Abbiamo sostituito la pena di morte col suo... gemello: il carcere di Antonio Coniglio L’Unità, 12 novembre 2023 Ogni anno nelle carceri italiane ci sono decine e decine di suicidi. Fanno più morti del boia negli Stati Uniti. Si è superato un mezzo mortifero per crearne un altro tragicamente esiziale: insieme lazzaretto, manicomio, patibolo. Nel 1784, Immanuel Kant chiosò che “l’illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità che egli deve imputare a se stesso”. Qualche anno dopo, egli stesso ammonì ne La critica della ragion pratica: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”. Sono passati oltre duecento anni da allora e non ci è dato sapere come il filosofo tedesco avrebbe commentato la storia di Susan: quella detenuta che si è lasciata morire di fame, a Torino, nella smania umana troppo umana di vedere - pensiamo un po’, fors’anche per un attimo - il figlioletto di quattro anni. Non certamente un suicidio stoico - l’atto conclusivo fiero del compito riservatoci dalla vita - ma l’autoeliminazione disgraziata e disperata di chi non coglie più un barlume di senso nell’essere in questo mondo. Ve ne sono decine e decine, di suicidi, ogni anno nelle carceri italiane e fanno invero più morti della pena di morte negli Stati Uniti. Non ci è dato sapere come Kant avrebbe commentato la storia di questa “istituzione totale” contemporanea che si chiama carcere, la quale tratta l’uomo come mezzo, schiavo, instrumentum vocale, generando solo malattia, infermità, infine tortura elevata a sistema. E non ci è dato neanche conoscere come il pensatore di Kónigsberg avrebbe riflettuto, qualche secolo dopo, su questo paradosso infame, sulla beffa dell’età dei lumi la quale inventò il carcere nell’anelito spasmodico di superare la pena di morte. Pensiamoci un po’: si è superato un mezzo mortifero per crearne un altro tragicamente esiziale che, avverte Sergio D’Elia, ha ricompreso in sé quanto i tempi della storia erano riusciti evidentemente a scacciare: un manicomio, un lazzaretto, un calvario, un patibolo. Le origini delle parole non tradiscono e quella “carcere” deriva dal latino “coerceo”: punire, castigare, costringere all’obbedienza. Forse è figlia pure dell’aramaico “carcar” - tumulare, sotterrare - a guisa di Giuseppe che, nel dettato biblico, venne calato in un pozzo. Proprio l’odierno penitenziario, l’istituto di pena che nasce ontologicamente per arrecare sofferenza, per seppellire uomini e cose. Ma chi si vuol “rieducare”? Invero un concetto ripugnante, una delle tesi del totalitarismo. I Soviet, tra gli altri, si erano inventati i “campi di lavoro correttivi” in cui si perdeva ogni giorno la vita, esalando sempre l’ultimo respiro. Le parole, in fondo, possono pure irridere se stesse e non è un caso che i Padri Costituenti dovettero aggiungere quel “tendere” all’art. 27 della Costituzione. Nell’antichità, nel mondo classico, il carcere non esisteva. Perché nei “carceres” del circo romano, al massimo, erano trattenuti i carri prima della partenza. Proprio così: carri, bighe, non uomini. I classici conoscevano, non il carcere, ma la prigione. Prigione deriva dal latino “prehensio”: prendere, afferrare. Ti prendo, ti afferro e ti porto in luogo distinto dalla società perché sei pericoloso. Per un tempo determinato e senza alcuna intenzione punitiva. Starai lì, solo fino a quando sarai portatore di insidie e pericoli per gli altri, per il tempo limitatissimo del tuo “raffreddamento”. La prigione ha uno scopo preventivo, non punitivo. Non vuole rieducare alcuno. Non si pone questa missione divina, che gli uomini non dovrebbero neanche immaginare. Chi può rieducare chi? Nella prigione romana, i prigionieri erano protetti da un semplice vestibolo, nel quale avevano finanche la libertà di incontrare parenti e amici. Un vestibolo, un passaggio, appunto. Era una “maison d’arrét”, una casa di arresto. Sembra di risentire le liriche de “La ginestra” leopardiana, i richiami al secolo dei lumi: “Qui mira e qui ti specchia secol superbo e sciocco, che il calle insino allora dal risorto pensier segnato innanti abbandonasti, e volti indietro i passi del ritornar ti vanti e proceder li chiami”. Proprio così: abbiamo pensato di superare la pena di morte, specchiandoci nella “terribilità” di qualcosa di egualmente terrificante: il carcere. Se crediamo davvero nella sicurezza sociale, ritorniamo indietro, aboliamo il “carcere” e sostituiamolo con le “prigioni”. Pensiamo di sorvegliare, non di punire. “Sapere aude”: osa esser saggio: abbi il coraggio di conoscere. Non era forse questo il motto dell’illuminismo che abbiamo imparato sui libri di scuola? Scegliamo illuministi di esserlo davvero. Coltiviamo il coraggio di aprire le porte del carcere, per conoscere il degrado, l’indegnità di quello che abbiamo partorito! Conoscere per superare. Conoscere per vergognarci! Per uscire da uno stato di minorità turpe che tratta gli uomini come mezzi, una menomazione culturale e civile che dobbiamo imputare a noi stessi. Che non illumina, ci consegna alle tenebre. Ma “in principio era il logos”. E allora... “Sia la luce”. Le strutture, il personale, i migranti: cosa succede nelle carceri della “follia” di Sara Cariglia Il Giornale, 12 novembre 2023 L’allarme di psichiatri e volontari: i rischi e i problemi irrisolti dell’abuso di psicofarmaci dietro le sbarre. Prima i manicomi criminali, dopo gli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), poi le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), infine detenuti con problemi mentali rinchiusi nelle carceri. Cambiano i nomi e i “non luoghi” ma le incognite rimangono sempre le stesse. Tra gli usi e abusi della chimica, le domande tornano sempre: le pratiche rapide e frettolose della psichiatria legata alla cultura manicomiale - cioè la contenzione attraverso un uso improprio di psicofarmaci - sono in voga anche nel 2023? “L’abuso degli psicofarmaci è un tema che riguarda il dentro come il fuori, ma non è il carcere di per sé che uccide, che produce malattia, ma la solitudine di un dolore che rimane indecifrato e inascoltato”, dice Gemma Brandi, tra le artefici del primo complesso residenziale psichiatrico italiano per detenuti e internati malati di mente, la Srp Le Querce, servito da modello per il progresso dell’internamento giudiziario in Italia. “È stata una vergogna tutta italiana chiudere gli Opg con norme e leggi inapplicabili e aprire il loro ‘surrogato’ in carcere”, continua la psichiatra, “Siamo diventati una grande Rems”. La Brandi, di carcere e manicomio ne sa molto perché molto ne ha fatto: dai dieci anni di Opg come consulente psichiatra, ai diciotto di carcere con la stessa funzione e altri dieci come responsabile territoriale anche per le prigioni. “Attualmente molti soggetti destinati alle Rems restano “sequestrati” in carcere e altre persone prosciolte ma, pericolose socialmente, attendono a piede libero un posto nelle Rems”, racconta, “Sa quante persone molto malate di mente vengono dichiarate sane pur non essendolo e quante di loro in questo circuito non entreranno mai? L’incubo degli psichiatri è di finire tra le grinfie della posizione di garanzia, completamente male interpretata dalla categoria, che ne ha fatto il cavallo di battaglia per una cosciente e deleteria deresponsabilizzazione. Se io psichiatra dichiaro che un paziente non è malato di mente, cioè che non ha una incapacità, questo esonera anche me, medico, da ogni sorta di responsabilità”. Dopo aver parlato degli “insopportabili riduzionismi” della psichiatria, snocciola con enfasi quelli posticci, a carattere “patogeno”, affibbiati spesso e, indebitamente, ai luoghi di reclusione. “Il carcere è presentato come il problema, ma non lo è”, incalza. “Una persona non impazzisce una volta incarcerata. I soggetti psichiatrici che commettono atti gratuiti hanno un grave problema di adeguamento all’esame di realtà”, chiosa. Poi racconta un altro aspetto, quello dei “migranti africani affetti da gravi turbe psichiche” che riempiono gli istituti di pena. Sono “talora psicotici” o “autori di efferati assassini”. “Purtroppo per averne incontrati a centinaia di soggetti in fuga dal proprio Paese, posso dire che la loro sofferenza psichica precedeva di gran lunga l’arrivo in Italia”, conclude, “Nessuno ne parla come si dovrebbe, ma è ora che le istituzioni operino coraggiosamente e senza ulteriori esitazioni o rinvii, specie considerando i movimenti in corso nel Mediterraneo, altrimenti la situazione potrebbe diventare fuori controllo e ingovernabile”. E non solo. Con i barconi arriverebbero anche giovani già dipendenti da sostanze. A sostenerlo è Gianluca Guida, direttore dell’Istituto penale per i Minorenni di Nisida. “In genere i minori migranti arrivano da noi che presentano già una storia di abuso da psicofarmaci”, dice, “Nella realtà minorile è soprattutto questo tipo di utenza a cercare tali sostanze e, non quella meridionale, che vive invece questa propensione o richiesta come stigmatizzante. I nostri ragazzi migranti raccontano di aver avuto un accesso abbastanza agevole agli psicofarmaci da banco, specialmente in altre realtà europee, come la Francia, la Spagna e la Germania. Ne usano in quantità come elemento integrativo-compensativo alle sostanze stupefacenti per contenere l’ansia, entrando però in un circuito di vera e propria dipendenza”. L’unica soluzione, secondo Guida, è quella di istituire “comunità psichiatriche idonee a gestire il fenomeno del disagio mentale minorile”. “Ma esorto a verificare quante ve ne siano mai state attivate su territorio nazionale”, accusa. A puntare il dito contro il sistema carcerario è pure Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, che gestisce più di 10mila volontari. Impegnata da un quarto di secolo con “Ristretti Orizzonti” nell’informazione sulle pene e sul carcere dal penitenziario “Due Palazzi” di Padova, racconta una realtà che molti non conoscono: “Dopo la pandemia vedo zombie imbottiti di psicofarmaci un po’ ovunque. Non ho mai riscontrato una situazione così drammatica, di disagio e di aggressività, denuncia, “Le carceri si sono trasformate in serbatoi di autori di reato con problemi da tossicodipendenza e, soprattutto, da malattie mentali, che dovrebbero stare nelle Rems, ma che una Rems non ce l’hanno perché non c’è posto”. Le fa eco Sandro Libianchi, presidente del Coordinamento nazionale degli operatori per la salute nelle carceri italiane, già responsabile medico presso il complesso polipenitenziario di Rebibbia, che accende i riflettori sulla mancanza di personale sanitario nelle carceri: “Non abbonda, ed è chiaro che se si è costretti a trattare mille detenuti da soli, l’unica via, la più semplice, talvolta diventa aumentare le dosi di psicofarmaci”, spiega. E ricorda la tanto intricata quanto delicata relazione tra detenuto e polizia penitenziaria. “Quante volte capita che gli agenti, incapaci di contenere e gestire la cattiva condotta dei carcerati, siano spinti, loro malgrado, a risolvere situazioni a carattere non sanitario chiedendo a chi di dovere se possibile somministrare una dose maggiore di psicofarmaci?”. Infine, a scendere in campo con il suo affondo deciso è Luigi Pagano, direttore di numerosi penitenziari, ultimo San Vittore dove è stato per 15 anni. “La prigione non nasce né come pronto soccorso né tantomeno come corsia ospedaliera”, osserva l’ex consulente del Difensore civico della Regione Lombardia e Provveditore per l’amministrazione penitenziaria a Milano, “Negli ultimi quattro anni la situazione è peggiorata. Qual è il senso di stare in un istituto di pena, dove chiaramente non si può ricevere quell’assistenza e quella cura delle quali si ha bisogno?” Nordio delude i fan della separazione delle carriere dei magistrati: se ne parlerà dopo il premierato di Liana Milella La Repubblica, 12 novembre 2023 Il Guardasigilli ufficializza il rinvio della riforma più temuta dalle toghe. L’allarme di Magistratura democratica. I fan della separazione delle carriere se lo aspettavano da un momento all’altro, ma speravano che non accadesse. Lo spauracchio - ovviamente per loro ma non certo per le toghe - era che il premierato potesse “uccidere” la separazione delle carriere dei giudici, rinviandola a un “dopo” che rischia di risolversi per l’ennesima volta in un “mai”. E questo è puntualmente accaduto, perché il Guardasigilli Carlo Nordio, partecipando a Stresa all’ennesimo convegno, il secondo nel fine settimana all’insegna del turismo politico-giudiziario, ha annunciato che “la riforma del premierato posticipa quella della giustizia”. Il principale fan della separazione tra giudici e pm, il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, ha letto ed è stato preso da un sentimento che mescola assieme delusione e arrabbiatura nera. Ecco le sue reazioni. “Da Nordio un dietrofront deludente”. E ancora: “Il ministro della Giustizia non mantiene la parola, da lui una marcia indietro imbarazzante”. Politicamente, per Giorgia Meloni che politicamente punta ormai tutto sul premierato, si tratta di una scelta inevitabile. Perché la separazione delle carriere, che lascia indifferenti gli italiani, ma interessa solo gli avvocati e il centrodestra, rischierebbe solo di far precipitare l’unico referendum che sta a cuore alla premier portando poca gente a votare e finendo sicuramente sconfitto. Un effetto boomerang per il premierato, e comunque per l’immagine stessa del governo. Costa, fan di Nordio ormai sulla via della delusione continua, legge le parole del ministro pronunciate a Stresa e reagisce stizzito: “Nordio aveva annunciato che dopo l’estate il governo avrebbe presentato una proposta sulla separazione delle carriere. Ovviamente non ha scritto una riga, perché era un annuncio burla, solo per prendere tempo. Adesso i nodi vengono al pettine”. Eh già, ma era proprio inevitabile che finisse così. A Costa, a Forza Italia, agli avvocati, tra cui anche il vice ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, non riesce in questo caso il blitz messo a segno sulla prescrizione. Lì le proposte parlamentari di tutta la maggioranza hanno camminato così in fretta alla Camera da imporre a Nordio l’agenda politica. Mentre lui è lentissimo con le sue proposte di legge, tant’è che ha depositato solo quella sull’abuso d’ufficio e la stretta sulle intercettazioni da quando siede in via Arenula, quelli della maggioranza hanno preparato il pacchetto e gliel’hanno messo sotto il naso. Lui è stato costretto a metterci sotto la firma. Addirittura la nuova prescrizione potrebbe andare in aula questa settimana o al massimo la prossima. Impossibile lo stesso gioco con la separazione delle carriere, anche se i partiti della maggioranza hanno già presentato i loro disegni di legge sin dall’inizio della legislatura. Qui, trattandosi di legge costituzionale, il via libera di palazzo Chigi è obbligatorio. Detto fatto, è arrivato l’altolà a Nordio. Non potrà legare il suo nome alla riforma che le toghe considerano come il segnale della fine dell’indipendenza dei giudici perché la divisione definitiva delle carriere si porta dietro la sottomissione del pm all’esecutivo. Nonché la piena discrezionalità dell’azione penale. Una boccata d’ossigeno anche per Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe, che a Napoli, nel suo congresso, ha giusto affrontato proprio questo argomento assieme a quello delle riforme costituzionali in una tavola rotonda moderata da Donatella Stasio. E qui Nello Rossi, direttore di Questione giustizia, la rivista online di Md, ha definito la separazione delle carriere “una truffa delle etichette”, perché “alla Camera ci sono tre proposte di legge che sono la copia della proposta di legge di iniziativa popolare dell’Unione delle camere penali. Si tratta di un fatto inquietante. Mi chiedo cosa sarebbe accaduto se in Parlamento ci fossero state altrettante proposte dell’Anm. Quando gli avvocati sentiranno in aula “lo Stato contro X” si renderanno conto dell’errore che hanno commesso nel modificare l’assetto del pubblico ministero”. Nella stessa tavola rotonda il costituzionalista della sapienza Gaetano Azzariti ha reagito così: “Ma siamo sicuri che con questa riforma non si favorirà la corporativismo azione dei magistrati?”