La sessualità in carcere è un diritto dei detenuti di Guido Stampanoni Bassi* Il Dubbio, 15 novembre 2023 Il 5 dicembre toccherà alla Consulta stabilire se l’indiscriminata limitazione alla sessualità per i detenuti, in assenza di ragioni legate alla sicurezza, sia legittima o meno. In un’epoca in cui si tende ad introdurre nuovi reati e a innalzare la pena di quelli già esistenti, parlare di diritti dei detenuti può apparire come rivoluzionario. E può apparire ancor più rivoluzionario se il diritto in questione è quello alla sessualità. Sebbene la prima reazione di molti sia che il nostro sistema penitenziario “ha ben altri problemi di cui discutere”, di questo si discuterà tra meno di un mese davanti alla Corte Costituzionale - ed è probabile che si arrivi ad una decisione entro la fine dell’anno - dopo che il magistrato di sorveglianza di Spoleto ha sollevato questione di legittimità costituzionale delle norme dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevedono che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta. A dire il vero, non è la prima volta che la Corte è chiamata a pronunciarsi sul tema. Nel 2012, nel dichiarare inammissibile una questione analoga, la Consulta, dopo aver aveva riconosciuto che si tratta di un’esigenza reale e fortemente avvertita, aveva sottolineato la necessità di prestavi attenzione alla luce della risposta parziale fornita dell’ordinamento. Nonostante gli anni trascorsi, quell’attenzione da parte del legislatore invocata dalla Consulta non c’è stata e, dunque, rieccoci qui. La premessa da cui muove il giudice è che il diritto alla libera espressione della propria affettività rientri, a tutti gli effetti, tra i diritti inviolabili dell’uomo trattandosi di uno degli essenziali modi di espressione della persona umana, di cui non si può essere privati neanche nel contesto penitenziario. Si obietterà che possono esserci fondate ragioni di sicurezza che giustifichino tale limitazione. Verissimo, e a tale fondata obiezione replica lo stesso giudice a quo, osservando come in questo caso il detenuto - che si trova in regime di media sicurezza - già non vede sottoposti a controllo colloqui, conversazioni telefoniche e corrispondenza, motivo per cui inibirgli contatti intimi con la compagna non aumenterebbe in alcun modo la sicurezza. La situazione cambierebbe qualora il detenuto fosse sottoposto al 41-bis, essendovi in quel caso precise limitazioni anche agli ordinari colloqui (e, dunque, a maggior ragione anche ai colloqui intimi). In altri termini, un conto è limitare tali diritti in presenza di motivate ragioni di sicurezza per la collettività, altro è farlo in situazioni in cui tale rischio concretamente non esiste. In questi ultimi casi, l’amputazione di un elemento costitutivo della personalità corre il rischio di tradursi in una vessazione - umiliante e degradante - che causa al detenuto una afflittività maggiore di quanto sia richiesto dalla condizione detentiva. Altri parametri invocati dal giudice sono quelli della protezione della famiglia (che rischia di essere logorata dall’assenza di sessualità) e quello dell’umanità della pena (che trova fondamento nell’art. 27 c. 3 Cost.). Vi è, poi, il forte argomento sovranazionale: da un lato, sono moltissimi i paesi che conoscono, seppur con modalità differenti, i colloqui intimi in carcere; dall’altro, l’art. 8 CEDU riconosce ad ogni persona il diritto al rispetto della propria vita privata e familiare (sebbene la Corte abbia riconosciuto discrezionalità ai singoli paesi nella soluzione normativa da apprestare). Quello che renderebbe la normativa contraria anche all’art. 8 CEDU sarebbe il fatto che il nostro sia un divieto generalizzato e non collegato alla sussistenza di ragioni di sicurezza particolari. Il 5 dicembre toccherà alla Consulta stabilire se l’indiscriminata limitazione alla sessualità per i detenuti - in assenza di ragioni legate alla sicurezza - sia legittima o meno. Relatore sarà il giudice costituzionale Stefano Petitt, autore della recentissima sentenza nel caso Regeni. Vengono in rilievo le parole pronunciate pochissimi giorni fa dal giudice costituzionale Prof. Francesco Viganò, il quale, in occasione del saluto al Vicepresidente Prof. Nicolò Zanon (il cui mandato scadrà a breve), ha citato le conclusioni della sentenza n. 186/2018 sul 41-bis: “in definitiva, non si tratta di affermare, né per i detenuti comuni, né per quelli assegnati al regime differenziato, l’esistenza di un “diritto fondamentale a cuocere i cibi nella propria cella” (ossia la questione oggetto di quella pronuncia, ndr): si tratta, piuttosto, di riconoscere che anche chi si trova ristretto secondo le modalità dell’art. 41-bis o.p. deve conservare la possibilità di accedere a piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la sua libertà individuale”. In questo caso non si parla di 41-bis e il diritto invocato è certamente diverso da quello oggetto della pronuncia del 2018, ma l’auspicio è che, in un periodo in cui il mondo carcerario sta vivendo una drammatica situazione - si pensi al numero elevatissimo di suicidi - e nel quale si stanno fortunatamente affacciando soluzioni differenti dalla mera risposta “carcerocentrica”, la Corte tenga in debita considerazione quella che, senza dubbio, è una forma di espressione della personalità. *Avvocato e Direttore della rivista Giurisprudenza Penale “Rimpatrio per i detenuti albanesi”. Intesa politica tra i ministri dei due governi di Giorgia Zanierato Corriere Veneto, 15 novembre 2023 Il sottosegretario Ostellari: “Sarà un accordo rivoluzionario”. Non solo migranti, anche carcerati. Non solo Giorgia Meloni ed Edi Rama, ma pure Carlo Nordio (insieme ad Andrea Ostellari) con il suo omologo Ulsi Manja. L’Italia si appresta a raggiungere con l’Albania “un accordo rivoluzionario”, così lo definisce il sottosegretario leghista, “che consentirà il trasferimento, presso gli istituti di pena del Paese d’origine, dei 1.940 detenuti albanesi ad oggi ristretti nelle carceri italiane”. Il senatore ha partecipato all’incontro di ieri pomeriggio, nella sede romana di via Arenula, tra i due ministri della Giustizia dei due Paesi. “Entrambe le parti sono concordi e prossime a firmare l’accordo” fa sapere Ostellari. C’è molto di Veneto in questa mossa: nell’origine dei protagonisti - il sottosegretario alla Giustizia è padovano e il ministro Carlo Nordio è notoriamente trevigiano - e nel grado di coinvolgimento della regione. Sono 150, sul totale dei quasi duemila, i detenuti che si trovano a scontare la pena attualmente negli istituti carcerari del Veneto. Tra loro, anche criminali condannati in via definitiva a pene pesanti in processi per narcotraffico o per casi di associazione a delinquere legati al fenomeno delle rapine in villa. L’obiettivo dichiarato dal governo per bocca di Ostellari è chiaro: “Ciò consentirà di ridurre le spese per il mantenimento e combattere il sovraffollamento delle case di pena senza inutili provvedimenti svuota carceri. Ora può iniziare il confronto con i tecnici per individuare le soluzioni operative, in grado di garantire che ciascun condannato possa espirare in pieno la sua pena, senza sconti, secondo le dovute garanzie”. In parole povere, è stata raggiunta l’intesa politica e ora si tratta di mettere a terra il progetto tenendo conto di due aspetti fondamentali: che il condannato resti in carcere, in modo che non ci siano scorciatoie per la sua liberazione, ma che al tempo stesso si rispettino le norme a garanzia dei detenuti. Tanto per fare un esempio, quelle fissate dalla Convenzione Europea per i diritti dell’uomo sul trattamento in carcere, a partire dagli spazi in cella per ciascuno dei condannati. In realtà i due Guardasigilli avrebbero stabilito di dare effettiva attuazione al protocollo bilaterale firmato già nel 2017 per il trasferimento dei detenuti albanesi dalle carceri italiane a quelle dello Stato d’origine. Questa accelerazione avviene “nel quadro degli eccellenti rapporti tra i due Paesi, resi ancor più solidi dalla firma del recente accordo sull’immigrazione” da parte dei premier Giorgia Meloni ed Edi Rama, al centro dell’attenzione europea (e delle critiche da parte dell’opposizione italiana) perché prevede la costruzione in Albania di una struttura per la gestione e il rimpatrio dei migranti soccorsi in mare. Sia questo protocollo sia l’intesa sul rimpatrio dei condannati appaiono nel solco della candidatura albanese come membro futuro dell’Unione europea, che proprio il governo Meloni potrebbe fortemente sponsorizzare. Potremo ridurre le spese e combattere il sovraffollamento delle case di pena senza inutili decreti svuota carceri. Nordio. “Caserme diventino spazi compatibili per detenuti di minore pericolosità” agenzianova.com, 15 novembre 2023 “La nostra idea è individuare nelle caserme dismesse spazi compatibili con detenuti di minore pericolosità, dove ci sono spazi idonei allo sport e al lavoro”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, nel corso del convegno “Tra storia e prospettiva. Vent’anni di Garante di Roma Capitale e dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale” nell’Aula Giulio Cesare del Campidoglio. Per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani “per dare attuazione al principio costituzionale occorrono due cose: i detenuti vanno posti in condizione di lavorare nel carcere e devono avere spazi sufficienti per attività fisiche come lo sport, che sono distensive ed evitano forme di conflittualità - ha spiegato -. Qui c’è il problema fondamentale: dove gli spazi esistono i risultati si vedono. In altri casi, come Regina Coeli, gli spazi non ci sono. Dunque il primo obiettivo è ridurre l’affollamento e trovare nuovi spazi e strutture. Per quanto riguarda chi è detenuto per reati minori, infatti - ha concluso il ministro - l’espiazione di pene residue non dovrebbe per forza essere affidata alle sbarre ma dovrebbero essere trovate soluzioni alternative”. Nordio ai nuovi direttori: “In carcere coniugare sicurezza e rieducazione” di Marco Belli gnewsonline.it, 15 novembre 2023 “Avete un compito straordinariamente difficile: coniugare la sicurezza e la rieducazione. Noi ci stiamo battendo affinché le carceri siano sempre più idonee ad assolvere a queste due funzioni”. