La sveglia di Magistratura democratica alle toghe: “Meno carcere!” di Angela Stella L’Unità, 14 novembre 2023 Sovraffollamento, suicidi, zero rieducazione, “serve una presa di coscienza tra i magistrati: più pene sostitutive”, recita la Mozione approvata al congresso. Domenica si è chiuso a Napoli il XXIV Congresso di Magistratura democratica che nella mozione finale approvata denuncia una “profonda preoccupazione per i disegni di riforma della Costituzione: ove approvati, essi determinerebbero infatti una concentrazione di potere capace di mettere in discussione i sapienti equilibri disegnati dalla Costituzione repubblicana. È in nome di questa preoccupazione che avvertiamo il dovere di partecipare al discorso pubblico, per ragionare insieme a tutta la comunità repubblicana sui pericoli che discendono da alcune proposte di riforma in cantiere”. Insieme ad essa è stata approvata anche una mozione sul carcere, tema molto sentito durante la tre giorni napoletana: oltre al dramma del sovraffollamento, dei suicidi e quello della carenza di personale, nella mozione si registra come in molti istituti ci siano “fatiscenza edilizia, promiscuità di percorsi trattamentali, impossibilità di un effettivo accesso al lavoro e alle offerte rieducative, assenza delle basilari condizioni igieniche, insufficienza dell’assistenza sanitaria. Il carcere rimane un luogo dove si cerca di sopravvivere al nulla, dove i problemi principali sono quelli relativi all’igiene, allo spazio e al cibo, dove il tentativo di soddisfare i bisogni basilari, quelli che dovrebbe essere lo Stato a garantire a ciascuno, prende il sopravvento sull’impegno personale a sviluppare o ricucire il senso del bene comune e la voglia di migliorarsi”. Questa situazione è destinata ad aggravarsi per il fatto che “il `carcere sedato’ sta prendendo sempre più il posto del carcere rieducato” e anche a causa di “politiche repressive e di inasprimento sanzionatorio nei confronti degli autori di reato di lieve entità in materia di stupefacenti”. In questa congiuntura difficile, “ai magistrati democratici preme ribadire l’importanza di una presa di coscienza all’interno della magistratura sull’assoluta necessità di una immediata e diffusa applicazione delle pene sostitutive”. Inoltre “Rilevante attenzione dovrà essere prestata alla proposta di legge (A.C. n. 1064, presentata il 30 marzo 2023) di istituzione delle case territoriali di reinserimento sociale, volta a permettere, in casi di ridotta pericolosità sociale e di limitata entità della pena, che la detenzione possa essere scontata in specifiche strutture appositamente istituite, di dimensioni ridotte e caratterizzate da programmi di trattamento espressamente finalizzati alla ricollocazione sociale del condannato”. Proprio l’onorevole di +Europa Riccardo Magi, primo firmatario della pdl commenta: “La condivisione della proposta di legge per l’istituzione delle Case di reinserimento sociale che arriva dal congresso di Magistratura democratica è un segnale particolarmente prezioso. Siamo convinti che questa proposta su cui abbiamo raccolto un sostegno ampio dalle forze di opposizione rappresenti una riforma possibile del carcere e chiediamo anche al governo di esprimersi su di essa”. Soddisfazione anche dal Pd che ha sottoscritto l’iniziativa. La responsabile giustizia dem Debora Serracchiani ci dice: “Il tema del carcere e più in generale dell’esecuzione della pena e del fine rieducativo e di reinserimento sociale della stessa non sono all’ordine del giorno di questo governo. Per questi motivi sostengo convintamente la pdl sulle cd case territoriali. Direi che la mozione di MD raccoglie questa istanza e cercheremo di sollecitare intervento del governo aprendo la pdl alla firma di tutti i gruppi politici”. Sempre in tema di carcere è stata presentata dal senatore del Pd Franco Mirabelli una interrogazione al Ministro Nordio: “Assicurare ai detenuti, a fronte della drammatica situazione degli istituti penitenziari, condizioni di carcerazione adeguate, consentendo loro di avvalersi davvero delle otto ore di potenziale apertura delle celle” contestando così la decisione del Dap “di aumentare le sezioni a regime ordinario (e cioè le ex a custodia chiusa) con corrispondente riduzione delle sezioni a regime a trattamento intensificato (e cioè le ex sezioni a custodia aperta)”. “Case di reinserimento” per reclusi con pene basse, la proposta Magi piace a Md di Valentina Stella Il Dubbio, 14 novembre 2023 Il deputato di +Europa: “Siamo convinti che questa proposta su cui abbiamo raccolto un sostegno ampio dalle forze di opposizione rappresenti una riforma possibile del carcere”. Domenica si è chiuso a Napoli il XXIV congresso di “Magistratura democratica”, che nella mozione finale approvata denuncia una “profonda preoccupazione per i disegni di riforma della Costituzione: ove approvati, essi determinerebbero infatti una concentrazione di potere capace di mettere in discussione i sapienti equilibri disegnati dalla Costituzione repubblicana. È in nome di questa preoccupazione”, si legge nel documento, “che avvertiamo il dovere di partecipare al discorso pubblico, per ragionare insieme a tutta la comunità repubblicana sui pericoli che discendono da alcune proposte di riforma in cantiere”. Inoltre “sul piano culturale, occorre investire su una figura professionale che rinunci alla spettacolarizzazione della giustizia e - sul piano interno - rifiuti gerarchizzazione degli uffici, burocratizzazione della funzione, conformismo e quieto vivere. Perché il garantismo nell’esercizio della giustizia penale e il pubblico ministero come organo di garanzia non restino mere etichette, occorre”, secondo le toghe di Md, “un serio lavoro - interno alla magistratura - culturale e organizzativo”. Insieme alla mozione finale è stata approvata anche quella sul carcere, tema molto sentito durante la tre giorni napoletana della corrente progressista: oltre al dramma del sovraffollamento, dei suicidi e a quello della carenza di personale, nel testo si registra come in molti istituti ci siano “fatiscenza edilizia, promiscuità di percorsi trattamentali, impossibilità di un effettivo accesso al lavoro e alle offerte rieducative, assenza delle basilari condizioni igieniche, insufficienza dell’assistenza sanitaria. Il carcere rimane un luogo dove si cerca di sopravvivere al nulla, dove i problemi principali sono quelli relativi all’igiene, allo spazio e al cibo, dove il tentativo di soddisfare i bisogni basilari, quelli che dovrebbe essere lo Stato a garantire a ciascuno, prende il sopravvento sull’impegno personale a sviluppare o ricucire il senso del bene comune e la voglia di migliorarsi”. In questa situazione “la tutela dei diritti umani delle detenute e dei detenuti, nonostante gli strumenti dei reclami giurisdizionali, diventa sempre più difficile, e il reinserimento sociale, all’esito del percorso detentivo, un miraggio”. Inoltre, “rilevante attenzione dovrà essere prestata alla proposta di legge (A. C. n. 1064, presentata il 30 marzo 2023) di istituzione delle case territoriali di reinserimento sociale, volta a permettere, in casi di ridotta pericolosità sociale e di limitata entità della pena, che la detenzione possa essere scontata in specifiche strutture appositamente istituite, di dimensioni ridotte e caratterizzate da programmi di trattamento espressamente finalizzati alla ricollocazione sociale del condannato”. Proprio il deputato di +Europa Riccardo Magi, primo firmatario della pdl citata nel documento di Md, commenta: “La condivisione della proposta per l’istituzione delle case di reinserimento sociale che arriva dal congresso di Magistratura democratica è un segnale particolarmente prezioso: siamo convinti che questa proposta su cui abbiamo raccolto un sostegno ampio dalle forze di opposizione rappresenti una riforma possibile del carcere, e chiediamo anche al governo di esprimersi su di essa”. Il governo vuole risolvere il problema del sovraffollamento costruendo più carceri di Gloria Ferrari L’Indipendente, 14 novembre 2023 Le carceri italiane sono ormai da tempo piene di criticità. Condizioni igienico-sanitarie impossibili, suicidi, violenze e torture, esacerbate da un fattore da cui in pratica sono tutte influenzate: il sovraffollamento. Al 31 ottobre 2023 i detenuti rinchiusi nelle celle italiane erano 59.715, a fronte di una capienza regolamentare degli istituti di 51.275 - i posti sono calcolati sulla base del criterio di 9 metri quadri per singolo individuo. Un problema che potrebbe essere risolto - o perlomeno affievolito - adottando diverse strategie, ma che il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Mit) ha deciso di voler sbrogliare a modo suo: mettendo sul piatto 166 milioni di euro da destinare a ventuno interventi di edilizia penitenziaria - tra cui la costruzione del nuovo carcere di San Vito al Tagliamento in Friuli-Venezia Giulia, e quello di Forlì, in Romagna - “riguardanti la sicurezza degli istituti e il miglioramento delle condizioni di vivibilità, nonché l’adeguamento funzionale delle strutture”. Una soluzione, quella di costruire nuovi edifici e intervenire su quelli già esistenti, che secondo Antigone, in prima linea per la tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario, non risolve affatto il problema del sovraffollamento. Tema che invece andrebbe affrontato con una riforma sostanziale del Codice penale, “che promuova una drastica riduzione delle fattispecie di reato e delle pene e il ricorso al carcere come extrema ratio”. L’associazione sostiene infatti che il numero di persone dietro le sbarre potrebbe calare adottando alcuni cambiamenti, che limitino per esempio l’utilizzo della custodia cautelare - o detenzione preventiva. Tale misura dovrebbe essere utilizzata solo in casi eccezionali, quando ogni altra misura è valutata inadeguata. Invece la maggior parte dei detenuti finisce in cella per reati di microcriminalità, spesso dovuti alla loro condizione, di tossicodipendenti o di immigrati irregolari. Antigone spiega che “per loro sono stati introdotti inasprimenti di pena, divieto in molti casi di applicazione di circostanze attenuanti, aumento dei termini per la richiesta di permessi premio, irrigidimento per la concessione delle misure alternative e divieto di sospensione pena”. Molte delle persone rinchiuse per questioni legate a sostanze stupefacenti potrebbero quindi tornare in libertà se il Governo pensasse ad una ridefinizione delle tabelle ministeriali relative ai quantitativi riferibili all’uso personale, se si applicasse la depenalizzazione totale dell’uso personale, includente la coltivazione, e se si adottasse una riduzione delle pene per lo spaccio di droghe leggere, “in vista dell’estensione di percorsi riabilitativi alternativi al carcere”. L’applicazione di misure alternative al carcere è infatti uno degli strumenti più forti, che oltre a indebolire il sovraffollamento “garantisce il recupero del detenuto e evita il rischio di recidiva”. Tenuto conto che la maggior parte dei detenuti ‘definitivi’ ha una pena o un residuo pena inferiore a tre anni, l’utilizzo di metodi alternativi alla detenzione consentirebbe di evitare il carcere e di liberare diverse migliaia di soggetti. Tuttavia, per una maggior applicazione delle misure alternative, è necessario che in generale prima avvengano alcune migliorie del sistema: sarebbe essenziale una velocizzazione dei tempi - quelli di accesso alla pratica e quelli di esecuzione delle sentenze definitive per le persone già in custodia cautelare - il potenziamento del Gruppo di osservazione e trattamento con la collaborazione degli Enti locali, e l’aumento delle risorse per programmi di reinserimento di determinate tipologie di soggetti Soluzioni che non trovano però d’accordo Carlo Nordio, il Ministro della Giustizia della Repubblica italiana, per cui l’ampliamento degli istituti penitenziaria è la via ‘ideale’ per il raggiungimento dei risultati sperati, ma che trova nella disponibilità economica il suo ostacolo più grande. Nordio ha per questo espresso più volte la volontà di ripiegare sul riadattamento delle caserme dismesse, destinate alla detenzione di persone condannate per reati a basso impatto sociale. Strutture “perfettamente compatibili con la sicurezza di un carcere, quindi con i muri di cinta, con le garitte e con gli altri spazi che sono all’interno di queste caserme: è la soluzione sulla quale stiamo lavorando, spero, con risultati abbastanza prossimi”. Risultati che la Corte europea dei diritti umani (CEDU) chiede all’Italia ormai dal 2009, quando nel luglio di quell’anno emise la prima condanna ai danni del nostro Paese per la violazione dell’art. 3, a causa del sovraffollamento carcerario. Sentenza a cui negli anni si sono appellati centinaia di detenuti, rivoltisi alla Corte di Strasburgo per denunciare le condizioni inumane e degradanti subite. È la stessa Corte, tra l’altro, a suggerire all’Italia di ridurre il proprio numero di detenuti optando per il minimo ricorso alla carcerazione, prediligendo quindi dove possibile misure punitive non privative della libertà e riduzione della carcerazione preventiva. Ma, come dice un noto proverbio, “non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”. Vent’anni fa a Roma e nel Lazio i primi Garanti territoriali delle persone detenute di Stefano Anastasìa garantedetenutilazio.it, 14 novembre 2023 Venti anni fa la Regione Lazio approvava la prima legge istitutiva della prima autorità Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Venti anni fa il Sindaco di Roma nominava il primo Garante delle persone private della libertà. Venti anni dopo, quasi tutte le regioni italiane hanno istituito una figura di garanzia delle persone a diverso titolo private della libertà, e così otto tra Province e Città metropolitane e quasi sessanta Comuni. Vent’anni dopo, e ormai da sette anni, è in piena attività il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, che assolve anche alle funzioni di Meccanismo nazionale di prevenzione alla luce del Protocollo aggiuntivo alla Convenzione delle Nazioni unite contro la tortura. Un processo bottom-up, come è stato definito, che ha progressivamente realizzato una rete di garanzia e tutela non giurisdizionale dei diritti delle persone private della libertà che non era immaginabile quando nel 1997 l’associazione Antigone, grazie alla preveggente intuizione del suo attuale presidente, Patrizio Gonnella, propose l’istituzione di un “difensore civico per i detenuti”, poi diventato “garante” e sperimentato - appunto - dal basso, dai Comuni, dalle Province, dalle Regioni, fino ad arrivare all’istituzione del Garante nazionale. Domani, mercoledì 15 novembre, nell’Aula Giulio Cesare del Campidoglio, Roma Capitale, d’intesa con la Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, promuove un incontro celebrativo “tra storia e prospettive”, sui Garanti territoriali, il loro ruolo e la loro funzione in un contesto da allora assai mutato. Vi parteciperanno il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, il Garante nazionale in carica, Mauro Palma, il presidente dell’ANCI Antonio Decaro, il delegato della Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative regionali, Gennaro Oliviero, e, naturalmente, la Presidente dell’Assemblea capitolina Svetlana Celli e il Sindaco di Roma Capitale, Roberto Gualtieri. L’occasione sarà propizia per una riflessione sia sul ruolo degli enti territoriali nella privazione della libertà e nell’esecuzione penale, sia di quello specifico dei Garanti da essi nominati. I Garanti territoriali nascono come sperimentazioni locali di una figura che si voleva nazionale, ma nella esperienza di questi vent’anni hanno fatto emergere l’importanza degli enti territoriali in materia. Per stare solo al mondo del carcere: non si danno divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e finalità rieducativa della pena senza l’accorto esercizio da parte delle Regioni e degli Enti locali delle proprie competenze in materia di prevenzione e assistenza sanitaria, programmazione e gestione dei servizi sociali, anagrafici, di formazione e inserimento lavorativo. L’articolo 27 della Costituzione chiama tutte le amministrazioni pubbliche, statali e territoriali, a una responsabilità repubblicana. Per questo i Garanti territoriali sono essenziali alla efficacia del sistema penitenziario: non solo come attori di prossimità, che condividono con il Garante nazionale il monitoraggio delle condizioni di detenzione e l’onere di rispondere ai reclami e alle doglianze delle persone detenute, ma anche come “cani da guardia” delle responsabilità proprie degli Enti di cui sono espressione. Per questo la sperimentazione dei Garanti territoriali delle persone private della libertà non è finita con l’istituzione del Garante nazionale, ma è andata integrandosi con essa, per aumentare il livello di garanzia