. Mentre Alfonso Celotto, costituzionalista anche lui ma a Tor Vergata, ha ammesso che ci sono altre priorità per la giustizia come “la velocizzazione del processo penale”. A questo punto Magistratura democratica può stare tranquilla. Un incubo è stato messo da parte. Nordio ci ripensa: riforma rinviata di Lorenzo Grossi Il Giornale, 12 novembre 2023 “Separazione carriere subito dopo il premierato”. Il ministro della Giustizia illustra il probabile cronoprogramma del provvedimento costituzionale di competenza del suo dicastero: “Sarà presentato all’inizio del 2024”. Subito dopo il premierato, ecco che arriverà anche la riforma della giustizia, anche se tra un po’. Parola del ministro Carlo Nordio, che coglie l’occasione del forum della Fondazione Iniziativa Europa 2023 a Stresa (Novara) per annunciare quello che sarà il percorso parlamentare del prossimo provvedimento di stretta competenza del dicastero di via Arenula. Il Guardasigilli non ritiene proprio che il disegno di legge sull’elezione diretta del presidente del Consiglio da parte dei cittadini metta a tacere quella sulla giustizia, ma piuttosto che “la posticipi. Noi abbiamo l’ambizione di durare tutta la legislatura - sostiene Nordio -. Quindi i tempi per la riforma costituzionale del premierato e il referendum sarebbero compatibili con una riforma costituzionale sulla giustizia che potrebbe essere presentata nei primi mesi dell’anno prossimo e quindi non viaggiare in modo parallelo ma immediatamente successivo”. Il progetto del governo Meloni riguardo alla giustizia è chiaro ed evidente da più di un anno, ovvero da quando la coalizione di centrodestra aveva presentato il proprio programma unitario: la separazione delle carriere in magistratura, che richiede una nuova legge costituzionale “che non si può improvvisare”. Nordio ha spiegato di guardare al sistema britannico, dove “il pubblico ministero è indipendente ma è l’avvocato dell’accusa e non ha un potere sulla polizia giudiziaria”. Nel complesso, l’ex procuratore di Venezia è “soddisfatto su come stiamo andando nel cronoprogramma. Abbiamo ridotto del 15%-20% gli arretrati”. Tuttavia adesso il suo esecutivo si auspica che il Parlamento approvi nei prossimi mesi “le cinque riforme epocali” che il suo ministero ha presentato, “tra le quali l’abolizione dell’abuso di ufficio, sulla custodia cautelare, sulle intercettazioni, sulla quale faremo un lavoro più globale in futuro e quella sulla informazione di garanzia”. Tutta una serie di riforme costituzionali “che si possono fare in questa legislatura se come penso durerà cinque anni”. C’è poi anche spazio per tornare su un tema “spinoso” come la reintroduzione dell’immunità parlamentare: “Non parliamone più”, è un la supplica scherzosa del ministro Nordio ai cronisti presenti. “Per l’amore del cielo, non si dica che sono a favore alla reintroduzione altrimenti non dico che cade il governo ma succede un pandemonio”, ha poi sottolineato il Guardasigilli, che ha ricordato di aver detto in passato che “era stata introdotta non dal bandito Mussolini ma da Togliatti, De Gasperi, Nenni, Terracini e Saragat, padri costituenti, di fronte ai quali ci inchiniamo con reverente nostalgia”. L’immunità parlamentare “era attribuita alla dignità e alla forza della carica, perché si temeva, cosa che poi è avvenuta, che l’interferenza di un altro potere potesse condizionare la politica”. Insomma: “Non se ne parli. Mi sono limitato a dire la ragione per cui era stata introdotta e da chi”, conclude. Baby gang. “Bisogna educare alla legalità. Ora i reati diventano un’esibizione” di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 12 novembre 2023 Il rapporto sulla criminalità minorile: al Nord più denunce, con alcuni reati violenti aumentati a dismisura: +39,4% per le rapine e +16% per lesioni, risse e percosse. Uno su due è straniero, si abbassa l’età dei giovani arrestati. Crescono di un terzo rispetto a 12 anni fa denunce e arresti di minori al Nord. Un dato doppio rispetto alla media nazionale. Con alcuni reati violenti aumentati a dismisura: +39,4% per le rapine e +16% per lesioni, risse e percosse. E un effetto post pandemico importante che fa rialzare tutti i valori nel biennio 2020-22. Post pandemia - Sono i dati del “Rapporto criminalità minorile in Italia 2010-2022”, realizzato dal gruppo interforze del Servizio analisi criminale della Direzione centrale della polizia criminale. Un quadro che conferma nei numeri un fenomeno di cronaca che ha contraddistinto gli ultimi tre anni. Una fila di risse, aggressioni, rapine, violenze che vedono sempre più protagonisti i minori. Dopo il Covid l’aumento a livello nazionale è stato repentino con le segnalazioni che, dopo un calo progressivo di cinque anni, nel 2021 e nel 2022 sono tornate ai massimi del 2015: 32.522 casi. E con il forte abbassamento dell’età dei migranti e l’impatto delle “seconde generazioni” si segnala un sorpasso tra gli autori dei reati: nel 2022 il 52% sono stranieri, 17.032 su un totale di 32.522. Numeri che raccontano un’Italia che cambia in fretta e che hanno proprio nelle grandi città del Nord le loro avanguardie. Gang di strada - Da questo punto di vista Milano è la città capofila del fenomeno delle baby gang. Non più organizzazioni “chiuse” o legate a una comune appartenenza etnica (le bande dei latinos, ad esempio), ma batterie miste dove convivono più etnie e più forme di disagio. Ragazzi giovanissimi, alcuni neppure imputabili (sotto ai 14 anni) che escono la sera e aggrediscono coetanei per rubare catenine, cellulari, felpe, scarpe o anche solo pochi euro. Aggressioni che avvengono con violenza “sproporzionata” e in branco. “La pressione dei pari o l’appartenenza a gang possono indurre una deresponsabilizzazione, che è propria dell’agire in gruppo, ed avviare i giovani alla commissione di atti violenti come rito di passaggio o per guadagnare uno status”. Dietro ai minori autori di reati molte volte ci sono problemi legati alla povertà e all’abbandono scolastico, come sottolineano gli analisti del Viminale. Per contrastare questi fenomeni occorre “educare i ragazzi alla legalità, richiede un approccio olistico ed il coinvolgimento di vari attori in primis famiglia e scuola. La famiglia è la prima fonte di educazione ai valori e al rispetto delle norme in modo particolare sino alla fase dell’adolescenza”. Trapper e violenza - Sullo sfondo dell’aumento di violenza tra i minori - il numero dei detenuti però è in calo, ma su questo punto ci sono state riforme con misure meno afflittive -, ci sono anche il web e i “modelli” preferiti dai giovani. Un tema delicato che in questi mesi sta vivendo una fase politica effervescente per le recenti modifiche di legge sui minori. “Forme di desensibilizzazione alla violenza in ragione dell’esposizione continua ad immagini violente nei media o la spettacolarizzazione di comportamenti antisociali attraverso i social - scrivono gli esperti del gruppo interforze del Viminale - potrebbero ridurre la consapevolezza del disvalore sociale dei comportamenti violenti”. Ma attenti a puntare il dito sulla tecnologia: “in sé è neutra e il suo effetto dipende dalle modalità del suo utilizzo”. Più che sul mezzo occorre guardare al contenuto: “Il reato commesso dai minori è spesso legato alla sua esibizione: i ragazzi potrebbero commettere dei reati al fine di farsi vedere e collezionare follower sui social. La spettacolarizzazione della violenza fa superare la paura della punizione”. In molti casi, infatti, aggressioni e pestaggi finiscono su social e gruppi Whatsapp fino a diventare virali, quasi con l’intento primario di essere condivisi. Su questo punto “il web può diventare anche il mezzo di diffusione prediletto tra i giovani di un immaginario ed un lessico brutali, come quelli di alcuni trapper che veicolano messaggi antisociali”. Ma per gli esperti di reati minorili c’è anche un secondo aspetto, legato alla “percezione delle condotte violente” che ha a che fare con la psicologia dei ragazzi e la loro fragilità: “Recenti episodi violenti di cronaca che coinvolgono giovani evidenziano la totale assenza di empatia nei confronti della vittima. Tali comportamenti potrebbero celare una fortissima fragilità e incapacità a gestire le relazioni interpersonali da parte degli autori”. “Io scappata dalla mafia per salvare i miei figli. Ma ora lo Stato ci aiuti ad avere un’altra identità” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 12 novembre 2023 La donna è già stata individuata quattro volte ma è riuscita a mettersi in salvo grazie all’aiuto di Don Luigi Ciotti. “Se non mi ribellavo mio figlio era un altro mafioso e mia figlia un’altra donna serva di uomini senza onore”. Il fondatore di Libera: “Serve una legge che dia loro riconoscimento giuridico”. Località segreta, nord Italia - L’appuntamento è a un casello autostradale. Poi una telefonata, l’indicazione di una piazza a una decina di chilometri. Passo rapido, sguardo circospetto. La guardi e ti chiedi come faccia questa donna a vivere in fuga da 11 anni, costruendosi una vita di facciata, senza passato, nome di fantasia, ma quello vero sui documenti. Ti chiedi come sia riuscita questa giovane vedova di mafia a salvare i suoi bambini, una femmina e un maschio, dalla caccia della sua famiglia che la insegue da quando, una notte di 11 anni fa, suo marito mai più tornato a casa vittima della lupara bianca, decise di lasciarsi tutto alle spalle per regalare ai suoi figli un futuro lontano dalle cosche. “ Piacere, Anna… come ormai mi conoscono le pochissime persone che frequento. Per la verità non so più neanche io chi sono”. Anna, perché vive così? “Non ho altra scelta. Quattro volte mi hanno individuato, quattro volte per miracolo sono riuscita a salvare i bambini, a fuggire e a cambiare di nuova casa, città, regione. E la cosa più brutta è che a darci la caccia è la mia famiglia. Per mio padre, affiliato alle cosche, aver lasciato che io mi sottraessi al destino disegnato per me e i bambini, è un affronto. Quanto a mia madre, se mai un giorno un killer riuscirà a beccarmi sarà stata lei a mandarmelo. Lei, fiera e serva di quella figura maschile che di forte non ha proprio nulla”. Ci racconti tutto dall’inizio. Chi è lei? Cosa l’ha spinta alla fuga? “Vengo dalla Sicilia, mio padre è un affiliato alle cosche del Catanese e anche la famiglia di mio marito. Sa come funziona: certo, sapevo qual era l’ambiente in cui sono cresciuta ma non ho mai saputo niente degli affari criminali. Io ho sempre lavorato nell’azienda di famiglia da quando ero ragazzina e mio marito lavorava nel cantiere del padre. Mai indagato, mai arrestato”. Ma una sera non è tornato a casa... “Sì, doveva andare a prendere i bambini da mia madre e non si è visto. Non rispondeva al telefono e la notte non è tornato a casa. Il giorno dopo ho capito subito che c’era qualcosa che non andava e che lo avevano ucciso. La sua stessa famiglia”. E come l’ha capito? “Ti sparisce un figlio, un nipote, fai qualcosa, lo cerchi, ti muovi. E invece lì si preoccupavano soltanto di quello che facevo io. Dovevo stare zitta e non fare domande. Mia madre mi disse subito: “La tua vita è finita, d’ora in poi fai quello che dicono tuo padre e tuo fratello. Piangitelo, metti il nero, chiuditi a casa ma stai zitta”. Ma lei non stava affatto zitta... “Sono stata sempre una ribelle, ma questo non potevo sopportarlo, andavo per strada e gridavo a tutti quello che avevano fatto. Ill corpo di mio marito non è mai stato ritrovato, solo tempo dopo dai giornali seppi che ad eliminarlo era stato suo zio perchè lui si stava allargando troppo”. Sola, senza nessuno al suo fianco, con due bambini piccoli. Come è riuscita a fuggire? “Mi sono ribellata a quel destino che avrebbe fatto di mio figlio un altro piccolo mafioso e di mia figlia un’altra donna serva di questi uomini senza onore. Ho chiesto aiuto a tanti, anche al parroco, ma mi guardavano come una matta. Poi un giorno ho visto un volantino di Libera in un negozio. E sono entrata in contatto con Don Luigi Ciotti. Mi ha aperto una cartina davanti e mi ha detto: dove vuoi andare? Prima ho portato in salvo i bambini, poi ho messo insieme due cose e sono sparita”. Senza una casa, un lavoro, una nuova identità? “Un’impresa titanica. Sapete cosa significa cambiare nome ma avere i documenti con quello vero , crescere i tuoi figli raccontando tutta la verità ma chiedendo loro di mentire sempre, di guardarsi sempre le spalle senza mai fare un errore che potrebbe costarci la vita? E vivere con il costante terrore che ci trovino?”. E infatti vi hanno trovato... “La prima volta un anno e mezzo dopo la fuga, a scuola. Quella mattina Dio ci ha salvato. Non mi è suonata la sveglia. Mi chiama la direttrice e mi dice: “Ci sono due uomini davanti le classi dei suoi figli, dicono di essere venuti a prendere i bambini”. I loro nomi, quell veri erano nell’elenco degli alunni nel corridoio. Chiamo Don Ciotti: “Prendi i bambini e scappa”. Poi, grazie a lui, sono riuscita ad ottenere dal ministero della pubblica istruzione che i miei figli venissero iscritti a scuola con falso nome ma che alla fine del percorso didattico venisse riconosciuto il loro titolo di studio. Poi è successo in palestra, e poi ancora altrove”. Una vita a ostacoli tutti i giorni… “Ogni gesto è un rischio. Il tampone durante il Covid, un accesso in ospedale. La tessera sanitaria riporta il nostro vero nome. E ora l’università per mia figlia. E gli esami per la patente. IO ovviamente non posso lavorare, vivo grazie al sostegno di Don Ciotti. Perché dobbiamo far pagare il conto di colpe che non sono loro ai nostri figli?”. Anna, cosa chiede? “Lancio un appello a Giorgia Meloni: tanti anni di battaglie non possono sfumare. Ho cercato di far crescere i miei figli liberi, senza paura, cerco di motivarli. Rifarei tutto ma oggi ho bisogno di dare un senso a tutto questo. IO e le donne come me chiediamo solo di poter avere una nuova identità, senza questa tutti i diritti fondamentali, la scuola, la sanità, il lavoro, la dignità della persona ci sono negati. Ogni mattina affronto la battaglia che la giornata mi presenta. Se lo Stato non ci aiuterà, condannerà noi a vivere nascosti mentre i mafiosi continuano a girare liberi per strada”. La battaglia di don Luigi Ciotti Nei giorni scorsi, il fondatore di Libera ha portato Anna e altro donne come lei con i loro figli da Papa Francesco. Al Pontefice don Ciotti ha chiesto sostegno per una battaglia parlamentare. “Sono donne che chiedono una mano, chiedono di essere accompagnate per uscire dal contesto mafioso. Donne che, diventate madri, guardano i loro bambini, ragazzi e ragazze e non accettano l’idea che un giorno quelle vite saranno pedine di un gioco di potere, di violenze e di carcere. La loro è una ribellione di cuori e di coscienze. Donne che nonostante i codici culturali consolidati dicono basta! Oggi, grazie a queste donne, cresce un fermento sotterraneo. Cresce la consapevolezza ragionata che si è messo in moto un meccanismo inarrestabile. È una rottura dal male, una rottura innanzitutto culturale e così “indeboliscono” il potere mafioso dal di dentro. È necessario per molte di loro un cambiamento anagrafico, di generalità. Un nuovo nome significa assumersi la responsabilità di un rinnovamento reale della propria esistenza. È poter ricostruire dei legami amicali, affettivi, professionali senza la paura di essere riconosciute e dunque rintracciate da chi le cerca per fargliela pagare. Serve una legge, un riconoscimento giuridico della loro scelta. Perché queste donne, questi bambini, non sono né collaboratori di giustizia né testimoni, non hanno alcuna tutela. La politica deve fare un piccolo sforzo”. Campania. Detenuti e malattie mentali, la situazione delle carceri di Marianna di Candido positanonews.it, 12 novembre 2023 Si è svolto venerdì presso il Centro Direzionale di Napoli, Aula Siani, un importante convegno intitolato “Non c’è diritto alla salute senza salute mentale”. Sono intervenuti ospiti di grande rilievo nel panorama Regionale e Nazionale: On