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha voluto incontrare - sia pur da remoto - e salutare di persona i 56 nuovi dirigenti penitenziari, che entro il 20 novembre prenderanno servizio negli istituti a cui sono stati assegnati. Sono i vincitori dell’ultimo concorso per dirigenti penitenziari bandito da Via Arenula dopo 25 anni di attesa: dopo un anno di formazione specifica e sul campo, ora sono pronti ad iniziare il loro lavoro. C’è “una nuova generazione di direttori”, ha sottolineato il Guardasigilli, soffermandosi sui visi “a volte estremamente giovani” dei dirigenti collegati da varie parti d’Italia. Nel suo saluto, Nordio ha richiamato più volte il principio della rieducazione, “imposta dalla nostra Costituzione, ma anche dall’utilità e dalla convenienza sociale. Per questo abbiamo avviato contatti - ha aggiunto il Ministro - con diverse associazioni per il progetto che noi chiamiamo ‘recidiva zero’: assicurare il lavoro al detenuto che viene posto in libertà” ed evitare così anche che torni a delinquere. E questa anche la sfida a cui si preparano i nuovi direttori. “Il percorso che vi attende è delicato, ma anche molto coinvolgente”, ha premesso il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo, secondo il quale si tratta di “un parterre di giovani professionisti molto motivati, ma soprattutto molto attrezzati dal punto di vista della formazione e degli ideali”. I pm antimafia avvisano Meloni: “No alle riforme della giustizia” di Ermes Antonucci Il Foglio, 15 novembre 2023 I magistrati impegnati nella lotta alla mafia criticano le riforme ipotizzate dal governo: abolizione dell’abuso d’ufficio, intercettazioni, separazione delle carriere. La premier: “No a scontri tra poteri”. Non è stato un plotone di esecuzione, anzi, tutto si è svolto in un “clima di grande dialogo e collaborazione”. Di certo, però, il capo della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dnaa), Giovanni Melillo, e i vertici delle ventisei procure distrettuali antimafia non hanno risparmiato critiche nei confronti del governo in occasione dell’incontro che si è tenuto lunedì pomeriggio a via Giulia con la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, accompagnata dal sottosegretario Alfredo Mantovano e il Guardasigilli Carlo Nordio. Dopo aver accolto i rappresentanti dell’esecutivo, Melillo e i procuratori hanno tenuto una serie di interventi incentrati soprattutto sul tema della lotta alla criminalità organizzata. Se alcuni magistrati hanno preferito dare risalto alla particolare situazione criminale del proprio territorio, altri si sono spinti fino ad avanzare riflessioni più generali sull’utilità di alcune riforme nell’agenda del governo, esprimendo perplessità sull’abolizione dell’abuso d’ufficio (considerato dai pm come un importante “reato spia”), la riforma delle intercettazioni, la separazione delle carriere. Le critiche sono giunte, come fanno notare fonti vicine alla premier, in un’atmosfera di “collaborazione istituzionale”, ma sono arrivate comunque a bersaglio, come dimostra l’intervento tenuto da Meloni al termine della visita: “Quando la politica e la magistratura non riescono a dialogare adeguatamente e sembra che ci sia un’alterità, allora si fa un grande favore ai nostri avversari. Penso che non giovi a nessuno. Mi aspetto che anche quando non fossimo completamente d’accordo sulle norme che vanno portate avanti, questo non diventi uno scontro tra poteri. Perché si possono avere punti di vista diversi, ma ciò non vuol dire che non stiamo lavorando per lo stesso risultato. Perché si lavora sempre per lo stesso datore di lavoro, lo stato italiano, e contro lo stesso avversario”. Messi da parte alcuni slogan (come “tanti anni fa eravamo conosciuti perché esportavamo la mafia, oggi perché esportiamo l’antimafia”), ciò che rimane della visita di Meloni alla Direzione nazionale antimafia è soprattutto l’invito rivolto ai pm antimafia a “collaborare”, sempre, anche in caso di disaccordo. Un invito che ora dovrà essere accolto dall’ala più “movimentista” della magistratura antimafia. Basti pensare che solo cinque giorni prima della visita di Meloni alla sede della Dnaa, il procuratore di Napoli Nicola Gratteri (che è anche capo della Direzione distrettuale antimafia napoletana, ed era presente all’incontro con la premier) interveniva, ospite di Otto e mezzo su La7, attaccando a testa bassa le riforme ipotizzate da Nordio sulla giustizia, come l’abolizione del reato dell’abuso d’ufficio, la prescrizione e la stretta sulle intercettazioni: “E’ uno scandalo”. “Penso che Nordio la prima cosa che dovrebbe fare è scrivere un rigo: la riforma Cartabia va abolita - aggiungeva Gratteri - Si deve necessariamente partire da questo, perché la riforma Cartabia nel sistema penale processuale ha introdotto tante novità che hanno rallentato i processi, che saranno ancora più lenti nei prossimi anni”. C’è da dire che anche il procuratore nazionale antimafia, Giovanni Melillo, ascoltato lo scorso giugno dalla commissione Antimafia, si è detto contrario ad alcun “arretramento sul versante delle intercettazioni”, affermando di “non conoscere intercettazioni inutili, perché sono disposte da un giudice con un provvedimento motivato, procedendo per reati gravi”. Un pensiero condiviso da altre toghe poste ai vertici delle Direzioni distrettuali antimafia, come Marcello Viola, procuratore di Milano (“Negli ultimi anni si è registrato un costante calo della quantità di intercettazioni, dalla riforma Orlando non c’è stata nessuna fuga di notizie”), e Giovanni Bombardieri, procuratore di Reggio Calabria (“Le intercettazioni sono di fondamentale importanza nelle investigazioni”). Insomma, l’invito a collaborare da parte di Meloni si innesta su un contesto fatto di continue tensioni tra magistratura e politica. L’importante sarà non arrivare a “scontri tra poteri”. “L’antimafia non rovini gli innocenti”, Forza Italia rompe l’idillio tra Meloni e i pm di Errico Novi Il Dubbio, 15 novembre 2023 Oggi gli azzurri chiederanno di dare priorità alla legge che vieta di sequestrare beni agli assolti (e rovina l’intesa fra premier e Dna...). Può un governo essere all’opposizione della propria maggioranza? Difficile. Ma non impossibile. Almeno secondo il Pd, che ieri ha “denunciato” il seguente paradosso: a Palazzo Madama, l’Esecutivo ha chiesto di rinviare l’esame della legge che regola il sequestro delle chat dai telefonini degli indagati. A firmare quella proposta era stato, manco a dirlo, un senatore di Forza Italia, il capogruppo azzurro in commissione Giustizia Pierantonio Zanettin. Ebbene, è toccato all’omologo dem di Zanettin, Alfredo Bazoli, dire che ieri “il governo ha inaugurato l’inedita stagione dell’ostruzionismo alla sua maggioranza”. Un attimo prima di iniziare a discutere gli emendamenti, spiega Bazoli, l’Esecutivo ha chiesto “uno slittamento per non meglio precisate necessità di approfondimenti tecnici”. È un caso? Forse a breve si potrà “testare” di nuovo questo potenziale conflitto interno al centrodestra: proprio oggi, infatti, gli azzurri dell’altra commissione Giustizia, quella di Montecitorio, chiederanno, nella riunione dell’ufficio di presidenza, la calendarizzazione della loro proposta di legge sul codice antimafia. Si tratta del testo a prima firma di Pietro Pittalis e sottoscritto anche dagli altri due deputati forzisti della commissione, il capogruppo Tommaso Calderone e l’onorevole Annarita Patriarca, oltre che dal vicepresidente della Camera Giorgio Mulè. Come riportato nei giorni scorsi su queste pagine, la proposta azzurra limita il ricorso, da parte dei magistrati, alle misure di prevenzione antimafia nei confronti di chi sia stato assolto dalle accuse di 416 bis in un processo penale. Ai profani della materia potrà sembrare pazzesco che serva una legge per sancire un così elementare principio del diritto. Ma come il Dubbio racconta da anni, quel principio è purtroppo clamorosamente smentito dalle norme del codice antimafia. Che considerano il “procedimento di prevenzione” come un binario parallelo e autonomo dal processo penale vero e proprio. Al punto da aver legittimato per anni sequestri e confische a danno di imprenditori macchiati dall’ombra di non meglio consolidati sospetti, senza lo straccio di una prova. Bene: Forza Italia vuole riportare la disciplina delle misure antimafia nel perimetro delle garanzie costituzionali. “Di quelle garanzie che, paradossalmente, sono previste per il processo penale ma svaniscono nel procedimento di prevenzione”, spiega al Dubbio Pittalis, che della commissione Giustizia di Montecitorio è vicepresidente. “Ecco perché oggi chiederemo, nell’ufficio di presidenza, di inserire la nostra proposta nel calendario bimestrale dei lavori, in modo da poterla discutere a breve”. Difficile che il resto della maggioranza, e innanzitutto il presidente della commissione Ciro Maschio, di FdI, si opponga alla richiesta degli azzurri. “Non ci sono arrivati segnali del genere”, assicura Pittalis. Ma il punto è un altro. Non riguarda tanto il Parlamento, quanto il governo. Anzi, il vertice del governo: Giorgia Meloni. Che lunedì è stata protagonista di un incontro praticamente inedito: un summit, promosso dal procuratore nazionale Antimafia Gianni Melillo, con l’intera Dna e con i capi delle 26 Procure distrettuali italiane, che sono anche sedi delle direzioni “locali” Antimafia. Si è trattato di un confronto allo stesso tempo ampio e cadenzato da specifiche questioni. Tra queste, il passaggio in cui la premier ha evocato “l’importanza delle confische alla criminalità organizzata”. Potrebbe sembrare arbitrario ricollegare una frase simile a una proposta come quella con cui FI intende limitare gli abusi dell’antimafia, tra cui rientrano appunto i sequestri agli innocenti. Può sembrare arbitrario non foss’altro perché della proposta Pittalis non è iniziato, appunto, neppure l’esame in commissione. Ma c’è un ma. Anzi due. Il primo: nei prossimi giorni l’Avvocatura dello Stato dovrà rispondere ai quattro quesiti rivolti all’Italia dalla Corte europea di Strasburgo, nell’ambito della causa innescata dalla famiglia Cavallotti. Quest’ultima rappresenta un caso esemplare di vittime innocenti della legislazione antimafia: la prima generazione dei Cavallotti si è vista infatti confiscare i beni e le aziende nonostante le assoluzioni definitive arrivate, nel processo penale, dalle accuse di mafia. Com’è facile intuire, i Cavallotti “rischiano” seriamente di vincere il ricorso contro lo Stato italiano. Non a caso, la Corte europea ha chiesto al governo di chiarire, per esempio, se le confische antimafia inflitte a chi è assolto non violino la presunzione d’innocenza. È chiaro però che sarebbe complicato, per la maggioranza, sostenere una legge salva-innocenti come quella proposta da FI nel momento in cui l’Avvocatura dello Stato - su impulso di Palazzo Chigi (cioè di Meloni e del sottosegretario Alfredo Mantovano, che era con la premier all’incontro di via Giulia), e di Carlo Nordio (anche lui presente al summit coi pm antimafia) - sostenesse che le misure di prevenzione sono compatibili eccome con la presunzione d’innocenza (cioè con la Costituzione italiana e la Convenzione europea) in virtù di qualche misterioso arcano giuridico. Seconda questione, più terra terra: dopo un incontro come quello promosso lunedì da Melillo, può il governo Meloni “tradire” gli accenni di distensione con la magistratura (che insieme ad altri segnali spingono Enrico Costa a parlare di centrodestra “consegnato” alle toghe) con una legge che, per la magistratura antimafia, è come il fumo negli occhi? Ecco, all’ultimo quesito, Pittalis così replica: “Noi andiamo avanti. Non scalfiamo di un millimetro l’asprezza delle norme contro i mafiosi. Semplicemente, evitiamo che ne possano essere colpiti gli innocenti”. FI va avanti nonostante la “perestrojka” di via Giulia. E tutto sembra preannunciare un nuovo attrito sulla giustizia, del tutto simile a quello registrato il mese scorso sulle intercettazioni. Solo che stavolta la posta in gioco è altissima. Perché rischierebbe di sottrarre alla magistratura antimafia un’arma letale, ma comodissima, con cui colpire cittadini e imprese a prescindere dalla loro colpevolezza. La storica sentenza sulla “trattativa” non basta a cambiare una giustizia basata sulla visione salvifica dell’accusa di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 15 novembre 2023 Le motivazioni con le quali la Corte Suprema ha chiuso l’annosa questione del processo della cd. “trattativa” fra Stato e mafia contengono qualche radicale cadenza censoria che riguarda non solo la qualità della prova ma il percorso metodologico seguito nei precedenti giudizi. Leggere della “inidoneità delle condotte poste in essere dai tre ufficiali del R. O. S. ad integrare una forma di concorso punibile nel reato di minaccia ad un corpo politico”, lascia comprendere su quali incerte ed evanescenti basi sia stata costruita quella prima sentenza che aveva avuto bisogno di ben 5237 pagine per spiegare il perché della condanna. Secondo i giudici di legittimità, infatti, l’assunto accusatorio, che nel suo clamoroso sviluppo ha segnato la storia repubblicana, lacerando vite umane ed istituzioni delle Stato, non era “fondato su alcuno specifico dato probatorio, né argomentato sulla base di consolidate massime di esperienza”, il che significa che l’ipotesi secondo la quale i vertici stragisti avrebbero trasmesso attraverso i Ros le minacce nei confronti del governo non era supportata da alcuna prova. Insomma, non solo il reato di “trattativa”, come già sapevamo, non esiste, ma neppure esistevano le prove di quei fatti che da “trattativa” erano stati travestiti. Ma ancor più interessante risulta il passaggio nel quale i giudici della Cassazione censurano il fatto che i giudici di merito avrebbero “optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico”. A fronte di tale critica il dottor Ingroia ha risposto affermando come si tratti di una “sentenza che odora più di politica che di diritto”, immaginando che i giudici di legittimità abbiano voluto disegnare con quella decisione un confine, non di tipo giuridico, ma “territoriale”, lasciando intendere - secondo quel primo interprete della “trattativa” - che “la magistratura non deve avventurarsi su questi terreni”. Quali siano i terreni interdetti all’indagine giudiziaria il dott. Ingroia non lo spiega. Ma a ben vedere, la Corte non ha affatto escluso che l’indagine giudiziaria possa scrutinare il terreno scivoloso dei rapporti politico- istituzionali, ma ha al contrario osservato - a monito dei colleghi - come “anche quando il giudice penale deve confrontarsi con complessi contesti fattuali di rilievo storico- politico, l’accertamento del processo penale resta, invero, limitato a fatti oggetto dell’imputazione e deve essere condotto nel rigoroso rispetto delle regole epistemologiche dettate dalla costituzione e dal codice di rito, prima tra tutte quella dell’oltre ogni ragionevole dubbio”. Ma ciò che appare ancor più grave in questa terribile vicenda giudiziaria (solo apparentemente a lieto fine) è la mancata pubblica presa di coscienza di un modo di intendere la giustizia penale nel quale l’idea di prova si adatta plasticamente alle finalità dell’accusa e che, ribelle ad ogni standard probatorio imposto dalle norme, ed indifferente alla cultura del limite, sviluppa indagini e dibattimenti monstre capaci di partorire decisioni altrettanto teratologiche. E tanto poco si prende coscienza di questa idea deviata di giustizia che, con una tipica inversione di stigma, ad essere oggetto di diffidenza resta paradossalmente l’esito assolutorio e non l’improvvida azione esercitata da una Procura. Viviamo chiusi dentro un sentire comune nel quale risuonano ancora le parole scritte da Hobbes nel suo Leviatano: “la condanna assomiglia alla giustizia più che l’assoluzione”, condizionati da una organizzazione ordinamentale della magistratura nella quale solo allontanandosi da quei luoghi, nei quali giudici e pubblici ministeri appaiono legati a quell’unico e comune scopo di combattere il male, si riesce a intravedere lo spazio per una giustizia laica e liberale nel quale la ragione governa il processo con le sue regole. Così che mentre l’autorevolezza e la legittimazione della figura del giudice appaiono come una chimera futura ed incerta, il pubblico accusatore, nonostante simili battute d’arresto, conserva integro nella pubblica opinione il suo tratto egemonico e salvifico. Insomma, il dato sul quale nessuno riflette è che se non si cambia il modo corrente di intendere la giustizia le cose resteranno ancorate a questo insano paradigma “accuso- centrico” in virtù del quale mentre la “trattativa Stato- mafia” è un fatto, l’assoluzione degli imputati resta solo un’opinione. *Presidente Ucpi Beniamino Zuncheddu, dopo 33 anni di carcere il teste chiave ritratta: “Poliziotto mi indicò la sua foto” L’Unità, 15 novembre 2023 Svolta alla revisione del processo in corso per la strage di Sinnai. “Mi fu indicata la foto di Beniamino Zuncheddu, un poliziotto mi disse che il colpevole era lui”. La condanna all’ergastolo per triplice omicidio. L’unico superstite e testimone chiave della strage in una seduta drammatica ha confermato i dubbi di avvocato e Procura. La strage è quella del Sinnai, Sardegna, del 1991: tre pastori uccisi. Il condannato, che si è proclamato sempre innocente, Beniamino Zuncheddu sta scontando l’ergastolo. È in carcere da 33 anni. Luigi Pinna, l’unico superstite della strage e testimone chiave, ha rilasciato le dichiarazioni nell’ambito del processo di revisione in corso davanti ai giudici della Corte d’Appello di Roma. All’esterno del tribunale di Roma, durante l’udienza di ieri, un sit di familiari e militanti del partito Radicale che da sempre sostengono l’innocenza del condannato. “Prima di effettuare il riconoscimento dei sospettati, l’agente di polizia che conduceva le indagini mi mostrò la foto di Beniamino Zuncheddu e mi disse che il colpevole della strage era lui. È andata così”, ha detto il teste. “Ho sbagliato a dare ascolto alla persona sbagliata. Penso che quel giorno a sparare furono più persone, non solo una. Con un solo fucile non puoi fare una cosa del genere”. Il teste si sarebbe contraddetto diverse volte e ha raccontato che il killer aveva “il volto travisato da una calza”. Una deposizione drammatica: “Non ce la faccio più, sto impazzendo, vorrei morire. In questi anni sono stato minacciato varie volte”. Il caso si trova a una svolta clamorosa. La strage si consumò l’8 gennaio del 1991, sulle montagne tra Sinnai e Burcei in provincia di Cagliari, in un ovile Cuile is Coccus. Un triplice omicidio: a morire assassinati Gesuino Fadda, proprietario dell’allevamento, il figlio Giuseppe e il pastore Ignazio Pusceddu. Pinna era marito di una delle figlie di Fanna. È l’unico superstite, in un primo momento disse di non essere in grado di riconoscere l’assassino, che aveva il volto coperto. Qualche settimana dopo cambiò versione, affermò di aver riconosciuto Zuncheddu, da una fotografia. Beniamino Zuncheddu, pastore di Burcei, oggi 59 anni, venne arrestato e a giugno 1992 arrivò la condanna definitiva all’ergastolo. Si è sempre proclamato innocente. La difesa sostiene che la testimonianza chiave e determinante della condanna sarebbe stata in qualche maniera influenzata da presunte pressioni da uno degli agenti che indagava sul triplice omicidio. Pinna ha confermato quei dubbi ieri, davanti alla corte d’Appello, grazie anche a un interprete che ha tradotto dal sardo all’italiano. “Pensavo di fare una cosa giusta, così mi era stato detto”, ha motivato la sua testimonianza. Le indagini e la versione dell’agente - Il poliziotto Mario Uda ha negato di aver mostrato al superstite la foto di Zuncheddu prima del riconoscimento ufficiale. “Non gli ho mostrato alcuna immagine”, ha dichiarato. La testimonianza si muove nella traccia dei dubbi sollevati dall’avvocato Mauro Trogu e dall’allora pg di Cagliari Francesca Nanni. La richiesta di revisione si è basata anche sulle intercettazioni di un colloquio avuto in auto tra Pinna e la moglie dopo la convocazione del superstite in tribunale a Cagliari. “Chi sa deve parlare”, aveva affermato la sorella dell’imputato, Augusta. “Beniamino non c’entra niente con questa storia, è innocente. Lotterò fino all’ultimo respiro per ottenere la sua scarcerazione”. Milano. Formazione, lavoro, mediatori: la “ricetta” per il carcere minorile Beccaria di Massimiliano Melley milanotoday.it, 15 novembre 2023 Votata all’unanimità in Regione una mozione per migliorare le condizioni di vita all’interno dell’istituto, potenziando anche le occasioni di formazione e lavoro per i detenuti minorenni. Migliorare le condizioni e gli ambienti del carcere minorile Beccaria di Milano, con risorse proprie o della cassa ammende, ideando percorsi di inclusione sociale, formativa e lavorativa e affiancando mediatori linguistici e culturali al personale penitenziario. Ma anche riqualificando e ampliando gli spazi destinati alla vita quotidiana e migliorando le condizioni igieniche. È il contenuto di una mozione approvata all’unanimità dal consiglio regionale della Lombardia, presentata da Alessia Villa, consigliera di Fratelli d’Italia e presidente della commissione carceri. Il testo prende il via da una ispezione in loco da parte della commissione: “Abbiamo constatato il sovraffollamento, i deficit organizzativi negli spazi abitativi e la carenza di professionisti dell’educazione e di mediatori linguistici e culturali”, dichiara Villa: “Abbiamo voluto riportare al centro del dibattito le ragioni della