista la possibilità che la pena sia scontata presso gli istituti a custodia attenuata per detenute madri, fermo restando il divieto del carcere per le donne incinte e le madri dei bambini più piccoli (fino a un anno di età)”. Quindi per le detenute incinte o con figli sotto un anno si prevede la custodia attenuata negli Icam. Viene introdotto anche un “aggravamento di pena nei casi in cui i reati di violenza, minaccia o resistenza a un pubblico ufficiale siano commessi contro agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria”. Si prevede altresì che “gli agenti di pubblica sicurezza, già autorizzati al porto di un’arma da fuoco di servizio, possono detenere un’arma da fuoco privata, diversa da quella di ordinanza, senza ulteriore licenza”. Si tratta, hanno fatto sapere sempre fonti di Palazzo Chigi, di una “norma molto attesa dal comparto e che consentirà, ad esempio, agli agenti di avere fuori dal servizio un’arma più leggera al posto di quella d’ordinanza, di solito molto più pesante”. È introdotto un “nuovo delitto, perseguibile a querela della persona offesa, che punisce con la reclusione da 2 a 7 anni chi, con violenza o minaccia, occupa o detiene senza titolo un immobile altrui, o comunque impedisce il rientro nell’immobile del proprietario o di colui che lo deteneva”. Per rendere più efficace questa norma vengono introdotte “due misure. La prima: è prevista una causa di non punibilità per l’occupante che collabora all’accertamento dei fatti e rilascia volontariamente l’immobile occupato; la seconda: viene disciplinato un apposito procedimento, molto veloce, per ottenere la liberazione dell’immobile e la sua restituzione a chi ne ha diritto”. In via ordinaria su questo provvederà il “giudice, ma nei casi urgenti, in cui l’immobile occupato sia ad esempio l’unica abitazione della persona offesa, è prevista la possibilità che la liberazione/restituzione dell’immobile sia effettuata direttamente dalle forze di polizia che hanno ricevuto la denuncia, fermo l’intervento successivo di convalida del pubblico ministero e del giudice”. Prevista una stretta sulle truffe commesse ai danni degli anziani e delle persone più fragili. Viene aumentata la pena di reclusione da 2 a 6 anni per la truffa aggravata e viene prevista, per quest’ipotesi, anche la possibilità per le Forze dell’Ordine di procedere ad arresto in flagranza. Infine il ddl prevede che il “Questore potrà disporre il divieto di accesso nelle metropolitane, nelle stazioni ferroviarie e nei porti per chi è già stato denunciato o condannato per furto, rapina o altri reati contro il patrimonio o la persona commessi in quei luoghi”. Le prime reazioni - “Orgogliosa dell’importante “pacchetto sicurezza” approvato in Consiglio dei Ministri”, ha scritto sui social la premier Meloni. Dall’opposizione invece arrivano le critiche. “Apprendiamo che arriverà in Cdm, con tanto di post di Salvini, la norma che elimina l’obbligatorietà del rinvio della pena per le donne incinte e con figli piccoli. Un vero e proprio obbrobrio. Ma il ministro Nordio possibile che non abbia niente da dire? Tutti gli impegni sul carcere, a parte le improbabili ristrutturazioni delle caserme, che fine hanno fatto?”, ha commentato la vicepresidente dem del Senato, Anna Rossomando. Ha parlato anche il capogruppo Avs in commissione Giustizia Devis Dori: “Il ministro Nordio non fa che dire “meno carcere”: ma forse questo vale solo per i colletti bianchi?”. Neomamme in carcere e stretta sui reati minori: il governo cerca facile consenso sulla sicurezza di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2023 Il disegno di legge uscito oggi dal Consiglio dei Ministri, il pacchetto sicurezza, è l’ennesimo intervento legislativo populista e illiberale di questo governo che, incapace di incidere significativamente in ambiti che abbiano un impatto effettivo sulla realtà economica e sociale del paese, sventola simbolicamente la minaccia penale nel tentativo di aggrapparsi al facile consenso che spera di ottenere mostrando il pugno duro. Ma contro chi? Contro i minorenni delle aree disagiate, come è stato il caso del decreto Caivano, che invece di essere oggetto di interventi educativi potenziati si vedono destinatari di disposizioni di allontanamento da specifiche aree urbane o di inutili avvisi orali del questore che certo non faranno sì che il ragazzo muti il proprio stile di vita. Contro i loro genitori, ancora nel decreto Caivano, di fatto spesso della comunità rom, che invece di essere sostenuti nell’obbligo scolastico dei figli si ritrovano in galera qualora non adempiano. Contro le donne incinte o con bambini piccoli, come nel disegno di legge odierno, che finiranno in carcere alla faccia dell’attenzione alla famiglia e ai bambini. Contro i tossicodipendenti coinvolti nel piccolo spaccio, per i quali si alzano le pene invece di predisporre politiche preventive e di sostegno. Contro i writer, chi organizza un rave party o chi non ha un tetto sulla testa e dorme in un alloggio abusivamente. Ma sono davvero questi i problemi dell’Italia? Ma sono davvero questi i problemi dell’Italia? Ovviamente no. Ma sui problemi autentici questo governo non sa intervenire, come abbiamo visto con la recente legge finanziaria. E allora, pur di portare a casa delle norme manifesto e mostrare di non essere del tutto inerte, non guarda ai danni che tali norme provocheranno. Danni sociali, prima di tutto, visto che si trattano con gli strumenti del penale ambiti problematici che avrebbero bisogno di politiche ben più complesse. Danni in termini di lavoro dei tribunali, che verranno intasati da un lavoro che nulla ha a che fare con il perseguimento dei reati davvero gravi che minano la nostra sicurezza. Danni al sistema penitenziario, che tornerà ai numeri per i quali siamo stati condannati dieci anni fa dalla Corte di Strasburgo. Il nuovo disegno di legge introduce anche la possibilità da parte delle forze dell’ordine di utilizzare armi da fuoco diverse da quelle di ordinanza quando non si è in servizio. Le tragedie degli Stati Uniti d’America non hanno insegnato nulla a questo governo da Far West. Più armi ci sono in giro e meno si garantisce la sicurezza. L’uso delle armi deve essere regolamentato nella maniera più stretta e necessaria possibile. Vi è inoltre una norma che punisce con pene da ben due a otto anni di carcere quelle che vengono qualificate come rivolte penitenziarie. Tra queste si includono gli atti di “resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti”. La battitura delle sbarre - tipico comportamento usato dalle persone detenute per protestare o reclamare attenzione su qualcosa - può comportare la condanna prevista. Fu proprio una protesta passiva di questo tipo, originata da paure legate al Covid-19, a dare origine, come ritorsione a freddo, al brutale pestaggio avvenuto durante il lockdown del 2020 nel carcere campano di Santa Maria Capua Vetere. Tutta Europa si è indignata nel vedere le immagini riprese dalle videocamere interne. Oggi oltre cento imputati sono a giudizio nel più grande processo per tortura che il continente abbia mai visto. Basterà adesso per questo governo abrogare il reato di tortura per chiudere il cerchio. *Coordinatrice Associazione Antigone Dl sicurezza, ecco dove potranno essere recluse le donne incinte e le mamme con bimbi più piccoli di un anno di Alessandra Ziniti La Repubblica, 17 novembre 2023 Cosa sono gli istituti a custodia attenuata? Ce ne sono solo quattro in Italia dove le donne trascorrono la detenzione con i loro figli. Si chiamano istituti a custodia attenuata e sono i luoghi di detenzione, diversi dal carcere e più simili ad abitazioni, dove d’ora in avanti potranno essere recluse anche donne incinte e mamme con bambini piccolissimi di età inferiore ad un anno. Così ha stabilito il nuovo pacchetto sicurezza approvato dal consiglio dei ministri che rimette al giudice la valutazione della detenzione anche per queste categorie di donne. Ma in pochi sanno cosa sono e soprattutto dove sono questi istituti. Ce ne sono solo quattro. Il più grande è quello di Torino, seguito da quello di Milano San Vittore. Gli altri due più piccoli sono a Venezia e a Lauro in provincia di Avellino. Al momento il numero dei bambini detenuti è estremamente limitato soprattutto perché la legislazione prevedeva un ampio uso di misure alternative. Adesso invece con le nuove norme è prevedibile che gli istituti a custodia attenuata tornino a riempirsi. Sono ambienti pensati teoricamente per traumatizzare il meno possibile ai bambini, dunque con camere ampie e luminose, asili nido, ludoteche, cucina e soggiorno. Le mamme (o i papà in caso di assenza di una figura materna a casa) vi possono restare fino al compimento del sesto anno di età dei bambini. Nuovi reati e pene più alte: il pacchetto sicurezza è il trionfo della forca di Ermes Antonucci Il Foglio, 17 novembre 2023 Una sfilza di norme che introducono nuovi reati o aumentano le pene già esistenti. A questo si riduce, ancora una volta, il pacchetto di misure per la sicurezza approvato ieri dal Consiglio dei ministri. L’ennesima prova di populismo penale da parte della premier Meloni, con la collaborazione dei vicepremier Salvini e Tajani, e dei ministri dell’Interno e della Giustizia, Piantedosi e Nordio, a dispetto dei propositi garantisti avanzati in particolare da quest’ultimo. I disegni di legge prevedono un inasprimento generalizzato delle pene. Si comincia con le occupazioni di immobili destinati a domicilio altrui (punite con la reclusione da due a sette anni). Alla stessa pena soggiace “chiunque si appropria di un immobile altrui, con artifizi o raggiri, ovvero cede ad altri l’immobile occupato”. La normativa precedente prevedeva una pena da uno a tre anni. Vengono aumentate, poi, le pene per chi truffa gli anziani (prevista la reclusione da due a sei anni e la multa da 700 a 3.000 euro). Nell’ottica di rafforzare la lotta al terrorismo viene introdotto un nuovo reato che punisce con la reclusione da due a sei anni chiunque si procura o detiene materiale contenente istruzioni sulla preparazione o sull’uso di materiali esplosivi, armi o sostanze chimiche e batteriologiche con finalità terroristiche. In questo grande minestrone trova poi spazio l’inasprimento delle pene (di un terzo) per chi commette violenza, minaccia o resistenza a pubblico ufficiale nei confronti di agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria, quelle per chi provoca lesioni ad agenti di polizia (fino a cinque anni di reclusione), per chi imbratta beni mobili o immobili in uso alle forze di polizia (da sei mesi a tre anni), per chi promuove, organizza e dirige rivolte in carcere (reclusione da due a otto anni), e per chi induce o impiega minori nell’accattonaggio (da uno a cinque anni). Una stretta arriva anche sull’arresto delle donne incinte. Oggi il codice penale prevede che le donne incinte e le madri con figli fino a un anno di età non possano scontare subito la pena, ma che questa venga differita. La proposta del governo cancella il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena per le donne in stato