60mila detenuti e il governo butta la chiave di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 11 novembre 2023 “Chiudere, chiudere, chiudere”. È oggi il mantra che si sente ripetere dalle parti del ministero della Giustizia, come se nulla fosse accaduto in passato. I detenuti hanno raggiunto la quota di 60 mila. Più o meno 10 mila in più rispetto alla capienza regolamentare. Numeri che non si vedevano da tantissimo tempo. Era il 2013 quando l’Italia fu condannata per trattamento inumano e degradante a Strasburgo, da parte della Corte Europea dei diritti umani, nella famosa sentenza Torreggiani. I giudici affermarono perentoriamente che il sovraffollamento rendeva intollerabili le condizioni di detenzione nel nostro Paese. Fu allora che l’amministrazione penitenziaria, finalmente, si adeguò ai più elevati standard europei, proponendo modelli di vita interni più aperti e la possibilità per il detenuto comune di trascorrere almeno otto ore al giorno fuori dalle celle anguste e affollate. “Chiudere, chiudere, chiudere”. È oggi il mantra che si sente ripetere dalle parti del ministero della Giustizia, come se nulla fosse accaduto in passato. A ogni riunione in ambito penitenziario, alla quale partecipano esponenti di Governo, si invitano i direttori a chiudere i detenuti in cella, riproponendo modelli di detenzione pre-moderni, ben lontani da ogni ipotesi di pena umana e tendente alla risocializzazione. È dunque oramai certificato il ritorno al passato: i detenuti devono restare fermi nelle loro celle e uscire da esse solo per partecipare ad attività particolari, scuola, lavoro o qualche altra forma di intrattenimento. Questa è la nuova filosofia carceraria al tempo del governo delle destre. La pena della reclusione viene dunque intesa come reclusione in cella e non come reclusione in carcere. Cella e carcere vengono fatti coincidere pericolosamente. Si tratta di un regalo ai sindacati autonomi di Polizia Penitenziaria. Solo una quota minima di detenuti potrà aspirare a vivere in carceri aperte. Saranno i destinatari di progetti di trattamento avanzato. Eppure nella legge penitenziaria del 1975, ancora prima all’articolo 27 della Costituzione, e nelle regole penitenziarie europee o in quelle Onu (Mandela Rules) non si dice che il trattamento finalizzato al ritorno verso la società libera sia qualcosa riservato solo a una sparuta e selezionata parte di detenuti. Non c’è scritto da nessuna parte che la normalità del trattamento sia la chiusura nelle celle per venti ore al giorno. Non è così che si assicurano responsabilità, qualità della vita. Non è così che si costruiscono modelli di vita comunitari che assomiglino alla vita normale che i detenuti si ritroveranno nella libertà. Il sovraffollamento crescente riporterà l’Italia inevitabilmente davanti ai giudici di Strasburgo per la mancanza di spazi nelle celle e l’impossibilità di disporre di più di tre metri quadri a testa. L’unica via di salvezza sarebbe stata la previsione di ampi momenti della giornata che si potessero trascorrere negli spazi comuni, ossia in carcere ma non in cella. La decisione di chiudere una gran parte dei detenuti nelle celle per molte ore al giorno asseconda il volere di retroguardie sindacali e fa male al sistema penitenziario italiano, rendendolo disumano e fragile davanti alle Corti. Infine, in questo frangente due notizie di segno opposto. La prima è negativa e rischia di cambiare il volto delle nostre carceri. Con la contrarietà della Cgil, e gliene va dato atto, sta per essere approvata una riforma che produrrà una sovra-rappresentazione della Polizia Penitenziaria negli uffici dirigenziali dell’amministrazione penitenziaria, così spingendo verso un modello organizzativo di tipo marcatamente custodiale. La seconda è una buona notizia. Nei prossimi giorni si insediano nuovi cinquantasette direttori, che arrivano dalla libertà dopo un anno di corso di formazione. Non accadeva da quasi trent’anni. Speriamo che una ventata di entusiasmo stravolga il nostro asfittico panorama carcerario. *Presidente Associazione Antigone 166 milioni per costruire carceri? Medioevo, no grazie di Marcello Pesarini* Ristretti Orizzonti, 11 novembre 2023 All’interno della Finanziaria “Prometti e non mantieni” dell’esecutivo Meloni, il Ministero delle Infrastrutture di Salvini sostiene di avere a disposizione 166 milioni di euro per la ristrutturazione di alcune strutture penitenziarie. Alcuni di essi aumenteranno la capienza, altri rabberceranno o ammoderneranno. Ma in questo Medio Evo che nulla trascura, dall’esportazione di immigrati in Albania, al mancato impegno governativo per il cessare delle ostilità nella Striscia di Gaza, a fronte di un calo dei reati negli ultimi tre decenni, e dalla constatazione che le alternative alla detenzione sono in grande crescita, dalle 3mila di trent’anni fa sono diventate oltre 60mila, più dell’intera popolazione carceraria che perciò è costituita da 60.000 ristretti e 60.000 in misure alternative., L’opposizione, dal canto suo, tre giorni fa ha presentato alla Camera una proposta di legge sulle case territoriali di reinserimento sociale, ovvero “una riforma possibile del carcere”, come la definisce il primo firmatario Riccardo Magi. La proposta mira a “istituire strutture alternative al carcere, volte ad accogliere tutti i detenuti e le detenute che stanno scontando una pena detentiva anche residua non superiore a dodici mesi”. Parliamo di 7.200 persone (dati aggiornati al 31 dicembre dell’anno scorso) che potrebbero uscire di prigione, con un miglioramento sensibile della vivibilità all’interno degli istituti di pena, che vedrebbero diminuire sensibilmente la loro popolazione, che, al 31 ottobre, ammonta a 60.000 unità, di cui 8.000 in sovrannumero. “In queste nuove strutture, di capienza limitata, compresa tra cinque e quindici persone, che sarebbero istituite d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni, sentiti i Comuni, sarebbe concretamente possibile dare attuazione al principio costituzionale della finalità rieducativa della pena, con lavori di pubblica utilità e progetti che coinvolgano figure di educatori, psicologi e assistenti sociali, e altre attività cogestite con enti del terzo settore - questo prevede la pdl. Anche il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, presieduto da Mauro Palma, aveva evidenziato l’opportunità di istituire strutture di responsabilità territoriale diverse dal carcere di questo tipo, riconoscendo l’inadeguatezza della stragrande maggioranza delle carceri italiani a rappresentare un luogo in cui sia garantito il reinserimento Sociale dei detenuti”. Oltre a Magi, la proposta è stata sottoscritta da Deborah Serracchiani e Federico Gianassi del Pd, Enrico Costa di Azione, Luana Zanella e Devis Dori dell’Avs e Benedetto Della Vedova di Più Europa. Nei 6 istituti marchigiani, che ospitano 914 detenuti, di cui 23 donne, su una capienza regolamentale di 837, le numerose attività trattamentali segnano spesso il passo anche per il sovraffollamento, del quale peraltro soffrono agenti di polizia penitenziaria e personale pedagogico e sanitario. Guardiamo infine con speranza alle dichiarazioni del sottosegretario alla Giustizia e