Pena e carcere magistraturademocratica.it, 13 novembre 2023 Il carcere è uno dei luoghi in cui un paese democratico misura il suo tasso di aderenza ai diritti universali dell’uomo. È il fulcro in cui l’uso della forza, regolato dallo Stato nel processo, cerca il suo più difficile equilibrio con l’umanità del trattamento sanzionatorio e con la risposta rieducativa che la Costituzione affida alle pene. Il 10 novembre 2023, tuttavia, le presenze in carcere nel nostro Paese hanno di nuovo toccato quota 60.000, a fronte di una capienza regolamentare di poco più di 51.000 unità. Siamo vicini al numero di detenuti che, nel 2013, condusse alla sentenza pilota (Torreggiani c. Italia, 8 gennaio 2013) con la quale la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condannò il nostro Paese per i trattamenti inumani o degradanti subiti dai detenuti ristretti in carceri strutturalmente sovraffollate. Al 31 dicembre 2022, data di entrata in vigore della riforma Cartabia in tema di pene sostitutive, i numeri attestavano la presenza in carcere di 56196 persone, circa 4.000 in meno di oggi. Al dramma del sovraffollamento, si aggiunge quello della carenza di personale, certificata dalle rilevazioni del Ministero: il numero totale degli educatori effettivi è pari a 803 unità - a fronte delle 923 previste in pianta organica - con la media di 1 funzionario giuridico pedagogico per 71 detenuti e punte di 1 educatore per 334 persone detenute, come rilevato nel XIX Rapporto Antigone. In molti istituti si riscontrano fatiscenza edilizia, promiscuità di percorsi trattamentali, impossibilità di un effettivo accesso al lavoro e alle offerte rieducative, assenza delle basilari condizioni igieniche, insufficienza dell’assistenza sanitaria. Il carcere rimane un luogo dove si cerca di sopravvivere al nulla, dove i problemi principali sono quelli relativi all’igiene, allo spazio e al cibo, dove il tentativo di soddisfare i bisogni basilari, quelli che dovrebbe essere lo Stato a garantire a ciascuno, prende il sopravvento sull’impegno personale a sviluppare o ricucire il senso del bene comune e la voglia di migliorarsi. Un carcere ridotto in queste condizioni produce soltanto un disagio allarmante. Alla frequenza tragica dei suicidi - in media uno ogni cinque giorni, come ha rilevato il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà - si somma il dato relativo ai due milioni di euro all’anno spesi per somministrare psicofarmaci ai detenuti: il “carcere sedato” sta prendendo sempre più il posto del carcere rieducato. In questa condizione, la tutela dei diritti umani delle detenute e dei detenuti, nonostante gli strumenti dei reclami giurisdizionali, diventa sempre più difficile e il reinserimento sociale, all’esito del percorso detentivo, un miraggio. È una situazione che Magistratura democratica ha toccato con mano nel corso delle visite - organizzate assieme ad Antigone, alle Camere Penali e a Giuristi democratici e grazie all’apprezzabile collaborazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dei singoli direttori - ad alcuni significativi istituti penitenziari: la Casa Circondariale di Sollicciano (25 novembre 2022), la Casa Circondariale di Napoli Poggioreale (4 febbraio 2023) e la Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino (9 giugno 2023). Questa situazione rischia di essere ulteriormente pregiudicata dalle politiche repressive e di inasprimento sanzionatorio nei confronti degli autori di reato di lieve entità in materia di stupefacenti: aumenterà ulteriormente l’area della detenzione sociale - quella che non accede alle alternative al carcere per mancanza di risorse essenziali - senza alcun vantaggio nella prevenzione del consumo delle droghe, nella tutela della salute dei tossicodipendenti, nella riduzione del danno. In questa congiuntura difficile, ai magistrati democratici preme ribadire l’importanza di una presa di coscienza all’interno della magistratura sull’assoluta necessità di una immediata e diffusa applicazione delle pene sostitutive. Si tratta di pene che, ove possibile, dovranno prendere il posto della pena carceraria e non delle misure alternative, al fine di garantire una reale decarcerizzazione. Magistratura democratica, inoltre, auspica che fondi e risorse siano destinati, invece che a progetti di costruzione di nuove carceri (idonee solo a perpetuare i problemi dell’oggi e incapacitare un maggior numero di persone), agli Uffici Penali di Esecuzione Esterna, agli enti territoriali e del terzo settore - questi ultimi fondamentali nella costruzione di una giustizia di comunità che, attraverso le pene sostitutive, può essere declinata fin dal giudizio di cognizione - al fine di implementare possibilità alternative al carcere anche per i condannati privi di risorse economiche. Allo stesso tempo, in un periodo di nuovo allarme per il sovraffollamento, pare necessario riaccendere nel dibattito pubblico una riflessione sul numero chiuso degli istituti penitenziari e sulla possibilità e di stabilire seri e rigorosi criteri di priorità che sanciscano chi, nell’ambito della prefissata capienza delle carceri, debba iniziare l’espiazione intramuraria e chi invece debba iniziare l’esecuzione della pena in detenzione domiciliare, in altre misure alternative o permanere in libertà. Rilevante attenzione dovrà essere prestata alla proposta di legge (A.C. n. 1064, presentata il 30 marzo 2023) di istituzione delle case territoriali di reinserimento sociale, volta a permettere, in casi di ridotta pericolosità sociale e di limitata entità della pena, che la detenzione possa essere scontata in specifiche strutture appositamente istituite, di dimensioni ridotte e caratterizzate da programmi di trattamento espressamente finalizzati alla ricollocazione sociale del condannato. Magistratura democratica auspica che il legislatore attribuisca ai tribunali e gli uffici di sorveglianza - penalizzati dalla esclusione dal PNRR - delle risorse di personale necessarie ad affrontare il delicato compito della giurisdizione rieducativa e sui diritti dei detenuti. Magistratura democratica, infine, auspica una rapida messa a regime della disciplina organica della giustizia riparativa, unica in Europa. Una giustizia della riparazione che, per quanto per ora solo modello complementare e parallelo, nella sua sostanziale contrapposizione alla tradizionale giustizia punitiva, ha un che di indubbiamente rivoluzionario, in quanto modello di giustizia fondato esclusivamente sull’ascolto e sul riconoscimento dell’altro. Riforma impossibile di Francesco Olivo La Stampa, 13 novembre 2023 Meloni rinvia la separazione delle carriere per blindare il premierato. Forza Italia: “Le due leggi vadano insieme”. I timori per il referendum. La linea è stata consegnata agli alleati nel corso di una riunione a Palazzo Chigi alla fine di ottobre. Giorgia Meloni ha indicato la priorità: l’introduzione del premierato. E quindi, tutto il resto può attendere. La prima vittima di questa scelta è la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, una riforma indicata nel programma della coalizione, ma poi messa da parte, anche per evitare conflitti con la magistratura, in larghissima parte contraria. Il nodo si porrebbe, secondo Meloni, soprattutto nel caso di un referendum confermativo, che non va appesantito con altri quesiti. Carlo Nordio è da sempre uno dei grandi fautori della separazione delle carriere, ma da quando è ministro ha accettato, in maniera troppo arrendevole secondo Forza Italia, i continui rinvii che arrivano da Palazzo Chigi. Nel mirino dei garantisti sono finite le frasi pronunciate dal guardasigilli sabato scorso a Stresa al forum della Fondazione iniziativa Europa: “Il premierato non uccide la riforma costituzionale della giustizia, ma forse la posticipa”. Del “forse” si può tranquillamente fare a meno, perché la decisione è presa. L’aspetto più preoccupante per Forza Italia e per i parlamentari centristi che spingono per questa riforma che, come detto, le parole di Nordio svelano la linea ufficiale del governo. Meloni avrebbe preferito una maniera meno diretta di comunicare la decisione, per evitare polveroni, ma sta di fatto che in questo momento tutti gli sforzi, anche dei prossimi mesi, sono concentrati sulla “madre di tutte le riforme”. Il timore di Fratelli d’Italia, infatti, è che sovrapporre i due temi in un referendum confermativo potrebbe essere dannoso: “Si farebbe confusione, mettendo troppa carne al fuoco con argomenti diversi”, conferma un membro dell’esecutivo. Il timore, infatti, è che nella futura campagna elettorale agli avversari del premierato si possano unire quelli della separazione, allargando un fronte che già si annuncia ampio. Posticipare l’iter della riforma della giustizia vuole dire metterlo a repentaglio: se il referendum sul premierato dovesse svolgersi nel 2026, resterebbe poco alla fine della legislatura. Il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, Forza Italia, confermando l’impostazione del governo, aggiunge che si faranno entrambe le riforme: “Un conto è dire che c’è la precedenza del premierato, e questa è una scelta politica, altra cosa è dire che non c’è tempo per la separazione delle carriere e quindi per un altro referendum. Noi abbiamo quattro anni di tempo”. Ma nel suo partito c’è chi la vede in maniera diversa: “Premierato e separazione delle carriere son o due riforme fondamentali e non c’è nessun rischio di interferenza tra l’una e l’altra e quindi non servono rinvii”, dice Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera. In molti tra i forzisti la pensano così, ed è ampiamente condivisa la convinzione che quella di Fratelli d’Italia sia una tattica dilatoria per non fare la riforma. Il presidente della commissione Giustizia alla Camera Ciro Maschio, esponente di FdI, prova a rassicurare gli alleati: “Entrambe le riforme sono nel programma del centrodestra e mi risulta ci sia la volontà di realizzarle. Mi pare normale che abbiamo percorsi, tempi e modi diversi e che l’una non interferisca con l’altra. Quello che conta è la prospettiva di arrivare al risultato finale entro la fine della legislatura”. L’ala garantista dell’opposizione è sul piede di guerra: “Nordio a marzo aveva annunciato un’iniziativa del governo sulla separazione delle carriere - attacca Enrico Costa di Azione - di fatto fermando il lavoro della commissione che stava andando avanti sulla base delle quattro proposte di legge presentate. Il testo di Nordio non è mai arrivato. È peggio di una presa in giro: vuol dire impedire al parlamento di fare il proprio lavoro”. Giustizia, lite sulla separazione delle carriere tra FI e Nordio di Liana Milella La Repubblica, 13 novembre 2023 Slittata la riforma per far posto al premierato. Furibondo Enrico Costa di Azione: “Truffato il Parlamento”. “Ma allora Nordio, e purtroppo anche Sisto, ci pigliano in giro…”. E ancora: “Lo sappiamo che vorrebbero andare tutti e due alla Consulta a fare il giudice, e quindi devono accattivarsi l’opposizione, ma non possono svendere così la battaglia più importante fatta da Berlusconi”. E cioè la separazione delle carriere. Collera alle stelle, dentro Forza Italia, sia contro il Guardasigilli Carlo Nordio che contro il suo vice, il forzista Francesco Paolo Sisto, “colpevoli” entrambi di aver appena annunciato (il primo) e giustificato (il secondo) l’inesorabile rinvio della separazione dei giudici dai pm, perché la premier Giorgia Meloni al primo posto mette il premierato, e teme gli effetti negativi, in sede di referendum, proprio della separazione. Di riforma costituzionale se ne farà solo una, e non sarà quella che gli avvocati, e poi Forza Italia, hanno sostenuto da sempre. Alla collera dei forzisti, che accusano Nordio e Sisto di volersi conquistare così la benevolenza dell’opposizione, i cui voti sono indispensabili per essere eletti giudici costituzionali dalla quarta votazione in poi (dove sono necessari i tre quinti), si aggiunge quella di un furibondo parlamentare di Azione Enrico Costa che parla addirittura di “truffa al Parlamento”. Perché Nordio, a marzo, invitò la prima commissione di Montecitorio a fermarsi sull’esame dei quattro ddl costituzionali presentati - Azione, Iv, Lega e Fi - e su cui si era già arrivati alle audizioni. Ma il ministro della Giustizia disse che stava per presentare un testo del governo. “Che non è mai arrivato” sbotta adesso Costa che per questo parla di “un’operazione scorretta”. E ricorda come Nordio ha poi cominciato a dire che le carriere si potevano anche separare per legge ordinaria. Quindi a Costituzione invariata. Anche quella sarebbe stata una mossa per prendere tempo in vista del premierato. E siamo a 48 ore fa, quando il Guardasigilli, quasi casualmente in un convegno a Stresa, ufficializza il dietro front del governo. E Sisto si accoda. Da nessuno dei due arriva un rimpianto, quasi