delle persone private della libertà e l’accountability delle amministrazioni che vi sono deputate. Alle Regioni, alle Province e ai Comuni la responsabilità di assicurare indipendenza, autonomia ed efficienza dei Garanti da loro nominati; sui garanti ai Ministeri della giustizia e dell’Interno quella di aprirsi alla leale collaborazione istituzionale degli Enti e dei Garanti rappresentativi delle comunità territoriali per il perseguimento dei principi e dei fini costituzionali condivisi. Interrogazione di Mirabelli (Pd) a Nordio: “Sbagliato chiudere le celle per più ore” Ristretti Orizzonti, 14 novembre 2023 “Assicurare ai detenuti, a fronte della drammatica situazione degli istituti penitenziari, condizioni di carcerazione adeguate, consentendo loro di avvalersi davvero delle otto ore di potenziale apertura delle celle”. È quanto chiede il senatore Franco Mirabelli, vicepresidente del gruppo Pd, con un’interrogazione rivolta al ministro della Giustizia, Carlo Nordio. “Mentre la situazione nelle carceri italiane resta molto preoccupante per il sovraffollamento - prosegue Mirabelli - il Dap ha deciso di aumentare le sezioni a regime ordinario (e cioè le ex a custodia chiusa) con corrispondente riduzione delle sezioni a regime a trattamento intensificato (e cioè le ex sezioni a custodia aperta). In sostanza si tratta della decisione di chiudere le celle e consentire la possibilità di uscirne solo per partecipare ad attività di formazione o socializzazione. In una realtà in cui molti istituti di pena non sono in grado, per ragioni diverse, di garantire opportunità di lavoro e formazione, questa decisione rischia di aggravare ulteriormente la situazione nelle carceri. Richiudere le celle in queste condizioni rischia di peggiorare ulteriormente la qualità della detenzione e aggravare le tensioni all’interno degli istituti. Con la nostra interrogazione chiediamo al ministro Nordio di garantire che, nell’applicazione della Circolare del Dap 3693/6143 del 18 luglio 2022, siano assicurate condizioni di detenzione adeguate, soprattutto sotto il profilo dell’effettiva possibilità per la persona detenuta di avvalersi delle otto ore di potenziale apertura della camera di pernottamento previste nel regime di detenzione ordinario. Gli chiediamo inoltre come intenda assicurare il rafforzamento dell’offerta trattamentale negli istituti penitenziari, per garantire che l’offerta lavorativa, culturale, sportiva, ricreativa e scolastica sia all’altezza delle esigenze della popolazione detenuta anche in relazione all’applicazione delle direttive della circolare e come voglia intervenire per migliorare la disponibilità e la qualità degli spazi destinati alle attività”. Testo dell’interrogazione: “In data 29 settembre 2023 il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha diffuso uno studio sull’applicazione sperimentale delle nuove direttive per il circuito di media sicurezza, di cui alla Circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria 3693/6143 del 18 luglio 2022; tale studio offre una analisi ampia e dettagliata della situazione penitenziaria a valle della prima fase di applicazione sperimentale della predetta circolare (avvenuta tra luglio e dicembre 2022), nei territori che sono stati interessati dalla sperimentazione (Lombardia, Campania, Sicilia e Triveneto); la Circolare 3693/6143 del 18 luglio 2022, nel delineare una generale riorganizzazione del regime e del trattamento penitenziario nel circuito di media sicurezza, interveniva in particolare al fine di realizzare il compiuto superamento dell’alternativa tra regime di custodia chiusa e regime di custodia aperta a favore della distinzione tra un regime ordinario e un regime ordinario “a trattamento intensificato”, con la specifica finalità di collegare il diverso regime penitenziario alla tipologia di attività trattamentali cui il detenuto è ammesso, nonché alla loro effettività e intensità; in particolare, al regime ordinario accedono i detenuti in accesso, quelli ritenuti non in grado di “sostenere l’adesione a programmi che prevedano margini di maggiore libertà e autodeterminazione nella vita comunitaria” e quelli in rientro dalle sezioni previste dall’articolo 32 del d.P.R. n. 230/2000 per la detenzione di persone a rischio di comportamenti aggressivi; al regime ordinario “a trattamento intensificato” accedono, invece, le persone detenute ritenute “idonee a essere ammesse ad attività che implicano maggiore autodeterminazione, maggiori esigenze di movimento e di permanenza fuori dai reparti detentivi e/o una permanenza fuori dalle camere di pernottamento” (così la predetta Circolare); ulteriore differenza tra il regime ordinario e regime ordinario a trattamento intensificato è il numero di ore in cui è consentito alla persona detenuta di permanere al di fuori della camera di pernottamento; non meno otto ore nel caso del regime ordinario e non meno di dieci ore in quello a trattamento intensificato; ciò, tuttavia, con l’ulteriore fondamentale differenza che nel regime a trattamento intensificato si assicura una vera e propria apertura delle camere per almeno dieci ore, con conseguente libertà di movimento; mentre nel regime ordinario l’apertura della camera è subordinata all’effettivo accesso della persona detenuta alle attività consentite; come osservato dal Garante nazionale nel parere reso sullo schema di circolare e come ora ribadito nel menzionato studio sull’applicazione sperimentale, dalla circolare è possibile desumere “una preoccupante correlazione tra l’andamento del percorso trattamentale e la maggiore o minore apertura delle camere di pernottamento”; ciò implica, come evidente, che le condizioni di detenzione sono suscettibili di variare, in modo talora significativo, a seconda - da un lato - dell’offerta trattamentale assicurata dall’istituto penitenziario e, dall’altro, in ragione della concreta disponibilità di spazi comuni e ricreativi; i dati raccolti ed elaborati nel menzionato studio del Garante mostrano, al riguardo, che in sede di applicazione sperimentale sono aumentate le sezioni a regime ordinario (e cioè le ex sezioni a custodia chiusa) con corrispondente riduzione delle sezioni a regime a trattamento intensificato (e cioè le ex sezioni a custodia aperta): in particolare, a fronte di 434 sezioni a custodia aperta (con 12033 persone assegnate a luglio 2022) si è passati a 390 sezioni e regime di trattamento intensificato (con 2283 persone assegnate a dicembre 2022) e, a fronte 608 sezioni a custodia chiusa (con 8080 persone assegnate a luglio 2022) si è passati a 687 sezioni a regime ordinario (con 15154 persone assegnate a dicembre 2022); dallo studio del Garante emerge altresì che ciò si pone in correlazione - per effetto delle nuove direttive introdotte con la circolare del 2022 - con l’effettiva offerta trattamentale e di spazi; come osservato nel medesimo studio, in altri termini, “l’assenza di capacità progettuale da parte dell’istituzione detentiva si riflette su un’accentuazione della chiusura del modello detentivo stesso”; tale complessiva situazione ha un impatto cruciale sulle concrete condizioni di detenzione, soprattutto alla luce della circostanza che nelle sezioni a trattamento ordinario le camere devono rimanere chiuse e le persone detenute possono uscire solo se partecipano ad attività, ove garantite dall’istituto; tali criticità sono legate non solo a ragioni di carattere strutturale ma anche, e in modo significativo, alla cronica condizione di sovraffollamento carcerario che ad oggi - stando ai dati forniti dal Garante - è dato da una popolazione di 58491 persone detenute a fronte dell’effettiva disponibilità di 49.395 posti; si chiede di sapere quali iniziative intenda porre in essere il Ministro in indirizzo al fine di assicurare che, nell’applicazione della Circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria 3693/6143 del 18 luglio 2022 siano assicurate condizioni di detenzione adeguate, soprattutto sotto il profilo dell’effettiva possibilità per la persona detenuta di avvalersi delle otto ore di potenziale apertura della camera di pernottamento previste nel regime di detenzione ordinario; e come intenda, in particolare, assicurare il rafforzamento dell’offerta trattamentale negli istituti penitenziari al fine di garantire che l’offerta lavorativa, culturale, sportiva, ricreativa e scolastica sia all’altezza delle esigenze della popolazione detenuta anche in relazione all’applicazione delle direttive di cui alla richiamata circolare; e come intende, infine, intervenire per migliorare la disponibilità e la qualità degli spazi destinati alle suddette attività”. Riforma addio di Paolo Pandolfini Il Riformista, 14 novembre 2023 “L’epocale” riforma della giustizia non si farà. Si è - purtroppo - avverata la triste indiscrezione del Riformista della scorsa settimana. A confermarlo è stato l’altro giorno lo stesso Guardasigilli Carlo Nordio, intervenendo ad un convegno organizzato a Stresa da Fondazione Iniziativa Europa. Il motivo è la concomitanza con la riforma del premierato voluta da Giorgia Meloni e che impedirà alle Camere di “distrarsi” su una materia incandescente come quella, appunto, della giustizia. Troppo rischioso per la premier dover affrontare, come prevedibile non essendoci in Parlamento i numeri, due referendum costituzionali a stretto giro. Lo stop alla riforma della giustizia è una debacle per il ministro e per l’esecutivo che nel programma di governo presentato agli elettori lo scorso anno aveva ai primi punti previsto proprio un cambio di passo, realizzando i principi del processo accusatorio e ponendo fine all’anomalia tutta italiana del giudice e del Pm appartenenti alla stessa carriera. La separazione delle carriere avrebbe poi avuto altre conseguenze, con quella di rivedere l’obbligatorietà dell’azione penale e l’assetto del Consiglio superiore della magistratura, bloccando l’ingerenza spartitoria dei gruppi associativi dell’Anm nelle nomine dei magistrati. Il bilancio di questo primo anno di governo in tema di giustizia è dunque quanto mai deludente. A parte la riforma “epocale” che non si farà, gli unici provvedimenti approvati sono i decreti Rave, Cutro e Caivano che pur presentando la firma di Nordio sono stati scritti al Viminale. Un record, in negativo, che non ha precedenti nella storia della Repubblica e che stride con le tantissime esternazioni di Nordio. L’unico provvedimento voluto dall’ex Pm veneziano, il Ddl che porta il suo nome, è infatti impantanato in Commissione giustizia al Senato da prima dell’estate. Attualmente non è nemmeno iniziata la sua discussione e continuano ad essere allungati i tempi per la presentazione degli emendamenti, ora prorogati al 21 novembre. Eppure è un provvedimento di appena otto articoli, contenuto in nove pagine, che rimanda ad altre norme ‘futuribili’. Tralasciando l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, per il quale da indiscrezioni degli uffici di via Arenula il ministro è già pronto a fare marcia indietro a favore dell’ennesima modifica, gli altri interventi sono, come la collegialità dei provvedimenti cautelari, legati all’assunzione di magistrati e quindi, anche in caso di approvazione del Ddl, a regime fra almeno cinque anni dal momento che bisognerà prima bandire il concorso, espletare le prove, stilare la graduatoria, effettuare il previsto tirocinio per i vincitori e attendere l’assegnazione delle sedi. Lo stop alla riforma della giustizia ha scatenato ieri le prevedibili reazioni dell’avvocatura che da anni attendeva una riforma rispettosa dei diritti e delle garanzie, confidando in un liberale come Nordio dopo l’oscurantismo manettaro dei grillini. “Apprendiamo da notizie di stampa che il governo avrebbe deciso di fermare l’iter di approvazione della legge costituzionale di riforma dell’ordinamento giurisdizionale, nell’ambito del quale è prevista anche la separazione delle carriere dei giudici e dei magistrati d’accusa, per trattare la proposta di riforma che mira ad introdurre il premierato”, hanno fatto sapere i penalisti. “Non vogliamo credere che così sia - aggiungono - perché sarebbe un grave segnale di debolezza della politica nei confronti della magistratura che ha sino ad ora manifestato nella sua parte prevalente, la propria contrarietà ad ogni intervento che modifichi, in qualunque senso, lo status quo. Non vogliamo crederlo perché la riforma dell’ordinamento giurisdizionale è un preciso impegno assunto dalla maggioranza che governa il paese e scegliere di non darvi impulso fin dall’inizio della legislatura, equivarrebbe ad un grave errore”. “La riforma appare indispensabile per sanare gli squilibri che hanno determinato la crisi della magistratura, in quanto una magistratura autorevole e legittimata dalla fiducia dei cittadini è un bene prezioso per ogni democrazia degna di questo nome, che non può essere negoziato o svenduto a fronte di ragioni di opportunità”, puntualizzano gli avvocati. La riforma la separazione delle carriere, per altro, era nata dall’iniziativa popolare testimoniata dalle oltre 77.000 firme raccolte dall’unione delle Camere penali italiane. “Il governo aveva annunciato che, trascorsa l’estate, avrebbe presentato un proprio disegno di legge e così ha ottenuto di sospendere l’iter parlamentare della riforma. Non riprendere tale percorso vorrebbe dire venire meno agli impegni assunti nei confronti del proprio elettorato e nei confronti di tutti i cittadini che hanno sottoscritto la proposta di legge costituzionale”, concludono i penalisti. “Il Parlamento stava lavorando seriamente alla separazione delle carriere. A marzo il governo ha annunciato che dopo l’estate avrebbe presentato un suo Ddl ed il Parlamento si è fermato. Ma era solo un escamotage dilatorio in attesa del Ddl sul premierato. Una truffetta da ciarlatani”, il commento al vetriolo di Enrico Costa, deputato e responsabile giustizia di Azione. Nel mirino, oltre a Nordio, ci sarebbe il vice ministro della giustizia Francesco Paolo Sisto. L’ex avvocato di Silvio Berlusconi, forzista della prima ora che lo scorso anno ha rischiato per qualche giorno di essere nominato Guardasigilli, secondo quanto riportato questa volta da Repubblica, starebbe frenando sulla riforma in cambio di essere nominato giudice della Corte Costituzionale. “Deve accattivarsi l’opposizione”, “non vuole andare contro i magistrati”, sottolinea il quotidiano del gruppo Gedi. Silenzio tombale da parte di Antonio Tajani. Eppure era stato Nordio a rammaricarsi nei mesi scorsi del fatto che Silvio Berlusconi non avesse potuto vedere l’approvazione di una riforma “radicale in senso garantista”. Un finale veramente inglorioso dopo tante aspettative e che farà rivoltare nella tomba Niccolò Ghedini. Patto Meloni-magistrati, così è nato lo stop sulle carriere separate di Errico Novi Il Dubbio, 14 novembre 2023 Ieri vertice governo-procuratori alla Dna: è una “distensione” che blocca la riforma. Greco (Cnf): “In gioco il giusto processo”. L’Ucpi: “Lo stop è segno di debolezza”. Ventisei procuratori. I più importanti d’Italia. I capi degli uffici inquirenti che sono sedi anche delle direzioni distrettuali Antimafia. Sono i convenuti non prevedibili del vertice celebrato ieri pomeriggio a via Giulia, voluto dal procuratore nazionale Antimafia Giovanni Melillo. Presenti gli altri magistrati della Dna e tre figure di vertice dell’attuale Esecutivo, a cominciare dalla premier Giorgia Meloni, con la quale sono intervenuti il guardasigilli Carlo Nordio e il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano, entrambi ex magistrati. Sono le tre figure decisive, nell’attuale maggioranza, sulla politica della giustizia. Come notato dal “Fatto quotidiano”, che ieri ha anticipato la notizia dell’incontro nella propria edizione on line, il summit alla direzione nazionale Antimafia - concluso ieri quando questa edizione del Dubbio era già in stampa - non è un inedito: già in passato, quando via Giulia era guidata da Federico Cafiero de Raho, si erano tenuti incontri ai massimi livelli con rappresentanti del governo. E neppure è nuovo il dialogo fra Melillo e Palazzo Chigi: se n’era avuto un esempio col decreto 105, poi convertito dal Parlamento, che ha esteso a reati non associativi le misure sulle intercettazioni previste per il 416 bis. Quel provvedimento è nato da una sollecitazione del procuratore Melillo, raccolta innanzitutto da Mantovano. Il punto è che ieri sono stati coinvolti anche i capi delle più importanti Procure del Paese: il dialogo, dunque, non è solo fra l’Esecutivo e una istituzione del tutto particolare nell’ordinamento giudiziario qual è la Procura nazionale antimafia: vede coinvolta, di fatto la magistratura ai suoi massimi livelli. Il quadro definisce un rapporto che ricade pesantemente sull’ipotesi di separare le carriere: cioè sulla riforma che dovrebbe sancire il divorzio dei pm, appunto, dalla magistratura