di gravidanza e per le madri di figli fino a tre anni: “L’esecuzione della pena non può essere differita ove dal rinvio derivi una situazione di pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti”. Le donne non finirebbero comunque in carcere ma presso istituti a custodia attenuata per detenute madri. La misura, che era già stata proposta in Parlamento dalla Lega nei mesi scorsi, mira a porre un freno al fenomeno delle borseggiatrici incinte o con bambini piccoli, che, proprio in virtù di questa loro condizione, sfuggono alle maglie della giustizia, generando una certa frustrazione nell’opinione pubblica. Basti pensare che lo scorso luglio a Milano è stata fermata una donna di 35 anni di etnia rom che dovrebbe scontare quasi 30 anni di reclusione per le decine di rapine e furti commessi nel corso degli anni. La donna ha sempre ottenuto, a norma di legge, la scarcerazione con differimento della pena per le sue numerose gravidanze. “La destra si accanisce contro i bambini”, gridò il Pd quando la Lega tentò la scorsa primavera di far passare alla Camera una proposta di legge di modifica all’articolo 146 del codice penale in materia di rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena. La problematica, tuttavia, è reale, e molto sentita a livello sociale (basta fare un giro per le metropolitane delle grandi città per accorgersene). D’altra parte, non è pensabile - come fa Salvini - di poter risolvere il problema a colpi di slogan e mere modifiche del codice penale. In Italia gli istituti a custodia attenuata per detenute madri sono soltanto quattro e non tutti sono adeguatamente attrezzati per accogliere donne incinte. A ciò si deve aggiungere che saranno i giudici, caso per caso, nella loro legittima discrezionalità, a decidere se disporre o meno l’esecuzione della pena (alla luce anche della possibilità delle donne di ricevere, appunto, un adeguato trattamento negli istituti). Insomma, non sarebbe una sorpresa se alcuni giudici decidessero in alcuni casi di andare contro i desiderata di Salvini. Così il governo non ha fatto che preparare l’ennesimo terreno di scontro con la magistratura. Ecologisti, migranti e donne: la destra ce l’ha con i deboli di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2023 Pene fino a 2 anni per i blocchi stradali, 6 per chi occupa case e le rivolte nei Cpr. Cella per le madri. Sfratti rapidi. Giorgia Meloni dice che “senza sicurezza non c’è libertà né crescita”. Il Consiglio dei ministri di ieri pomeriggio è servito al suo governo per rivendicare un’altra svolta securitaria. Più reati e pene più alte, soprattutto nei confronti dei deboli: un nuovo reato con pene fino a due anni per chi blocca le strade (rivolta sopratutto ai militanti ecologisti) e fino a sei anni per le rivolte nelle carceri e nei Centri per la permanenza e rimpatrio, quelli in cui il governo italiano vuole trattenere più a lungo i migranti. Insomma, nuove punizioni per i più deboli mentre il governo, dall’inizio del suo mandato, ha cercato di tutelare i reati nei confronti dei colletti bianchi che invece, secondo i report dell’Unione europea, sono proprio quelli che bloccano la crescita: basti pensare al ritorno alla prescrizione modello ex Cirielli, l’abolizione dell’abuso d’ufficio e le nuove norme sulla custodia cautelare che imporranno di avvertire l’indagato 5 giorni prima. La giornata inizia con un vertice a Palazzo Chigi tra Meloni, i ministri e i rappresentanti sindacali delle forze armate e delle forze di polizia. Uno spot di facciata in cui la premier ha ringraziato “il lavoro encomiabile” delle forze dell’ordine. I soldi reclamati dai sindacati però sono pochi (si parla di circa 1,5 miliardi) con un aumento del 5% nei contratti. Poi alle 15:30 il Consiglio dei ministri approva tre disegni di legge con diverse norme in senso securitario. Rispetto alle anticipazioni, sono due i reati che vengono introdotti e rischiano di far più discutere. Il primo, che ricalca una proposta di legge della Lega al Senato, è l’introduzione di un reato con una “stretta” sui blocchi stradali per chi crea “enormi disagi ai cittadini”, spiegano fonti di Palazzo Chigi. Oggi chi impedisce la libera circolazione con il proprio corpo può essere punito con una multa fino a 4 mila euro mentre il governo introduce un nuovo reato punito da 6 mesi a 2 anni “se il fatto è commesso da più persone che sono riunite”. Piantedosi ha spiegato che dovrà essere affinato il blocco fatto da singolo e quello da un gruppo. Una norma che serve come deterrente per gli ecologisti che negli ultimi mesi hanno più volte manifestato sulle strade italiane bloccando il traffico e presi di mira da Salvini. Provvedimento che rischia di creare problemi interpretativi e di mettere a rischio il diritto di protesta, come già nel decreto Sicurezza del governo Salvini del 2018: in quella norma il reato era previsto per chi ostruiva strade e ferrovie con oggetti, mentre restava una sanzione usare il corpo. Con il nuovo disegno di legge, inoltre, vengono introdotte pene molto dure per chi commette violenze nei confronti della polizia e le rivolte nelle carceri e nei Cpr: negli istituti da 2 a 8 anni per chi le organizza, da 1 a 5 per chi partecipa; nei Centri per i rimpatri invece da 2 a 6 anni per i migranti che organizzano insurrezioni. Mano pesante anche per le donne incinte o con bambini fino a un anno di età che possono scontare la pena non in carcere ma in istituti a custodia attenuati. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi in conferenza stampa ha spiegato che la norma serve per colpire “le borseggiatrici” su mezzi pubblici o nelle stazioni: cioè il fenomeno dell’uso della condizione di maternità come esimente in caso di commissione di reato”. Anche se per come è scritta la norma non è detto che possa valere solo per loro: fonti di Palazzo Chigi in serata hanno spiegato che la “recidiva” sarà valutata come elemento fondamentale per disporre la custodia. Tra le altre misure sulla sicurezza ci sono le nuove pene per chi occupa in maniera violenta le case - da 2 a 7 anni - e da 2 a 6 per chi truffa gli anziani. Inoltre, sono inserite due procedure più rapide (non punibilità e velocizzazione delle pratiche) per gli sfratti delle case occupate. Aumentate anche le pene per i minorenni che fanno “accattonaggio” e per chi detiene armi con finalità di terrorismo. I poliziotti invece potranno detenere un’arma diversa da quella di ordinanza anche senza licenza. Rafforzate anche le misure di intelligence: saranno coperti da garanzie gli 007 sotto copertura che si trovano al vertice dell’organizzazione terroristica per commettere attentati. Il bluff di Nordio alla Ue: solo ritocchi alla riforma penale Cartabia mentre la Camera cancella l’improcedibilità di Liana Milella La Repubblica, 17 novembre 2023 Il Guardasigilli insiste sulle pene sostitutive al carcere, ma poi cambia le regole e rende più difficile la richiesta al giudice. Il 30 novembre per la prima volta andrà al Csm in un plenum con Mattarella. Nordio non butta a mare la riforma penale della Guardasigilli Marta Cartabia, ma la ritocca qua e là. Giusto alla vigilia della discussione e del voto alla Camera che la prossima settimana cambierà le regole della prescrizione (via l’improcedibilità in Appello dell’ex ministra, si torna alla legge Andrea Orlando rivista dall’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi) Nordio porta a Palazzo Chigi un decreto legislativo che suona come un messaggio tranquillizzante diretto all’Europa. In realtà un escamotage per dire che nulla cambia nell’intervento penale dell’ex premier Mario Draghi e della Cartabia votato nel 2022, anche se in realtà proprio il pezzo forte della riforma, quello che garantiva il 25% in meno nei tempi del processo, è già diventato carta straccia e attende solo il voto del Parlamento per andare definitivamente in soffitta. Un dato è per tabulas. Prescrizione a parte, Nordio però non ha usato il decreto per rivoltare del tutto la riforma Cartabia come fosse una frittata, anche se proprio questo hanno tentato di fare alcuni detrattori del lavoro dell’ex ministra arruolati nella commissione istituita dal ministro della Giustizia, una delle tante al lavoro in via Arenula. Alla fine l’intervento, come stiamo per vedere, non è del tutto distruttivo. Nordio si limita a piccoli interventi di maquillage sul testo Cartabia, che volutamente lasciava la possibilità di successive modifiche, da fare entro due anni. Resterà la tanto discussa procedibilità a querela per il furto e altri reati, che Nordio estende anche al danneggiamento di cose esposte alla pubblica fede, come l’auto parcheggiata sotto casa. Rimane l’esclusione della punibilità per i fatti cosiddetti “tenui”, l’ampliamento della messa alla prova, la nuova disciplina del processo in assenza, la possibilità del dibattimento a distanza, le regole riviste per il rinvio a giudizio, il volto inedito dell’udienza predibattimentale. E ancora le modifiche che riguardano le fasi del processo in Appello e in Cassazione. Si “salvano” anche le pene che, per decisione del giudice, possono sostituire una detenzione di breve durata. Salva pure la giustizia riparativa. Insomma, siamo di fronte a un Nordio che conferma la legge Cartabia su tutta la linea. Tranne su prescrizione e improcedibilità, e “qui casca l’asino”, come si lasciano scappare i giuristi Gian Luigi Gatta e Mitija Gialuz che hanno difeso quella riforma. Perché Nordio sulla prescrizione lascia fare al Parlamento, per non allarmare con il suo testo gli osservatori della Commissione europea. Ma torniamo ai correttivi del ministro della Giustizia. Tra gli interventi più significativi c’è quello che semplifica l’avocazione del procedimento da parte dei procuratori generali, quando il pm alla fine delle indagini non decide se archiviare o portare l’imputato a processo. Un intervento fortemente voluto proprio da Antonello Mura, l’attuale capo dell’ufficio legislativo di via Arenula scelto da Nordio e insediato già a fine ottobre 2022 subito dopo la nascita del governo. Già dal suo ufficio di piazzale Clodio, Mura aveva firmato la lettera al neo Guardasigilli con tutti i suoi colleghi che conteneva il “grido di dolore” poi raccolto da Nordio che, come primo atto da ministro, aveva chiesto il rinvio dell’entrata in vigore della Cartabia di due mesi. Un altro chiarimento atteso dai magistrati riguarda il giudizio abbreviato: sarà il giudice dell’esecuzione a operare d’ufficio l’ulteriore riduzione di un sesto della pena per chi non impugna. Ma c’è spazio anche per una sorpresa: Nordio evidentemente non si è accorto che sta portando a Palazzo Chigi due nuove norme contenute nel decreto in cui proprio lui fa riferimento, in tema di notifiche e di giustizia riparativa, all’improcedibilità che però vuole far abrogare dalla Camera. Uno svarione oppure una mossa voluta per tranquillizzare la Commissione europea? Vedremo. E c’è spazio anche per qualche modifica peggiorativa, che non piacerà affatto agli avvocati. Legge il testo e se ne accorge il professor Gatta, ordinario di diritto penale alla Statale di Milano. La più