senatore Andrea Ostellaro, che ha dichiarato che entro il 20 novembre entreranno in carica 57 nuovi direttori di Carcere in tutt’Italia, superando il fenomeno delle direzioni a scavalco. Anche nelle Marche, oltre a un Dipartimento Amministrazione Penitenziaria in comune con l’Emilia Romagna, abbiamo più di un istituto con direttori con due e tre incarichi contemporanei. *Sinistra Italiana Marche I Garanti dei detenuti: “Mancano i servizi di salute mentale” ansa.it, 11 novembre 2023 Anastasia: “Teniamo in carcere persone che non dovrebbero starci. In Italia la situazione è molto grave e delicata e deriva dal fatto che la chiusura sacrosanta degli ospedali psichiatrici giudiziari non ha avuto come conseguenza una attrezzatura dei servizi di salute mentale in carcere e, soprattutto, un rafforzamento di quelli sul territorio”. Lo ha detto Stefano Anastasia, portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali, descrivendo la “grave situazione in Italia” di chi è in carcere con problemi psichiatrici o psicologici. A margine del convegno “La salute mentale nelle carceri, le misure alternative per coloro che soffrono di disturbi psichici, le articolazioni psichiatriche, le Rems” che si è svolto nella sede della Regione Campania, Anastasia ha spiegato che “molte delle persone che sono in carcere con problemi mentali dovrebbero poter usufruire delle norme che prevedono, per motivi di salute, l’incompatibilità con le condizioni di detenzione. Dovrebbero poter essere accolti in strutture alternative esterne, ma queste strutture in gran parte del Paese non esistono. Oppure capita che non vogliano persone che provengono da percorsi penali. Il risultato è che noi teniamo in carcere persone che in carcere non devono stare. E intanto si vive in Italia un rifiuto sociale di queste persone. E questa è, purtroppo, la mentalità che stava dietro al vecchio manicomio e che tuttora resiste: chiudere le persone che hanno problemi di salute mentale tra quattro mura, un tempo quelle del manicomio, oggi del carcere”. È un problema di cui non si parla tanto, “ma che - spiega Anastasia - è noto e conosciuto da tutte le autorità politiche nazionali e regionali. Sono consapevoli del problema e in generale si tende troppo spesso a rispondere in termini di strutture. Cioè si pensa ‘dove li mettiamo?’, quando invece spesso si tratta di un problema di qualità dell’assistenza, quindi di personale, di professionalità che possano farsi carico di queste persone. Parlo di psichiatri, psicologi, terapisti della riabilitazione, che sono fondamentali”. “Polverizzano psicofarmaci per sniffarli. Le carceri sono i nuovi manicomi” di Sara Cariglia Il Giornale, 11 novembre 2023 Le denunce degli ex detenuti. L’allarme di avvocati e medici. “In prigione ho assistito a scene che mai avrei pensato di vedere in vita mia. Ho visto donne accumulare, passarsi e polverizzare psicofarmaci, per poi pipparseli. I nuovi manicomi sono le carceri d’Italia, fucine di malati di mente e tossicodipendenti, sedati e blindati col Valium”. Le parole dell’ex detenuta Micaela Tosato suonano come un antifurto in piena notte. Aprono una breccia, l’ennesima, nella cortina di ferro delle mezze verità che si nascondono dietro alle sbarre. Tra gli usi e abusi della chimica, la domanda torna sempre: il pianeta carcere, abitato da più di 58mila “inquilini”, è veramente colonizzato da ansiolitici e altri prodotti farmaceutici? Prove non ce ne sono. In compenso, però, non mancano le continue stoccate di chi, come la Tosato, non aspetta altro che denunciare. Sciorina uno ad uno i malcostumi, le cronicità e criticità della prigionia all’italiana: “Di frequente capita che le recluse usino la terapia per sballarsi o per avvalersi del cosiddetto baratto: io ti do tre pasticche e tu in cambio mi dai un pacchetto di sigarette. Fingono di inghiottire le pillole, per poi sputarle subito dopo che gli infermieri girano l’angolo”. E accusa: “Gli addetti ai lavori, non solo lo sanno, ma sono loro stessi ad allungargliene di più quando passano con il carrello”. L’ex detenuta non si ferma. “Non essendoci una vera e propria area psichiatrica, accade spesso che sistemino i ‘matti’ con i detenuti comuni”, tuona. “Peccato, però, che un carcerato non è né un badante né tantomeno un assistente. Parliamoci chiaro, se uno di loro dà i numeri, mette in pericolo la vita anche degli altri concellini”, conclude, alludendo agli omicidi in serie che insanguinano le “dimore” di chi ha un conto da pagare con la buona società. A voler dire la propria su quel simulacro di vita che continua a “vivere in una fatiscente, per non dire inadeguata” condizione fisica artificiale è anche Pierdonato Zito, ex boss della mala di Montescaglioso. Il reo redento, con a curriculum una laurea in sociologia e 30 anni di carcere di cui 8 al 41-bis, fuga (quasi) ogni dubbio: “La custodia in carcere ci guadagna a dare psicofarmaci”, racconta, “Quando un carcerato rompe le scatole, l’operatore sanitario non sempre gli fornisce 5 o 10 gocce di ansiolitico, come da prescrizione medica, ma una ‘scorzata’ di 50, così lo mette a dormire senza che dia più fastidio” La solfa cambierebbe quando si parla invece di 41-bis e Alta sicurezza. In quei “gironi”, ci tiene a precisare il condannato in regime di semilibertà, ci sono codici diversi: “Lì è rarissimo abusare di psicofarmaci”. E non solo perché si è sottoposti a una sorveglianza più stretta rispetto al regime detentivo comune, ma perché “per un uomo d’onore assumere palliativi, sedativi, è sintomo di fragilità e debolezza”. Tra i primi ad uscire allo scoperto c’è anche il trilaureato Carmelo Musumeci, primo ex detenuto libero dopo un ergastolano ostativo: “Diciamocelo: un carcerato semiaddormentato nella branda, dà meno fastidio di uno sveglio che pensa”, dice. L’ex boss della Versilia, conosciuto ai più come “la Belva della cella 154”, racconta gli stratagemmi più disparati: “Le scorte di farmaci psicotropi accumulate dai detenuti, vengono nascoste in cella un po’ dappertutto”, svela. “Sotto al materasso, tra due fogli di cartone o persino all’interno di bossoli studiati per essere celati nel retto”. Quella degli ergastolani, in ogni caso, non è l’unica voce critica che si leva contro i retroscena della sanità intramuraria. A gettare luce su aneddoti e delucidazioni degne di un interrogatorio, è anche l’avvocato veneziano Andrea Franco. Il responsabile e consigliere dell’Associazione nazionale forense (A.N.F.) ne parla proprio a margine dell’ispezione estiva alla casa circondariale di Venezia-Santa Maria Maggiore, condotta dall’avvocatura e dalla camera penale veneziana della quale è membro. Ispezione che sembra aver messo a nudo gravi numeri e dati, tutti di grossa entità, del carcere lagunare, ora sotto osservazione. “A Santa Maria Maggiore il 94 per cento dei carcerati usa psicofarmaci e, 190 reclusi su 196 necessitano di un supporto psicologico che, guarda caso, al momento non c’è. Mi auguro solo che si tratti di un caso isolato”. A confermare che non lo sia sono le testimonianze dirette di alcune fonti. Come quella di Said Faid, medico penitenziario, che lamenta l’andazzo - “claudicante, per essere generosi” - di San Vittore di Milano. “La situazione negli ultimi mesi è peggiorata”, dice in confidenza, “La verità è che i nostri reclusi, assassini o stupratori che siano, mandano giù psicofarmaci per dimenticare. In carcere si sta male e loro sono esseri umani”. E, infine, una dichiarazione che suona preghiera: “Sapete cosa significa stare rinchiusi in una cella di nove metri quadri con altre quattro persone di nazionalità diverse, per quasi ventidue ore al giorno? Beh, non lo auguro a nessuno!”