Il lavoro in carcere aiuta l’inclusione di Maurizio Carucci Avvenire, 16 novembre 2023 Solo una minima parte dei quasi 60mila detenuti (il 5,4%) partecipa a programmi di formazione professionale. Sebbene il tasso di recidiva scenda al 2% per chi impara un mestiere. Dignità e speranza per chi ha sbagliato e vuole ricominciare sul binario giusto. Con questo spirito Intesa Sanpaolo e Caritas italiana dedicano ai detenuti la nuova edizione del programma di azione contro la povertà: Aiutare chi aiuta. L’attenzione è puntata sui quasi 60mila detenuti, in carceri dove il sovraffollamento raggiunge il 116%, secondo i nuovi dati del ministero della Giustizia. Solo una minima parte, il 5,4%, partecipa programmi di formazione professionale, eppure “il tasso di recidiva tra i detenuti che non sono coinvolti in programmi di reinserimento è pari al 70%, e scende al 2% se consideriamo soltanto i detenuti che hanno appreso un lavoro in carcere. Questo ci ha portato insieme a Caritas italiana a valutare un intervento specifico in questo campo”, spiega il responsabile Direzione centrale strategic intiatives and social impact di Intesa Sanpaolo Paolo Bonassi. La cabina di regia tra Intesa Sanpaolo e Caritas italiana ha individuato così nelle prigioni il nuovo ambito prioritario su cui intervenire. Questa partnership “strategica”, secondo il direttore Caritas Italiana don Marco Pagniello, rappresenta “un esempio di coprogettazione virtuosa fra enti non profit e organizzazioni profit”. Per questo motivo, Manpower, Fondazione Human Age Institute e Fondazione Severino Onlus hanno sottoscritto un protocollo di Intesa per promuovere iniziative congiunte finalizzate a formare detenuti ed ex-detenuti e ad agevolarne l’inserimento nel mercato del lavoro. L’accordo prevede che Manpower, in collaborazione con Fondazione Human Age Institute e Fondazione Severino, agevolino l’accesso al lavoro di persone detenute ed ex-detenute attraverso un’attività di supporto e selezione di lavoratori. Inoltre, Manpower si occupa anche della predisposizione e programmazione di corsi formativi rivolti alle persone detenute con l’obiettivo di fornire loro strumenti volti a un pieno reinserimento nella società. Fondazione Severino individua, in particolare, i soggetti ristretti che parteciperanno ai corsi di formazione e i candidati più adatti alle varie opportunità lavorative e fornisce assistenza sulla normativa che regola i benefici fiscali e previdenziali per le imprese che danno lavoro a detenuti. Sono davvero numerose le buone pratiche nei penitenziari italiani. Di recente, per esempio, è stato inaugurato Pastificio Futuro, il laboratorio artigianale all’interno del complesso del carcere minorile di Casal del Marmo a Roma, ma con entrata autonoma. Un’idea nata dopo la prima visita di Papa Francesco alla struttura detentiva, nel 2013, quando scelse di lavare i piedi, nel Giovedì Santo, ai minori reclusi. “Non lasciatevi rubare la speranza”, aveva detto loro. Parole che non sono cadute nel vuoto e che hanno portato alla costruzione del pastificio nei locali di un edificio da anni in disuso. A realizzarlo la Gustolibero Società Cooperativa Sociale Onlus, con il sostegno della Conferenza episcopale italiana e di Caritas italiana e in sinergia con la Direzione dell’Istituto Penale Minorile Casal del Marmo, il Centro della Giustizia Minorile Lazio-Abruzzo-Molise, il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità. Con i suoi 500 metri quadrati di superficie, una pressa che può produrre fino a 220 chilogrammi all’ora di pasta e quattro essiccatori, Pastificio Futuro è un’azienda che potrebbe occupare fino a 20 ragazzi. La pasta verrà venduta in alcune catene di supermercati con cui abbiamo preso contatti - sottolinea don Nicolò Ceccolini, cappellano di Casal del Marmo - nonché servita in alcuni ristoranti di livello, perché è una pasta di elevata qualità. Dare delle prospettive future a questi ragazzi è molto importante, può incentivare anche altri loro coetanei che si trovano in carcere a fare un percorso, dare loro un obiettivo. È una bella opportunità perché devono comunque uscire dal carcere, in quanto il laboratorio è esterno alla zona detentiva, seppure all’interno della cinta muraria”. Per la prima volta in Italia, il carcere diventa protagonista e destinatario di una formazione altamente innovativa e specializzata che verte sui temi della robotica, dei sistemi di automazione e dei linguaggi di programmazione. Presso la Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, infatti, ha preso avvio un progetto finanziato dalla Città di Torino e rivolto a detenuti “dimittendi”, cioè con fine pena residuo non superiore ai 24 mesi, che vengono formati alle discipline Stem (in particolare Matematica, Robotica e Programmazione), all’uso e alla programmazione di robot industriali, al coding e alla saldatura robotizzata. Il progetto vede come capofila la Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri, che da 50 anni opera all’interno degli Istituti di pena offrendo alle persone detenute opportunità di formazione professionale, che consentano di costruire un bagaglio di competenze spendibili per il loro reinserimento lavorativo e sociale. Il partner tecnico è Comau Academy, leader nel campo della robotica educativa, che ha fornito un e.DO Learning Center e i pacchetti didattici per la formazione in aula, oltre a curare la preparazione dei docenti. Al via la collaborazione tra Hunters Group (società di ricerca e personale altamente qualificato) e Seconda Chance (l’associazione che fa da ponte tra carceri e aziende e cerca opportunità lavorative per i detenuti). Nei giorni scorsi, è stato organizzato un primo Career Day nel penitenziario di Bollate (Milano) - che ha coinvolto Hunters Group e due aziende - per aiutare i detenuti a reinserirsi nel mondo del lavoro, anche sfruttando la legge Smuraglia che offre agevolazioni fiscali a chi assume e che, aspetto ancora più importante, consente ai detenuti di avere una concreta opportunità lavorativa al di fuori delle mura del penitenziario, proprio come un qualsiasi altro dipendente. Mentre sono stati assunti sette detenuti di Rebibbia (Roma) che - completato con successo il percorso di formazione della durata di oltre 160 ore - sono entrati nelle squadre di Sirti e del consorzio Open Fiber Network Solutions come addetti per le attività di giunzione di fibra ottica per le infrastrutture di rete in Italia. Da segnalare infine l’impegno di Umana, fra le aziende partner di 4 Weeks 4 Inclusion (www.4w4i.it), la manifestazione dedicata all’inclusione e alla valorizzazione delle diversità, giunta alla sua IV edizione. Da sempre attenta a questi temi e alla loro condivisione, in occasione di 4 Weeks 4 Inclusion 2023, l’Agenzia per il lavoro ha realizzato un webinar dal titolo Lavoro e formazione nel percorso di reinserimento sociale dei detenuti, che approfondisce il tema del percorso di reinserimento sociale dei detenuti ed ex detenuti attraverso esperienze di valore. Oggi, nonostante i numerosi esempi di progetti virtuosi realizzati in partnership tra soggetti pubblici e privati, sono ancora molti gli ambiti di miglioramento per garantire processi di reinserimento efficaci. Centrale è il ruolo della formazione e del lavoro: strumenti fondamentali anche per contrastare il fenomeno della recidiva. È necessaria una professionalizzazione, la sensibilizzazione delle imprese, il rafforzamento delle reti di collaborazione, una puntuale organizzazione delle attività. La Corte Costituzionale deve decidere sul diritto alla sessualità dei detenuti di Manuela D’Alessandro agi.it, 16 novembre 2023 A sollevare la questione, che sarà discussa il 5 dicembre, il giudice Fabio Gianfilippi secondo il quale è “urgente” superare l’attuale divieto. Il 5 dicembre la Corte Costituzionale è chiamata a esprimersi sulla possibilità per i detenuti “di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia”. Così scrive Fabio Gianfilippi, giudice della Sorveglianza di Spoleto, nell’ordinanza con cui ha mandato gli atti alla Consulta accogliendo l’istanza di un uomo che lamentava “le conseguenze negative che l’assenza di intimità con la compagna sta avendo sul suo rapporto di coppia a cui tiene particolarmente e al quale considera legato il proprio reinserimento sociale”. I colloqui interrotti per “comportamenti non consoni” - Interpellato dal giudice, il direttore della casa circondariale di Terni ha fatto sapere che per i colloqui è prevista la “vigilanza continua” e che è capitato “di rado” che sia stato necessario interromperli per “comportamenti non consoni” vista la presenza altri familiari adulti e bambini nella sala. Il quadro, osserva il magistrato, fa emergere “un vero e proprio divieto all’affettività in una dimensione riservata e segnatamente alla sessualità”. Anche la Procura ha espresso parere favorevole nel chiedere un intervento della Corte. Il detenuto in questione non ha nemmeno la possibilità di un permesso premio per ‘aggirare’ la norma perché il carcere non ha ancora elaborato un programma di trattamento con previsione di premi e perché, prima del reclamo, non ha tenuto una condotta regolare tale da ‘meritare’ di uscire per un periodo limitato. Per il giudice è “urgente” concedere il diritto - Gianfilippi prova anche a ‘rispondere’ all’obiezione che il divieto sia una conseguenza della privazione della libertà personale spiegando che non è previsto questo tipo di proibizione, nemmeno tra le pene accessorie, nel codice penale. E ricorda che con una pronuncia del 2018, la Consulta invitò il legislatore a colmare il vuoto normativo. È quindi “urgente superare la criticità che riguarda un diritto fondamentale della persona” tenuto anche conto del sovraffollamento delle carceri, del moltiplicarsi dei problemi legati alla salute mentale e del sempre più elevato numero di suicidi. Sono una decina gli articoli della Costituzione coi quali si porrebbe in contrasto il divieto tra i quali l’articolo 2 (diritti inviolabili dell’uomo), l’articolo 3 (uguaglianza), l’articolo 29 (diritti della famiglia), l’articolo 32 (diritto alla salute). Nordio: “Regina Coeli da chiudere. E nelle caserme dismesse i detenuti con reati lievi” di Liana Milella La Repubblica, 16 novembre 2023 In Campidoglio il Guardasigilli rilancia la sua idea. Per Bernardini è “una proposta naïf”. Magi: “Case territoriali di reinserimento sociale”. Il carcere di Regina Coeli, che ospitò Pertini e Saragat, trasformato in un museo. Le caserme dismesse, al posto delle prigioni, per i detenuti con pene lievi. Il Guardasigilli Carlo Nordio, in Campidoglio a Roma, interviene all’ennesimo convegno, questa volta dedicato ai vent’anni di Garante di Roma capitale. E ripete quello che ormai va dicendo da un anno, alleggerire il peso dei detenuti nelle carceri. Peccato che le sue norme e quelle di tutto il governo Meloni - dal decreto Rave al decreto Cutro al decreto Caivano - vanno proprio tutte nella direzione opposta di aumentare a dismisura le pene, e di conseguenza anche i detenuti. Ma vediamo la sua ultima proposta da storico della giustizia. La racconta così: “C’è un problema a Roma: ho visitato Regina Coeli, un edificio quasi incompatibile con una struttura carceraria moderna, ma intoccabile per storia e pregio architettonico”. E poi naturalmente ecco un po’ di storia, quella in cui Nordio è particolarmente bravo: “Vi furono detenuti partigiani, resistenti, persone poi fucilate dai nazisti. C’è l’ala dove furono detenuti Pertini e Saragat”. Ed eccoci alla sua idea, da storico appunto più che da ministro: “Questi luoghi andrebbero trasformati in musei, perché ora sono incompatibili con una moderna concezione dell’esecuzione della pena, sia per la polizia penitenziaria che per i detenuti. Andrebbero trasferiti quei detenuti che non necessitano di continuità territoriale con gli uffici giudiziari romani in altre carceri, che però soffrono anche loro di sovraffollamento. Per questo bisogna utilizzare strutture compatibili e in tempi brevi”. Stiamo parlando di un carcere, quello di Regina Coeli, che secondo i dati dello stesso ministero della Giustizia aggiornati a giugno, è occupato da 992 detenuti rispetto ai 628 posti regolamentari. La polizia penitenziaria vede un organico di 359 persone effettive su un organico di 516, il personale amministrativo dovrebbe essere di 47 persone e ce ne sono 33. Gli educatori effettivi sono soltanto tre rispetto agli 11 previsti. Le celle sono 323, le docce 150, c’è un solo bidet, sei le sale colloqui, un teatro, quattro biblioteche, un locale di culto. Il lavoro in carcere? Solo una lavanderia che occupa 36 persone. I numeri del sovraffollamento - Niente di nuovo sotto il sole nella politica penitenziaria di Carlo Nordio. Sta parlando di caserme dismesse ormai da mesi. Nel frattempo la situazione delle carceri è quella che è. E merita guardare alcuni dati raccolti dalla presidente di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini. Che Nordio non ha voluto nominare Garante dei detenuti preferendole il meloniano Felice Maurizio D’Ettore. Al 30 settembre in 189 istituti, con una capienza regolamentare di 51.285 posti, di cui 3.640 inagibili e 47.645 effettivi, i detenuti presenti erano 58.987, con un sovraffollamento del 124%. Ben 57 istituti sono privi del direttore titolare, in 43 i direttori dirigono più istituti, nella pianta organica gli educatori dovrebbero essere 905, ce ne sono 785, ogni educatore ha quindi in carico 75 detenuti. Gli agenti in pianta organica sono 41. 