rilevante riguarda le nuove pene sostitutive delle pene detentive brevi. “La riforma Cartabia - spiega Gatta - ha previsto che se la pena inflitta non supera i quattro anni, il giudice deve avvisare l’imputato che il carcere può essere sostituito con la semilibertà, il lavoro di pubblica utilità o la detenzione domiciliare, oltre che con la pena pecuniaria se la pena non supera un anno. E oggi ci sono già più di 1.300 persone che hanno evitato proprio in questo modo di entrare in carceri sovraffollate. Ebbene, l’intervento proposto dal ministro Nordio elimina questo avviso obbligatorio per imputati e avvocati e prevede che la pena possa essere sostituita solo se il giudice ritiene di farlo e ‘ha voglia di farlo’, sobbarcandosi adempimenti in più, eventualmente in una nuova udienza. I margini per la difesa di ottenere una pena sostitutiva in primo grado, senza patteggiare, risulteranno in concreto molto ridotti senza l’apertura d’ufficio di una fase processuale per la sostituzione della pena, cosiddetta di sentencing, sul modello dei paesi anglosassoni”. Tutto questo proprio quando, ancora a Regina Coeli, Nordio non solo invoca la definitiva dismissione del carcere, ma insiste sulle possibili vie alternative alla prigione. Chiosa ancora Gatta: “Il risultato? Se il giudice, che normalmente è sommerso dai fascicoli, avrà fretta non sostituirà la pena per evitare la fase di sentencing e l’avvocato dovrà fare appello per chiedere la sostituzione”. Ma qui ricasca l’asino, perché - rivela ancora Gatta - “se l’esigenza del Pnrr è quella di ridurre i tempi dell’Appello che senso ha ora incentivare la sostituzione della pena proprio in quel grado di giudizio? Chi la chiederà più in primo grado sapendo di poterlo fare in Appello? E ancora: nessuno in primo grado chiederà il lavoro di pubblica utilità sapendo che la condanna alla pena sostitutiva impedisce l’Appello”. Il rischio, anche in questo caso, “è che aumentino gli appelli e se ne rallentino i tempi fino alla prescrizione dei reati”. Alla faccia del Pnrr e della Commissione europea. Ora si metta la parola fine a questa “trattativa”. E qualche magistrato chieda scusa alla politica di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 17 novembre 2023 Le sentenze hanno stabilito che le indagini per una percentuale enorme erano fasulle perché i pubblici ministeri volevano scrivere a modo loro la storia d’Italia. Ogni italiano deve augurarsi che la sentenza della Cassazione sulla trattativa Stato-Mafia ponga fine alla lunga telenovela di mafiopoli e deve constatare con soddisfazione che da un po’ di tempo è finita anche la telenovela di Tangentopoli. Le sentenze hanno stabilito che le indagini per una percentuale enorme erano fasulle perché i pubblici ministeri volevano scrivere a modo loro la storia d’Italia. Non si può non riconoscere, a distanza di tanti anni, che, sia le indagini di “Tangentopoli” che quelle che riguardano in particolare la mafia sono state utilizzate per “fare la storia”, per inventare una “storia” addomesticata, una “storia” legata ad indagini giudiziarie non verificate, date come vere e diffuse mediaticamente ad un pubblico emotivo e rancoroso. “Mani Pulite” la storia puntava a condizionarla, a modificarla; e “mafiopoli” la storia ha puntato a ricostruirla ad uso e consumo di tesi politiche e di teoremi improvvisati senza tenere conto delle oggettive responsabilità. Nel 2021 ho scritto un libro dal titolo La storia fatta con le manette. Storia d’Italia e di magistrati che hanno provato a riscriverla. Nel libro riportavo una frase di Natalino Irto: “La soggezione del giudice alla legge, tenuta per principio del moderno Stato di diritto e pure accolta nella nostra Carta costituzionale, non è soltanto garanzia di autonomia e indipendenza, ma anche misura e limite della potestà giudiziaria”. A lui non si chiede di ricostruire un tratto di storia “generale”, politica o etica o religiosa, ma di accertare quei fatti, e soltanto quei fatti, che, mostrandosi conformi alle figure normative (alle cosiddette “fattispecie” del lessico giuridico), esigono l’applicazione della legge. Da lui non si attende un giudizio sull’epoca storica che rimane sottomessa all’hegeliano “tribunale del mondo” - ma la più angusta e povera indagine circa i fatti rilevanti per la legge, cioè per un certo e specifico comando normativo. Come si può ben vedere la Cassazione si attiene proprio a questi canoni e condanna i pubblici ministeri che hanno voluto dar corpo ad una storia non vera e con rigore ristabilisce la verità giudiziaria. Dunque i partiti e i responsabili delle istituzioni hanno rispettato la loro funzione non si sono mai sognati di fare trattative con la mafia. Dunque centinaia di migliaia di pagine se non milioni, sono state scritte per indagare inutilmente su tanti politici, e su servitori dello Stato, e che sono state azzerate con le 95 pagine di una sentenza non fumosa ne sociologica ne “storiografica” ma concreta come si conviene ad un giudice. Sono state spese ingenti somme per i pregiudizi dei pubblici ministeri che, a differenza di quello che sosteneva Falcone, volevano “arrivare” al terzo livello della politica! Orbene è necessario ripetere alcune argomentazioni che facciamo da anni per tentare di costruire un rapporto equilibrato tra la magistratura e la politica. Il ruolo del magistrato che oggi è diverso da quello stabilito dalla costituzione non può essere dilatato fino a sostituirsi al legislatore, o alla politica e potrei dire alla inevitabile faziosità della politica. La prevalenza del giudiziario sulle altre istituzioni non fa bene alla Repubblica democratica ma svilisce il ruolo di entrambi. Nella sentenza che assolveva il ministro Calogero Mannino era scritto che gli uditori giudiziari avrebbero dovuto leggere la sentenza precedente di condanna di Palermo per capire come non si scrive una sentenza e come non si fa un processo. Nelle motivazioni della attuale sentenza della Cassazione è scritto che i giudici di Palermo “hanno finito per smarrire la centralità dell’imputazione nella trama del processo penale, profondendo sforzi imponenti nell’accertare fatti spesso poco o per nulla rilevanti nell’economia del giudizio”. E quando hanno affrontato i reati, i giudici siciliani si sono dimenticati che la colpevolezza va dimostrata “ogni ragionevole dubbio”. Solo in questo modo, aggiunge la Corte, si è potuto sostenere che il Governo - prima Ciampi, poi Berlusconi - abbia preso decisioni in ossequio alle minacce di Cosa Nostra. A queste minacce le sentenze hanno dedicato un ruolo cruciale, ma le hanno ricostruite in modo “minimale”, affogando il dettaglio in un mare di fatti irrilevanti: “Le motivazioni delle sentenze hanno assunto, sia in primo, che in secondo grado, una mole imponente (5.237 pagine in primo e 2.971 pagine in secondo grado), tale da offuscare le ragioni della decisione e rendere le linee argomentative di difficile identificazione e interpretazione”“. La Cassazione scrive “profondendo sforzi imponenti nell’accertare fatti poco o per nulla rilevanti” bacchetta il giudice con marcata ironia che è peggio del rimprovero! Nella ricostruzione dei pm palermitani che per anni anche con le mille trasmissioni televisive trasmesse come verità assoluta in riferimento costante è ai favori che Cosa Nostra per far cessare le stragi; e Mori e Del Donno sarebbero stati mediatori e avrebbero minacciato lo Stato. Senza le prove bastava far prevalere il buon senso! È stato rilevato che si tratta di vizi già criticati in altri processi, mentre ad essere inedito, e contundente, è quell’aggettivo: “storiografico”. Il diritto, la giustizia, sono un’altra cosa: e dunque la Cassazione stabilisce un principio che era stato smarrito da molti anni. Infine la Cassazione dice che: “Le sentenze hanno optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico”. Invece anche quando si tratta di fatti di estrema rilevanza, il giudice deve limitarsi “all’accertamento dei fatti oggetto dell’imputazione”. Questo è quello che sostiene un grande giurista come Natalino irti e con un po’ di presunzione ho cercato di dimostrare nel mio libro. È fallito il tentativo di imporre agli storici del futuro una storia giudiziaria falsa e confusa. Il compito nostro attuale è eliminare questi che sono diventate verità non vere per il pubblico “idola tribus’” e scrivere la storia vera dei partiti e degli uomini delle istituzioni. Sostengo da tempo che nell’epoca moderna per il ruolo che il giudice ha rispetto al passato bisogna trovare un equilibrio tra indipendenza e responsabilità dei giudici. Il pubblico ministero che è una parte del processo non può certamente far prevalere i suoi pregiudizi e le sue convinzioni ma deve solo trovare le prove e solo quelle rispetto alla “imputazione”. E dunque, deve essere “responsabile”. Ma gli attuali pubblici ministeri, dopo aver fatto per anni indagini poi smentite, che hanno umiliato personaggi importanti della politica del nostro paese, e corretti servitori dello Stato, potrebbero almeno presentare le loro scuse?! Torino. “Cinque giorni prima aveva già cercato di ammazzarsi, così Alessandro è morto di carcere” di Irene Famà La Stampa, 17 novembre 2023 Parlano Monica e Carlo Gaffoglio, i genitori del 24enne suicida in cella. “Il carcere è sordo con le persone fragili”. Mamma Monica e papà Carlo riflettono su due parole: abbandono e accoglienza. Il loro dramma e la loro missione sono racchiusi tutti lì dopo che il figlio, Alessandro Gaffoglio, ventiquattro anni, è morto suicida in cella al Lorusso e Cutugno. La psichiatra che lo aveva in cura è stata indagata. La responsabilità è solo sua? “Gli errori sono molti di più e coinvolgono l’intero sistema”. Serve una riforma? “Bisogna pensare a una strategia che tenga conto della personalità di chi è più fragile, trovare dei percorsi, accogliere chi ha sbagliato. Il carcere così com’è strutturato non ha senso: chiunque capiti lì, nelle stesse condizioni di nostro figlio, ha tutte le probabilità di fare la fine di Alessandro”. Che di fragilità ne aveva tante... “L’abbiamo adottato che aveva otto anni e mezzo e alle spalle un inferno. Si è tuffato tra le nostre braccia, si era costruito una fantasia che lo portasse ad accettare il suo difficile passato”. Poi? “Durante l’adolescenza, quel dolore l’ha sopraffatto. Ha sviluppato una malattia psichiatrica, per sette anni è stato a letto temendo che le persone gli leggessero nel pensiero. Il suo mondo è esploso”. La droga come palliativo? “Ha cercato rifugio nelle sostanze. Nonostante tutto ha avuto la forza di studiare e lavorare. Ma ha trovato il crack, che è micidiale. Ha commesso due rapine ed è stato arrestato. In carcere avrebbe dovuto essere aiutato”. È stato abbandonato? “Chi ha problemi mentali ha bisogno di attenzioni particolari. Per lui, quei tredici giorni di detenzione sono stati un’eternità. Un incubo”. Ha tentato il suicidio pochi giorni dopo l’arresto... “Nessuno ci aveva avvisati, né noi, né l’avvocato. Sarebbe stato importante vederlo, rassicurarlo. Pensiamo spesso a ciò che gli avremmo detto”. Cosa? “Che di lì poteva guarire, uscire, attivare un circuito positivo per lui”. Non è stato possibile vederlo? “La prima data possibile era il 16 agosto. Alessandro si è suicidato il 15. L’abbiamo rivisto in una bara”. Vi ha contattati la direzione del carcere? “Mai. Solo il cappellano, l’unico che ha avuto parole sentite. Altri si sono giustificati”. Come? “Dicendo che Alessandro era stato attenzionato”. Un termine che ora sembra spietato... “Sono accadute cose sconcertanti”. Il tentato suicidio non comunicato? “Non solo. Nostro figlio ha tentato di ammazzarsi con un sacchetto di nylon. E cinque giorno dopo gli è stato consegnato un altro sacchetto con i vestiti. Questo va contro ogni logica”. La psichiatra, per Alessandro, aveva disposto la sorveglianza “lieve”... “Affrontare la depressione richiede mesi, come può un tentato suicidio essere affrontato in pochi giorni?”