G. Oliviero- Presidente del Consiglio Ragionale; Avv. Zaccaria- Presidente Associazione Italiana Giovani Avvocati; Prof. M. Palma- Garante nazionale delle persone sottoposte a misure restrittive e private della libertà personale, insieme a numerosi operatori territoriali che ogni giorno si trovano a dover fare i conti con le difficoltà di un sistema carcerario che sempre meno ricopre un ruolo riabilitativo e sempre più funge da contenitore di reietti a vario titolo. Presiede i lavori il Prof. S. Ciambriello, Garante Campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale- che esordisce invitando gli ospiti e la platea a riflettere sui dati che emergono dalle Istituzioni carcerarie e dichiarando che più della metà dei detenuti soffre di una qualche forma di disagio psichico e di questi il 48% è legato all’uso di droghe. Bisogna porsi il problema di come gestire e curare il malessere in carcere aumentando le cure alternative ed evitando i ricoveri impropri. Il quadro che io mi sono fatta riguarda innanzitutto un doveroso appunto storico che inizia con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) in Italia (31 marzo 2015). L’istituzione totale dell’ospedale psichiatrico giudiziario viene sostituita da più piccole unità di reclusione non molto diverse nella sostanza, le cosiddette “residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza” (Rems), luoghi destinati a recluse e reclusi giudicati incapaci di intendere e volere al momento del giudizio in Tribunale per cui la pena viene scontata in detti luoghi. Se invece la valutazione psichiatrica è successiva, cioè sopraggiunge durante la detenzione, i soggetti vengono spostati presso le ATSM (articolazioni per la tutela della salute mentale) che in pratica sono delle sezioni speciali all’interno degli Istituti Penitenziari. Ora la questione riguardava da un lato la necessità di avere personale specializzato (medici psichiatri e infermieri) che potesse dare in tempi brevi riscontro alle numerose richieste di diagnosi che invece restano inevase, “intasando il circuito carcerario e rendendo la vita dei detenuti e del personale che vi lavora sempre più insostenibile e dall’altra la necessità o meno di aprire finalmente la terza REMS in Campania, così come approvato all’unanimità dal Consiglio Regionale della Campania nel maggio del 2022 che darebbe ospitalità ad altre venti persone in attesa di esservi collocate. La malattia mentale e il disagio psichico, rendono tutto più difficile ma non dimentichiamoci che chi commette dei reati deve essere sottoposto a misure restrittive nell’ottica di un reinserimento comunitario. Prima o poi ogni detenuto rientra nella società, il problema è e resta il “Come vi fa rientro”! questo dice il nostro ordinamento, sottolinea la Dot.ssa De Marinis- Magistrato di Sorveglianza- non è solamente una questione di diritto del detenuto alla salute, è un diritto di tutti avere la garanzia che chi commette reato venga rieducato. Rientra tra i compiti di tutela dello Stato garantire l’interesse della collettività, non lo dobbiamo dimenticare. A queste dure considerazioni si aggiunge la annosa questione degli adolescenti a cui vengono diagnosticati disturbi psichiatrici, aggiunge la Dirigente del Dipartimento di Salute mentale ASL Na1 Luisa Russo- come Neuropsichiatra infantile e dirigente della Salute Mentale voglio sottolineare le grosse difficoltà dei minori con diagnosi di collocamento in comunità terapeutica. Il punto fondamentale resta rinforzare la salute mentale di comunità non la psichiatria altrimenti rischiamo di creare nuclei patogeni di difficile reinserimento sociale. Bisogna integrare le istituzioni con il tessuto sociale e viceversa. Ogni struttura che si occupa di minori deve garantire una progettualità in adesione e con il supporto delle ASL affinché i nostri ragazzi vengano aiutati davvero a confrontarsi con tutte le realtà e non considerarli reclusi in strutture apposite. Il Dott N. Palmiero. Dirigente del Centro giustizia minorile di Napoli infine ribadisce la necessità di andare oltre la dicotomia contenitore (carcere) e contenuto (Detenuto) ma fornire il tessuto sociale di contenuti veri e garantire la salute di tutti senza avere la nostalgia delle istituzioni totalizzanti; le Rems rappresentano dei micro nuclei manicomiali nelle carceri che non aiutano né risolvono alcun problema. In sintesi non dobbiamo più permettere che il carcere crei la menomazione, produca sofferenza, esasperi la tenuta psichica di chi vive la reclusione, e poi voler contenere i ‘comportamenti problema’ reprimendoli ancora di più in ‘speciali repartini’. Verona. Non ce l’ha fatta il detenuto che si era impiccato in cella L’Arena, 12 novembre 2023 Si tratta di un trentenne di nazionalità afghana, ma con cittadinanza austriaca ottenuta in quanto rifugiato politico. Era ospitato nell’area riservata ai pazienti psichiatrici. Non ce l’ha fatta. Il trentenne di nazionalità afghana, ma con cittadinanza austriaca ottenuta in quanto rifugiato politico, detenuto a Montorio e ricoverato in condizioni disperate dopo un tentativo di suicidio, è morto nelle prime ore di ieri pomeriggio in ospedale. Afflitto da problemi psichiatrici, era arrivato a Verona alcuni giorni fa. Detenuto nel carcere di Venezia, viste le sue condizioni, si era reso necessario il suo trasferimento nella sezione riservata ai pazienti psichiatrici (anche il giovane che uccise i poliziotti a Trieste è rimasto per diverso tempo in quel reparto in attesa del trasferimento in una Rems). L’altro giorno uno degli agenti di polizia penitenziaria lo ha visto con il lenzuolo intorno al collo e appeso alle sbarre. È intervenuto immediatamente, ha cercato di rianimarlo e poi il detenuto è stato portato in ospedale. Appese a un filo di seta le speranze di salvarlo. Un filo che si è spezzato. Torino. Valutazioni sbagliate, fu un suicidio evitabile: psichiatra indagata di Simona Lorenzetti Corriere della Sera, 12 novembre 2023 Per l’accusa la specialista del Lorusso e Cutugno avrebbe agito con “negligenza e imperizia”. Aveva 25 anni ed era affetto da disturbi psichici. In carcere non era mai stato. Ci finisce per la prima volta il 3 agosto 2022, quando viene arrestato per aver messo a segno due rapine in altrettanti supermercati nel quartiere San Salvario: si era finto un normale cliente e una volta faccia a faccia con la cassiera aveva estratto un coltello. Per lui, giovane e fragile, la detenzione si rivela un’esperienza impossibile da gestire. Tredici giorni dopo aver varcato la soglia dell’istituto penitenziario Lorusso e Cutugno, si toglie vita. Alessandro Gaffoglio approfitta della solitudine della propria cella, prende un sacchetto di nylon e se lo avvolge intorno alla testa chiudendolo con dei lacci. Si infila sotto le coperte così da nascondersi agli occhi delle guardie e si lascia morire. È la mattina del 16 agosto quando il suo corpo viene scoperto. Sono passati quindici mesi e ora la Procura di Torino ha chiuso l’inchiesta. Una psichiatra è indagata per omicidio colposo: per il magistrato, la dottoressa non avrebbe seguito le linee guida e i protocolli che dettano le misure necessarie per la prevenzione dei suicidi in carcere. Gli atti del procedimento raccontano una catena di errori di valutazione che avrebbero portato alla tragedia. Gaffoglio era incensurato, un ragazzo problematico e a tratti instabile. Pochi giorni dopo l’arresto, tenta di farla finita usando le lenzuola della cella. Gli agenti della polizia se ne accorgono e lo soccorrono, lo portano nel reparto sanitario e in quel breve periodo di degenza il giovane viene sottoposto a un regime di massima sorveglianza (in pratica, sotto controllo 24 ore su 24). Dopo la visita psichiatrica viene trasferito al “sestantino” (un gruppo di quattro stanze singole ricavato nella sezione nuovi giunti) in regime, questa volta, di minima sorveglianza. Gli vengono restituiti i vestiti dentro una busta di plastica: la stessa che poi userà per suicidarsi. Stando agli elementi raccolti dal pm Valerio Longi, titolare del fascicolo, sarebbe stata la psichiatra (difesa dall’avvocato Gian Maria Nicastro) a valutare il regime di sorveglianza, stabilendo che fosse sufficiente il “lieve”. Non solo, la professionista non avrebbe integrato “gli antidepressivi prescritti” con altri farmaci specifici “così come indicato in letteratura per la prima fase di latenza del trattamento”. Stando a una consulenza tecnica, Gaffoglio avrebbe dovuto essere inserito in un programma di sorveglianza “media” e la terapia farmacologica avrebbe dovuto essere integrata. Da qui l’accusa di omicidio colposo rivolta alla psichiatra, che avrebbe agito con “negligenza” e “imperizia”. “Non dobbiamo dimenticare che il carcere è un ambiente dove è molto complesso e complicato operare sulle fragilità - spiega l’avvocato Nicastro. In quel contesto gli psichiatri fanno sforzi sovraumani per assicurare ai pazienti detenuti, che sono doppiamente fragili, l’assistenza a cui hanno diritto. Non abbiamo dubbi che riusciremo a dimostrare la correttezza del comportamento della dottoressa”. A far scattare l’inchiesta era stato un esposto dei genitori di Gaffoglio, che avevano scoperto solo dopo il decesso che il figlio aveva già tentato di togliersi la vita. “Siamo soddisfatte che la vicenda non si sia conclusa con un nulla di fatto”, spiegano le avvocatesse che assistono il papà e la mamma del ragazzo, Laura Spadaro e Maria Rosaria Scicchitano. “È un grande sollievo. Per i genitori sono stati momenti difficili - insistono i legali. Quest’anno e mezzo, in attesa che la Procura chiudesse le indagini, è stato complicato e pieno di sofferenza e dolore profondi. Ma anche di grandi domande. Ora il desiderio è che si faccia chiarezza, perché non si ripeta più una situazione del genere. Non si tratta solo di stabilire responsabilità o meno per la morte del figlio, ma di garantire a chi finisce in carcere le giuste tutele. Questa famiglia non cerca in alcun modo vendetta”. Torino. “Troppi suicidi in carcere, servono strutture di cura speciali” di Irene Famà La Stampa, 12 novembre 2023 L’appello della Garante comunale dei detenuti: “Mancano le condizioni di accoglienza e supporto per affrontare certi disagi”. “In carcere le fragilità si acuiscono, il disagio si aggrava”. La considerazione della garante comunale dei detenuti Monica Gallo è amara. Così com’è impostato, il sistema “non riabilita”. La chiusura delle indagini sulla morte di Alessandro Gaffoglio, ventiquattrenne che ad agosto dell’anno scorso si è impiccato nella sua cella al Lorusso e Cutugno, impone delle riflessioni. Il ragazzo, recluso su misura cautelare per due rapine in un supermercato a San Salvario, soffriva di problemi psichici. E il suicidio l’aveva già tentato appena arrivato, nella sezione dei “nuovi giunti”. Le fragilità mentali in carcere sono aumentate. “Non è una condizione relativa solo ai detenuti”, spiega Monica Gallo. E pensa agli effetti della pandemia su molti giovani. “In carcere, però, non ci sono le condizioni di accoglienza e di supporto adeguate ad affrontare certi disagi”. E il penitenziario torinese non fa eccezione con 21 medici di base, 18 specialisti e cinque psichiatri per oltre 1.400 detenuti. E uno spazio sanitario, il Sestante, con appena una ventina di posti. Per la morte di Gaffoglio, la procura ha indagato la psichiatra del carcere. Alla dottoressa, difesa dall’avvocato Gian Maria Nicastro, i magistrati contestano omissioni e sottovalutazioni nella valutazione del rischio. La garante analizza i numeri del Lorusso e Cutugno: “Servono più psichiatri, psicologi, educatori, ambienti più idonei e condizioni dignitose di vita”. E aggiunge: “Sarebbe opportuno riflettere su possibili strutture “intermedie”, dove prendersi cura delle persone detenute con disagio mentale e problemi legati alla tossicodipendenza, e doppia diagnosi”. Ad esempio? “Penso a strutture alternative comunitarie di cura, di accoglienza, di controllo. Oppure optare di più per gli arresti domiciliari e uso del braccialetto elettronico”. Alessandro Gaffoglio, assistito dall’avvocata Laura Spadaro che ora rappresenta il padre del giovane, prima era stato ricoverato nel reparto sanitario, poi gli era stata assegnata una cella costantemente monitorata. “Ha tentato di danneggiare se stesso, non gli altri. Non era un pericolo per chi gli stava attorno, per cui non avrebbe dovuto essere lasciato solo”. Con i suoi pensieri. Le sue paure. I suoi incubi. “Il primo impatto con il carcere è disorientante. Ti priva improvvisamente della libertà, dei legami affettivi, dell’armonia e dell’equilibrio. In questo contesto, certe situazioni si aggravano molto velocemente”. Il ventiquattrenne non stava scontando una pena definitiva, non aveva nemmeno ancora affrontato un processo: il giudice aveva convalidato il fermo dopo l’arresto per rapina in attesa di capire come procedere e di inserirlo in una comunità. Ma non c’era posto. “Questo è un altro grande problema. Ed è evidente soprattutto al minorile”, sottolinea la garante. “Tanti giovani detenuti potrebbero scontare la pena altrove, in luoghi più adeguati a loro. Ma i posti non ci sono. E gli spostamenti fuori Regione sono estremamente costosi in termini economici e umani”. Milano. Morte di Oumar Dia in carcere, monta il caso (tra piazze e politica) di Camilla Amendola primabergamo.it, 12 novembre 2023 Era stato arrestato nel 2020 per un telefonino, poi aveva cambiato vita. Il 7 luglio 2023 un nuovo arresto senza spiegazioni. E il decesso dopo un ricovero in terapia intensiva. Due interrogazioni parlamentari per chiedere chiarezza sul decesso del 21enne di Fiorano. La Procura indaga. È stata finalmente predisposta l’autopsia sul corpo di Oumar Dia, il giovane di 21 anni di Fiorano al Serio morto giovedì 26 ottobre in circostanze poco chiare all’ospedale Humanitas di Rozzano, in cui era stato trasportato in gravi condizioni dal carcere Opera di Milano. Il ragazzo, nato a Bergamo da genitori senegalesi, era stato arrestato l’8 agosto 2020 a Milano, dove aveva rubato uno smartphone Samsung A7. A quel gesto erano seguiti mesi di carcere, poi i domiciliari e, infine, diverso tempo in comunità. Una volta pagato il suo debito con la giustizia - e dopo aver anche ricomprato il telefono al proprietario a cui l’aveva sottratto - Oumar aveva iniziato a lavorare in un’azienda bergamasca che si occupa di impianti fotovoltaici. Il 7 luglio di quest’anno, però, le cose sono cambiate. Secondo quanto raccontano i familiari e gli amici di Oumar, quel giorno i carabinieri si sono presentati a casa Dia chiedendo del ragazzo. Che in quel momento, però, era al lavoro. I militari se ne sono quindi andati, informando i presenti che sarebbero passati più tardi far firmare al ragazzo dei documenti. In realtà, poche ore dopo Oumar è stato nuovamente arrestato e portato in carcere a Bergamo, dove è rimasto fino a ottobre, quando - per motivi che ancora non sono stati resi noti - è stato trasferito al carcere di Opera, in isolamento. Il tutto senza che la sua famiglia venisse avvertita. Nei primi giorni di novembre, la storia del 21enne bergamasco è iniziata a circolare, per merito soprattutto dei suoi amici, che l’hanno raccontata sui social e hanno raggiunto migliaia e migliaia di persone. L’1 novembre, a Milano, si è anche tenuta una camminata pacifica per chiedere la verità sulla morte di Oumar. Sempre sui social, nei giorni scorsi è stato pubblicato un audio di rilievo per questa vicenda. Si tratta di un messaggio vocale che il 21enne ha mandato il 7 luglio scorso ai suoi amici su un gruppo WhatsApp e pubblicato dalla pagina Instagram @afromagazine_italia. La tristezza del giovane è evidente: “Sarà dura, forse - dice Oumar - stamattina sono venuti i carabinieri a casa”. Reggio Calabria. Sei agenti di Polizia penitenziaria a processo per il “caso Peluso” di Francesco Tiziano Gazzetta del Sud, 12 novembre 2023 Il Gup: “Brutale aggressione fisica. L’uso della forza risponde a una chiara esigenza punitiva come reazione alla fase iniziale della gestione operativa”. Sono 6 le divise della Polizia penitenziaria in servizio alle carceri reggine “San Pietro” che