non avessero mai promesso questa riforma. Forza Italia si sente tradita. Soprattutto perché l’altolà arriva dopo un altro “sgarro”, anche questo vissuto come “un’intromissione indebita nella vita parlamentare e nella fisiologica dialettica tra i gruppi!”, ossia “lo scippo della prescrizione” che il Guardasigilli ha sfilato ai deputati siglando il testo in via Arenula quando l’accordo era già chiuso dopo giorno di trattative. Testo che, dicono i forzisti, “guarda caso torna alla legge di Andrea Orlando, ex Guardasigilli del Pd”. A Nordio, ma soprattutto a Sisto la Consulta piace, ma per arrivarci serve il voto dell’opposizione (alla maggioranza ne mancano 11). Sisto sa bene, per un tentativo fallito, che nel segreto dell’urna valgono simpatie e antipatie, e conta poco l’ordine di scuderia. Il rinvio della separazione a un futuro che sfuma nel nulla rappresenta un bonus di peso. Anche se si fa strada l’ipotesi che la maggioranza, anziché rischiare molte votazioni a vuoto per un solo giudice, preferisce attendere l’anno prossimo quando a dicembre scadono altri tre giudici. E su quattro poltrone il gioco si fa molto più facile. “Ormai è chiaro, i magistrati non si toccano. Sui tribunali manca una visione d’insieme” di Francesco Grignetti La Stampa, 13 novembre 2023 Le ultime parole del ministro Carlo Nordio, gli avvocati le hanno interpretate così: la famosa separazione delle carriere non si farà mai più. “Quel che tocca i magistrati, non si può e non si deve fare”, dice Giampaolo Di Marco, segretario dell’Associazione nazionale forense, la più antica e vasta associazione di avvocati in Italia. Perché secondo voi questa riforma non si farà? “Perché i tempi non lo permetteranno. Anche a voler credere che questo governo abbia davanti tutta la legislatura, un anno è già passato. Per il premierato ci vorranno altri due anni e forse non basteranno. E quindi non vedo come si possa mettere in cantiere un’altra riforma di rango costituzionale negli scampoli di legislatura”. Morale? “Ci era stato detto che era la riforma delle riforme. Invece i fatti dicono altro: quel che tocca il processo civile e il processo penale è stato addirittura anticipato, il resto, ossia la riforma dell’ordinamento giudiziario, è finito sul binario del “vedremo”. Dopo l’annuncio del ministro, della Giustizia lato magistratura semplicemente non se ne vuole o non se ne può ancora parlare”. Delusi? “Guardi, giusto 10 giorni fa avevamo scritto al ministro per segnalare tutto quel che non funziona e per chiedere un incontro. Ci era stato detto che avrebbero proceduto con un confronto continuo, ma io tutto questo confronto non l’ho percepito”. Come definirebbe quel che accade sotto il cielo della Giustizia? “Boh. Chiudo tribunali, apro tribunali... Manca del tutto una visione. Il ministero doveva fare un nuovo concorso per i giovani da immettere nell’Ufficio del processo dopo i primi 8.250 assunti, ma non se ne vede traccia. E intanto, siccome molti avevano partecipato a più concorsi, ora fioccano le dimissioni. In servizio non ce ne sono più di 5.500 e già sento dire che difficilmente saranno stabilizzati tutti. Ciò accade in un ministero dove la pianta organica prevede 43 mila dipendenti amministrativi e ce ne sono al più 32 mila. Ci dicano chiaramente quanta giurisdizione vogliono lasciare in piedi”. Nel senso che vedete ridimensionata definitivamente la capacità dello Stato di fare giustizia? “Non sarebbe mica uno scandalo. Nel diritto fallimentare, per dire, il magistrato era come il prezzemolo e poi le cose sono cambiate e ora le parti hanno più autonomia e più margini con lo Stato sullo sfondo. Se ad esempio si decidesse che i due che litigano per dieci centimetri di confine in campagna non finiscano davanti al giudice, parliamone. Ma occorre un tavolo complessivo per avere una “visione”, non procedere con piccoli balzelli e trucchi vari solo per restringere il canale d’ingresso alla giurisdizione. Qualunque manager che debba organizzare un’azienda studia prima ciò che deve sfornare, e su quella base quale capacità produttiva deve avere”. Il risiko delle procure di Giuseppe Legato La Stampa, 13 novembre 2023 Da Torino alla procura generale di Roma, al dopo-Gratteri e alla Sicilia. Il primo Csm a trazione centrodestra alle prese con un inverno di nomine. Definiti i vertici degli uffici giudiziari requirenti di Napoli e Firenze, si muovono le pedine sullo scacchiere per le prossime nomine dei capi dei pm di altre procure italiane rilevanti. Un risiko a incastro deciso da un Csm che per la prima volta è a maggioranza di destra e che continuerà a ridisegnare il rapporto politica-magistratura sull’asse Palazzo Chigi-Palazzo dei Marescialli. Da qui alla primavera si deciderà chi andrà a ricoprire ruoli direttivi in sedi prestigiose come, ad esempio, Torino e la Procura Generale di Roma. Senza dimenticare il dopo-Gratteri in un ufficio giudiziario centrale al Sud come Catanzaro che dopo l’addio del magistrato di Gerace (eletto a maggioranza a guidare la più grande procura d’Italia, quella partenopea) è molto ambita anche - e non solo - come trampolino di lancio avendo negli ultimi anni vissuto una stagione esaltante in termini della lotta alla ‘ndrangheta. E non lasciando indietro i due uffici giudiziari di Catania e Messina centrali, non quanto Palermo ma comunque tanto, nelle politiche di contrasto a Cosa Nostra. E’ però Torino il perno centrale da cui molte cose discenderanno. La corsa al dopo-Anna Maria Loreto (la prima procuratrice donna della storia andata in pensione lo scorso 5 giugno) è pronta a entrare nel vivo nel capoluogo piemontese. Vede in pole position due (o tre) magistrati senza però negare una legittima e fondata possibilità anche agli aggiunti interni (tra i quali Marco Gianoglio, capo del pool “reati economici”, che ha indagato sui bilanci e sulle presunte plusvalenze della Juventus) che concorrono tutti - e contemporaneamente - anche per il secondo vertice dell’ufficio giudiziario, quello della Procura generale di Corte d’Appello lasciato sguarnito dal sopravvenuto pensionamento dell’esperto Francesco Saluzzo. E per la quale si sono candidati in sette tra cui Lucia Musti, ex reggente della procura generale di Bologna ed Enrico Cieri di Alessandria. Per la procura ordinaria piemontese c’è Giovanni Bombardieri, attuale procuratore di Reggio Calabria, uomo esperto nella lotta alla ‘ndrangheta, già “Aggiunto”, per diverso tempo, alla procura di Catanzaro: un direttivo “pesante” che conta sette anni di ruolo. C’è anche Maurizio Romanelli, volto storico della procura di Milano e ora a capo dell’ufficio di Lodi. A sparigliare le carte potrebbe arrivare Giuseppe Amato, ora capo della procura di Bologna e prima di Trento e Pinerolo, figlio di Nicolò Amato già a capo del Dap. Ma insistenti rumors collocano quest’ultimo in piena corsa per la Procura Generale di Roma. Una maratona - per inciso - qualificata e complessa. Perché oltre ad Amato, il nome forte è quello di Antonio Patrono attualmente a capo dell’ufficio requirente di La Spezia, ma già due volte membro del Consiglio Superiore (Csm). E sarebbe difficile - nel merito - motivare anche un diniego a Michele Prestipino, già procuratore di Roma con nomina annullata dal Consiglio di Stato a maggio 2021. Così, però, sembra. Meno certezze si intravedono al Sud. Sul dopo-Gratteri, ad esempio, per guidare l’ufficio di Catanzaro (le domande scadono giovedì). Concorre Vincenzo Capomolla magistrato di certificata esperienza, già vicario di Gratteri. Potrebbero affacciarsi altri “Aggiunti” tra i quali il magistrato Giuseppe Lombardo che a Reggio Calabria è responsabile della Direzione Distrettuale Antimafia, ma un nome forte sarebbe anche quello di Vincenzo Curcio procuratore di Potenza dal marzo 2018, l’unico che ha un direttivo alle spalle. I tre figurano anche nell’affollata corsa alla procura di Messina sulla quale si deciderà a breve e che oltre a Lombardo vede Rosa Raffa (attuale reggente) e Antonio D’Amato (già componente del Csm) tra i candidati un passo avanti agli altri nonostante la presenza, ad esempio, di profili di assoluto rilievo come Sebastiano Ardita (aggiunto a Catania e già al Csm) e Marzia Sabella, attuale procuratore aggiunto a Palermo che potrebbe concorrere per la nomina di guida dell’ufficio giudiziario di Catania insieme al collega Paolo Guido, il magistrato che ha arrestato Matteo Messina Denaro. Ma anche qui c’è chi giura che il nome di Ardita tornerebbe in corsa. Action Aid: “Dal Governo molte chiacchiere e pochi fatti contro la violenza sulle donne” di Eugenia Nicolosi La Repubblica, 13 novembre 2023 In un anno di lavori l’esecutivo ha alimentato il dibattito pubblico, dando così l’illusione di un’azione che non c’è stata. L’importante non è solo che se ne parli, se la questione riguarda il fenomeno della violenza sulle donne che in Italia colpisce una donna su tre. E invece in un anno di lavori il Governo Meloni ne ha quasi esclusivamente parlato, alimentando il dibattito pubblico e dando così l’illusione di un’azione. Ma ne ha parlato in qualche modo male, per esempio invocando la castrazione chimica per gli autori di stupro, e con scarsa coerenza tra le politiche portate avanti e il linguaggio usato. Fondi tagliati del 70% - E se i fondi sulla prevenzione della violenza di genere sono stati tagliati del 70% (dagli oltre 17 milioni di euro del 2022 ai 5 milioni attuali), sono aumentati quelli in risposta alla violenza già subita. Però per l’anno in corso il Dpcm sui finanziamenti delle case rifugio non e? ancora stato firmato (a distanza di dieci mesi dall’approvazione della legge di bilancio che li ha stanziati). E nel frattempo sia Fratelli d’Italia che Lega si sono astenute dalla votazione per l’adesione dell’Unione europea alla Convenzione di Istanbul adducendo ragioni di metodo della votazione e ribadendo “la preoccupazione sulle tematiche legate al gender” e “la costante strumentalizzazione della Convenzione (...) per imporre l’agenda Lgbt”, anche se il sistema antiviolenza italiano è di fatto imperniato sulla Convenzione. Con o senza adesione formale. Prevenzione Sottocosto - A diradare il fumo sulla posizione della maggioranza rispetto alla violenza di genere è Action Aid che ha scandagliato un anno di provvedimenti e iniziative per tirare fuori il report Prevenzione Sottocosto. La miopia della politica italiana nella lotta alla violenza maschile contro le donne nel quale l’attivita? istituzionale legata alla lotta alla violenza di genere viene definita sostanzialmente “debole”. E fumosa. “Numerosi atti (legislativi e non) che alimentano il dibattito pubblico” che però non si concretizzano mai perché non trovano “accoglienza da parte del Governo”. Numero di vittime uguale da 10 anni - Tanto è vero che il sistema antiviolenza rimane inalterato nella sua inefficacia: il numero di donne uccise in famiglia o dal partner è lo stesso da 10 anni, anche quando le risorse economiche per la “Legge sul femminicidio” per il sistema antiviolenza venivano aumentate. Figuriamoci se “il cambiamento culturale tanto invocato dalle forze politiche della vecchia e della nuova legislatura e? attuabile a costo zero”, attacca Action Aid. Le autrici del report sono Rossella Silvestre e Isabella Orfano, esperte diritti delle donne per Action Aid Italia: “Il Governo Meloni adotta politiche antiviolenza che agiscono in risposta al fenomeno ma non sulla prevenzione - sottolineano - anche il ddl Roccella (attualmente in commissione Giustizia alla Camera) rafforza il sistema punitivo ma non è una politica di prevenzione. E però la violenza è il frutto di modelli sociali che si possono scardinare solo con azioni di prevenzione: ovvero con interventi di natura culturale che modificano la percezione della popolazione. “Che ci piaccia o no il problema è il patriarcato”, dicono le esperte. I numeri: 48 progetti di legge, solo 13 con copertura finanziaria - Ma andiamo ai numeri. Nel corso della XIX legislatura le forze politiche hanno depositato in Parlamento 48 progetti di legge con delle disposizioni per prevenire e contrastare la violenza maschile contro le donne ma solo 13 prevedono una copertura finanziaria. Per esempio l’estensione del congedo indennizzato, incentivi alle assunzioni e il finanziamento del reddito di liberta? che dopo una stangata iniziale diventerà strutturale. Per i rimanenti progetti non e? previsto invece alcun esborso da parte della finanza pubblica fatta eccezione per un disegno di legge in materia di molestie sui luoghi di lavoro. E le norme proposte sono, ancora, più di natura punitiva (37%) che riguardanti la protezione (27%), la prevenzione (20%) e le azioni di sistema (16%). Solo tre disegni diventati legge - E solo tre disegni sono diventati legge. Il primo è l’aumento delle risorse per le strutture di accoglienza (+7 milioni a decorrere dal 2024) e