. Vi costituirete parte civile? “Insieme alle nostre legali, le avvocate Laura Spadaro e Maria Rosaria Scicchitano, seguiremo il processo. Vogliamo capire cos’è successo. Però è importante sottolineare che non cerchiamo vendetta”. Cosa chiedete? “Che il sistema venga riformato, con la volontà di avere un po’ più di umanità, così da ripartire nel verso giusto. Perché quello che è capitato ad Alessandro non si ripeta più”. È stato abbandonato? “Lasciato solo. Con i suoi demoni. Quando ti comunicano che tuo figlio è morto, è come l’esplosione di una bomba. E pensi solo a come riportarlo in vita”. Torino. “Alessandro fragile, andava aiutato” di Simona Lorenzetti Corriere Torino, 17 novembre 2023 Il dolore dei genitori: lottiamo perché non capiti ad altri detenuti. La psichiatra del Lorusso e Cutugno indagata per omicidio colposo. “La storia di mio figlio è la storia di un abbandono. Era un ragazzo fragile che andava protetto e aiutato”. C’è amarezza nelle parole di Carlo Gaffoglio e Monica Fantini, i genitori di Alessandro: il 24enne che a Ferragosto dello scorso anno si è suicidato in carcere con una busta di nylon. Per la sua morte, la Procura di Torino ha indagato per omicidio colposo la psichiatra dell’istituto penitenziario Lorusso e Cutugno. “La storia di mio figlio è la storia di un abbandono. Era un ragazzo fragile che andava protetto e aiutato”. C’è amarezza nelle parole di Carlo Gaffoglio e Monica Fantini, i genitori di Alessandro: il 24enne che a Ferragosto dello scorso anno si è suicidato in carcere con una busta di nylon. Per la sua morte, la Procura di Torino ha indagato per omicidio colposo la psichiatra dell’istituto penitenziario Lorusso e Cutugno. Secondo i magistrati, la professionista avrebbe sottovalutato le condizioni cliniche del ragazzo e avrebbe disposto una sorveglianza “lieve” nonostante 5 giorni prima Alessandro avesse già tentato il suicidio (sempre con un sacchetto di plastica). Non solo, disattendo il protocollo, non avrebbe integrato la terapia farmacologica. Una morte che forse poteva essere evitata e che ora spinge i genitori a mostrare pubblicamente il proprio dolore e desiderio di giustizia, che per loro non significa “vendetta” nei confronti della psichiatra ma una ridefinizione delle tutele in carcere per quei detenuti come Alessandro: fragili e bisognosi di cure. Papà e mamma ancora adesso non riescono a trovare pace per non essere stati avvisati del tentativo di suicidio del figlio (arrestato per aver messo a segno due rapine). “Avrebbero dovuto dircelo e aiutarci a metterci in contatto con lui per tranquillizzarlo - spiegano -. Eravamo coscienti che fosse in una situazione di completa disperazione. Sarebbe stato importantissimo per noi vederlo quanto prima. Ogni giorno era importante. La prima data possibile era il 16 agosto, ma è stato troppo tardi. Lui si è suicidato il giorno prima. E noi lo abbiamo rivisto in una bara”. Alla luce delle indagini, i genitori (assistiti dalle avvocatesse Laura Spadaro e Maria Rosaria Scicchitano) evidenziano che “gli errori sono molti di più di quelli che vengono rimproverati alla psichiatra. A sbagliare è stato il sistema. Vorremmo che questa indagine fosse utile. Il carcere così com’è strutturato non ha senso”. “Chiunque capiti lì, nelle stesse condizioni di nostro figlio - insistono - ha tutte le probabilità di fare la fine di Alessandro. Non vogliamo vendetta, ma che si possa fare luce su un problema effettivo, reale e molto importante. Se c’è la volontà di avere un po’ più di umanità e di comprendere le lacune del carcere, si può ripartire nel verso giusto”. Al dolore si aggiungono i tanti interrogativi che ancora oggi non hanno risposta. “Se per venire fuori da una depressione ci vogliono anni, per un tentato suicidio bastano due o tre giorni? Eppure la psichiatra del carcere aveva parlato anche con la dottoressa che l’aveva in cura. Come è possibile che tutto ciò non sia stato tenuto in considerazione?” si domanda la madre, che non comprende come per il figlio sia stata disposta una sorveglianza “lieve” e per giunta gli sia stata consegnata una busta di plastica. Alessandro è stato arrestato il 2 agosto, una settimana più tardi ha provato a togliersi la vita ed è stato trasferito in regime di sorveglianza “alta” al “sestantino”, il reparto per i detenuti con problemi psichici. Poi il ritorno nella solitudine della sua cella, con una sorveglianza “lieve”. Questo regime avrebbe innescato una serie di leggerezze operative, come la consegna di abiti ed effetti personali in una busta di plastica rimasta poi nella disponibilità del ragazzo. La notte in cui si è suicidato, la polizia penitenziaria lo ha visto alzarsi dal letto, andare in bagno, fumare una sigaretta e poi coricarsi coprendosi la testa con il lenzuolo. “Dormiva pacificamente”, scriveranno gli agenti nella relazione di servizio. Ma il giovane non stava dormendo, stava morendo. “Alessandro era un ragazzo luminoso e dolcissimo che aveva passato un inferno tremendo - ricorda Monica Fantini -. L’abbiamo adottato che aveva otto anni e mezzo. Nell’adolescenza ha sviluppato un problema psichiatrico, ma ha cercato con tutte le forze di curarsi, studiare, lavorare. Non è riuscito a elaborare vicende troppo dolorose e traumatiche dell’infanzia ed è caduto nella spirale del crack. Non meritava di essere abbandonato”. Torino. Trasportato dal carcere di Parma detenuto morì in ambulanza in condizioni misteriose di Elisa Sola La Repubblica, 17 novembre 2023 Michele Pepe, 48 anni, era stato condannato per camorra. Era obeso grave con problemi di cuore. È arrivato senza vita al Lorusso e Cutugno. Sotto processo chi diede il via libera alla “traduzione”. Una tirata unica, da Parma a Torino. Tre mezzi che sfrecciano senza sosta sull’autostrada. Due auto della polizia penitenziaria e al centro l’ambulanza che trasporta un detenuto in barella: Michele Pepe, 48 anni. Condannato per camorra, obeso grave con problemi di cuore. Doveva essere un servizio di “traduzione” ordinario, quello di Pepe. Invece il carcerato, partito dall’istituto penitenziario di Parma il 3 dicembre 2018, arriva morto al Lorusso e Cutugno di Torino. Sull’ora del decesso e su eventuali responsabilità non ci sono dati certi. Il processo è iniziato ieri a Parma. Alla sbarra c’è il medico penitenziario del carcere lombardo che firmò il nulla osta per il viaggio. L’ipotesi di reato è omicidio colposo. L’inchiesta, coordinata dal pm Giovanni Caspani, era stata lunga e complessa. Nessun agente è alla fine stato indagato, perché il magistrato aveva ritenuto che la causa della morte di Pepe fosse il comportamento del medico. Lui avrebbe dato l’ok per un viaggio infattibile per un detenuto con gravi problemi di salute. E gli avrebbe somministrato dei farmaci, forse sedativi, che sarebbero stati dannosi. Il processo andrà avanti. Ma alcuni punti della vicenda sono destinati a restare irrisolti. Come la risposta alla domanda: perché nessuno portò Pepe in ospedale, anziché in carcere a Torino, alla fine di un viaggio in cui respirava con l’ossigeno? C’è una lettera manoscritta, spedita in procura a gennaio del 2019 da un pentito che all’epoca dei fatti stava finendo di scontare la pena alle Vallette, dove si fa riferimento alla questione. “Quando arrivò quell’uomo in barella alle Vallette - scrive il collaboratore di giustizia - stavo pulendo l’ufficio matricole. Per me Pepe era già morto. Era pieno di lividi. Si misero a litigare un agente di Parma con uno di Torino. Quest’ultimo urlava, perché lo avete trasportato fino a qui se doveva andare al pronto soccorso?”. Pepe, come molti grandi obesi era cardiopatico e pieno di problemi. “Durante il viaggio non ci siamo mai fermati”, hanno confermato i soccorritori che erano sull’ambulanza. Un agente ha aggiunto: “Ho visto il detenuto parlare col barelliere. Per me era vivo. Appena arrivammo alle Vallette, sembrava assopito. Chiesi se potevamo portarlo in ospedale. Mi dissero che non si poteva, che ormai era stato etichettato come detenuto Asl e che prima bisognava seguire altre procedure. Poi l’ambulanza non era del 118, ma adibita solo al trasporto ordinario”. “L’ho sentito parlare in dialetto e chiedere l’ossigeno, poi si è addormentato”, rammenta il barelliere. Un poliziotto delle Vallette: “Mentre era lì in barella continuavano a scrivere le pratiche di immatricolazione”. Il decesso viene constatato alle 18. Ma Pepe era già morto, secondo quanto stabilirà poi l’autopsia. Da un po’ di tempo. Da quanto, esattamente, non si saprà mai. “Indagate i medici e i poliziotti di Parma”, scriverà il pentito ai pm dopo avere visto le condizioni in cui arriva il 48enne. “Era pieno di lividi, in pantaloncini. Non l’ho mai sentito parlare né muoversi. Come hanno potuto farlo partire in quelle condizioni?”