. Anziani e carcere: uno studio dell’Unical per superare le discriminazioni di Piero de Cindio L’Unità, 11 novembre 2023 La ricerca del professore Mario Caterini, Direttore dell’Istituto di studi penalistici “Alimena” dell’Unical, e di Morena Gallo, dottoranda in Diritto penale sempre dell’Università della Calabria. “Gli anziani e il carcere in Italia: una proposta per superare le discriminazioni”. È questa la traduzione italiana dell’articolo, pubblicato in Serbia nel volume “Elderly people and discrimination: prevention and reaction” dell’Istituto di ricerca di Criminologia e Sociologia di Belgrado, a firma del professore Mario Caterini, Direttore dell’Istituto di studi penalistici ‘Alimena” dell’Unical, e di Morena Gallo, dottoranda in Diritto penale sempre dell’Università della Calabria. Il contributo, presentato alla comunità scientifica internazionale nella conferenza organizzata a Novi Sad lo scorso 26 e 27 ottobre, ricostruisce le condizioni dell’anziano nel sistema penale italiano, ponendo particolare attenzione al trattamento che tale condizione riceve nel circuito penitenziario. “L’Italia, nell’ultimo Rapporto Space 2022, è stata riconosciuta, tra i Paesi con oltre un milione di abitanti, quello con la più alta percentuale di anziani in cella e questo è un dato allarmante - spiegano gli autori -. La percentuale di persone detenute avanti con l’età è altissima, sia perché è uno dei pochi Stati in cui esiste ancora la pena perpetua, ma soprattutto per l’assenza di un automatismo che converta l’espiazione della pena in carcere con una misura meno afflittiva”. Dal lavoro, che analizza il trattamento dell’anziano dalle misure cautelari all’esecuzione della pena, emerge un altro dato preoccupante: la scarsa tutela della salute in carcere e il sovraffollamento. “I numeri del sovraffollamento carcerario in Italia preoccupano molto, così come l’assenza di strumenti utili a contenere il fenomeno, che determina una condizione di promiscuità coatta e questo mortifica la dignità degli esseri umani che stanno scontando la pena - continuano -. Vi è poi il problema della tutela della salute, spesso legata alla condizione di anzianità e la mancanza di cure mediche adeguate si presenta come un’ulteriore afflizione”. Dal contributo emerge chiaramente che gli anziani, specie se con gravi patologie, avvertano maggiormente le sofferenze del carcere, in quanto necessitano di assistenza e cure assidue, che spesso, all’interno delle carceri, non riescono a essere garantiti. “La mancata concessione di misure alternative - spiegano Caterini e Gallo - si pone in contrasto con i princìpi di rieducazione e umanità della pena sanciti dall’art. 27 della Costituzione, senza dimenticare l’art. 2 che riconosce e garantisce - implicitamente anche ai detenuti - i diritti inviolabili dell’uomo”. Il contributo si chiude con una proposta de lege ferenda: “bisogna prevedere una tutela rafforzata dell’anziano detenuto che, al raggiungimento di una certa età ragionevolmente stabilita dal legislatore (per esempio 80 anni), dovrebbe beneficiare di una presunzione d’incompatibilità con il regime carcerario a favore di misure alternative, salva rimanendo la facoltà della pubblica accusa di provare che le condizioni del reo-anziano siano pienamente compatibili con la detenzione”. L’apprezzamento della proposta ricevuto dai partecipanti - non solo di università europee, ma anche americane e asiatiche - conferma il prestigio internazionale raggiunto dalle ricerche dell’Istituto dell’Unical. “Premio Bonanni”, proclamati vincitori concorso per detenuti ansa.it, 11 novembre 2023 È Luca Michelangeli, della casa circondariale di Teramo, il primo classificato della sezione C, poesia riservata ai detenuti delle carceri italiane, del XXII Premio Letterario Internazionale “L’Aquila” Bper Banca, intitolato a Laudomia Bonanni. La premiazione si è svolta ieri, nel teatro del carcere “Le Costarelle” di Preturo all’Aquila, alla presenza di studenti e detenuti. Secondo classificato è Roberto Bertazzoni della casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, terzo Pierfrancesco De Palo della casa circondariale di Massa Marittima. Presente anche l’ospite d’onore del Premio, il poeta spagnolo Alfonso Brezmes, che ha declamato alcune sue poesie in italiano e, rispondendo alle domande dei detenuti, ha detto: “Un mezzo apparentemente inutile, come l’amore, ma necessario e potente per l’essere umano per guardare al futuro”. “Ospitare il Premio serve prima di tutto a noi per conoscere altri aspetti dei detenuti - ha detto Barbara Lenzini, direttrice della Casa Circondariale dell’Aquila - Leggere i loro componimenti aiuta a comprendere il mondo che li circonda e la loro sensibilità”. Il rappresentante dei detenuti ha dichiarato: “Questo Premio è importante per chi sta cercando una seconda opportunità e nella poesia si esprime. Siamo qui perché abbiamo fatto un errore, ragazzi - ha detto rivolgendosi agli studenti - cercate di non sbagliare”. “Mi ha emozionato moltissimo entrare in questo luogo e ascoltare le parole forti dei ragazzi che hanno usato il termine errore che può essere d’insegnamento per migliorare. Mi sento di dire: ragazzi, c’è un secondo tempo da giocare e da vincere!” ha aggiunto Giuseppe Marco Litta, responsabile Bper Banca direzione territoriale Centro-Est. “Essere tornati all’interno del carcere è importante perché questo concorso, patrocinato dal ministero di Giustizia, è l’unico in Italia” ha sottolineato Stefania Pezzopane, presidente della Giuria del Premio: Questa mattina cerimonia finale di premiazione all’Auditorium del Parco dell’Aquila. Il copia-e-incolla e la concezione del ruolo del Gip subordinato al Pm: chi si oppone è l’eccezione di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 11 novembre 2023 Onore ai giudici del Tribunale del Riesame di Venezia, che hanno saputo prendere atto di dover annullare una ordinanza cautelare a carico di ben 12 presunti associati per delinquere di una cosca nigeriana, scarcerandoli. Hanno “dovuto” annullare, perché l’ordinanza del GIP risultava palesemente un’opera di “copia e incolla” della richiesta del Pubblico Ministero, refusi compresi; il che, a mente dell’art. 292 del codice di rito, ne determina la sacrosanta nullità. Il Giudice delle Indagini preliminari, nella logica del nostro sistema processuale, è -o meglio, dovrebbe essere- il controllore della legittimità degli atti di indagine del PM. Leggiamo quotidianamente notizie che, quasi sempre con compiacimento, ci informano che “il PM Tizio ha arrestato”, “il PM Caio ha sequestrato”: ma il PM può solo richiedere di arrestare o sequestrare, mentre è -o meglio, sarebbe- compito del GIP decidere se quelle richieste siano fondate e ben motivate, e disporre di