affronteranno il processo per il “caso Peluso”, il detenuto napoletano che sarebbe stato picchiato, e sottoposto a tortura, il 22 gennaio 2022. Il Gup motiva la sua decisione escludendo la preordinazione: “Appare quindi evidente, e tale aspetto è di particolare importanza probatoria, come nella fase iniziale della gestione operativa dell’evento critico nessun atto di violenza fisica venisse posto in essere dalla Polizia penitenziaria che stava trasferendo il Peluso dall’area passeggio al reparto Caronte, circostanza che esclude che vi fosse stata preordinazione rispetto a quanto poi avvenuto; ed è altresì evidente come solo ad un certo punto, come reazione al comportamento del Peluso, sicuramente diretto a resistere/opporsi al suo trasferimento nel reparto Caronte (appare più che verosimile ritenere come il Peluso, avuta contezza di dovere essere trasferito nel reparto Caronte, abbia cercato di opporsi e nel tentativo di fare ciò sia caduto a terra, o si sia buttato a terra, dovendosi precisare, ancora una volta, come la prova sul punto, contraddittoria, non consente di ritenere anche che egli colpisse fisicamente le guardie penitenziarie)”. Milano. Una cella di otto metri e una mostra per “provare” il sovraffollamento di Simona Ballatore Il Giorno, 12 novembre 2023 Caritas Ambrosiana presenta “Extrema Ratio”, un’installazione itinerante che riproduce una cella carceraria per sensibilizzare sulla condizione dei detenuti. Aperta al pubblico fino al 20 novembre, con ingresso gratuito su prenotazione. Si entra in una cella, di otto metri quadri, con tre metri per due di spazio condiviso che può ospitare fino a sei persone. Un’installazione per denunciare il sovraffollamento delle carceri italiane, facendolo provare “sulla pelle” dei visitatori. BiM, Bicocca incontra Milano, il progetto di rigenerazione urbana e nuovo spazio culturale di viale dell’Innovazione 3, ospiterà fino al 20 novembre “Extrema Ratio”, l’iniziativa itinerante di Caritas Ambrosiana che riproduce una cella per sensibilizzare sulle condizioni di vita dei detenuti. È stata realizzata nella falegnameria del carcere di Bollate. L’installazione è aperta al pubblico con ingresso gratuito (su prenotazione) da lunedì a venerdì, dalle 9 alle 18, e sabato e domenica dalle 10 alle 17. L’occasione è il decennale del Polo penitenziario dell’Università Milano-Bicocca, uno spazio di vita abitato da studenti detenuti e non, dai tutor che settimanalmente li supportano e dai docenti. In dieci anni le attività scientifiche, culturali e didattiche sviluppate negli istituti di pena dell’area milanese si sono ampliate al territorio, promuovendo la discussione sul significato della pena dentro e fuori dal carcere. Con questo intento Bicocca promuove l’iniziativa con BiM e ha affidato anche ai suoi studenti il compito di guidare i visitatori nella cella e all’interno della mostra fotografica “Ri-scatti. Per me si va tra la perduta gente”, ideata dal Pac, Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, a cura di C41, rivista di fotografia indipendente e casa di produzione. Al centro del percorso anche alcune interviste realizzate ad Ileana Montagnini, responsabile area grave emarginazione adulta di Caritas Ambrosiana, Amedeo Francesco Novelli, fotografo per Ri-Scatti Odv e Gaia Pollastrini, coordinatrice operativa del Polo Penitenziario dell’Università Milano-Bicocca, per contestualizzare l’iniziativa ed evidenziarne l’importante impatto sociale. A chiusura, una ricerca bibliografica con letture sui temi carcerari per continuare l’approfondimento: dalla fotografia sociale all’abitare, dall’architettura alla narrativa fino alla saggistica. Milano. Sesta Opera San Fedele compie 100 anni: le attività per “riempire lo spazio vuoto” dei detenuti di Simona Ballatore Il Giorno, 12 novembre 2023 Impegno in carcere (e fuori), laboratori, lavoro: 200 soci sempre in formazione. Sono nati anche corsi di mediazione nei reparti femminili. Compie cent’anni Sesta Opera San Fedele, una delle più antiche associazioni italiane di volontariato penitenziario, che a Milano conta oggi 200 soci che si impegnano tra San Vittore, Opera, Bollate, il carcere minorile Beccaria, il reparto speciale dell’Ospedale San Paolo e il carcere di Cremona. Ieri i volontari hanno organizzato un convegno scientifico e incontrato i vertici dell’amministrazione giudiziaria a San Vittore, dove tutto è cominciato, per ricordare i progetti avviati nel primo secolo di vita guardando alle nuove sfide. Una su tutte: “Giustizia riparativa - sottolinea il presidente, Guido Chiaretti, in prima linea sin dagli anni Novanta -: si è venuto a creare uno spazio enorme per la società civile e il mondo del volontariato, che è ancora tutto da costruire. Dobbiamo dialogare insieme per trovare vie di collaborazione e sostenere un’opera di volontariato ancora più difficile, che non è dentro gli istituti penitenziari ma fuori. In Italia per ogni 100 detenuti in carcere ci sono 145 persone che scontano la pena sul territorio. In Lombardia sono ancora di più: sono 185 ogni 100. Dobbiamo accompagnare i condannati invisibili. È più complicato, si prende in carico anche la famiglia”. L’impresa di Sesta Opera San Fedele nasce nel 1923 dall’idea di un gruppo di liberi professionisti della Congregazione Mariana, in una sede all’interno dell’Istituto Leone XIII a Porta Volta. Il 30 novembre 1963 venne formalmente costituita l’associazione che fece da apripista per il riconoscimento legislativo dell’assistenza carceraria. “Il primo aspetto fondamentale è la formazione dei volontari - sottolinea Chiaretti -: ogni anno organizziamo un corso e Milano mostra la sua generosità e il suo senso civico incredibile: senza farci pubblicità si presentano sempre cento persone nuove; 25/30 capiscono che non fa per loro, che è molto più difficile rispetto alle aspettative. Le altre restano”. E assicurano nuove energie. Per i primi sei mesi si affiancano ai volontari storici, la formazione poi è permanente. Ci si prende cura degli aspetti apparentemente più elementari, come vestire i detenuti, e dell’accoglienza dei “nuovi giunti”, anche in un’ottica di prevenzione dei suicidi. Si organizzano attività culturali e gruppi di preghiera: “A San Vittore pregano con noi anche i musulmani - spiega il presidente -. Diamo senso al tempo vuoto: a Bollate c’è un laboratorio di filosofia e vengono organizzati corsi di informatica, sono gli stessi detenuti che sanno già usare il Pc a insegnare a usarlo ad altri. Sono nati anche corsi di mediazione nel reparto femminile, che era molto conflittuale, per permettere alle ‘leader’ sia positive che negative di diventare mediatrici per le loro compagne, aiutandole a gestire le emozioni. Si aprirà uno sportello”. È nata anche un’associazione di detenuti a Opera, si combatte l’isolamento facendo incontrare chi è recluso con persone con disabilità ed è stato avviato un progetto pilota col Politecnico e una grossa azienda di software per formare manager e creare una cooperativa che dia lavoro ai compagni: “L’esercizio delle responsabilità aiuta a non focalizzarsi solo se stessi, imparando a pensare agli altri”. Torino. Tre giorni al Cottolengo, un viaggio che non scorderete di Andrea Rossi La Stampa, 12 novembre 2023 Nella cittadella del bene grande come quindici campi da calcio: “Aiutavamo gli scartati dalle famiglie, oggi chi non è tutelato dallo Stato”. C’è un registro che annota quando tutto ha avuto inizio. “Giuseppe Dana, calzolaio, malato di tisi, ricoverato il 17 gennaio 1828 e dimesso il 9 aprile. Guarito”. L’ultima persona ad aver bussato è una donna: ieri sera ha chiamato il centralino presidiato da suor Giuseppina. “Cercava un posto dove dormire. Telefonano in tanti e per tante cose, a volte solo per una preghiera”. Il chilometro quadrato dei santi sociali di Torino si stende quasi tutto dietro Porta Palazzo: lì hanno lasciato le proprie tracce Giovanni Bosco, i marchesi Giulia e Tancredi Falletti di Barolo, Giuseppe Cafasso. Poco distante c’è il Sermig. Nel mezzo la Piccola casa della Divina Provvidenza fondata da Giuseppe Benedetto Cottolengo. La spalla su cui Torino (e non solo) cerca conforto. Una cittadella di 112 mila metri quadrati - quindici campi di calcio - che somiglia a una fortezza: mura alte, cunicoli sotterranei, camminamenti sopraelevati che in 190 anni hanno dato vita a leggende e credenze. Il ricovero dei mostri, ad esempio. “Ma io, che sono qui da quarant’anni, non ne ho mai visto uno. In compenso ne ho visti fuori da qui”, sorride don Carmine Arice, Padre generale della Piccola casa, eletto nel 2017 per guidare un’istituzione che ha ramificazioni in tutta Italia, 31 missioni e 43 comunità in quattro continenti ma il cui cuore è incardinato a Torino, quartiere Valdocco. Nati da un gesto concreto - La “valle degli uccisi”: nel 1800 era un luogo infestato da corsi d’acqua malsani, violenza, perdizione. Ma i terreni costavano poco, ed è lì che Giuseppe Cottolengo trasferì le due stanze aperte in via Palazzo di Città. Aveva dato l’estrema unzione una donna francese di 35 anni. Si chiamava Maria Gonnet, aveva tre figli e un quarto in grembo: tutti gli ospedali l’avevano rifiutata. Quella sera Cottolengo cambiò la sua vita e anche un pezzo della storia di Torino. “La sua casa accoglieva chi era stato respinto altrove, chi non aveva rifugio. Le vittime della cultura dello scarto, come direbbe papa Francesco”, racconta padre Arice. “Lo facciamo ancora oggi”, anche se ora lo scarto non è chi viene rifiutato dalla propria famiglia ma chi lo Stato non può o non sa proteggere e chi - anche il più coraggioso - da solo non riesce ad accudire: un anziano colpito da devastanti malattie degenerative, una persona con una grave disabilità, un bimbo fragile. Tutti trovano un posto in questo grande villaggio della mescolanza in continuo movimento, dove chiunque viene accolto in base alle proprie necessità, dove la suora a riposo guarda i bambini a giocare a pallone, il migrante musulmano dà una mano a chi non gli ha chiuso la porta in faccia, il laico incontra il religioso, il bambino delle elementari fa la recita per gli anziani della Rsa e il vecchio volontario trasmette ciò che ha e che sa a un ragazzo disabile. Una città che solo in apparenza vive di vita propria e agisce in nome di una parola che corre sulla bocca di tutti: “Provvidenza”. Un pasto, un vestito, un paio di scarpe - La porta del Cottolengo è aperta per chi non ha un medico cui rivolgersi oppure non ha soldi per il dentista. Anna Ferraro, dopo quindici anni da assistente sociale nelle Rsa, guida il centro d’ascolto. A lei fanno capo la mensa che serve 70 mila pasti l’anno, il dormitorio, il punto che distribuisce vestiti e scarpe a 2800 persone in un anno e quello che dona 2500 pacchi viveri. “All’inizio mi dicevo: sei una tappabuchi, dai un pasto, un vestito, e poi? Poi ho capito che per queste persone siamo una famiglia, chi si prende cura di loro, la porta aperta verso la strada”. E la strada, da qualche anno, è sempre più affollata. “La marginalità cresce. Persone precipitate dalla propria realtà, senza più certezze: lavoro, casa, famiglia”. Un ospedale e una Rsa - Qui nessuno pensa di avere soluzioni definitive. Ma, instancabile, agisce. Emerge un bisogno? Si cerca una risposta. Due anni fa è stata aperta una specie di officina. L’hanno chiamata “Ci manca 1 rotella”, perché tra l’altro questo è un villaggio che coltiva l’ironia e rifugge la cupezza. Si stoccano carrozzine, deambulatori, stampelle a disposizione di chi è in difficoltà o in attesa dell’Asl. L’ospedale che Cottolengo aveva eretto per assistere gli ultimi è diventato un polo da 450 mila prestazioni l’anno, con punte di eccellenza: “Formiamo gli infermieri per conto dell’Università, siamo la seconda struttura in Piemonte per la cura del tumore al seno e l’unico privato accreditato con un reparto di lungodegenza”, rivela padre Arice. “Ma soprattutto garantiamo le specialità poco remunerative dal punto di vista economico. Almeno finché la Provvidenza ce lo permette”. È il faro che guida anche le residenze per anziani, dove ciascuno contribuisce a seconda delle sue possibilità. “Le rette sono stabilite quasi su misura, dopo un’analisi della situazione economica dell’ospite”, spiega il direttore Giovanni Tarantino. “L’eventuale differenza è a carico nostro”. Gli immensi dedali del Cottolengo sono un luogo di visionarie invenzioni. Quasi tutto è nato come reazione a un’esigenza che nessuno sapeva come soddisfare. “Avevo vent’anni, facevo la fisioterapista”, racconta suor Clara. “C’erano tante ospiti con la sindrome di down, era difficile fare attività con loro, serviva un posto accogliente e dover poter lavorare con pesi più leggeri. Noi giovani suore abbiamo insistito per realizzare una piscina d’acqua calda a uso terapeutico”. La prima in Italia, oltre cinquant’anni fa: lunga venti metri, larga cinque. “Di grandi così non se ne fanno più: motivi igienici, mantenerla richiede uno sforzo immenso. Ma è stata una svolta; qualche tempo dopo abbiamo cominciato a fare terapia anche con i disabili. All’epoca non esisteva niente di simile, i fisioterapisti venivano a imparare qui”. Anni dopo si è posto un nuovo problema: come aiutare i ragazzi autistici ad avere una chance di futuro oltre la scuola. Don Andrea Bonsignori ha immaginato di sfruttare una delle principali doti di chi soffre di questo disturbo: la dedizione alla precisione. “Chi è il miglior caricatore di un distributore automatico di bevande e snack se non un ragazzo autistico?”. Così è nata un’impresa sociale - che oggi vive di vita propria fuori dal Cottolengo - partita da tre apparecchi e arrivata a gestirne oltre mille. “Dovevamo dare non una speranza, ma una risposta oltre queste mura. I ragazzi finivano la scuola dopo 10-15 anni di integrazione e dopo? In questo Paese chi soffre di disturbi mentali e la sua famiglia sono persone sole”. La stessa filosofia, ma con una prospettiva opposta, ha portato ad aprire un’officina meccanica: “L’idea venne con Sergio Marchionne: far arrivare qui ragazzi con la passione per i motori e insegnare loro la manutenzione di primo livello, il tagliando, perché poi potessero trovare a lavoro nelle officine”. La filosofia nello sport - Nel 1997 don Andrea ha fondato la Giuco, oggi una delle sei associazioni sportive in Italia dove i ragazzi normodotati e disabili giocano insieme: calcio, basket, volley, rugby, arti marziali, danza. “L’idea era declinare nello sport la nostra filosofia, perché almeno fino a una certa età l’integrazione può funzionare: non si crea un gap tra i ragazzi, anzi, si tirano fuori risorse inattese”. La dimostrazione è che tre atleti della Giuco quest’anno hanno esordito nella nazionale under 20 di rugby. La scuola che non fa la differenza - La Giuco altro non è che un’appendice di ciò che avviene nelle classi materne, elementari e medie delle undici scuole cottolenghine in Italia. La più grande è dentro la cittadella di Valdocco: circa 400 ragazzi, il 13% ha una forma di disabilità. “Nelle scuole pubbliche la percentuale scende al 3,5%, nelle paritarie all’1,5”, spiega don Andrea. “Quasi la metà delle famiglie non paga nulla o usufruisce di uno sgravio. E ciononostante tanti ci scelgono anche se non hanno problemi economici perché diamo un’istruzione di qualità”. E non solo. “Un genitore mi ha detto che qui suo figlio è riuscito a capire di non essere sfortunato ad avere solo sei paia di scarpe ma fortunato perché ha due piedi in cui indossarle”. Hanno scelto uno slogan che è il rovesciamento della cultura dominante: “La scuola che non fa la differenza”. “Il Cottolengo spesso è stato visto come un ricettacolo di sfigati”, ragiona don Andrea, “ma al contrario è un luogo in cui la convivenza civile e l’accoglienza della diversità diventano qualcosa di reale. E dove tra chi ha un disturbo e chi no a guadagnarci di più da questa convivenza forse è quest’ultimo”. Quest’incessante opera - che include altri servizi, dall’housing ai progetti di autonomia per donne con disabilità, dai 400 alloggi affittati a prezzi calmierati ai centri di accoglienza per donne in difficoltà - per padre Arice ha un