. Viterbo. Detenuto morto a 21 anni, chiesta la condanna per l’ex direttore e due agenti viterbotoday.it, 17 novembre 2023 Morte del detenuto Hassan Sharaf, chiesta la condanna dell’ex direttore di Mammagialla e di due agenti della penitenziaria. Tutti e tre hanno scelto di essere giudicati con il rito abbreviato, che in caso di condanna prevede lo sconto di un terzo della pena. La richiesta di condanne - Il sostituto procuratore generale Tonino Di Bona (le indagini sono state coordinate dalla procura generale di Roma) ha chiesto 12 mesi di reclusione per Pierpaolo D’Andria, ex direttore del carcere, e otto mesi ciascuno per il comandante della polizia penitenziaria Daniele Bologna e per l’agente Luca Floris. Il primo deve rispondere di omicidio colposo e omissione di atti di ufficio, mentre i due poliziotti solo di omissione di atti d’ufficio per il mancato trasferimento di Sharaf in un carcere minorile. L’udienza di ieri - Ieri, 16 novembre, la terza udienza preliminare davanti al gup del tribunale di Viterbo Savina Poli. Ha discusso sia la pubblica accusa che le parti civili. Parti civili sono i familiari di Sharaf: la madre, la sorella e il cugino. Il detenuto egiziano 21enne è morto dopo essersi impiccato nella cella di isolamento. Era fine luglio 2018. Neanche due mesi dopo, a inizio settembre, sarebbe tornato in libertà. L’udienza precedente - All’udienza precedente, a inizio ottobre, è stata accolta la citazione quali responsabili civili del ministero della giustizia e della Asl per i tre imputati per omicidio colposo per cui si procede con il rito ordinario. Vale a dire i medici del reparto di medicina protetta di Belcolle Roberto Monarca (responsabile) ed Elena Niniashvili e il poliziotto della penitenziaria Massimo Riccio (responsabile della sezione di isolamento). Ascoltati per ore, invece, i tre che hanno chiesto l’abbreviato: solo l’ex direttore di Mammagialla D’Andria ha parlato per circa quattro ore. Le prossime udienze - Si torna in aula il 7 dicembre per le arringhe dei difensori di D’Andria, Bologna e Floris. L’11 gennaio, invece, udienza dedicata ai tre imputati per cui si procede con il rito ordinario. Infine il 22 febbraio la camera di consiglio per decidere sia i tre riti abbreviati, sia l’eventuale rinvio a giudizio degli altri tre imputati. Le indagini - Sulla vicenda di Sharaf la procura di Viterbo aveva aperto un’inchiesta per istigazione al suicidio che ha poi archiviato. Gli avvocati della famiglia del giovane hanno ottenuto, però, la riapertura del caso e l’avocazione. La procura generale di Roma, infatti, ha tolto le indagini ai magistrati viterbesi e le ha portate avanti in autonomia. Cassino (Fr). Mimmo D’Innocenzo morto in carcere. Presidio della famiglia davanti al ministero della Giustizia di Davide Fiorani rainews.it, 17 novembre 2023 Il 30 novembre prossimo il tribunale si pronuncerà sull’archiviazione del caso. Sono tornati a chiedere giustizia la madre, il padre e i familiari di Mimmo D’Innocenzo. Non si arrendono e dopo i presidi davanti al tribunale di Cassino, sono venuti a Roma per rivolgere il proprio appello direttamente al ministro della Giustizia. È davanti al dicastero di via Arenula che si sono trovati per un nuovo presidio, con uno striscione che dice: “Vogliamo un processo”. A coordinare le indagini sul caso è la sostituto procuratore Francesca Fresch che ha chiesto l’archiviazione. Il prossimo 30 il tribunale si pronuncerà sull’opposizione all’archiviazione avanzata dai familiari. Mimmo D’Innocenzo è morto a trent’anni mentre era detenuto nel carcere di Cassino il 27 aprile 2017. Secondo le risultanze dell’autopsia il decesso è stato causato da un’intossicazione da sostanza stupefacente. Ma subito dopo la sua morte sono emerse diverse incongruenze. Una di queste riguarda il registro entrata/uscita dall’infermeria del carcere relativo al mese di aprile di quell’anno. L’avvocato della famiglia di D’Innocenzo ha segnalato le discordanze tra le dichiarazioni degli agenti penitenziari e quelle degli addetti all’infermeria. Secondo i primi D’Innnocenzo sarebbe stato portato in infermeria per le cure, per i secondi questo fatto non sarebbe mai accaduto. C’è poi il giallo sulla siringa che non sarebbe mai stata ritrovata nella cella. Sul caso si è espressa, lo scorso marzo, la senatrice di Alleanza Verdi e Sinistra Ilaria Cucchi che ha dichiarato: “Morti come quelle di D’Innocenzo meritano una spiegazione, meritano verità e giustizia”. Roma. San Camillo, il tunisino Wissem ucciso in Psichiatria da farmaci sbagliati di Giulio De Santis Corriere della Sera, 17 novembre 2023 Il pm ha chiesto l’archiviazione per 3 medici, fra cui il responsabile del reparto, indagato anche per sequestro di persona. Il giovane migrante era ricoverato perché affetto da schizofrenia psicoaffettiva. Due medicinali, dati senza alcuna prescrizione, avrebbero provocato la morte di Wissem Ben Abdel Latif, il 26enne tunisino deceduto il 28 novembre 2021 al San Camillo dove era ricoverato in Psichiatria. Ad aver somministrato i farmaci sarebbe stato D. S., 48 anni, infermiere, che rischia di finire sotto processo con l’accusa di omicidio colposo per la morte del ragazzo, sbarcato da clandestino il 2 ottobre a Lampedusa. Il pm Attilio Pisani ha (di fatto) chiuso l’inchiesta, atto che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio. Allo stesso tempo il pm ha avanzato una richiesta di archiviazione nei confronti di tre medici, difesi dall’avvocato Alberto Valerio Lori. Uno di loro è il responsabile del reparto, indagato anche per sequestro di persona. Il 26enne infatti è stato tenuto legato alla barella ma - è emerso - per ragioni di sicurezza legate alla sua salute, essendo affetto da schizofrenia psicoaffettiva diagnosticatagli all’arrivo in Italia. Di conseguenza, l’ipotesi di sequestro di persona non sarebbe configurabile. La malattia e il sogno di andare in Francia - Drammatica la storia di Wissem, i cui familiari sono assistiti dall’avvocato Francesco Romeo. Approdato a Lampedusa in modo avventuroso, subito il giovane chiede protezione internazionale. La sua meta è la Francia, dove all’epoca vive lo zio, dipendente di una pizzeria. Il sogno di Wissem è lavorare con lui. Trasferito nel Cpr (Centro di permanenza per i rimpatri) di Ponte Galeria, manifesta segnali di insofferenza. Trasportato al San Camillo, i medici decidono di ricoverarlo. Ma a causa della mancanza di posti nel reparto, il ragazzo viene sistemato su una barella e anche legato. Per calmarlo, gli vengono date due medicine. Ma l’effetto non è quello che doveva essere. Wissem muore il 28 novembre. Cuneo. Inchiesta sulle torture nel carcere: i detenuti in tribunale confermano le accuse di barbara morra La Stampa, 17 novembre 2023 Due giorni di full immersion per avvocati, giudici e pubblici ministeri in tribunale, a Cuneo, per l’indicente probatorio sull’inchiesta delle presunte torture nel carcere del Cerialdo. Le udienze di mercoledì e ieri sono servite per ascoltare le versioni dei detenuti che hanno raccontato di essere stati picchiati, vessati e insultati ripetutamente dagli agenti di polizia penitenziaria. In particolare si tratta di quattro persone di origini pakistane presunte vittime di un blitz in cella nella notte tra il 20 e 21 giugno di quest’anno. Mercoledì le audizioni sono durate dalle 10 alle 19 e ieri un po’ meno ma sempre per un tempo considerevole. La richiesta dell’incidente probatorio al giudice per le indagini preliminari era arrivata dal sostituto procuratore Mario Pesucci che coordina l’indagine svolta dal reparto di vigilanza interno della stessa polizia penitenziaria. Motivo: fissare la prova delle denunce evitando di ritrovarsi in un eventuale processo senza i testimoni “chiave”, tutti immigrati che, una volta usciti dal carcere, potrebbero decidere di tornare nel loro Paese. “Il mio assistito ha confermato quanto già detto agli inquirenti in fase di sommarie informazioni (in sostanza la denuncia ndr), anche rispondendo punto su punto alle domande dei difensori - commenta Giulia Margherita Barone, avvocato che assiste uno dei detenuti trasferito insieme agli ex compagni di cella in un altro carcere -, l’impianto accusatorio regge, ora attendiamo le mosse della Procura”. Anche per il procuratore Onelio Dodero l’incidente probatorio “è andato molto bene” segno che, dalla prospettiva dell’accusa nell’udienza, che si è tenuta a porte chiuse, le presunte vittime hanno confermato quanto già denunciato nei mesi scorsi. I detenuti sentiti sono stati in tutto cinque, quattro pakistani e un indiano. È saltato l’esame per due dei denuncianti perché uno era ammalato e un altro, già fuori dal carcere, irreperibile. In tutto sono 23 gli agenti accusati di torture su detenuti ma in particolare sono sedici quelli indagati per aver condotto il presunto blitz nella cella 417, perlopiù poliziotti fuori servizio, alcuni in abiti civili. Secondo le accuse la spedizione punitiva dello scorso giugno sarebbe nata dalla voglia di punizione per la protesta che quattro detenuti di origini pakistane avevano messo in atto nel pomeriggio per far sì che il connazionale della cella vicino venisse visitato essendo in preda a forti dolori. Nella ricostruzione alcuni agenti sarebbero entrati nella cella sferrando calci, pugni oltre che proferire insulti e minacce. La scena si sarebbe poi spostata vicino all’infermeria, gli agenti avrebbero interrotto la visita in corso del medico di turno per dire che i cinque pakistani, compreso quello che stava male già prima, non erano da visitare prima di essere messi in isolamento “perché stanno tutti bene”. Uno dei pakistani malmenati la mattina del 21 aveva il colloquio con il proprio avvocato che, vedendolo con il volto tumefatto, fece immediata segnalazione. Un rincaro di dose per la Procura che già dall’autunno del 2021 stava tenendo d’occhio i comportamenti di un gruppo di agenti sui 150 in servizio nel penitenziario. All’incidente probatorio hanno partecipato anche gli avvocati difensori degli imputati. “Non è cambiato nulla rispetto a quello che è già emerso dalle indagini - dice uno di questi - anzi alcune posizioni sono addirittura migliorate”. I prossimi passi del procedimento li detterà la Procura che dovrebbe formulare le richieste di rinvio a giudizio scoprendo le carte sugli elementi probatori a sua disposizione. Roma. Carcere, è tempo di andare oltre i diritti di Ilaria Dioguardi vita.it, 17 novembre 2023 Un incontro dedicato alla condizione dei detenuti transgender, che si è svolto a Roma, è stato l’occasione per riflettere sullo stato della detenzione in Italia. Tante le carenze e le difficoltà: assenze strutturali, mancanza di un dibattito pubblico serio, vuoto istituzionale sul post carcere. Secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, che dalla fine degli anni Ottanta si occupa di diritti e garanzie nel sistema penale, sono soltanto sei dei 189 istituti penitenziari presenti nel nostro paese quelli che accolgono le 72 persone transgender attualmente detenute. “Per loro la reclusione diventa l’espiazione di una colpa verso una società che a oggi non si è ancora rivelata capace di tutelare i loro diritti. Malgrado le convenzioni internazionali impongano alle autorità penitenziarie la tutela della salute dei detenuti, sono ancora troppe oggi le mancanze oggettive e assolutamente insufficienti le soluzioni messe in atto per compensarle”, ha detto Flavia De Gregorio, membro della Commissione Politiche sociali di Roma che ha organizzato Qui non finisce tutto: più diritti nelle carceri, terzo di un ciclo di convegni dedicato alla comunità transgender. Il nome dell’incontro prende spunto dalla frase “Qui finisce tutto”, con cui Cloe Bianco, ex professoressa transgender vittima della transfobia, scelse sul suo blog, nel giugno del 2022, di dire addio alla vita prima di suicidarsi. “La sezione transgender di Rebibbia, inaugurata alla fine degli anni Settanta, è nato come carcere modello per il mondo intero. Era l’unico carcere in Italia che, nel carcere maschile, aveva una sezione transgender”, ha affermato Leila Pereira, presidente di Libellula aps. “Abbiamo iniziato dalla fine degli anni Novanta, con la nostra associazione, a organizzare dei progetti con la sezione transgender. Dovevamo togliere anche tanti pregiudizi, presenti nel carcere. Ad esempio, le transessuali non potevano avere vestiti da donna né parrucche. Siamo riuscite a ottenere che possano indossare parrucche (sobrie) e vestiti da donna. Ma c’è ancora tanto da fare, per quanto riguarda i pregiudizi”. “Manca molto fare cultura intorno al tema delle carceri, in particolare