il Piano antiviolenza (+10 milioni a decorrere dal 2023) e il rifinanziamento del reddito di libertà per l’anno 2023 (1,8 milioni). Il secondo è l’accesso agevolato all’Assegno di inclusione: dal primo gennaio 2024 le donne vittime di violenza potranno accedere anche alla misura nazionale di contrasto alla povertà senza sottostare agli obblighi di attivazione. Ma non superiamo i 500 euro al mese: “Una quota insufficiente per rispondere ai bisogni primari e che non tiene conto del costo della vita dei singoli territori. È invece urgente che le istituzioni garantiscano alle donne accesso ai loro diritti socioeconomici e anche di reinserimento lavorativo, di mantenimento dell’occupazione e, soprattutto, forniscano soluzioni abitative sostenibili e sicure”. Modifiche al codice di procedura penale - Infine il terzo: le modifiche al codice di procedura penale in materia di avocazione delle indagini. La prevenzione di cui l’attuale Governo e? promotore riguarda allora la prevenzione sì, ma solo di casi di recidiva. E in seconda battuta si occupa della protezione di donne che però la violenza l’hanno già subita. Cioè quando è tardi. E si tratta certamente di iniziative importanti ma - sempre in base alla Convenzione di Istanbul - gli Stati hanno l’obbligo di adottare norme e misure per promuovere cambiamenti sociali e culturali che abbattano pregiudizi, costumi e tradizioni. Che bonifichino il tessuto sociale per evitare che la violenza avvenga. Nel primo anno dell’attuale legislatura si registra allora un incremento, per quanto sensibile, delle risorse ma una distribuzione scomposta delle stesse che “riflette l’approccio emergenziale”. Pressoché assente, infatti, e? proprio “una strategia di prevenzione che intervenga sulla diffusa cultura patriarcale e maschilista del Paese”, si legge sul report. L’educazione culturale: “Ma è solo l’illusione di un Governo che agisce” - La stessa Premier Giorgia Meloni ha ribadito la necessita? di “un lavoro di educazione culturale” tanto che ha incaricato la ministra per le pari opportunità Eugenia Roccella e il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara di organizzare (solo nella settimana del 25 novembre) incontri nelle scuole con vittime o familiari di vittime di violenza. “Ancora una volta si tratta di una proposta di tipo estemporaneo che non incide strutturalmente sulla prevenzione del fenomeno ma crea l’illusione di un Governo che agisce”. Infatti per gli interventi di educazione e sensibilizzazione è stato stanziato solo il 5,6% rispetto al totale dei fondi antiviolenza 2020-2023. “Ma l’urgenza di intervenire sulla prevenzione primaria con azioni di impatto e lunga durata è evidenziato anche dai dati mondiali del Gender Social Norm Index delle Nazioni Unite”, sottolinea Action Aid. Stereotipi e credenze che danno vita alle diseguaglianze di genere - L’indice, che misura stereotipi e credenze che danno vita alle diseguaglianze di genere e quindi agli episodi di violenza, registra che il 61.58% della popolazione italiana ha pregiudizi contro le donne e il 45% ha convinzioni che giustificano la violenza fisica, sessuale e psicologica da parte del partner. “Solo un lavoro culturale che contrasta le consuetudini e i modelli di violenza su donne e ragazze può invertire la rotta”. E non aiuta che l’altra componente della maggioranza alimenti una narrazione pubblica che poco ha a che fare con le reali cause della violenza contro le donne: infatti la Lega è arrivata a proporre, attraverso il ministro Matteo Salvini, la castrazione chimica per i casi più gravi di recidiva per gli autori di violenza, uomini che il ministro definisce “dei malati”. Lo stupratore “malato” e la questione che riguarda solo le donne - Ma definire malato uno stupratore è un controproducente non sense: “Non sono malati, sono uomini imbevuti di una cultura patriarcale millenaria. La stessa che fa credere al Governo che non servono fondi per la prevenzione”, spiega ancora Orfano. L’attività legislativa del Parlamento in materia di politiche antiviolenza non si e? esaurita però nella presentazione di progetti di legge ma ha visto le forze politiche depositare ben 166 emendamenti (119 alla Camera e 47 al Senato) di cui però solo 19 sono stati approvati. E secondo Action Aid è stata l’opposizione a lavorare di più con 198 proposte normative e 117 atti non legislativi presentati alla Camera e al Senato: la forza più attiva è stata il Partito Democratico, seguita dal Movimento 5 Stelle e da Alleanza Verde e Sinistra. Ma Action Aid rileva curiosamente anche che a differenza di altri Paesi in Italia il tema rimane appannaggio delle parlamentari - quasi sempre prime firmatarie delle proposte - “come se la violenza maschile fosse una questione che riguarda solo le donne, dentro e fuori le aule istituzionali” e sottolinea che i percorsi formativi dovrebbero coinvolgere tutte le persone presenti in Parlamento. Milano. Morto in carcere il boss palermitano Vincenzo Galatolo ansa.it, 13 novembre 2023 È morto ieri sera nel carcere Opera di Milano il boss palermitano Vincenzo Galatolo. Recuso al 416 bis da molti anni, il capomafia dell’Arenella era malato terminale per un tumore ai polmoni e al cervello. Il suo avvocato aveva presentato istanza di scarcerazione, viste le sue gravi condizioni di salute, ma era stata rigettata. A giugno era diventata definitiva la sua condanna a 30 anni per la strage di Pizzolungo del 1985 costata la vita a Barbara Izzo e ai suoi figli gemelli, Salvatore e Giuseppe. L’obiettivo era il giudice Carlo Palermo. Vincenzo Galatolo, boss dell’Arenella, è morto in carcere, a Milano Opera, dove era rinchiuso da decenni al 41 bis. Aveva 81 anni e il suo nome è legato ai peggiori crimini mafiosi. Per ultimo, pochi mesi fa, la Cassazione ha confermato la sua condanna a trent’anni per i per la strage di Pizzolungo, ad Erice, nel Trapanese. La mafia, il 2 luglio 1985, tentò di assassinare il magistrato Carlo Palermo. Nell’attentato rimasero uccisi Barbara Rizzo e i suoi bimbi, Giuseppe e Salvatore Asta, che transitavano in auto nel momento dell’esplosione. Torino. Formazione alla robotica per i detenuti in uscita Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2023 Le Stem e la formazione 4.0 entrano in carcere. È partito a luglio (e si concluderà a dicembre), presso la casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, un progetto che introduce i detenuti “dimittendi”, cioè con fine pena residuo non superiore ai due anni, alle discipline Stem (in particolare matematica, robotica e programmazione), all’uso e alla programmazione di robot industriali, al coding e alla saldatura robotizzata. L’iniziativa - che ha come capofila la Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri ed è finanziato dal Comune di Torino - si avvale come partner tecnico di Comau Academy, che ha fornito un “e.DO Learning Center” e i pacchetti didattici per la formazione in aula, oltre a curare la preparazione dei docenti. In un’ottica che Ezio Fregnan, direttore della Comau Academy, spiega così: “Per noi è molto importante far parte di un ecosistema formativo che unisce il mondo della scuola, delle aziende e le istituzioni, permettendo a Comau di contribuire alla crescita di competenze sul territorio locale, per creare nuove opportunità sociali e di reinserimento professionale”. I partecipanti vengono accompagnati in un percorso di attivazione delle “competenze di cittadinanza” e delle soft skills utili al reinserimento sociale e lavorativo. Firenze. Detenuti a lezione per diventare ristoratori di Andrea Guida firenzetoday.it, 13 novembre 2023 Il corso è orientato ai detenuti che sono a fine pena o che hanno commesso reati minori. Ripartire dopo un periodo passato in galera non è mai semplice. Il momento più difficile è sicuramente quello del reinserimento nel mondo del lavoro. Per questo motivo l’Università di Firenze ha deciso di finanziare un corso professionale per i detenuti a fine pena con l’obiettivo di dare a queste persone una seconda possibilità. A dirigere il corso è Pierluigi Madeo, titolare e chef del gruppo Pizzaman. Il corso ha una durata di 120 ore e si divide tra teoria e pratica. Il fine è insegnare ai carcerati i segreti per diventare pizzaioli. Non solo. Una parte del percorso, curata dal docente Mattia Rossini, è orientata anche sulla comunicazione e sul marketing per coloro che hanno l’obiettivo di diventare ristoratori. “Il corso è rivolto ai detenuti che sono a fine pena o che hanno commesso reati minori - racconta Pierluigi Madeo -. Viene svolto nel laboratorio del carcere di Solliccianino, che dispone di un forno a legna. A fine corso si fornisce anche la possibilità di fare uno stage presso il ristorante”. Una grande opportunità che permette ai detenuti di lasciare l’istituto penitenziario con in tasca una buona possibilità di lavoro. Il corso è rivolto a 4/5 persone, che verranno scelte dagli educatori tra coloro che si sono comportati bene durante il percorso della riabilitazione carceraria. “ L’età media va dai 25 ai 35 anni - aggiunge Madeo -. Come tutti avevo dei pregiudizi all’inizio, ma dopo aver frequentato queste persone mi sono chiesto il perché si trovassero all’interno di un carcere. Ho trovato persone brave, che hanno da raccontare tanta vita e che hanno voglia di rimettersi in gioco per recuperare il tempo perso”. Tra le fredde celle del carcere, Pierluigi racconta di come là dentro ci siano persone che nonostante tutto continuano a sognare e pensare a progetti di vita a lungo termine. “Mi ha colpito la storia di un allievo in particolare. Prima del carcere faceva il carpentiere. Con questo corso mi ha raccontato che il suo sogno adesso è tornare al suo paese di origine, dalla sua famiglia, e aprire una pizzeria tutta sua”. Un’esperienza gratificante non solo per i carcerati, ma anche per lo stesso Pierluigi, che scegliendo di mettersi in gioco in un contesto diverso, ha arricchito il proprio bagaglio dal punto di vista umano. “Inizialmente mi sembrava strano passare dalle scuole al carcere. Mi sono ricreduto. Ho capito quanto sia importante dare una seconda chance nella vita, mi sento più ricco dal punto di vista personale. Non vedo l’ora di finire il primo corso e iniziarne un altro per conoscere altre storie di vita”. Modena. Detenuti-attori interpretano il “Giulio Cesare” di Shakespeare ansa.it, 13 novembre 2023 Dal 16 novembre al Teatro delle Passioni, dal 26 l’Amleto. La compagnia modenese Teatro dei Venti, diretta da Stefano Tè, che da quasi vent’anni porta il teatro all’interno delle carceri con percorsi creativi appositamente pensati per detenuti e detenute, torna in scena al Nuovo Teatro delle Passioni di Modena con due spettacoli coprodotti con Emilia Romagna Teatro, “Giulio Cesare” e “Amleto”. Realizzati insieme agli attori della casa circondariale di Modena e della casa di reclusione di Castelfranco Emilia, il primo si potrà vedere dal 16 al 19 novembre per la prima volta al di fuori delle strutture detentive; Amleto sarà in scena invece in prima assoluta dal 23 al 26 novembre. I due lavori, insieme al podcast “Macbeth alla radio” costruito con le voci degli attori e delle attrici degli istituti penitenziari di Modena e Castelfranco, compongono la trilogia su William Shakespeare sviluppata durante il biennio 2022/23, banco di prova del progetto ‘Ahos - All Hands On Stage’, cofinanziato dalla comunità europea per la professionalizzazione dei detenuti in diversi ambiti lavorativi legati al teatro (tecnici, macchinisti, scenografi). La trilogia shakespeariana rientra nel triennio di attività del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna. Con l’avvio del progetto è stato firmato un protocollo d’intesa sull’attività di formazione, professionalizzazione e inserimento lavorativo della popolazione detenuta nell’ambito dei mestieri del teatro, sottoscritto dalle direzioni delle carceri di Modena e Castelfranco Emilia, da Emilia Romagna Teatro Fondazione, dal Teatro Comunale di Modena, da Ater Fondazione e da Teatro dei Venti. Primo capitolo della trilogia shakespeariana di Teatro dei Venti, “Giulio Cesare” ha esordito nel dicembre 2022 all’interno del carcere di Modena partendo da riflessioni sull’uomo e sulla natura umana, sul tradimento e sulla brama di potere, ma anche sul desiderio di vendetta. Il testo di Shakespeare è stato adattato per evidenziare i nuclei tematici fondamentali, arricchiti dalla musica di Irida Gjergij. Protagonisti sono i corpi e le voci degli interpreti che fanno risuonare chiara e potente la parola shakespeariana. “Con l’educazione si può cambiare il mondo e noi ve lo dimostreremo” di Nadia Ferrigo La Stampa, 13 novembre 2023 Il Mig lancia il primo Osservatorio italiano della Gentilezza: “Trattare bene il prossimo non è un plus relazionale, ma un diritto. E fa bene al Pil”. Quello che ruba il posto in fila alla cassa, un