nome: investimenti carismatici. “Ciò che si fa per l’utilità collettiva, per chi ha poco o nulla da dare in cambio”. Come gli ospiti “storici”, nati e vissuti qui, o i religiosi che dopo essersi consumati per gli altri ora vengono accuditi. “Continuiamo a seguire l’esempio del Cottolengo: costruire ciò che manca, rispondere alla domanda che la città ci rivolge”. Oltre 190 anni fa il bisogno era accogliere gli invalidi, i ciechi, gli orfani; oggi è l’includere i bambini autistici, curare la vita fino al suo passo finale. Le ultime due strutture inaugurate sono un hospice, a Chieri, e uno studentato con 180 posti, appena aperto e già pieno. “In questo caso la necessità era offrire posti letto a prezzi accessibili agli studenti”, spiega Roberta, 30 anni, che dopo otto anni di volontariato ha trovato lavoro proprio allo studentato. “Dopo la laurea in Economia cercavo un progetto sociale per cui spendermi. Averlo trovato qui, dove mi sento a casa, è la cosa migliore che mi potesse capitare. Qui c’è una possibilità per tutti e una cura per tutto”. Anche in questo intreccio di religiosi e laici c’è il segreto di un immenso villaggio che guarda avanti tornando sempre alle origini. Cottolengo aveva iniziato la sua opera circondandosi di laici: medici, geometri, ricchi nobili che elargivano donazioni. Per dare continuità ha poi fondato 12 famiglie religiose. “Ma ora che la nostra presenza si è fatta più esigua è cresciuto nuovamente il peso dei laici, come alle origini”, rivela suor Maria Teresa, un’altra colonna di questa istituzione che conta in totale circa 900 suore, un centinaio di preti, quasi 2500 collaboratori. E più di mille volontari, meno di un tempo, eppure tenaci, come Carlo De Grandi, che a 93 anni viene ancora tutti i giorni. “E non solo io: ci sono mia moglie, mio figlio e mia nuora”. Da quarant’anni Carlo, ex bancario, dà una mano a chi tiene i conti di un’istituzione con un bilancio di 150 milioni. “Perché continuo? Semplice: in questo luogo respiro pace e serenità”. “Qui si dà un senso alla vita. O lo si recupera. Con l’aiuto della Provvidenza”, dice suor Maria Teresa. Già, la Provvidenza. È ciò cui ci si aggrappa quando servirebbero le risorse o quando bisogna spiegare quel che in apparenza spiegazione non ha. “Qualche sera fa è arrivata una richiesta per un progetto; ci chiedevamo dove avremmo preso i soldi quando è arrivata una sorella con un sacco pieno di vestiti e una busta piena di banconote. Poco tempo fa in magazzino è arrivato un paio di scarpe gigantesche, pensavamo non sarebbero mai servite e invece il giorno dopo si presenta un migrante dai piedi enormi; gli calzavano perfettamente. Vede cosa fa la Provvidenza?”. O forse sono i frutti dell’opera incessante di queste persone. A Torino anni fa per etichettare una persona stupida non era raro che venisse usata la parola “cutu”. Era come dire, sei uno del Cottolengo, retaggio di quella credenza secondo cui queste mura tenevano il resto del mondo al riparo da ciò che non si doveva né poteva vedere. È un’etichetta che per decenni ha accompagnato il Cottolengo. “A volte c’è bisogno di figurarsi qualcosa di straordinario per giustificare la normalità del bene”, riflette suor Maria Teresa. Padre Arice non si scompone: “In fondo vuol dire che i torinesi a questo posto vogliono così bene e vi sono così legati da averlo fatto entrare nel loro vocabolario”. Perché è la spalla su cui sanno di potersi appoggiare quando intorno non resta più niente. Reggio Emilia. Scatta il Festival Trasparenze e il teatro entrerà in carcere Corriere di Bologna, 12 novembre 2023 Parte domani a Reggio Emilia la terza edizione del Festival Trasparenze di Teatro Carcere Emilia-Romagna, un percorso che terminerà il 23 dicembre formato dalle compagnie che operano con progetti nel territorio aderenti al Coordinamento Carcere Emilia-Romagna. Il progetto, organizzato dal bolognese Teatro del Pratello, oltre a Bologna coinvolge Ferrara, Forlì, Parma, Ravenna e Modena. Il festival è una sfida di sette compagnie teatrali che si sono date un tema triennale comune, “Miti e utopie” (sottotitolo: Errare, perdono, comunità) e particolarità di questa edizione è l’aggiunta di quattro spettacoli di compagnie esterne che entrano in carcere per presentare i loro lavori a un pubblico costituito esclusivamente da detenuti. Il via è con il Centro Teatrale MaMiMò con lo spettacolo Il cerchio di storie all’Istituto Penitenziario di Reggio Emilia (ore 15). Il debutto bolognese sarà invece il 5 e 6 dicembre alla Casa Circondariale Rocco D’Amato di via del Gomito (ore 10 e 16). Qui il Teatro del Pratello proporrà Maman Boxing Club, lavoro scritto e diretto da Paolo Billi con la compagnia delle Sibilline formata da detenute-attrici della sezione femminile della Casa Circondariale bolognese. Ma davvero il gioco legale scaccia le mafie? Un libro smonta la retorica dei big dell’azzardo di Mario Portanova Il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2023 In “Il gioco d’azzardo, lo Stato, le mafie” (Donzelli) il sociologo Rocco Sciarrone, con Federico Esposito e Lorenzo Picarella, analizza la penetrazione della criminalità organizzata in un settore che nel 2022 ha fruttato allo Stato oltre 13 miliardi di euro. I clan sono presenti “in quasi tutti i tipi di gioco pubblico, ad esclusione del Lotto e delle lotterie nazionali”. “Il gioco è un’attività ordinaria, di puro divertimento, che milioni di italiani svolgono in modo assolutamente spontaneo e naturale; il gioco legale è il nemico più irriducibile del gioco illegale, di solito gestito dalla criminalità organizzata”. Queste affermazioni molto positive sull’azzardo di Stato sono definite delle “verità elementari” in un rapporto del 2023 firmato da Lottomatica e Censis. Lottomatica è una delle concessionarie dei Monopoli di Stato che trae ingenti profitti dal gioco legale. Il Censis è il famoso centro di ricerca privato che ogni anno “fotografa” gli italiani. Peccato però che all’interno del rapporto queste affermazioni non siano affatto documentate, ma rispecchino soltanto l’interesse di parte di chi ha commissionato la ricerca. A fare le pulci al rapporto Lottomatica-Censis ci pensa Rocco Sciarrone, sociologo dell’Università di Torino fra i più autorevoli studiosi del fenomeno mafioso, con i ricercatori Federico Esposito e Lorenzo Picarella, nel libro “Il gioco d’azzardo, lo Stato, le mafie”, da poco pubblicato da Donzelli. Intanto il Parlamento discute la legge delega per il riordino di un settore che nel 2022 ha portato nelle case dello Stato ben 13,7 miliardi di euro. “Più che di verità, si tratta di punti di vista molto dibattuti a livello pubblico, ma anche fortemente criticati in ambito scientifico”, scrivono gli autori. “Delle discussioni al riguardo nel Rapporto non c’è traccia, così come sono del tutto minimizzate le esternalità negative, ad esempio i costi sociali e sanitari provocati dalla diffusione del gioco pubblico”. Molte posizioni favorevoli all’azzardo di Stato sono attribuite con percentuali bulgare “agli italiani”. Ma replicano i ricercatori: “Nulla però viene detto sui metodi e le tecniche di ricerca utilizzati per produrli”. Si tratta dunque di una pura “esibizione di dati che trasforma opinioni in ‘verità elementari’, sulla base delle quali enunciare precise opzioni politiche sul modello di regolazione del gioco pubblico ritenuto più giusto ed efficace”. Del resto, si legge nel volume, il gioco come “puro divertimento” nulla ha a che fare con il gioco “speculativo”, che punta alla vincita monetaria, e men che meno con la patologia del gioco “compulsivo”. Ma è sulla seconda questione che il lavoro di Sciarrone, Esposito e Picarella va in profondità, analizzando fra l’altro numerose indagini giudiziarie. Davvero il gioco legale è il nemico “più irriducibile” del gioco legale? Dare una risposta scientifica è difficile, ma certo diversi elementi indicano l’esatto contrario. Per come è fatto, proprio il settore del gioco legale mostra delle “vulnerabilità” che offrono “alle organizzazioni mafiose possibilità di guadagni considerevoli a fronte di una ridotta esposizione al rischio”, anche per la difficoltà di operare i controlli. Tanto che “si registra la penetrazione mafiosa in quasi tutti i tipi di gioco pubblico, ad esclusione del Lotto e delle lotterie nazionali”. Quindi videopoker, slot, gioco on line, ma anche falsa “gratta e vinci”. I mafiosi entrano nel mercato del gioco controllato dai Monopoli di Stato soprattutto con obiettivi di “riciclaggio, acquisizione di società, la distribuzione di prodotti illeciti (le famigerate macchinette truccate, ndr) e il controllo violento del mercato”. Le prime due attività, si legge nel saggio, “sono trasversali e si manifestano, ad esempio, con l’acquisizione e gestione di sale in cui viene offerto gioco d’azzardo. Sulla distribuzione e imposizione - anche violenta - di prodotti leciti e illeciti si rivelano centrali invece gli apparecchi da intrattenimento con vincita in denaro - le cosiddette slot machine - e il comparto del gioco online”, quest’ultimo in forte crescita nel post-pandemia. Esemplare uno dei casi giudiziari riportati nel libro. Un gruppo di ‘ndrangheta attivo nel torinese gestiva bische clandestine “vecchio stile”, celate in circoli ricreativi. Nei circoli man mano compaiono anche i videopoker truccati. Poi i videopoker vengono installati anche in altri locali “compiacenti” del territorio controllato dal gruppo tramite “società intestate a prestanome”. Intanto le bische vecchio stile continuano a funzionare, anche perché attirano una clientela diversa da quella delle macchinette. Gli ‘ndranghetisti piemontesi, dunque, hanno visto nel gioco legale semplicemente un’opportunità in più. I fatti dicono che la situazione è molto meno rosea di quanto sostengano il rapporto Lottomatica-Censis e altre pubblicazioni simili. Anzi, vira decisamente sul “grigio”, concludono Sciarrone e i colleghi: “In definitiva, il settore dell’azzardo appare come un mercato particolarmente grigio, caratterizzato da rilevanti ambivalenze e asimmetrie normative, ma soprattutto da processi di compenetrazione e ibridazione tra sfera legale e illegale”. “Il pizzo si paga, la pizza si mangia”: l’inopportuno esempio in un libro di grammatica di Alex Corlazzoli Il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2023 “Il pizzo si paga, la pizza si mangia”. Non è, purtroppo, uno scherzo o la frase pronunciata da qualche mafioso ma un esercizio di grammatica pubblicato nel testo “A tutto campo. Strumenti per conoscere e usare l’italiano”, scritto dall’autorevole Marcello Sensini ed edito da Arnoldo Mondadori. Il libro adottato nelle scuole superiori, a pagina 96, per far comprendere la morfologia, all’esercizio 24 sul lessico, chiede ai ragazzi di “indicare se le seguenti affermazioni sono vere o false sottolineando gli errori e fornendo la corretta spiegazione” nella riga accanto. Tra le otto frasi riportate - “La polla è la femmina del pollo”, “Con la suola si calpesta il suolo”, “L’albicocco è un pianto” e così via - ci sono anche le parole che hanno attirato l’attenzione di qualche docente che ha segnalato l’inopportunità di questo esempio. Un errore grossolano che la casa editrice - contatta da Ilfattoquotidiano.it - non esita ad ammettere: “È purtroppo un esempio molto più che infelice. Una vera e propria stupidaggine. Ce ne scusiamo. Abbiamo avviato immediatamente una verifica con la redazione ma interverremo al più presto con un errata corrige e con una modifica per la ristampa”, dice Paolo Rainiero, direttore Mondadori Education. Uno svarione non voluto che è finito in un libro scritto da uno dei professori più stimati in questo settore. Marcello Sensini, scomparso un anno e mezzo fa, è stato un linguista con un’importanza pari a quella del più noto Luca Serianni, anche lui morto nel 2022. L’autore di “A tutto campo. Strumenti per conoscere e usare l’italiano”, dopo la laurea in lettere si è specializzato in linguistica a Parigi. Ha vissuto a New York, dove ha insegnato didattica dell’italiano e a Venezia. È stato uno studioso di poeti e narratori dell’Ottocento e del Novecento, e come linguista si è occupato di lessicografia e di semantica. I suoi testi di grammatica italiana sono tra quelli più diffusi nelle scuole italiane e straniere: in Italia sono da vari decenni tra i più adottati in assoluto. “Per noi - spiega Rainiero - Sensini è un punto di riferimento. La sua autorevolezza non è mai stata messa in dubbio e ha sempre riscosso grande apprezzamento nel mondo della scuola. Anche negli ultimi tempi ha sempre voluto curare i libri che pubblicavamo dall’inizio alle bozze. In questo caso ci dev’essere stato un errore nel processo di revisione redazionale che a volte evidentemente non è perfetto. Quello di cui parliamo è un libro che è stato ristampato più volte, apportando delle novità e questa frase dev’essere sfuggita all’attenzione di chi avrebbe senz’altro dovuto depennarla”. Un errore che indigna l’associazione siciliana Addio Pizzo che da anni lavora sul territorio, soprattutto nelle scuole, per compiere una rivoluzione culturale, per educare alla legalità a partire anche dall’uso delle parole: “Ci auguriamo che la casa editrice - dicono - rettifichi immediatamente lo svarione evitando di diffondere informazioni che disorientano i lettori e in particolari i giovani che hanno bisogno di messaggi di tutt’altro tenore. Il pizzo non si paga e la pizza chi vuole è libero di mangiarla”. “Odiamo gli ultimi, i più poveri, i più deboli. Perché abbiamo paura di diventare come loro” di Claudia Catalli L’Espresso, 12 novembre 2023 Una carriera piena di ruoli battaglieri. Ora, nel film “Likea Son”, l’attore francese Vincent Lindon interpreta un prof che ritrova la passione per l’insegnamento quando incontra un ragazzo rom. E qui si racconta. “Il mio rapporto con il cinema italiano? Nel ‘95 andavo sul set in vespa, recitavo con Luca Zingaretti e Sabrina Ferilli in “Vite strozzate” di Ricky Tognazzi, l’aiuto regia era Ferzan Ozpetek. Era un po’ tutto un casino (lo dice in italiano, ndr), ma lo adoravo. Dopo ho ricevuto tante proposte dai vostri registi, ancora aspetto che mi richiamino!”