delle detenute transessuali. Roma è stata 20 anni fa la prima città a istituire la figura del garante delle persone private della libertà personale”, ha affermato Valentina Calderone, che ricopre questo ruolo per Roma Capitale. “Nel corso di 20 anni il ruolo si è molto modificato, è una figura di garanzia che non ha poteri dispositivi ma di monitoraggio, dialoga con le altre istituzioni. Chi vive in detenzione è un pezzo del nostro Paese, della nostra città: non li vediamo in giro, ma abitano il nostro territorio. Bisogna ricomprendere questo pezzo di città, riconoscerla e provare a trovare soluzioni per agire insieme. Quando si entra in carcere si ha la sensazione che finisca tutto, bisogna lavorare per trovare delle connessioni con il fuori, dove si tornerà. Dobbiamo trovare dei percorsi che abbiano senso e diano una prospettiva di futuro”, ha continuato Calderone. “Molti studi, soprattutto europei, dimostrano che, nella stragrande maggioranza dei casi, una donna autrice di reato ha subito violenza nella sua vita: economica, familiare, domestica, psicologica. Questo può essere connesso o indipendente ma è un dato di fatto. Questo è ancora più vero con le donne trans. Nella loro esperienza di vita hanno avuto momenti di prevaricazione e di violenza nel 99% dei casi”. “Ha ancora senso il carcere? E se ha senso, lo ha per tutti? Sono domande che restano tali, ma la mia io ce l’ho, è un no fragoroso. Io ho l’esperienza del carcere, vivo la luce riflessa di quel dolore attraverso le voci dei miei assistiti, delle loro mamme, dei loro bambini, delle loro storie. Chiunque abbia visto il carcere dalle celle, abbia visitato i reparti dei primi giunti, dei tossicodipendenti, dei protetti sa bene che la dignità lì non c’è, neanche come ipotesi”, ha detto Maria Brucale, avvocato penalista, membro del Direttivo Nessuno tocchi Caino. “In ogni cella ci sono quattro persone, spesso di etnie differenti, che quindi hanno vite, abitudini, culture diverse, che condividono uno spazio asfittico in cui ci sono letto, cucina, gabinetto che afferiscono a tutte le esigenze del vivere in totale promiscuità: spesso hanno assai meno di tre metri quadrati di superficie ognuno, a disposizione, come scritto nella Cedu (Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ndr). Non è un luogo in cui mangi, ti fai la doccia, dormi in modo decoroso. Già questo è un concetto di dignità che viene meno. Poi c’è un altro tipo di dignità”. Nell’articolo 1 dell’ordinamento penitenziario si legge: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Esso è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a sesso, identità di genere, orientamento sessuale, razza, nazionalità, condizioni economiche e sociali, opinioni politiche e credenze religiose, e si conforma a modelli che favoriscono l’autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l’integrazione”. “Ciascuno di questi elementi è stato inserito nel corso del tempo per sopperire ad alcune discriminazioni. Più si inseriscono le discriminazioni da non fare, più la norma dell’ordinamento penitenziario sarà discriminante perché lascerà fuori sempre qualcuno di quei “milioni di colori” che sono le persone detenute”, ha continuato Brucale. “L’anno scorso si è raggiunto in Italia il più alto numero di suicidi in carcere, 85. Inoltre, c’è un numero indefinito di morti in carcere, che non si sa come sono morti. C’è una solitudine nel carcere che è fatta di tante assenze strutturali (di risorse, materiali) e soprattutto manca un dibattito pubblico concreto, leale, serio e onesto”. “Lavoro nel carcere femminile di Rebibbia e nella sezione transgender che è nel carcere maschile di Rebibbia”, ha affermato Francesca Tricarico, ideatrice del progetto teatrale Le Donne del Muro Alto e regista. “Dopo 15 anni mi chiedo ancora perché abbia deciso di fare questo lavoro con le donne, non è affatto facile. La donna in carcere spesso ha anche tutti i suoi familiari, questo la porta ad avere meno fiducia negli altri, a sentirsi abbandonata, molte volte ha una situazione economica difficile. Ho deciso di lavorare nella sezione femminile e nella sezione transgender perché, se i detenuti uomini sono gli invisibili, le detenute donne sono gli invisibili degli invisibili e i transgender sono gli invisibili degli invisibili degli invisibili. Non siamo ancora pronti ad accettare che siano le donne a commettere dei reati, così devono subire un doppio stigma”, ha continuato Tricarico. “Le donne hanno un coraggio emotivo enorme, hanno voglia di riscatto, di dare luce. Nella maggior parte dei casi, sono le responsabili dell’educazione dei loro figli: dare dignità alle donne significa dare dignità ai loro figli”. “Il lavoro che facciamo nelle carceri serve un decimo ai detenuti, serve soprattutto a noi, alla società esterna. Il problema più grande è la società civile, che ha paura della verità. Perché è così forte il teatro in carcere? Perché i nostri spettacoli sono sempre sold out? Perché il teatro in carcere non ha paura di guardarsi dentro, di porsi delle domande, in una società che ha sempre più paura di farsi delle domande perché non le piacciono le risposte. Ancor di più perché alla società non piace chiedersi dove siamo, teme la verità perché vuol dire guardare quello che siamo stati. Invece ci piace sempre ripercorrere gli stessi viaggi, è una società che ha paura di riconoscere i propri bisogni”, ha proseguito Tricarico. “Fare teatro in carcere è ascoltare l’altro. Questa è la forza di queste attività, che abbiamo trasformato anche in attività di inclusione lavorativa. L’importante è l’apertura verso l’esterno. La post detenzione è caratterizzata da un vuoto istituzionale importante: è importante l’attività di inclusione lavorativa. Per questo, con la mia compagnia teatrale de Le Donne dal Muro Alto, ho deciso da qualche anno di lavorare anche con ex detenute e ammesse alle misure alternative alla detenzione. Sarebbe importante partire dal linguaggio, le parole sono azioni: le persone in carcere non vanno rieducate, il termine rieducazione dovremmo abolirlo”. Il linguaggio di odio sta corrodendo le nostre democrazie di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 17 novembre 2023 I social network finiscono per fare da detonatore di malessere e intolleranza. Ricominciamo dalla cura delle parole. Una realtà odiante sta corrodendo le nostre democrazie. Online e offline. Abbiamo smesso di ascoltarci, anche di parlarci. Perché noi, ormai, gridiamo. E più le cose sono complesse, più semplifichiamo con un gesto: alziamo il volume. L’ebbrezza dei decibel ci mette al riparo dalla fatica delle obiezioni degli altri come dai vizi nel nostro stesso discorso. Ci protegge dal dolore che bussa al muro degli slogan, ci scherma dalla paura di non riuscire a intravedere che cosa verrà “dopo”. Oppure - al capo opposto della fune - ammutoliamo, se possibile andiamo a dormire presto la sera. Il linguaggio d’odio - scrive Marilisa D’amico, costituzionalista e prorettrice dell’Università degli Studi di Milano, nel suo Parole che separano (Raffaello Cortina Editore) - sta conquistando spazi sempre più vasti nel perimetro della nostra società e il ricorso incessante ai social network agisce da “detonatore di malessere e intolleranza”. Che cosa sta cambiando, o è già cambiato, non ci siamo sempre un po’ detestati tutti e tutte? Perché Internet è “un detonatore”? Perché allunga la durata nel tempo di ogni contenuto infiammabile depositato in Rete; perché lo rende virale grazie alle condivisioni convulse; perché garantisce l’anonimato agli avvelenatori; perché spalanca percorsi transnazionali in un impero senza confini statali. L’ hate speech, come ci siamo abituati a chiamarlo, sta mettendo alla prova il nostro sistema di convivenza liberale. La verità è che ci sta mettendo nei guai. Lo abbiamo visto in questi anni di eventi straordinari - la pandemia, la catastrofica ritirata dall’Afghanistan, poi la guerra in Ucraina, infine quella tra Israele e Hamas. Non riusciamo più a discuterne provando a stringere compromessi che sono patti coraggiosi. Ci sembra di non avere tempo. O forse intuiamo che addentrarci in un sottobosco spinoso di torti e ragioni richiederebbe attenzione e pure profondità. Viviamo, sopravviviamo, in stati di alterazione costante che diventano una messinscena e ci permettono di nasconderci dietro le quinte. Le risse sui social. L’animosità dei dibattiti tv, spesso riproposti selezionando “i punti salienti” pericolosamente fuori contesto. L’ostilità che ci sorprende per strada, nel traffico, anche a cena. A riflettere bene, questo frastuono non fa che distorcere, banalizzare, sminuire. Sono meccanismi noti a chi ha studiato l’antisemitismo, che è una forma mai spenta di odio senza ragioni, contagioso, come dimostra Milena Santerini con la raccolta di saggi inclusi nel volume L’antisemitismo e le sue metamorfosi (Giuntina). Le strategie contro il linguaggio d’odio toccano alle istituzioni, ai regolatori, ai giganti tecnologici divenuti padroni delle nostre esistenze, alle scuole. Ma la cura delle parole riguarda ciascuno di noi. Durante gli anni del nazismo, un filologo di Dresda, Victor Klemperer, ebreo, prese ad annotare sul suo diario i cambiamenti a cui veniva costretta la lingua tedesca. La “distruzione della lingua” precede e accompagna lo smantellamento dei diritti umani, era la sua teoria. La sintassi svuotata, la forzatura del lessico, la povertà delle metafore belliche, l’abuso di virgolette ironiche e la scomparsa della punteggiatura, i nomi che diventano iniziali che diventeranno numeri. Il nazismo è, speriamo, chiuso in un secolo finito. Ma alcuni passaggi del Taccuino di un filologo risuonano, in un altro millennio e mondo, non così lontani. Dovremmo resistere alla tentazione di alimentare una staffetta di emozioni e non temere la lentezza dei ragionamenti; dovremmo proteggere la gioia di parlare una lingua, la nostra, così ricca di sfumature e libere costruzioni; potremmo tornare a persuadere invece di voler a tutti i costi convincere. Parlare, parlarci per esprimere la nostra identità, per scoprire - in pace - quella di chi sta attorno. La solitudine uccide giovani e anziani di Chiara Saraceno La Stampa, 17 novembre 2023 Di solitudine ci si può ammalare. Può diventare una malattia che riduce la voglia di vivere, la capacità di sperare, di avere fiducia in se stessi e negli altri ed allo stesso tempo aumenta i rischi di ammalarsi di malattie convenzionalmente definite come tali, ad esempio, tra gli adulti e anziani, Alzheimer, deficit cognitivi, malattie cardiache. Presenta rischi di mortalità simili a quelli associati al fumare 15 sigarette al giorno, all’essere obesi, al non fare attività fisica, all’inquinamento. Non si tratta di un fenomeno marginale e neppure limitato ai paesi sviluppati, dove i legami comunitari sono più deboli. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, la solitudine sta diventando un problema sanitario globale, che attraversa tutti i confini nazionali, di grado di sviluppo, di età. Si ritiene che la solitudine sia un’esperienza che riguarda prevalentemente gli anziani, perché, a causa dell’età e del venir meno di alcuni ruoli e attività, hanno reti sociali più ristrette. Molte iniziative che vanno sotto l’etichetta dell’invecchiamento attivo sono intese proprio a contrastare questo progressivo restringimento di attività e delle relazioni e senso di sé che ne deriva, con conseguenze anche sulla salute fisica e mentale. La stessa Oms ha dapprima affrontato la questione della solitudine e del suo impatto sulla salute solo per quanto riguarda gli anziani. Eppure - secondo i parziali dati disponibili - la solitudine, con le sue conseguenze negative sul benessere, riguarda nel mondo anche tra il 5 e il 15% degli adolescenti, con un’incidenza superiore in Africa, dove toccherebbe punte del 17,2%, rispetto al 5,3% in Europa, smentendo l’idea che la solitudine sia una malattia, o persino un lusso, dei ricchi e/o la conseguenza dell’individualismo. La solitudine non coincide con il vivere da soli, condizione diffusa tra gli anziani, specie le anziane, nelle società sviluppate. Si può vivere da soli ma essere/sperimentarsi parte di, inclusi in una rete sociale che fornisce non solo aiuto, ma anche senso di sé, fiducia. Viceversa si può vivere con altri e sentirsi esclusi, o isolati. Succede in famiglia, a scuola, sul lavoro, nella propria comunità. Si parla di solitudine come esperienza di isolamento, di non poter contare su legami significativi, di non essere compresi, di non appartenenza. Secondo la rappresentante africana della gioventù che fa parte della Commissione, tra i giovani africani la solitudine scaturisce dal vivere in contesti in cui la pace è sempre in pericolo, la sicurezza anche personale fragile, i tassi di disoccupazione elevati, le prospettive per il futuro incerte. In questa descrizione, che può riguardare anche molti giovani europei in particolare italiani pur con le dovute distinzioni, emerge come, lungi all’essere vuoi un rischio, vuoi un lusso della ricchezza, la solitudine sia una malattia che colpisce chi è più vulnerabile a livello sociale. Soprattutto per quanto riguarda gli adolescenti e i giovani, il fenomeno è emerso durante la pandemia Covid19, quando le relazioni sociali faccia a faccia sono state a lungo interrotte e il tempo quotidiano si è dilatato, perdendo forma e struttura. Ma probabilmente la situazione pandemica ha fatto da detonatore a un fenomeno già presente anche tra gruppi sociali e di età, oltre che in aree del mondo, che ne venivano considerati al riparo. Per dare seguito a questa consapevolezza l’Oms ha appena istituito una commissione di esperti perché fornisca consigli e indicazioni sull’impatto dei legami sociali sul benessere. Non vi è dubbio che i concetti di solitudine e di connessione sociale siano complessi e in parte controversi, e i loro indicatori di non agevole individuazione. È tuttavia interessante e importante che le esperienze che richiamano, le condizioni soggettive ed oggettive di isolamento sociale e il malessere che producono, comincino ad essere definiti anche una questione di salute, individuale e sociale. Migranti in Albania? Chi esamina le domande d’asilo sciopera di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2023 “Procedure accelerate? 85mila pratiche da smaltire e siamo pochi”. A scioperare ci sono anche i lavoratori del ministero dell’Interno che lavorano nelle commissioni di valutazione delle domande d’asilo dei migranti. Il governo continua a promettere esami accelerati e rimpatri veloci. Ma chi si è dato appuntamento il 17 novembre a Roma, dalle 11.00 di fronte alla Commissione nazionale per il diritto di asilo di via Santi Apostoli, ci mette poco a costringere Meloni e soci a un bagno di realtà, accordo con l’Albania compreso. Lo sciopero, che arriva dopo mesi di agitazione, è stato indetto da Fp Cgil (Funzione pubblica) proprio per le carenze nell’organico e i carichi di lavoro insostenibili a fronte dell’immenso arretrato. Ma anche per lo svilimento di personale altamente qualificato che in piazza porterà lo striscione “tutelare il diritto d’asilo, tutelare la professionalità”. “Vogliono risolvere problemi politici con soluzioni amministrative senza i mezzi per farlo, e col decreto Cutro le cose sono ulteriormente peggiorate”, avverte Adelaide Benvenuto, coordinatrice nazionale Fp Cgil ministero dell’Interno. Altro che protocollo con l’Albania e migliaia di domande d’asilo al mese. L’Italia non ha i mezzi nemmeno per processare in tempi ragionevoli quelle che esamina sul suo territorio. A dirlo sono i lavoratori assunti al Viminale, esclusivamente per le commissioni d’asilo, tra il 2018 e il 2019. Con il concorso indetto dall’allora ministro Marco Minniti per affrontare l’enorme arretrato e scongiurare le sanzioni Ue, ne sono entrati 400. “Personale altamente qualificato, tanto che molti hanno poi vinto altri concorsi, intrapreso carriere diplomatiche o prefettizie. Così in organico sono rimasti appena in 200”, spiega Benvenuto. Le condizioni di lavoro? “Pazzesche, hanno 85mila pratiche da smaltire e ritmi ormai insostenibili per un compito delicatissimo”. E se da un lato il ministero chiede di velocizzare le audizioni dei richiedenti, dall’altro manca addirittura il personale di supporto. “Così molte commissioni devono interrompere le audizioni per occuparsi della decretazione, che era di competenza di funzionari amministrativi e adesso tocca a chi è stato assunto con funzioni specialistiche e si sente abbandonato e dequalificato”, racconta Benvenuto. “Le audizioni possono durare anche tre ore, dobbiamo studiare e fare ricerca per poter istruire il fascicolo, oltre alla difficoltà di trovare interpreti e mediatori culturali. Infine dobbiamo fare una proposta e partecipare alle riunioni collegiali dove si decide l’esito finale”, spiega una funzionaria ministeriale che aderirà allo sciopero ma chiede di restare anonima. “Si proclama un’accelerazione ma siamo stati caricati di lavoro e il lavoro è rallentato, altro che procedure accelerate”. Cioè? “Carichi enormi, locali spesso non idonei alle audizioni, personale ridotto, assenza di quello di supporto e di segreteria. E come non bastasse il decreto Cutro emanato dal governo ha aumentato gli adempimenti a nostro carico, rallentando le procedure anziché velocizzarle”. Ad esempio? “Quando una domanda viene respinta, nel nostro decreto dobbiamo inserire anche la notifica che impone allo straniero di lasciare il Paese, cosa che non è pertinente perché noi ci occupiamo di protezione internazionale, non di quello che compete a Prefetture e Questure, peraltro anch’esse sotto organico. Insomma, è tutto intasato”. Così il recente accordo siglato da Giorgia Meloni e dal premier albanese Edi Rama, che punta a portare in Albania fino a 39mila migranti in centri gestiti dall’Italia sotto giurisdizione italiana sembra una chimera. “Non mi pare una cosa attuabile, a meno di non fare cose pasticciate”, dice la funzionaria. E l’ipotesi di fare le audizioni a distanza, in videoconferenza? “Da tempo si parla di far partire la registrazione delle nostre audizioni, ma dopo anni di attesa nemmeno questo si è riusciti a fare”. E se in Albania fosse diverso? “Già è complicato capirsi in presenza, avere interpreti bravi è spesso un’impresa che motiva le tante ore di audizione. Figuriamoci a distanza, non oso immaginarlo”. Spesso le persone che ascolta hanno subito violenze, abusi, mostrano ferite e cicatrici. “Poi ci sono ferite che non si vedono ma sono più difficili da trattare e a volte emergono dai silenzi, da reazioni non controllate che solo in presenza posso cogliere per capire se la persona ha vulnerabilità ed esigenze particolari”. E con amarezza ammette: “Coi ritmi imposti diventa ancora più difficile gestire i traumi altrui”. Di che stupirsi? “Al ministero dell’Interno i servizi all’immigrazione sono tutti gestiti così: uffici disastrati dove una domanda di cittadinanza mediamente aspetta due anni, per non parlare delle prefetture: in quella di Roma ci sono ancora 8mila pratiche per l’emersione dei lavoratori in nero avviata nel 2020”, ricorda Benvenuto della Cgil. Che considera “aberrante” la possibilità, prevista dallo stesso dl Cutro, di inserire nelle commissioni territoriali funzionari amministrativi senza preparazione. “Infatti i rari esperimenti sono naufragati perché questa gente non aveva idea di cosa sia la protezione internazionale”, commenta chi nelle commissioni lavora. Tanto che la trovata è al momento lettera morta e discutere di Albania pare assurdo. “Non si vogliono fare nuove assunzioni e al Viminale di concorsi non si parla - chiude Benvenuto -, ma se il personale è sempre il nostro avrà l’obbligo di offrire le stesse garanzie: mi sembra solo un’operazione di propaganda”. Tre guerre risvegliano i fantasmi del Novecento di Massimo Nava Corriere della Sera, 17 novembre 2023 Il Medio Oriente ha oscurato nei media lo scontro in Ucraina e quasi non si sente parlare dell’Armenia. In meno di due anni, tre guerre hanno risvegliato quasi contemporaneamente i fantasmi della Storia del Novecento, alimentando nelle popolazioni coinvolte la paura collettiva della sopraffazione, della pulizia etnica, del genocidio. Il conflitto in Medio Oriente ha oscurato nei media quello in Ucraina e quasi non si sente parlare dell’Armenia, ma queste tre guerre apparentemente lontane nella loro genesi hanno in comune la Storia di terre contese, di popoli calpestati, di identità negate e ingigantiscono la paura che questa Storia continui a ripetersi. L’invasione russa ha risvegliato nelle vecchie generazioni di ucraini e trasmesso nei giovani il ricordo delle persecuzioni staliniane, dell’Holomodor, l’immensa carestia, le deportazioni di contadini, i milioni di morti. Gli armeni Nagorno-Karabakh, scacciati dalla loro enclave dall’esercito dell’Azerbajan, hanno rivissuto le pagine del loro genocidio, mai riconosciuto dai vicini turchi, il “Medz Yeghern”, la grande strage dei cristiani. Gli ebrei - è cronaca di questi giorni - avvertono un senso di insicurezza dopo l’attacco perpetrato da Hamas in confini che ritenevano protetti da un esercito potente e tecnologicamente sofisticato. La reazione perpetrata a Gaza, che molti ritengono eccessiva, ha suscitato proteste in tutto il mondo e risvegliato i germi dell’antisemitismo. Ma anche i palestinesi, da decenni vessati, decimati, deportati, hanno rivissuto la condanna collettiva che nella loro storia va sotto il nome di “Nakba”. Qui non si discute l’unicità dell’Olocausto, ma il fatto che Shoa, Holomodor, Nakba, Medz Yeghern abbiano in comune una dimensione esistenziale di difesa dell’identità collettiva e di resistenza contro un nemico esterno - invasore o usurpatore o terrorista - che nega il diritto a vivere nella terra dei padri. “I morti non parlano, i vivi ammutoliscono, per questo le tragedie si ripetono”, ammoniva lo scrittore Ivo Andric pensando alle carneficine balcaniche. Le tragedie del passato tendono appunto a ripetersi e questa dimensione esistenziale di trauma storico collettivo supera la dimensione della politica, ne diventa strumento di consenso, nelle mani delle elite politiche e