giudicante. È pensabile che una riforma del genere, apertamente osteggiata dall’ordine giudiziario con pochissime seppur coraggiose eccezioni, sia compatibile con un dialogo politico-istituzionale come quello che si è ormai consolidato sull’asse Mantovano-Melillo, e al quale innanzitutto Meloni e lo stesso Nordio non si sottraggono affatto? Sembra molto difficile. Un equilibrio così attentamente preservato dal dialogo preferenziale tra Palazzo Chigi e via Giulia sembra oltrepassare persino la brusca frenata imposta, sulla separazione delle carriere, dal guardasigilli nello scorso fine settimana. Sabato, al forum della Fondazione Iniziativa Europa, Nordio ha gelato i fan delle carriere separate con la seguente frase: “Il premierato non uccide la riforma costituzionale della giustizia ma forse la posticipa”. Il ministro ha quindi confermato l’interpretazione prevalente sul senso di questa asserita incompatibilità: il ddl che prevede l’elezione diretta del premier sarebbe seguita da un “quasi certo referendum”, il che non preclude “una riforma costituzionale sulla giustizia” a condizione che quest’ultima venga presentata “nei primi mesi dell’anno prossimo” e quindi viaggi “in modo successivo”. È il riflesso di quanto Meloni aveva detto a fine ottobre in un summit con i propri ministri: “Una contemporaneità tra la madre di tutte le riforme”, il premierato appunto, e “la separazione delle carriere” avrebbe creato “confusione” e “ingrossato le file dei contrari al rafforzamento del premier, ai quali si aggiungerebbe la parte di opinione pubblica ostile alla separazione tra giudici e pm”. Discorso che può avere anche senso. Ma che rischia di essere aggravato dal particolare lavoro di distensione fra governo e magistratura culminato nel vertice di ieri alla Dna: anche quando il convoglio del premierato sarà al riparo da “collisioni” con la riforma della magistratura, davvero è credibile che l’esecutivo Meloni trovi la forza di incenerire il dialogo con le toghe e separarne le carriere? Ieri a via Gulia si è discusso, tra l’altro, del decreto legislativo che attuerà la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, che nei prossimi giorni sarà in Consiglio dei ministri. Sul tavolo, pure la prospettiva di rivedere le norme sulle misure di prevenzione, che il codice antimafia consente di infliggere anche a chi è assolto, in sede penale, dal 416 bis: questione resa urgente dal giudizio che a breve la Corte europea di Strasburgo esprimerà sul ricorso Cavallotti. È chiaro che la separazione delle carriere resta una materia incandescente, rispetto al rapporto toghe-Esecutivo. E inevitabilmente l’avvocatura assiste con rammarico a questa “paralisi diplomatica”. In un intervento al convegno tenuto nel fine settimana a Venezia da “Magistratura indipendente”, il presidente del Cnf Francesco Greco ha ricordato che “fino a quando chi accusa e chi giudica saranno colleghi, non ci potrà essere un processo giusto”. E ieri è intervenuta con un comunicato l’Unione Camere penali, che proprio sulla separazione delle carriere ha promosso la legge di iniziativa popolare “testimoniata dalle oltre 77.000 firme raccolte”. Il testo è alla base della discussione già avviata in commissione Giustizia alla Camera, ma ora, osserva l’Ucpi, lo stop all’iter sulla riforma sarebbe “un grave segnale di debolezza della politica nei confronti della magistratura, che ha sino ad ora manifestato, nella sua parte prevalente, la propria contrarietà a ogni intervento che modifichi lo status quo”. I penalisti ricordano che “la riforma dell’ordinamento giurisdizionale è un preciso impegno assunto dalla maggioranza e scegliere di non darvi impulso fin dall’inizio della legislatura equivarrebbe a un grave errore”. Un errore legato alla realpolitik dei rapporti con la magistratura. Che il vertice di ieri alla Dna ha potentemente rafforzato. Ancora manca il ddl sulle priorità nei reati. Zanettin: “Ci penso io” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 14 novembre 2023 Il senatore di FI presenta un testo che attua la novità voluta da Cartabia per evitare l’arbitrio delle Procure. Superare “l’inerzia” del governo e del guardasigilli riguardo la definizione dei criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale: è l’obiettivo del senatore Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia a Palazzo Madama, che ha deciso di presentare la scorsa settimana un ddl per dare finalmente attuazione a quanto previsto sul punto dalla riforma penale di Cartabia. “Diciamo che questa mia iniziativa va vista in ottica di supplenza dell’Esecutivo”, sottolinea Zanettin al Dubbio, confermando comunque piena fiducia nell’attività del ministro Carlo Nordio. Il tema della definizione di criteri di priorità è stato oggetto in questi anni di un acceso dibattito: la ratio della misura è rendere trasparenti e controllabili le scelte discrezionali che il pm deve compiere nella fase delle indagini preliminari e al momento dell’esercizio dell’azione penale. La legge Cartabia del 2021 aveva colmato la lacuna normativa, da più parti nel corso degli anni rilevata, indicando appunto nella delega la previsione di una legge che definisca i criteri di priorità dell’azione penale, al fine di introdurli in modo stabile nel sistema. Già la Relazione finale della Commissione Lattanzi sottolineava la “necessità di inserire il canone dell’articolo 112 della Costituzione (in base al quale “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”) in una cornice di coerenza con la concreta mole delle notizie di reato”, al fine di “garantire trasparenza nelle scelte che si rendono necessarie per dare effettività al principio di obbligatorietà”. Recependo queste indicazioni, la legge delega firmata da Marta Cartabia sul penale ha previsto, per “garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale”, che “gli uffici del pubblico ministero, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle Procure, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre”. Inoltre, veniva evidenziata la necessità dell’allineamento della procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle Procure a quella delle tabelle degli uffici giudicanti. Ad oggi, però, il governo e, soprattutto, il ministro della Giustizia, non hanno ancora affrontato la questione. “Il mio ddl è in linea di continuità con le modifiche introdotte con il decreto legislativo 150 del 10 ottobre 2022 e che ha inserito l’articolo 3- bis nelle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, articolo che dispone che il pm debba “conformarsi” ai criteri di priorità inseriti nei progetti, prefiggendosi lo scopo di cristallizzare il rispetto del suddetto principio e inserendo nelle citate disposizioni di attuazione l’articolo 3- ter che elenca i criteri che il pm deve osservare”, prosegue Zanettin. Il ddl, poi, prevede una modifica aggiuntiva all’articolo 127 delle disposizioni di attuazione del codice di rito al fine di prevedere che, nel disporre l’avocazione delle notizie di reato di cui agli articoli 412 e 421- bis comma 2, il procuratore generale presso la Corte di appello tenga conto anche dei criteri di priorità di cui all’articolo 3- ter. Riguardo la formazione dei ruoli di udienza e trattazione dei processi, Zanettin ha inserito tra quelli ai quali è assicurata priorità assoluta, quelli relativi ai delitti di “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”, “lesioni personali a un pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive, nonché a personale esercente una professione sanitaria o sociosanitaria e a chiunque svolga attività ausiliarie ad essa funzionali”, “costrizione o induzione al matrimonio”. Il testo, infine, prevede una modifica dell’ordinamento giudiziario, prevedendo che nelle comunicazioni alle Camere sull’amministrazione della giustizia, sia inclusa l’applicazione dei criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, e che nell’attività di vigilanza del pg ci sia pure la verifica dell’applicazione di questi criteri di priorità. Sul ritardo di questa norma attuativa era intervenuto nei mesi scorsi, su questo giornale, il professor Giorgio Spangher. Diffamazione, Forza Italia si smarca dai meloniani: la multa ridotta da 50mila a 5mila euro di Liana Milella La Repubblica, 14 novembre 2023 Al Senato pronti gli emendamenti per depotenziare il testo di Balboni (FdI) e la sinistra fa quadrato sul diritto di cronaca. Pronti gli emendamenti sulla diffamazione. La sinistra fa quadrato contro i meloniani e la proposta di legge di Alberto Balboni, ma la notizia è che Forza Italia si dissocia dal pugno duro contro la stampa. Da venerdì le modifiche al ddl Balboni sono lì, nella commissione Giustizia del Senato, e potrebbero essere l’occasione buona per frenare il tentativo di mettere definitivamente il bavaglio alla stampa, a colpi di super multe da 50mila euro, e da frenetici viaggi dei giornalisti per rincorrere le querele nei luoghi di residenza dei presunti diffamati anziché nelle città dove si pubblicano i giornali. Fnsi e Ordine dei giornalisti hanno già lanciato l’allarme contro il “buio dell’informazione” schierandosi contro la visione liberticida che emerge dal ddl Balboni. Adesso, con quel testo in una mano, e gli emendamenti nell’altra, partirà la mediazione politica. Troppo presto per poter dire quale sarà l’esito e se, alla fine, sarà tutelato il diritto di cronaca garantito dall’articolo 21 della Costituzione. Certo è che, proprio per confermarne la fondamentale importanza, la Consulta aveva chiesto al Parlamento di cancellare il carcere per i giornalisti. Nel 2021 aveva dato un anno di tempo, le Camere non avevano fatto nulla, e com’è avvenuto per il fine vita, la stessa Corte ha deciso da sola cancellando la previsione della prigione da uno a sei anni, ma al contempo sollecitando la politica a fare “un complessivo intervento per bilanciare la libertà di manifestazione del pensiero e la tutela della reputazione”. Da allora tutto è fermo. La scorsa legislatura è passata invano. E il ddl Balboni ci dice che non siamo sulla strada giusta. Ma vediamo come l’incrocio di quel testo con gli emendamenti potrebbero definire il futuro del nostro lavoro. Il ddl Balboni - Un flash sul ddl Balboni depositato il 16 gennaio che riguarda chiunque pubblichi notizie. Cade completamente il diritto al segreto poiché il testo recita che “il giudice ordina al giornalista professionista o pubblicista di indicare la fonte delle sue informazioni”. Le rettifiche, da pubblicare senza né titolo né commento, immediatamente. Il giudice, a chi non adempie l’obbligo, può imporre una sanzione da 5.165 a 51.646 euro. Obiettivo, la bancarotta della stampa. Pene da 5mila a 10mila euro per la diffamazione. Se si tratta di un “falso determinato” si passa da 10 a 50mila euro, stavolta con cifra netta. Ovvio l’invio della sentenza all’Ordine per le sanzioni disciplinari. Ma non basta. Il processo si farà nel “luogo di residenza della persona offesa”, e non in quello dove si pubblica la testata. Scontata la richiesta di cancellare qualsiasi traccia della notizia. Gli emendamenti - Ma veniamo agli emendamenti che, soprattutto per la posizione di Forza Italia e del capogruppo in commissione Giustizia Pierantonio Zanettin, avvocato di Vicenza ed ex laico del Csm, nonché ex deputato, potrebbero aprire uno spiraglio di ragionevolezza. Il massimo della pena pecuniaria in caso di mancata pubblicazione della rettifica scende, con Zanettin, da 51mila a 15mila euro, eliminando anche gli incongrui decimali. Il foro competente sarà quello in cui è accaduto il fatto oggetto della diffamazione. Al direttore, al suo vice responsabile, o ai soggetti “efficacemente delegati”, resta l’obbligo di vigilanza. Sulla gravità dell’offesa Zanettin chiede che si tenga conto “del ruolo rivestito dal diffamato”. M5S, con Ada Lopreiato, Stefano Patuanelli e Anna Bilotti, contesta innanzitutto la formula linguistica della rettifica di uno scritto “ritenuto lesivo della dignità, dell’onore, della reputazione o contrario alla verità” e chiedono che ci si limiti al più sobrio “lesivi della reputazione”. Quanto alla multa basta da 3mila a 30mila euro. La pattuglia dei Dem - Anna Rossomando, Alfredo Bazoli, Walter Verini, Franco Mirabelli - chiede che sia eliminato il divieto di far seguire, alla rettifica, un commento o una risposta, e che esca anche priva di titolo. La multa potrà oscillare solo da 2mila a 5mila euro. Il giudice dovrà tenere conto anche della capacità reddituale del convenuto. Per i dem l’attribuzione di un fatto determinato potrà essere punito con una multa da mille a 4mila euro anziché da 5 a 10mila. Identica la proposta di Ilaria Cucchi di Avs. Allo stesso modo sia Pd che Avs vogliono punire con l’inammissibilità iniziative giudiziarie infondate. “Cattivissima” invece l’avvocata ed ex ministra leghista Erika Stefani che si limita soltanto ad arrotondare la multa, anziché da 5.165 a 51.646 fa cifra tonda, da 5mila a 50mila euro. E chiede anche, “in caso di accertata sistematica e reiterata campagna diffamatoria” che il giudice possa “aumentare il risarcimento del danno fino al triplo”, cioè stiamo parlando di 150mila euro. M5S ipotizza anche di mantenere la cifra molto alta della rettifica, fino a 51.646 euro, ma “destinata alla cassa delle ammende”. E siamo al foro competente in cui radicare il processo. Sia Cucchi che M5S scelgono quello di “registrazione della testata “, oppure la senatrice di Avs pensa a quello “di residenza dell’imputato”. Il Pd lascia aperte entrambe le soluzioni, “il luogo di registrazione della testata oppure la residenza della persona sottoposta alle indagini”. Mentre qui Zanettin propone che il processo si faccia nel luogo “in cui è accaduto il fatto oggetto della diffamazione”. Però qualora l’offesa “sia riferita esclusivamente alla persona, allora il giudice competente è quello del luogo in cui è residente la parte offesa al momento della diffamazione”. Punite, per Pd e Avs, anche le citazioni in giudizio manifestamente infondate. In quel caso “il giudice, con la sentenza che rigetta la domanda, condanna l’attore, oltre che alle spese, anche al pagamento a favore del convenuto di una somma non inferiore alla metà di quella oggetto della domanda risarcitoria”. Identica proposta anche dalla pattuglia di M5S, per cui “se risulta la malafede o la colpa grave il giudice anche d’ufficio condanna l’attore al pagamento a favore del convenuto di una somma non inferiore a un quarto di quella oggetto della domanda risarcitoria”. M5S propone anche che l’assolto possa chiedere il ripristino dei contenuti cancellati dai siti Internet. Infine il Pd propone che venga istituito presso il Mef un fondo di garanzia con 20 milioni di euro per le spese legali nei casi di diffamazione. L’accesso è consentito ai giornalisti professionisti e pubblicisti qualora siano stati condannati al pagamento delle spese legali e siano privi di assistenza legale fornita dal datore di lavoro e dispongano di un reddito annuo complessivo non superiore a 60mila euro lordi. Manes: “La trattativa Stato-mafia? Soltanto una congettura” di Valentina Stella Il Dubbio, 14 novembre 2023 Parla il difensore del generale Mori: “Il processo penale non è un laboratorio di ipotesi storiche, ma è volto ad accertare i fatti”. Motivazioni sulla (non) trattativa Stato-mafia: parla l’avvocato Vittorio Manes che ha difeso il generale Mori unitamente all’avvocato Basilio Milio, e il colonnello De Donno unitamente all’avvocato Francesco Romito. Professore, qual è l’elemento principale che emerge nelle motivazioni rispetto ai suoi assistiti? L’elemento che spicca maggiormente è il rigore con cui la Cassazione ha analizzato l’impianto probatorio della sentenza di appello, che aveva già assolto Mori e De Donno per mancanza del dolo, mettendo in luce la evidente natura congetturale del percorso argomentativo con cui si era ritenuta oggettivamente provata la condotta di concorso nel reato di minaccia a corpo politico: percorso congetturale incompatibile con la logica probatoria che domina il processo penale, secondo la quale la responsabilità deve essere provata al di là di ogni ragionevole dubbio. In sintesi, la tesi della “veicolazione” della minaccia mafiosa da parte del generale Mori all’allora ministro Conso, per il tramite di Di Maggio, era costruita non solo su ipotesi solo plausibili, ma più autenticamente su congetture e presunzioni, o su autentiche catene di presunzioni (quella che i giuristi usano definire la c.d. praesumptio de presumpto): tutti passaggi argomentativi incompatibili con il rigore dell’accertamento penale, perché lasciavano appunto residuare dubbi ben più che ragionevoli, ossia spiegazioni alternative non implausibili o quantomeno altrettanto plausibili rispetto a quella aprioristicamente seguita dai giudici di appello. Questo punto è cruciale: per provare la responsabilità penale non basta un convincimento