595, effettivi 31.704. Non va meglio con il personale amministrativo, pianta organica da 4.045 persone, presenti 3.196. Né tantomeno con i magistrati di sorveglianza, dal Csm si apprende che ne sono disponibili 246, di cui effettivi 212, i presidenti di tribunale di sorveglianza sono 29 ma ne manca uno. Magi: vita alle Case di reinserimento sociale - Giusto una settimana fa, il segretario di +Europa Riccardo Magi, con una conferenza stampa alla Camera, aveva lanciato la sua proposta, e cioè istituire le “Case territoriali di reinserimento sociale” che aveva illustrato così: “Strutture alternative al carcere, volte ad accogliere tutti i detenuti e le detenute che stanno scontando una pena detentiva anche residua non superiore a 12 mesi. Al 31 dicembre 2022 si trattava di oltre 7.200 persone in carcere, attualmente in aumento, che sarebbero destinatari di questa riforma” E ancora: “In queste nuove strutture, di capienza limitata, compresa tra cinque e quindici persone, che sarebbero istituite d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni, sentiti i Comuni, sarebbe concretamente possibile dare attuazione al principio costituzionale della finalità rieducativa della pena, con lavori di pubblica utilità e progetti che coinvolgano figure di educatori, psicologi e assistenti sociali, e altre attività cogestite con enti del Terzo settore”. L’idea è condivisa da Pd, Avs, Azione, tant’è che rispettivamente, assieme a Magi e a Benedetto Della Vedova, alla conferenza stampa avevano partecipato Deborah Serracchiani e Federico Gianassi per il Pd, Enrico Costa di Azione, Luana Zanella e Devis Dori di Alleanza Verdi-Sinistra. Ma non risulta che Nordio abbia espresso su questa ipotesi un suo parere. Bernardini: da Nordio una proposta naif - Ma ecco il commento a caldo di Rita Bernardini. “Il Guardasigilli Nordio, anche oggi, fa affermazioni interessanti che mi auguro trovino presto quel riscontro che fino ad oggi non si è visto. È facile dire che bisogna chiudere Regina Coeli, più difficile è farlo: dove li mettiamo oltre mille detenuti assicurando loro la continuità territoriale che significa non mandarli lontani dalla famiglia e dagli affetti? Fra l’altro, tutte le carceri del Lazio sono sovraffollate, e molto”.Dice ancora Bernardini. “È naif la soluzione delle “caserme dismesse” da utilizzare per i reati meno gravi (non c’è ministro della Giustizia che non lo abbia proposto): a parte i riadattamenti strutturali, bisogna vedere i tempi che richiederanno. E poi: con quale personale intende farlo? Il problema è che bisogna intervenire subito sul sovraffollamento - incompatibile afferma giustamente il Guardasigilli con la funzione risocializzante della pena - e noi di Nessuno tocchi Caino, con Roberto Giachetti, abbiamo presentato due proposte di legge che devono essere immediatamente calendarizzate, se veramente si intende fare qualcosa”. Conclude Bernardini: “Mi piace il ministro Nordio quando parla di carcere come strumento obsoleto che richiede profonde riforme indirizzando l’esecuzione penale sulle misure alternative. Quello che constato però è che ciò che è stato fatto finora va in altre direzioni. Aver diminuito le telefonate a una a settimana e essere tornati alla chiusura della maggior parte delle sezioni costituisce una colpevole regressione del trattamento risocializzante che deve prevedere più lavoro, più scuola, più cultura e più sport”. Appello a via Arenula: “Occorre potenziare la rieducazione” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 novembre 2023 La Confederazione sindacati Italiani di Penitenziari (Con.Si.Pe.) preoccupata per la costante violazione dell’articolo 27 della Costituzione. Bisogna potenziare l’organico degli operatori del trattamento educativo. È ciò che propone la Confederazione Sindacati Italiani di Penitenziari (Con. Si. Pe.), inviando un urgente appello al Sottosegretario di Stato alla Giustizia Andrea Del Mastro e al Sottosegretario di Stato alla Giustizia, onorevole Andrea Ostellari, con copia al Garante Nazionale dei Diritti delle Persone Private della Libertà Personale e ai Presidenti dei Tribunali di Sorveglianza. L’obiettivo è sottolineare una serie di gravi preoccupazioni riguardo alla violazione dell’articolo 27 della Costituzione Italiana, che sancisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. L’appello, a firma del presidente Domenico Nicotra, evidenzia una situazione critica nelle carceri italiane, descritte come prigioni di Stato ridotte a fredde gabbie per esseri umani. La Con. Si. Pe. sostiene che, invece di promuovere la rieducazione, le istituzioni carcerarie stanno infliggendo sofferenza aggiuntiva per via di una assuefazione istituzionale. La confederazione dei sindacati penitenziari esprime preoccupazione per l’attuazione della separazione umana tra “ cattivi” e “buoni” nelle carceri, sottolineando che ciò genera aggressività tra i detenuti e burnout tra gli operatori dei vari comparti. Con soli 789 funzionari giuridici pedagogici, l’amministrazione penitenziaria è ben lontana dal rispettare il proprio mandato costituzionale della rieducazione, considerando i circa 60.000 detenuti. La nota dipartimentale del 3 febbraio 2022, che richiama la circolare del 9 ottobre 2003, suggerisce l’utilizzo di tecniche e metodi professionali per instaurare un rapporto dialogico con i detenuti, favorendo la motivazione ad aderire a un progetto trattamentale e a un processo di risocializzazione. Tuttavia, la Con. Si. Pe. evidenzia che queste linee guida rimangono ampiamente disattese. La denuncia principale riguarda la disparità tra il mandato costituzionale e le risorse a disposizione. Con solo 1376 funzionari giuridico pedagogici previsti nell’organico nazionale, la Con. Si. Pe. solleva la questione di come sia possibile implementare un trattamento rieducativo efficace con tali limitate risorse. Per questo motivo, il sindacato, propone una riconsiderazione dei ruoli, suggerendo di affrancare gli agenti di Polizia Penitenziaria da mansioni non riconducibili al trattamento rieducativo. Questo consentirebbe di recuperare risorse significative per migliorare la sicurezza e favorire il reinserimento sociale, obiettivi spesso compromessi dall’attuale organizzazione. La Confederazione sottolinea la necessità di valorizzare e potenziare la professionalità giuridico- pedagogica, evidenziando che il costo di tali figure è inferiore rispetto agli operatori di polizia. Propone la rimodulazione degli operatori del trattamento rieducativo, da impiegare in modo intensivo per promuovere la rieducazione nelle carceri italiane. In conclusione, l’appello della Con. Si. Pe. è un richiamo urgente a riforme nel sistema penitenziario italiano. La richiesta di riequilibrare i ruoli, potenziare le risorse e valorizzare la professionalità giuridico- pedagogica riflette la necessità di un cambiamento significativo per garantire il rispetto dei diritti dei detenuti e il perseguimento effettivo della rieducazione, come sancito dall’articolo 27 della Costituzione Italiana. Samuele Ciambriello è il nuovo Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà garantedetenutilazio.it, 16 novembre 2023 La Conferenza in assemblea elegge a rappresentarla Ciambriello, Garante delle persone private della libertà della Regione Campania. Succede ad Anastasìa, eletto nel 2018. La Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, riunitasi oggi in assemblea ha eletto con 46 voti Samuele Ciambriello, come proprio Portavoce, per il biennio 2023-2025. L’assemblea si è svolta in modalità mista nella Sala Di Liegro di Palazzo Valentini, sede della Città metropolitana di Roma Capitale. La votazione ha avuto luogo a scrutinio segreto. Di 79 Garanti di regioni e province autonome, di province e aree metropolitane e di comuni aventi diritto, in 60 hanno espresso la propria preferenza in presenza, per delega o da remoto, attraverso la piattaforma Eligo. 12 preferenze sono state espresse a favore di Roberto Cavalieri, Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale dell’Emilia Romagna. Due le schede bianche. “Sono grato al collega Stefano Anastasìa per essere stato in questi anni un punto di riferimento per l’intera Conferenza dei Garanti territoriali. È la Costituzione il baluardo del nostro agire da Autorità indipendente. La politica aiuta, coopera ma non detta regole alle istituzioni di garanzia. Con un atteggiamento di dialogo e di relazioni efficaci lavoreremo con Dap, Consiglio nazionale dei Garanti e la comunità del terzo settore e dei cappellani delle carceri, insieme alla comunità dei detenenti.”. Così Samuele Ciambriello, appena proclamato Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà. Docente universitario, scrittore, giornalista e Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Campania, Ciambriello succede a Stefano Anastasìa, Garante del Lazio, Portavoce della Conferenza dal 2018 ad oggi. Operatore del privato sociale, fondatore della Cooperativa “L’Agorà” per detenuti, presidente dell’associazione “La Mansarda” che si occupa dal 1989 dei minori a rischio e delle comunità d’accoglienza per minori, è stato eletto per la prima volta Garante dal Consiglio regionale della Campania nel 2017 ed è stato confermato nel febbraio del 2023. La Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, istituita presso la Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle regioni e delle province autonome, rappresenta gli organismi di cui si sono dotati regioni ed enti locali, in base alla legislazione nazionale e regionale. Il Regolamento della Conferenza attribuisce al proprio Portavoce il compito di convocare l’Assemblea almeno tre volte l’anno, di presiedere il Coordinamento nazionale della Conferenza e di rappresentare la Conferenza nelle relazioni esterne, nei rapporti con i soggetti istituzionali e i mass media, esprimendo sia autonomamente sia su mandato dell’Assemblea le valutazioni e le posizioni della Conferenza stessa. Secondo il Regolamento, è comunque fatta salva l’autonomia del singolo Garante nel rilasciare dichiarazioni a titolo personale e nell’incontrare soggetti istituzionali su questioni relative al proprio mandato. Il Portavoce svolge la propria attività a titolo gratuito, come tutte le cariche della Conferenza, resta in carica per due anni e può essere immediatamente rieleggibile. Riformare il carcere per rafforzare la funzione rieducativa della pena di Franco Mirabelli* Ristretti Orizzonti, 16 novembre 2023 I dati recenti raccontano di un nuovo aumento della popolazione carceraria, che oggi supera di 5.000 persone la capienza degli istituti. Questo dato si aggiunge e contribuisce ad una preoccupante crescita del disagio nelle carceri testimoniato dai troppi suicidi e dalle patologie psichiatriche che non trovano risposte. Proprio in questi giorni, l’amministrazione carceraria ha deciso di richiudere le celle in assenza di opportunità di lavoro, formazione o socializzazione che, purtroppo, molti istituti non sono nelle condizioni di garantire. È un provvedimento che aumenterà il disagio e ridurrà la qualità della detenzione e che mostra come si stia tornando su una linea sbagliata. Nella scorsa Legislatura, con la ministra Cartabia, si è tentato di cambiare le cose facendo fronte all’aumento della sovrappopolazione non aprendo nuove carceri e recuperando il ruolo rieducativo della pena - che la Costituzione impone - mettendo al centro lavoro e formazione e non solo l’aspetto securitario. Il punto di partenza per affrontare la questione è, a mio modo di vedere, come recentemente ricordato anche dal Presidente Mattarella, l’idea di considerare il carcere solo come l’estrema ratio dopo aver verificato altre strade per espiare le pene. Pene alternative, messa alla prova, giustizia riparativa sono cose che la riforma penale della Cartabia ha giustamente tentato di incentivare. L’idea è appunto quella di recuperare e rafforzare la funzione rieducativa della pena riducendo, allo stesso tempo, la popolazione carceraria. Le misure assunte per far fronte al Covid hanno dimostrato che le pene alternative, gli arresti domiciliari e il lavoro esterno funzionano, non ci sono state infrazioni e si è consentito di non interrompere i rapporti con gli affetti. Così come l’aumento della possibilità di comunicare con l’esterno ha ridotto le tensioni che erano esplose all’inizio della pandemia. Purtroppo, anziché diffondere e insistere sulle buone pratiche che hanno dimostrato di funzionare, la sensazione è che si stia ripiegando su una ordinaria amministrazione in cui la priorità è quella securitaria e l’aspetto rieducativo e del reinserimento passano in secondo piano. Non c’è solo l’idea che la reclusione in carcere sia l’unica strada per punire i reati ma anche il rischio di disumanizzare il carcere, perdere di vista la necessità di farsi carico delle persone e delle loro storie. Occorre, quindi, il carcere come estrema ratio ma anche un carcere riformato le cui strutture devono garantire spazi adeguati per il lavoro e la formazione e in cui ci sia la cura del disagio psichiatrico, che ha bisogno di servizi interni ma soprattutto di adeguate strutture esterne. C’è molto da fare per rispettare il dettato costituzionale ma, chiunque governi, quella deve essere la bussola. *Vicepresidente del Gruppo PD al Senato e Componente della Commissione Giustizia del Senato La riforma è così “epocale” che nessuno vuole farla di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 16 novembre 2023 Come avevamo previsto e detto in ogni possibile occasione pubblica