vicino di casa che non ricambia il saluto o l’automobilista che si incolla al clacson per conquistare una manciata di secondi. Per rovesciare l’umore bastano uno sgarbo o un’attenzione mancata, come a volte è semplice ritrovare un soffio di fiducia nel prossimo se ci cede il passo o sfodera un sorridente “buongiorno”. Peccato che ricordiamo molto bene gli sgarbi subiti, ma poco e nulla le gentilezze mancate. È sempre più facile immedesimarsi nelle vittime che nei carnefici, così troppo poco spesso pensiamo che sfoderare un sorriso e un saluto convinto sia un dovere di tutti noi. Almeno, di tutti quelli che vogliono vivere in un mondo più giusto. Così la pensa e la spiega il Movimento italiano per la gentilezza, associazione no profit fondata nel 2001 su quattro linee guida - Sanità, Giustizia, Urbanità Sostenibile ed Uguaglianza Globale - e collegato al World Kindness Movement di Tokyo, movimento riconosciuto dalle Nazioni Unite e che ha ispirato la Giornata Mondiale della Gentilezza, che nel 2023 cade il 13 novembre. “Siamo abituati a pensare alla gentilezza come un elemento accessorio, un plus relazionale, in realtà dovremmo rivendicarne il diritto - spiega Natalia Re, presidente del Movimento che ha per ambasciatori l’attore Gaetano Aronica, e la scrittrice Stefania Auci - nel concetto di gentilezza, infatti, risiedono le basi del vivere comune, il rispetto dell’altro, delle differenze e delle leggi dello Stato, la gentilezza è lo strumento che ci aiuta a vivere e interagire con il prossimo in maniera virtuosa”. Per sedurre più persone possibili con l’antica arte del buongiorno e della buonasera, il Movimento annuncia la creazione del primo Osservatorio italiano della gentilezza e del comportamento, con il compito di “analizzare gli effetti reali della gentilezza sulla società contemporanea”. “Con il nostro progetto vogliamo dare ai decisori e alle amministrazioni dati tangibili che possano supportarli nelle scelte quotidiane” spiega Re, che con il comitato scientifico in costruzione diretto dal dottor Salvino Marcello Vitaliti, direttore dell’Unità terapia intensiva neonatale dell’Arnas Civico di Palermo, ha già messo a punto una tabella di marcia. La prima indagine si concentrerà sullo studio della gentilezza in relazione all’aumento del Pil, prevedendo in che modo un ecosistema più gentile può influenzare la generazione di ricchezza di un Paese. A questa si affiancherà uno studio sul mondo delle carceri, in particolare sul tema della riabilitazione e al reinserimento dei detenuti. Tra i progetti sperimentali portati avanti dal Mig c’è ad esempio “La scuola di emozione” sviluppata con l’Osservatorio Antigone nel carcere Pagliarelli di Palermo. Esiste in Italia il diritto a morire in condizioni dignitose? di Francesca Spasiano Il Dubbio, 13 novembre 2023 La regista romana Sibilla Barbieri ha scelto di andare in Svizzera dopo il rifiuto dell’Asl e come lei sono in tanti a subire lo stesso destino. Non tutti i malati terminali sono uguali. Molto dipende dalle condizioni che li tengono in vita, ma anche dalla Regione in cui si trovano e dai mezzi di cui dispongono per scegliere come morire. Sibilla Barbieri li aveva, quei mezzi: diecimila euro per raggiungere la Svizzera e autosomministrarsi il farmaco letale in una clinica. Anche se avrebbe preferito morire a casa sua, in Italia. Ciò che la rendeva uguale a tutti gli altri malati è il diritto a stabilire quando la sofferenza vissuta sia ormai intollerabile. Per Sibilla lo era. Ciò che la distingueva, invece, è il modo in cui gli altri hanno giudicato quella stessa condizione fisica e psicologica: “per quanto attiene le sofferenze fisiche”, scrive la Commissione Aziendale istituita appositamente dalla Asl di Roma, “è di tutta evidenza che le condizioni attuali non sono coerenti con sofferenze fisiche intollerabili”. La stessa commissione ritiene “di non poter affermare di aver potuto operare una verifica positiva circa la sussistenza di sofferenze psichiche intollerabili”. Diverso il parere del comitato etico competente nel Lazio, il quale ritiene che il vissuto di sofferenza sia ampiamente documentato, e ricorda che la sofferenza “nulla ha a che vedere con il dolore”. Ma c’è di più. Perché il comitato ritiene anche che “nel caso di specie si possa configurare per la paziente una condizione di dipendenza dai farmaci che sebbene non necessari per il sostegno vitale sono utili per assicurarle una accettabile qualità di vita”. Il parere è solo “consultivo”, e risponde alla seguente domanda: la persona è tenuta in vita con mezzi di sostegno vitale? Ovvero una delle condizioni previste dalla sentenza 242 della Corte Costituzionale (la cosiddetta Antonioni/Cappato, sul caso Dj Fabo), con la quale i giudici delle leggi hanno in parte legalizzato l’accesso al suicidio assistito, quando sussistano determinate condizioni di salute: che la persona malata sia affetta da una patologia irreversibile, che sia capace di autodeterminarsi, che reputi intollerabili le sofferenze fisiche o psicologiche che la malattia determina, e infine, che sia dipendente da trattamenti di sostegno vitale. Quattro requisiti, in presenza dei quali la Consulta esclude la punibilità di chi fornisce l’aiuto alla morte volontaria, prevista dall’articolo 580 del codice penale. Secondo la Asl, Sibilla Barbieri ne aveva solo due su quattro, perché non soffriva abbastanza e non era un macchinario a tenerla in vita - anche se “poi le cose cambiano”, ha spiegato lei stessa respirando attraverso un tubicino. Il comitato etico offriva una lettura secondo la quale per sostegno vitale non debba intendersi esclusivamente la dipendenza fisica da uno strumento o un macchinario (ventilazione, idratazione o nutrizione artificiale, e così via). Ma l’azienda sanitaria, contro la quale la famiglia ha presentato due esposti, non vi ha aderito. E così l’attrice e regista romana di 58 anni, malata oncologica da dieci anni, ha deciso di andare in Svizzera, dove è morta il 31 ottobre. L’hanno accompagnata suo figlio Vittorio Parpaglioni e Marco Perduca dell’Associazione Luca Coscioni, che poco dopo si sono autodenunciati alla questura di Roma insieme a Marco Cappato. Rischiano fino a 12 anni di carcere, sempre che un giudice non decida che l’aiuto fornito fosse lecito. In mancanza di una legge che regoli il fine vita, l’esito di questo caso e di ogni altro dipende dalla lettura che ogni tribunale fa della sentenza 242. Il destino di Sibilla e di molti altri dipende sostanzialmente dall’interpretazione di cosa sia un trattamento di sostegno vitale, inteso in senso più ampio o più restrittivo. A condividere la sua sorte sono i pazienti oncologici che spesso hanno bisogno di molte cose per vivere - una terapia, un farmaco, un’assistenza costante - ma non di un macchinario al quale staccare la spina. L’immagine cui spesso si ricorre è evocativa, ma di certo non esaurisce le necessità di cui un malato ha bisogno per sopravvivere. O per vivere con la dignità che pretende. Massimiliano, per esempio, dipendeva completamente dagli altri: viveva in Toscana, era malato di sclerosi multipla e le sue condizioni di vita gli erano divenute insopportabili. Ma siccome non aveva la possibilità di fare diversamente, ha scelto di morire in Svizzera, accedendo al suicidio assistito. Elena aveva ricevuto una diagnosi di microcitoma polmonare, con un’aspettativa di vita breve e dolorosa. Prima di lasciare il Veneto, per morire all’estero, ha spiegato: “Sono sempre stata convinta che ogni persona debba decidere sulla propria vita e debba farlo anche sulla propria fine, senza costrizioni, senza imposizioni, liberamente, e credo di averlo fatto, dopo averci pensato parecchio, mettendo anche in atto convinzioni che avevo anche prima della malattia. Avrei sicuramente preferito finire la mia vita nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia e la mano di mio marito. Purtroppo questo non è stato possibile e, quindi, ho dovuto venire qui da sola”. Paola, 89 anni, ha lasciato la sua casa di Bologna per porre fine alla sofferenza causata da una malattia irreversibile, il morbo di Parkinson, che le impediva di muoversi e parlare. Ha ottenuto la morte volontaria assistita in Svizzera. Romano aveva 82 anni, era affetto da una forma di Parkinsonismo atipico che lo costringeva a letto. Ex giornalista e pubblicitario, non riusciva più a leggere o scrivere. Si è rivolto a Marco Cappato per evitare che i suoi familiari subissero conseguenze legali. Dalla Lombardia è arrivato in Svizzera. Come tutti gli altri non era tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, e come tutti gli altri ha dovuto sostenere il viaggio. Che in Italia è reso possibile dai “disobbedienti civili” dell’Associazione Soccorso Civile, che gestiscono la trasferta e ne affrontano le conseguenze legali. Diverso è il caso di chi “soddisfa” i requisiti della Consulta e ha ottenuto il via libera al suicidio assistito, come Federico Carboni, primo in Italia. Altri aspettano che le loro condizioni siano verificate, secondo tempi e procedure indefinite e variabili. Dipende dalla Asl di competenza, e anche dalla volontà della Regione di dotarsi di una legge propria. Come il Veneto, che ora si muove in questa direzione. Mentre dalle procure e dai tribunali emergono orientamenti che tendono sempre più ad allargare l’interpretazione dei criteri stabiliti dalla Consulta. Il legislatore? Sappiamo che il monito della Consulta è caduto nel vuoto. E sappiamo anche che l’ultimo tentativo di approvare un testo, nella scorsa legislatura, è naufragato dopo il sì alla Camera. Il referendum sull’eutanasia legale promosso nel 2022, che aveva raccolto oltre un milione di firme, è stato bocciato dalla Consulta. C’è un diritto alla vita che va costituzionalmente tutelato - ragionano i giudici. Ma c’è un diritto, quando si ha il diritto, a non essere discriminati sulla base di quanto appare terribile la propria malattia? Suicidio assistito, le ragioni del sì. Sostengo le scelte di fine vita perché difendo la libertà di Filomena Gallo* Il Dubbio, 13 novembre 2023 Ognuno è diverso ed è per questo che è giusto garantirci la possibilità di decidere se curarci, come e fino a quando. Ogni volta che qualcuno mi chiede perché sono a favore dell’eutanasia e del suicidio assistito, spiego che non sono a favore dell’eutanasia e del suicidio assistito ma della libertà e della possibilità di scegliere. Quasi ogni volta aggiungo che questa libertà e che questa possibilità di scegliere sono garantite dalla Costituzione italiana, principalmente dagli articoli 2, 3, 13 e 32 - ma dall’intera carta costituzionale che ruota intorno ai diritti fondamentali della persona. La nostra libertà è un bene prezioso e di cui dobbiamo continuamente prenderci cura perché, come per tutti gli altri diritti, non è una conquista garantita per sempre. Dopo la Costituzione, ci sono alcune leggi che hanno rinforzato la nostra libertà di decidere se e come curarci e la disponibilità del bene vita. Penso alla legge sulle cure palliative e sulla terapia del dolore e a quella sulle disposizioni anticipate di trattamento, che insiste sulla necessità di un consenso, sulla possibilità di negarlo e sulla legittimità di interrompere qualsiasi trattamento o macchinario. Il consenso e la libertà di cominciare un trattamento o un macchinario comprendevano già la possibilità di non darlo e di smettere, ma è comunque un bene che ci sia stata una dichiarazione esplicita (ogni persona ha “il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento”, si legge all’articolo 1 della legge 219 del 2017 Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento). La Corte costituzionale, due anni più tardi, ha dichiarato che una parte dell’articolo 580 è incostituzionale, cioè quando non esclude la punibilità dell’aiuto al suicidio in determinate condizioni (la decisione deve essere libera e autonoma, la persona deve avere una malattia irreversibile e avere sofferenze psicologiche o fisiche che lei ritiene intollerabili, deve essere tenuta in vita da un trattamenti di sostegno vitale). Un altro pezzo di libertà, cui siamo arrivati grazie alla disobbedienza di Fabiano Antoniani e di Marco Cappato, andati in Svizzera perché qui c’era ancora quel resto di un codice normativo poco liberale e precedente alla nostra Costituzione - il Codice Rocco dell’articolo sull’aiuto o istigazione al suicidio che risale al 1930. Questa disobbedienza e le altre che sono seguite - Elena, Romano, Massimiliano, Paola - hanno lo scopo di condannare quel conflitto tra vecchie leggi e i principi costituzionali. Servono anche a rispondere alla immobilità della politica e del legislatore e a garantire più libertà. Ripenso spesso alle parole dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in risposta a Piergiorgio Welby: “Il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabile chiarimento”. Dal 2006, dall’anno della sua morte, non c’è stato che silenzio ed elusione di ogni responsabile chiarimento. E qualche disegno di legge che avrebbe peggiorato le condizioni delle nostre scelte. Una cattiva legge non serve, ovviamente. E nel frattempo le persone si ammalano, soffrono, non si vedono riconosciuti i propri diritti. L’ultimo caso è quello di Sibilla Barbieri, costretta a prendere un aereo, accompagnata dal figlio Vittorio e da Marco Perduca, per andare anche lei in Svizzera e per poter interrompere una vita diventata per lei diventata intollerabile. Voglio chiarire che la scelta di Barbieri e Antoniani - così come la scelta di qualsiasi altra persona non è un giudizio sugli altri. Siamo fatti diversamente ed è anche per questo che è giusto garantirci la possibilità di decidere, ognuno per sé, se curarci, come curarci e fino a quando. Nelle stesse condizioni cliniche si può ovviamente scegliere cose diverse e ogni scelta dovrebbe essere riconosciuta. Dal diritto di accedere alle cure e alle diagnosi alla possibilità di contenere i sintomi dolorosi, dalla sedazione profonda al suicidio assistito - e fino alla eutanasia vera e propria. Sono tutte declinazioni della nostra libertà e sono tutte scelte legittime, una volta stabilite le condizioni del suo esercizio. Nella immobilità politica, come Associazione Luca Coscioni abbiamo scritto e promosso una proposta di legge regionale che si chiama “Liberi Subito” e che serve a rimediare a un limite della sentenza 242, non avere cioè tempi e procedure certi per la verifica delle condizioni previste dalla Corte. Non avere un limite temporale può significare vanificare quel diritto, perché tra ritardi e attese le persone decidono di organizzarsi diversamente oppure muoiono mentre aspettano - penso sempre a Daniela, una donna di 37 anni che è morta in attesa dell’udienza in tribunale dopo il diniego da parte della sua ASL. Mi auguro che nessuno più debba aspettare per avere una risposta, che nessuno debba soffrire per più tempo di quanto è capace di tollerare. Mi auguro insomma che i nostri diritti siano presi sul serio e protetti. *Avvocata e segretaria nazionale dell’Associazione Luca Coscioni Suicidio assistito, le ragioni del no. Il “patto mortale” tra toghe e camici che può annullare la volontà di chi desidera vivere di Francesco Mario Agnoli* Il Dubbio, 13 novembre 2023 A distanza di pochi giorni è morta per “eutanasia” l’attrice e regista italiana Sibilla Barbieri, in Svizzera, e, in Inghilterra, la piccola (8 mesi) Indi Gregory rischia la stessa sorte. Identico il risultato finale, ma diverso il percorso. Indi sarebbe l’ultima di una serie non breve di bambini (i casi più noti in Italia sono quelli di Cherlie Gard e Alfie Evans), che, su impulso dei medici del servizio sanitario pubblico e per decisione dei giudici (la cosiddetta Alta Corte) vengono soppressi nel loro “best interest”, nonostante l’opposizione dei genitori, che dovrebbero averne la rappresentanza legale. Come già era accaduto per Alfie, il governo italiano ha tentato di salvare Indi concedendole la cittadinanza italiana e offrendole ricovero in un nostro ospedale. Interventi a priori inadeguati, dopo il caso Alfie, a salvarle la vita, ma comunque non inutili, perché segnale di una implicita, ma ugualmente chiara, presa di distanza dal sistema inglese. La più che cinquantenne Barbieri, è, a sua volta, l’ultima di una fila, che sta cominciando ad allungarsi, di cittadini italiani che si recano in Svizzera, perché in Italia li si è ritenuti non in possesso di tutti i requisiti per avvalersi del suicidio assistito in base alla sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019, dichiarativa della incostituzionalità dell’art. 580 C.P. (“Istigazione o aiuto al suicidio”) nella parte in cui non esclude il caso di persone tenute in vita da trattamenti di sostegno vitale e affette da patologie irreversibili, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche reputate intollerabili, ma pienamente capaci di prendere decisioni libere e consapevoli. In particolare per la Barbieri mancava la “dipendenza da trattamento di sostegno vitale”. Differenze non da poco dal momento che a scegliere il proprio “best interest” è stata la stessa Barbieri e non un giudice che pretende di riuscire ad individuare meglio dei genitori, non è chiaro in base a quali criteri, che non siano il risparmio di impegno professionale e spese per gli ospedali e il servizio sanitario, un migliore “interesse” che, se riferito non al denaro, ma a un essere umano, ha, già nel nome, natura non oggettiva, ma squisitamente soggettiva. Sistemi diversi e tuttavia entrambi inquadrabili nel sistema conosciuto come “The Overton Window”, che individua i meccanismi di persuasione e di manipolazione delle masse, che consentono di trasformare un’idea da completamente inaccettabile per la società a pacificamente accettata ed infine legalizzata. Fra questi meccanismi leggi e sentenze hanno un peso decisivo. In Italia il primo passo può essere individuato nel decreto della Corte di Appello di Milano, che nel luglio 2008 autorizzò la soppressione, mediante interruzione dell’alimentazione artificiale, di Eluana Englaro. I successivi sono dati dalla legge n. 219/2017 (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”) e dalla citata sentenza della Corte costituzionale. Attualmente mirano allo stesso fine le reiterate autodenunce dei vari Marco Cappato per l’effetto psicologico indubbiamente esercitato sull’opinione pubblica dagli ormai garantiti provvedimenti di archiviazione grazie al ripetuto messaggio di insussistenza del reato che trasmettono. I meccanismi della “finestra di Overton” sono ad uno stadio molto più avanzato in Inghilterra, dove nel mese di settembre 2023 una paziente di 19 anni designata come “ST”, in terapia intensiva con necessità di ventilazione e di un tubo di alimentazione, è stata “eutanizzata” nonostante avesse ripetutamente espresso la propria volontà di vivere e di essere curata e manifestato a tal fine l’intenzione di farsi ricoverare in un istituto canadese. La capacità di intendere e volere di ST era stata garantita dalla testimonianza di due psichiatri, ma l’Alta Corte ha superato l’ostacolo con un tortuoso ragionamento, di non facile comprensione, ma che in sostanza fa coincidere la prova della incapacità di intendere e di volere con il rifiuto dell’eutanasia. Difatti - argomenta l’Alta Corte - la paziente, ostinandosi a voler vivere nonostante il responso della scienza medica sull’impossibilità di guarigione, ha dimostrato di non essere in grado di comprendere il senso delle informazioni ricevute e, quindi, di individuare il suo “best interest”. Di conseguenza, si è provveduto a garantirle l’assistenza di un curatore in grado di prendere al suo posto la giusta decisione. In questo caso il messaggio trasmesso dovrebbe riguardare soprattutto chi si ritiene al sicuro dalla cultura e dalla legislazione eutanasica, perché deciso a non prestare mai il proprio consenso alla “dolce morte”. La sorte di ST dimostra che l’alleanza fra medici e giudici può rendere l’eutanasia obbligatoria, almeno per chi commetta l’errore (o non abbia modo di fare altrimenti) di rivolgersi alla Sanità pubblica (è verosimile che la privata non abbia fretta di sbarazzarsi di clienti che, quale che sia la prognosi finale, continuano a pagare). *Giurista Avrei voluto riportare a casa Massimiliano. Ma scegliere di morire era un suo diritto di Chiara Lalli Il Dubbio, 13 novembre 2023 Aveva la sclerosi multipla da alcuni anni e non voleva più vivere in quel modo. è dovuto andare in svizzera perché non aveva un trattamento di sostegno vitale, uno dei quattro requisiti previsti della consulta. ora il Gip dirà se accompagnarlo è stato un reato. Il prossimo 23 novembre ci sarà una udienza in Camera di consiglio riguardo al mio procedimento penale per il reato 580 del codice penale, istigazione o aiuto al suicidio, commesso lo scorso 8 dicembre. Quasi un anno fa ho accompagnato Massimiliano in Svizzera. Massimiliano aveva la sclerosi multipla da alcuni anni e non voleva più vivere in quel modo, quasi immobile e dipendente dagli altri per qualsiasi cosa, anche per aprire una porta o per bere un bicchiere d’acqua; la mattina di quell’8 dicembre ha bevuto un farmaco che lo ha fatto addormentare e poi morire. Il 9 dicembre mi sono denunciata alla stazione dei carabinieri di Santa Maria Novella a Firenze. La decisione del giudice per le indagini preliminari del tribunale di Firenze risponde alla richiesta di archiviazione del pubblico ministero di qualche giorno prima e ha lo scopo di “verificare la sussistenza dei presupposti della richiesta”. La richiesta di archiviazione - La richiesta di archiviazione ricostruisce i fatti. Nel 2017 a Massimiliano viene diagnosticata la sclerosi multipla; nel 2021 le sue condizioni peggiorano e nel 2022 non riesce più a camminare, fatica a stare in piedi e la muscolatura volontaria è compromessa. Muove solo il braccio destro. Secondo quanto racconta il padre, Massimiliano pensa alla morte volontaria per la prima volta nel 2021. Cerca informazioni, è sempre più convinto. Scrive alla Dignitas, un’associazione fondata nel 1998 e che vuole garantire la scelta alle persone, che accoglie la sua richiesta e decide anche di coprire le spese perché Massimiliano non può farlo. Questo mi fa pensare a Sibilla Barbieri, a quando dice che ha potuto permettersi di pagare, ma gli altri come fanno? Non tutti avrebbero la fortuna di Massimiliano - e lo so che la parola “fortuna” in queste circostanze può sembrare bizzarra o sconveniente, ma è più bizzarro e più sconveniente permettere che siano i soldi a garantire un diritto così fondamentale. In quei mesi Massimiliano scrive anche a Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica. Il suo intervento, così come il mio, è successivo alla decisione di Massimiliano. Il suo intervento, così come il mio, è organizzativo. È la condizione materiale e necessaria per permettere a Massimiliano di arrivare in Svizzera e di esercitare la sua scelta. E così la mattina del 6 dicembre ho preso un treno da Roma fino a Cecina e ho aspettato il van guidato da Felicetta Maltese, l’altra persona che ha partecipato alla disobbedienza civile. Massimiliano era dietro, seduto su una seggioletta di fortuna e incastrato nella parte posteriore e vestito troppo leggero (la seggioletta e gli abiti non abbastanza pesanti sono miei ricordi). Quante ore ci vogliono per arrivare in Svizzera? Quanto può essere scomodo un viaggio in quelle condizioni? Il 7 dicembre Massimiliano ha incontrato il medico che ha verificato ancora una volta i requisiti e il perdurare della volontà di morire. Succederà molte altre volte: il giorno dopo per telefono (sempre il medico) e poi la mattina dell’8 nella piccola clinica svizzera. Sei sicuro? Vuoi cambiare idea? Ti riportiamo in Italia? (Sono sempre io e non il pubblico ministero; sono sempre io che gliel’ho chiesto per due giorni, e ogni volta ho ricevuto la stessa risposta: non ne posso più; ogni tanto sorrideva, ogni tanto si spazientiva forse perché noi che siamo ancora capaci di muoverci e che non dobbiamo pianificare il più stupido dei movimenti non possiamo capire davvero com’è vivere in quel modo). Massimiliano era deciso e ha bevuto il farmaco quella mattina dell’8 dicembre. Siccome il possibile reato è quello previsto dall’articolo 580 del codice penale, prima di procedere con la ricostruzione del pubblico ministero è utile copiarlo: “Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima”. Però c’è una novità da alcuni anni. “La Corte Costituzionale con sentenza 25 settembre - 22 novembre 2019, n. 242 (in G.U. 1ª s.s. 27/11/2019, n. 48) ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) - ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione -, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”“. Massimiliano aveva tre requisiti su quattro perché non era tenuto “in vita da trattamenti di sostegno vitale” (poi ci torno) e quindi era andato in Svizzera. Torniamo alla richiesta di archiviazione. L’istigazione viene esclusa e quindi rimane l’aiuto. La prima ragione per l’inapplicabilità (e la non punibilità) è una interpretazione della nostra partecipazione come mero supporto materiale e non come una condotta “direttamente e strumentalmente” connessa al suicidio. Insomma non siamo un anello prossimo nella catena causale che finisce con la morte di Massimiliano. La seconda ragione è più interessante e ha a che fare con la 242 e la presenza dei requisiti o meglio l’assenza del requisito di sostegno vitale. Massimiliano non ce l’aveva, secondo il pubblico ministero nemmeno in un senso allargato, eppure questo non dovrebbe impedire al giudice l’applicazione della causa di non punibilità. Perché - e questa è la parte più bella della richiesta - “questo pubblico ministero ritiene che tale esclusione sia frutto di una disciplina che appare sospettabile di legittimità costituzionale sotto diversi profili”. Rispetto all’articolo 3 della Costituzione, perché “discrimina irragionevolmente tra situazioni per il resto identiche, poiché impedisce l’accesso al suicidio assistito di persone che pure presentano una malattia irreversibile e una sofferenza intollerabile”. Avere o non avere un trattamento di sostegno vitale “dipende da circostanze del tutto accidentali, legate alla variabilità delle manifestazioni patologiche nei casi concreti, senza che tale differenza rifletta un bisogno di protezione più accentuato”. E poi perché se posso decidere di non cominciare o di interrompere qualsiasi trattamento sanitario rifiutare una dipendenza da un sostegno vitale dovrebbe togliermi la possibilità di accedere al suicidio assistito? Non sarebbe paradossale accettare un trattamento solo per “chiederne la disattivazione a fini della procedura di aiuto al suicidio”? Questo requisito confligge insomma con la libertà terapeutica e con la libertà personale, con l’uguaglianza e con il diritto alla salute. Causa una ingiustificata lesione di diritti fondamentali e impone “un’unica modalità di congedo dalla vita, anche quando si rivela lenta, dolorosa e contraria alla loro concezione di dignità; circostanza tanto più vera, come detto, per chi non può procurarsi la morte semplicemente interrompendo un tratta-mento”. È irrilevante avere o non avere un certo macchinario o un certo trattamento per decidere quali diritti mi spettano. Per tutte queste ragioni il giudice dovrebbe sollevare una questione di legittimità costituzionale del requisito del sostegno vitale perché in contrasto con gli articoli 3, 13 e 32 della Costituzione. La sentenza 242 della Corte costituzionale - La 242 è una bella sentenza perché ci riconosce più libertà. La 242 è una brutta sentenza perché rischia di legare quella libertà a un requisito discriminatorio se inteso in senso restrittivo, cioè come un macchinario e non in un senso più allargato di qualsiasi trattamento che ci permette di vivere e la cui sospensione causerebbe la nostra morte. E mica solo farmaci ma pure l’assistenza di cui ha bisogno una persona che si muove poco o male o quasi più (se sei costretto a essere accompagnato ovunque e non puoi fare nulla da solo, se smetto muori - la diversità riguarda solo i tempi più lunghi rispetto, per esempio, a un respiratore meccanico). La 242 non stabilisce poi tempi e procedure certi quando una persona chiede la verifica dei requisiti per morire a casa sua, rischiando di abbandonarla in un’attesa crudele e ingiusta. Perché Massimiliano è dovuto andare in Svizzera - Perché come ho detto prima, non aveva attrezzi o respiratori. Aveva solo una malattia incurabile che lo aveva bloccato nel suo corpo e che lo costringeva a vivere come non avrebbe voluto. Io che avrei fatto? Non lo so, forse sarei andata in Svizzera anche io. Ma non lo so, magari no. E va bene così, dovrei poter scegliere e cambiare idea quante volte mi pare. Ognuno di noi dovrebbe poter scegliere - anche di non scegliere, ovviamente. Come Massimiliano, molte altre persone hanno tre requisiti su quattro e non possono e non hanno potuto scegliere. Come Massimiliano, molte persone non vogliono più vivere e dovrebbe essere un loro diritto scegliere. In fondo basterebbe prendere sul serio gli articoli cui fa riferimento il pubblico ministero nella richiesta della mia archiviazione: il 3, il 13 e il 32 della Costituzione. A Massimiliano penso spesso. Avrei voluto moltissimo riportarlo in Italia. Avrei voluto convincerlo a rimandare la sua morte. Ma la vita era la sua e se mi penso al suo posto forse avrei scelto di morire. Non lo so, quello che so è che non possiamo essere così strafottenti e presuntuosi da pensare di poter scegliere al posto degli altri. “La sentenza Cappato? Non è un gran passo in avanti: crea un non-diritto” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 13 novembre 2023 “La sentenza Cappato non rappresenta un passo avanti significativo. Pone, invece, una serie di condizioni articolate in modo da rendere di fatto impossibile, o quasi, ottenere il “permesso di morire” nel nostro Paese. E ci sarà da lavorare per superarle o adattarle”. Francesco Crisafulli, magistrato della Sezione XVIII del Tribunale di Roma (già Agente del governo davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo) parte dall’orientamento della Consulta per analizzare i delicati temi legati al fine vita e ai diritti che ne conseguono. Dottor Crisafulli, la sentenza Cappato” ha aperto qualche anno fa un varco. C’è però ancora da lavorare? C’è molto da lavorare. Mi sia consentito dire, con il massimo rispetto per la Corte costituzionale e per l’estensore della sentenza, per il quale nutro immensa stima e profonda amicizia, che in questa vicenda non ho mai condiviso il suo modo di procedere e le sue conclusioni. Sin dai tempi della tanto discussa ordinanza di rinvio, mi sono affannato a dire, l’ho detto in più di un convegno, che, al di là dei tecnicismi sui quali i costituzionalisti si sono a lungo interrogati, la Corte aveva già, sin da allora, risolto la questione, pur rimettendo formalmente ad altra udienza, a distanza di un anno, la pronuncia della sentenza vera e propria, e questo per lasciare al Parlamento il tempo di fare il suo mestiere: fare una legge sul suicidio assistito. Basterebbe, per convincersene, notare che in un punto della motivazione in diritto, e precisamente al punto 4, la Corte dice espressamente di non poter condividere, “nella sua assolutezza”, la tesi della Corte di assise d Milano che le aveva sottoposto la questione. Se questa non è un’anticipazione di giudizio. Ma c’è molto di più. A cosa si riferisce? La Corte afferma, come tante volte ha fatto, che la questione di cui è investita, per la sua complessità e per la varietà delle scelte che potrebbero legittimamente farsi nel disciplinare la materia, non può essere decisa da lei, ma appartiene alla sfera di attribuzioni del legislatore, chiamato a fare quelle scelte. In questi casi, però, la Corte dichiara la questione inammissibile. Nel caso Cappato, invece, si è riservata il potere di decidere sulla questione, ma ha lasciato al Parlamento un po’ di tempo per correre ai ripari con una legge. Cosa che, naturalmente, il Parlamento si è ben guardato dal fare. Non solo. La Corte, dopo aver affermato nettamente che la disposizione che proibisce, sanzionandolo penalmente, l’aiuto al suicidio non è contraria alla Costituzione, ammette che possono esservi situazioni limite in cui, invece, potrebbe essere consentito aiutare qualcuno a togliersi la vita. Ma individua quattro condizioni affinché ciò possa avvenire. Quali? La persona deve essere affetta da una patologia irreversibile, deve patire sofferenze fisiche o psicologiche per lei intollerabili, dev’essere tenuta in vita da mezzi di sostegno vitale e dev’essere in grado di assumere decisioni libere ed informate. Quando, poi, è uscita la sentenza n. 242 del 2019, abbiamo ritrovato esattamente le stesse quattro condizioni, la terza delle quali è davvero paradossale: perché per accedere al suicidio assistito bisogna trovarsi in una condizione (la dipendenza da sostegno vitale) che già di per sé consentirebbe al paziente di imporre al medico di sospendere il trattamento e questo è ormai un dato acquisito, sia nella giurisprudenza, sia nella stessa legge. Cioè dovrebbe trovarsi in una condizione in cui il suicidio assistito è sostanzialmente inutile, serve solo ad accelerare e rendere meno doloroso il commiato. Quindi oggi abbiamo le stesse stringenti condizioni, fortemente limitative, già enunciate un anno prima, con l’aggravante che la Corte, dimentica del suo self restraint nell’invadere il campo del legislatore, si spinge fino a tratteggiare le modalità di accertamento della sussistenza di quelle condizioni e ad individuare i soggetti abilitati a tale accertamento. Perciò, per rispondere alla sua domanda iniziale, no, la sentenza non rappresenta un passo avanti significativo. Essa, invece, pone una serie di condizioni articolate in modo da rendere di fatto impossibile, o quasi, ottenere il “permesso di morire” nel nostro Paese. E ci sarà da lavorare per superarle o adattarle. Il legislatore a questo punto non può più sottrarsi dall’intervenire? Direi proprio di no. Anzi: la Corte costituzionale gli ha fornito, su un piatto d’argento, una disciplina sufficientemente dettagliata da risolvere una serie di problemi che il Parlamento avrebbe dovuto affrontare, e al tempo stesso sufficientemente vaga da consentire di frapporre un’infinita serie di ostacoli burocratici alla richiesta di morte di un paziente; ed anche sufficientemente restrittiva da rendere molto difficile ottenere un aiuto al suicidio. Perché mai, allora, il Parlamento dovrebbe scomodarsi ad affrontare un tema così delicato e complesso, così divisivo, così legato a orientamenti personali del tutto meta-giuridici, di natura religiosa, etica, sociale, ed anche in qualche modo sentimentale, ma anche a archetipi profondamente radicati nella nostra cultura e nella nostra psiche, tutti difficilmente conciliabili con soluzioni di compromesso? Un tema molto delicato è quello della dipendenza da sostegno vitale. I giuristi ne discutono molto... Il requisito della dipendenza da sostegno vitale è quasi la sconfessione di quel poco di utile a fare un passo avanti che nella sentenza si poteva trovare, cercando molto, molto bene. In buona sostanza, l’aiuto al suicidio depenalizzato finisce col confondersi nel pacifico ed indiscusso diritto del paziente di rifiutare o di interrompere un trattamento sanitario. Cioè, si risolve nella mera possibilità di somministrare al paziente, nel momento in cui si “stacca la spina” dei farmaci che lo aiutino a non soffrire della morte, a volte lenta e comunque di per sé dolorosa, pensiamo al morire soffocati, o al morire di fame e di sete, ma che, per allargare un attimo lo sguardo, non allevia affatto il dolore delle persone care al paziente nel vederlo agonizzare, sia pur in uno stato di incoscienza, per un tempo più o meno lungo. La “sentenza Cappato” ha creato un diritto senza un obbligo. Un aspetto non di poco conto? Si è tracciata una strada poco agevole? Si è tracciata una strada per nulla agevole. Come giustamente lei dice, si è creato un diritto cui non corrisponde un obbligo: cioè un non-diritto. Diciamo che, in teoria, l’obbligo ci sarebbe pure: le strutture pubbliche sarebbero tenute, così come sono tenute ad attrezzarsi per praticare gli aborti, a predisporre i mezzi necessari per raccogliere le richieste di suicidio assistito, esaminarle, e, quando possibile, cioè molto di rado, accoglierle e dar loro soddisfazione. Ma lo fanno? Lo faranno? Senza una legge, come si stabilisce qual è lo specialista abilitato a valutare la sussistenza dei requisiti? Qual è il “reparto suicidi” dell’ospedale? Senza contare che, come per l’aborto, è fatto salvo il diritto all’obiezione di coscienza. Una cosa che ho sempre trovato un’anomalia del sistema. Migranti. L’arcivescovo di Ferrara Perego: “Ho visitato i Cpr: sono carceri, spesso a cielo aperto” ferraratoday.it, 13 novembre 2023 L’eventualità della costruzione di un Centro di permanenza per i rimpatri nella città estense continua a suscitare discussioni. Sulla questione, l’arcivescovo di Ferrara e Comacchio e presidente della Fondazione Migrantes della Cei Gian Carlo Perego ha evidenziato che “i Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) sono luoghi di trattenimento del cittadino straniero in attesa di esecuzione del provvedimento di espulsione. Quando non è possibile eseguire con immediatezza l’espulsione mediante accompagnamento alla frontiera o respingimento - a causa di situazioni transitorie che ostacolano la preparazione del rimpatrio o l’effettuazione dell’allontanamento - il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza per i rimpatri più vicino”. Monsignor Perego ha quindi aggiunto che “il trattenimento può durare fino a 180 giorni. Attualmente i Cpr in Italia sono 10 per una capienza complessiva di 1.378 posti”, evidenziando che “in tali strutture lo straniero deve essere trattenuto con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza e il pieno rispetto della sua dignità. Li ho visitati tutti: sono carceri, spesso a cielo aperto, gabbie senza le tutele delle carceri. Le persone non di rado incendiano tutto, si radicalizzano, si disperano, si autolesionano. Mediamente tre trattenuti su quattro vengono espulsi e uno è lasciato libero sul territorio nazionale, perché scaduti i termini di trattenimento”. L’arcivescovo ha dunque rivolto alcuni interrogativi: “Perché un Cpr a Ferrara? Ferrara è la provincia con meno immigrati e con meno espulsioni di tutta