conseguenza. Ignoranza dei cronisti giudiziari? Beh, no. La realtà, confermata da decenni di esperienza forense, è che questa cruciale funzione di controllo del Giudice sulle indagini del PM è da subito fallita. Il GIP che non accoglie le richieste del PM (di arresto, di sequestro, di intercettazione telefonica ed ambientale, etc.) è l’eccezione, piuttosto che la regola. Il Gup che non accoglie in udienza preliminare la richiesta di rinvio a giudizio non raggiunge il 3% del dato statistico. E se poi pensiamo al 50% delle assoluzioni in primo grado, il naufragio di quella funzione appare conclamato. D’altronde, è proprio il tema del “copia e incolla” che risulta illuminante: quella umiliante pratica, simbolo della soggezione del GIP al PM, era a tal punto la regola e non l’eccezione, che è stato infine necessaria pochi anni fa (2015!) la mortificante modifica dell’art. 292, che ha imposto per legge, a pena di nullità, l’obbligo per il Giudice di pensare con la propria testa, e non con quella del PM. Eppure, ancora ci dobbiamo compiacere di provvedimenti piuttosto eccezionali come quelli del Riesame di Venezia. Mentre invece assistiamo alla messa all’indice mediatico-giudiziaria (un linciaggio indecente) di una GIP di Milano che ha osato -la sciagurata- ritenere tanto pomposa quanto inconsistente in punto di gravità indiziaria una maxi indagine su presunte cosche mafiose lombarde, perciò rigettando la raffica di richieste di arresti e sequestri. L’indignazione di quella Procura per l’inaudito atto di autonomia del Giudice è stata tale da scivolare nel grottesco. Nel (più che legittimo, beninteso) atto di ricorso al Riesame, del cui esito tutti prenderemo atto, i Pubblici Ministeri hanno inteso svalutare la qualità della ordinanza di rigetto del GIP denunziando “il copia-e-incolla” che costei avrebbe fatto… di qualche scritto giuridico disponibile in rete! Certo che un po’ di senso della misura (e del ridicolo) non guasterebbe. Non vi pare? *Presidente Unione Camere Penali Italiane “Io, giudice, ho conosciuto la violenza del processo mediatico. E chiedo scusa” di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 11 novembre 2023 “Proprio come magistrato, mi rendo conto che devo a tutti delle scuse”. Andrea Padalino oggi è giudice civile a Vercelli, ma ha un passato nel settore penale, che lo ha portato anche al ruolo di gip a Milano negli anni di Mani Pulite. Ha sessantun anni e vede la sua carriera di giudice scivolare lentamente verso la pensione. È vittima e giudice nello stesso tempo. Non è mai stato “carnefice”, ma ha dovuto subire lo scotto dell’ingiustizia, come se avesse dovuto pagare per tutti. Così ha capito, e oggi chiede scusa, cosa che nessun magistrato ha osato mai fare. Lo scorso 8 novembre Andrea Padalino si è trovato a Milano davanti a una platea di commercialisti, a un convegno indetto dall’organismo di categoria (Odcec) dal titolo “Assoluzione e onorabilità del professionista: come tutelare i diritti dell’innocente”. Ha raccontato la propria vicenda giudiziaria, professionale e umana. Ma ha voluto dire di più, e spiegare il perché del suo desiderio di chiedere scusa. Ho svolto il mio dovere di magistrato, ha detto “con l’orgoglio e la soddisfazione di non avere mai teoremi da dimostrare, nemici da incastrare, ideologie da assecondare, innocenti da perseguitare”. Non è mai stato iscritto al sindacato delle toghe né a nessuna corrente. Forse con un po’ di ingenuità, credeva che la fedeltà ai principi costituzionali e l’onestà nello svolgimento del proprio lavoro lo avrebbero messo al riparo da tempeste come quella che gli è un brutto giorno cascata addosso a opera dei suoi colleghi. Non avevo capito, dice oggi,” che le falle del sistema di cui faccio parte erano molto più profonde e gravi di quanto credessi”. Già, il sistema, che evoca la sorte e le parole di un altro magistrato colpito alla schiena da solerti colleghi, Luca Palamara. Ma il giudice Padalino vuole scavare a fondo, con una confessione che gli fa onore, perché immaginiamo gli sia costata qualche sudore freddo. “In molte occasioni mi è capitato di sentire persone magari indagate, magari pregiudicate, magari impresentabili, magari per bene, lamentare di essere vittime di ingiustizie, di processi mal fatti e senza fine, di gogne mediatiche, di vere e proprie persecuzioni subite a opera di appartenenti a forze di polizia, spalleggiate dal magistrato di riferimento”. Cose di tutti i giorni che quasi non fanno più notizia, se non per ricordare le parole di un ex collega milanese del dottor Padalino, quel Pier Camillo Davigo che fu nel pool di Mani Pulite e che un giorno ebbe a dire che in un certo processo non c’erano innocenti, ma solo “colpevoli che l’hanno fatta franca”. Il giudice Padalino ammette che anche la sua reazione era di tipo automatico e freddo. “Ho sempre pensato: sicuramente saranno lamentele pretestuose di colpevoli che vogliono passare per innocenti, critiche infondate, tentativi di farla franca a ogni costo”. Lo ammette, che anche lui, da giudice, era un po’ così. Forse era meno arrogante e non si sarebbe comportato come il suo ex collega di procura negli anni successivi, ma la mentalità, la cultura della gran parte delle toghe è quella. Poi, per questo magistrato che ai tempi di Mani Pulite, quelli dell’arroganza e della costante violazione delle regole, era giovanissimo a da poco, dal 1991, appena entrato in magistratura, il vento cambia. E si arriva al Padalino di oggi, un altro rispetto al giudice di ieri. “Ecco di cosa mi scuso. Mi scuso di aver ignorato le vittime innocenti di questo sistema: indagati, imputati, gente comune o eccellente, colpiti dal maglio di una giustizia di parte, autoreferenziale e proiettata verso un delirio di onnipotenza e in grado di distruggere vite e professionalità, di calpestare esseri umani, colpevoli solo di essere un facile e magari utile bersaglio, di umiliare e mettere alla berlina sui giornali e media compiacenti”. Che cosa sarà mai successo a questa toga, da indurla a chiedere pubblicamente scusa solo per essere un magistrato che ha navigato in mezzo a questa melma che è il circo mediatico- giudiziario senza accorgersene? È successo che un bel giorno, mentre tranquillamente svolgeva il suo lavoro di pubblico ministero alla procura di Torino diretta da Armando Spataro, qualche giornalista amico di altre toghe cominciò a sussurrare il suo nome, un’allusione qua, un’intercettazione là. Una campagna di stampa lo accusava di fare parte di una “cricca”, e intanto a casa sua figlia di sei anni gli chiedeva “papà, ma cosa è l’abuso d’ufficio?”