da molti mesi, anche oggi la separazione delle carriere la faremo domani. È il destino di questa riforma, talmente epocale che nessuno vuole farla davvero; anche chi, come l’odierna maggioranza di governo, ne aveva fatto sin dalla campagna elettorale, dunque dal patto con gli elettori, la pietra miliare della propria idea di riforma della giustizia. Per carità, ci tranquillizza il nostro Ministro liberale Carlo Nordio, non si tratta di una rinunzia, ma semplicemente di una posticipazione. Facciamo prima la riforma costituzionale del premierato, e poi - statene certi - quella dell’ordinamento giudiziario. Ed anche il Vice-Ministro Francesco Paolo Sisto ci rassicura: è solo questione di tempo, “siamo determinati”. Ora, non se ne abbiano a male i dioscuri delle (anche esse, sempre future) riforme liberali della giustizia, ma facciamo una certa fatica a credere che questo possa essere il Paese che mette in fila, in tempi diversi, la bellezza di due riforme costituzionali, con annessi referendum, in una sola legislatura. Vogliono invece convincerci che il miracolo accadrà? E allora si dia risposta a qualche semplice domanda. Il testo della riforma è quello da subito depositato in Commissione Affari Costituzionali della Camera, cioè quello della legge di iniziativa popolare delle Camere Penali (fatto proprio da Lega, Forza Italia, Azione e Italia Viva), sì o no? O invece il Governo, come parrebbe, vuole scriverne uno per conto suo? In questo secondo caso, sarebbe opportuno chiarirci quali siano le differenze da quel testo parlamentare, talmente rilevanti da indurre il Governo ad intraprendere un proprio autonomo percorso, bloccando il primo. E sempre in questo secondo caso: chi sta scrivendo il testo, i Magistrati dell’ufficio legislativo (che sarebbe come chiedere a Dracula di scrivere la legge sulla donazione del sangue)? E perché intanto non ce lo fate conoscere, questo testo governativo, in modo che se ne inizi a discutere? Se l’affermazione del Ministro Nordio (“la riforma è solo posticipata”) non fosse una gherminella, dovrebbe avvenire l’esatto contrario di ciò a cui stiamo assistendo: scrittura immediata del testo, avvio dei lavori istruttori e del dibattito, accordo su un testo finale, e poi lo mettiamo in coda alla prima riforma. Questo significa posticipare, se parliamo tra persone serie; tutto il resto è buttare la palla in tribuna con un calcione liberatorio, prima di correre, festanti e gioiosi come scolaretti il primo giorno di scuola, alla kermesse delle Procure Antimafia dal patron Gianni Melillo, mente politica finissima, che le “ciacole liberali” del nostro Ministro se le cucina in padella con la mano sinistra, a colazione, pranzo e cena. *Presidente Unione Camere Penali Italiane C’è l’ossequio ai dogmi della Dna dietro lo stop sulle carriere separate di Giorgio Spangher Il Dubbio, 16 novembre 2023 Il “divorzio” tra giudici e pm arginerebbe anche il potere della superprocura, consolidato da Melillo. La visita, seppur inquadrata in chiave istituzionale, della premier Giorgia Meloni, del ministro Nordio e del sottosegretario Mantovano presso la sede della direzione nazionale Antimafia e antiterrorismo stimola una riflessione che ci conduce a considerazioni più ampie sull’attuale rapporto tra politica e magistratura. Tutto si colloca in un quadro in cui la riforma dell’abuso d’ufficio è impantanata perché ritenuta reato-spia e in contrasto con l’Europa proprio dal procuratore nazionale Antimafia, così come la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm è in stand by. Non è stata data attuazione neanche alla delega sui criteri di priorità nell’azione penale. In questo scenario l’unica dimensione sicuramente salda sugli strumenti di tutela è quella della Procura nazionale Antimafia. Il dottor Melillo, da quando era capo di Gabinetto del ministro Andrea Orlando, ha sempre avuto le idee molto chiare, e adesso le sue richieste - come già nella vicenda della sentenza “Cavallo” delle Sezioni unite - vengono sollecitamente recepite dal governo. Lo si è visto con il decreto correttivo anche di una sola pronuncia della Cassazione (confermativa anche di precedenti decisioni delle Sezioni unite) sulla criminalità organizzata e in tema di intercettazioni telefoniche. Non dico sia giusto o sbagliato quanto accaduto, ma molti magistrati hanno sostenuto che la questione si poteva risolvere re-investendo le Sezioni Unite. Sempre su richiesta della Procura nazionale Antimafia si sono realizzati server centralizzati delle intercettazioni, giustificati da questioni organizzative: la ritengo una scelta che avrebbe richiesto maggiore ponderazione. Assistiamo dunque a una politica genuflessa alle istanze di certa magistratura. Lo ricordava persino il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia in un convegno sulla separazione delle carriere: “La politica, paradossalmente, sembra sedotta talvolta dalle istanze della magistratura requirente”. Io aggiungerei “dalla magistratura antimafia”, quella a cui non si può negare nulla perché la lotta alla mafia, in chiave “dogmatico-sacrale” e non “laica” secondo i principi costituzionali del diritto penale, come direbbe il professor Giovanni Fiandaca, non può mai essere messa in discussione. Il governo invece talvolta dovrebbe avere il coraggio di contrapporsi ad essa e alla magistratura in generale. Come? Rivendicando e non paradossalmente affossando la separazione delle carriere, il cui rinvio è ora giustificato dalla riforma del premierato: la separazione era stata peraltro ripetutamente e ancora di recente promessa, senza dimenticare quanto la si fosse sbandierata in campagna elettorale. Di rinvio in rinvio non se ne farà nulla. Urge... attendere! E però se la si portasse a casa, si limiterebbero certi poteri che ora sono troppo concentrati nella Procura nazionale Antimafia così come in quella europea. E non mancano i giudici che sottovoce lamentano questo potere delle Procure come recenti episodi dimostrano. Se si obietta che la separazione rafforzerebbe poteri già solidi, va detto che forse tutelerebbe invece meglio i poteri decisionali dei giudici e la loro indipendenza. Ma prevale il pessimismo: non credo che questa maggioranza e il governo abbiano la forza di opporsi. Stretta del governo sulla sicurezza: pene più severe per terrorismo, occupazioni e accattonaggio di Liana Milella La Repubblica, 16 novembre 2023 Il ddl arriva in Consiglio dei ministri: Meloni vede sindacati di polizia e Cocer Interforze. Arriva la stretta del governo sulla sicurezza: un disegno di legge che sarà esaminato domani dal governo contiene un’ampia serie di misure che si propongono di punire più severamente chi detiene manuali per la fabbricazione di ordigni, chi aggredisce le forze dell’ordine, chi occupa case abusivamente, chi utilizza i minori nell’accattonaggio. Si tocca anche la disciplina sull’intelligence, con un’estensione delle garanzie funzionali, cioè l’autorizzazione alla commissione di reati. Un altro ddl prevede la riforma della polizia locale. La riunione sarà preceduta in mattinata da un incontro convocato dalla premier Giorgia Meloni con i rappresentanti dei sindacati di polizia e del Cocer Interforze. Al centro della discussione le risorse per il rinnovo del contratto del comparto Sicurezza e Difesa, scaduto ormai da due anni. In serata Meloni ha fatto il punto sui provvedimenti a Palazzo Chigi, insieme ai vicepremier Antonio Tajani ed a ministri, tra i quali Matteo Piantedosi e Carlo Nordio. Fino a sei anni di reclusione per chi procura o detiene materiale sull’uso di armi - Chiunque si procura o detiene materiale contenente istruzioni sulla preparazione o sull’uso di “congegni bellici micidiali - si legge in una bozza del provvedimento - di armi da fuoco o di altre armi, di sostanze chimiche, batteriologiche nocive o pericolose, nonché su ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale, è punito con la reclusione da due a sei anni”. In passato questi ‘manuali’ per bombe sono stati a volte sequestrati ad esponenti di formazioni jihadiste. Aumenta la pena per chi occupa le case - Dal terrorismo alle occupazioni abusive, il ddl si propone di contrastare più efficacemente chi occupa una casa approfittando dell’assenza del proprietario o di chi lo detiene legittimamente. La pena stabilita è la reclusione da due a sette anni. La stessa vale per chi si “appropria di un immobile altrui, con artifizi o raggiri, ovvero cede ad altri l’immobile occupato”. Prevista anche la reintegrazione nel possesso dell’immobile “oggetto di occupazione arbitraria”. Aggravante per chi truffa gli anziani - Viene poi introdotta un’aggravante per chi truffa gli anziani. La reclusione prevista viene innalzata dagli attuali 1-5 anni a 2-6 anni, con l’introduzione di una multa da 700 a 3.000 euro consentendo così l’applicazione della misura cautelare in carcere. Accattonaggio: il rinvio della pena per donne incinte diventa facoltativo - Nel mirino anche l’accattonaggio ed i reati commessi dalle donne in gravidanza. Il rinvio della pena per le donne incinte e le madri con figli fino ad un anno d’età diventa facoltativo e non più obbligatorio come previsto oggi. L’esecuzione della pena dovrà sempre e comunque avvenire presso gli istituti a custodia attenuata e non nelle carceri. Chi poi organizza, favorisce, induce o impiega i minori nell’accattonaggio rischia fino a 5 anni di carcere. Le modifiche introdotte prevedono inoltre, secondo quanto scritto nella bozza, l’innalzamento dell’età dei minori che vengono sfruttati: verrà punito chiunque utilizza i minorenni fino a 16 anni anziché, come era attualmente, fino a 14. La pena prevista è da 1 a 5 anni ma, in caso chi sfrutti i minori “se ne avvalga o comunque lo favorisca a fini di profitto”, la reclusione sale da 2 a 6 anni. Giro di vite sui reati contro il personale in divisa - Giro di vite, inoltre, sui reati contro il personale in divisa. Se la violenza o la minaccia ad un pubblico ufficiale è commessa nei confronti di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza, la pena è aumentata di un terzo. Nell’ipotesi di lesioni si applica la reclusione da due a cinque anni. In caso di lesioni gravi o gravissime, la pena è, rispettivamente, della reclusione da quattro a dieci anni e da otto a sedici anni. Il ddl contiene infine norme contro le rivolte nelle carceri, sanzioni maggiori per chi viola un posto di blocco, per il sostegno alle vittime di usura e si consente alle forze di polizia di impiegare un’arma diversa da quella d’ordinanza. Borseggiatrici incinte, il carcere ora è possibile di Domenico Ferrara Il Giornale, 16 novembre 2023 Oggi in Cdm il dl sicurezza: donne in gravidanza, rinvio pena facoltativo. Nel disegno di legge sulla sicurezza, che approda oggi sul tavolo del Consiglio dei ministri, è infatti prevista una modifica del Codice penale che contempla il rinvio della pena facoltativo, e non più obbligatorio come è oggi, per le donne incinte e le madri con figli fino ad un anno d’età. Insomma, non ci saranno più mani legate. È una risposta che il governo vuole dare a tutte le vittime rapinata in metropolitana o nei mezzi pubblici. Ma è anche un rimedio all’impotenza di quei poliziotti che finora hanno colto in flagranza di reato le ladre con la consapevolezza che il giudice le avrebbe liberate in un battibaleno. L’esecuzione della pena dovrà sempre e comunque avvenire negli istituti a custodia attenuata e non nelle carceri, ma con questa stretta la consuetudine a cui le cronache ci avevano tristemente abituati verrà radicalmente modificata. Grande attenzione inoltre è riservata proprio alle forze dell’ordine, troppo spesso oggetto di attacchi nelle pubbliche piazze. Infatti, nella bozza del ddl visionata dall’Agi, si legge che “nell’ipotesi di lesioni personali cagionate a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni, si applica la reclusione da due a cinque anni. In caso di lesioni gravi o gravissime, la pena è, rispettivamente, della reclusione da quattro a dieci anni e da otto a sedici anni”. Si introduce, inoltre, “una specifica sanzione anche per le lesioni lievi o lievissime compiute in danno di un operatore della sicurezza”. Prevista anche una norma a tutela dei beni mobili e immobili in uso alle Forze di polizia al fine di tutelarne l’onore che spesso viene denigrato: reclusione da sei mesi a 1 anno e sei mesi e multa da 1.000 a 3.000 euro. E poi ancora una sfilza di sanzioni inasprite: da 100 a 400 euro (al momento è da 87 a 344 euro) per chi, ad esempio, si rifiuta di esibire i documenti di guida o far ispezionare il veicolo. Da 200 a 600 euro per chi non rispetta l’invito a fermarsi a un posto di blocco. In caso di reiterazione nei successivi due anni, scatta anche la sospensione della patente fino ad un mese. Molto più alta, infine, la sanzione se si viola un posto di blocco: da 1.500 a 6mila euro e la sospensione della patente da 3 mesi ad un anno. Ma le strette non finiscono qui. Chi organizza, favorisce, induce o impiega i minori fino a 16 anni (e non fino a 14 come finora previsto) nell’accattonaggio rischierà fino a 5 anni di carcere. Che possono arrivare fino a otto per chi organizza e dirige una rivolta in carcere e fino a 5 per chi vi partecipa. Attenzione anche alle categorie deboli come gli anziani: prevista un’aggravante per chi li truffa e si innalza la reclusione dagli attuali 1-5 anni a 2-6 anni, con l’introduzione di una multa da 700 a 3.000 euro. Infine, per le vittime di usura è prevista l’introduzione della figura di un “tutor” col