. Non è uno che la manda a dire Vincent Lindon, la sua longeva carriera fatta di ruoli complessi e battaglieri lo dimostra: solo negli ultimi anni ha interpretato un operaio che si dà fuoco per protesta in “In guerra”, un pompiere disperato in “Titane”, un investigatore che indaga sulle truffe sul mercato delle emissioni di anidride carbonica nella serie in anteprima a Venezia “Of money and blood”. Qualche giorno fa ha presentato alla Festa del Cinema di Roma “Like a Son” di Nicolas Boukhrief, in cui veste i panni di un professore di storia che ha perso la passione per l’insegnamento e la ritrova grazie all’incontro con un quattordicenne rom sorpreso a rubare. È un film sul crollo del sistema culturale e sociale: chi deve prendersi cura degli ultimi, alla fine dei conti, è il cittadino, non le istituzioni... “Esatto, sono il primo a essere sempre molto critico nei confronti dello Stato. Il senso di umanità e generosità deve venire dai singoli cittadini, lo Stato dovrebbe aiutarli nelle loro iniziative di soccorrere a loro volta quelli che non ce la fanno”. L’adolescente che nel film sceglie di aiutare è un ragazzo rom. Il regista ha detto che i rom in Francia sono le minoranze più detestate, da dove nascono i nuovi rigurgiti di razzismo? “Si diventa aggressivi e malvagi quando si ha paura. La paura genera violenza e la spirale di violenza non ha fine quando origina dall’odio verso la povertà. Finiamo per odiare gli ultimi, i più poveri, i più deboli, perché non vorremmo mai diventare come loro”. Come si è rapportato con Stefan Virgil Stoica, l’attore che interpreta il ragazzo rom? “Benissimo, è stato molto bravo, è grazie a lui se il mio personaggio capisce che può tornare a insegnare e chiamare a raccolta le persone per trasmettere il sapere. Quanto a me, adoro recitare con gli adolescenti. Vivono quel periodo della vita in cui osano, sbagliano, mettono in discussione tutto e tutti, crescono. Poi ci sono anche quelli che si perdono, lì l’unico rimedio è l’istruzione”. Che tipo di adolescente è stato lei? “Infelice. Faccio una rapida sintesi: genitori divorziati e assenti, cresciuto con le bambinaie, avevo dei tic, mi mangiavo le unghie ed ero iperattivo”. Diventare attore è stato terapeutico? “Ha fatto in modo che gli altri si accorgessero di me, ma sarei potuto diventare anche un avvocato che salva qualcuno dalla pena di morte. Non mi è mai interessato il gusto effimero di apparire, come capita ai ragazzi oggi con i social, sentivo di valere e avere qualcosa da dire”. Ha definito questo film un atto politico. Il cinema ha ancora il potere di cambiare le cose? “Ai tempi dei vostri Pasolini, Monicelli e De Sica era diverso, oggi non credo che un film possa cambiare le cose, ma le persone che vanno al cinema sì. Possono riattivare le coscienze e rimboccarsi le maniche. Vale per tutti, specie per i giovani”. Le nuove generazioni stanno vivendo grandi sfide: la crisi climatica, la pandemia, la precarietà del lavoro, i conflitti internazionali… “Vivono una vita in guerra: la guerra per il lavoro, per il clima, le guerre in atto, una guerra perenne su tutti i fronti. Ma la sfida più grande è quella climatica: le generazioni precedenti hanno trovato un modo per reagire alle guerre, alle malattie e a tutto il resto, ma al disastro ambientale non c’è rimedio. I giovani oggi hanno un nemico contro cui non possono combattere: non puoi vincere sul vento, le inondazioni, i cicloni, gli tsunami. È la prima volta nella storia che le giovani generazioni sono costrette ad affrontare tutto questo, non è un caso se poi uno su due non vuole avere figli”. La preoccupa? “Abbastanza, per questo trovo importante parlarne. La vera passione della mia vita non è il cinema, è la gente. Tutte le sere esco a prendermi un aperitivo solo per confrontarmi con gli altri, discutere senza schermi davanti. Amo non andare d’accordo e dibattere. Di persona, però, non dietro a uno schermo. Siamo in piena “guerra digitale”, tutto quello che diciamo o facciamo resta online per sempre. Chi viene accusato di molestie, anche se viene scagionato e dichiarato innocente, avrà sempre sulla biografia online scritto “abusatore”. L’onda antisemita, i casi triplicati dopo il 7 ottobre: “Ci sentiamo dei bersagli” di Luca Monticelli La Stampa, 12 novembre 2023 Svastiche e stelle di David sui muri, pietre d’inciampo bruciate e studenti insultati: segnalazioni a Roma, Milano, Livorno. Sputi e insulti a un gruppo di persone uscite dalla sinagoga di Firenze. A Milano, periferia est, sul muro di un palazzo compare una stella di David disegnata con lo spray rosso e il numero dell’interno in cui abita un’insegnante di religione ebraica. “Ti buttiamo dalla finestra” urlano i compagni di classe di una ragazza italo-israeliana di una scuola media. A Roma sono spuntate per le strade svastiche, stelle di David, quattro pietre d’inciampo sono state vandalizzate e il calciatore Azmoun è diventato suo malgrado protagonista di un coro allo stadio: “Il nostro centravanti è un iraniano, fa il saluto romano, odia negri e giudei, donne trans e gay. Nella As Roma non ci sono ebrei”, cantano gli ultras giallorossi. Questo è il clima che si respira in Italia dopo il 7 ottobre, quando Hamas ha assaltato i kibbutz al confine con la Striscia di Gaza, massacrando 1.400 persone e sequestrandone più di 240. Un mese di guerra a Gaza ha comportato una recrudescenza di odio nei confronti degli ebrei di tutto il mondo, anche quelli italiani patiscono offese, umiliazioni e magari sono costretti a nascondere i simboli religiosi. “Gli episodi sono tantissimi, decisamente sopra la media”, spiega Betti Guetta, responsabile dell’Osservatorio antisemitismo del Cdec, la “Fondazione centro di documentazione ebraica contemporanea”. Solo a ottobre l’antenna antisemitismo, che raccoglie i dati con il sostegno dell’Ucei, ha contato 75 segnalazioni contro persone di religione ebraica. Il confronto rispetto a ottobre dello scorso anno è emblematico: allora gli episodi erano stati una ventina. Al di là delle segnalazioni che riguardano il web e i social, sono in crescita le aggressioni, gli insulti, le minacce nella vita reale. “Il clima è molto cupo, qualche giorno dopo il 7 ottobre c’è stato un punto di svolta. Dei 75 episodi registrati, 40 sono molto concreti”, prosegue Guetta. Sul web e sui social, infatti, “la violenza verbale è incredibile, ma quando vedo che le persone trovano il coraggio di uscire di casa e inveire contro altre persone, scrivere sui muri, all’ansia subentra anche la sensazione di essere in pericolo. Sono cose che impressionano, che toccano da vicino. Ci consigliano di non indossare simboli ebraici, agli uomini di non mettere la kippah, conosco diverse famiglie che hanno tolto le mezuzah dalla porta di casa. Ci sentiamo dei bersagli”. Sul sito dell’Osservatorio del Cdec periodicamente vengono verificate e poi inserite tutte le segnalazioni. “Sono tante e inquietanti, sappiamo di alcuni ragazzi di Milano che hanno lasciato la scuola pubblica per iscriversi alla scuola ebraica. Un gruppo di studenti israeliani che frequenta la facoltà di medicina a Bologna ha raccontato il disagio per aver subito insulti da colleghi arabi, questi giovani adesso hanno paura ad andare all’Università”. Anche a Roma l’antisemitismo è entrato nelle scuole: al liceo Righi, uno studente ebreo è stato messo alla gogna da un professore. Sempre a Milano, vicino al quartiere ebraico, sono comparsi volantini minatori. In un altro locale, il proprietario ha trovato la scritta “i sionisti non sono benvenuti”. Gli episodi sono continui: dalla scritta “W Hamas” a Livorno al ragazzo americano aggredito alla Statale di Milano perché indossava una collana con la stella di David. Yad Vashem, il museo della Shoah di Gerusalemme, si è rammaricato per il fatto che le piazze pro palestinesi non abbiano condannato le atrocità di Hamas. Anche in Italia, Betti Guetta non ha notato una grande solidarietà per la mattanza del 7 ottobre: “Non c’è stata reale comprensione, si è detto subito “però Israele...”. Io sono un’ebrea di origine libica e so cosa sono i pogrom, li ha subiti la mia famiglia, e il 7 ottobre ci sono stati dei pogrom, questo è successo ma non è stato stigmatizzato abbastanza”. Così le moschee in Italia aiutano a contrastare il terrorismo di Paolo Biondani L’Espresso, 12 novembre 2023 Nel nostro Paese molte indagini contro il radicalismo nascono da “fonti confidenziali”: sono i responsabili dei luoghi di culto che avvertono la polizia. Il buon livello di collaborazione con le forze dell’ordine e le istituzioni fa parlare gli studiosi di “modello italiano”. Ma la destra li criminalizza. L’allarme terrorismo torna a trasformarsi in emergenza: come si può contenere un rischio di scala internazionale che sembra incontrollabile? Come si contrasta la violenza jihadista? Dagli studiosi più esperti arrivano risposte ragionate che descrivono una specie di modello italiano, che influenza anche le indagini delle forze di polizia. È l’opposto dello scontro di civiltà. Si basa su rispetto, collaborazione, dialogo. Se ne trova conferma in molte delle inchieste più importanti degli ultimi anni, che hanno smantellato reti di reclutamento di combattenti, evitato attentati, isolato e allontanato predicatori di odio. Contro il terrorismo jihadista, dicono queste indagini, i nostri più preziosi alleati sono i musulmani normali, le decine di migliaia di famiglie che vivono in pace nel nostro Paese, vanno a pregare nelle moschee, fanno parte di una comunità islamica, conoscono chi la frequenta. Gran parte delle segnalazioni sono arrivate da qui, soprattutto dalle moschee più grandi, ufficiali, con il minareto e tutte le autorizzazioni. Ma negli atti giudiziari resta scritto solo “fonte confidenziale”. “È molto importante evidenziare questo aspetto, che di solito non è considerato”, spiega un importante dirigente della polizia che ha guidato numerose inchieste sul terrorismo jihadista. “È sbagliato parlare di soffiate o di confidenti: non si tratta di denunce anonime. Ci sono interessi comuni, c’è una condivisione dei problemi che favorisce la collaborazione: i responsabili di molte moschee sono persone intelligenti e sanno che il terrorismo è una tragedia per tutti, per la polizia italiana e per la comunità musulmana”. All’origine delle “fonti confidenziali” ci sono familiari o amici del giovane radicalizzato, che sta subendo su Internet “il lavaggio del cervello” o è già partito per una “guerra santa”. Sono preoccupati e addolorati, ne parlano con altri, la notizia arriva alla moschea e, se l’allarme è serio, l’imam trova il modo di avvisare la questura o i carabinieri. Uno dei casi che hanno più impressionato magistrati e poliziotti ha avuto per protagonista un papà musulmano che vive e lavora in Lombardia da più di trent’anni. È un tradizionalista, con una visione religiosa integralista, ed è addirittura un reduce: negli anni Novanta era andato a combattere in Bosnia “per difendere la popolazione musulmana dai massacri serbi”. Un bel giorno, va in un commissariato e denuncia suo figlio. È partito per la Siria, è andato in guerra con un gruppo islamista che lui stesso considera terroristico. Il padre è distrutto: ha capito che l’unica speranza è farlo arrestare e riportare a casa dalla polizia italiana. Finisce male: il figlio muore in battaglia, al papà arriva solo un video straziante della sua agonia. Ma l’indagine va avanti e blocca la rete di reclutamento. Un’altra inchiesta nata in questi anni da una comunità islamica riguarda una ventina di jihadisti che stanno spostando la guerra civile siriana tra Milano e Roma: organizzano agguati e pestaggi contro musulmani disarmati e siriani di fede cristiana. Le vittime, terrorizzate, ne parlano con altre famiglie, che frequentano una delle maggiori moschee lombarde. A denunciare i capi della rete jihadista è un delegato dell’imam. La solita “fonte confidenziale”. Nel periodo peggiore, quando l’Isis spadroneggia in Siria e Iraq, un giovane radicalizzato su Internet si presenta in viale Jenner, a Milano, nella moschea più contestata dalla destra. Vuole andare a combattere e chiede complicità, convinto anche lui che lì dentro siano terroristi. L’imam, egiziano, è un rappresentante dei Fratelli musulmani, la storica organizzazione integralista che è salita al potere in nazioni come Qatar e Turchia. L’ultrà dell’Isis viene sbattuto fuori dalla moschea. Quindi l’imam chiama la polizia e lo denuncia. “In Italia, a differenza di altre nazioni, c’è un buon livello di collaborazione delle leadership islamiche con le istituzioni e le forze di polizia”, osserva il professor Stefano Allievi dell’Università di Padova. “Il caso italiano viene studiato all’estero. In Paesi come Francia, Belgio, Gran Bretagna ci sono comunità musulmane, anzi interi quartieri chiusi a riccio: con le forze di sicurezza non si parla. Le loro indagini sono monopolizzate dai servizi segreti, che dipendono dai governi. E gli studi mostrano che nelle inchieste condizionate dalla politica aumentano errori e falsi allarmi”. Allievi insegna sociologia e ha diretto il primo censimento di tutte le moschee in Italia. “In questi anni - spiega - i problemi di sicurezza hanno riguardato soprattutto i centri islamici più piccoli e incontrollabili, ricavati in garage e sedi di fortuna. Alcune comunità, nel Nordest, hanno subito l’influsso di imam itineranti provenienti dai Balcani. Ma i dati sul reclutamento confermano che la distorsione jihadista è rimasta isolata: in Italia i foreign fighters si contano a decine, in Belgio a centinaia, in Francia e Inghilterra a migliaia”. Lo studioso francese Olivier Roy ha descritto la “nascita di un jihadista” come un fenomeno tipico della seconda generazione: giovani nati in Europa che si sentono esclusi, traditi dall’Occidente. “I più sono paragonabili ai convertiti”, chiarisce Allievi: “Hanno un passato tutt’altro che religioso, subiscono l’ideologia jihadista come rivolta generazionale, rabbia sociale. La rete di relazioni conta più della religione. Lo confermano anche i casi italiani, da Giuliano Delnevo a Maria Giulia Sergio”. Oggi il grande problema sono i canali di propaganda: il Web, ma anche il carcere. La sicurezza totale non esiste: qualunque esaltato può fare la sua jihad, basta un coltello o un’auto. Ma per scoprire le organizzazioni terroristiche più strutturate, in grado di causare eccidi enormi, è fondamentale l’aiuto delle moschee, di tutti i pacifici musulmani d’Italia. Migranti. Cpr come lager: “Al di là di quella porta avvengono abusi e violenze” di Claudia Cangemi luce.lanazione.it, 12 novembre 2023 L’inquietante fotografia che emerge dal report di Naga e della rete “No ai Cpr” racconta una raccapricciante sospensione dei diritti in questi centri. Eppure il governo Meloni vuole moltiplicarli: almeno uno per ogni regione. Non solo: è di questi giorni la notizia dell’accordo con il premier albanese per realizzarne uno o due nel Paese balcanico. Sono i Centri di permanenza per il rimpatrio dei migranti, in sigla Cpr. Più che di permanenza, però, si tratta di detenzione, e delle più severe. Per molti versi in condizioni assai peggiori rispetto alle carceri, più regolamentate e trasparenti. È quanto emerge dallo studio intitolato “Al di là di quella porta - Un anno di osservazione dal buco della serratura del Centro di permanenza per il rimpatrio di Milano”, un report-denuncia realizzato da Naga in collaborazione con la rete “Mai più lager - No ai Cpr” in un anno di paziente e difficile lavoro di raccolta delle informazioni, “ostacolato in ogni modo dalle autorità competenti”, tanto che in diverse occasioni è stato necessario ricorrere al Tar per ottenere il rispetto dei diritti garantiti dalla legge. Chi finisce nei Cpr? - “La classica raccolta dati da analizzare si è rivelata impossibile a fronte della sostanziale inesistenza di dati ufficiali disponibili, e del rifiuto delle autorità a fornire quanto richiesto”, hanno spiegato le attiviste in occasione della conferenza stampa di presentazione dello studio, un volume di 220 pagine. “Dati, testimonianze, ricerche, cartelle cliniche, accessi agli atti, accessi civici generalizzati, sopralluoghi, verifiche ci hanno permesso di intravedere ciò che avviene in un Cpr e che rendiamo oggi pubblico. Abbiamo rilevato abusi, violenze e discriminazioni in tutti gli ambiti che abbiamo investigato”. Ma chi sono le persone che finiscono in questi “gironi danteschi”? Non pericolosi criminali bensì persone che hanno pagato migliaia di euro e affrontato ogni sorta di rischio e sofferenza per il lungo viaggio attraverso il deserto, le torture in Libia e la traversata del Mediterraneo per fuggire da guerra, persecuzioni e miseria e cercare una vita migliore per sé e i propri figli. Va sottolineato infatti che “le persone che vengono portate in un Cpr non hanno commesso reati, ma solo un illecito amministrativo, ovvero essere irregolari sul territorio. Già di per sé il trattenimento, ossia la limitazione della libertà personale, risulta essere una misura sproporzionata, ma tutto ciò che ne consegue rende questa misura intollerabile, inaccettabile e disumana”. Storie di abusi e violenze - “Abbiamo raccolto testimonianze che attestano una sistematica violazione del diritto alle cure; la visita di idoneità al trattenimento o non è svolta o è svolta senza strumenti diagnostici adeguati; la ‘visita medica’ di formale presa in carico da parte dell’ente gestore comprende umiliazioni e abusi quali, per esempio, la denudazione delle persone appena arrivate alla presenza del personale medico e di agenti di polizia e l’obbligo di fare flessioni per espellere eventuali oggetti nascosti nell’ano. Trattamento che ha la funzione di stabilire fin da subito la gerarchia e le regole del Cpr. Una volta spogliati della loro umanità, ai trattenuti viene assegnato un numero identificativo, con il quale saranno chiamati, da allora, fino al giorno in cui usciranno di là, segnati per sempre. Abbiamo verificato poi il trattenimento di persone con malattie gravi e croniche, come un tumore cerebrale e gravi problemi di salute mentale; frequente è la mancanza di personale medico e la sommarietà della gestione delle cartelle cliniche costituisce la regola, come pure costante è una sovrabbondante elargizione di psicofarmaci senza alcuna prescrizione specialistica”. Violazione dei diritti - A ciò si aggiunge la violazione del diritto all’assistenza legale: al migrante viene assegnato un avvocato d’ufficio “monouso” che assiste all’udienza di convalida del trattenimento, fatta in 5 minuti attraverso pessime connessioni online. Dopo di che la persona si trova sola. Agli avvocati di fiducia non viene consentito alcun colloquio con il proprio assistito, e neppure la possibilità di recarsi nel Cpr o comunicare con lui. Neppure la documentazione medica viene fornita né le informazioni relative allo stato della pratica di richiesta di asilo o di rimpatrio. Non è difficile immaginare cosa potrebbe accadere in un Cpr in Albania in termini di isolamento o di impossibilità di far valere diritti civili e umani. “Evanescenti sono anche le figure che si occupano di mediazione linguistica, interpretariato e assistenza psicologica, che pure dovrebbero essere presenti e, per contro, è debordante la presenza di agenti delle forze dell’ordine”. Accade così che il “trattenuto” si ritrovi in una situazione di sospensione dei diritti, tra cibo immangiabile a volte addirittura con i vermi, temperature tropicali d’estate e rigide d’inverno in stanze dalle condizioni igieniche molto precarie, cure scarse o inesistenti se si ammala, nulla da fare giorno dopo giorno e mese dopo mese se non attendere nell’angoscia il verdetto sul futuro: rimpatrio, con tutto ciò che comporta in termini di ritorno in condizioni spesso ancor più disumane, o (raramente) accoglimento del diritto d’asilo e rilascio, qualche volta con trattenimento delle somme sequestrate al migrante al momento dell’arrivo. L’autolesionismo come gesto disperato di ribellione: 14 morti - Un lungo inferno, senza possibilità di ribellarsi se non con gesti disperati. “Numerosissime sono le testimonianze di diffusi episodi di autolesionismo, labbra cucite, lamette ingoiate, tentativi di suicidio - soprattutto per impiccagione - e di percosse. 