. E già, perché anche i bambini curiosano, si informano. Andrea Padalino era indagato dagli stessi uffici in cui lavorava perché accusato di aver brigato, con la complicità di un ufficiale di polizia giudiziaria suo collaboratore, per far assegnare a sé alcuni fascicoli di indagine che riguardavano persone da cui avrebbe poi avuto vantaggi. Dobbiamo fare l’elenco, tanto è sempre lo stesso, delle “utilità” di cui avrebbe goduto? Ma il punto è che questo pm non è mai stato colto mentre commetteva atti contrari al proprio ufficio, ma sostanzialmente solo sospettato di aver “brigato” per farsi assegnare un certo fascicolo. E allora, in che cosa sarebbe consistito lo scambio corruttivo? L’altra anomalia, ha denunciato Padalino con il suo avvocato Massimo Dinoia, è che la procura di Torino ha agito con molta calma nel trasmettere gli atti, come prescrive l’articolo 11 del codice di procedura penale per le inchieste che riguardano i magistrati, a Milano. Dove, sempre secondo la denuncia del magistrato, i due pm Laura Pedio e Eugenio Fusco a loro volta se la sarebbero presa molto comoda, sarebbero stati addirittura “inerti”, come se avessero delegato alla polizia giudiziaria di Torino la prosecuzione delle indagini. Per questo il giudice Padalino, dopo aver portato a casa una assoluzione definitiva perché il fatto era inesistente, ha denunciato tutti alla procura di Brescia. Il gruppo dei pm torinesi per la violazione dell’articolo 11, e l’ex procuratore capo Spataro anche per la violazione dell’articolo 358, quello da sempre inapplicato che impone al pm di raccogliere anche le prove a favore dell’indagato. Avrebbe ignorato due relazioni dei suoi aggiunti che garantivano la correttezza del comportamento del pm Padalino nell’assegnazione dei fascicoli dell’ufficio. E i due milanesi, Fusco e Pedio, che nel frattempo erano anche stati promossi come aggiunti del procuratore capo, per una presunta negligenza nelle indagini. Per i magistrati ancora in servizio (Armando Spataro è in pensione) anche l’ipotesi che il ministro Nordio o il procuratore generale presso la cassazione avviino l’azione disciplinare presso il Csm. Chi pagherà mai per i danni che subisce l’innocente, si è domandato il magistrato al termine del suo intervento. Chi pagherà per queste “indagini a volte superficiali o peggio alimentate solo da ambizioni di carriera, o dal desiderio di annientare soggetti considerati pericolosi, magari solo perché hanno costruito importanti realtà economiche in antitesi con altre evidentemente più tutelate”? Io ho condiviso in questi anni, racconta ancora il magistrato, “con professionisti, imprenditori, politici, l’esser indagati e già condannati dai media sulla base di accuse inconsistenti, teoremi, prove raccolte illegalmente, con un uso assolutamente abnorme di intercettazioni e spese processuali ad esse relative che nessuno mai pagherà”. Chi renderà conto di tutto ciò? Nessuno, anzi qualcuno sì, “pagheranno gli innocenti”. Per questo il giudice Padalino chiede scusa. Nicola Gratteri: “Ai ragazzi servono esempi. Io assente con i miei figli, per me un grande dolore” di Elvira Serra Corriere della Sera, 11 novembre 2023 Il procuratore di Napoli: “I giovani mafiosi reclutano sui social”. La famiglia: “Sono stato fortunato ad avere mia moglie: oggi i miei due figli hanno capito dove sono stato e cosa ho fatto”. Il confronto: “Un corriere della droga prende 1.500 euro a viaggio, un idraulico li guadagna in una settimana”. Mercoledì a Napoli, al convegno di Intesa Sanpaolo su etica, legalità ed economia, il nuovo procuratore Nicola Gratteri ha detto che ai ragazzi bisogna parlare di soldi, solo così ti ascoltano. In effetti un mese fa a Trento esordì chiedendo agli studenti universitari quanto costasse lì la cocaina... “Silenzio e risolini. Nessuno lo sapeva...”. Di studenti ne ha visti tanti... “Vado nelle scuole dal 1989: in media faccio 50 incontri l’anno. Adesso ho almeno 350 richieste pendenti”. Ha detto che i dirigenti scolastici fanno a gara a invitare il magistrato di grido o la soubrette. Per lei non vale? “Faccio questi incontri in ferie. E vado di pomeriggio o la sera, altrimenti non sarei coerente quando definisco le scuole “progettifici”. La mattina serve a insegnare storia, geografia e matematica, a dare ai ragazzi l’istruzione. La cultura è altro, si fa leggendo un libro, ascoltando chi ha che ha fatto qualcosa nella vita, commentando un film”. Quali riscontri ha? “Spesso mi si avvicinano uomini e donne che mi dicono di aver scelto di fare i poliziotti, i finanzieri, i magistrati, i carabinieri, dopo un incontro nella loro scuola. I ragazzi ti fanno la radiografia, per loro sono incontri che li segnano per sempre”. Un prof con la Fiat è uno sfigato, un cafone con il Suv è un modello: lo ha detto lei... “È la narrazione distorta di oggi. Nell’ultimo libro scritto per Mondadori con Antonio Nicaso, Il grifone, un capitolo è dedicato a Facebook, Instagram e TikTok: i figli dei mafiosi e degli ‘ndranghetisti ostentano lì il Suv, l’orologio d’oro. Il messaggio è: io sono il modello vincente, seguimi se vuoi diventare come me. Arruolano così giovani corrieri per portare la droga: li pagano 1.500 euro a viaggio, senza dire che rischiano di essere ammazzati o di fare 4-5 anni di carcere, dieci se viene riconosciuto il reato associativo. Un idraulico quei soldi li guadagna in una settimana, riparando i tubi: gli può capitare un cliente su 10 che non paga, ma la sua vita è serena”. Fa esempi semplici... “La nostra è una società dell’apparenza, dell’avere e non dell’essere. Bisogna usare il loro linguaggio per arrivare più in profondità”. La scuola talvolta è un parcheggio. “Gli insegnanti si muovono a mani nude, con uno stipendio misero rispetto al costo della vita e con la grande responsabilità di trattare capitale umano. Diamogli più soldi, strumenti aggiornati, maggiore potere educativo”. E le invasioni di campo? “I genitori pensano di saperne più dei docenti. Ma solo per due ragioni sono autorizzati a entrare a scuola: se l’insegnante di italiano non parla l’italiano e se un docente o un bidello sono pedofili. Invece ora basta un voto basso per processare il professore in corridoio. I ragazzi hanno bisogno dei genitori per essere ascoltati, visti, considerati”. Lei però non è stato un padre presente. “Purtroppo per il lavoro che ho fatto non mi sono goduto i miei figli, la loro infanzia e l’adolescenza: questo per me è un grande dispiacere e un grande dolore”. Ma c’era sua moglie. “Sono stato fortunatissimo ad avere lei che ha fatto da padre e da madre e che ha spiegato man mano quelo che stavo facendo. Oggi i miei due figli hanno capito perché sono stato assente, dove sono stato, cosa ho fatto, e il senso del mio lavoro”. Manderebbe i ragazzi nelle comunità di recupero… “Quando sento in tv parlamentari o cosiddetti uomini di cultura che spiegano che la marijuana non fa male, che non crea dipendenza, perdo la pazienza. Portiamo i ragazzi a incontrare e abbracciare i coetanei tossicodipendenti! Ragazze che si sono prostituite per una dose, ragazzi andati in carcere per aver rubato”. Vorrebbe che andassero anche nei reparti geriatrici… “Certo! Invitateli ad andare a trovare i vecchi abbandonati da figli ingrati o senza parenti. Queste cose toccano il loro animo meglio di mille incontri con pedagoghi o filosofi”. Per lei la cultura cattolica è in crisi… “Abbiamo perso l’oratorio, quella dimensione comunitaria che si fondava sulla solidarietà. C’era controllo sociale”. È credente? “Ognuno lo è a modo suo. Io credo nell’essere onesti e generosi”. Chiudiamo con Napoli: guida la Procura dal 20 ottobre. È buono lì il caffè? “Buonissimo. Però mi sono imposto di non mangiare dolci, sennò divento tondo. Rimando indietro i vassoi che arrivano con sfogliatelle e babà. E guai alla pizza fritta: ho 65 anni, mi devo