compito di aiutare il reinserimento delle vittime nell’attività economica legale. Indagini e pene sostitutive, prime modifiche alla riforma di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2023 Nuove misure per evitare la paralisi del fascicolo e per semplificare la procedura sulle pene sostitutive, passando per la responsabilità amministrativa delle imprese. È pronto per la presentazione oggi in consiglio dei ministri il testo del primo decreto correttivo, peraltro previsto dalla legge delega nell’arco del primo biennio di applicazione, della riforma del processo penale operativa da inizio anno. Il decreto prevede così l’introduzione di modifiche per snellire il meccanismo di risoluzione della stasi dei procedimenti e degli strumenti collegati dell’avocazione delle indagini da parte del procuratore generale. In questo senso, per quanto riguarda l’avviso all’indagato della conclusione delle indagini preliminari, si cancella tutta la parte dell’articolo 415 bis del Codice di procedura che delinea per il pm un percorso (in realtà un vero e proprio sub-procedimento) indirizzato a giustificare la mancata emissione dell’avviso prima della scadenza del termine di conclusione delle indagini e che non realizza, di per sé, una paralisi dei tempi. A venire riscritto è l’articolo 415 ter del Codice declinando la facoltà del Pm, prima della scadenza dei termini, di presentare al Gip richiesta motivata di rinvio del deposito della documentazione sulle indagini svolte. In particolare la richiesta è possibile: quando è stata richiesta l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere o degli arresti domiciliari e il giudice non ha ancora provveduto o quando, fuori dai casi di latitanza, la misura applicata non è stata ancora eseguita; quando la conoscenza degli atti d’indagine può concretamente mettere in pericolo la vita o l’incolumità di una persona o la sicurezza dello Stato oppure, nei procedimenti per i reati più gravi (quelli con più ampi tempi di indagine), provocare un danno concreto per atti o attività di indagine specificamente individuati, rispetto ai quali non sono scaduti i termini di indagine. Sul versante delle pene sostitutive, fortemente incentivate dalla riforma, l’intervento punta innanzitutto a chiarire che il giudice quando valuta che, in concreto, non esistono i presupposti per la sostituzione della pena detentiva, non deve attivare il meccanismo di sentencing (quel sistema mutuato dal diritto anglosassone, ma conosciuto anche nei giudizi davanti al giudice di pace, che posticipala valutazione sull’applicazione delle pene sostitutive a un momento successivo alla pubblicazione del dispositivo della sentenza), pronunciando, dunque, un dispositivo di condanna “provvisorio” e dando un avviso alle parti, ma possa pronunciare direttamente il dispositivo di condanna a pena detentiva non sostituita. Si opera, inoltre, una complessiva semplificazione prevedendo che, se il giudice già dispone degli elementi necessari per la sostituzione, compreso il consenso dell’imputato, espresso in una fase antecedente o nel corso dell’udienza di discussione, possa direttamente sostituire la pena detentiva, senza necessariamente attivare il meccanismo di sentencing. Il meccanismo verrà invece attivato solo quando il giudice, anche se ritiene che esistono i presupposti per la sostituzione, non ha tuttavia elementi sufficienti per procedere, perché deve acquisire il consenso dell’imputato o ritiene il consenso espresso non attuale (per esempio, in a causa del tempo trascorso) oppure perché ritiene necessario effettuare ulteriori accertamenti e approfondimenti. Con lo schema di decreto correttivo si allinea poi ai procedimenti a carico degli enti, disciplinati dal decreto 231 del 2001, la formula introdotta dalla riforma del processo penale per quanto riguarda la sentenza di non luogo a procedere nei confronti delle persone fisiche. Si stabilisce infatti che il giudice dell’udienza preliminare deve pronunciare sentenza di non luogo a procedere anche per le imprese, quando gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna. Adeguato poi anche il riferimento normativo per gli atti di contestazione dell’illecito amministrativo all’ente. Possibile che non esista un giornalista al mondo in grado di fare vere domande a Gratteri? di Ilario Ammendolia Il Dubbio, 16 novembre 2023 Si faccia intervistare dal “Dubbio”. Le garantiamo la massima correttezza (ci mancherebbe altro) ma finalmente potrà dare risposte che migliaia (forse molti di più) di persone aspettano da anni. Gratteri ritorna in Calabria, a Portigliola, un comune del quale ci siamo occupati qualche tempo addietro quando il consiglio comunale democraticamente eletto, è stato sciolto per mafia. I cittadini sono scesi in piazza in difesa della loro libertà di scegliere i propri amministratori, in nome della Democrazia e della Costituzione. Niente da fare. In una ‘ regione canaglia’ i cittadini non contano nulla. I commissari si sono insediati al Comune ma il loro ‘ lavoro antimafia’ sembra impalpabile, invisibile, sembra inesistente. Ad un tratto... il classico colpo d’ala e la ndrangheta è stesa: Gratteri viene nominato dai commissari, “cittadino onorario” di Portigliola. Le cosche avranno pensato ad una fuga in Aspromonte. Inconsapevoli che il dottor Gratteri appena qualche giorno fa, ha dichiarato dalla Gruber che chi, come Lui, ha “combattuto i criminali nella giungla colombiana o sulle montagne dell’Aspromonte non può temere i penalisti di Napoli”. Quindi niente da fare, ma a parte la battuta una cosa è certa: la cittadinanza onoraria a Gratteri è stata conferita da tre anonimi funzionari estranei alla comunità, mai eletti, e contro i cittadini di Portigliola che nessuno ha consultato. Alla faccia della sovranità popolare. Lo storico evento verrà tramandato alle future generazioni con una targa marmorea, rispettando le tradizioni del Regno delle due Sicilie. Intanto, mentre la banda suonava, poco distante da Portigliola, i giudici della Corte di appello fanno a pezzi la grande inchiesta di Gratteri denominata “Stige”: tra primo e secondo grado il 60 degli imputati vengono assolti. Stige va a raggiungere le sue molte sorelle che hanno fatto una fine peggiore. In tutto questo, lo scandalo più grande è opera dei più importanti giornalisti che, in questi giorni, intervistano Gratteri con la lingua sul pavimento. In occasione del suo ultimo libro, il cittadino onorario di Portigliola sta facendo il consueto giro delle sette chiese su tutti i canali televisivi e su tutti i grandi e piccoli giornali. Invano si aspetta una sola domanda su Stige? Anzi sulle cento inchieste che come Stige hanno avuto l’effetto di far crescere esponenzialmente la ndrangheta e rovinare la vita a migliaia di innocenti. Ad una domanda della Gruber, Gratteri ha risposto che Lui è abituato a mangiare “pane e veleno”. Probabilmente ad infastidirlo è qualche timida critica (e per quanto ci riguarda mai di carattere personale) tra un mare di “olè” che si alzano ad ogni sillaba che pronuncia. Ora a parte il fatto che il veleno fa male e che un magistrato “avvelenato” fa disastri, vorrei fare io qualche domanda a cui certamente Gratteri non risponderà: Quanto veleno dovrebbe avere in corpo un innocente incarcerato ingiustamente nella inchiesta Stige o in altre simili? Quanto gli amministratori e i cittadini di Portigliola? Quanto i calabresi, non ancora storditi dalla martellante propaganda di regime, quotidianamente calpestati dalla ndrangheta e che passano per “canaglie” grazie ad una narrazione interessata e falsa? Eppure sono certo che costoro si siano liberati dal “veleno” trasformandolo in civile impegno democratico. Rifletta il dottor Gratteri nel suo esclusivo interesse, non accetti più una cittadinanza onoraria da chi non ha alcuna legittimità democratica per conferirla. È una mortificazione per i cittadini; una inutile forzatura antidemocratica. E soprattutto ci pensi prima di rilasciare l’ennesima “intervista” senza domande. Non è di questo che avrebbe bisogno. Magari si faccia intervistare da ‘Il Dubbio”. Le garantiamo la massima correttezza (ci mancherebbe altro) ma finalmente potrà dare risposte che migliaia (forse molti di più) di persone aspettano da anni. Caso di Beniamino Zuncheddu, parla la sorella: “Non viviamo più, chiedo giustizia” di Gianfranco Locci La Stampa, 16 novembre 2023 L’unico sopravvissuto alla strage di Sinnai di fatto scagiona il condannato all’ergastolo, che si è sempre proclamato innocente e ha già trascorso 31 anni in carcere. “Mio fratello non dava fastidio a nessuno”. “La mia famiglia vive un lutto, da più di trent’anni. Con mio marito, in tutto questo tempo, non siamo mai andati a una festa. Non viviamo più ma ho ancora la forza per lottare e per chiedere giustizia per mio fratello Beniamino. È sepolto vivo, eppure tutti sanno che è innocente”. Augusta Zuncheddu ha 61 anni, è originaria di Burcei, in Sardegna. Da quel lontano mese di febbraio del 1991 la sua esistenza è animata da un’unica missione: ottenere la scarcerazione del suo Beniamino, condannato all’ergastolo con l’accusa di aver ammazzato tre persone nella “strage di Sinnai”. Dall’ultima udienza del processo di revisione in corso davanti ai giudici della Corte d’Appello, martedì scorso a Roma, si intravede però un lieto fine. Luigi Pinna, l’unico sopravvissuto della strage dell’8 gennaio del 1991, in aula ha reso una testimonianza che di fatto scagiona suo fratello. Ha detto che il “killer aveva una calza sul volto”, dunque era irriconoscibile. Perché, allora, si è arrivati a condannare all’ergastolo Beniamino Zuncheddu? “È stata messa in piedi una cosa diabolica. Un castello costruito sulla sabbia, con testimoni falsi. D’altronde, siamo davanti a chi dà 4 o 5 versioni diverse. Prima il testimone ha detto che il killer era a volto coperto, poi invece era scoperto, quindi di nuovo coperto. Addirittura, una volta ha detto che l’omicida aveva sollevato il passamontagna per legarsi le scarpe, e che in quel frangente aveva notato un neo sul naso. Ebbene, mio fratello Beniamino non ha alcun neo. Insomma, sono state dette un sacco di bugie. Tante parti di un puzzle, ma il puzzle non si forma proprio”. Qualcuno ha voluto colpire Beniamino Zuncheddu, far ricadere le colpe sull’allora giovane allevatore? “Per me è andata proprio così. Perché Beniamino era una persona buona e indifesa, non dava fastidio a nessuno. Quindi, erano tranquilli, forse pensavano in questo modo di aver individuato la vittima sacrificale giusta”. Su cosa poggiano le sue convinzioni? “Mio fratello non aveva neppure la possibilità di difendersi, penso all’aspetto finanziario. La nostra famiglia è semplice, umile. Nostra madre è morta all’età di sessant’anni, 5 mesi prima dell’arresto di Beniamino. Mio padre aveva gravi problemi di salute. Si può solo immaginare che situazione economica ci fosse in casa”. Ci racconta un po’ di suo fratello? Chi è Beniamino Zuncheddu e perché tutta la comunità di Burcei, il vostro paese, crede nella sua innocenza? “Una persona tranquilla, serena e taciturna. In 33 anni di carcere non ha mai avuto un “rapporto”, mai uno screzio da segnalare. La conferma più grande arriva dai suoi compaesani che gli vogliono un grande bene, tutti lo sostengono. Non ho mai dubitato un solo secondo della sua innocenza”. Il sindaco di Burcei, Simone Monni, ripete spesso: “Con Beniamino è finita in carcere un’intera famiglia”. È così? “Viviamo un lutto continuo: io, mio marito e mia figlia, che ha appena 20 anni. Un dolore indescrivibile”. Non ha perso un’udienza, un sit-in. Da Cagliari a Roma, in questi quasi 33 anni, lei c’è sempre stata. Trova questa forza da “guerriera” anche grazie alla sua gente, alla sua comunità? “Sì, lotterò fino all’ultimo respiro per la sua innocenza. Burcei mi dà forza e sostegno, martedì a Roma eravamo una quarantina di persone. Lavoratori, uomini e donne che hanno bambini e impegni: eppure tutti vogliono dare il loro contributo, erano lì a manifestare vicinanza a noi e a Beniamino. Tutti credono nella sua innocenza, questa solidarietà è per noi fondamentale”. In quella che in Sardegna è conosciuta come la “strage di Sinnai” sono state ammazzate tre persone, a colpi di fucile: Gesuino e Giuseppe Fadda, Ignazio Pusceddu. Una quarta, Luigi Pinna, era rimasta ferita ma si è salvata, ed oggi è il teste-chiave. Che rapporto aveva con le armi suo fratello Beniamino? “Nessun rapporto. In casa nostra non è mai entrata un’arma. Oltretutto, mio fratello ha un problema fisico a una spalla, a un nervo, non sarebbe in grado di imbracciare un fucile. Basti pensare che non ha fatto il militare, è stato “riformato”“. Augusta, ha ancora fiducia nella giustizia? “Mio fratello è sfinito, non ne può più. È invecchiato tantissimo, è stanco. Io voglio ancora credere alla giustizia, l’ultima udienza mi aiuta a sperare. Sono molto credente, anche Beniamino ha trovato sostegno nella fede. Solo in questo modo si può sopportare tutta la sofferenza patita dalla nostra famiglia. Nessuna cifra al mondo può ripagare tutto questo enorme dolore”. Stop al patrocinio a spese dello Stato per i “furbetti del fisco” di Tiziana Roselli Il Dubbio, 16 novembre 2023 La Cassazione esclude il diritto al patrocinio gratuito per gli evasori su cui grava la presunzione di abbienza, Niente patrocinio a spese dello Stato all’evasore fiscale, per il quale vale la presunzione che sia abbiente. Così la Corte di Cassazione con la sentenza n. 40477/2023, ha respinto il ricorso di un imputato per