14 sono i morti, dal 2018 al 2022, nei Cpr d’Italia, con un’età media di 33 anni. Persone nelle mani dello Stato che sono state dichiarate in condizioni di salute compatibili con il trattenimento. A queste morti abbiamo provato a dare un’identità, ma 5 deceduti su 14 sono morti senza nome. Per 4 di loro non si sa nulla, né della loro identità né delle cause e circostanze del decesso”. Come avviene il rimpatrio - Quando viene deciso il rimpatrio, l’interessato non solo non viene informato in anticipo, ma addirittura, per evitare qualsiasi reazione, viene spesso ingannato. “Di solito tre agenti, che non sanno nulla delle condizioni di salute del migrante, entrano di notte nella stanza e lo colgono nel sonno. C’è chi resta sveglio o si addormenta sul pavimento sotto il letto per il terrore che ciò avvenga. Per indurlo a seguirli viene detto al malcapitato che non di rimpatrio si tratta ma di trasferimento in un altro Cpr o addirittura di rilascio. Appena nel cortile l’uomo viene ammanettato mani e piedi come il più pericoloso dei criminali, caricato sul cellulare e sedato con alte dosi di valium, senza neppure lasciargli la possibilità di chiamare l’avvocato o un familiare. In questo stato catatonico viene caricato sull’aereo e deportato in un Paese che non necessariamente è davvero il suo d’origine”. Sono 9, 619 posti in totale. Meloni vuole aumentarli - Nei programmi del governo Meloni, come si diceva, questi luoghi “di sofferenza e ingiustizia” sono destinati a moltiplicarsi. Al momento i Centri di permanenza per il rimpatrio sono 9, distribuiti in 7 regioni (Puglia, Sicilia, Lazio, Basilicata, Friuli Venezia-Giulia, Sardegna e Lombardia), e hanno una capacità di 619 posti: Bari, Brindisi, Caltanissetta, Roma, Palazzo San Gervasio, Trapani, Gradisca, Macomer e Milano. Il decimo, a Torino, è chiuso per ristrutturazione dopo i danneggiamenti. Secondo i dati forniti dal Garante dei detenuti, al momento i “trattenuti” in totale sono 592, di cui 587 uomini e 5 donne (tutte nel centro di Ponte Galeria a Roma, che è l’unico con una sezione femminile). L’ultima finanziaria ha stanziato 42,5 milioni di euro per i prossimi tre anni proprio per l’ampliamento della rete. I Cpr, in base al decreto Sud approvato il 19 settembre, entrano a far parte delle “opere destinate alla difesa nazionale a fini determinati”, al pari - ad esempio - di aeroporti, basi missilistiche, depositi di munizioni, caserme, basi navali. Al ministero della Difesa è stato dato mandato di realizzare le nuove strutture “nel più breve tempo possibile”: se ne occuperà il genio militare, che potrà adottare le procedure “in caso di somma urgenza e di protezione civile”, previste dal nuovo Codice degli appalti. I siti saranno considerati di interesse nazionale per la sicurezza e verranno scelti tra caserme, aree militari dismesse o altri edifici che dovranno essere ristrutturati dai genieri militari. Le strutture dovrebbero essere in posti “a bassissima densità abitativa e facilmente perimetrabili e sorvegliabili”, senza creare “ulteriore disagio e insicurezza nelle città italiane”. I tempi massimi di permanenza passano dagli attuali 9 a 12 mesi, prorogabili di altri 6 se, “nonostante sia stato compiuto ogni ragionevole sforzo, l’operazione di allontanamento sia durata più a lungo a causa della mancata cooperazione da parte dello straniero o dei ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione dai Paesi terzi”. Cinquemila euro per evitare la detenzione - Secondo il decreto pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, inoltre, per non essere rinchiuso in un Cpr fino all’esito dell’esame del proprio ricorso contro il rigetto della domanda di asilo, il migrante deve fornire una “garanzia finanziaria” di 4.938 euro che servirà per il periodo massimo di trattenimento, cioè quattro settimane, a garantire “la disponibilità di un alloggio adeguato sul territorio nazionale; della somma occorrente al rimpatrio e di mezzi di sussistenza minimi”. Nel testo si legge anche che questa garanzia deve essere versata “in unica soluzione mediante fideiussione bancaria o polizza fideiussoria assicurativa ed è individuale e non può essere versata da terzi”. E dovrà arrivare “entro il termine in cui sono effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico”. Il decreto prevede inoltre che nel caso in cui la persona in questione “si allontani indebitamente, il prefetto del luogo ove è stata prestata la garanzia finanziaria procede all’escussione della stessa”. “Il nostro parere su questi provvedimenti - concludono le attiviste di Naga e Rete - che non può non essere di censura totale, è che le due funzioni reali che tentano di assolvere sono differenti da quanto annunciato. Da una parte, propaganda politica che fa leva sul tema della sicurezza e della criminalizzazione dell’immigrazione; dall’altra, deterrenza verso l’immigrazione definita irregolare. Il primo effetto potrebbe anche essere raggiunto. Il secondo, come sempre avvenuto negli ultimi 25 anni di legislazione sull’immigrazione, ignora la realtà di un fenomeno che non è mai stato frenato da nessun inter vento finalizzato alla sua repressione”. Migranti. “No alle città-carcere di Salvini e Piantedosi” di Giancarlo Perego* Il Resto del Carlino, 12 novembre 2023 Notizia improvvisa della realizzazione di un Cpr a Ferrara: preoccupazione per la mancanza di tutele, rispetto della dignità e luoghi aggregativi. Soluzione? Una città aperta, inclusiva, che sappia accogliere, tutelare, promuovere e integrare. Ha destato grande sorpresa e preoccupazione la notizia improvvisa della realizzazione di un Cpr. I Centri di permanenza per i rimpatri sono luoghi di trattenimento del cittadino straniero in attesa dell’espulsione. Il trattenimento può durare fino a 180 giorni. In Italia sono 10 per una capienza complessiva di 1.378 posti: Bari, Brindisi, Caltanissetta, Gradisca d’Isonzo, Macomer, Milano, Palazzo San Gervasio, Roma, Torino, Trapani. Lo straniero deve essere trattenuto con modalità tali da assicurare assistenza e rispetto della sua dignità. Li ho visitati tutti: sono carceri, spesso a cielo aperto, gabbie senza le tutele delle carceri. Le persone non di rado incendiano tutto, si radicalizzano, si disperano, si autolesionano. Mediamente tre trattenuti su quattro vengono espulsi e uno è lasciato libero perché scaduti i termini. Perché un Cpr a Ferrara? Ferrara è la provincia con meno immigrati e meno espulsioni di tutta l’Emilia Romagna. Ha già un carcere, anche per reati di mafia. Soffre economicamente più di tutte le province della regione. Ferrara non ha un porto importante sull’Adriatico. Allora perché? Forse una città più in sintonia con il governo delle migrazioni di Salvini e Piantedosi? Perché sviluppare l’idea di una “città carcere”, luogo di reclusione, più che di inclusione, di rifiuto più che di accoglienza, di negazione dei diritti più che di tutela? Forse avremmo bisogno piuttosto di luoghi aggregativi per i giovani, di un Auditorium, di altri collegi universitari? Di più case per i migranti lavoratori e le loro famiglie e i rifugiati, di progetti Sai di integrazione, per andare incontro anche alla grande richiesta di lavoratori stagionali? Forse, di fronte alle guerre in atto, non dovremmo essere una città-asilo anche per rifugiati e richiedenti asilo? Più che una città carcere il futuro di Ferrara dovrebbe essere quello di una città aperta, inclusiva, che sappia accogliere, tutelare, promuovere e integrare: la città voluta dal grande architetto e urbanista del Dopoguerra Michelucci e sognata da Papa Francesco, la sola città che ha un futuro. *Arcivescovo di Ferrara e presidente Fondazione Migrantes Migranti. Delocalizzazione dei richiedenti asilo. Apertura di Scholz di Giansandro Merli Il Manifesto, 12 novembre 2023 Ma il segretario del Pse Loefven attacca l’intesa Italia-Albania: “Per l’immigrazione serve una cornice progressista”. La destra se la prende con Schlein. Lei tiene il punto: “Viola la costituzione”. Se non è proprio un assist a Giorgia Meloni è sicuramente un passaggio che mette in fuorigioco gli avversari, che in questo caso sarebbero i suoi compagni di squadra. A margine del congresso del Partito socialista europeo (Pse) di Malaga, il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha detto che accordi come quelli tra Italia e Albania per l’esternalizzazione dei richiedenti asilo in paesi terzi “sono possibili e tutti noi li esamineremo molto attentamente”. Una posizione isolata nell’incontro, tanto che il presidente del Pse Stefan Loefven sottolinea che “serve un framework progressista per le migrazioni” e “non il modo in cui il governo dell’estrema destra in Italia vuole esternalizzare le richieste di asilo in Albania”. Isolata, ma di peso. Per Scholz “le regole che sono state prese in considerazione lì sono possibili”. Anche perché “l’Albania sarà presto membro dell’Unione e stiamo quindi parlando di come risolvere insieme sfide e problemi nella famiglia europea”. In realtà nel Consiglio Ue di mercoledì scorso la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha raccomandato l’apertura dei negoziati con Ucraina e Moldavia, lasciando in lista d’attesa i Balcani. Tirana inclusa. Un ulteriore segno che i socialdemocratici tedeschi si stanno ponendo seriamente il problema di piazzare fuori dai confini Ue chi cerca protezione. Le europee di giugno incombono e la Spd potrebbe voler scommettere su una limitazione dei diritti delle persone migranti per limitare la crescita delle destre estreme e moderate. Una strategia che nei 30 anni di migrazioni di massa verso il Vecchio Continente il centrosinistra ha sperimentato a varie latitudini. Ogni volta è stato un boomerang. Limitare i movimenti secondari, cioè quelli tra le frontiere interne, è una grande preoccupazione per la Germania, la meta principale dei flussi tra i 27 paesi membri (nel 2022 ha ricevuto da sola quasi il 25% delle 996mila richieste d’asilo complessive dell’Ue). La possibilità di autorizzare le procedure accelerate di frontiera anche in Stati terzi era stata dibattuta nel vertice europeo dei ministri di giustizia e interno dell’8 giugno scorso: l’Italia l’ha spuntata ed è finita nel Regolamento. Negli ultimi giorni da Berlino erano già arrivati altri segnali preoccupanti, in particolare su una proposta di legge per sanzionare chi aiuta i migranti, prevedendo fino a cinque anni di carcere anche per i soccorsi in mare. Una misura che andrebbe contro il supporto, politico e finanziario, del governo tedesco alle Ong del Mediterraneo che però venerdì il ministero dell’Interno ha smentito. Tornando all’intesa italo-albanese le dichiarazioni di Scholz hanno fatto esultare la destra italiana. Per Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera di Forza Italia, il cancelliere ha dato “una lezione di stile e politica al Partito democratico”. Anche Tommaso Foti, presidente dei deputati di Fratelli d’Italia, coglie la palla al balzo e guarda in casa dem: “Elly Schlein non ne azzecca mai una”. La segreteria del Pd, durante la riuscita manifestazione di piazza del Popolo, non ha dedicato particolare spazio alla vicenda, ma ha comunque tenuto il punto: “Quell’accordo viola la Costituzione”. La premier Meloni ne ha nuovamente rivendicato il carattere “storico”, ma ancora siamo alla cronaca. E gli ostacoli di fronte all’effettiva realizzabilità del trasferimento di 36mila richiedenti asilo l’anno al di là dell’Adriatico restano tutti lì. E sono di natura logistica, economica e legale. Su questi piani si aspettano le prossime mosse del governo. Non sarebbe la prima volta che in tema d’immigrazione la leader di FdI, dopo aver annunciato svolte epocali, si trova costretta a decisi passi indietro. Per colpa di qualcun altro, ovviamente. Medio Oriente. La pace oltre i cliché di Giovanni De Luna La Stampa, 12 novembre 2023 Gli stereotipi negano la complessità, appiattiscono i problemi semplificandoli, lasciano riemergere le leggi, approssimative, dell’alba dell’umanità. Dal 7 ottobre tra il popolo palestinese e quello israeliano si è scavato un baratro di odio che oggi appare incolmabile. Se in tutte le guerre l’avversario diventa un nemico, in quel conflitto particolare i due popoli si dichiarano nemici da sempre e si comportano di conseguenza. Da entrambe le parti si combatte con la determinazione di chi pensa di essere dal lato giusto della storia, proponendosi l’obiettivo di annientare il nemico: non di sconfiggerlo militarmente ma proprio di cancellarlo dalla terra. Hamas vuole buttare a mare gli israeliani, Israele vuole sradicare il fondamentalismo da quello che considera il suo territorio. In questo contesto, a ogni efferatezza commessa sul campo si accompagna una visione bestiale del nemico, con il dilagare di stereotipi tanto ovvi quanto brutali: da un lato l’ebreo ricco, tronfio della sua opulenza, forte di una incontestabile superiorità tecnologica che ne rafforza il tradizionale egoismo; dall’altro l’arabo infido, sanguinario, violento e vile, che non affronta mai il nemico in campo aperto. Quella guerra, quindi, come tutte le guerre, è una tragedia umanitaria ma anche una catastrofe culturale. Gli stereotipi negano la complessità, appiattiscono i problemi semplificandoli, lasciano riemergere le leggi, approssimative, dell’alba dell’umanità: la vendetta, la rappresaglia, la legge del taglione, quella dell’occhio per occhio dente per dente. Secoli di civiltà giuridica appaiono schiacciati sotto il peso dei luoghi comuni; e soccombono anche le lezioni della storia. Nelle guerre del passato la logica dell’annientamento non ha mai portato fortuna a chi l’ha sbandierata. Solo in quelle coloniali dell’Ottocento, quando la sproporzione delle forze in campo a vantaggio delle potenze europee era evidente, l’annientamento del nemico e l’incorporazione del suo territorio si rivelarono obiettivi vincenti. Non fu così nel ‘900. Quando Mussolini aggredì l’Etiopia, non aveva intenzione di sconfiggerla militarmente