la Regione Emilia-Romagna. Ferrara ha già un carcere, anche per reati di mafia. Ferrara soffre economicamente più di tutte le province dell’Emilia Romagna. Ferrara non ha un porto importante sull’Adriatico. E allora perché un Cpr a Ferrara? Forse una città più in sintonia con il governo delle migrazioni di Salvini e Piantedosi? Perché sviluppare l’idea di una ‘città carcere’, luogo di reclusione, più che di inclusione, luogo di rifiuto più che di accoglienza, luogo di negazione dei diritti più che di tutela dei diritti? Forse avremmo bisogno piuttosto di luoghi aggregativi per i giovani, di un Auditorium per ospitare eventi nazionali, di altri collegi universitari, magari d’eccellenza? Forse avremmo bisogno di più case per i migranti lavoratori e le loro famiglie e i rifugiati, di progetti Sai di integrazione, per andare incontro anche alla grande richiesta di lavoratori stagionali e permanenti sul piano agricolo, di camerieri per gli alberghi della città e dei Lidi, di operai e artigiani? Forse, di fronte alle guerre in atto, non dovremmo essere una città-asilo anche per rifugiati e richiedenti asilo? Più che una città carcere il futuro di Ferrara dovrebbe essere quello di una città aperta, inclusiva, che sappia accogliere, tutelare, promuovere e integrare chi viene da un’altra città italiana o Europea e da un altro Paese del mondo: la città voluta dal grande architetto e urbanista del Dopoguerra Michelucci e sognata da Papa Francesco, la sola città che ha un futuro”. Un tema sul quale è tornato il sindaco Alan Fabbri. “Qualche giorno fa - ha ricordato il primo cittadino - il ministro Piantedosi ha comunicato alla Regione Emilia-Romagna che sulla zona dell’ex aeroporto militare della nostra città, un’area demaniale, che vedo immersa in un terreno privo di case che si estende per chilometri, esiste uno studio di fattibilità utile per valutare la possibilità di costruzione di un Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr). In un secondo momento, informalmente, ricevevo dalla Regione la lettera, e ne davo comunicazione sulla stampa, con le mie prime impressioni”. Sulla questione, Alan Fabbri ha evidenziato che “non è un centro di accoglienza come ho letto. Tutt’altro. È un luogo detentivo da cui non si può uscire liberamente, al cui interno entrano prioritariamente stranieri irregolari, considerati una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubblica, condannati, anche con sentenza non definitiva, per gravi reati, in attesa che vengano rimpatriati. Insomma un carcere, che serve a evitare la dispersione su tutto il territorio nazionale di questi soggetti, per lo più pericolosi, quando non è possibile eseguire immediatamente il rimpatrio. Sulla detenzione in struttura è bene ricordare che il recente Decreto Cutro, estende il limite di trattenimento dello straniero da 3 a 18 mesi. Forse è meglio in strada con la speranza che queste persone passino da una biblioteca, o facciano un corso di ricamo in cooperativa e si convertano improvvisamente alle buone maniere e al lavoro onesto? No, il mio e nostro approccio è molto diverso dal passato: meglio il carcere e che se ne tornino a casa”. Il sindaco di Ferrara ha commentato, inoltre, le parole dell’arcivescovo “che parla già di ‘città carcere’. Secondo me è l’esatto contrario. Sono i cittadini a sentirsi in carcere quando questi soggetti invadono strade e parchi, tessono accordi con la criminalità locale instaurando un clima di paura in città, costringendo i residenti a non poter godere più dei propri spazi in tranquillità. Le guerre con machete e le rivolte sono ancora un ricordo vivo tra i ferraresi, frutto di un’accoglienza indiscriminata e del suo relativo business, che abbiamo sempre denunciato e gradualmente abbiamo smantellato. Basti pensare alla convenzione tra Asp e Prefettura sulla gestione dell’accoglienza, immediatamente stracciata al mio arrivo, che prevedeva un ingresso fino a 1500 persone. Il Comune, infatti, aveva in gestione oltre 1000 richiedenti asilo, fino a picchi come nel 2018 di 1222 persone a seguito degli sbarchi. Oggi, per fortuna, non è più così, e il vescovo nelle parole ai quotidiani fa bene a riportarlo, perché Ferrara, fino a quando ci sarò io, non sarà mai più complice di quel sistema”. Fabbri ha aggiunto che “se mai questo studio di fattibilità dovesse portare alla costruzione di un centro per rimpatri, è chiaro che Ferrara sarà una città molto più attenzionata, con più forze dell’ordine, ma soprattutto ci consentirà prioritariamente di neutralizzare, con la reclusione, i nostri soggetti più pericolosi, senza dover attendere la chiamata di altri Cpr in giro per l’Italia. Per questi motivi, mentre riesco a comprendere le polemiche del Partito Democratico sul Cpr come luoghi non sufficientemente accoglienti, sicuramente diversi dagli hotel con piscina, dall’elargizione di buoni spesa e pocket money a cui avevano abituato queste persone, non riesco a comprenderlo quando ricordano le barricate. Le barricate erano fatte, d’intesa con i cittadini, per respingere migranti che da lì a breve sarebbero diventati vicini di casa, con tutti i problemi annessi e connessi. Non chiusi in un carcere a chilometri dalle zone urbanizzate”. Il primo cittadino ha sottolineato “che è bello parlare di accoglienza, di umanità, di diritti, come il nostro vescovo, ma solo fino a quando queste persone restano lontane dal proprio percorso quotidiano. Infatti in Curia non so quanta di questa gente ci vive o ci abbia vissuto con tutte le crisi umanitarie che abbiamo visto in questi anni. Gli consiglio di fare meno lettere ai giornali e di impiegare quel tempo a spalancare le porte, quelle di casa sua, non solo a Cristo ma anche a queste persone e poi ne potremo riparlare. Ferrara, come sappiamo tutti, ha vissuto anni difficili con i migranti, con un sistema di accoglienza che ha fatto acqua da tutte le parti, con persone abbandonate a se stesse, nel cuore della città, creando gang criminali ben organizzate fino alla costituzione del quartier generale della mafia nigeriana in Italia. Strascichi che subiamo ancora oggi nonostante il potenziamento della sicurezza”, concludendo che “al momento comunque non abbiamo altre notizie e in ogni caso il Ministro Piantedosi ci ha garantito che nel caso si dovesse procedere in questa direzione, sarà presente per rassicurare i cittadini ed affrontare insieme ogni possibile problema”. Un argomento che ha intercettato l’intervento anche di Anna Zonari, portavoce di Mediterranea Saving Humans Ferrara. La portavoce dell’associazione ha evidenziato che “i Centri di permanenza per i rimpatri sono dei centri in cui le persone sono detenute per motivi amministrativi. In questi Centri finiscono non persone che hanno commesso furti, rapine o aggressioni, come lascia intendere il sindaco e i timori di alcuni cittadini particolarmente allarmati, ma quelli che si trovano in Italia senza un regolare permesso di soggiorno, e che per questo devono essere allontanati dal territorio nazionale. I Cpr sono, tecnicamente, luoghi di trattenimento del cittadino straniero in attesa di esecuzione di provvedimenti di espulsione”. La portavoce di Mediterranea Saving Humans Ferrara ha aggiunto che “i Cpr, quindi, sono luoghi di detenzione a tutti gli effetti, in cui però sono rinchiuse persone che non hanno commesso alcun reato penale. Questi centri di detenzione, però, sono esterni al normale circuito penitenziario e non sono sottoposti ai controlli che l’autorità giudiziaria esercita normalmente nelle carceri. La loro gestione è affidata interamente alla polizia e al Ministero dell’Interno. I tempi di durata massima della detenzione sono diventati sempre più lunghi: nel 1998 erano di 30 giorni, nel 2023 sono diventati di 18 mesi, con i relativi costi esorbitanti. A questo però non è corrisposto un tasso crescente di rimpatri, anzi: i rimpatri continuano a diminuire, dal 60% del 2014 si è passati al 49% del 2021”. Migranti. L’accordo tra Italia e Albania è illegale: tutte le procedure che violano il diritto europeo di Gianfranco Schiavone L’Unità, 13 novembre 2023 Rappresenta il punto più estremo dell’esternalizzazione delle frontiere e del diritto di asilo. Le tutele per le persone bisognose di protezione, invece che garantite, vengono ridotte al minimo. Il Protocollo stipulato tra Italia ed Albania “per il rafforzamento della cooperazione in materia migratoria” è il punto finora più estremo (ma, come si vedrà, anche incoerente) a cui l’Italia è giunta nel processo di esternalizzazione delle frontiere e del diritto di asilo. Trattandosi di un’intesa avente una chiara natura politica, che richiede oneri finanziari, e che altresì riguarda la condizione giuridica degli stranieri, quindi una materia coperta dalla riserva di legge di cui all’art. 10 co.2 della Costituzione, il Protocollo e i suoi atti attuativi devono essere ratificati dal Parlamento ai sensi dell’art. 80 della Costituzione. Prive di alcun pregio mi sembrano le argomentazioni di chi ritiene che non occorre alcuna ratifica trattandosi di una sorta rinforzo ad accordi pre-esistenti. Scopo del Protocollo è quello di trasportare coattivamente in Albania cittadini di paesi terzi per “i quali deve essere accertata la sussistenza o è stata accertata l’insussistenza dei requisiti per l’ingresso, il soggiorno o la residenza” (art.1) in Italia. In Albania, in “aree di proprietà demaniale” (art.1) albanesi, quindi in territorio albanese a tutti gli effetti, nel quale i migranti rimarrebbero confinati “al solo fine di effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana ed europea e per il tempo strettamente necessario alle stesse” (art.4.3). Il testo non esclude che l’ingresso in Albania avvenga anche in via diversa da quella marittima, quindi riguardi anche persone straniere bloccate sulle vie terrestri, magari nei Balcani, purché tale trasporto avvenga “esclusivamente con i mezzi delle competenti autorità italiane” (art. 4.4). Le autorità italiane assicurano “la permanenza dei migranti all’interno delle aree impedendo la loro uscita non autorizzata” (art. 6.5) e il periodo di permanenza in Albania “non può essere superiore al periodo massimo di trattenimento consentito dalla normativa italiana” (art. 9.1). Al termine delle procedure le autorità italiane “provvedono all’allontanamento dei migranti dal territorio albanese” (art. 9) ovvero al rientro in Italia. Molta enfasi è stata posta sul fatto che l’accordo sia finalizzato al trasferimento forzato in Albania dei soccorsi in mare al fine di esaminare le domande di asilo dei naufraghi; tuttavia nel protocollo non c’è alcun riferimento alla procedura di asilo né alla protezione internazionale e le uniche parole che richiamano l’asilo riguardano il rinvio a non meglio definite procedure di frontiera. Obiettivo non secondario del protocollo, risulterebbe dunque essere l’utilizzo del territorio albanese per farvi dei centri di detenzione amministrativa per stranieri espulsi dall’Italia, ma che verrebbero trattenuti in Albania al fine di eseguire coattivamente il rimpatrio nel paese di origine. Nonostante il ministro Piantedosi si affanni a dichiarare che non si tratterà di CPR (Centri per il Rimpatrio) il testo del Protocollo dice diversamente. Emerge dunque evidente il rischio che l’operazione intenda nascondere una strategia per realizzare CPR inaccessibili, lontani da sguardi indiscreti e da inchieste giornalistiche, liberandosi dell’incubo di dover trovare un luogo dove aprirli in Italia, dove nessun amministratore, di qualsiasi colore politico li vuole. Esaminiamo ora l’ipotesi che il Protocollo venga applicato principalmente a persone soccorse in mare che verrebbero portate in Albania al solo scopo di detenerle e di esaminare le loro domande di asilo. Nel testo del protocollo si fa riferimento esplicito all’espletamento delle procedure di frontiera previste dal diritto italiano ed europeo. Prima ancora di verificare se gli standard e le garanzie previste dal diritto dell’Unione possano essere rispettate, ciò che bisogna chiedersi è se sia possibile esaminare le domande di asilo presentate da coloro che vengono deportati dal territorio italiano in cui si trovano (le navi ed altri mezzi delle autorità italiane) nel territorio albanese. La risposta non può che essere negativa, dal momento che il diritto dell’Unione sull’asilo (o protezione internazionale) si applica nel territorio degli Stati membri, alle frontiere, nelle zone di transito e nelle acque territoriali. Non si applica al di fuori dell’Unione. Un’applicazione extra-territoriale del diritto dell’UE non pare possibile, come del tutto correttamente messo in luce anche dal documento “Preliminary Comments on the Italy-Albania Deal” pubblicato il 9.11.23 dall’autorevole E.C.R.E. (European Council on Refugees and Exiles). Analogo ragionamento vale anche per ciò che attiene