reati fiscali che richiedeva il patrocinio a spese dello Stato. La Suprema Corte ha sottolineato che per coloro che commettono reati fiscali, c’è una presunzione di abbienza che esclude il diritto al patrocinio gratuito. Questa presunzione, prima delle modifiche del 2019 al D.P.R. n. 115/2002, si applicava anche agli indagati e agli imputati, ma dal 2019 vale solo per i condannati definitivi. La vicenda - La sentenza è il risultato di un ricorso in cassazione contro il rigetto dell’istanza di patrocinio a spese dello Stato da parte del giudice procedente, confermato dal Tribunale di Lecco. La base del rigetto era la presenza di due condanne definitive per omesso versamento dell’IVA a carico dell’imputato, sufficienti a far presumere il superamento dei limiti di reddito per l’ammissione al patrocinio, come previsto dall’articolo 76, comma 4-bis, del D.P.R. n. 115/2002. La difesa del ricorrente aveva contestato la presunzione assoluta di abbondanza per i condannati per reati fiscali, sostenendo che questa non avrebbe dovuto applicarsi a reati di natura diversa. La sentenza - La Corte ha respinto il ricorso, sostenendo che il patrocinio gratuito non è concesso a chi è condannato in via definitiva per reati fiscali, in base all’art. 91 del D.P.R. n. 115/2002. La Corte ritiene che la condanna per reati di questo tipo implichi una presunzione di superamento dei limiti di reddito, ma sottolinea che tale presunzione può essere respinta con prova contraria nei procedimenti non legati a reati fiscali. Tuttavia, la presunzione diventa una preclusione assoluta in procedimenti direttamente collegati a reati fiscali. Per quanto riguarda il patrocinio gratuito in altri casi, il rigetto è considerato legittimo se la persona ha già subito una condanna definitiva per reati fiscali, basandosi sulla presunzione relativa di superamento dei limiti di reddito indicata dall’articolo 76, comma 4-bis, del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115/2002, e sulla mancanza di elementi concreti forniti dal richiedente per confutare questa presunzione. In un caso specifico, che riguardava reati contro la persona, la Corte ha giudicato corretto il rigetto dell’istanza del ricorrente in quanto aveva condanne definitive per reati fiscali e non erano stati presentati elementi concreti per superare la presunzione. Di conseguenza, il ricorso è stato respinto e al ricorrente è stata inflitta la condanna al pagamento delle spese processuali. Puglia. Emergenza psichiatrica nelle carceri, Palese sulla Rems di Accadia: “Sarà attivata presto” foggiatoday.it, 16 novembre 2023 La risposta dell’Assessore alla Sanità alla interrogazione del consigliere regionale Giannicola De Leonardis: “C’è la progettazione e le Asl stanno cercando di accelerare quanto più possibile”. Nel corso del Consiglio Regionale di ieri si è parlato di emergenza psichiatrica nelle carceri. Il consigliere regionale di Fratelli d’Italia Giannicola De Leonardis ha interpellato l’assessore alla Sanità Rocco Palese. Secondo le stime presentate da De Leonardis, in Puglia (dove, fra l’altro, si registra la percentuale più bassa d’Italia nel rapporto agenti di custodia/detenuto, pari allo 0.53 per soggetto detenuto, a differenza dello 0.65 nazionale), un soggetto in custodia su cinque mostrerebbe sintomi psichiatrici. Queste condizioni sarebbero favorite dalle carenze croniche di personale medico e psichiatrico, che spingono le direzioni carcerarie a trasferire i detenuti fuori regione, nonostante il Dpcm del 30 maggio 2008 avrebbe previsto, oltre alle due strutture di Spinazzola e San Pietro Vernotico (quest’ultima non ancora realizzata, ma coperta dalla convenzione privata con una struttura di Carovigno), la realizzazione di una Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems) anche nel comune di Accadia, in provincia di Foggia, circostanza, tuttavia, non ancora verificatasi. “Risulta a me - ha detto De Leonardis - che il Dipartimento sanitario, l’assessore alla sanità e il direttore generale della Asl di Foggia hanno alzato bandiera bianca e hanno riconosciuto la propria incapacità di attivare una Rems, e hanno fatto un bando per esternalizzare una struttura di questo tipo, che sarà inaugurata domani a Manfredonia. Quando sarà attivata la struttura di Accadia?”. “Si sta procedendo - ha risposto Palese - su Accadia e, nel frattempo, siccome abbiamo una lista di attesa che in alcuni momenti ha raggiunto anche i 155 detenuti, pazienti con problemi mentali che avevano commesso reati, ma non potevano andare in carcere perché mancava la struttura. D’intesa con l’Osservatorio, siamo stati autorizzati a procedere, nelle more dell’attivazione della struttura di Accadia, così come è stato fatto per Carovigno, con un bando con cui si sta cercando in ogni modo e in ogni maniera di attivare altri venti posti letto. L’indirizzo della Regione - ha poi concluso - è quello di realizzare le Rems quanto prima possibile. La vigilanza sicuramente sarà fatta e spero che quanto prima le strutture pubbliche possano realizzarsi, perché c’è la progettazione e le ASL si stanno cercando di accelerare quanto più è possibile”. Udine. In carcere da sei giorni, decide di farla finita: ennesimo detenuto suicida, aveva 64 anni Il Gazzettino, 16 novembre 2023 Un detenuto di 64 anni “ha deciso di mettere fine alla sua vita”. È successo ieri mattina, mercoledì 15 novembre, nel carcere di Udine. “È il 59esimo suicidio che si verifica quest’anno nelle carceri italiane”. Lo rende noto il garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Udine, Franco Corleone, annunciando che domani alle 12 visiterà la struttura penitenziaria. L’uomo, ripercorre Corleone in una nota, “era in carcere da soli sei giorni, era stato visitato all’ingresso solo dal medico ed era prevista la cosiddetta “grande sorveglianza”. La vittima è un udinese di 64 anni, Rodolfo Hilic, accusato di maltrattamenti in famiglia. Per questo, il gip di Udine aveva disposto l’allontanamento dalla casa familiare. Dal 29 luglio l’uomo dormiva nella propria automobile. Su richiesta del pm, giovedì scorso la misura è stata aggravata e sostituita con la custodia cautelare in carcere perché il 64enne avrebbe contattato la moglie con messaggi recriminatori. “Il mio assistito - spiega il difensore dell’uomo, l’avvocato Filippo Mansutti - era affranto perché non riusciva a trovare un posto in cui vivere. Giovedì è entrato in carcere - continua - e lunedì ho depositato un ricorso contro la misura. Attendevo la fissazione dell’udienza per comunicargliela, ma stamattina ho saputo della sua morte. Ho inviato una richiesta all’autorità giudiziaria - conclude - per l’apertura di un’indagine sulla vicenda”. Il garante ha spiegato che all’ingresso in carcere per l’uomo era stata prevista la cosiddetta ‘grande sorveglianza’, destinata alle persone fragili. “Probabilmente - afferma Corleone - c’era bisogno di un intervento sociale commisurato alla situazione e di un accompagnamento. Ma il carcere - conclude - è un luogo di abbandono e lui non ha retto l’angoscia di un’accusa pesante e la rottura del rapporto familiare”. Milano. Oumar Dia, 21enne morto in ospedale. Si era impiccato in cella una settimana prima di Camilla Amendola primabergamo.it, 16 novembre 2023 È arrivata la risposta all’interrogazione parlamentare di Devis Dori, che commenta: “Nuovi elementi oggi non noti, ma generano ulteriori quesiti”. L’interrogazione parlamentare presentata dal deputato bergamasco Devis Dori, di Alleanza Verdi e Sinistra, ha fatto luce su alcuni dei quesiti rimasti finora senza risposta nel caso della morte di Oumar Dia, 21enne di Fiorano al Serio. I motivi dell’arresto - La ricostruzione dei fatti esposta dal sottosegretario al Ministero della Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove, ha infatti spiegato che Oumar, già arrestato nell’agosto 2020 per il furto di un cellulare avvenuto a Milano, venne tratto in arresto anche il 4 giugno 2021, cosa che non era mai stata resa nota dai familiari e dagli amici del giovane. Il 21enne, in quell’occasione, era stato colto in flagranza di furto pluriaggravato a Oriocenter. Il reato sarebbe stato commesso con altri due soggetti. Sottoposto agli arresti domiciliari in misura cautelare, il 31 luglio 2021 il Tribunale di Bergamo ne contestò l’evasione e così, l’8 agosto, il pm ne dispose la custodia in carcere, per poi concedere nuovamente gli arresti domiciliari il 25 novembre successivo. Stando alla ricostruzione del sottosegretario, dunque, il 7 luglio scorso i carabinieri son tornati a prendere Oumar perché condannato a tre anni, nove mesi e quattordici giorni di reclusione per somma di reati, ovvero questi ultimi in recidiva considerando il precedente del 2020. Il 21enne viene dunque portato al carcere di Bergamo. Ed è in via Gleno che, il 14 settembre, accade un fatto che cambia la situazione. Lo scontro con la guardia e il trasferimento - Quel giorno, Oumar ha uno scontro con una guardia - cosa che aveva raccontato anche la madre del giovane -, a cui dà un pugno e le rompe gli occhiali da vista, procurandole anche un taglio sotto un occhio. Un membro del personale del carcere, assistendo alla scena, è intervenuto per cercare di placare Oumar, che però appare in preda a un raptus d’ira. Viene trasportato in infermeria, ma anche lì il ragazzo ha continuato a dare in escandescenze. Il medico di turno ne ha quindi disposto il ricovero all’ospedale Papa Giovanni affinché venisse sottoposto a una visita psichiatrica. Una volta lì, il ragazzo avrebbe tentato la fuga. Prontamente bloccato dalle guardie e ricondotto all’interno della camera d’ospedale, Oumar avrebbe continuato a divincolarsi e a opporre resistenza. Dato il forte stato di agitazione, è stato quindi immobilizzato e sistemato su una barella con fasce di contenzione. Dopo essere stato sottoposto agli accertamenti medici, uno psichiatra gli ha prescritto degli psicofarmaci da somministrargli in caso di nuovi episodi di agitazione psicomotoria. Successivamente, è stato ricondotto nel carcere di via Gleno. A quel punto la Procura di Bergamo avrebbe immediatamente convocato lo staff multidisciplinare e disposto dei colloqui con uno psicologo. Poco più di due settimane dopo, precisamente il 2 ottobre, Oumar viene però trasferito al carcere milanese di Opera. Secondo quanto riportato dal sottosegretario, “per motivi di sicurezza”. Per gli altri detenuti e per il personale del carcere di via Gleno, si è ritenuto opportuno che il ragazzo fosse spostato in un’altra sede e restasse in isolamento. Il presunto tentativo di suicidio - Il 19 ottobre, alle 23.40 circa, durante il giro di controllo l’agente addetto alla vigilanza dei nuovi giunti in carcere rinviene Oumar appeso alle sbarre della finestra della cella in cui si trovava con una corda rudimentale. Il personale della Polizia Penitenziaria è subito intervenuto e venti minuti dopo Oumar pare sia arrivato all’ospedale Humanitas di Rozzano, dove viene ricoverato alle 00.50 in prognosi riservata. Sempre secondo Delmastro Delle Vedove, la famiglia sarebbe stata allertata immediatamente. Nei giorni del ricovero del giovane, nello specifico il 23 ottobre, il magistrato di sorveglianza di Milano ha disposto per Oumar il “differimento provvisorio della pena nella forma della detenzione domiciliare presso l’ospedale Humanitas, ove ricoverato”. Alle 15.50 del 26 ottobre, però, Oumar è morto per “insufficienza multiorgano post anossia a seguito di arresto cardio-circolatorio”. “Nuovi quesiti” - Il sottosegretario ha concluso il suo intervento spiegando che nel penitenziario meneghino Oumar era sottoposto a ILA, ovvero a una “intensificazione del livello di attenzione” che le guardie avrebbero dovuto riservare nei suoi confronti attraverso un monitoraggio multidisciplinare. La cartella clinica di Oumar è ora a disposizione del pubblico ministero, che ha aperto un fascicolo d’indagine per istigazione al suicidio. Al momento, non ci sono indagati. Subito dopo le parole di Delmastro Delle Vedove, Devis Dori s’è detto soddisfatto della risposta nel merito del Ministero. Ma ha anche aggiunto: “Nel dare la sua risposta, il Ministero della Giustizia ha aggiunto nuovi elementi a oggi non noti, che però generano nuovi ulteriori quesiti. In particolare, non si comprende in quali condizioni Oumar sarebbe giunto nel carcere di Opera il 2 ottobre e cosa è successo in cella quando, la sera del 19 ottobre, sarebbe stato ritrovato in gravi condizioni”. Fossano (Cn). Giustizia riparativa, un percorso che rimette al centro la vittima e la comunità La Fedeltà, 16 novembre 2023 Secondo appuntamento con il percorso sulla Giustizia Riparativa promosso dalla Caritas diocesana a Fossano. Venerdì 17 novembre alle ore 20:45, la teologa Donata Horak approfondisce la riflessione attraverso la ricerca delle radici bibliche della Giustizia Riparativa, un sapere/agire nuovo dalle radici molto antiche. L’incontro si svolge all’Istituto Superiore Vallauri, in via S. Michele 68, a Fossano. Un pubblico attento venerdì 10 ha seguito ed apprezzato l’intervento di Giovanni Ghibaudi, mediatore penale, nella serata di apertura degli incontri. Il relatore - tra i fondatori del primo centro italiano di mediazione penale, nel 1995 - ha chiarito con evidente coinvolgimento personale che cosa si intenda per Giustizia Riparativa e quali opportunità offra, dentro e fuori i limiti dell’ambito penale. Attraverso la sua esperienza ha evidenziato quali siano i cardini di questo paradigma, relativamente nuovo, insistendo sulla necessità