civiltà giuridica e quelle costituzionali del reinserimento sociale dei detenuti”. Per l’esponente di Fdi, “occorre puntare su formazione e lavoro, dando un futuro di certezze agli ospiti delle case circondariali. Il tempo in carcere non deve essere tempo vuoto o tempo perso. Bisogna investire più e meglio sulla formazione e sulla crescita delle personalità dei minorenni reclusi”. Esemplare il protocollo d’intesa sottoscritto dal 2018 da Assolombarda in Brianza per promuovere la formazione e il lavoro dei detenuti nelle imprese. “Ma si possono coinvolgere anche le amministrazioni locali”, continua Villa: “La digitalizzazione degli archivi potrebbe essere una delle tante attività da affidare ai detenuti. Ecco perché dobbiamo fare tutti uno sforzo e mettere in pratica l’insegnamento di Cesare Beccaria”. La mozione è stata condivisa e votata anche dall’opposizione. “La Regione si impegna in un progetto di inclusione sociale, con il duplice obiettivo di favorire da un lato percorsi di integrazione lavorativa e di formazione professionale, anche come misura alternativa alla detenzione, e dall’altro di potenziare la presenza di figure di affiancamento al personale penitenziario, come i mediatori linguistici e culturali, nonché i professionisti abilitati all’attività di cura delle relazioni e della salute mentale”, sottolineano Luca Paladini e Michela Palestra del Patto Civico. Rimini. “Si perdono anni di vita e si resta soli”, gli studenti scoprono il carcere dialogando con l’ex detenuto cesenatoday.it, 15 novembre 2023 “Il tempo in carcere non passa mai - sottolinea Antonio Semeraro - ed è tutto tempo sprecato, si perdono anni di vita e spesso ti resta solo una grande solitudine”. Si è svolto ieri, lunedì 13 novembre alI’istituto Marie Curie di Savignano sul Rubicone un incontro, presieduto dal dirigente scolastico Mauro Tosi e dalla prof.ssa Roberta Ortis, rivolto agli studenti sui temi della legalità e sicurezza sociale, promosso dall’impresa sociale Altremani srl e da Techne, agenzia formativa che opera da oltre 20 anni nella Casa circondariale di Forlì. Altremani è la prima società nata in provincia con l’unico scopo di lavorare sui temi dell’esecuzione penale, offrendo lavoro ai detenuti della Casa Circondariale di Forlì e promuovendo sul territorio attività educative finalizzate a diffondere nei giovani la cultura della legalità e della tolleranza in un’ottica di prevenzione del reato. Oltre 140 ragazzi di 7 classi dell’Istituto Marie Curie, suddivisi in 2 gruppi, hanno ascoltato le testimonianze dell’ex detenuto Antonio Semeraro, dell’ex vice comandante (attualmente in pensione) Mariateresa D’Agata e del direttore generale di Techne Lia Benvenuti, alla presenza del vice-sindaco di Savignano sul Rubicone Nicola Dellapasqua. Duplice il messaggio che si è inteso lanciare agli studenti: da un lato l’importanza di saper riconoscere i comportamenti “illegali” e saperne prendere le distanze, dall’altro conoscere la vita “dentro” per comprenderne il malessere e le limitazioni dovuti alla perdita della libertà dietro le sbarre. I ragazzi sono stati protagonisti dell’evento, attenti e partecipativi, hanno arricchito il dibattito con numerose domande, dimostrando grande interesse e tanta curiosità per un mondo così distante e sconosciuto. Senza filtri e sempre con grande rispetto, hanno posto qualsiasi tipo di interrogativo, anche i più spinosi, facendosi raccontare la vita carceraria, i suoi tempi e le sue modalità, analizzando due diverse prospettive: quella del detenuto da una parte e quella degli agenti penitenziari dall’altra. Come si trascorre il tempo in carcere? Che reato hai commesso? Le celle hanno la tv? Sono solo alcune delle tante domande che gli studenti hanno posto ai relatori. “Il tempo in carcere non passa mai - sottolinea Antonio Semeraro - ed è tutto tempo sprecato, si perdono anni di vita e spesso ti resta solo una grande solitudine. L’esperienza carceraria infatti - continua Semeraro - talvolta allontana familiari e amici che prendono le distanze da te con il rischio di trovarti, una volta uscito, in una situazione molto difficile senza i tuoi affetti più cari”. “L’Amministrazione penitenziaria - spiega Mariateresa D’Agata, ex vice comandante della Casa Circondariale di Forlì - propone diverse attività per riempire le giornate del detenuto in maniera costruttiva proponendo ad esempio percorsi scolastici per chi non è scolarizzato, corsi professionalizzanti e soprattutto attività lavorative. Il lavoro - continua la D’Agata - rappresenta infatti il vero strumento per responsabilizzare e far maturare il detenuto offrendogli una concreta possibilità di reinserimento sociale”. Il Progetto, che prevede altri numerosi incontri nelle Scuole del territorio, è stato finanziato dall’Unione Rubicone e Mare, da sempre sensibile ai temi dell’esecuzione penale e della prevenzione. “Siamo molto felici che sul nostro territorio si possano realizzare queste iniziative - sottolinea Nicola Dellapasqua vice-sindaco di Savignano sul Rubicone - poiché siamo certi che questi momenti possano contribuire alla sicurezza sociale, favorendo l’educazione alla legalità e facendo crescere i nostri ragazzi più consapevoli e maturi”. “Una mattinata che confidiamo possa lasciare un segno - sottolinea Lia Benvenuti direttore generale Techne - raccontare la propria storia, rispondere alle domande dei ragazzi, mettersi in gioco fino in fondo mettendoci la faccia, è un grande esempio che speriamo serva agli studenti per capire un po’ di più la vita detentiva e quali sono gli errori da evitare”. Brescia. A Canton Mombello il cielo in una stanza per accogliere i bambini di Laura Fasani Giornale di Brescia, 15 novembre 2023 In uno dei luoghi più inospitali e criticati di Brescia, il carcere di Canton Mombello, da qualche mese il cielo è stato portato in una stanza. Quasi letteralmente: sulle pareti ridipinte di azzurro campeggiano nuvole sorridenti, mongolfiere, pupazzi volanti e un tracciato per il gioco dell’oca tra casette colorate. Sono i nuovi disegni realizzati sulle quattro mura dello Spazio Giallo, la stanza che accoglie le famiglie in attesa di colloquio con i detenuti. Da qui negli ultimi due anni sono passati tra gli ottanta e i cento bambini dagli zero ai dodici anni, secondo le stime dell’associazione Carcere e Territorio. Un luogo fino a poco tempo fa asettico e inadeguato per i bimbi, che nei mesi scorsi è però stato completamente trasformato dagli studenti del liceo Leonardo e da due detenuti grazie al progetto “Accogliamo” insieme a Carcere e Territorio. Il progetto - La collaborazione si è conclusa prima dell’estate ma il risultato continua a essere “uno spiraglio di luce in un contesto come questo” dice Laura Salata, pedagogista che opera all’interno dello Spazio Giallo per Carcere e Territorio. Il “contesto” è uno dei carceri peggiori d’Italia per sovraffollamento, struttura e carenza di personale, per il quale ha chiesto una soluzione anche la magistratura. È qui che, tra febbraio e maggio di quest’anno, gli studenti della ex 5ª I del liceo artistico Leonardo hanno progettato e poi reso realtà insieme a due uomini detenuti una nuova idea di spazio per l’accoglienza di parenti ma soprattutto figli piccoli. “Volevamo riuscire a dilatare il luogo attraverso immagini legate al volo - spiega Mirko Bedussi, il docente che ha seguito il progetto -. I ragazzi hanno quindi coperto di azzurro le pareti, che erano dello stesso colore della facciata di Canton Mombello, e dopo una selezione di proposte le hanno ridipinte con alberi, mongolfiere, aeroplani usando una pittura su cui i bambini possono disegnare e poi cancellare”. E così, per diverse settimane, alunni e detenuti hanno tinteggiato fianco a fianco, sotto la supervisione di un agente penitenziario. Padri e figli - Se per gli studenti è stata un’occasione per riflettere sulla vita dentro il carcere e scoprire che una persona detenuta non si identifica solamente con il reato che ha commesso, chi dentro al carcere vive ha potuto per qualche settimana diventare “parte di un piccolo mondo fantastico così lontano dalla realtà del carcere”. Le parole sono di Paolo, uno dei due detenuti che ha collaborato al progetto. Scrive in una lettera affidata all’associazione: “La serenità dei nostri figli si riflette direttamente sulla serenità di noi genitori detenuti, allevia l’angoscia della lontananza fisica. Un ambiente sereno ha un impatto meno traumatico sui bambini che, loro malgrado, si trovano a subire situazioni difficili nel rapporto con i loro genitori”. Sostenere la genitorialità in carcere e aiutare i bambini ad affrontare le proprie emozione sono gli obiettivi per cui nel 2022 è stato avviato il progetto Spazio Giallo da Carcere e Territorio su un’idea dell’Associazione Bambini senza sbarre. L’obiettivo è offrire un luogo che faciliti lo sviluppo delle relazioni familiari e in particolare aiuti il bambino ad accogliere il padre nel colloquio. “L’attesa del colloquio con il padre è devastante per i bambini - spiega Lucia De Ferrari, vicepresidente di Carcere e Territorio -. Possono aspettare anche un’ora e mezza e poi devono fare i conti con emozioni violente, traumatiche. Lo Spazio nasce per aiutarli a decongestionare e favorire un dialogo con l’esterno di chi vive in carcere in ottica rieducativa”. Se ne occupa operativamente Salata insieme alla criminologa Sara Tomasoni. Lavorano ogni settimana sulle relazioni familiari dei detenuti attraverso colloqui individuali e confronti di gruppo (con 56 partecipanti), aiutandoli a conservare il proprio ruolo di padre anche dietro le sbarre. “Nello Spazio Giallo si fermano tutti prima dell’incontro: figli, genitori, fratelli o sorelle, partner - dice Salata -. Ai bambini capita di assistere anche a liti o scenate pesanti. Parlo di bambini soprattutto perché gli adolescenti si vedono raramente: si vergognano perché lo stigma del carcere è forte. Per i piccoli è fondamentale che prima e dopo l’incontro con i loro papà riescano a vivere uno spazio di accoglienza più curato e poi l’incontro con loro sia il più possibile protetto e basato su un dialogo aperto. Noi cerchiamo di accompagnarli”. Certo poi, “non facciamo magie - puntualizza la pedagogista -. A Canton Mombello servono più spazi, più psicologi e più servizi”. In attesa di quelli, si cerca di salvare quello che può essere salvato. Reggio Calabria. Il femminicidio in Italia, confronto promosso dalla Coop Sociale Soleinsieme avveniredicalabria.it, 15 novembre 2023 La morte di una donna per femminicidio è l’epilogo di una storia di violenza, che coinvolge una comunità, segna in modo indelebile la vita di più