controllare”. “L’assassino della mia Erika è già a casa. Provo solo disgusto, è un’altra coltellata” di Mauro Zola La Stampa, 11 novembre 2023 Ci sono rabbia e sconcerto nelle parole di Tiziana Suman, la madre di Erika Preti, alla notizia che Dimitri Fricano, l’assassino della figlia, è stato trasferito agli arresti domiciliari per motivi di salute. Questo anche per il modo in cui la notizia è arrivata, all’improvviso. “Ero al lavoro, con il telefono spento e non ho saputo nulla fin quando non sono rientrata a casa”. Ad annunciargliela un messaggio whatsapp da La Stampa. Prima risponde con un altro messaggio: “Sono rimasta senza parole e non riesco a esprimere il mio disgusto e il mio senso di ingiustizia”. Poi chiama, un po’ per saperne di più oltre che probabilmente per sfogarsi. “All’inizio non capivo, mi sembrava impossibile che avessero preso un simile decisione senza dirci niente, mi sembra una cosa assurda”. Sua figlia Erika è stata uccisa nell’estate del 2017 dal fidanzato con cui era in vacanza a casa di amici a San Teodoro, in Sardegna. Il corpo della ragazza è stato straziato da 57 coltellate e Fricano aveva continuato a colpirla anche quando era già a terra. Un femminicidio terribile, che l’uomo aveva cercato di mascherare denunciando l’aggressione da parte di uno sconosciuto, versione che aveva sostenuto per un mese prima di confessare. È stato condannato a trent’anni in via definitiva. Il trasferimento di Dimitri Fricano, trentacinque anni, nella sua casa di Biella, deciso dal Tribunale di Sorveglianza, è avvenuto martedì su richiesta dell’amministrazione penitenziaria, vista l’impossibilità di gestirne i problemi di salute all’interno della struttura carceraria. Fin dall’inizio, quando era ancora a Ivrea, Fricano aveva avuto problemi ad adattarsi alla vita da recluso, sia per problemi con gli altri detenuti, visto il delitto per cui era stato condannato, che per la cura a base di psicofarmaci a cui era sottoposto ancora prima di essere arrestato. Problemi che sarebbero aumentati dopo il trasferimento a Torino. Si tratta sempre di un disturbo psichiatrico di tipo depressivo. Negli ultimi mesi, trapela dal carcere, avrebbe iniziato a non lavarsi e a rifiutarsi di uscire dalla cella, peggiorando quindi i rapporti con gli altri detenuti. Sarebbe inoltre aumentato di peso fino a sfiorare i 200 chili, sviluppando una forte dipendenza per le sigarette, oltre a presentare episodi ricorrenti di epilessia. Il provvedimento ha la durata di un anno, dopo il quale verrà sottoposto a una nuova visita, nel corso della quale si deciderà se prorogare i domiciliari o farlo rientrare in carcere. Il suo rientro a casa ha reso più dolorosa la ferita per la morte della figlia che in Tiziana Suman non si è mai rimarginata. “Già l’anno scorso era stato contattato il nostro legale, ci avevano chiesto se eravamo d’accordo nel concedere gli arresti domiciliari a Dimitri. Subito abbiamo detto di no, quello che ha fatto è troppo grave e non mi rassegno all’idea che sia già tornato a casa, con sua madre che lo accudisce”. Anche con la famiglia Fricano i rapporti si sono deteriorati fin dai tempi del processo che li ha visti su posizioni opposte. “Sui suoi è meglio che non parli”. La voglia adesso è soprattutto di capire come possa essere successo che, dopo sei anni, chi ha ucciso sua figlia sia uscito dal carcere, pur restando ai domiciliari, e di dar sfogo a un malessere che gli anni passati da quella tragica estate non sembrano aver attenuato. Tanto che la donna si lascia andare anche a dichiarazioni forti: “Sta male? Spero di poter vedere il suo manifesto funebre. Mi verrebbe voglia di andare ad aspettarlo fuori da casa sua, poi naturalmente non lo farò ma è stato davvero un colpo sapere tutto senza che a noi o al nostro avvocato venisse comunicato in anticipo, senza che neppure ci abbiano chiesto cosa ne pensassimo. Che giustizia è questa? Già ero certa che non avrebbe passato in carcere tutti i trent’anni della condanna, ma non pensavo che potessero farlo uscire così presto”. Anche nel suo caso, come per il marito Fabrizio Preti, apprendere la notizia della scarcerazione dell’assassino di loro figlia è stato “come ricevere una coltellata, il dolore per la morte di Erika è vivo oggi come sei anni fa e non se ne andrà mai”. Ha negato le cure a un detenuto all’ergastolo: la Cedu condanna l’Italia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 novembre 2023 Per i giudici di Strasburgo è stato l’articolo della Convenzione sulla tortura e il trattamento inumano riservato a Francesco Riela. Una sentenza importante nel dibattito sulla responsabilità dello Stato nel garantire il diritto alla salute dietro le sbarre. La Corte Europea di Strasburgo (CEDU) ha condannato l’Italia per aver violato l’articolo 3 della Convenzione, relativo alla tortura e trattamento disumano o degradante inflitto all’ergastolano Francesco Riela. Il ricorso, presentato dagli avvocati Pino Di Credico e Roberto Ghini, è stato accolto dopo una lunga disputa legale con il governo italiano. La sentenza Riela contro Italia assume un’importanza vitale poiché ribadisce l’obbligo degli Stati di garantire cure mediche tempestive e adeguate ai detenuti. La Corte ha enfatizzato che i ritardi nella fornitura di cure mediche possono costituire una violazione dell’articolo 3 della convenzione europea, anche se le malattie del detenuto non sono mortali. La Corte di Strasburgo ha concluso che le autorità italiane non hanno fornito a Francesco Riela cure mediche tempestive e adeguate durante la sua detenzione. In particolare, sono stati registrati ritardi significativi nella fornitura di un apparecchio CPAP e in alcuni esami e trattamenti, come gli esami endoscopici per la poliposi e l’intervento chirurgico su una fistola. I giudici europei hanno ritenuto che tali ritardi abbiano violato l’articolo 3 della Convenzione, causando al detenuto sofferenze fisiche e mentali. In base all’articolo 41, che prevede il risarcimento delle vittime di violazioni della Convenzione, l’Italia è stata condannata a pagare a Riela 8mila euro per danno morale e 3mila euro per costi e spese. La vicenda ha avuto inizio il 27 aprile 2020, quando, in piena pandemia, gli avvocati Roberto Ghini del Foro di Modena e Pina Di Credico del Foro di Reggio Emilia, hanno presentato una richiesta urgente di adozione di una misura provvisoria (procedura 39) alla Cedu a favore del detenuto che scontava l’ergastolo in un carcere italiano da oltre 22 anni. Nel 2018, il detenuto aveva chiesto il differimento della pena per gravi problemi di salute, ma la richiesta era stata respinta. La Corte di Cassazione, intervenuta nel marzo 2020, aveva annullato il rigetto del Tribunale di Sorveglianza, evidenziando la mancata valutazione delle condizioni fisiche del detenuto. Nonostante ciò, a quasi due mesi dalla decisione della Corte di Cassazione, senza che fosse fissata un’udienza, il detenuto ha presentato ricorso alla Cedu. La sua lamentela era basata sulla violazione del diritto alla vita, poiché le sue condizioni di salute erano inumane e degradanti, con un ulteriore rischio di contagio da Covid-19 che avrebbe potuto portare alla sua morte a causa delle gravi patologie già