soggettivo in ordine a questa o quella ipotesi, servono appunto prove; ed anche quando si tratta di prova indiziaria, come in questo caso, la consistenza degli indizi e la loro concordanza devono essere ricostruite e dimostrate con sorvegliata attenzione, altrimenti tutto si riduce a nulla più che un lancio di dadi. “La Corte di Assise di Appello non ha osservato il principio dell’oltre ragionevole dubbio quale metodo nell’accertamento del fatto”. Affermazione pesante degli ermellini? Non pesante, ma rigorosa. Ed è esattamente il compito che deve svolgere la Suprema Corte: verificare scrupolosamente se il ragionamento supera lo standard probatorio richiesto dall’epistemologia del processo penale, che non è libera ma è vincolata appunto a criteri rigorosi e stringenti. La regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio è una metaregola, o se si vuole una regola che fonda tutte le altre regole: è il primo antidoto contro il rischio, sempre vivo, di errore giudiziario. E in questo caso ha condotto a rovesciare una pronuncia che aveva ritenuto accertato un contributo alla realizzazione del reato che, viceversa, è risultato del tutto sfornito di prove; di più, la Corte ha ritenuto “evidente” che quella condotta non fosse stata affatto dimostrata, pur dopo una istruttoria estremamente approfondita, essendo stata raggiunta - come già accennato - solo all’esito di inammissibili salti logici, ragionamenti apodittici e presuntivi. Ed ha peraltro evidenziato, con argomentazioni chiare e stringenti, anche la strutturale inidoneità della condotta degli ufficiali del Ros ad integrare una qualsivoglia forma penalmente rilevante di concorso morale - per istigazione o determinazione - nel reato di minaccia a corpo politico commesso dai vertici di “Cosa nostra”. Ecco perché la sentenza della Suprema Corte ha ritenuto di assolvere Mori e De Donno con la formula tranciante “per non aver commesso il fatto”, senza necessità di un ulteriore giudizio in sede di rinvio, che del resto non avrebbe potuto arricchire in nulla il già ponderoso bagaglio istruttorio. La Cassazione ha aggiunto: “Le sentenze di merito, conferendo di fatto preminenza ad un approccio storiografico nell’interpretazione del dato probatorio, hanno, inoltre, finito per smarrire la centralità dell’imputazione nella trama del processo penale profondendo sforzi imponenti nell’accertare fatti spesso poco o per nulla rilevanti nell’economia del giudizio”... È un altro passaggio importante, perché mette in luce, anche da diversa prospettiva, la singolarità dell’accertamento penale, e del suo statuto epistemologico: il processo penale non è un laboratorio di ipotesi storiche, ma è volto ad accertare fatti, puntuali, singoli, determinati, quelli che sono cristallizzati nell’imputazione - come appunto scrive la Corte - che sono il thema probandum e il thema decidendum. Tutto il di più è eccentrico rispetto all’accertamento processuale, che non può piegarsi - o essere piegato - ad accertare fenomeni, né farsi produttore di storia. Anche da questo punto di vista, sono del tutto comprensibili le acuminate affermazioni della Corte: nel “processo trattativa” si è ritenuto di poter fare, con grande enfasi mediatica, un processo alla storia. Ma la storia non si lascia processare, tanto meno quando il fine è accreditare una ricostruzione degli accadimenti che non trova alcun riscontro negli elementi di fatto, nelle prove, se esaminati secondo le sequenze logiche e i criteri che appunto sono imposti per raggiungere - nella sede penale - la “verità processuale”, che si basa unicamente sui fatti. E i fatti - con la loro esasperante ostinatezza - sono sempre gli argomenti più testardi. Secondo lei i fautori della Trattativa saranno legittimati ancora a dire che una cosa sono le sentenze, altro è la storia? Ognuno è libero di dire quel che vuole, ma questa decisione ha già suggellato una ricostruzione precisa ed accurata di quanto è accaduto. Ha accertato la condotta di Ciancimino, ha accertato i colloqui con Mori e De Donno, ha accertato che vi era stato, da parte di Ciancimino e i suoi referenti, un contegno configurabile come minaccia mafiosa, ma ha anche accertato con altrettante nettezza l’assenza di ogni prova e anche di ogni minimo, significativo elemento indiziante in ordine al fatto che Mori e De Donno abbiamo dato corso a quella minaccia, che dunque è rimasta allo stadio del tentativo. I due alti ufficiali del Ros, nel dialogo con Ciancimino, hanno prestato ascolto, perseguendo il solo intento di difendere lo Stato dalla emergenza stragista. Questa è l’unica storia, all’esito di un processo durato ben oltre dieci anni. Alla fine ha avuto ragione il professor Giovanni Fiandaca nel dire che questo processo era una boiata pazzesca e che ha mostrato molte criticità del circolo mediatico-politico-giudiziario? Guardi, al di là dei titoli giornalistici che furono dati a quella intervista, penso che la lettura del professor Fiandaca, che è uno dei più grandi Maestri del diritto penale del nostro tempo, sia stata pienamente condivisa dalla Corte, e che le criticità che da sempre l’illustre studioso - unitamente allo storico Salvatore Lupo - avevano evidenziato, sono emerse con tutta la loro nettezza, e dovremmo solo ringraziarli per il loro coraggio, la loro coscienza civica e la loro alta testimonianza intellettuale. Questa vicenda dovrebbe far molto riflettere sulla forza deformante della narrazione mediatica, e sugli effetti perversi che questa narrazione produce nella pubblica opinione e nel processo. La speranza è che la vicenda processuale della trattativa Stato-mafia resti, come una pietra d’inciampo, nel percorso verso una giustizia penale migliore. Sardegna. La grande fuga dei neo-direttori dalle carceri sarde di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 novembre 2023 La recente crisi nel sistema penitenziario della Sardegna ha raggiunto proporzioni preoccupanti, con tre neo- direttori di carcere che hanno rinunciato al loro incarico. Questo fenomeno ha sollevato interrogativi sulla situazione generale delle carceri isolane, mettendo in luce un contesto caratterizzato da decenni di abbandono e malagestione, un problema che coinvolge i governi di ogni colore politico. Gennarino De Fazio, Segretario della UILPA Polizia penitenziaria, ha commentato la decisione dei tre funzionari che, nonostante abbiano superato il concorso e il corso di formazione, hanno rinunciato all’incarico di direttore delle carceri di Isili, Tempio Pausania e Alghero. De Fazio ha evidenziato il surplus di disagio nel guidare istituti penitenziari sardi, ritenuti l’emblema dello sfascio carcerario causato da anni di abbandono governativo. La mancanza di personale e la carenza di risorse sono evidenti, con la Polizia penitenziaria che conta ben 18.000 unità in meno, una situazione che si aggrava ulteriormente in Sardegna. Il Segretario della UILPA ha sottolineato che assumere responsabilità in un sistema ancora allo sbando, con gravi carenze di ogni tipo, non è allettante per molti, specialmente considerando il trattamento economico non adeguato alle responsabilità. Maria Grazia Caligaris, dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme ODV”, ha denunciato ulteriormente la crisi, affermando che neanche i nuovi direttori accettano di lavorare in Sardegna. Questa situazione lascia scoperti importanti istituti come quelli di Isili, Tempio, Alghero, Sassari, Nuoro e Cagliari. Caligaris ha definito ciò un’umiliazione per l’intero sistema penitenziario sardo, soprattutto dopo la tragica perdita dei direttori Patrizia Incollu e Peppino Fois che hanno lasciato sulla strada la loro vita per onorare il lavoro. L’associazione ha sottolineato la necessità di un intervento immediato da parte dei parlamentari sardi per garantire i diritti di chi lavora nelle carceri dell’isola. Caligaris ha proposto che i concorsi per la dirigenza penitenziaria siano regionali, per assicurare che i partecipanti abbiano una consapevolezza piena del territorio e del ruolo che stanno assumendo. Ma il problema sarebbe rimasto anche se i tre neo direttori non si fossero dimessi. La stessa Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme ODV” ha denunciato che la conclusione del concorso per dirigenti penitenziari indetto nel 2020 dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, a distanza di 25 anni dal precedente, “non soddisfa pienamente le necessità del sistema detentivo isolano. Restano infatti scoperti due Istituti molto importanti: quello di Cagliari, con circa 600 detenuti, dove Pietro Borruto avrà l’incarico di Vice Direttore, e quello di Badu e Carros di Nuoro dove attualmente svolgerà il ruolo di reggente Marco Porcu che dirigerà invece l’Istituto di Sassari- Bancali, con una sezione del 41bis, diventato struttura penitenziaria di primo livello”. Il bisogno di riforme strutturali è evidente, e l’esponente di Socialismo Diritti Riforme ha evidenziato l’urgente necessità di un intervento immediato da parte del Capo del Dipartimento. La mancanza non solo di un Direttore a tempo pieno a Nuoro, ma anche di un Vice Direttore e di un Comandante stabile a Sassari- Bancali, sta compromettendo seriamente l’efficacia e la stabilità del sistema carcerario sardo. L’espletamento del concorso e l’anno di formazione dei neo Direttori, conclusosi a ottobre, non possono far dimenticare la complessità di un sistema rimasto senza guida per troppo tempo, diventando un esempio di inefficienza operativa a livello nazionale. In particolare, la designazione di una direzione stabile per una Casa Circondariale di 33 posti, mentre a Cagliari è stata assegnata una Vice dirigenza, suscita perplessità e solleva domande sulla coerenza delle decisioni prese. Ma ora tutto è ulteriormente precipitato con la rinuncia dei nuovi tre direttori. Massa Carrara. Oltre le sbarre con il lavoro. Rete di sostegno per i detenuti di Angela Maria Fruzzetti La Nazione, 14 novembre 2023 Iniziativa della Caritas diocesana per favorire il reinserimento attraverso il volontariato. “Oltre le sbarre: lavoro e volontariato, un ponte per la città” è l’iniziativa illustrata ieri mattina nella sala incontri della Curia vescovile per annunciare il convegno che si terrà sabato prossimo, alle 10, nella sala della Resistenza di Palazzo Ducale a Massa. L’obiettivo è di superare le barriere che dividono, ovvero creare un ponte tra il carcere e il territorio. Nella provincia apuana ci sono infatti due strutture, la Casa circondariale di Massa e l’Istituto Penitenziario Minorile di Pontremoli. Erano presenti don Maurizio Iandolo, vicario per la pastorale della diocesi di Massa Carrara-Pontremoli, don Maurizio Manganelli, vice direttore di Caritas diocesana, il cappellano del carcere don Michele Bigi, Alessandro Conti, direttore dell’Ufficio diocesano di Pastorale Sociale e del Lavoro, e Umberto Moisè, volontario che da anni è attivo nella casa circondariale di Massa e che farà da moderatore nel convegno del 18 novembre. L’iniziativa è promossa da Caritas diocesana assieme ai cappellani della Casa di Reclusione di Massa e dell’Istituto Minorile Femminile di Pontremoli. “Deve essere una forma di aiuto e di rilancio della vita successiva dopo il carcere - ha commentato nell’introduzione il cappellano don Bigi -. Deve passare il messaggio che queste persone non devono sentirsi sole”. Don Maurizio Manganelli ha ribadito che “come Caritas è necessario lavorare per rendere il ponte più solido attraverso una rete di sostegno coinvolgendo le numerose realtà locali”. Lavorare tutti insieme, dunque, per favorire il reinserimento in società dei detenuti dopo il fine pena. Il direttore Alessandro Conti, ha evidenziato l’importanza del lavoro per costruire percorsi che facciano del carcere di Massa un esempio per altre realtà. Don Maurizio Iandolo ha portato il saluto del vescovo Mario Vaccari, che sarà presente al convegno: “Grazie a queste iniziative riusciamo a formare le coscienze delle persone che sono fuori e che prendono a cuore coloro che sono dentro”. Al convegno sarà presente inoltre Giuseppe Fanfani, garante regionale per i diritti dei detenuti. “Un’occasione - ha evidenziato Umberto Moisè - per sollecitare il ripristino della figura del garante nella struttura di Massa, ruolo importante a sostegno sia dei detenuti sia di chi lavora all’interno del carcere”. L’iniziativa ha ottenuto il patrocinio della Regione, della Provincia e dei Comuni di Massa e Pontremoli. Santa Maria Capua a Vetere (Ce). Cravatte Marinella prodotte nel carcere di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 14 novembre 2023 La casa circondariale di Santa Maria Capua a Vetere ha avviato una collaborazione con l’azienda Marinella per la produzione di cravatte nell’istituto campano. Verranno realizzati capi da destinare alla polizia penitenziaria con un significativo risparmio per lo Stato. L’obiettivo è chiaro: dare un senso alle giornate di chi si trova in carcere e preservare alcune competenze artigianali che rischiano di perdersi per sempre. “Il progetto - afferma Donatella Rotundo, direttrice del carcere di Santa Maria Capua Vetere - nasce dalla consapevolezza che la formazione professionale e il lavoro sono strumenti preziosi non solo a garanzia della sicurezza sociale, ma anche elementi fondamentali per la prevenzione della recidiva. Il protocollo prevede che la società Marinella fornisca gratuitamente, attraverso il proprio personale specializzato, il know how necessario per la creazione di una vera e propria azienda lavorativa”. La produzione di cravatte consentirà ai detenuti, una volta usciti dal carcere, di potersi affacciare al mondo del lavoro con maggiore sicurezza. “È possibile - aggiunge Rotundo cambiare la distanza di due mondi che sembrano contrapposti, ma che in realtà non lo sono e sarà proprio un “nodo” simbolico, quello della cravatta, ad unire questi due mondi”. Maurizio Marinella, alla guida dello storico brand napoletano, esprime soddisfazione per il percorso di collaborazione avviato. “Si tratta - dice al Dubbio - della nostra seconda esperienza, dopo un progetto analogo risalente a due anni fa. L’accordo permetterà di trasferire a Santa Maria Capua Vetere i segreti su come realizzare le nostre cravatte. I capi prodotti saranno destinati al personale della polizia penitenziaria e rientreranno in una collezione speciale. Vedere negli occhi di chi si trova in carcere l’interesse per il lavoro artigianale è un segnale molto confortante. Abbiamo trasmesso una emozione e una speranza. Questa è la mia maggiore soddisfazione”. Anche Raffaela Pignetti, presidente del Consorzio Asi Caserta e docente del Corso di Formazione rivolto ai funzionari referenti per i progetti di pubblica utilità presso la Scuola Superiore di esecuzione penale “Piersanti Mattarella”, sottolinea il valore del progetto messo in campo. “Con “Mi riscatto per il futuro” - spiega - il Consorzio Asi Caserta è stato tra i primi enti promotori e attuatori dei progetti per i lavori di pubblica utilità interni ed esterni agli istituti penitenziari di Santa Maria Capua Vetere, Carinola e Aversa. Sono stati completati già due cicli formativi, che hanno portato il programma da una fase sperimentale a una più consolidata, a dimostrazione che il progetto di inserimento nel mondo del lavoro attraverso le attività svolte nell’area industriale funziona. Abbiamo realizzato un percorso riabilitativo strutturato, capace di offrire l’opportunità concreta a chi ha sbagliato di riabilitarsi ed essere riaccolto alla socialità della vita lavorativa. Siamo pronti ora a passare ad una nuova fase che prevede un più importante coinvolgimento delle aziende del territorio, con indirizzi formativi più specifici e rispondenti alle esigenze del mondo del lavoro”. Rimini. A scuola “lezione di vita” con l’ex detenuto di Ermanno Pasolini Il Resto del Carlino, 14 novembre 2023 All’Istituto di istruzione superiore Marie Curie di Savignano sul Rubicone che conta oltre mille studenti fra Liceo Scientifico, Itis e scuola moda a indirizzo calzaturiero, è stato realizzato il progetto di educazione alla legalità “Il carcere da dentro” elaborato dalla professoressa Roberta Ortis. Ospiti dell’incontro al Marie Curie: Mariateresa D’Agata ex vice comandante del carcere di Forlì, Lia Benvenuti direttore generale di Technè, la psicologa Chiara Comini e l’ex detenuto Antonio Semeraro. Nicola Dellapasqua vice sindaco di Savignano sul Rubicone ha portato i saluti dell’Amministrazione Comunale e l’incontro è stato promosso dall’Unione dei Comuni del Rubicone. Ha detto il dirigente scolastico Mauro Tosi: “La presenza dell’ex vicecomandante del carcere e dell’ex detenuto ha offerto l’opportunità ai nostri studenti di scrutare da vicino le sfide e i dilemmi legati alla coniugazione di libertà e legalità. Il tutto attraverso l’esperienza personale di Antonio un ex detenuto che ha scelto di condividere con i nostri