di un cambiamento culturale, che passi anche attraverso le parole che si usano. Perché un reato non è soltanto la trasgressione di una legge, ma è un danno, un’offesa fatta ad una persona, la vittima, i cui bisogni dovrebbero essere al centro dell’attenzione, mentre viene invece abbandonata ai margini del processo, quando non subisce una vera e propria vittimizzazione secondaria, come purtroppo spesso capita nei processi per stupro. Anche chi ha commesso il danno è e rimane una persona, e in quanto tale capace di percorrere la faticosa strada della responsabilizzazione e della disponibilità ad una “riparazione” che non sia solo economica, ma arrivi a restaurare, ristorare, i legami sociali che quel danno ha rotto. Nati in ambito penale minorile, questi percorsi possono essere utili a qualsiasi comunità - scuola, famiglia, società sportive, territori - per affrontare i piccoli danni quotidiani, prevenire le ricadute, il gonfiarsi dei conflitti e contribuire al benessere sociale collettivo. Roma. “Valutare il sistema penitenziario. Organizzazione, performance e percorsi di riforma” agensir.it, 16 novembre 2023 Oggi il seminario alla Lumsa. Andrea Del Mastro, sottosegretario al Ministero della Giustizia, e Lina Di Domenico, vice-capo del Dap-Dipartimento Amministrazione penitenziaria, parteciperanno al seminario “Valutare il sistema penitenziario - Organizzazione, performance e percorsi di riforma”, in programma all’Università Lumsa, a Roma, oggi pomeriggio, a partire dalle ore 15.30. Il seminario, organizzato dal dipartimento Gepli dell’Università Lumsa e dal Master in Management e Politiche pubbliche della Lumsa Master School, in collaborazione con la rivista scientifica Azienda pubblica (Gruppo Maggioli), propone un momento di riflessione sullo stato del sistema penitenziario e delle carceri in Italia a partire da una ricerca di carattere economico-aziendale che stanno conducendo Filippo Giordano, ordinario di Economia aziendale dell’Università Lumsa nonché co-direttore del Master in Management e Politiche pubbliche, e Walter Rauti, dell’Università degli studi di Milano e componente del Team di ricerca del Pnrr Lab di Sda Bocconi School of Management. I lavori saranno aperti dai saluti di Paola Spagnolo, direttrice del Dipartimento di Giurisprudenza, Economia, Politica e Lingue moderne (Gepli) dell’Università Lumsa. “L’analisi economico aziendale delle Istituzioni porta inevitabilmente a focalizzare l’attenzione sulla coerenza tra missione e performance e quindi sull’adeguatezza dei modelli organizzativi a supporto del fine istituzionale. I dati sul sistema penitenziario italiano segnalano l’incapacità delle carceri italiane di perseguire il fine riabilitativo previsto dall’art. 27 della Costituzione. Al di là dei dettami costituzionali e ai contenuti dell’ordinamento penitenziario è la qualità dei modelli organizzativi adottati e l’adeguatezza delle risorse (infrastrutturali, umane e finanziarie) a fare la differenza in termini di capacità di perseguire la missione istituzionale”, si legge in una nota della Lumsa. L’obiettivo della ricerca in corso è “quello di rimarcare l’importanza per il decisore pubblico di adottare un approccio evidence-based nella valutazione ed elaborazione delle politiche pubbliche nell’ambito dell’amministrazione penitenziaria. In un ambito di policy così rilevante per la comunità come quello dell’amministrazione della giustizia, la necessità di rendicontare e valutare i risultati raggiunti da politiche, interventi e programmi è di fondamentale importanza. Politiche che si dimostrano inefficaci non solo assorbono inutilmente risorse pubbliche, ma gli impatti negativi ingenerati producono spillover a livello sistemico che non possono essere trascurati”. Roma. “Donne tra carcere e resistenza”. Incontro alla Casa internazionale delle Donne casainternazionaledelledonne.org, 16 novembre 2023 Raccontare il carcere iraniano e afgano, le accuse e la vita delle detenute attraverso esperienze vissute in prima persona, significa fare luce sul sistema giuridico dei due paesi e sui disagi sociali e culturali causati dalle norme legali, ma prima ancora mettere in evidenza i movimenti di resistenza che hanno preso forma, in modalità diverse, all’indomani della Rivoluzione Iraniana del 1979 e dell’insediamento dei Taleban al potere nel 2021 in Afghanistan, e continuano fino ad oggi. L’evento mira a creare momenti di riflessione, partendo dalle testimonianze, dirette e indirette, delle attiviste-detenute a causa dell’impegno nei differenti movimenti di protesta contro il sistema politico dei due paesi. La denuncia della ‘disumanità’ del carcere, dei capi d’accusa pianificati nei confronti delle prigioniere, delle torture e violenze patite, tra cui l’isolamento prolungato e le confessioni farsa, si trasforma in una forma di ‘Resistenza’ contro le autorità, varca i confini della prigione e viene narrata tramite video o scritti pubblicati in rete o nei libri. L’incontro si svolge lunedì 27 novembre 2023 alle ore 18:00, in concomitanza con “La giornata internazionale contro la violenza sulle donne”, presso la Casa Internazionale delle Donne di Roma con la partecipazione di Maura Cossuta (presidente della Casa internazionale delle Donne), Livia Turco (ex parlamentare e presidente della Fondazione Nilde Iotti), Zahra Toufigh (giurista iraniana), Sedigha Moshtaq (attivista afgana). Modera l’incontro Marisa Paolucci (giornalista e scrittrice). Durante l’evento verranno proiettate video-testimonianze di Narges Mohammadi, premio Nobel per la pace 2023 e proposti, da Parisa Nazari (attivista iraniana), brani del libro Diari dal carcere di Sepideh Gholian. Modena. Dal carcere al palcoscenico, due imperdibili spettacoli al Nuovo Teatro delle Passioni modenatoday.it, 16 novembre 2023 Prosegue e si consolida la collaborazione tra Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale e Teatro dei Venti, la compagnia modenese diretta da Stefano Tè che da quasi vent’anni porta la pratica teatrale all’interno delle carceri con percorsi creativi rivolti ai e alle detenute. Al Nuovo Teatro delle Passioni sono in programma due spettacoli di cui ERT ha sostenuto la produzione e realizzati insieme agli attori della Casa Circondariale di Modena e della Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia: rispettivamente Giulio Cesare, dal 16 al 19 novembre, in scena per la prima volta al di fuori delle strutture detentive; e Amleto, in prima assoluta dal 23 al 26 novembre, dopo il primo studio presentato al Teatro Dadà a maggio 2023. I due lavori - insieme al podcast Macbeth alla radio costruito con le voci degli attori e delle attrici degli istituti penitenziari di Modena e Castelfranco - compongono la trilogia su William Shakespeare sviluppatasi nell’arco del biennio 2022/23, anche banco di prova del progetto AHOS All Hands On Stage, cofinanziato dalla comunità europea che prevede la professionalizzazione dei detenuti in diversi ambiti lavorativi legati al teatro, quali tecnici, macchinisti, scenografi. La trilogia shakespeariana rientra nel triennio di attività del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna. Con l’avvio del progetto è stato firmato un Protocollo d’Intesa sull’attività di formazione e professionalizzazione e inserimento lavorativo della popolazione detenuta nell’ambito dei mestieri del Teatro, sottoscritto dalle Direzioni delle Carceri di Modena e Castelfranco Emilia, da Emilia Romagna Teatro Fondazione, da Fondazione Teatro Comunale di Modena, da ATER Fondazione e da Teatro dei Venti. Domenica 26 novembre alle ore 16.00 al Nuovo Teatro delle Passioni è in programma l’incontro conclusivo di Abitare Utopie, un progetto di Teatro dei Venti con il sostegno della Fondazione di Modena, incentrato sulla rigenerazione culturale in connessione con il territorio. In questa occasione verranno raccontate le tre annualità di Abitare Utopie, con un confronto sui temi della Creazione di comunità e di Impatto sociale dei progetti culturali. Giulio Cesare. Primo capitolo della trilogia shakespeariana di Teatro dei Venti, Giulio Cesare ha esordito nel dicembre 2022 all’interno del Carcere di Modena e ora va in scena per la prima volta al di fuori delle strutture detentive. L’allestimento prende avvio da delle riflessioni - condivise con i detenuti partecipanti al laboratorio condotto dalla compagnia modenese - sull’Uomo e sulla natura umana, sul Tradimento e sulla brama di Potere, ma anche sul desiderio di Vendetta. Il testo di Shakespeare è stato oggetto di un adattamento mirato a evidenziare i nuclei tematici fondamentali, arricchiti dalla musica di Irida Gjergij, che con la sua viola accompagna uno spettacolo costruito per sottrazione. Protagonisti assoluti sono i corpi e le voci degli interpreti che fanno risuonare chiara e potente la parola shakespeariana. Amleto - Amleto chiude la trilogia shakespeariana di Teatro dei Venti, che fa dell’opera uno spettacolo in cui viene evidenziata l’umanità del testo. I bozzetti della scenografia e dei costumi sono realizzati da F.M., un detenuto della Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia, un lavoro che è stato reso possibile dal progetto AHOS. Le trame e gli interessi dei personaggi della tragedia si snodano nella cornice oscura di una Elsinore buia e austera in un palazzo nero, composto di scale e piani che si intersecano tra loro fino a confondersi. È così che appare da fuori la corte della quale Amleto è disgustato: è corrotta e traditrice. In essa i personaggi s’inseguono in un ritmo incalzante, tramando e agitandosi. Finché non irrompe il Teatro, il mezzo di cui si serve il Principe per dare la caccia alle coscienze e arrivare così alla verità, o a qualcosa che le somigli. La drammaturgia essenziale di Vittorio Continelli e Stefano Tè offre agli attori-detenuti del Carcere di Castelfranco Emilia e ai performer di Teatro dei Venti linee nette lungo cui muoversi. Il linguaggio è diretto, anti-retorico, in cui non mancano i momenti lirici: l’obiettivo è quello della semplicità, motivata dalla volontà di arrivare al cuore di questioni che attanagliano non soltanto i personaggi ma, come di consueto con Shakespeare, l’intera umanità. Teatro dei Venti è una compagnia teatrale con sede a Modena, attiva dal 2005 nella creazione di spettacoli e nella realizzazione di progetti che accostano creatività e comunità in funzione di una efficace coesione sociale. Vincitrice di diversi riconoscimenti tra i quali il Premio Ubu 2019 per Moby Dick, conduce percorsi permanenti nella Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia (dal 2006) e nella Casa Circondariale Sant’Anna di Modena (dal 2014), creando un presidio culturale all’interno degli Istituti. I progetti hanno portato alla produzione di 9 spettacoli, 1 film, 2 radiodrammi, 11 performance di artisti esterni, 6 laboratori. Nei processi creativi e in occasione dei debutti, i detenuti percepiscono una retribuzione per prove e repliche. Dal 2023 il progetto europeo AHOS All Hands on Stage fornisce gli strumenti per la professionalizzazione e lo scambio di buone pratiche nell’ambito del Teatro Carcere a livello europeo. Maestri di Strada. “Chiediamo assistenza contro il ministero” di Cesare Moreno Il Domani, 16 novembre 2023 La lettera del presidente dell’associazione che lavora nei quartieri difficili di Napoli, in credito con il ministero dell’Istruzione per 140 mila euro: “Chiedo pubblicamente se qualche giurista, studio legale, parlamentare, ritiene che possa ricevere dalla Associazione l’incarico di affrontare questo caso in sede civile e penale” Caro direttore, per prima cosa la ringrazio sentitamente per aver portato alla luce una vicenda che definire kafkiana è quasi un complimento. In secondo luogo vorrei chiederle di pubblicare questa lettera. Il ministro Giuseppe Valditara che questa vicenda ha ereditato dal passato governo, ma che potrebbe far valere il suo potere, ha dato la stessa risposta che ho avuto un anno fa: stiamo indagando, con la sola aggiunta di “su quegli anni” ma giusto perché sono stato io stesso a stabilire un nesso tra la vicenda Boda e il progetto Coronauti, diversamente non sapevo assolutamente nulla su cosa stava accadendo. Un contratto - “Stiamo indagando su quegli anni”, ma sono passati 28 mesi! E chi sta indagando e su cosa? Perché il ministero dell’Istruzione non risponde alla richiesta di accesso agli atti? La vicenda che ci riguarda non è di anni: si tratta di dieci giorni tra la metà marzo 2020 e il 3 aprile: c’è stata una telefonata dal ministero a me di cui si troverà certamente traccia, c’è stata una videoconferenza che è stata registrata e c’è stata una decisione e un contratto. La domanda che faccio è: avendo un contratto in cui si dice cosa devo fare io e cosa deve fare l’altro, se io faccio la mia parte e l’altro non onora il suo impegno, io cittadino cosa devo fare? Ora azzardo ancora delle ipotesi - ma perché devo fare delle ipotesi e non posso in totale trasparenza capire cosa succede?: si indaga se le procedure decisionali siano state corrette? Perché se ci fosse una qualsiasi ipotesi corruttiva o di illecito ne avrei avuto notizia dalla magistratura. Posso anche ipotizzare, date le circostanze emergenziali, che siano stati saltati dei passaggi. Può darsi che qualche funzionario vada sanzionato, ma al momento nessuno mi ha comunicato se e perché il contratto firmato da un dirigente scolastico e da un dirigente ministeriale in carica non abbia più validità. Quindi ribadisco che in questo momento mi sono