l’ipotesi di usare i centri per l’esecuzione del trattenimento degli stranieri espulsi regolato dal diritto dell’Unione con la Direttiva 115/2008/CE. Anche in tal caso non ne risulta possibile alcuna applicazione extra territoriale al di fuori del territorio degli stati membri dell’Unione. Va sempre considerato che non ci troviamo di fronte alla questione di come consentire l’accesso alla procedura di asilo da parte di uno straniero che si trova all’estero, e di come si possa esaminare, almeno in fase preliminare, la sua domanda di asilo al fine di consentire un suo successivo ingresso nel territorio di uno stato membro: in altri termini, di come creare delle procedure di ingresso protette a persone con un chiaro bisogno di protezione. All’esatto opposto, il protocollo tra Italia e Albania configura una situazione nella quale persone che sono già sotto la giurisdizione italiana, per essere stati soccorsi e trasportati da navi dello Stato, vengono subito dopo tradotte in un paese terzo al solo scopo di impedirne l’ingresso nel territorio nazionale e predeterminare delle condizioni di esame delle domande di asilo con garanzie procedurali ridotte al minimo. Ammettiamo ora, come mero esercizio, che si possa sostenere che il diritto dell’Unione sia applicabile all’esame delle domande di asilo in Albania ed esaminiamo le principali questioni che si aprono: la consegna dei migranti dalle mani delle autorità italiane a quelle albanesi, allo sbarco e fino all’ingresso nei centri di detenzione, che, nonostante l’asserita giurisdizione italiana, si trovano in territorio albanese, potrebbe configurare un respingimento collettivo vietato dal diritto dell’Unione Europea. Per i respingimenti collettivi attuati con la Libia nel 2009 l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei diritti umani il 23.02.2013 nella causa Hirsi Jamaa. Nessuna valutazione sulla condizione delle persone salvate in mare può essere condotta a bordo delle navi italiane, e dunque ogni procedura giuridica dovrebbe iniziare in territorio albanese all’interno di centri sotto la giurisdizione italiana (ma anche albanese). La restrizione della libertà personale di coloro che vi verrebbero rinchiusi, per essere conforme all’art. 13 Costituzione, va convalidato dall’autorità giudiziaria con un esame caso per caso a seguito del quale il provvedimento di trattenimento viene convalidato o meno. Come garantire dentro il microcosmo del campo a gestione italiana il corretto funzionamento della procedura, tra cui ovviamente il diritto del richiedente che si intende trattenere di essere assistito da un legale italiano di fiducia? In ogni caso deve essere esclusa la possibilità di un trattenimento generalizzato di tutti i richiedenti asilo perché tassativamente vietato dal diritto dell’Unione che vieta agli Stati di applicare misure di limitazione della libertà personale nei confronti dei richiedenti asilo “per il solo fatto di essere un richiedente” (Direttiva 2013/33/UE articolo 7 paragrafo 1). Come noto, il diritto dell’Unione prevede che il trattenimento venga disposto solo in casi molto limitati e “salvo se non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive” (articolo 8, paragrafo 2), misure che comunque in Albania non sarebbero mai praticabili. La larga maggioranza dei richiedenti asilo, sicuramente tutte le situazioni vulnerabili e i minori, ma anche tutti coloro cui non sarebbe applicabile la procedura accelerata di frontiera, non potrebbero dunque in nessun caso essere trattenuti, ma poiché non possono neppure rimanere in Albania al di fuori dal centro, dovrebbero essere trasportati in Italia immediatamente per continuare l’accoglienza e l’esame ordinario della loro domanda di asilo sul territorio nazionale. Nei confronti di coloro che rimarrebbero rinchiusi nei centri in Albania va garantito senza eccezioni l’esercizio dei diritti fondamentali, tra cui il diritto di ricevere “le informazioni sulla procedura con riguardo alla situazione particolare del richiedente” nonché di comunicare con “organizzazioni che prestino assistenza legale o altra consulenza ai richiedenti” (Direttiva 2013/32/UE art. 19). In caso di diniego il richiedente deve poter pienamente esercitare il suo diritto alla difesa, costituzionalmente garantito (Cost. articolo 24) e ha diritto ad un “ricorso effettivo” (Direttiva 2013/32/UE art. 46 par.1) che per essere tale deve garantire alla persona la libertà di consultare un legale e di sceglierlo. Nell’ambito delle procedure accelerate di frontiera il giudice mantiene la possibilità di concedere la sospensiva nelle more della decisione di merito ovvero “autorizzare o meno la permanenza del richiedente nel territorio dello Stato membro” (art.46 par.6 lettera d). Ma, in caso di autorizzazione il richiedente non si trova affatto sul territorio dello Stato membro (!) bensì in Albania, il che comporta l’immediato trasferimento in Italia del richiedente da parte delle autorità italiane e la prosecuzione dell’iter della domanda in Italia. Il Protocollo appare dunque un incredibile coacervo di procedure radicalmente illegittime rispetto al diritto dell’Unione vigente e che comunque non potrebbero essere applicate in modo razionale e rispettoso di garanzie procedurali e di tutela dei diritti fondamentali degli stranieri coinvolti, sia che si tratti di naufraghi prima e richiedenti asilo poi, che di stranieri espulsi e poi trattenuti in Albania. Medio Oriente. Se i “fratelli” arabi scaricano Gaza di Lucia Annunziata La Stampa, 13 novembre 2023 Al summit di Riad l’Iran ha chiesto l’embargo del petrolio contro Israele ma l’Arabia Saudita ha detto no, l’opposto di quello che aveva fatto nel ‘73. I Paesi arabi abbandonano ancora una volta i loro “fratelli”. È a San Francisco che potrebbe saldarsi un terzo asse diplomatico intorno alla guerra fra Israele e Hamas. Nella città californiana si incontrano fra due giorni, mercoledì, il presidente americano Joe Biden e il Presidente Cinese Xi Jinping. Appuntamento molto atteso, nel mezzo di due guerre e nel pieno sviluppo di un cambiamento economico che sta riscrivendo i poteri mondiali. Le relazioni dei due paesi attraversano un progressivo deterioramento. Non si attendono dunque grandi annunci. Ma le attese sono alimentate da indiscrezioni uscite dalla stessa Casa Bianca - riporta la Bbc. Ai giornalisti viene citato anche un punto sul Medioriente: “A parte i disaccordi centrali su scambi commerciali e competizione, la richiesta più urgente per il Presidente Biden alla Cina sarà quella di usare la sua influenza per mettere limiti al coinvolgimento dell’Iran in risposta al conflitto in Gaza”. L’Iran ancora al centro, dunque, del puzzle mediorientale. Lo scontro questa settimana ha raggiunto uno stallo crudele. Fatto di sangue e orrore per migliaia di bambini e civili. Eppure neanche questo crudo bilancio sembra scuotere i due fronti diplomatici in campo. Da Israele il premier Benjamin Netanyahu, che pur ha alla fine concesso una tregua umanitaria di alcune ore giornaliera, continua a respingere ogni idea di limitare le operazioni alle regole internazionali, e procede con devastanti bombardamenti indiscriminati. I Paesi arabi d’altra parte, freschi di un incontro sabato a Riad, al vertice straordinario congiunto della Lega Araba e dell’Organizzazione per la cooperazione islamica, convocato dall’Arabia Saudita per tentare di allineare le posizioni dell’Islam, nonostante il grande disgelo formale - hanno partecipato il presidente iraniano Ebrahim Raisi, e Bashar al-Assad, il presidente siriano, odiati fin qui dalle monarchie sunnite - non hanno deciso nulla. Parole di fuoco certo, ma l’embargo sull’export di petrolio, arma letale, non a caso proposta dall’iraniano Raisi, non è stato approvato. “Alla fine dal summit di Riad escono solo parole e photo opportunity”, ha scritto ieri su questa testata Giordano Stabile, la cui analisi fa ben capire le dinamiche di questo vertice. Da cosa nasce questa paralisi dei due fronti? Parto da due ricordi per formulare due domande. Anni 70, scenario di una radicalizzazione che ha formato (anche in Occidente) i ricordi, l’opinione e la psiche dello e sullo scontro fra Israele e mondo arabo. Il primo ricordo è dedicato a un eroe di Israele, Yonathan, detto Yoni, di cognome Netanyahu. Come il Premier Bibi, che è suo fratello. Yoni era un militare, un tenente colonnello di un reparto scelto dell’esercito di Israele, e uno scrittore. Nato a New York nel 1946, si arruolò nel 1973 per la guerra dello Yom Kippur da cui uscì con onori militari. Morì tre anni dopo nel 1976 a Entebbe in Uganda in una operazione speciale per liberare gli ostaggi ebrei di un dirottamento aereo. Il suo nome e quello di Entebbe sono rimasti nei manuali militari, sinonimi di audacia e di minimo spargimento di sangue. Morirono in 4: 1 ostaggio ucciso dai militari israeliani, 2 ostaggi uccisi dai militari ugandesi, e il comandante Yoni. Appunto. La vita pubblica di Netanyahu è sempre stata segnata da questo eroismo. Domanda: perché oggi invece il Netanyhahu premier non intende accettare nessuna azione che rientri nel rispetto delle regole umanitarie internazionali? Secondo ricordo, per seconda domanda. Siamo sempre al 1973, anno come si diceva che dà forma al Medioriente. Il 6 ottobre, giorno dello Yom Kippur, Egitto e Siria attaccano Israele per riconquistare la penisola del Sinai e le alture del Golan, che avevano perso con la sconfitta araba nella Guerra dei sei giorni del 1967. È una sorpresa che poi portò alle dimissioni di Golda Meir, e del ministro della difesa Moshe Dayan. Gli arabi non vinsero, ma Re Faysal d’Arabia, che si era impegnato con il presidente egiziano Anwar al-Sadat a usare “il petrolio come arma”, convocò insieme all’emiro del Kuwait il 16 ottobre l’Opec, in cui si decise di imporre la riduzione della produzione di petrolio, per aumentarne il prezzo e minare il sostegno a Israele in Occidente. Il 19 dello stesso mese fu decretato l’embargo sulla vendita di greggio agli Stati Uniti per il loro sostegno agli israeliani, seguito dall’embargo ai Paesi occidentali che assunsero la stessa posizione. La crisi “petrolifera” si rivelò un’arma molto efficace contro il nostro mondo. Domanda: oggi un discendente di Re Faisal governa l’Arabia Saudita, perché non vuole adottare l’embargo? Le risposte a questi quesiti ci raccontano anche un po’ del perché questa guerra sia così disumana, e così indecisa. I conflitti degli anni ‘70 nascevano da forze espansive: gli stati arabi e Israele si trovavano in condizioni di sopravvivenza- economica, egemonica, territoriale. Quelle stesse nazioni sono oggi, nella odierna complessità, tutte in condizioni di maggiore debolezza. Lo stato di Israele nei Settanta portava ancora addosso le paure, le instabilità della sua collocazione territoriale, ma aveva anche una coesione interna formidabile. Oggi è da tempo un Paese fra i primi al mondo per integrazione internazionale, sviluppo tecnologico, livelli di vita, e soprattutto, forte dialettica democratica al suo interno. Negli ultimi anni la dinamica politica dentro il paese si è articolata con forte polarizzazione sui temi chiave - il rapporto con la occupazione del West Bank, e soprattutto la identità della nazione, come dimostrano i lunghi nove mesi di proteste contro la riforma della giustizia. Raduni enormi e stabili per difendere l’equilibrio dei poteri dello Stato. Una causa squisitamente politica, che non avrebbe attecchito in nessun paese organizzato intorno a un permanente stato di pericolo e allerta militare. Israele oggi ha una dialettica interna molto forte, in cui le parole destra e sinistra hanno un senso e cause e approcci diversi. Parte di uno sviluppo democratico pieno, che , come in tutte le democrazie, si accompagna a una lotta politica esplicita. La crisi del governo Netanyhahu, nonostante si sia in piena guerra, ne è il caso perfetto:quanto, nelle sue decisioni attuali, pesa la difesa del suo incarico? Per i Paesi arabi siamo invece alla storia di sempre, affogata da divisioni settarie religiose e controllo del petrolio. Tuttavia anche in questo caso ci sono cambiamenti. Non c’è accordo sul boicottaggio petrolifero perché si ha timore di mettere in campo una misura che , a differenza degli anni 70, oggi non è più così efficace. Gli arabi non sono più i soli signori del petrolio, e soprattutto il petrolio non è più il re dell’energia. Con il tempo la difesa della ricchezza nazionale ha fatto prevalere nel mondo islamico una prudenza che si è caricata di opportunismo. Non a caso la maggior parte di questi stati ha firmato gli accordi di Abramo che avrebbero cancellato nei fatti ogni pretesa palestinese a un proprio Stato. I palestinesi, è vero, sono un popolo abbandonato. Ma fra chi li ha abbandonati ci sono stati, troppo spesso, anche i paesi che a parole avrebbero dovuto difenderli.