ma di occuparla e farne una colonia per il nostro “posto al sole”. Sappiamo come è finita: solo cinque anni dopo l’ingresso delle truppe italiane ad Addis Abeba, l’impero africano del Duce si sgretolò sotto i colpi degli inglesi e dei fedeli del Negus. Anche i progetti di Hitler sugli sconfinati spazi dell’est europeo e sulle popolazioni slave che li abitavano non prevedevano una soluzione diplomatica. Nel “nuovo ordine europeo” vagheggiato dal nazismo l’area dell’Europa centro-orientale era destinata a diventare una colonia di popolamento (nella quale trasferire parte della sovrabbondante popolazione tedesca) e di sfruttamento; In Polonia, nelle repubbliche baltiche e nella stragrande maggioranza delle regioni dell’Urss, l’occupazione ebbe così i caratteri di una conquista violenta di territori e risorse con l’intento di una radicale riorganizzazione demografica e sociale (massacri e deportazioni di civili, distruzioni delle classi dirigenti) finalizzata alla colonizzazione tedesca del nuovo spazio vitale. Questo progetto schiavistico si infranse a Stalingrado, sbriciolandosi di fronte alle truppe di Stalin. Lì, nella Israele di Netanyahu, queste lezioni della storia vengono ignorate così come quelle di una civiltà giuridica giudicata obsoleta, anacronistica nel suo formalismo, estenuata da una pratica che ha finito per svuotarla di ogni valore. La stessa insofferenza ostentata nella striscia di Gaza da Hamas nei confronti di una religione cattolica, i cui principi vengono giudicati sviliti dagli stessi “infedeli”. Tutto questo, come anche il dilagare degli stereotipi, si può capire quando lo si vede affiorare nelle scelte di chi è convinto di giocare una partita decisiva per la propria sopravvivenza. Non si capisce affatto se lo si ritrova invece nei comportamenti e nelle scelte di chi assiste da lontano a quella guerra, non ne sperimenta direttamente le sofferenze e i lutti e sembra esercitarsi in trasporti emotivi che somigliano molto a quelli del tifo sportivo. Per i due contendenti la pace oggi sembra impossibile. Ma per noi che guardiamo a quella guerra dai nostri divani una riflessione sul modo di far finire quelle stragi è necessaria. Proprio nel nome della nostra storia e della nostra civiltà giuridica. Una pace ci deve essere per i due contendenti e una pace si stipula con il nemico. E spetta proprio a noi indicarne la via, a noi che possiamo permetterci la calma, la ponderatezza, il senno di poi di chi quelle vicende le ha attraversate in passato e vive oggi in una realtà che ci piace raccontare come “pacifica e operosa”. Quando dico noi parlo dei paesi dell’Europa occidentale di quelli che in quasi ottanta anni avrebbero dovuto imparare come i benefici della pace superino di gran lunga quelli dei bottini di guerra. Abbiamo alle spalle due guerre mondiali, la Shoah, le tragedie dei totalitarismi: non ci siamo fatti mancare niente scannandoci nelle trincee della prima guerra mondiale, distruggendo le nostre città con i bombardamenti della seconda. Ma poi con la pace scoprimmo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, l’Onu, l’Unione Europea. Ed è proprio attingendo a quella tragica esperienza che possiamo indicare una via di uscita al conflitto tra israeliani e palestinesi che non sia solo il reciproco annientamento. La lezione l’abbiamo imparata sulla nostra pelle; trasmetterla agli altri non è un gesto di supponenza ma un elementare obbligo morale. Medio Oriente. La guerra agli indifesi di Monica Minardi La Stampa, 12 novembre 2023 La Presidente di Medici senza Frontiere: “Noi siamo pronti a inviare nuovi team e forniture mediche a Gaza. Ma qualsiasi sforzo sarà insufficiente o inutile senza un cessate il fuoco immediato”. La guerra esiste, è sempre esistita e, probabilmente, sempre esisterà. E la sofferenza arrecata alla popolazione civile accomuna tutte le guerre. Per proteggere chi non imbraccia le armi, c’è il diritto internazionale umanitario che non chiede né pace, né giustizia, ma il rispetto, durante le operazioni militari, del principio di distinzione tra obiettivi militari e popolazione civile, e dei principi di umanità e proporzionalità, che impongono limiti e condizioni all’utilizzo della forza. Non un costrutto legale astratto, ma un quadro di norme per limitare gli effetti più devastanti dei conflitti, assicurando la protezione dei civili e l’accesso dei soccorritori. È doverosa la condanna al brutale attacco del 7 ottobre e alla presa degli ostaggi da parte di Hamas. Da allora bombardamenti incessanti e indiscriminati hanno scatenato una punizione collettiva oltre ogni regola. A Gaza, dove un’intera popolazione viene equiparata a un obiettivo militare e costretta a movimenti forzati, è stato screditato lo spirito stesso del diritto internazionale umanitario, mentre diventa totalmente irrealistico un efficace dispiegamento degli aiuti. Prima del 7 ottobre, tra i 300 e i 500 camion di rifornimenti entravano nella Striscia ogni giorno. Per settimane il valico di Rafah è stato chiuso, dal 21 ottobre a oggi è transitata una media di 40 camion al giorno: beni essenziali del tutto insufficienti per gli oltre 2 milioni di palestinesi sotto assedio. È fondamentale interrompere bombardamenti e attacchi indiscriminati per consentire un flusso costante e prevedibile di forniture mediche e umanitarie. Attraverso più valichi e su tutta la Striscia e non in aree predefinite, e senza mai diventare uno strumento per spingere le persone a spostarsi. A Gaza, oggi, non c’è un posto sicuro. Anche l’eventuale presenza di combattenti tra i civili non giustifica mai la trasformazione di un’intera area urbana in obiettivo militare. Un ospedale, un’ambulanza non dovrebbero mai essere un target, ma questi attacchi accadono quasi ogni giorno e si stanno ancora intensificando. “La situazione è catastrofica”, dicono dottori e infermieri di Medici Senza Frontiere che operano ad Al Shifa. E a Gaza le strutture mediche sono colpite due volte: dai bombardamenti e dalla mancanza di gasolio, elettricità e farmaci essenziali, che alla fine ne causano la chiusura. Rendere insicure le strutture sanitarie, concepite per offrire cure e salvare vite, è un attacco diretto ai principi fondamentali del diritto umanitario internazionale e all’umanità. L’uso di civili come scudi umani è altrettanto disumano, oltre che proibito, come la presa di ostaggi, ma nemmeno è consentito condizionare gli aiuti al loro rilascio. Il ruolo delle organizzazioni umanitarie, come MSF, non è lamentare la violazione delle norme umanitarie, ma chiedere quotidianamente il loro rispetto agli eserciti o ai gruppi armati che controllano territori e popolazioni. Non sempre funziona, non tutti i giorni, ma queste non sono regole per umanitari, sono responsabilità di tutti gli Stati. Oggi più che mai serve la loro applicazione in Medio Oriente dove il conflitto arabo-israeliano, irrisolto da troppo tempo, è entrato in una inaudita spirale di violenza politica e militare. La gravità della situazione impone a tutti, soprattutto ai paesi con un’influenza nella regione, e anche all’Italia, di chiedere un immediato cessate il fuoco. Le pause umanitarie di alcune ore non bastano. Noi siamo pronti ad aumentare la nostra risposta a Gaza con l’invio di nuovi team e forniture mediche. Ma qualsiasi sforzo sarà insufficiente o inutile senza un cessate il fuoco immediato. Medio Oriente. Affari con Hamas e discorsi d’odio: le zone d’ombra dell’Onu a Gaza di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 12 novembre 2023 L’Unrwa gestisce da 70 anni l’emergenza dei rifugiati palestinesi in Medio Oriente. L’agenzia ha ricevuto negli anni miliardi di dollari dai paesi donatori e spesso è stata accusata di connivenza con il gruppo islamista. L’Unrwa è l’agenzia delle Nazioni Unite che da oltre settant’anni si occupa per mandato dei rifugiati palestinesi in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza ma anche nei campi profughi in Siria e in Libano. Fu creata nel 1948 alla fine della prima guerra arabo- israeliana con i soli voti contrari del blocco comunista che all’epoca vedeva nell’agenzia “uno strumento dell’imperialismo americano”. Di fatto i rifugiati palestinesi sono l’unica popolazione che dipende da un organismo ad hoc, distinto dall’Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr) che gestisce le emergenze umanitarie nel resto del mondo. C’è subito una cifra che salta all’occhio, qualcosa di difficilmente spiegabile che attiene alla metafisica: l’Unhcr ha a libro paga circa 6400 impiegati per occuparsi di circa sessanta milioni di profughi sparsi in tutto il pianeta (un operatore ogni 9375 rifugiati) , mentre l’Unrwa dà lavoro a oltre 28mila persone per occuparsi di cinque milioni di palestinesi (un operatore ogni 178). Si tratta in gran parte di insegnanti, medici e lavoratori sociali, al 95% assunti tra le persone del luogo. Il 70% di loro lavora nel campo dell’educazione, il principale core business dell’agenzia che gestisce programmi pedagogici per 800 scuole elementari e decine di istituti superiori per un totale di 500mila studenti. Il suo budget annuale gravita intorno al miliardo di dollari provenienti in gran parte dagli Stati Uniti, da Arabia Saudita, Iran e Kuwait e dai principali paesi europei più altri donatori non governativi e molto eterogenei come Bank of Palestine, Fondation Real Madrid, Islamic relief Canda e il gruppo giapponese Uniqlo. Nella sua lunga storia l’Unrwa si è ovviamente occupata di venire incontro ai bisogni materiali dei palestinesi offrendo servizi gratuiti e un’assistenza a tratti essenziale. Ma è stato spesso oggetto di critiche feroci, accusata da Israele di connivenza se non proprio di venire controllata dalle milizie islamiste di Hamas a cui dirotterebbe parte di finanziamenti e di tenere un discorso pubblico ostile all’esistenza dello Stato ebraico. Nel 2014, durante le drammatiche fasi dell’operazione militare israeliana “Bordo di protezione” diverse istallazioni militari di Hamas sono state ritrovate negli scantinati di scuole, ospedali e altri centri gestiti dall’Unrwa, circostanza ammessa dai suoi stessi dirigenti. Anche la destra americana ha più volte attaccato l’Unrwa per gli stessi motivi, in particolare l’entourage di Donald Trump che durante la sua presidenza ha ridotto in modo significativo il flusso di dollari destinato all’agenzia. Non solo attacchi politici e di parte, però: nel 2022 l’ong Un Watch, che da trent’anni controlla che le Nazioni unite rispettino la loro Carta fondamentale, ha infatti pubblicato un rapporto che documenta come nelle scuole di Gaza e della Cisgiordania gli insegnanti dell’Unrwa incitino i giovani palestinesi all’odio nei confronti di Israele diffondendo contenuti antisemi-ti e a volte esplicitamente “neonazisti”. Vengono citati testimoni diretti ma anche gli stessi programmi scolastici e libri di testo fondati sull’insegnamento della legge coranica e sul rifiuto dei diritti umani in cui gli ebrei sono “assassini”, i terroristi di Hamas “martiri” e, manco a dirlo, la Shoah non è mai realmente esistita. La stessa Un watch ha ricevuto a sua volta critiche per posizioni troppo filo- israeliane e per l’aggressività che ha riservato al Consiglio dell’Onu per i diritti umani ma le conclusioni a cui è giunto il rapporto sono difficilmente smentibili. L’aspetto più allarmante è che sono decenni che l’Unrwa coltiva questa ambiguità di fondo facendo poco e nulla per rimuoverla: nel 2004, quando Hamas non aveva ancora preso il potere a Gaza, l’ex commissario, il danese Peter Hansen ammise che “circa il 30%” degli operatori dell’agenzia sono membri del movimento islamista malgrado quest’ultimo sia considerato un’organizzazione terrorista. Parole che spinsero l’allora Segretario generale Kofi Annan a non rinnovare il suo mandato. Nel 2009 ci fu anche una denuncia di un ex consigliere, lo statunitense James G. Lindsay che accusò l’Unrwa di non effettuare alcun controllo nel reclutamento dei suoi impiegati e di fare “pochissimi passi” per evitare che l’agenzia venga infiltrata dall’ala militare di Hamas. Più recentemente, nel 2021, è stato il parlamento europeo a esprimere preoccupazione per “l’incitamento alla violenza” che avviene regolarmente nelle scuole palestinesi controllate dall’Unrwa. Poi ci sono anche le denunce di corruzione e nepotismo, l’accusa di gonfiare i dati demografici dei rifugiati per ottenere più finanziamenti, e poiché si tratta del solo organismo autorizzato a far entrare dollari liquidi a Gaza che rifiuta transazioni via carta bancaria è sospettata di ingrassare la macchina del contrabbando di Hamas in un sistema che, al netto della durissima occupazione israeliana, mantiene da decenni milioni di palestinesi nella più assoluta povertà materiale. Sudan. Guerra senza soluzioni: violenze “spaventose” e negoziati fallimentari di Filippo Zingone Il Manifesto, 12 novembre 2023 6 milioni i profughi. Khartoum e Darfur a ferro e fuoco, sanità al collasso. E anche Emergency è in difficoltà. La guerra civile tra esercito sudanese e Rapid support forces (Rsf) sul campo “sta rasentando il male assoluto” ha detto venerdì Clementine Nkweta-Salami, coordinatrice umanitaria dell’Onu per il Sudan. I combattimenti continuano a Khartoum e nel Darfur, dove le violenze contro i civili ricordano le atrocità di 20 anni fa. “Continuiamo a ricevere segnalazioni spaventose di violenze sessuali, sparizioni, detenzioni arbitrarie e gravi violazioni dei diritti umani e dei bambini” ha detto Nkweta-Salami, che sottolinea come nel Darfur siano sempre più frequenti le persecuzioni su base etnica, specie nei confronti della minoranza non araba dei Massalit. Il numero degli sfollati non smette di salire: ad oggi più di 6 milioni di civili sono rifugiati interni o nei paesi confinanti. Giovedì l’Onu ha posto in luce il crescente flusso verso il Sud Sudan, “aumentato del 50% da settembre a ottobre” ha detto il portavoce del Segretario generale delle Nazioni unite. Persone che si aggiungono ai 366mila profughi già presenti nel giovane stato africano. Anche Ciad ed Etiopia registrano un incremento degli arrivi. In Ciad vengono segnalate uccisioni “per motivi etnici”; in Etiopia la situazione rimane complicata dati gli scontri locali. Il sistema sanitario, già in difficoltà prima dello scoppio della guerra civile ad aprile, oggi è “praticamente inesistente” dice al manifesto Pietro Parrino, direttore del dipartimento delle missioni sul campo di Emergency. “Le strutture sanitarie più importanti del paese, o quantomeno quelle che funzionavano erano a Khartoum e oggi sono tutte ferme”. Nella capitale sudanese la ong italiana ha due strutture, ma “le ammissioni sono state chiuse, data l’impossibilità di far arrivare medicine e materiali. Il reparto traumatologico è stato chiuso anche perché le autorità sudanesi ci stanno dicendo che non vogliono avere un centro del genere in una zona sotto il controllo delle Rsf” dice Parrino. Ma se nella capitale le strutture di Emergency “non sono state oggetto né di attacchi diretti né di saccheggi”, lo stesso non si può dire per il centro pediatrico di Nyala in Darfur, che il 25 ottobre è stato saccheggiato e tutto il personale locale arrestato. “Il personale è stato rilasciato e l’ospedale oggi è completamente pulito e riordinato. I danni subiti dalla struttura non ci permettono di riaprirla a breve, ma vogliamo farlo il prima possibile”. Con i combattimenti in corso e le difficoltà di movimento che ne conseguono poi “anche una malattia che presa in tempo poteva essere curata degenera diventando incurabile”. Anche per questo Emergency ha trovato un accordo con l’autorità sudanese affinché vengano aperte 5 cliniche nei dintorni di Khartoum “per garantire le cure ai nostri pazienti” dice Parrino. Sul piano politico l’ennesimo incontro tra le parti in conflitto, tenutosi questa settimana a Jeddah, non ha portato a un accordo di cessate il fuoco. Il fallimento di questi ultimi colloqui, guidati dall’Arabia Saudita, dagli Usa e dal blocco regionale Intergovernmental Authority on Development (Igad), non lascia ben sperare che le parti trovino presto un accordo di pace.