stati rubati 140 mila euro, e che questo costituisce un abuso in piena regola anche se non so se sia possibile un’azione penale basata sull’ipotesi dell’abuso di potere. Le “valutazioni” - Secondo: c’è stato un progetto - Decreto dipartimentale N° 66 del 25 luglio 2021 nato e cresciuto quando la dottoressa Boda già non c’era più, seguito passo passo dal direttore generale Jacopo Greco. Maestri di Strada nella valutazione di una commissione che ha impiegato quasi un anno, è risultata seconda in Italia con 93 punti su cento, è stata attivata una procedura di co-progettazione col Ministero durata mesi e al momento del varo il tutto viene sospeso in attesa di “valutazioni”. Ci hanno chiesto di costituire con urgenza una Associazione Temporanea di Scopo con svariate associazioni che ha comportato dispendio di tempo e la spesa di migliaia di euro; ci sono 25 scuole in Italia che avevano fatto conto su quel progetto e a loro pure non è giunta alcuna comunicazione. Quali valutazioni? Chi ne è responsabile? Lavoro ancora su ipotesi: se i due fatti sono collegati, ed è del tutto plausibile che lo siano, l’indagine non riguarda quanto avvenuto sotto la responsabilità della dottoressa Giovanna Boda ma riguarda specificamente l’associazione Maestri di Strada. Significa quindi che da qualche parte esiste un fascicolo che riguarda Maestri di Strada e che si indaga su cosa? Anche in questo caso esistono impegni firmati da me e dai funzionari del ministero: mi è stato chiesto di firmare foglio per foglio le modifiche alla progettazione e ho subito pressioni per proseguire quando avevo deciso di rinunciare al progetto perché vedevo complicate ed oscure le modalità di erogazione dei fondi. Quindi per mesi sono stato ingannato, per mesi ho accettato firme da parte di funzionari che già sapevano che le avrebbero disonorate? Ma la direzione generale per le Risorse umane e finanziarie gode di uno statuto di extraterritorialità, le leggi generali del nostro stato per lei non valgono? Chiedo pubblicamente se qualche giurista, studio legale, parlamentare, ritiene che possa ricevere dalla Associazione l’incarico di affrontare questo caso in sede civile e penale. C’è qualcuno, oltre il meritorio direttore di Domani che possa dire la sua su questa vicenda? Mamme arcobaleno, svolta della procura di Padova: “Decida la Consulta” di Angela Stella L’Unità, 16 novembre 2023 Le famiglie arcobaleno avevano promosso ieri mattina un sit-in di protesta davanti al tribunale in occasione delle prime udienze. Poi la svolta. La Procura di Padova, che a partire da marzo aveva chiesto di annullare gli atti di nascita di 37 bambini figli di coppie lesbiche cancellando una delle due mamme (e quindi togliendo uno dei genitori a quei bambini, costringendoli a ricorrere alla procedura di adozione in casi particolari) ha cambiato ieri almeno in parte linea, in una svolta importante per la battaglia giuridica sul riconoscimento delle famiglie omogenitoriali. Infatti nelle due udienze a porte chiuse la Procura ha chiesto al Tribunale di Padova di sollevare la questione di legittimità di fronte alla Corte costituzionale, perché valuti se l’esclusione delle coppie di madri lesbiche e dei loro figli dalle norme che regolano l’accesso alla fecondazione assistita eterologa violi i loro diritti fondamentali. Si tratta della legge 40 che limita l’accesso alla fecondazione eterologa alle coppie eterosessuali. La svolta importante è che la Procura di Padova, ora guidata dalla procuratrice aggiunta Maria D’Arpa (che ha sostituito la pm del ricorso originario, Valeria Sanzari, dopo il trasferimento di quest’ultima ad altra sede), si allinea in parte alla richiesta delle madri arcobaleno. Nel giugno scorso, in seguito ad una circolare del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi emanata a marzo, la Procura aveva impugnato tutti i certificati di bambini nati in famiglie omogenitoriali. “Va contro le leggi, e i pronunciamenti della Cassazione, un atto di nascita registrato con due mamme”, aveva detto Sanzari. Ora il cambiamento di rotta. Dunque è rimandato quello che sembrava essere un vero e proprio maxiprocesso civile contro le coppie lesbiche i cui figli sono stati riconosciuti alla nascita dal 2017 a oggi dal sindaco Sergio Giordani. Le famiglie arcobaleno avevano promosso ieri mattina un sit-in di protesta davanti al tribunale in occasione delle prime udienze. Poi la svolta. “Quello che rischiava di essere solamente il primo doloroso giorno di udienze per decidere del destino degli atti di nascita dei 37 bambini nati da due madri, si è aperto con una grande novità - ha dichiarato la deputata del Partito Democratico, Rachele Scarpa - : il pubblico ministero ha richiesto al tribunale di Padova di rimettere la questione alla Corte Costituzionale, inviando ad essa gli atti. Questa è una svolta fondamentale, coerente con quanto sostenuto dalle associazioni di difesa legale della comunità Lgbqia+. Possiamo trasformare quello che nasceva come un attacco alle famiglie arcobaleno in un’occasione per sanare quei vuoti nella legge italiana, per prevenire discriminazioni future. Ci aspettiamo che il tribunale di Padova accolga questa richiesta: continueremo a batterci senza sosta per il diritto di tutte le famiglie a esistere e a vivere in pace anche di fronte alla Corte Costituzionale”. Ora starà al Tribunale di Padova decidere se sollevare la questione di legittimità. Migranti. La dura realtà dell’hotspot di Pantelleria, dove manca il diritto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 novembre 2023 Detenzione illegittima, ostacoli all’accesso all’asilo, mancanza di informativa legale, violazione della libertà di corrispondenza telefonica. Mentre si propone una sorta di esternalizzazione dei centri di accoglienza, vedasi l’accordo con l’Albania, permangono le criticità delle strutture del nostro Paese. Ancora è critica la situazione dell’hotspot di Pantelleria. E ciò emerge dal report dell’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) realizzato nell’ambito del Progetto InLimine. Gli hotspot, luoghi designati per l’identificazione e la selezione dei migranti, sono diventati un aspetto critico della gestione delle migrazioni nel Paese. Uno di questi luoghi è Pantelleria, che è al centro di una serie di problematiche gravi e sistematiche. Una delle principali criticità riscontrate dal report di Asgi riguarda la detenzione illegittima delle persone migranti. Queste persone vengono trattenute all’interno degli hotspot durante le procedure di identificazione e determinazione della condizione giuridica, spesso prolungandosi fino al trasferimento nei famigerati centri di permanenza e rimpatrio (Cpr). Questa privazione di libertà - secondo l’associazione - avviene senza una base legale e senza alcun controllo giurisdizionale, violando così i principi sanciti dall’articolo 13 della Costituzione e dall’articolo 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Inoltre, l’accesso al diritto di asilo è ostacolato da una selezione illegittima delle persone che possono accedere a tale diritto. Questo approccio viola i diritti fondamentali dei cittadini e delle cittadine straniere in ingresso, mettendo in discussione il principio stesso del diritto di asilo. Un’altra criticità evidenziata a Pantelleria dallo studio aggiornato dell’Asgi, riguarda l’inadeguatezza dell’attività di informazione e l’assenza totale di assistenza legale per le persone migranti. Queste persone si trovano in una situazione di totale isolamento, privati non solo della libertà personale ma anche dei diritti fondamentali all’assistenza legale e all’informazione. Questa mancanza di supporto legale compromette ulteriormente i loro diritti e rappresenta una violazione dei principi di giustizia e uguaglianza. Nel contesto di restrizione della libertà personale e di movimento, è fondamentale garantire la libertà di corrispondenza telefonica con l’esterno. Tuttavia, a Pantelleria, le persone migranti subiscono limitazioni nella comunicazione con il mondo esterno. Anche se viene fornita loro una scheda di telefonia mobile, l’uso del telefono è strettamente controllato e limitato negli orari, senza alcuna tutela della privacy delle persone. Questo, oltre a violare il diritto alla libertà di comunicazione, ha implicazioni dirette sulla loro vita privata, familiare e sul diritto all’informazione. Il caso di Pantelleria mette in luce gravi violazioni dei diritti umani fondamentali delle persone migranti, inclusi il diritto alla libertà personale, all’assistenza legale, alla libertà di comunicazione e all’asilo. Replicare questa situazione in Paesi terzi, non aiuta, ma può complicare ancora di più la questione del diritto di difesa del migrante. Migranti. Strage di Cutro, Giulia Bongiorno: “Lo Stato non deve risarcire i familiari delle vittime” di Simona Musco Il Dubbio, 16 novembre 2023 L’Italia si rifiuta di risarcire i familiari delle 94 vittime della strage di Cutro. Ad annunciarlo ieri in aula a Crotone, dove è in corso il processo nei confronti dei presunti scafisti dell’imbarcazione naufragata il 26 febbraio scorso a due passi dalla costa, è stato Francesco Colotti, che ha sostituito la senatrice della Lega Giulia Bongiorno in rappresentanza del Fondo di garanzia vittime della strada, che nella precedente udienza era stato ammesso come responsabile civile. Ieri il Fondo si è regolarmente costituito, opponendosi però alla citazione e chiedendo l’estromissione dal processo, in quanto il caicco naufragato non era stato utilizzato per diporto né adibito a trasporto pubblico. Per tale motivo, secondo Bongiorno, non può essere assoggettato al codice delle assicurazioni che regola anche l’intervento del fondo di garanzia per le vittime della strada, argomentazione alla quale si sono opposti gli avvocati di parte civile. “Dopo l’inerzia della notte del 26 febbraio, la notte del naufragio di Cutro ha commentato l’avvocato Francesco Verri, difensore di un gruppo di familiari -, lo Stato ora si mostra molto attivo. Si presenta puntuale in aula nel processo contro i presunti scafisti e invece di chiedere scusa ai familiari delle vittime e ai superstiti, dice: “io non pago”. Il Tribunale di Crotone ha permesso alle parti civili di chiamare la Consap, e cioè il Fondo di garanzia per le vittime degli incidenti a terra e in mare provocati da mezzi non assicurati. E il Fondo è arrivato. Ha risposto alla chiamata; ma non per risarcire. Per dire che la legge parla di “natanti” mentre il caicco sarebbe un’altra cosa. Formalismo. Tentativi di sottilizzare e minimizzare. Uno Stato dovrebbe comportarsi in un altro modo. Il punto è che lo Stato continua a far finta di niente. La strage non lo riguarda. Quella notte non è intervenuto nessuno, né in mare né a terra se non quando ormai non c’era più niente da fare. E ora? Che le vittime si arrangino. Che le mamme rimaste senza i figli se la sbrighino da sole. Che gli orfani trovino una soluzione. Tutto questo è sbalorditivo. Gli avvocati della Consap non c’entrano. Fanno il loro lavoro. Il problema è il loro cliente. Lo Stato a Crotone sta mostrando al mondo il suo volto più impietoso e cattivo. Al di là del merito”. Il giudice Edoardo D’ambrosio ha deciso il rinvio del processo al prossimo 29 novembre per poter esaminare la richiesta di estromissione. Migranti. Bruxelles apre al patto con l’Albania di Leo Lancari Il Manifesto, 16 novembre 2023 Non è ancora un sì, ma gli somiglia molto. Ilva Johansson, commissaria europea per gli Affari interni, ha reso noto ieri quello che il servizio giuridico della Commissione pensa dell’accordo sui migranti siglato dal governo Meloni con l’Albania. E il giudizio, sebbene espresso attraverso un tortuoso giro di parole e pur sottolineando che per ora si tratta di una “valutazione preliminare “, è tutt’altro che negativo. L’intesa con Tirana, ha spiegato infatti Johansson, è “al di fuori del diritto Ue” ma “non viola il diritto Ue”. Un parere che arriva nello stesso giorno in cui il parlamento albanese approva il protocollo firmato dal premier Edi Rama con Giorgia Meloni e in Italia il presidente della Camera Lorenzo Fontana - su pressione delle opposizioni che in una lettera gli hanno sollecitato un intervento per conoscere il testo del protocollo con il paese delle Aquile - ha chiesto al governo di fornire al parlamento i dettagli dell’accordo. Dopo il parere espresso pochi giorni fa dal commissario per l’Allargamento Oliver Vàrhelyi, che ha parlato dell’intesa con l’Albania come di un “modello interessante”, da Bruxelles arriva dunque un altro segnale incoraggiante per palazzo Chigi. “Il diritto Ue - ha spiegato la commissaria agli Affari interni - non è applicabile fuori dal territorio dell’Ue” (l’Albania è candidata a entrare nell’Unione ma non ne fa parte). “Sappiamo - ha aggiunto però Johansson - che il diritto italiano segue il diritto Ue e che, secondo l’accordo, si applicherà in Albania il diritto italiano”. La questione riguarda coloro che, tratti in salvo dalle navi italiane in acque internazionali, faranno richiesta di asilo una volta sbarcati in Albania. Queste richieste “saranno valutate secondo il diritto italiano dalle autorità italiane. Se otterranno l’asilo saranno rimandate in Italia, altrimenti saranno rimpatriate nei paesi di origine o, se questo non sarà possibile, rimandate in Italia”. Le conclusioni della commissaria sembrano un esempio della proprietà transitiva. “L’Italia rispetta il diritto Ue, quindi questo significa che sono le stesse regole”. Per la commissaria ci