ragazzi il suo viaggio di redenzione. Attraverso le parole di chi ha vissuto sulla propria pelle le conseguenze di scelte errate, gli studenti hanno affrontato un viaggio di riflessione sull’importanza di condividere delle regole, nella dimensione reale dei percorsi di educazione civica”. Poi il racconto dell’ex detenuto Antonio Semeraro: “Sono finito in carcere alcuni anni fa per una rapina in Posta a Faenza perchè non sapevo più come fare per pagare le bollette. Sono stato condannato a tre anni di reclusione e sono rimasto in carcere due anni e tre mesi. Poi ho fatto due mesi di arresti domiciliari, due mesi di obbligo domiciliare col braccialetto e obbligo di dimora nella mia città. Oggi ho 50 anni, faccio l’operaio metalmeccanico a tempo indeterminato e ho un figlio di 11 anni che vedo di rado. Ho divorziato da mia moglie, i parenti quando mi incontrano più che salutarmi cambiano strada, gli amici non mi vengono più a trovare e per tutti sono ancora quello che è stato in carcere. All’interno del carcere per ho lavorato nell’area verde”. “Voi ragazzi che avete più di 14 anni - continua l’ex detenuto - se fate degli errori fate attenzione perché rischiate di finire in carcere”. Ha aggiunto Mariateresa D’Agata ex vice comandante della Casa Circondariale di Forlì: “Ringraziamo Antonio per il suo atto di coraggio nel raccontare la sua storia che ci invita a riflettere sulla nostra personale responsabilità nel plasmare il tessuto sociale che tutti condividiamo”. Bari. La lettura nell’Ipm Fornelli: cresce lo Spazio sociale dedicato a libri La Repubblica, 14 novembre 2023 L’area della rete Bari social book si arricchisce con nuovi libri in ligua francese, araba e inglese donati dalla biblioteca metropolitana De Gemmis e dall’assessorato al Welfare, inoltre saranno realizzati percorsi di educazione alla lettura. Sarà anche avviata una raccolta di testi donati dai cittadini e realizzato lo scaffale circolante di libri, fumetti, divulgazione, poesia, e graphic novel. Fornire ai minori detenuti la possibilità di coltivare la lettura e le proprie abilità di scrittura, sviluppando i propri interessi personali e culturali in un percorso di formazione continua in vista del futuro reinserimento sociale. È l’obiettivo del protocollo di intesa firmato oggi a Bari dall’assessorato comunale al Welfare, la biblioteca della Città metropolitana De Gemmis e l’Istituto penitenziario minorile Fornelli per potenziare lo Spazio sociale per leggere dell’istituto, nato nel 2016 nell’ambito delle attività della rete Bari social book. All’incontro hanno preso parte, fra gli altri, l’assessora comunale al Welfare Francesca Bottalico, il direttore dell’istituto Fornelli Nicola Petruzzelli e la referente della biblioteca De Gemmis, Marilisa Di Turi. Grazie a questa intesa lo Spazio sociale per leggere sarà arricchito con nuovi libri in lingua francese, araba e inglese donati dalla biblioteca metropolitana e dall’assessorato al Welfare, inoltre saranno realizzati percorsi di educazione alla lettura. Sarà anche avviata una raccolta di libri donati dai cittadini e realizzato lo scaffale circolante di libri, fumetti, divulgazione, poesia, e graphic novel. Da parte sua l’istituto Fornelli si impegna a contribuire alla diffusione, fra i minori e i giovani adulti ospiti, delle buone pratiche di promozione della lettura, oltre che a realizzare e organizzare eventi e incontri con autori e autrici e illustratori e illustratrici, prevedendo la partecipazione dei ragazzi del Fornelli alle iniziative. Ravenna. “Di là dal muro. Testimonianze di un direttore di carcere 1934-1976” ravenna24ore.it, 14 novembre 2023 Venerdì 17 novembre, nella sala D’Attorre di Ravenna, alle 18, il centro relazioni culturali, giunto al suo cinquantesimo ciclo di “Incontri culturali”, ospiterà la presentazione del libro dal titolo “Di là dal muro. Testimonianza di un direttore di carcere 1934-1976”, scritto da Michele Ferlito ed edito dell’Assemblea del consiglio regionale della Toscana. All’incontro in programma nella sala D’Attorre, ad ingresso libero, saranno presenti Rita Ferlito e Domenico Ferlito, curatori, ed interverranno Gloria Manzelli, provveditore regionale del Dipartimento amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna e Marche; Carmela De Lorenzo, direttrice delle case circondariali di Forlì e di Ravenna; e Palma Mercurio, direttore delle case circondariali di Rimini e di Pesaro. Condurrà l’evento, come di consueto, Anna De Lutiis, giornalista. Il libro, con una sua copia che verrà donata ai partecipanti dell’evento, rientra nella sezione “Res-publica”, che comprende volumi che offrono contributi al tema universale dei diritti, della giustizia e dei valori della comunità, e, come affermato in una nota, è l’appassionata testimonianza che Michele Ferlito, nella sua lunga carriera direttiva negli istituti penitenziari e nel ministero di grazia e giustizia ricoprendo il ruolo di segretario, di direttore, di ispettore generale e, infine, di dirigente superiore, lascia nel diario dei suoi quarantatré anni di lavoro tra il Piemonte, la Toscana, l’Umbria, le Marche, il Lazio, la Campania, la Basilicata, la Calabria e la Sicilia. Non si tratta di un semplice racconto, prosegue la nota, ma di un’esperienza di vita, uno spaccato di storia dell’Italia, dagli anni difficili della guerra, all’alluvione di Firenze del 1966, fino alla grande riforma carceraria del 1975. Sede dopo sede, il diario racconta la lunga vita di Ferlito trascorsa “Di là dal muro” e, attraverso una serie cronologica di episodi ed aneddoti, ripercorre i suoi oltre quarant’anni di lavoro fatto con passione e con dedizione. Una lettura semplice e scorrevole, a volte drammatica e commovente, a volte caratterizzata dalla sua personale sottile ironia, ricca di contenuti etici, umani e di vita familiare, con spunti di riflessioni politiche e sociali che, ancora oggi, risultano di una sbalorditiva attualità, conclude la nota. Di seguito, un breve riassunto del libro intitolato “Di là dal muro. Testimonianze di un direttore di carcere 1934-1976”, che verrà presentato venerdì 17 novembre, nella sala D’Attorre di Ravenna, alle 18, durante gli “Incontri culturali” organizzati dal centro relazioni culturali: racconto autobiografico dell’amore di Michele Ferlito per il proprio lavoro, attraverso quarantatré anni di carriera direttiva negli istituti penitenziari di mezza Italia. Nella sua professione ha sempre applicato, con passione, il fondamentale principio che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, sancito dall’articolo 27 della Costituzione, riconoscendo, in tal modo, di avere di fronte sempre uomini e non solo colpevoli da punire, riuscendo a conciliare il senso del dovere col sentimento di umanità. Se l’obiettivo primario per chi opera nelle carceri è quello di restituire alla società persone cambiate e consapevoli dei propri errori, è necessario compenetrarsi nelle loro pene e nelle loro sofferenze. In questo suo diario, sono presenti tutti questi semplici consigli, che non vogliono essere mai dotte lezioni, ma solo suggerimenti utili a quanti, oggi, svolgono lo stesso mestiere. Tra le varie sedi, Ferlito è stato anche direttore di Santa Teresa, Santa Verdiana e Le mirate, i tre istituti penitenziari di Firenze, nel periodo che coincise con l’alluvione del 1966, e anche in questa città, ormai all’apice della carriera, non smise mai di applicare questi principi. Il suo carattere onesto e schietto gli permise, proprio nei tragici giorni dell’alluvione, di poter fronteggiare quei drammatici momenti potendo sempre contare sul rispetto della popolazione detenuta. Per maggiori informazioni è necessario telefonare allo 0544.482227, oppure inviare una mail all’indirizzo crc@comune.ra.it. The Cagers. Il basket oltre le sbarre, l’ex play azzurro Attruia alla testa di una selezione di detenuti di Carmelo Prestisimone huffingtonpost.it, 14 novembre 2023 Con lui altri 3 ex giocatori come Donato Avenia, Federica Zudetich e Francesca Zara: “La palla a spicchi come strumento di inclusione”. Basket e carceri, la connessione è stata sempre solidissima. Dietro le sbarre sono finiti fior di giocatori, anche professionisti, in difficoltà. La palla a spicchi come mezzo d’inclusione anche al di là del muro. Una sorta di strumento di rodaggio utile per il reinserimento in società. Un’idea più vicina al tipo di cultura americana ma efficace anche nel vecchio continente. Spike Lee nel suo “He got game” ha raccontato la parabola di Jake Shuttlesworth, ex cestista in prigione con un figlio talentuoso sul parquet. Ai primordi il basket si giocava sul selciato dei playground. Da Sing Sing ad Alcatraz, mai è mancato un canestro per riempire di svago le ore d’aria dei tanti detenuti. Stefano Attruia, negli anni 90 play dell’Italbasket, ha pensato bene di animare gli istituti di pena creando una selezione: The Cagers è il nome del progetto. Tra qualche mese sarà pronto sull’argomento un documentario prodotto da Pantera. Con lui altri 3 ex giocatori di pallacanestro come Donato Avenia, Federica Zudetich e Francesca Zara. L’idea nasce, come accade spesso per le novità, per caso: “Ebbi qualche mese fa un incontro con i detenuti del carcere di Trieste - ha detto - ed incrociai un ex mio compagno di squadra ai tempi delle giovanili. Ci siamo messi a parlare e non la finivamo più. Tanti ricordi e nostalgia. E così è venuta fuori l’idea di un progetto che coinvolgesse tutte le carceri italiane ed i detenuti che in passato hanno giocato a pallacanestro”. L’idea parte dal Friuli Venezia Giulia ma abbraccerà tutto lo Stivale: “Trieste sarà il quartier generale del programma ma noi stiamo girando tutto il paese per individuare 14-15 profili che comporranno il roster della squadra. Abbiamo già provinato 150 ragazzi”. Un’esperienza nuova anche per Attruia come per gli altri tecnici che non conoscono il mondo difficile delle carceri italiane spesso anche congestionate e dove la vita spesso diventa difficile come la gestione di alcuni casi: “Sappiamo di avere a che fare con storie umane molto diverse tra di loro. Ci aspetta una grande lavoro introspettivo, sotto l’aspetto delle relazioni umane. Sappiamo perfettamente come si mette in piedi una squadra di pallacanestro ma questa è evidentemente diversa. Dovremo imparare a conoscere la dimensione”. Come hanno reagito i detenuti? “Molto bene, con grande entusiasmo. Portare in dote un pallone già alleggerisce, sgrava. Dovremo ascoltarli tanto, conoscere le loro corde e capire che tipo di bisogni hanno per poi calibrare l’attività agonistica. Non sarà una sola squadra di pallacanestro ma molto di più”. La lotta trasversale contro i diritti delle donne italiane recensione di elio cappuccio Il Domani, 14 novembre 2023 Il saggio “Uomini contro. La lunga marcia dell’antifemminismo italiano” di Mirella Sarri ricostruisce come l’emancipazione femminile nel nostro paese abbia trovato oppositori anche nella classe politica progressista e di sinistra. La sinistra è stata del tutto estranea alle politiche misogine che in forme diverse e inquietanti hanno segnato la politica dei partiti di destra? In Uomini contro. La lunga marcia dell’antifemminismo italiano, Longanesi, 2023, Mirella Serri puntualizza come tanto tra i progressisti quanto tra i conservatori l’emancipazione femminile abbia incontrato strenui oppositori, che hanno manifestato il loro risentimento attingendo talora alle espressioni più grezze della misoginia. La vicenda di Iotti - Appare esemplare, in proposito, la vicenda politica e umana di Nilde Iotti: quando Iotti, che era stata deputata all’Assemblea costituente e faceva parte del Comitato centrale del Pci, venne candidata alla presidenza della Commissione femminile, fu Giorgio Amendola a evidenziare quanto potessero incidere su di lei le vicende “personali e familiari già note”. La sua relazione con Palmiro Togliatti era infatti largamente disapprovata dai dirigenti comunisti. Anche l’allora trentottenne Enrico Berlinguer, sottolinea Serri, non mancò di esprimere riserve, ritenendola poco incline alla disciplina di partito e lontana dal modello femminile incarnato da Maria Goretti, che il futuro teorico del compromesso storico citava come esempio alle compagne. Iotti era vissuta, durante il fascismo, in un mondo in cui una donna doveva sentirsi in colpa quando si sottraeva a quella che era considerata la sua naturale vocazione: la maternità e la cura della casa. Avvertì infatti un grande disagio quando cominciò a frequentare la Cattolica, in cui non mancavano le discriminazioni verso le donne e verso chi, come lei, proveniva da una famiglia umile. Si trovava adesso, all’interno del Pci, a vivere paradossalmente in una condizione di minorità fra quanti avevano combattuto il fascismo e la sua ideologia razzista e misogina. Non poteva inoltre ignorare che in Unione Sovietica, dopo l’esperienza rivoluzionaria che aveva portato alla legalizzazione dell’aborto nel 1920, l’interruzione della gravidanza era stata vietata nel 1932 per decisione di Stalin. La mentalità fascista - Se la misoginia appariva come qualcosa di inaspettato in ambienti progressisti, era invece da sempre radicata nella mentalità fascista e nei movimenti politici che raccolsero poi quell’eredità. La presenza di donne in posizioni di comando nella Rsi non era vista di buon occhio dai militanti missini. Nel clima del dopoguerra, in cui i “vinti” cercavano di trovare una legittimazione politica e culturale, Serri rileva come la figura di Julius Evola svolse un ruolo fondamentale. Il suo carisma era legato all’aura di esoterismo elitistico che lo circondava e alle sue teorie che pretendevano di nobilitare in chiave “spirituale”, l’antisemitismo, il primato della “razza ariana” e la superiorità dell’uomo sulla donna, considerata inferiore per natura. Non stupisce allora che Aleksandr Dugin, il filosofo russo ideologo di Putin e fondatore insieme a Limonov del Partito nazional bolscevico, guardi oggi con interesse a Evola, condividendone l’ostilità verso i modelli culturali e politici occidentali. Serri descrive come alcune frange della destra radicale italiana abbiano subito la fascinazione di queste idee, assumendo comportamenti razzisti e misogini che hanno anche condotto a esiti tragici. In proposito, dedica molte pagine del suo libro al massacro del Circeo e ad Angelo Izzo, che di Evola si considerava un devoto discepolo. Alla fine degli anni Sessanta, Evola fu definito da Giorgio Almirante “il nostro Marcuse” ma, come sottolinea Serri, se il filosofo tedesco teorizzava la funzione liberatoria dell’eros, il profeta della destra legava l’eros alla dimensione orgiastica. In quegli anni il Movimento di liberazione della donna e il Partito radicale lottarono contro i pregiudizi antifemministi diffusi trasversalmente nel panorama politico italiano. Tra il 1970 e il 1981, grazie all’impegno del movimento femminista, dei radicali e dei partiti laici, si giunse alle leggi sul divorzio e sull’aborto e ai referendum che le confermarono. Nilde Iotti, che nel 1979 fu eletta Presidente della Camera dei deputati, aveva dichiarato qualche anno prima che il Pci era stato vicino alle donne molto più del movimento femminista e che non svalutava “le femministe borghesi”, ma dubitava che avessero avuto un impatto fra le masse. Aveva evidentemente elaborato i torti subiti nel suo partito, dal momento che, come scrive Serri, erano state proprio le battaglie delle “femministe borghesi” a condurla a Montecitorio. Si era ancora lontani dalla spettacolarizzazione della libertà sessuale nelle reti televisive commerciali e da quel 1968 realizzato da Berlusconi, su cui Mario Perniola scrisse il suo provocatorio pamphlet. Fragili, invisibili e soli. La vita ristretta degli anziani nelle nostre città di Flavia Martinelli e Costanzo Ranci Il Domani, 14 novembre 2023 L’aspettativa di vita si sta alzando e le nostre città si riempiono di una generazione di dimenticati. Vogliono solo passare gli ultimi anni a casa, accontentandosi di una dimensione urbanistica ridotta. Le città italiane ospitano una popolazione in costante crescita, la cui espansione resta tuttavia in gran parte sottotraccia: quella degli anziani fragili e soli. È su questo gruppo di persone poco visibili - se non del tutto invisibili - sul piano delle politiche sociali e urbane che concentriamo l’attenzione in questo contributo. I dati più recenti sulla popolazione italiana mostrano come il numero delle persone con oltre 74 anni di età eguagli oggi quello dei bambini e ragazzi sino a 14 anni. Nonni e nipoti, verrebbe da dire, si eguagliano almeno nelle quantità, anche se i primi sono destinati ad aumentare e i secondi, purtroppo, a decrescere ulteriormente. A Milano, ad esempio, le persone anziane sono circa 65mila e rappresentano il 12 per cento dell’intera popolazione: circa una persona ogni otto. Il gruppo raddoppia se consideriamo le persone