militari. Non è casuale il riferimento costante al Nazismo, come suprema ideologia di annientamento di un popolo, ma anche come bolla malefica sul nemico che ci minaccia. Così “nazisti” diventano i russi, gli azeri, i guerriglieri di Hamas. “Denazificare Gaza” è l’imperativo di Israele. Ma anche Putin, a ben vedere, ha parlato di “denazificazione” dell’Ucraina e ha giustificato l’invasione con la pretesa difesa della terra russa accerchiata dall’Occidente e dalla Nato. Questo scenario di paure e di spettri ha stravolto le funzioni specifiche degli Stati come garanti di confini, sovranità e sicurezza collettiva. Esiste soltanto una logica di guerra che rafforza a dismisura il potere di chi lo detiene e - anche nelle democrazie - la discrezionalità quasi personale delle decisioni. Ma più la logica di guerra pervade gli apparati e la società civile, più la memoria delle tragedie passate ritorna prepotentemente nella vita quotidiana, alimenta la paura del vicino, l’odio etnico e religioso nei confronti di chi, almeno fino al giorno prima, ci viveva accanto. Ancora più grave il fatto che, come un sasso nello stagno, questa paura, corroborata da ignoranza e propaganda, si riverbera senza ragione apparente anche laddove non si combatte e non c’è ragione di combattere. È quanto sta avvenendo in molte città europee. Non dovrebbero mancare e non mancherebbero in realtà gli antidoti a questa spirale terribile. In primo luogo, la capacità della società civile di tenere viva la memoria. Ma non soltanto oggi, sull’onda emotiva dei conflitti, ma in tempo di pace, quando invece il ricordo è spesso ridotto a un esercizio retorico di anniversari e celebrazioni. In secondo luogo, una più decisa presenza delle istituzioni internazionali per colmare la debolezza degli Stati e l’irresponsabilità o inadeguatezza delle leadership. Ma è improbabile che ciò avvenga se l’arbitro è paralizzato da veti incrociati e costantemente delegittimato quando assume una posizione. Crimini di guerra e crimini contro l’umanità si moltiplicano e difficilmente saranno puniti. Violazioni del diritto internazionale sono all’ordine del giorno, ma difficilmente verranno condannate e forse nemmeno riconosciute, nonostante l’evidenza di conflitti in cui la posta in palio è appunto lo spazio d’influenza territoriale a spese delle popolazioni. È evidente per Russia, Iran, Turchia e Azerbajan, direttamente o per procura. È un dato storico per Israele e Palestina. Donbass, Gaza e Nagorno-Karabakh, con la loro scia di morti e distruzioni, sono a loro volta lo “scalpo” di una partita più ampia fra grandi potenze e potenze regionali che si snoda sulle rotte energetiche e sulle risorse naturali. Così il cerchio si chiude. Le tragedie del passato si ripetono, ma oggi sarebbe più corretto, benché cinico, definirle danni collaterali. Medio Oriente. Gli ospedali arma di guerra, tra diritto internazionale e scudi umani di Hamas di Giovanni Legorano Il Domani, 17 novembre 2023 Lo spettro dei crimini di guerra aleggia sul conflitto di Gaza dal suo inizio. I timori che la risposta israeliana potesse essere sproporzionata rispetto all’attacco subito dal Paese ebraico il 7 ottobre e potenzialmente in violazione del diritto internazionale sono emersi da subito. In questo contesto, la sicurezza degli ospedali di Gaza è diventato il tema più controverso. Da quando i bombardamenti della Striscia sono iniziati, decine di migliaia di civili hanno trovato rifugio negli ospedali, per poi scappare altrove quando le condizioni di sicurezza si aggravavano anche in quei luoghi. Al centro delle controversie negli ultimi giorni è l’ospedale Al Shifa, il più grande di Gaza. Dopo giorni di assedio, che stando al Ministero della Sanità di Gaza aveva già causato la morte di decine di pazienti per mancanza di carburante per far funzionare i generatori di corrente e di altri mezzi di sussistenza, l’esercito israeliano è entrato nell’ospedale. La ragione data dalle autorità israeliane per l’offensiva sull’ospedale è che Hamas vi aveva costruito sotto i quartieri generali di un commando di miliziani, nei famosi tunnel estesi nel sottosuolo dell’intera enclave. Sia Hamas che lo staff dell’ospedale hanno negato che ci fosse quella struttura, sostenendo che Hamas non abbia mai usato i civili di Gaza come scudi umani perché ciò viola i loro principi religiosi e morali. Non solo gli ospedali ma tutte le unità mediche, incluse le ambulanze, sono protetti dal diritto internazionale umanitario, il corpo di regole che protegge i civili in tempo di guerra. I feriti, i malati e il personale medico e paramedico gode di una protezione internazionale ancora più forte. Tra questi figurano anche le persone ferite in combattimento. Le eccezioni riguardano i casi in cui queste strutture mediche vengano usate per atti ostili al nemico, secondo i dettami delle norme internazionali. In questi casi ipotetici, l’ospedale perderebbe la protezione. In caso di dubbio vi è la presunzione che l’ospedale di rimanga protetto: è necessario che ci siano prove schiaccianti dell’uso distorto della struttura affinché perda la protezione legale. La versione di Israele - Mercoledì, le forze armate israeliane avevano detto in un comunicato diffuso sul Telegram di aver ucciso un numero imprecisato di miliziani di Hamas entrando all’ospedale e di aver trovato armi e altro materiale bellico appartenente all’organizzazione islamista, che confermerebbe l’ipotesi che l’ospedale fosse usato come loro centro operativo. L’esercito stava operando nell’ospedale, cercando di salvaguardare la sicurezza del personale medico e dei pazienti, dice il comunicato. In un video girato dalle forze armate israeliane, si vede un portavoce dell’esercito, il tenente colonnello Jonathan Conricus, che mostra fucili, granate e altre armi ritrovate nella sala dell’ospedale dove si effettuano le risonanze magnetiche, kalashnikov e munizioni in armadi, nonché computer nascosti tra medicine dove l’esercito spera di trovare informazioni sulla struttura militare di Hamas. “Le armi non c’entrano nulla con l’ospedale. Usano questo posto, come atri ospedali, ambulanze o altri siti sensibili per i loro scopi militari illeciti”, dice Conricus. “Le cose che abbiamo trovato confermato senza alcuna ombra di dubbio che Hamas usa sistematicamente gli ospedali per le operazioni militari in violazione del diritto internazionale. E quello che abbiamo trovato penso sia solo la punta dell’iceberg”. Tuttavia, per ora l’esercito israeliano ha fornito prove considerate insufficienti da molti osservatori, inclusi alcuni media internazionali, per dimostrare l’esistenza di una struttura militare sotto l’ospedale. L’esercito ha permesso a una troupe dell’emittente britannica Bbc di entrare nell’ospedale e ha mostrato loro le armi che sarebbero appartenute ad Hamas. Tuttavia, non li ha autorizzati a parlare col personale medico o i pazienti. Ieri Conricus ha detto alla tv britannica che le operazioni all’ospedale più grande di Gaza sarebbe probabilmente continuate per settimane, confermando che i soldati erano ancora all’interno della struttura, con l’intenzione di perquisirne ogni parte. Le altre strutture - Al Shifa non è l’unico caso di ospedale che gli israeliani accusano Hamas di usare come centro operativo o nascondiglio. Ieri pomeriggio, la Mezzaluna Rossa Palestinese, organizzazione che opera a Gaza come parte della Federazione Internazionale della Croce Rossa, ha segnalato che carri armati israeliani avevano circondato l’ospedale Al Ahli e che un violento attacco era in corso. “Le nostre equipe non possono muoversi e raggiungere le persone ferite” ha detto la Mezzaluna Rossa in un breve comunicato. Mercoledì, sette membri dello staff dell’ospedale da campo giordano nel nord di Gaza sono rimasti feriti in quello che il ministero degli Esteri di Amman ha affermato essere stato un attacco aereo israeliano. Il personale è stato colpito mentre prestava aiuto ai palestinesi feriti che erano arrivati all’ingresso del pronto soccorso dell’ospedale, ha detto il ministro giordano Ayman Safadi in un’intervista alla Cnn. Lunedì, invece, l’esercito aveva diffuso un video dell’ospedale pediatrico Rantisi al nord della Striscia, dove i soldati erano entrati durante il fine settimana, che mostrava armi che sostenevano di aver trovato dentro l’ospedale e stanze del seminterrato dove ritengono che Hamas avesse nascosto alcuni dei circa 240 ostaggi catturati il 7 ottobre. Gran Bretagna. La Corte suprema dichiara illegale il piano del governo per trasferire i migranti in Ruanda Il Domani, 17 novembre 2023 L’accordo era già stato impugnato da diverse corti minori dopo le critiche da parte della società civile. Il governo britannico, in attesa del giudizio della corte suprema, ha comunque continuato il suo progetto di costruzione dei centri per migranti nel paese africano. La Corte suprema britannica dà ragione ai tribunali minori dichiarando illegale il piano di trasferimenti dei migranti in Ruanda varato dal governo conservatore. I cinque giudici della corte suprema hanno dichiarato che i richiedenti asilo sarebbero “a rischio reale di maltrattamenti” perché potrebbero essere rimandati nei loro paesi d’origine una volta arrivati in Ruanda. Un accordo che ha generato importanti critiche, così come la proposta di legge per contrastare l’immigrazione illegale varata da Sunak. L’accordo - Il memorandum con il Ruanda è stato siglato dalla ministra degli Interni Priti Patel durante il governo Johnson e prevede finanziamenti al governo africano in cambio dell’esternalizzazione della gestione di migranti e richiedenti asilo. Il piano, secondo Downing Street, “farà sì che le procedure di richiesta di asilo da parte dei migranti che fanno viaggi pericolosi o illegali, su piccole imbarcazioni o nascosti nei camion, siano processate in Ruanda. Chi vedrà la propria richiesta accettata potrà costruire una nuova, prosperosa vita in una delle economie che crescono più rapidamente, riconosciuta per il modo in cui accoglie e integra i migranti”. In cambio, Kigali otterrebbe un finanziamento di circa 120 milioni di sterline. L’accordo era rimasto in sospeso perché impugnato da alcune corti minori e i voli di deportazione verso il Ruanda erano stati bloccati, ma il governo ha tirato dritto continuando la costruzione dei centri in Ruanda. L’accordo è stato d’ispirazione per la premier Giorgia Meloni che ha firmato di recente un accordo simile con l’Albania. La stessa presidente del Consiglio in un incontro con il suo omologo britannico Rishi Sunak aveva detto: “Contrastare i trafficanti e l’immigrazione illegale è una cosa che il tuo governo sta facendo molto bene. Sto seguendo il tuo lavoro e sono assolutamente d’accordo”. E così è stato. Verso il paese delle Aquile saranno trasportati i migranti e richiedenti asilo soccorsi in alto mare dalle navi italiane (guardia costiera e guardia di finanza). Da qui saranno smistati in due centri. Chi otterrà la protezione internazionale entrerà in Italia, per gli altri è prevista invece l’espulsione verso i loro paesi di origine. Ma anche su questo piano ci sono dei dubbi giuridici.