famiglie, lascia bambini orfani, trasmette alle generazioni future un senso di insicurezza. È una tragedia che interroga le coscienze e costringe a ripensare il rapporto uomo donna. Ma cosa s’intende per femminicidio? E perché si viene uccise? Perchè si muore? E dei bambini e bambine loro figli/e chi se ne occupa? A queste domande si cercherà di dare delle risposte nell’incontro organizzato dalla Coop di donne Soleinsieme in collaborazione con la Cgil dell’Area Metropolitana e con il Centro Comunitario Agape. In questa occasione saranno presentati i dati di una ricerca effettuata da Antonio Gioiello presidente dell’associazione Mondi Diversi che gestisce a Corigliano Calabro il Centro antiviolenza Fabiana e due case rifugio per donne vittime di violenza- Nella sua ricerca sui femminicidi in Italia tra il 2018 e il 2022 ricostruisce la trama che unisce le storie di donne vittime di femminicidio e pone tra l’altro la necessità di prevedere nell’ordinamento penale il reato di femminicidio. A pochi giorni dalla ricorrenza della giornata della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, c/o la sartoria sociale avviata dalla coop Soleinsieme come spazio pe il riscatto delle donne attraverso il lavoro, si discuterà di questo tema attuale, su quanto la nostra regione sta facendo per garantire un sistema di protezione adeguato alle donne che denunciano. In particolare si è in attesa che il Consiglio Regionale approvi una nuova legge che aggiorni quella del 2007 ormai superata e preveda investimenti finanziari e risorse umane per attivare strumenti in grado di prevenire e contrastare questo fenomeno che ha toccato negli anni anche la nostra regione. L’appuntamento è mercoledì 15 novembre alle ore 17:30 in via Possidonea, 53. Parteciperanno Giusi Nuri Presidente della Coop Soleinsieme, Lucia Lipari vice presidente del Centro Comunitario Agape e componente dell’osservatorio regionale contro la violenza di genere, Angela Martino Assessore alle politiche di genere del Comune di Reggio Calabria, Gemma Sorgonà segretaria Cgil per l’Area Metropolitana, concluderà l’autore della ricerca Antonio Gioiello. Come vivono i detenuti, il libro denuncia di suor Emma Zordan di Susanna Schimperna L’Unità, 15 novembre 2023 “Devono marcire in galera”: sono frasi del genere le fondamenta dell’indifferenza verso le carceri: un mix di rancore e odio verso chi ha sbagliato che i racconti di 19 detenuti ribaltano. Dei penitenziari sappiamo poco e non abbiamo intenzione di saperne di più. Però ne parliamo, con frasi slogan che dovrebbero racchiudere la soluzione di ogni male, ripulire le strade dalla delinquenza, garantirci la sicurezza: “Bisogna inasprire le pene”, “Chiuderli e buttare la chiave”, “Marciscano in galera”, “La colpa è del buonismo, il 41bis va esteso a tutti i ladri e gli assassini”, “In carcere devono soffrire, non è mica un albergo”. I più sono convinti, spesso in buonafede, che segregare chi ha trasgredito le regole e trattarlo con la massima durezza possibile possa funzionare come deterrente, quando non soltanto è provato che non è così, ma “massima durezza” e “rieducazione” non sono espressioni che vanno d’accordo. Il problema è che alla rieducazione e quindi al reinserimento nella società non si crede, quasi fosse un’utopia di anime belle. La realtà è la violenza crescente, il senso costante di pericolo che proviamo tutti noi, perché se una volta (si dice, e in parte è vero) i ladri erano professionisti, oggi puoi trovarti chi per quattro spicci ti ammazza, chi entrando in una casa dove ci sono anziani e non trovando quello che sperava li riduce in fin di vita a forza di botte. E allora via, tutti al gabbio. Senza se e senza ma. Ammassati e chissene importa se si suicidano, anzi, meglio (54 dall’inizio dell’anno ad oggi, a cui vanno aggiunte 71 morti per cause non accertate, malattia, omicidio e overdose, senza dimenticare i suicidi di appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, un’altra tragedia di cui non si parla mai). Inascoltate le voci che arrivano da chi il carcere lo conosce. Operatori istituzionali, volontari, e naturalmente parenti e amici dei carcerati e carcerati stessi. Tra loro, qualunque sia l’orientamento politico, il rozzo schieramento destra giustizialista/sinistra perdonista salta. Aver visto, aver vissuto sia pure indirettamente, porta tutti a un cambiamento di prospettiva. Si propone di fare proprio questo, la suora Emma Zordan, da anni volontaria alla cassa di reclusione di Rebibbia: dare voce a chi è coinvolto, a chi sa di cosa parla e non per sentito dire. Il punto su cui Zordan insiste, tanto da averlo usato nel titolo del libro e averlo proposto come stimolo di riflessione agli intervistati, è l’indifferenza: “Ristretti nell’indifferenza. Testimonianze dentro e fuori il carcere” (ed. Iacobelli) è un grido sommerso, dolente e continuo contro la mentalità comune che, come sottolinea il cardinal Matteo Maria Zuppi nella prefazione, pretende non solo il diritto di essere indifferente, ma anche un sistema che non faccia vedere i problemi, li nasconda, se possibile li cancelli. Il carcere come mondo parallelo, per cui ci sentiamo, noi che ne siamo al di fuori, perfettamente abilitati a disconoscerlo, a negarne qualunque possibile relazione col nostro, il “mondo dei giusti”. L’indifferente, osserva Zuppi, è convinto di non avere fatto niente di male, invece l’indifferenza genera degli inferni, perché il male non è indifferente, anzi, prolifica negli spazi lasciati liberi dal non amore e semina conforto, violenza, disillusione, odio. Nel libro sono diciannove le voci dei detenuti, cinque di quelli condannati al fine pena mai, due dei detenuti in semilibertà, due ai domiciliari, due immigrati, quattro ex detenuti. Aniello Falanga, detenuto: “Non sono né vivo né morto. Peggio! Sono uno che viene lasciato morire lentamente nella dimenticanza, nella totale solitudine interiore… L’ergastolano non vive, mantiene in vita un corpo che non gli appartiene più perché è diventato proprietà della giustizia”. Antonio Di Sero, detenuto, racconta dell’umiliazione subita all’ospedale Pertini in cui, nonostante la temperatura rigida, è stato portato in pantofole e accompagnato da due agenti della Polizia Penitenziaria come da regolamento, ed è stato mortificato dagli sguardi della gente di passaggio o in attesa di visita, “sguardi precisi che sapevano di diffidenza celata sotto una totale indifferenza”. Alfonso de Martino, fine pena mai, si domanda perché il Signore non voglia prenderlo con sé, e Marco Fagiolo, anche lui fine pena mai, conclude che l’unica cosa da fare è gettare la spugna con la ferma decisione di non lottare, non fare più niente, lasciarsi andare. Racconta anche che uno dei motivi di scoramento è l’indifferenza evidente in ogni atto burocratico, in primis nei tempi di attesa per la presentazione della relazione sul comportamento del recluso, necessaria per accedere ai benefici di legge: “Sono tempi che sfiancherebbero chiunque, ma che i detenuti sono costretti a sopportare con apprensione ed estrema pazienza, pazienza che a volte viene meno e può portare a compiere atti di autolesionismo, se non gesti estremi come il suicidio… Suicidi, per assurdo, anche loro destinati alla più completa indifferenza”. Fagiolo compie anche un passo successivo: “È certamente giusto lamentarsi della tanta indifferenza che ci circonda. Ma sarebbe altrettanto giusto fare un mea culpa proprio per l’insensibilità provata verso gli altri, verso le vittime… maturare la consapevolezza della sofferenza inferta direttamente o indirettamente, sia alle vittime dei reati che ai nostri stessi familiari: altrimenti, a cosa sarebbe servito espiare la pena?”. Appunto. Davvero si può ritenere che questa consapevolezza, obiettivo della “rieducazione”, passi attraverso sofferenze fisiche e morali che si aggiungono alla privazione della libertà? Una rivelazione amara quella di Michele Cuffari, fine pena mai: “Ho visto i più buoni diventare indifferenti e le vittime diventare carnefici nell’indifferenza. Con il passare del tempo, l’indifferenza ha lentamente fatto il suo ingresso anche in carcere, un luogo che dovrebbe essere l’esempio della solidarietà”. Antonella Rasola, direttrice del carcere di Rebibbia, non ha dubbi sulla strada da seguire: “Sappiamo bene che l’approccio giusto da adottare è quello di favorire quanto più i contatti con la società civile, mettendo in atto le condizioni per offrire alle persone detenute le possibilità opportunità inclusive, attraverso l’accesso al lavoro, alla formazione professionale, allo studio, allo sport; perché il tempo trascorso in carcere non rimanga vuoto e sospeso, ma abbia un senso, divenga risorsa preziosa da cui attingere per affrancarsi e divenire persone nuove”. E prima di tutto: “È necessario che fuori si sappia cosa accade dentro”. “Pena di morte, morte per pena”, il libro che ci ricorda che Caino merita giustizia e non vendetta di Ilaria Donatio Il Riformista, 15 novembre 2023 Caino - oltre ad essere un personaggio biblico, fratricida per motivi abietti - è il protagonista dell’omonimo romanzo di José Saramago: lo scrittore portoghese ne fa un viaggiatore nello spazio e nel tempo che attraversa tutti gli episodi più significativi dell’Antico Testamento. Attraverso questo Caino errabondo, i lettori scoprono le pretese del Dio della Bibbia insieme ai suoi castighi. E da personificazione del male, nell’allegoria letteraria, Caino diventa anche vittima, schiacciato com’è dal potere vendicativo del suo dio, superiore - per crudeltà - a lui e agli altri peccatori. In chiave giuridica, questa immagine evoca i tratti essenziali di una pena “costituzionalmente orientata”: l’atto criminale - per quanto efferato sia - merita giustizia e non vendetta, da cui Caino deve essere sempre protetto. Ed eccolo il cuore del libro “Pena di morte, morte per pena” a cura dell’associazione radicale “Nessuno tocchi Caino (Edizioni Ponte Sisto, 2023) che raccoglie storie, lettere, testimonianze e riflessioni sulla pena di morte e sui tanti casi di morte a causa della pena che si stava scontando, accaduti nelle carceri di tutto il mondo, durante il 2022 e fino ai primi sei mesi del 2023. Nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere, e, spesso, lo fanno negli istituti dove le condizioni di vita sono peggiori. Queste circostanze sono spiegate molto bene nel dossier “Morire di carcere” curato dal Centro Studi di Ristretti Orizzonti. E spesso, gli stessi operatori - anche medici - sembrano rincorrere un automatismo: il suicidio è “giustificato” dallo squilibrio mentale. Per questa ragione, l’unica risposta che predispongono per