presenti. La difesa, consapevole delle precarie condizioni del detenuto, evidenziò la mancanza di cure adeguate e di presidi di protezione individuale nel carcere. Nonostante le richieste dei medici, al detenuto mancava uno strumento salvavita da mesi, e le visite specialistiche richieste non erano state effettuate regolarmente. Il ricorso presentato alla Corte europea di Strasburgo denunciava la violazione degli articoli 2, 3 e 5 della Convenzione, sottolineando il rischio di morte improvvisa a causa delle gravi condizioni di salute del detenuto. La Cedu, il 29 aprile 2020, sospese l’esame della procedura 39 in attesa di chiarimenti da parte del Governo italiano, da fornire entro il 6 maggio 2020. Iniziò così una “battaglia” legale. Lo Stato italiano ha sollevato obiezioni all’ammissibilità del ricorso, sostenendo che non era stato presentato dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne, poiché al momento del deposito era in corso un procedimento interno. Ha anche affermato che il ricorrente avrebbe dovuto intraprendere un’azione di risarcimento danni, secondo gli articoli 2043 e 2051 del codice civile italiano. La Corte Europea, tuttavia, ha accolto la tesi difensiva degli avvocati Di Credico e Ghini, stabilendo che un ricorso non può essere dichiarato irricevibile per mancato esaurimento se le vie di ricorso interne sono state esaurite prima che la Corte si pronunci sulla ricevibilità. Importante sottolineare che il procedimento interno si è concluso con la decisione della Corte di Cassazione del 18 ottobre 2021. Riguardo al rimedio previsto dagli articoli 2043 e 2051 del codice civile italiano, la Cedu ha ribadito il principio della mancanza di prova riguardo all’efficacia dei rimedi eccepiti in casi analoghi. Come spiegano gli avvocati, di notevole importanza sono le argomentazioni dei giudici di Strasburgo su alcune censure che non sono state accolte. In particolare, si riferiscono all’eccepita mancanza di indipendenza del medico legale designato dal Governo a seguito del ricorso per accertare le condizioni psicofisiche del detenuto. La Corte ha chiarito che il semplice fatto che un esperto sia impiegato in un istituto medico pubblico non giustifica automaticamente il timore che possa agire in modo non neutrale o imparziale. Ha richiamato precedenti decisioni, tra cui quelle di Contrada contro Italia, evidenziando che l’impiego di un esperto in un istituto medico pubblico non costituisce di per sé un conflitto di interessi. Nel caso specifico, la Cedu ha evidenziato che l’esperto medico designato dal governo non aveva alcun legame personale o professionale con l’amministrazione penitenziaria, e il direttore del carcere non era coinvolto nella sua selezione. Inoltre, pur essendo alle dipendenze dell’amministrazione sanitaria regionale, non aveva legami noti con il personale medico operante nel carcere di Napoli Secondigliano, dove era detenuto l’ergastolano ricorrente. Nel contempo, ha esaminato attentamente la questione della mancata fornitura tempestiva di un apparecchio CPAP, essenziale per il suo benessere, e la conseguente incapacità di garantirne la calibrazione e svolgere esami di follow-up. E lo ha fatto analizzando anche i rapporti dell’esperto designato dal governo, il quale indica ritardi significativi nella fornitura del CPAP e in alcuni esami e trattamenti tra il 2018 e il 2021. È importante sottolineare che il Governo non ha contestato espressamente queste circostanze, riconoscendo di fatto la veridicità delle affermazioni del detenuto. La Corte, considerando la durata dei ritardi e la gravità delle malattie trattate, ha respinto la tesi del Governo che considerava questi ritardi come semplici inconvenienti. Ha sottolineato che, pur non essendo malattie mortali, le patologie del ricorrente erano numerose e di una certa gravità. Di conseguenza, la Cedu ha concluso che il ricorrente non ha ricevuto cure mediche tempestive e adeguate durante la detenzione, violando così l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti Dell’Uomo. La sentenza Riela contro Italia rappresenta, quindi, un punto cruciale nel dibattito sulla qualità delle cure fornite ai detenuti e sulla responsabilità dello Stato nel garantire il diritto alla salute anche di coloro che si trovano sotto custodia penitenziaria. E sappiamo quanto sia critica la questione sanitaria delle nostre Patrie Galere. “Totale mancanza di prove”. Così muore il processo Trattativa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 novembre 2023 Le motivazioni della sentenza con cui la Cassazione ha confermato l’assoluzione di Mori, De Donno e Dell’Utri: un processo non può diventare una lezione di storia, scrivono i giudici. “Fermo restando il riconoscimento per l’impegno profuso nell’attività istruttoria di merito, deve, tuttavia, rivelarsi che la sentenza impugnata, e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno, invero, optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico”. Una leggera stoccata al processo “trattativa” da parte dei giudici della Cassazione, che hanno confermato, ma per “non aver commesso il fatto”, l’assoluzione degli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno. Una sentenza, quella della Corte Suprema, che ha voluto sottolineare come i giudici di merito - pur muovendo dal corretto rilievo che la cosiddetta trattativa Stato-Mafia non costituisce di per sé reato - hanno assunto, sia nelle motivazioni di primo che di secondo grado, una mole imponente (5237 pagine in primo e 2971 pagine in secondo grado), tale da “offuscare le ragioni della decisione e rendere le linee argomentative di difficile identificazione e interpretazione”. Ed è così. Da ribadire che la tesi giudiziaria della Trattativa Stato-mafia è una ricostruzione che ha tentato di riscrivere la storia di un determinato periodo del nostro Paese. Ogni legittima scelta politica, lotta tra correnti all’interno dell’ex Democrazia cristiana, atti amministrativi da parte dell’allora Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria o dell’allora ministero della Giustizia, azioni investigative portate avanti dalle divise, in particolare il reparto speciale dei carabinieri (Ros), viene riletta sotto la lente “trattativista”. Un vero e proprio teorema che prende vari episodi, li decontestualizza, si avanzano sospetti e suggestioni, e li riunisce creando così una narrazione apparentemente scorrevole. Non a caso i giudici della Cassazione, nelle motivazioni che hanno sigillato definitivamente la fine della “guerra” giudiziaria nei confronti degli ex Ros, sottolineano che secondo le Sezioni Unite, il “virtuoso paradigma della chiarezza e concisione” impone, infatti, di discutere, “ove occorra anche diffusamente, solo i fatti rilevanti e le questioni problematiche, liberando la motivazione dalla congerie di dettagli insignificanti che spesso vi compaiono senza alcuna necessità”. Ma andiamo sul punto. Gli ex Ros, attraverso l’interlocuzione con Don Vito Ciancimino, hanno sì o no veicolato la minaccia mafiosa al governo? La risposta dei giudici supremi è un categorico no. Secondo la ricostruzione effettuata dalla sentenza impugnata, l’iniziativa dei carabinieri non era volta a spingere “cosa nostra” a