nella fascia 65-74 anni di età. Insieme, anziani “più giovani” e “meno giovani” fanno un quarto circa dei milanesi. Una quota pari a quella di tutti i bambini, ragazzi e giovani sino a 24 anni di età. Città di anziani - Troviamo proporzioni simili, se non maggiori, nelle altre grandi città del nord Italia: a Torino la quota di popolazione con oltre 74 anni di età giunge al 14 per cento, a Genova e Venezia supera il 15 per cento. La quota di anziani resta elevata nel centro Italia (a Firenze è del 15 per cento), mentre cala a Roma (12 per cento) e nelle metropoli del sud, dove rappresenta per ora “soltanto” il 10 per cento della popolazione complessiva. Essere anziani oggi è una condizione, dunque, assai diffusa. Per molti coincide con un’esistenza ancóra socialmente attiva e caratterizzata da elevata mobilità, da consumi relativamente cospicui, da piena integrazione sociale e relazionale, protetta dalla forte diffusione del nostro “pension welfare state” e da politiche sanitarie che mantengono ancóra, nonostante i radicali tagli finanziari subiti negli ultimi decenni, un approccio universalistico. Tuttavia, con l’aumentare dell’età aumenta inesorabilmente la quota di persone che subiscono una perdita di autonomia e mobilità, che per alcuni sfocia in una condizione di disabilità. Vita nelle Rsa - Le statistiche ci restituiscono un quadro preciso di questa situazione. I disabili totali, ovvero persone che hanno perso l’autonomia in una o più delle funzioni elementari della vita quotidiana (come alzarsi dal letto, vestirsi, andare in bagno e lavarsi, mangiare, muoversi dentro casa) e che di conseguenza necessitano di aiuto quotidiano, rappresentano il 5 per cento nella fascia 65-74 anni, il 14 per cento nella fascia 75-84 anni e ben il 41 per cento nella fascia oltre 84 anni di età (Istat 2019). È - o meglio dovrebbe essere - questo il target delle politiche sociosanitarie di assistenza, volte a garantire a tali persone condizioni dignitose di vita, ritardando quanto più possibile la loro istituzionalizzazione e fornendo loro l’aiuto quotidiano domiciliare di cui necessitano. È a queste persone, una volta che non siano più in grado di invecchiare a casa propria, che si rivolge anche il mondo, poco documentato, delle Rsa e delle strutture residenziali specializzate nell’accogliere e trattare persone con gravi deficit funzionali o cognitivi. Un mondo che è finito sotto i riflettori al tempo delle prime due ondate pandemiche a seguito della “strage nascosta” di molti ospiti, strage poi contenuta e di fatto evitata con l’introduzione dei vaccini e di stringenti misure di segregazione degli ospiti. La vita ristretta - La disabilità rappresenta la parte relativamente più visibile e nota del problema, anche se l’assistenza nel nostro paese è molto ridotta e di qualità modesta, costringendo le famiglie a “fare da sé” oppure ad alimentare il fiorente mercato, ancora largamente irregolare, degli assistenti familiari privati. A fianco di queste persone in estremo stato di bisogno, tuttavia, c’è la realtà assai più diffusa degli anziani fragili: persone che, non necessariamente in seguito a patologie invalidanti ma spesso soltanto per il peso dell’età, perdono importanti gradi della loro autonomia, pur mantenendosi indipendenti nello svolgimento delle principali funzioni elementari della vita quotidiana. Magari possono mangiare da soli, ma non riescono a cucinare o a fare la spesa. Sono capaci di muoversi nella loro abitazione con sufficiente sicurezza, ma hanno difficoltà a uscire, anche solo nel proprio quartiere. Faticano a gestire cure e salute, e a occuparsi della gestione amministrativa della casa e delle loro risorse finanziarie, esponendosi così a truffe o raggiri di varia natura. Mantengono relazioni con i familiari, laddove presenti, ma perdono progressivamente quelle con i loro coetanei, che muoiono oppure sono afflitti da condizioni simili. È come se, per queste persone, la realtà circostante, lo spazio realmente vivibile, le reti di relazione, subissero un restringimento e/o un accorciamento che le rende fruibili soltanto a certe condizioni. Invisibili - E al restringimento dello spazio di vita si accompagna una maggiore centralità della prossimità, di ciò che resta vicino e ancora facilmente accessibile, sia fisicamente che simbolicamente. La casa in cui si dimora, l’edificio entro cui si è collocati e il quartiere in cui si risiede diventano gli spazi fondamentali della vita quotidiana, da cui dipende la qualità umana e sociale dell’esistenza. Sono questi anziani fragili, non ancora disabili, i veri invisibili. Quelli che più facilmente sfuggono alle misurazioni, all’occhio degli urbanisti e degli scienziati sociali, all’attenzione dei policy maker. Sono persone che spendono gran parte del tempo all’interno delle loro abitazioni, escono di rado e solo nelle immediate vicinanze, accedono ai servizi, per lo più sanitari, facendosi accompagnare da un parente o dall’assistente familiare. Al tempo stesso mantengono un forte legame con il vicinato, presidiano il territorio dalle finestre e dalle panchine dei giardinetti, contribuiscono a mantenere aperte le piccole attività commerciali collocate nel loro quartiere. Fragili - La fragilità è una condizione meno chiaramente definibile e misurabile della disabilità vera e propria. È uno stato in divenire, colpito da processi progressivi di regressione cui si può reagire soltanto attraverso forme di resistenza attiva e passiva. Uno stato che l’organizzazione dello spazio domestico, abitativo e urbano può condizionare fortemente, come vedremo, agendo da ulteriore ostacolo oppure da sostegno di natura protesica. Una definizione provvisoria, utile per fare alcune riflessioni di tipo statistico, considera fragili le persone che, pur pienamente autonome nello svolgimento delle principali funzioni di base prima richiamate, non lo sono del tutto nell’assolvere a funzioni un po’ più complesse ma ugualmente necessarie per la vita quotidiana. Sono le Iadl (Instrumental Activities of Daily Living), come preparare i pasti, effettuare lavori domestici, assumere farmaci, uscire di casa per piccole incombenze, gestirsi economicamente, utilizzare un cellulare o altri dispositivi digitali. Più precisamente, possiamo definire come fragili quelle persone che, per condizioni fisiche o psichiche, hanno forti difficoltà con almeno due di queste funzioni (ad esempio: uscire di casa o gestire l’amministrazione). Quanti sono - Questa semplice definizione, peraltro molto restrittiva, aiuta a misurare le dimensioni del fenomeno. Utilizzando i dati dell’Indagine sulle condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari in Italia e nell’Unione Europea (Istat 2019) possiamo fare qualche stima. In Italia gli anziani fragili (né perfettamente attivi né disabili) rappresentano il 9 per cento circa nella fascia 65-74 anni, il 20 per cento nella fascia 75-84 anni (1 su 5), e ben il 33 per cento nella fascia oltre 84 anni di età (1 su 3). Applicando queste quote alla popolazione di Milano e includendo anche i disabili veri e propri, si ottiene una popolazione di circa 16mila anziani che, per diversi motivi, sono prevalentemente costretti dentro le loro abitazioni, con mobilità molto limitata, e richiedono assistenza quotidiana da parte di qualcuno. Una fetta relativamente piccola della cittadinanza (circa l’1,1 per cento), ma che comporta non solo la mobilitazione di ingenti risorse economiche e umane, ma anche spazi adeguati alle loro esigenze. L’anticamera della morte - Nei prossimi anni l’invecchiamento della popolazione farà aumentare queste cifre in modo quasi esponenziale, quando entreranno in questa fase della vita i baby boomer degli anni Cinquanta-Sessanta, ovvero coorti molto numerose di popolazione, con livelli di istruzione e di reddito più elevati delle precedenti, stili di vita innovativi, elevate abilità digitali, carriere lavorative meno impegnative sul piano fisico e, dunque, anche alte aspettative di vita. Per questa armata di anziani fragili e invisibili la sfida principale sarà quella dell’ageing in place. Ovvero, quella di invecchiare bene a casa propria. Non c’è inchiesta che manchi di segnalare come il desiderio più diffuso tra le persone anziane sia quello di restare il più a lungo possibile autonome e dentro le proprie mura domestiche. L’istituzionalizzazione nella Rsa non piace, viene percepita come l’anticamera della morte (la prima sepoltura che l’individuo deve subire quando è ancora in vita, afferma un noto studio francese). Anche la ri-coabitazione con un figlio o una figlia (la strategia tradizionalmente più diffusa in passato) viene rifiutata sia per non appesantire i figli sia perché si è orgogliosi di una indipendenza conquistata cui non si vuole rinunciare. Neanche la demografia incoraggia a perseguire questa seconda strategia: i maggiori livelli occupazionali delle donne delle generazioni successive ai baby boomer, così come la drastica riduzione nel numero dei figli tipica di un paese a bassa natalità come il nostro, non consente più di delegare alla famiglia la soluzione dei problemi abitativi e di accudimento degli anziani fragili. Da qui nasce l’elevata propensione degli italiani a impiegare un assistente familiare privato (“badante”): una soluzione a portata di mano, economicamente sopportabile per molti anziani (ma non tutti), resa possibile dalla disponibilità di un esercito di persone immigrate che accettano orari prolungati di lavoro (sino alla soluzione del 24/7, ovvero un impiego fisso per tutto l’arco della giornata, tutti i giorni della settimana) e da una certa disponibilità di spazi nelle abitazioni delle persone assistite. La mappa delle paure. Cresce la preoccupazione per l’Ia e per l’economia di Enzo Risso Il Domani, 14 novembre 2023 I principali pericoli che le persone, le aziende e gli esperti avvertono come incombenti sono: il cambiamento climatico, gli attacchi cyber, l’instabilità geopolitica, i rischi legati all’intelligenza artificiale e ai big data, nonché i rischi collegati al tema dell’energia e alle tensioni sociali. Nella società globale in cui siamo immersi i rischi si stanno ampliando e divengono sempre più complessi e con tratti di non facile soluzione. Sale globalmente la preoccupazione per le tensioni sociali, mentre si affacciano nella top ten i rischi legati all’intelligenza artificiale. I principali pericoli che le persone, le aziende e gli esperti avvertono come incombenti sono: il cambiamento climatico, gli attacchi cyber, l’instabilità geopolitica, i rischi legati all’intelligenza artificiale e ai big data, nonché i rischi collegati al tema dell’energia e alle tensioni sociali. È quanto emerge dalla decima edizione del Future Risks Report, studio sui rischi emergenti a livello globale realizzato da Axa in collaborazione con Ipsos. Mutamenti nella mappa - Nel corso degli ultimi cinque anni la mappa dei pericoli ha subito alcune evoluzioni ed ha mantenuto alcune costanti. Il cambio climatico è rimasto, dal 2018 a oggi, ai vertici della classifica. Solo nel 2020 il suo primato è stato surclassato dalla pandemia del Covid. Il tema del cambiamento climatico, quest’anno e per la prima volta, occupa il primo posto sia nell’agenda degli esperti, sia in quella dell’opinione pubblica di tutti i paesi monitorati nei 5 continenti. Il rischio di attacchi cyber è, da anni, al secondo o al massimo al terzo posto della classifica. L’interruzione o il danneggiamento delle infrastrutture critiche per mezzo di attacchi cyber è una preoccupazione in intensificazione tra gli stakeholder e gli esperti a causa della crescita delle turbolenze geopolitiche e della crescente dipendenza di persone e aziende dai dispositivi digitali. L’instabilità geopolitica è tornata prepotentemente di attualità nel corso degli ultimi anni. Dopo essere salita al secondo posto nelle classifiche degli esperti l’anno scorso, in seguito all’invasione russa dell’Ucraina, quest’anno il tema dei conflitti e dell’instabilità geopolitica si colloca nuovamente al secondo posto in Europa, ma scende al terzo posto in classifica generale nelle altre zone del mondo. Le rinnovate tensioni in Medio Oriente, nonché quelle permanenti nel Mar della Cina, stanno alimentando la preoccupazione sia tra gli operatori internazionali, sia tra i cittadini dei vari paesi. La new entry - I pericoli relativi all’intelligenza artificiale, invece, sono la new entry del 2023, così come quelli relativi all’energia hanno fatto capolino solo negli ultimi due anni. Il grande protagonista della classifica dei rischi degli esperti è, nel 2023, l’Intelligenza artificiale, che quest’anno è balzata ai vertici della top ten dal quattordicesimo dell’anno scorso. Il 64 per cento degli esperti e il 70 per cento dei cittadini dei vari paesi monitorati nei cinque continenti, ritiene che si debba interrompere la ricerca sull’Ia e su altre tecnologie dirompenti. Non solo. La maggioranza degli esperti esprime la convinzione che l’intelligenza artificiale possa rappresentare una minaccia esistenziale per l’umanità. La valutazione dei rischi legati all’Ia, tuttavia, è meno allarmistica all’interno dell’opinione pubblica, con una manifesta mancanza di consapevolezza soprattutto tra i cittadini europei. Il tema dei rischi finanziari ed economici, che erano in vetta alla classifica nel 2014, ha subito un andamento ondivago: al centro dell’attenzione dieci anni fa, è via via sceso di posizione nel corso degli anni successivi fino a uscire dalla top ten nel 2018. L’economia - Subito dopo la pandemia i diversi aspetti economico-finanziari sono tornati prepotentemente alla ribalta e dal 2022 la top ten dei rischi contiene ben tre preoccupazioni di origine economico-finanziaria: i rischi macroeconomici; i rischi per la stabilità finanziaria; i rischi legati alle politiche monetarie e fiscali. Per gli esperti coinvolti nella ricerca, inoltre, i rischi di instabilità finanziaria sono argomenti su cui c’è forte attenzione tra gli stakeholder e i manager, mentre hanno una minor valenza nell’opinione pubblica. Negli ultimi anni, nella mappa europea dei rischi, ha fatto capolino il tema dell’evoluzione demografica, mentre è in crescita l’apprensione per le tensioni sociali. Questo ambito è salito nettamente nella classifica dei rischi avvertiti dall’opinione pubblica, passando dal settimo al quarto posto, con il 66 per cento dei cittadini e il 62 per cento degli esperti che si sente vulnerabile a questo rischio nella tua vita quotidiana. Una forte maggioranza sia di esperti (76 per cento) sia di cittadini (70 per cento) punta il dito sulle disuguaglianze sociali e sula possibilità che generino tensioni, scontri e frammentazioni crescenti. La società contemporanea, nel corso degli ultimi anni e per effetto della polifonia delle crisi che si è susseguita, assomiglia sempre di più a una polveriera con ormai logore e ridotte misure di sicurezza e di calmierazione. Uno status di calma apparente, che potrebbe portare a nuove e improvvise fiammate sociali, tanto pericolose, quanto imprevedibili. Social e privacy: una sfida tra diritto e reputation per tutelare i minori di Alessandro Ronchi* Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2023 La maxi-causa promossa da 33 Stati USA contro Instagram pone il focus sulle modalità di trattamento delle informazioni personali dei minori da parte dei social, in particolare, sull’assenza di sufficienti garanzie circa i consensi prestati dai genitori o, ancora, sull’adeguata verifica dell’identità degli utenti che prestano tali consensi. La recente notizia dell’avvio della maxi-causa promossa da 33 Stati USA contro Instagram, porta nuovamente alla ribalta l’annosa e mai sopita querelle relativa alla protezione dei dati personali dei minori sui social network. In breve, l’accusa rivolta dai 33 Stati americani contro Instagram di proprietà di Meta è di aver - consapevolmente - causato dipendenza e depressione nei più giovani. Più in particolare Meta è accusata di aver ingannato il pubblico sulle funzionalità della piattaforma specificamente destinate ai minori, con l’effetto di aver “profondamente alterato le realtà psicologiche e sociali di una generazione di giovani americani”, attraverso tecniche manipolative ai danni degli adolescenti, che sarebbero stati indotti a trascorrere molto più tempo del necessario sul social network e ciò, naturalmente, per mero profitto di Meta. La causa pone il focus anche sulle modalità di trattamento delle informazioni personali dei minori da parte dei social e sul fatto dell’assenza di sufficienti garanzie e tutele per gli stessi, sul loro utilizzo degli strumenti spesso senza i dovuti consensi da parte dei genitori o, ancora, senza adeguata verifica sull’identità degli utenti che prestano tali consensi. Lo scenario che emerge evidenzia, una volta ancora, quanto sia indispensabile una attenta regolamentazione dei profili privacy