chi sopravvive è l’isolamento oppure il ricovero in psichiatria. Nessuna prevenzione: neanche lo sforzo di comprendere le ragioni della disperazione di chi si toglie la vita. Eppure, si legge nel dossier, l’elemento che accomuna i suicidi di chi è appena stato arrestato con i detenuti che stanno per terminare la pena è la mancanza totale di prospettive. Nessuna prospettiva di poter trascorrere utilmente una lunga detenzione: perché in tante carceri, il tempo della pena è tempo vuoto. Nessuna prospettiva di poter tornare a vivere “normalmente”, per chi è entrato e uscito troppe volte dal carcere e si sente condannato (anche in libertà). Perché, quando la pena in carcere finisce, inizia l’altra pena, durissima, di ritrovare un posto nella società, con lo stigma di essere stato un detenuto: e se soffri di dipendenze, se hai problemi psichiatrici, se sei straniero o sei povero, è quasi certo che la condizione in cui versi - da persona libera - si sarà aggravata ancora di più. Per esempio: che fine hanno fatto i Consigli di Aiuto Sociale la cui istituzione è prevista proprio dall’ordinamento penitenziario (artt. 74-78) per il reinserimento sociale? In tutta Italia se ne contano sulle dita di mezza mano! Chi finisce in carcere ha commesso reati. È ora che lo Stato che lo ha detenuto o lo detiene in uno dei 189 istituti penitenziari italiani - condannato, nel 2013, per violazione sistematica dell’art. 3 della Convenzione EDU (trattamenti disumani e degradanti) - rientri nello “Stato di diritto” dal cui perimetro, troppo spesso, è fuori per il mancato rispetto delle regole di convivenza civile più basilari. Figli di coppie omogenitoriali. L’assurda attesa di un diritto di Elena Loewenthal La Stampa, 15 novembre 2023 Se non fosse che è tutto vero sarebbe un teatro dell’assurdo. Se non fosse che in questa paradossale ma anche e soprattutto drammatica vicenda c’è in gioco la vita di tante persone - adulte e bambine. Ci sono, loro malgrado, chiamate in causa tante famiglie, e in fondo non è vero quello che dice Tolstoj su quelle felici che sono sempre uguali mentre quelle infelici lo sono ciascuna a modo suo. Ogni famiglia, beata o tragica che sia, è una storia a sé. Ma quelle trentatré più sei registrate negli ultimi mesi a Padova raccontano oggi, purtroppo, qualcosa in più - anzi in meno - di quella storia a cui ogni famiglia avrebbe diritto. A giugno scorso, infatti, la procura della città veneta aveva deciso di impugnare tutti gli atti di nascita registrati da coppie omogenitoriali formate da due donne dal 2017 in avanti. Una presa di posizione, da parte della procuratrice Valeria Sanzari, gravida di conseguenze pesanti per quelle madri e quei bambini e bambine che erano già una famiglia magari da anni e che si ritrovavano precipitate in una specie di baratro d’incertezza, come una faglia nera nel loro diritto di essere, crescere, volersi bene. In quella crepa burocratica, insomma, una madre si configura come la “partoriente” mentre l’altra è costretta ad avviare le lunghe e non di rado tormentose pratiche di adozione per poter essere riconosciuta ufficialmente in quanto madre. Di rado la burocrazia e la legge si dimostrano così lontane dalle realtà, dalla vita e dagli affetti, come in questi casi. Fatto sta che ora la procuratrice Sanzari è stata promossa e trasferita a Venezia, e colei che l’ha sostituita, Maria D’Arpa, pare più vicina alle istanze delle famiglie arcobaleno. Per questo ha sospeso la procedura e scelto di procedere con la richiesta di legittimità alla Corte Costituzionale e appurare se l’esclusione delle coppie lesbiche dalle leggi che regolano il riconoscimento dei bambini nati con fecondazione assistita vada contro i principi della nostra Carta. Il che sarebbe, anzi è, un indubbio passo avanti nel lungo, tortuoso e incerto cammino verso una doverosa cognizione di questi diritti e l’esercizio di quel senso di responsabilità sociale, culturale e giuridica che imporrebbe un allineamento fra realtà e diritto, fra quello che la gente è, vive, pensa e crede e quello che sta o non sta scritto nelle nostre leggi. Però, pensare che nel nostro Paese ci si debba accontentare di una battuta d’arresto come passo avanti nel riconoscimento di certi diritti è davvero molto triste. Deprimente. Ben vengano, certamente, battute d’arresto in questa direzione. Ma non basta. Fatto sta che quelle trentatré più sei famiglie formate da coppie di donne con figli (come si diceva una volta, stato civile: coniugato/a con figli) si ritrovano per l’ennesima volta in un limbo giuridico, in uno stagno di acque immote in cui non avvengono quasi mai decisioni ma quasi sempre e soltanto sospensioni, rimbalzi e note a margine che poco o nulla hanno a che vedere con la vita vera. La loro, di coppie omosessuali, e anche la nostra, di noi che stiamo a guardare e sgraniamo sconcertati gli occhi perché per una volta tanto non dovrebbe essere così difficile praticare l’esercizio per lo più scomodo di mettersi nei panni degli altri, anzi delle altre. Di queste madri che giorno per giorno tirano su i loro bambini, proprio come noi che stiamo a guardare, e ogni giorno che passa si portano addosso un grammo in più di disillusione e fors’anche di rassegnazione e si perdono un pizzico di speranza di vedere diventare adulti i loro figli in una società rispettosa dei diritti propri e altrui. Il Sindaco ribelle di Padova: “Non fermo le registrazioni. I diritti prima di tutto” di Enrico Ferro La Repubblica, 15 novembre 2023 “L’interesse del minore viene prima di tutto: l’idea che a dei piccoli siano negati diritti fondamentali e che siano esposti a gravi discriminazioni è inaccettabile anche moralmente” Sindaco Sergio Giordani, sono iniziati i processi alle mamme arcobaleno. La macchina giudiziaria procede, a rischio ci sono i diritti delle famiglie e soprattutto dei bambini. Lei è ancora della stessa idea? “Completamente della stessa idea, i diritti delle bambine e dei bambini vengono prima. L’interesse del minore viene prima, l’idea che a dei piccoli siano negati diritti fondamentali e che siano esposti a gravi discriminazioni è inaccettabile anche moralmente, io sono nonno prima che sindaco, ma anche come primo cittadino oriento sempre la mia azione alla dignità delle persone e mi ispiro alla Costituzione sulla quale ho giurato”. È vero che ha continuato a iscrivere all’anagrafe i bambini nati da coppie omosessuali e che la Procura ha continuato a impugnare gli atti? “Sì ho continuato, ma badi bene: qua non c’è uno scontro tra me e la Procura, anzi. C’è un Paese che, a partire dal suo Parlamento, deve prendere atto subito che esiste un grave vuoto normativo da colmare e che sui diritti dei più piccoli le fazioni vanno messi da parte. Serve prendere atto che la società è già molto più avanti delle leggi e che queste vanno adeguate per proteggere i minori. Alcuni di questi bambini hanno già 6 anni. Come si può togliere loro un genitore? Una di queste madri ha denunciato pubblicamente di avere un cancro e di temere che la figlia resti orfana. Ora, io a questa mamma do un abbraccio e auguro il meglio con il cuore, ma davanti a casi così è impossibile restare insensibili”. Perché lo fa? Non teme, prima o poi, di finire nei guai anche lei? “Lo faccio perché lo ritengo giusto. Lo faccio perché ho il dovere di usare i poteri che mi sono delegati per proteggere le persone, i loro diritti, e in particolare i bambini. Lo faccio perché ho quattro nipoti e a 70 anni voglio la coscienza a posto, con loro e con la mia comunità”. Quante iscrizioni ha fatto in questi ultimi mesi? “Dopo che sono partite le impugnazioni altre sei”. È ancora convinto di procedere con questa battaglia? “Sì, e sempre rispettoso dello Stato perché io sono un uomo dello Stato: ma a dirmi “fermati” dovrà essere un giudice, non un politico”. Padova è diventato un caso che rischia di fare giurisprudenza. Come vive questa responsabilità? “Al meglio delle nostre possibilità, senza cercare scontri ma perseguendo giustizia e buon senso”. Secondo lei la città sta con queste mamme o il tema divide ancora molto gli schieramenti? “I padovani stanno con le mamme delle coppie arcobaleno, ne sono certo, a grandissima maggioranza. Chi ne fa questione ideologica compie un grave errore”. La Procura ha chiesto al tribunale di portare il caso alla Corte costituzionale, cosa ne pensa? “Non sono un giurista e attendo con rispetto quello che deciderà il Tribunale. Certo a Padova noi per primi abbiamo avviato questo percorso, convinti che servisse ad accendere i riflettori su un grave vulnus. Se non ci pensa il Parlamento, la nostra Repubblica ha i suoi meccanismi per decidere e dare indicazioni su questioni che toccano principi costituzionali. Io e tanti colleghi sindaci siamo in campo per chiedere che sia consolidato un principio chiaro su questo tema delicatissimo”. Centri per i migranti in Albania, i dubbi dell’Ue c’erano già nei documenti del 2018 di Vitalba Azzollini* Il Domani, 15 novembre 2023 Sull’accordo tra Italia e Albania ora dovrà pronunciarsi l’Ue. Già nel giugno 2018, il Consiglio europeo aveva considerato l’idea di piattaforme regionali di sbarco. Ma sia la Commissione europea sia il servizio giuridico del parlamento Ue avevano ritenuto difficilmente realizzabile l’iniziativa. L’accordo sulla realizzazione di centri per in migranti, firmato della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e il premier albanese, Edi Rama, circa il quale su queste pagine abbiamo espresso molti dubbi in punto di diritto, è al vaglio dell’Unione europea. Ma già in passato l’Ue aveva valutato sul piano giuridico la possibilità di centri ove sbarcare migranti soccorsi in mare. Il Consiglio europeo del 28 giugno 2018, incentrato sul tema della migrazione, aveva invitato il Consiglio dell’Ue e la Commissione “a esaminare rapidamente il concetto di piattaforme di sbarco regionali, in stretta cooperazione con i paesi terzi interessati”. La Commissione europea - In risposta all’invito del Consiglio, la Commissione pubblicò un documento nel quale prese in considerazione tre opzioni secondo cui avrebbero potuto essere realizzate le suddette piattaforme. Una di queste era relativa alla possibilità di trattazione delle domande d’asilo in paesi terzi. Vale a dire l’ipotesi in cui rientrerebbe l’accordo con l’Albania. Secondo la Commissione, quest’ipotesi “richiederebbe l’applicazione extraterritoriale del diritto dell’Ue che attualmente non e? ne? possibile ne? auspicabile”. L’unica strada percorribile sarebbe quella “di istituire un sistema di asilo europeo e tribunali europei per trattare le richieste accompagnate da una struttura di appello a livello