sono dunque pochi dubbi: quello che sarà applicato in Albania “non è il diritto Ue ma le leggi italiane seguono il diritto Ue”. Un giudizio accolto con soddisfazione dal ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto (“Parole chiare che mettono a tacere ogni polemica”) ma che non rispondono alla richiesta delle opposizioni di discutere l’accordo in Parlamento. “L’articolo 80 della Costituzione - hanno scritto a Fontana Chiara Braga del Pd, Francesco Silvestri dei 5 Stelle, Riccardo Magi di +Europa, Matteo Richetti di Azione e Luana Zanella di Avs - prescrive che gli accordi internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, importino variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi siano sottoposti alla ratifica del Parlamento”. Resta da capire adesso se e quando il governo verrà incontro alla richiesta del presidente Fontana di fornire maggiori dettagli sull’accordo. Per ora si sa solo che per martedì prossimo alle 11 sono previste le comunicazioni sul tema all’aula di Montecitorio del ministro degli Esteri Antonio Tajani. “Ci sono due punti da considerare”, spiega in serata Riccardo Magi. “Il primo che fino a oggi un parlamentare, quindi un cittadino, non può aver accesso a un formale del governo. Il secondo è che va attivato l’iter di autorizzazione alla ratifica da parte del governo”. Migranti in Albania, la Commissione europea: “Non si applicherà il diritto Ue” di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 16 novembre 2023 La giurista Favilli: “Un vantaggio per i richiedenti asilo”. “La nostra valutazione preliminare è che l’intesa tra Italia e Albania non viola il diritto comunitario ma è al di fuori di esso”. Lo ha detto la commissaria Ue agli Affari Interni Ylva Johansson rispondendo ad una domanda a Bruxelles. Nessuna intenzione di aprire procedure di infrazione, dunque. E nessun divieto all’accordo tra Roma e Tirana. Ma non è detto che si tratti per forza di una buona notizia per il governo di Giorgia Meloni. Perché, se non si applica il diritto d’asilo dell’Unione, nei centri albanesi varrà solo quello italiano, “a partire dalla nostra Costituzione che per il diritto d’asilo ha margini decisamente più ampi”, spiega a ilfattoquotidiano.it Chiara Favilli, esperta di politiche d’asilo europee e docente di diritto dell’Unione all’Università di Firenze. E chiarisce perché anche la decisione della Suprema Corte britannica, che ha dichiarato illegittimo il piano inglese per deportare in Ruanda migranti e richiedenti, ha a che fare con le intenzioni europee e italiane. Professoressa Favilli, qual è la valutazione della Commissione Ue? È una valutazione preliminare, appunto, ma afferma chiaramente che in Albania non si applica il diritto d’asilo europeo. E visto che i centri saranno sotto la nostra giurisdizione non potrà che applicarsi il diritto italiano e quindi il terzo comma dell’articolo 10 della Costituzione: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana, ha il diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Cosa significa per i piani del nostro governo? Le regole europee attuano il principio costituzionale, ma al contempo lo restringono, limitando i presupposti per ottenere l’asilo a casi specifici. Di fronte al ricorso di un richiedente che nei centri italiani in Albania abbia visto respinta la sua richiesta, il giudice che non debba rifarsi alle norme europee potrà applicare direttamente la Costituzione, senza riferimento alcuno a tutto il sistema d’asilo oggi vigente. Questo può favorire il richiedente proprio perché l’articolo 10 riconosce l’asilo a chiunque non goda delle libertà democratiche garantite appunto dalla Costituzione italiana. Prendiamo ad esempio i richiedenti tunisini, le cui domande vengono in gran parte respinte. Non abbiamo una giurisprudenza consolidata, ma sì, applicando solo la Costituzione sarebbe complicato sostenere che in Tunisia siano riconosciute le stesse libertà democratiche previste dalla Carta. Anche a voler fornire un’interpretazione non troppo ampia del testo costituzionale, sarebbe molto difficile negare loro il diritto d’asilo. Se invece il giudice tenesse conto della normativa europea? Allora dovrebbe tenere conto di tutto, anche del fatto che l’Albania è un paese terzo e per esservi trasferite le persone dovrebbero avere un collegamento di qualche tipo con questo Paese, come prevede la normativa europea. Al contrario, quelle che si vuole portare lì non saranno mai nemmeno transitate in territorio albanese. Ma l’Unione può davvero chiamarsi fuori come sembra dirci la valutazione della Commissione? Esiste un principio che vieta di aggirare il diritto dell’Unione. Uno Stato che adotti politiche per evitare le norme europee, come quella sul necessario collegamento tra il migrante e il Paese terzo dove lo si trasferisce, per esempio, priverebbe le norme stesse del loro effetto utile. Quindi qualche dubbio ce l’ho rispetto alla posizione del commissario europeo. Tutto sta a vedere come sarà concretamente applicato il protocollo tra Italia e Albania e quali garanzie verranno riconosciute. Se maggiori o minori rispetto a quelle derivanti dal diritto dell’Unione che avremmo dovuto adottare in Italia. Quindi l’accordo con l’Albania non è di per sé in contrasto col diritto sovranazionale. Quella che chiamo “protezione altrove” è considerata compatibile con la Convenzione di Ginevra, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e con il diritto dell’Unione che prevede le nozioni di Paese sicuro e Paese terzo sicuro. Il problema è che le condizioni affinché sia effettivamente compatibile con queste norme sono talmente difficili da soddisfare che è quasi impossibile realizzare l’obiettivo. In Albania si tratterà di garantire che le domande siano esaminate adeguatamente, cosa che in Italia è affidata a una Commissione composta da prefetto, rappresentanti di enti locali, dell’Unhcr, da mediatori, interpreti, eccetera. E così dovrà essere per l’esame del possibile ricorso da parte del giudice ordinario e ovviamente per il diritto alla difesa che deve essere effettivo. Come si fa a garantire che ci sia lo stesso esame amministrativo e lo stesso controllo giurisdizionale che c’è in Italia? Cosa ci dice in proposito la Suprema Corte britannica, che ha censurato la deportazione dei richiedenti in Ruanda? Anche questa sentenza non afferma l’incompatibilità dell’accordo col Ruanda con la normativa del Regno Unito, che poi rinvia alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Quello che la Suprema Corte ha accertato è che oggi il Ruanda non ha quei requisiti di sicurezza che devono sussistere affinché una persona possa esservi trasferita. Anzi, secondo la Corte c’è addirittura il rischio che non venga rispettato l’obbligo di non respingimento verso Paesi dove è possibile subire trattamenti inumani e degradanti. Per dire quanto sia difficile garantire i diritti in Paesi dove già non esista un solido sistema d’asilo. Ma l’Albania non è il Ruanda: anche il governo tedesco ha ricordato come il suo ingresso in Ue sia vicino. Se l’Italia ha previsto la propria giurisdizione sui centri è perché evidentemente il sistema d’asilo albanese non è equiparabile a quello italiano. Certo, se l’Albania fosse nell’Unione al posto del protocollo avremmo visto uno dei vari accordi sulle ricollocazioni tra Stati membri. Ma così non è, né possiamo essere certi che una volta nell’Unione l’Albania accetti ancora simili intese. Ipotesi a parte, come la sentenza inglese ci ricorda, si tratta di verificare le garanzie che uno stato può offrire e, concretamente, il tipo di esame che verrà effettuato sulle domande di protezione. Tunisia. Nel palazzo abbandonato dove i migranti aspettano di imbarcarsi per Lampedusa di Leonardo Martinelli La Repubblica, 16 novembre 2023 Sono almeno 1.200 a vivere in un edificio diroccato alle porte della capitale: “L’impressione è che le autorità tunisine aprano e chiudano il rubinetto, rilasciando o intensificando i controlli in mare e sulla costa”. Sulle rive della laguna, Lac 1 è il sogno abortito di una Dubai lontana (una delle tante illusioni infrante a Tunisi). Palazzi moderni, dall’intonaco bianco, già sporco e vecchio, si alternano a rari edifici tecnologici e scintillanti e a terreni ancora da costruire, discariche di plastica colorata. Mogli annoiate di “expat” del Golfo si aggirano in strada tra fiotti di giovani tunisini sottopagati, che lavorano nei call center, concentrati nella zona, a disposizione di clienti scocciati, in linea al telefono dalla Francia. Poi, dietro un angolo, inatteso, si materializza il relitto di un palazzo enorme mai finito: panni stesi al sole ai piani più alti e, nel giardino pubblico sotto, pentole annerite dal fuoco, dove cuoce pasta col concentrato di pomodoro. Sarebbero almeno 1.200 a vivere qui, tutti uomini e tutti migranti subsahariani, nella puzza di urina e un unico bagno intasato per tutti. In attesa. Si sono accumulati nell’ultimo mese. Tanti sono sudanesi, in fuga dalla guerra, come Biko, 24 anni: “Sono partito un anno fa da casa mia, facevo il contadino. Sono risalito da Ciad, Niger e Algeria, fino al Marocco. Ma lì, dalla costa mediterranea, è impossibile passare in Spagna. Allora sono venuto in Tunisia. Vorrei lavorare, per mettere da parte i soldi necessari a prendere un barchino verso Lampedusa. Ma qui di lavoro non ce n’è proprio”. Anche Azuber è sudanese, 22 anni: “Io avevo un po’ di soldi e ci ho provato due volte. Ci vogliono 1500 dinari (450 euro) per partire. Ma in entrambi i casi la Garde nationale tunisina ci ha fermati al largo. Era settembre. La seconda volta i gendarmi mi hanno detto: se ci riprovi, ti portiamo al confine con la Libia, ti abbandoniamo nel deserto. Ora aspetto, tanto a ottobre era tutto bloccato. Ma le ultime sere i “passeur”, che organizzano le trasferte, stanno ritornando. Vengono qui al tramonto a cercare clienti. Forse si ricomincia”. Dopo un luglio e un agosto da record per gli arrivi a Lampedusa, a ottobre il flusso è stato addirittura più basso rispetto allo stesso mese dell’anno scorso (circa 10mila migranti giunti a Lampedusa da Libia e Tunisia contro 13.500). Ma se qualcuno a Roma (Giorgia Meloni compresa) pensa che Kais Saied, il presidente tunisino, abbia bloccato l’arrivo dei migranti dall’Africa subsahariana, s’illude. Soprattutto il confine con l’Algeria resta poroso, passa chi vuole. E se i migranti non partono, semplicemente si ammassano qui, in attesa. A nord di Sfax, la città più a sud, principale base di partenza per i viaggi della speranza, sarebbero già 15mila ad aspettare. Bivaccano negli oliveti, dove è appena iniziata la raccolta. La tensione è forte con la popolazione locale. “L’impressione è che le autorità tunisine aprano e chiudano il rubinetto, rilasciando o intensificando i controlli in mare e sulla costa”, osserva il rappresentante di una Ong internazionale, che vuole restare anonimo. Saied ha fatto naufragare il negoziato per il prestito del Fondo monetario internazionale. E si sta arenando pure la trattativa per sbloccare i fondi del memorandum firmato con l’Unione europea a luglio. Intanto la situazione sociale si deteriora sempre di più. I migranti sono l’unico strumento rimasto a Saied per premere su Bruxelles e Roma. Negli ultimi giorni a Lampedusa stanno arrivando di nuovo i barchini. Nel parco dinanzi all’edificio abbandonato del Lac 1, i migranti si pressano annoiati e arrabbiati. La tensione è forte, anche tra le diverse nazionalità. Sono tutti giovani, a parte Abdul, etiope, che ha 42 anni, ma ne dimostra molti di più: per tutti una sorta di leader, di padre. “Sono partito due anni fa dal Nord dell’Etiopia, a causa della guerra civile nel Tigré. Sono risalito in Sudan, poi in Libia. Ho passato il confine con la Tunisia due mesi fa: a piedi, di notte”. Lui ha ottenuto dall’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, che ha sede proprio al Lac 1, la tessera di rifugiato. Così gli danno circa 100 euro mensili (ma solo per quattro mesi). “Siamo una minoranza qui ad averla ottenuta. Compriamo da mangiare, aiutiamo gli altri. Qualche tunisino, solidale, ci porta del cibo”. Le Ong non sono autorizzate a venire sul posto (e quelle tunisine non hanno i mezzi per aiutare). Un ragazzo sudanese ha una brutta infezione al piede, dorme febbricitante per terra. Abdul si corica la sera su un telo di plastica, infagottato in un giaccone di lana. Ricorda che “in Libia ti mettono in carcere e poi t’impongono di chiedere soldi alla tua famiglia di origine. Se il denaro non arriva, ti torturano. In Tunisia non c’è questo rischio. Ma una pattuglia ti può prendere per strada e portarti alla frontiera con la Libia e spingerti di là. È già successo di recente a persone che conoscevo”. Iniziarono a costruire Lac 1, con fondi sauditi, tra gli anni Ottanta e Novanta: doveva portare la Tunisia nell’era della mondializzazione. Allora gli investimenti stranieri arrivavano ancora. Una passerella sconnessa si allunga sulla laguna, dove Fabrice, 33 anni, del Camerun, prende fiato, lontano dalla bolgia degli altri. “Vivevo a Orano, in Algeria. Ci sono rimasto due anni. Lì ci sono tanti cantieri, facevo il muratore. Uno dei miei colleghi e amici, Ange, del Camerun come me, mi ha convinto a venire a Tunisi per partire in Europa. È stato un errore. Ho tentato il viaggio a Lampedusa, ma mi hanno fermato in mare. E qui non ci sono possibilità di lavoro come in Algeria”. Pure Ange ci ha provato. Ma non se ne hanno più notizie. “La sua barca è scomparsa nel Mediterraneo”.