degli utenti dei social network, soprattutto con riferimento al consenso dei genitori per l’accesso dei minori a tali piattaforme che, in Europa, è specificamente disciplinato dal Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati Personali n. 679/2016 (GDPR). Guardando a cosa avviene dall’altra parte dell’oceano e più precisamente a casa nostra in Europa notiamo che il Legislatore Europeo, consapevole della fragilità dei minori di fronte a strumenti tecnologici sempre più pervasivi e sofisticati, ha, infatti, posto, con il GDPR, grande enfasi sull’indispensabilità del consenso informato e sulla rigorosa protezione delle informazioni personali dei minori. L’articolo 8 del GDPR prescrive, in particolare, che il trattamento dei dati personali di un minore di età inferiore ai 16 anni (in Italia il limite è più basso ed è stato fissato a 14 anni, come previsto da un’apposita clausola di salvaguardia del Regolamento a favore dei singoli Stati Membri,) è lecito solo se e nella misura in cui tale consenso sia dato o autorizzato dal titolare della responsabilità genitoriale sul minore stesso. A livello pratico, però, è noto che la norma in questione è di difficile applicazione in relazione ai social network, che non riescono a sviluppare un efficace, convincente ed effettivo controllo, anche sotto il profilo tecnico, sull’età dei propri utenti e, quindi, anche sulla necessità, per coloro che non raggiungono l’età minima prevista per legge, di ottenere il consenso dei soggetti che esercitano su di loro la potestà genitoriale. La verifica dell’età degli utenti è una sfida ardua per i social network, data l’assenza di meccanismi affidabili, non invasivi ed in linea con il principio di minimizzazione dei dati ; il problema è stato evidenziato anche dal nostro Garante per la Protezione dei Dati Personali che, ad esempio, nel noto caso che ha visto coinvolto il social network Tik Tok, ha sottolineato l’importanza di un serio ed effettivo processo di verifica dell’età degli utenti per garantire una efficace protezione dei minori. Sebbene il GDPR rappresenti, in Europa, un baluardo importante per la tutela dei dati personali, i social network, operando con piattaforme ditali che si rivolgono ad utenti localizzati in ogni parte del globo, si trovano a dover gestire le più svariate peculiarità delle singole normative nazionali o regionali, alla ricerca di complessi equilibrismi tra normative più o meno permissive. In questo quadro complesso e frastagliato, il rischio reputazionale, messo oggi in discussione dalle accuse degli Stati USA a Meta, potrebbe, forse, costituire, per i social network, un incentivo verso comportamenti più etici e garantisti verso i diritti degli utenti. Le diversità insite nelle normative sulla privacy esistenti nelle diverse giurisdizioni non può, infatti, costituire un esimente per non applicare rigorose misure protettive nei confronti di coloro che, iscrivendosi ai social network, affidano a tali piattaforme molteplici informazioni sulle loro vite. L’auspicio è, quindi, che la battaglia legale da poco iniziata negli Stati Uniti possa indurre i social network a dotarsi di misure tecniche ed organizzative realmente capaci di proteggere i minori (ma non solo loro), prima di essere travolti dal sospetto di una manipolazione fraudolenta dei propri utenti, con i conseguenti rischi reputazionali che, in un contesto sociale sempre più interconnesso, potrebbero metterne a repentaglio la credibilità a livello globale. *Avv. Alessandro Ronchi, of counsel Nunziante Magrone Ciò che serve a Caivano è l’antiproibizionismo di Luca Marola* e Mattia Santori** Il Dubbio, 14 novembre 2023 La guerra alla droga del governo Meloni è puramente ideologica, ma non è con le retate spot che si risolve il problema. Venerdì scorso, insieme a Jasmine Cristallo della Direzione Nazionale del PD, siamo stati nella piazza principale di Caivano per sensibilizzare istituzioni e cittadini sull’importanza di mettere al centro delle politiche antidroga in Italia il tema della regolamentazione della Cannabis come strumento di contrasto alla criminalità organizzata. Pensiamo che non sia con le retate spot che si risolve il problema endemico della criminalità organizzata. Le mafie vanno colpite al cuore, sottraendo i proventi del traffico di stupefacenti. Siamo arrivati a Caivano tre giorni dopo l’approvazione dell’ormai famigerato decreto, un ennesimo spot in cui si utilizza una tragedia umana per continuare una stupida, cieca e inutile guerra ideologica contro i consumatori di sostanze. Con il Dl Caivano il Governo dimostra ancora una volta di preferire il consenso a breve termine alla risoluzione di fenomeni complessi, andando nei fatti ad assimilare i percorsi detentivi dei minori a quelli degli adulti. Mentre il governo festeggia il ritorno della sicurezza, le piazze di spaccio si riorganizzano, il consumo nazionale di sostanze non cala e la totalità del mercato rimane ad appannaggio del narcotraffico, mentre i ragazzi affollano le carceri e i tribunali. A questa iniziativa di ripristino della realtà dopo la sbornia propagandista del Governo non sono mancate le polemiche. Il capogruppo in Regione Campania della Lega, Severino Nappi, in una nota stampa ci ha accusato di essere “irresponsabili”. A stretto giro abbiamo replicato che irresponsabile è chi, per ignoranza o per malafede, non nota l’elefante nella stanza, ovvero l’enorme quantità di miliardi che affluiscono nelle tasche della criminalità organizzata a cui lo Stato ha deciso di lasciare, in regime di monopolio, la produzione e il commercio di stupefacenti. Sottrarre alle mafie quindici miliardi di euro all’anno - tanto vale il mercato degli stupefacenti, di cui sei derivati dal solo commercio criminale di Cannabis - è uno dei pochi strumenti efficaci di lotta alla mafia. Questa è una storica battaglia radicale che, insieme alla raccolta firme per le sei proposte di legge popolari su ambiente, economia e diritti rappresenta il punto di contatto su cui lottare insieme per unire le comunità politiche. *Direzione nazionale Radicali Italiani **Direzione nazionale Pd Migranti in Albania, i punti che preoccupano il Consiglio d’Europa di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 14 novembre 2023 C’è anche la “detenzione automatica” censurata dai giudici di Catania. “Il memorandum d’intesa tra Italia e Albania sullo sbarco e il trattamento delle domande di asilo, concluso la scorsa settimana, solleva diverse preoccupazioni in materia di diritti umani e si aggiunge a una preoccupante tendenza europea verso l’esternalizzazione delle responsabilità in materia di asilo”. Lo ha dichiarato Dunja Mijatovic, commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, l’organizzazione internazionale che promuove democrazia e diritti umani nei Paesi d’Europa con sede a Strasburgo e 46 Stati membri, da non confondere con istituzioni comunitarie come Consiglio Ue e Consiglio Europeo. Tra i profili di rischio individuati da Mijatovic anche l’automatismo del trattenimento, già censurato nei decreti dei giudici di Catania che hanno liberato i tunisini dal centro di Pozzallo. “Il protocollo d’intesa solleva una serie di questioni importanti sull’impatto che la sua attuazione avrebbe sui diritti umani di rifugiati, richiedenti asilo e migranti”, dice Mijatovic. “Queste riguardano, tra l’altro, lo sbarco tempestivo, l’impatto sulle operazioni di ricerca e salvataggio, l’equità delle procedure di asilo, l’identificazione delle persone vulnerabili, le condizioni di detenzione, l’accesso all’assistenza legale e i rimedi efficaci”, evidenzia la commissaria. Come segnalato da molti, la selezione delle persone da portare nei centri in Albania dovrebbe avvenire in mare dopo i soccorsi, sulle navi militari italiane. Ma accertare, ad esempio, chi è stato vittima di tratta o ha subito trattamenti inumani e o degradanti, anche nei paesi di transito, potrebbe essere difficile, col rischio di privare alcuni vulnerabili delle garanzie che la legge prevede. “L’accordo crea un regime di asilo extraterritoriale ad hoc caratterizzato da molte ambiguità giuridiche”, aggiunge, spiegando che “in pratica, la mancanza di certezza giuridica probabilmente comprometterà le garanzie fondamentali per i diritti umani e la responsabilità per le violazioni, determinando un trattamento differenziato tra coloro le cui domande di asilo saranno esaminate in Albania e coloro per i quali ciò avverrà in Italia”. Inoltre, la commissaria avverte della “possibilità di detenzione automatica senza un’adeguata revisione giudiziaria”. Al netto di quanto previsto dal protocollo siglato, e da quanto prevedono attualmente le norme europee, come ha spiegato al Fatto il costituzionalista Paolo Bonetti, la premier Meloni ha precisato l’intenzione di creare due centri, uno sul modello dei Centri di permanenza per il rimpatrio, l’altro dedicato alle procedure accelerate per l’esame delle domande d’asilo. Con il cosiddetto decreto Cutro, poi convertito in legge, il governo ha esteso i casi in cui per l’esame accelerato delle domande prevede il trattenimento in appositi centri. Nel primo centro di questo tipo, aperto a fine settembre a Pozzallo in Sicilia, sono stati trattenuti alcuni tunisini che avevano presentato domanda in zona di frontiera. Privi di documenti come di garanzia finanziaria, sono stati portati a Pozzallo in quanto provenienti da Paese che l’Italia considera sicuro. Secondo i giudici di Catania, un automatismo incompatibile che le norme nazionali ed europee che vorrebbero, al contrario, una valutazione individuale in merito alla sicurezza del Paese d’origine. Alla mancata convalida dei trattenimenti si è opposto il ministero degli Interni e il ricorso è ora in mano alla Cassazione. Ma se a Pozzallo i giudici competenti hanno potuto esprimersi nei tempi previsti, il Consiglio teme che le stesse garanzie possano allentarsi nei centri gestiti dall’Italia in Albania. Più in generale, Mijatovic sottolinea che l’accordo tra Italia e Albania fa parte di una tendenza più ampia degli Stati membri del Consiglio d’Europa a perseguire vari modelli di esternalizzazione dell’asilo come potenziale “soluzione rapida” alle complesse sfide poste dall’arrivo di rifugiati, richiedenti asilo e migranti. “Tuttavia, le misure di esternalizzazione aumentano significativamente il rischio di esporre rifugiati, richiedenti asilo e migranti a violazioni dei diritti umani”, osserva Mijatovic. “Lo spostamento della responsabilità oltre confine da parte di alcuni Stati incentiva anche altri a fare lo stesso, con il rischio di creare un effetto domino che potrebbe minare il sistema europeo e globale di protezione internazionale”, dice la commissaria. “Garantire che l’asilo possa essere richiesto e valutato sul territorio degli Stati membri rimane una pietra miliare di un sistema ben funzionante e conforme ai diritti umani, che fornisce protezione a chi ne ha bisogno. È quindi importante che gli Stati membri continuino a concentrare le loro energie sul miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia dei loro sistemi nazionali di asilo e di accoglienza e che non permettano che il dibattito in corso sull’esternalizzazione distolga da questo le risorse e l’attenzione necessarie”. E conclude: “Allo stesso modo, è fondamentale che gli Stati membri assicurino che gli sforzi di cooperazione internazionale diano priorità alla creazione di percorsi sicuri e legali che permettano alle persone di cercare protezione in Europa senza ricorrere a rotte migratorie pericolose e irregolari”. Armi italiane a Israele, contro legge e trattati di Giorgio Beretta Il Manifesto, 14 novembre 2023 Voglio essere chiaro. Continuare a fornire armamenti a Israele da parte degli Stati Uniti e dei Paesi dell’Unione europea costituisce un esplicito sostegno all’indiscriminata e criminale operazione militare “Spade di ferro” condotta dalle forze armate israeliane nella Striscia di Gaza. Come evidenziano diverse associazioni per i diritti umani, a fronte delle gravi violazioni del diritto internazionale e delle leggi di guerra, continuare ad inviare materiali militari a Israele rischia di rendere i Paesi fornitori complici di questi abusi contribuendone consapevolmente e in modo significativo. Questo è inaccettabile per i Paesi dell’Unione sia ai sensi delle normative nazionali, degli impegni assunti in sede comunitaria in materia di controllo delle esportazioni di armamenti, sia soprattutto delle norme del “Trattato internazionale sul commercio di armi” che è stato ratificato dai principali Paesi dell’Unione nell’aprile del 2014 ed è entrato in vigore il 24 dicembre dello stesso anno. Le istituzioni europee hanno pertanto il dovere non solo di richiamare lo Stato di Israele al rispetto delle Convenzioni internazionali, ma di sospendere, se non revocare, le forniture di armamenti e sistemi militari. La posizione dell’Unione europea - Finora, invece l’Unione europea si è limitata ad esprimere posizioni di principio senza assumere alcuna iniziativa nei confronti dello Stato di Israele. Lo scorso 15 ottobre, il Consiglio europeo con una dichiarazione ha condannato “con la massima fermezza” Hamas per i suoi attacchi terroristici brutali e indiscriminati in Israele ed ha sottolineato con forza il diritto di Israele di difendersi “in linea con il diritto umanitario e internazionale”. La posizione è stata ribadita nelle Conclusioni del Consiglio del 26 ottobre scorso solo aggiungendo “l’importanza di garantire, in ogni momento, la protezione di tutti i civili in linea con il diritto internazionale umanitario” e deplorando “ogni perdita di vita umana tra la popolazione civile”. Il Parlamento europeo con la Risoluzione P9_TA(2023)0373 (Gli spregevoli attacchi terroristici di Hamas contro Israele, il diritto di Israele di difendersi in linea con il diritto umanitario e internazionale e la situazione umanitaria a Gaza”) approvata giovedì 19 ottobre con 500 voti a favore, 21 contrari e 24 astensioni, ha condannato “con la massima fermezza gli spregevoli attacchi terroristici del gruppo terroristico Hamas contro Israele” e ha riconosciuto “il diritto di Israele all’autodifesa, quale sancito e limitato dal diritto internazionale” evidenziando che “le azioni di Israele devono pertanto rispettare rigorosamente il diritto internazionale umanitario”. Ma, anche in questo caso, nessuna presa di posizione riguardo all’operazione militare israeliana nella Striscia di Gaza. Le violazioni di Hamas e di Israele - Sin dai primi giorni dell’operazione “Spade di ferro, in risposta all’attacco terroristico di Hamas e di altri gruppi armati palestinesi del 7 ottobre in Israele, gli Esperti indipendenti delle Nazioni Unite, dopo aver condannato inequivocabilmente la violenza mortale di Hamas contro i civili in Israele, hanno denunciato gli attacchi violenti di Israele contro i civili palestinesi a Gaza. “Ciò equivale a una punizione collettiva”, scrivono gli esperti. “Non vi è alcuna giustificazione per la violenza che prende di mira indiscriminatamente civili innocenti, sia da parte di Hamas che delle forze israeliane. E’ assolutamente proibito dal diritto internazionale e costituisce un crimine di guerra”. Anche Amnesty International, in uno specifico rapporto titolato “Schiaccianti prove di crimini di guerra a Gaza” ha documentato “attacchi illegali israeliani - compresi attacchi indiscriminati - che hanno causato massicce perdite civili e che devono essere indagati come crimini di guerra”. “È fondamentale - ha commentato Agnés Callamard, segretaria generale di Amnesty International - che l’Ufficio del procuratore della Corte penale internazionale velocizzi urgentemente le indagini sulle prove di crimini di guerra e di altri crimini di diritto internazionale commessi da tutte le parti in conflitto”. Nel chiedere alle forze militari israeliane di porre immediatamente fine agli attacchi illegali Amnesty ha invitato gli alleati di Israele a “imporre immediatamente un embargo sulle armi, date le gravi violazioni del diritto umanitario in corso”. Nei giorni scorsi, anche l’associazione Human Rights Watch dopo aver evidenziato che “i gruppi armati israeliani e palestinesi hanno commesso gravi abusi, equivalenti a crimini di guerra” ha chiesto agli alleati di Israele e ai sostenitori dei gruppi armati palestinesi di sospendere il trasferimento di armi alle parti in guerra in Israele e Gaza. “Fornire armi che consapevolmente e in modo significativo contribuirebbero ad attacchi illegali può rendere coloro che le forniscono complici di crimini di guerra”, riporta Human Rights Watch. Le normative sul commercio di armi - Le normative parlano chiaro ed è bene citarle in modo preciso. Per quanto riguarda l’Italia, la normativa nazionale - la legge n. 185 del 1990 “Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” - vieta esplicitamente l’esportazione di materiale di armamento “verso Paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione” (Art. 1.6 b) e “verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio d’Europa” (Art, 1.6 d). A livello europeo, la “Posizione Comune 2008/944/PESC del Consiglio” dell’8 dicembre 2008 che ha definito “Norme comuni per il controllo delle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari” stabilisce che gli Stati Membri “rifiutano le licenze di esportazione qualora esista un rischio evidente che la tecnologia o le attrezzature militari da esportare possono essere utilizzate per commettere gravi violazioni del diritto umanitario internazionale” (Art. 2.2 c). E, in aggiunta, la Decisione (PESC) 2019/1560 del Consiglio del 16 settembre 2019 prevede che “Qualora emergano nuove informazioni pertinenti, ciascuno Stato membro è incoraggiato a riesaminare le licenze d’esportazione riguardanti i prodotti di cui all’elenco comune delle attrezzature militari dell’UE dopo la loro concessione”. Ancor più esplicito è il “Trattato internazionale sul commercio di armi” (Arms Trade Treaty), ratificato dall’Italia nel 2014 dopo il voto unanime di Camera e Senato: stabilisce non solo il divieto ad esportare materiali militari a Paesi sottoposti a misure di embargo internazionale (Art. 6) ma prevede anche di valutare se le armi convenzionali o gli oggetti militari “possono contribuire a minacciare la pace e la sicurezza; possono essere utilizzati per commettere o agevolare una grave violazione del diritto internazionale umanitario e commettere o agevolare una grave violazione del diritto internazionale dei diritti umani”. “Se, dopo aver condotto tale valutazione e aver esaminato eventuali misure di mitigazione, lo Stato Parte esportatore ritiene che vi sia un forte rischio di ricadere in una delle conseguenze negative previste, lo Stato Parte esportatore non autorizzerà l’esportazione”, conclude il Trattato (Art. 7). Le armi europee a Israele - Israele è una delle maggiori potenze militari del mondo: con una spesa militare di oltre 23 miliardi di dollari all’anno (all’incirca il 5 percento del proprio Prodotto interno lordo) secondo il SIPRI nel 2022 ricopriva la quindicesima posizione mondiale. Israele è anche uno dei principali Paesi esportatori di armamenti: nell’ultimo quinquennio con oltre 3,2 miliardi di dollari di esportazioni militari occupa la decima posizione nel commercio mondiale di armamenti, riporta sempre il SIPRI. Il principale fornitore di sistemi militari a Israele sono gli Stati Uniti, ma i Paesi dell’Unione europea, nel loro insieme, costituiscono il secondo fornitore mondiale: i rapporti ufficiali europei certificano che dal 2001 al 2020 i Paesi dell’Unione hanno autorizzato esportazioni di sistemi militari a Israele per oltre 7,7 miliardi di euro, con oltre 636 milioni nel 2020. Tra gli armamenti esportati nel suddetto ventennio figurano soprattutto navi da guerra (1,6 miliardi), aerei da combattimento (1,2 miliardi), carri armati e veicoli terrestri (1 miliardo) e apparecchiature elettroniche (oltre 520 milioni di euro). Sempre nel ventennio dal 2001 al 2020 i maggiori fornitori europei di armamenti a Israele sono stati la Germania (3 miliardi di euro), la Francia (2,6 miliardi), il Regno Unito (653 milioni) e l’Italia (578 milioni). Le armi Italiane a Israele - Per tutto il periodo fino al 2012 l’Italia, pur avendo rapporti commerciali con Israele, ha mantenuto un atteggiamento estremamente cauto e restrittivo nelle forniture di armi e sistemi militari a Tel Aviv: le Relazioni ufficiali della Presidenza del Consiglio al Parlamento riportano tra il 1990 e il 2011 un ammontare complessivo di solo poco più di 11 milioni di euro. Un atteggiamento dettato non solo dalla politica estera italiana, ma anche in considerazione delle numerose risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’Onu che, già dal 1975, hanno condannato “la continua occupazione dei territori arabi da parte di Israele in violazione della Carta delle Nazioni Unite e dei principi del diritto internazionale” e hanno chiesto a “tutti gli Stati di desistere dal fornire a Israele qualsiasi aiuto militare o economico fintanto che continua ad occupare territori arabi e nega i diritti nazionali inalienabili del popolo palestinese” (si veda la Risoluzione 3414 del 5 dicembre 1975, la risoluzione 31/61 del 9 dicembre 1976 e successive). Tutto cambia con il governo Berlusconi che nel giugno del 2003 sigla a Parigi il “Memorandum d’intesa con Israele in materia di cooperazione nel settore militare e della difesa”, memorandum entrato in vigore l’8 giugno 2005 che prevede, tra l’altro, l’interscambio di materiali d’armamento tra i due Paesi. Il “salto di qualità” avviene però nell’aprile del 2012 quando, l’allora presidente del Consiglio, Mario Monti, in visita in Israele annunciò l’intenzione del governo di finalizzare al più presto il contratto per la fornitura all’Aeronautica militare israeliana di 30 velivoli d’addestramento M-346 prodotti dalla Alenia-Aermacchi e relativi simulatori di volo. Sono gli aerei e i simulatori su cui si sono esercitati i piloti dei caccia F-16 e F-35 che in questi giorni stanno bombardando Gaza. Negli anni successivi le forniture di sistemi militari dall’Italia a Israele sono aumentate rispetto agli anni Novanta, ma non hanno segnato valori rilevanti fino al febbraio 2019, quando i ministeri della Difesa dei due Paesi hanno firmato un accordo per l’acquisto di sette di elicotteri AW119Kx d’addestramento avanzato della Agusta-Westland (gruppo Leonardo) per le forze aeree israeliane, del valore di 350 milioni di dollari, ancora una volta in cambio dell’acquisto da parte dell’Italia di un valore equivalente di tecnologia militare israeliana. Nel settembre del 2020 ne sono stati aggiunti altri cinque, per un totale di dodici elicotteri e due simulatori destinati alla Air Force Flight School. Non solo. Come riporta il Bilancio d’esercizio della RWM Italia, l’anno scorso l’azienda ha firmato un “accordo strategico” con la società israeliana UVision Air Ldt “per la commercializzazione, produzione e sviluppo in esclusiva per l’Europa delle Loitering Munition. Si tratta di munizioni circuitanti, meglio conosciute come “droni kamikaze”, in cui la munizione è un drone armato che sorvola una zona, attendendo, in cerca dell’obiettivo, per poi attaccare solo una volta che quest’ultimo è stato localizzato. Urgente un’azione del Parlamento - A fine ottobre Amnesty International Italia insieme alla Rete Italiana Pace e Disarmo hanno promosso una serie di manifestazioni che hanno visto un’ampia partecipazione in numerose città italiane. Con uno specifico appello hanno chiesto alle istituzioni azioni concrete per la pace in Palestina e Israele e al Governo italiano di “astenersi dal fornire armi a tutti gli attori del conflitto e chiedere agli altri Stati di fare altrettanto”. A fronte della carneficina in corso - più di 10mila morti tra cui oltre 4mila bambini nella Striscia di Gaza -è fondamentale che il Parlamento italiano si faccia portavoce di queste istanze e chieda al governo di sospendere tutte le forniture di armamenti a tutte le parti in conflitto, compreso Israele. Turchia. Ho visitato il carcere di Kandira e gli avvocati detenuti: toccante l’omaggio a Ebru di Fabio Marcelli* Il Fatto Quotidiano, 14 novembre 2023 Il momento più toccante della mia missione in Turchia, che sta per concludersi, è certamente stato la visita alla tomba di Ebru Timtik, avvocata turca morta a seguito dello sciopero della fame di protesta che aveva intrapreso contro la sua ingiusta detenzione e a difesa del principio del giusto processo. Sulla sua tomba è scritto: “Gli eroi non muoiono, il popolo non sarà sconfitto”. In una trentina di avvocati provenienti da vari Paesi europei abbiamo reso omaggio a Ebru, considerandola un simbolo imperituro della lotta per la giustizia e i diritti degli oppressi. Molti altri avvocati turchi e kurdi sono stati colpiti dalla repressione del regime, e molti tra di loro, che abbiamo visitato nelle carceri di massima sicurezza in cui sono rinchiusi hanno subito pesanti condanne per pene detentive fino a ventidue anni di carcere per aver svolto la loro funzione, fondamentale per ogni Stato di diritto, senza riguardi per ogni tipo di potere e senza paura. Continuano a lamentare l’isolamento che viene loro imposto e qualche maltrattamento, ma sono stato lieto di constatare come le loro condizioni di salute e di spirito sono buone e sono convinto che essi costituiscano un’importante risorsa per la Turchia del futuro. Gli avvocati che abbiamo visitato sono imputati in un processo che si trascina già da vari anni, con giudici che vengono nominati o destituiti a discrezione del potere politico sulla base del loro comportamento processuale. In situazioni patologiche come questa si conferma l’evidente assunto che l’indipendenza dei giudici e quella degli avvocati, tra loro strettamente connesse ed interrelate, costituiscono due irrinunciabili pilastri dello Stato di diritto. Il ruolo delle avvocate è particolarmente importante. Sono loro a subire le pene detentive più elevate e a portare in genere il maggior peso della repressione in una società ancora fortemente patriarcale. Donna è anche Gülhan Kaya, avvocata detenuta da vari mesi perché accusata di essere membro di un’organizzazione terroristica sulla base della testimonianza di un suo cliente che si è pentito sulla base di un congruo sconto di pena, al cui processo abbiamo assistito giovedì. L’udienza si conclusa colla scarcerazione di Gülhan, salutata dal giubilo generale: un segnale di speranza per gli avvocati e tutta la Turchia. Durante la visita al carcere speciale di Kandira, avvenuta il 7 novembre, sono stato fermato per aver lasciato inavvertitamente il caricatore del mio iPhone in tasca alla giacca, ignorando che i caricatori telefonici costituiscono oggetti proibiti ai sensi della regolamentazione penitenziaria applicabile. Si delineava una situazione kafkiana, ma pare non ci siano ostacoli all’espatrio, ed è possibile che il Procuratore competente, cui è stato prontamente inviato il verbale della faccenda, decida magnanimamente di archiviare. Viviamo un momento molto difficile a livello planetario colle guerre in corso e l’atroce genocidio del popolo palestinese che è in atto di fronte ai nostri occhi indignati e impotenti. Il rispetto dello Stato di diritto costituisce ovunque e senza eccezioni un ingrediente fondamentale per la soluzione pacifica e politica dei conflitti in corso. Vanno puniti i crimini da chiunque commessi e va garantita una sostanziale uguaglianza dei diritti ad ogni essere umano indipendentemente dalla sua identità nazionale, religiosa, di genere o di altro tipo. Come ha osservato giustamente il leader della sinistra francese Jean-Luc Mélenchon, occorre applicare il diritto umanitario bellico anche al conflitto in corso a Gaza, perché da un lato esso consente la punizione dei crimini di guerra da chiunque commessi, e dall’altro mette le parti in conflitto su di un piede di parità, prefigurando possibili e necessarie soluzioni negoziate dello stesso. L’uguaglianza dei diritti in società tendenzialmente sempre più multiculturali costituisce la base imprescindibile per la convivenza pacifica. Occorre evitare, come sostenuto perfino da Guido Crosetto, a quanto pare il più intelligente dei ministri componenti la disastrata compagine meloniana, ogni guerra fra civiltà. Posizione tanto più importante nell’attuale fase di passaggio a un governo multipolare del pianeta, che va favorita ed accelerata per evitare la catastrofe e contro il tentativo di chi, come Matteo Salvini, vuole recuperare per bieco elettoralismo il più becero spirito di crociata vetero-occidentale all’insegna di una presunta superiorità dei “nostri” valori, in realtà mero travestimento delle velleità di dominazione su altri popoli. Secondo il mio amico Antonio Fraticelli, avvocato bolognese, orgogliosamente democristiano confesso a volte un po’ irritante per la sua foga anticomunista ma grande militante per la difesa dei diritti umani, che fa parte della delegazione, insieme alle colleghe Francesca Trasatti e Margherita Cantelli di Potere al Popolo, siamo stati fortunati a nascere in Europa. Per certi versi ha ragione, ma per quanto mi riguarda il fatto è più che altro che l’Italia è il mio Paese, nel quale, come giurista ed avvocato, sono oggi chiamato a continuare la lotta per un mondo più giusto. Come dimostrato dalla nostra presenza in Turchia, come pure dai gravi fatti che avvengono ogni giorno in Palestina ed altre parti del mondo è peraltro oggi impossibile non condurre questa lotta anche sul piano internazionale. *Giurista internazionale Giappone. Donne nelle carceri: trattenute durante la gravidanza, isolamenti arbitrari e maltrattamenti La Repubblica, 14 novembre 2023 Human Rights Watch: “Sono urgenti riforme rispetto i diritti in un Paese troppo dipendente dalle reclusioni, senza opzioni alternative”. Molte donne imprigionate in Giappone subiscono gravi violazioni dei diritti umani e maltrattamenti, ha affermato Human Rights Watch in un rapporto pubblicato oggi. Il governo giapponese dovrebbe adottare urgentemente riforme per migliorare le condizioni carcerarie, depenalizzare il semplice possesso e l’uso di droghe e fornire alternative alla reclusione. Si violano le convenzioni internazionali. Il dossier di 76 pagine, intitolato “They Don’t Treat Us like Human Beings’: Abuse of Imprisoned Women in Japan”, documenta le condizioni di abuso in molte carceri femminili in Giappone. Le politiche governative nei confronti delle donne in carcere violano le convenzioni internazionali sui diritti umani e contravvengono agli standard internazionali come le Regole minime standard delle Nazioni Unite per il trattamento dei prigionieri, note come Regole Mandela. Le autorità carcerarie usano restrizioni sulle donne incinte imprigionate, impiegano arbitrariamente l’isolamento come forma di punizione, abusano verbalmente delle donne in carcere, negano alle donne incarcerate l’opportunità di fare da genitori ai loro figli in carcere e non riescono a fornire un accesso adeguato alla salute e all’assistenza per la salute mentale. Nessuna opzione alternativa. Il Giappone imprigiona anche molte donne per il semplice possesso e uso di droghe senza garantire un accesso adeguato a un trattamento efficace e basato sull’evidenza per i disturbi da uso di sostanze. I giudici sono limitati nella loro autorità di utilizzare alternative alla reclusione per reati, come i piccoli furti, perché le misure non detentive come il servizio alla comunità non sono incluse nel codice penale giapponese. I PM potrebbero sospendere le pene ma non lo fanno. Human Rights Watch ha condotto una ricerca in tutto il Giappone tra gennaio 2017 e gennaio 2023, intervistando quasi 70 persone, tra cui decine di donne precedentemente detenute, nonché esperti di riforma legale e giudiziaria. L’articolo 482 del codice di procedura penale giapponese consente ai pubblici ministeri di sospendere le pene detentive per vari motivi, tra cui l’età, la salute e la situazione familiare della persona detenuta. Tuttavia, Human Rights Watch ha scoperto che i pubblici ministeri raramente invocano questa legge, come dimostra il fatto che solo 11 donne incarcerate hanno avuto la sospensione della pena negli ultimi cinque anni. Gli abusi dietro le sbarre. Una volta imprigionate, molte donne subiscono gravi abusi dietro le mura della prigione. Questi includono il maltrattamento delle persone transgender detenute, l’accesso inadeguato ai servizi medici e ad altri servizi di base, la separazione delle donne dai loro bambini e l’applicazione di restrizioni eccessivamente severe sulle comunicazioni sia all’interno del carcere che con il mondo esterno. Trattamenti crudeli, inumani, degradanti. Il Giappone è parte delle principali convenzioni internazionali sui diritti umani, tra cui il Patto internazionale sui diritti civili e politici e la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, che riguardano entrambe la giustizia penale e il trattamento delle persone detenute. Oltre alle Regole di Mandela, gli standard internazionali pertinenti includono le Regole minime standard delle Nazioni Unite per le misure non detentive (le Regole di Tokyo) e le Regole delle Nazioni Unite per il trattamento delle donne detenute e le misure non detentive per le donne detenute (le Regole di Bangkok). Le riforme necessarie. L’attuale sistema giudiziario e le pratiche carcerarie del Giappone violano le disposizioni di queste convenzioni o contravvengono a queste regole e standard internazionali, ha detto Human Rights Watch. “La reclusione, che nelle condizioni attuali si traduce in gravi violazioni dei diritti umani, dovrebbe essere l’ultima risorsa”, ha detto Kasai. “Invece, il Giappone dovrebbe adottare le riforme necessarie per un approccio basato sui diritti”.