europeo”, nonché una “distribuzione dei richiedenti asilo tra gli stati membri”. La realizzazione di questa ipotesi richiederebbe modifiche istituzionali, nonché lo stanziamento di ingenti risorse. Anche la possibilità di centri per il rimpatrio situati in paesi terzi, secondo la Commissione, non sarebbe attuabile: ai sensi del diritto dell’Ue, non è consentito mandare qualcuno, contro la sua volontà, in un paese che non sia di origine o di transito. Dunque, il progetto italiano di istituire centri per i migranti in Albania risulterebbe bocciato in base alle considerazioni della Commissione. Il parlamento europeo - Nel novembre 2018, anche il servizio giuridico del parlamento europeo, a seguito della richiesta di parere legale presentata dalla commissione per la giustizia e le libertà civili (Libe), si espresse sulla compatibilità di “piattaforme regionali di sbarco” e “centri controllati” rispetto al diritto internazionale e dell’Unione. Ai migranti soccorsi nelle acque territoriali di uno stato dell’Ue sarebbe applicabile il diritto europeo in materia di asilo, ai sensi del Regolamento di Dublino. Secondo il parere del servizio giuridico, il loro trasporto in centri posti al di fuori dell’Unione potrebbe essere reputato conforme alla normativa Ue solo se i migranti potessero accedere alle procedure di asilo “alle stesse condizioni in cui vi accedono negli stati membri dell’Ue”. Ma - continua il parere - anche se ciò fosse teoricamente possibile, sarebbe comunque “molto difficile (…) sul piano giuridico e pratico”, e renderebbe comunque necessario apportare “modifiche sostanziali all’attuale quadro giuridico dell’Ue in materia di asilo”. Pertanto, il primo punto da valutare è se i migranti trattenuti in Albania potranno fruire dei medesimi diritti di cui avrebbero goduto in Italia, e con le medesime modalità. Qualora nei centri albanesi non fossero presenti giudici per convalidare i trattenimenti, avvocati per l’esercizio effettivo del diritto di difesa, in particolare per ricorrere contro decisioni di trattenimento o di espulsione, commissioni territoriali per l’esame della domanda di asilo anche attraverso colloqui individuali, le condizioni per i migranti non potrebbero le stesse di cui avrebbero goduto in Italia. Quanto al secondo punto, cioè la necessità di modifiche alla disciplina europea sull’asilo, bisogna partire dal presupposto che tale disciplina si applica solo alle domande presentate nel territorio dell’Unione. Dunque, per i migranti salvati da navi della marina militare, che sono territorio italiano, e portati in Albania si verificherebbe una sorta di corto circuito: avendo fatto il primo ingresso in Italia, l’istanza di protezione dovrebbe essere trattata ai sensi diritto europeo; ma il diritto europeo non potrebbe applicarsi in Albania, in quanto stato terzo. È vero che i centri per i migranti sarebbero sotto la giurisdizione italiana, ma la sovranità territoriale resterebbe comunque all’Albania. Dunque, senza una modifica dell’attuale quadro normativo, non potrebbe farsi ricorso alle regole europee sull’asilo. Nel valutare l’accordo tra Meloni e Rama, l’Ue resterà coerente alle considerazioni espresse nel 2018? *Giurista La diffida di Albenga al governo per il Cpr. Con la firma di FdI di Vanessa Ricciardi Il Domani, 15 novembre 2023 Anche la sezione locale del partito ha promosso la petizione a Giorgia Meloni per dirsi contraria all’ipotesi. Il muro dell’area prescelta confina con un camping e si trova a 200 metri dal mare. Il governo ha dovuto chiedere aiuto all’Albania, visto che in Italia i comuni sono pronti a una strenua resistenza contro nuovi centri per il rimpatrio. Come anticipato da Domani nei giorni scorsi sono partiti i sopralluoghi in Liguria: ad Albenga si è recata una folta delegazione del ministero della Difesa per vedere l’area dell’ex caserma “Piave”, ma nei prossimi giorni il primo cittadino, Riccardo Tomatis, firmerà una lettera scritta con gli avvocati all’indirizzo del ministro della Difesa Guido Crosetto, di palazzo Chigi per Giorgia Meloni, del ministero dell’Interno e anche a quello dell’Economia. Il ministro Crosetto è incaricato di occuparsi della costruzione dei nuovi centri, e Albenga gli manderà un avvertimento in grande stile. Nella bozza, che abbiamo potuto leggere in anteprima, si invitano “a non definire illegittimamente il procedimento senza attendere tale preannunziato momento partecipativo”, quindi a decidere senza coinvolgere il comune, e si chiede accesso agli atti. Per il comune tutto “osta prima facie alla prospettata localizzazione”. Insomma, non si può fare, e per questo includeranno una diffida. La visita - La scelta di Tomatis di intervenire è stata presa con l’appoggio unanime di destra e sinistra. Il 17 ottobre il Consiglio comunale ha approvato una delibera per dare mandato al sindaco di “ribadire la ferma opposizione a questa proposta”. Per Tomatis, i problemi sono evidenti. Le linee guida del governo prevedono che non si possa procedere se esistono dei vincoli oppure si è troppo a ridosso dei centri abitati; eppure, nonostante le case vicine, un muro confinante con un camping e, a 200 metri, gli stabilimenti balneari, il governo ha voluto verificare. Ultimo sfregio per il governo Meloni, la sezione locale del partito della premier, Fratelli d’Italia, ha promosso una petizione da inviare “al presidente” Giorgia Meloni per esprimere contrarietà all’ipotesi. Come rivelato da questo giornale, i progetti di fattibilità dei Cpr formato Panopticon, che ricordano il carcere ideale progettato nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy Bentham, riguardano 9 comuni. Oltre ad Albenga, ci sono Castel Volturno (Caserta), Bolzano, Diano Castello (Imperia), Aulla (Massa Carrara), Falconara Marittima (Ancona), Catanzaro, Brindisi e Ferrara. Proprio pochi giorni fa il sindaco leghista Alan Fabbri ha ammesso di aver avviato un confronto col ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Ma mentre il sindaco si prepara a cedere, si è sollevata la chiesa. Per il vescovo, Gian Carlo Perego, presidente della fondazione Migrantes della Cei, “più che una città carcere il futuro di Ferrara dovrebbe essere quello di una città aperta e inclusiva”. Il governo si concentra spasmodicamente su nuove strutture, andando a scomodare il presidente albanese Edi Rama, eppure i centri per il rimpatrio in Italia hanno dei posti liberi. Quelli operativi sono 9, e hanno una capienza totale di 669 posti. L’ultimo aggiornamento delle presenze, dello scorso 17 ottobre, registra 60 posti vacanti. Non risulta in lista Pozzallo, dove il tribunale di Catania ha stabilito che non potessero essere reclusi dei migranti tunisini. Piantedosi ha spiegato che in effetti non è un Cpr ma un luogo di trattenimento “per le procedure accelerate di identificazione e gestione della domanda di asilo”. Comunque una struttura detentiva. Nei corridoi del Garante si dice che il governo adesso ci stia pensando due volte prima di adottare dei nuovi provvedimenti di trasferimento dei richiedenti asilo, e attende la Cassazione. Intanto pensa a come mandare i migranti in Albania. Migranti. “Nel deserto ho perso moglie e figlia, adesso sogno di ricominciare” di Giansandro Merli Il Manifesto, 15 novembre 2023 Fati e Marie erano state respinte dai tunisini. La foto dei loro corpi ha fatto vergognare il mondo, ma non ha cambiato nulla. Ora Mbengue Crepin è in Italia. “Al governo Meloni direi di smettere di finanziare le milizie libiche. Non serve a niente. Dopo che intascano il denaro dell’Europa si dedicano al traffico di migranti”, afferma. Il 15 luglio scorso Mbengue Nybilo Crepin, la moglie Fati Dosso e la figlia Marie avevano superato la frontiera dalla Libia alla Tunisia. Portavano in cuore la speranza di poter iscrivere finalmente la bambina a scuola e trovare migliori condizioni di vita. Il giorno seguente era rimasto in vita soltanto l’uomo, che gli amici chiamano Pato. Le due donne erano morte nel deserto, dove le autorità tunisine avevano abbandonato la famiglia per costringerla a tornare da dove era venuta. Sono spirate una accanto all’altra. La loro foto ha fatto il giro del mondo. Senza però far cambiare idea alla premier Giorgia Meloni, impegnata a siglare il memorandum d’intesa con il presidente tunisino Kais Saied. Lunedì 6 novembre Pato è riuscito ad arrivare in Italia, a Lampedusa, dopo essersi lasciato alle spalle le coste libiche di Zawyia su un barcone partito con altre 24 persone soccorse dalla guardia costiera italiana. Qual è la prima cosa che ha pensato toccando terra in Italia? Di cambiare vita, avere una nuova speranza e ripartire da zero. Quante volte aveva provato ad attraversare il mare? Altre cinque. Ogni volta siamo stati arrestati dai guardacoste libici. Ogni volta ci hanno portato in prigione. Le condizioni erano molto difficili. Bisognava pagare per uscire e non era semplice. Perché ha lasciato il suo paese? Vivevo nella zona anglofona del Camerun. C’era un gruppo armato secessionista, che poi avrebbe dichiarato l’indipendenza dell’Ambazonia, che voleva arruolarmi per combattere contro lo Stato centrale. Era in corso una crisi politica. Abitavo con mia sorella maggiore. Le hanno chiesto di farmi entrare tra i guerriglieri. Lei si è rifiutata e l’hanno uccisa. Poi hanno bruciato la nostra casa. Non mi è rimasto nessuno e ho cercato rifugio in Nigeria. Siamo nel 2016. Conosceva già sua moglie? No, sono scappato da solo. Dopo qualche mese ho deciso di andare nel Maghreb e mi sono ritrovato in Libia. Lì ho conosciuto Fati e abbiamo avuto una figlia. Il nostro sogno era venire in Italia. Perché a metà luglio della scorsa estate avete provato a raggiungere la Tunisia? Volevamo iscrivere Marie, la nostra bambina, a scuola. In Libia non aveva mai avuto la possibilità di studiare, di avere un’educazione. Dei conoscenti ci avevano detto che in Tunisia sarebbe stato possibile. Era il nostro obiettivo principale. La situazione dei migranti subsahariani in Tunisia è buona? Non lo so. Non sono riuscito a viverci. Siamo stati lì una sola notte, in un campo di detenzione a Ben Gardane. Dopo aver attraversato la frontiera siamo stati intercettati. Il giorno dopo le autorità tunisine ci hanno abbandonato nel deserto, per farci tornare in Libia. Un comportamento criminale... Esattamente. Ma i migranti non hanno diritto di parola. Nel Maghreb non abbiamo voce in capitolo. Dopo la morte di sua moglie e di sua figlia cos’è successo? Sono stato contattato da alcune associazioni e giornalisti. Volevano sapere cosa era accaduto. Ho dato loro tutte le informazioni. Così ho cominciato a ricevere minacce, da uomini a volto coperto. Non volevano parlassi con i giornalisti. Poi il signor David Yambio, dei Refugees in Libya, mi ha aiutato a trovare un rifugio. Mi ha messo in contatto con dei suoi amici che mi hanno ospitato per un po’. Ha chiesto aiuto all’Unhcr o ad altre organizzazioni umanitarie? Sì, l’Unhcr mi ha convocato per delle interviste. Ho raccontato la mia storia. Mi hanno registrato e rilasciato una carta. Ogni volta, però, mi dicevano che dovevo pazientare, che serviva tempo per trovare un paese sicuro dove ricollocarmi. Ma non c’era niente di concreto, di certo. Ha potuto seppellire sua moglie e sua figlia? Lo hanno fatto le autorità libiche. Io sono riuscito a visitare la tomba, sono andato a trovarle. Ma in pratica le ho potute rivedere solo in quella terribile foto. È stato un momento orribile. Non ho mai pensato potesse finire così. Fortunatamente ho avuto degli amici intorno che mi hanno sostenuto. Ho pensato di tutto. Ho pensato di suicidarmi. Se avesse di fronte il governo italiano cosa direbbe? Sulla Tunisia so troppo poco, ma posso parlare della Libia perché ci ho vissuto quasi sette anni. Al governo italiano, o alle autorità europee, direi di smettere di finanziare i guardacoste o meglio le milizie libiche. Non serve a niente. Sono le stesse milizie che si presentano come passeur. Dopo che intascano il denaro dell’Europa si dedicano al traffico di migranti. Adesso è in Italia. Qual è il suo sogno? Ho la passione della pittura. Spero di diventare un grande pittore. È questo il mio sogno. Droghe. “Erba” e musica, un connubio che merita un Daspo di Claudio Cippitelli Il Manifesto, 15 novembre 2023 Valle dell’Angelo, in provincia di Salerno, è il comune meno popoloso della Regione Campania. L’esiguità della sua popolazione è l’emblema di quanto sta accadendo nelle aree interne del nostro Paese, uno spopolamento che ha ridotto i 1.644 abitanti registrati nel 1881 alle attuali 217 anime. Ad alleviare almeno parzialmente questa condizione di isolamento, da cinque anni Valle dell’Angelo diviene il palcoscenico del VdA Music Potlach, una manifestazione musico-culturale del Cilento, organizzata dall’associazione culturale VOJTO e patrocinata dal Comune. Sul sito che promuove l’iniziativa si può leggere che “VdA Music Potlach è un’occasione di interazione e di confronto, un esperimento di comunità basata sulla musica, la socialità, la parola; … l’idea e la voglia di puntare sull’interscambio culturale per valorizzare e far conoscere i luoghi del Cilento interno che resiste, e favorire l’unione attraverso la libera diffusione della musica e dell’arte”. Insomma, in un week end di fine aprile Valle dell’Angelo torna a risuonare della presenza di giovani, venuti per ascoltare quindici Band e cantautori. Tutto bene, dunque, se non fosse che nell’ultima edizione, quella del 2023, una delle band, la Only Smoke Crew, viene accusata di essere composta da soggetti particolarmente pericolosi, tanto da meritare un daspo urbano dalla Questura di Salerno, ovvero il divieto di rientro nel Comune di Valle dell’Angelo per un anno, causa “inneggiamento all’uso di marijuana”. I fatti che hanno portato al provvedimento si possono riassumere in una scenetta che accompagna il pezzo “Fatti dei fatti” (un incontro tra un pusher, un acquirente e un agente delle forze dell’ordine) e, nel brano “Welcome to my paradise”, l’esposizione di uno spinello gigante gonfiabile di Cbd, notoriamente legale. Il gruppo inoltre distribuisce delle bustine con all’interno un QR Code per pubblicizzare i loro social. Questi tre episodi, tutti perfettamente legali, hanno motivato una perquisizione da parte delle Forze dell’Ordine e il successivo sequestro dei materiali distribuiti. Passa del tempo e, mentre il Tribunale di Vallo della Lucania restituisce tutto per assenza di reato, il 6 giugno la Questura di Salerno consegna ai membri della Crew, descritti come “soggetti socialmente pericolosi”, un provvedimento di Daspo urbano che ne vieta il rientro nel Comune di Valle dell’Angelo per un anno, pena da 1 a 6 mesi di arresto. Per capire l’enormità del fatto, è utile leggere la parte che riguarda la provincia di Salerno nella relazione della Direzione Investigativa Antimafia del primo semestre 2022 sulle organizzazioni criminali; il Procuratore di Salerno, Giuseppe Borrelli rileva una “significativa evoluzione delle modalità di azione delle organizzazioni criminali, in particolare operanti nella zona a sud di Salerno…riconducibili alla creazione di condizioni monopolistiche in determinati settori economici (…) e si avvalgono della capacità di condizionamento della pubblica amministrazione e della classe politica”. Mentre la criminalità, quella vera, impone le sue logiche, a Caivano come nel salernitano vengono comminate sanzioni amministrative (che, se non rispettate, si possono trasformare in penali) ad artisti che hanno la sola colpa di affermare quanto già scrivevano lapidariamente i Beatles sul Times, il 24 luglio del 1967: “La legge contro la marijuana è immorale in linea di principio e impraticabile nei fatti”. Oltre ai fab four, sottoscrivevano l’appello Brian Epstein e un numeroso gruppo di scrittori, artisti e politici. Vista l’aria che tira (nuovi reati per micro-spacciatori ecc.) non è escluso che i Beatles ancora in vita, Paul McCartney e Ringo Starr, possano ricevere un Daspo internazionale per il loro comunicato di 56 anni fa, per “inneggiamento all’uso di marijuana”. La minaccia dell’estremismo di Gianluca Mercuri Corriere della Sera, 15 novembre 2023 L’atteggiamento e i piani della ultradestra israeliana potrebbero causare una deflagrazione regionale con devastanti conseguenze globali. La guerra provocata dal massacro terroristico del 7 ottobre è già la più sanguinosa mai combattuta tra israeliani e palestinesi dopo quella che nel 1948 portò alla nascita dello Stato ebraico. Il peggior pogrom dalla Shoah non poteva che suscitare nel mondo libero un’ondata di solidarietà con il Paese aggredito, esattamente com’è avvenuto nei confronti dell’Ucraina. Gli sviluppi del conflitto, e le sue prospettive, cominciano però a seminare dubbi tra gli alleati di Israele e in ampi settori della sua opinione pubblica. La domanda è: c’è il rischio che la legittima risposta a Hamas - con la conseguente necessità di liquidarla una volta per tutte - si trasformi da guerra esistenziale di Israele a guerra votata all’annessione definitiva di tutte le terre che i due popoli si contendono da più di un secolo? La questione è destabilizzante almeno quanto quella del numero di vittime civili a Gaza tollerabile dall’Occidente, una soglia indefinibile ma oltre la quale la “guerra giusta” può vedere compromessa la propria legittimità morale. Una soglia che sia il segretario di Stato Usa Blinken - “Troppi morti” - sia il presidente francese Macron - “Non possono continuare a uccidere donne e bambini” - hanno di fatto dichiarato superata. Le pressioni occidentali sono in parte contraddittorie: si ammette che eliminare Hamas è legittimo e necessario, sapendo però che è impossibile farlo senza una strage finché Hamas si mescola ai civili. In teoria, lo “spostamento” della popolazione imposto da Israele dovrebbe servire a limitare la carneficina. Già più di 800 mila persone hanno lasciato il Nord della Striscia, ma non è affatto escluso che l’operazione di terra si sposti poi a Sud. Di certo, nemmeno a guerra conclusa gli sfollati potranno rientrare subito in case che non ci saranno più. Perché la tragedia di Gaza non passi alla storia come una deportazione di massa, Israele dovrebbe dunque impegnarsi a restituire la Striscia, senza più Hamas, ai suoi abitanti. La comunità internazionale e il leader dell’opposizione israeliana, Yair Lapid, individuano nell’Autorità nazionale palestinese - che è corrotta e debole, ma riconosce Israele da 30 anni e ha combattuto contro Hamas una sanguinosa guerra civile - l’unico soggetto plausibile per il futuro governo della Striscia e il riavvio del processo di pace. Ma Benjamin Netanyahu lascia intendere tutto fuorché un disimpegno, e ancora una volta esclude l’Anp dal futuro. Un interregno governato da Israele pare inevitabile. Ma il premier è sempre più allineato agli estremisti, al punto da sembrare tentato da una soluzione drammatica della questione palestinese, da lui nascosta per anni nell’illusione di farla dimenticare perfino ai diretti interessati. È il timore espresso a Lorenzo Cremonesi dall’ex premier Ehud Olmert: “Corriamo il pericolo gravissimo che Netanyahu e i suoi alleati fanatici approfittino della crisi di Gaza per scacciare i palestinesi da tutti i territori occupati”. L’impegno a lasciare la Striscia e a riconoscere ai palestinesi l’autodeterminazione, aggiunge, è essenziale perché “solo così la comunità internazionale potrà sostenere la nostra battaglia contro Hamas”. Il vero epicentro della contesa è dunque la Cisgiordania. Lì restano gli ultimi lembi di terra su cui possa sorgere uno Stato palestinese, reso arduo dalla presenza di mezzo milione di coloni nelle terre che la destra messianica “rivuole” in quanto corrispondenti alle bibliche Giudea e Samaria. Le frange oltranziste sono sempre più aggressive, e cresce il timore che vogliano provocare una nuova Intifada per innescare un altro conflitto in stile Gaza. Israele è unita contro Hamas, ma divisa da prospettive così oscure. Il giornalista di Haaretz Amir Tibon viveva nel kibbutz di Nahal Oz, e il 7 ottobre si è salvato nascondendosi per dieci ore con la moglie e le figlie: “Quel giorno Hamas sapeva di aver firmato il certificato di morte di migliaia di abitanti di Gaza”. Ora Hamas va distrutta, ha spiegato, perché altrimenti non ci sarà mai pace. Lo stesso Tibon, dopo che due ministri hanno ipotizzato l’atomica su Gaza e una nuova Naqba - una catastrofe palestinese come nel ‘48 - ha poi scritto: “È un danno immenso agli sforzi di Israele per convincere i governi stranieri e l’opinione pubblica globale che sta combattendo una guerra giusta per la sicurezza dei suoi cittadini, non per annientare i gazesi e rioccupare la terra. Purtroppo, quasi ogni giorno uno dei membri estremisti della coalizione causa questo tipo di danni”. Le scelte future del governo israeliano inquietano l’America e i governi occidentali, che vorrebbero uscire dalla crisi con la prospettiva di uno Stato palestinese, e non con il definitivo affossamento di una questione colpevolmente rimossa da tutti. Se i piani dell’ultradestra israeliana si concretizzassero il rischio sarebbe, al contrario, quello di una deflagrazione regionale con devastanti conseguenze globali. Anche per questo il dopoguerra a Gaza e in Cisgiordania ci riguarda tutti.