minacciare il governo, bensì mirava al perseguimento dell’obiettivo opposto di porre fine alla stagione stragista. Nel corso della loro azione, Mori e De Donno miravano simultaneamente alla “contestuale decapitazione dell’ala stragista o militarista” attraverso la cattura dei suoi esponenti, come dimostrato dall’arresto di Salvatore Riina avvenuto il 15 gennaio 1993. Secondo i giudici emerge, quindi, dalla motivazione della sentenza impugnata, una contraddizione logica insanabile tra l’elemento soggettivo (ovvero l’intenzione) che animava gli ex ufficiali dei Ros nella loro interlocuzione con i vertici mafiosi e il riconoscimento di una valenza agevolatrice oggettiva della minaccia mafiosa risultante dalla loro condotta. Sempre i giudici supremi, sottolineano che anche se l’apertura di un dialogo con i vertici di “cosa nostra”, come evidenziato dalla sentenza impugnata, è stata molto più di una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un’operazione di intelligence, tale condotta non è espressamente sanzionata dalla legislazione penale e, in assenza della dimostrazione di un preciso nesso di condizionamento o agevolazione delle condotte degli autori del reato, non può integrare il concorso nel reato di minaccia al Governo. Ma qual è l’unica “prova” che la procura di Palermo aveva in mano per dimostrare l’avvenuta minaccia al corpo politico dello Stato? È la non proroga del 41 bis a circa 300 detenuti (solo una piccolissima percentuale erano mafiosi) su iniziativa dell’allora ministro della giustizia Conso. Ebbene, la Cassazione specifica chiaramente che non è stata raggiunta la prova “oltre ogni ragionevole dubbio” che la minaccia mafiosa sia stata “veicolata” da Mori a Di Maggio (all’epoca vice capo del Dap) e da quest’ultimo riferita al Ministro Conso. Onde per cui, per quanto riguarda cosa nostra, nei confronti di quest’ultimi, la minaccia deve essere ritenuta integrata nella sola forma del tentativo. I giudici ermellini hanno quindi dichiarato la prescrizione per il boss di Cosa nostra, Leoluca Bagarella, condannato dai giudici di Appello di Palermo a 27 anni e per il medico Antonino Cinà, vicino a Totò Riina, a cui in secondo grado furono inflitti 12 anni di reclusione. I giudici, come detto, hanno infatti riqualificato i reati di violenza e minaccia ad un corpo politico dello Stato nella forma del tentativo. Con la riqualificazione la fattispecie è andata in prescrizione. Qual è stata la minaccia tentata? La Cassazione spiega che “La minaccia prospettata dall’organizzazione mafiosa, del resto, nel momento in cui venne esternata a Mori e a De Donno, in ragione del proprio contenuto, della sua provenienza e, segnatamente, degli omicidi e delle stragi compiute da “cosa nostra” in quel periodo, aveva obiettivamente un’attitudine ad intimorire e a turbare l’attività del Governo, a prescindere dal fatto che non si abbia l’ulteriore dimostrazione che sia stata poi concretamente trasmessa e pervenuta a conoscenza del destinatario finale”. Ora il capitolo è finalmente chiuso. Nessun reato hanno commesso gli ex Ros e il dialogo avviato con Don Vito non era volto a veicolare alcuna minaccia né scendere a patti con la mafia. Ed era quello che hanno sempre sostenuto gli ex Ros e riferito subito alla procura di Palermo dopo la “caduta” dell’allora procuratore Pietro Giammanco. “Trattativa” Stato-mafia, per la Cassazione indizi privi di certezza di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 novembre 2023 “La Corte di assise di appello” ha “invertito i poli del ragionamento indiziario” in quanto “l’esclusione di possibili ipotesi alternative non può supplire alla carenza di certezza dell’indizio”, inoltre la Corte di assise di appello di Palermo “non ha osservato il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio quale metodo di accertamento del fatto”. Con queste motivazioni - si legge nel verdetto 45506 della Cassazione depositato oggi - gli ‘ermellini’ hanno confermato l’assoluzione nel processo sulla presunta trattativa Stato-Mafia degli ex ufficiali del Ros Mori, Subranni e De Donno e per l’ex parlamentare Dell’Utri. Ad avviso degli ‘ermellini’, “come rilevato dal Procuratore generale presso la Corte di Cassazione e dalle difese degli imputati, tuttavia, l’argomento del ‘nessun altro avrebbe potuto’ si rivela fallace sul piano logico e giuridicamente errato, in quanto la confutazione delle spiegazioni alternative di un fatto non può supplire alla radicale mancanza di prova positiva del fatto medesimo”. Secondo la Suprema Corte, i giudici di merito dell’appello - convinti della tesi che ai mafiosi il Guardasigilli Conso non rinnovò’ il 41bis per cercare di spegnere la stagione stragista e non, come lo stesso Conso sostenne, per adeguarsi alle indicazioni della Consulta - hanno sbagliato a ritenere “che solo Mori potesse aver rivelato l’informazione relativa al ricatto mafioso e alla spaccatura in essere all’interno di Cosa Nostra, senza aver previamente dimostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, che questa informazione riservata non fosse previamente nota al Ministro, che costituisse patrimonio conoscitivo esclusivo” di Mori “e che non fosse pervenuta a conoscenza del Ministro per effetto di canali diversi ed autonomi”. Sul punto, gli ‘ermellini’ rilevano che le difese degli imputati avevano fatto presente nel giudizio di appello che “per quanto emerso nel giudizio di primo grado, la consapevolezza della spaccatura interna a Cosa Nostra, tra l’ala stragista e l’ala moderata non sarebbe stata esclusiva di Mario Mori, ma fosse una conoscenza acquisita per lo meno in qualificati ambienti investigativi”. “Questo dato - segnala il verdetto - emergerebbe dalla nota dello Sco del 12 agosto 1993, a firma Manganelli, relativa a una ‘profonda spaccatura’ negli esponenti di maggior spicco di Cosa Nostra e dalla nota della Dia del 10 agosto 1993, a firma De Gennaro, in ordine all’esistenza, secondo le dichiarazioni di Salvatore Cancemi, di ‘un profondo contrasto tra mafia stragista ed un’altra, invece, pacifista e quasi rassegnata”. Tale spaccatura, secondo le difese, aggiunge il verdetto “sarebbe, peraltro, risultata dalle dichiarazioni rese dal Presidente della Repubblica in dibattimento e dalle dichiarazioni di Paolo Borsellino in una intervista del 3 luglio 1993”. Per la Cassazione, “fermo restando il riconoscimento per l’impegno profuso nell’attività istruttoria dai giudici di merito, deve, tuttavia, rilevarsi che la sentenza” emessa dalla Corte di Assise di Appello di Palermo il 23 settembre 2021 “e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno, invero, optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico”. “Anche quando il giudice penale deve confrontarsi con complessi contesti fattuali di rilievo storico-politico, l’accertamento del processo penale resta, invero, limitato a fatti oggetto dell’imputazione e deve condotto - conclude la Suprema Corte - nel rigoroso rispetto delle regole epistemologiche dettate dalla Costituzione e dal codice di rito, prima tra tutte quella dell’oltre ragionevole dubbio”. Verona. Si impicca nel carcere di Montorio: muore nonostante il soccorso degli agenti telenuovo.it, 11 novembre 2023 È morto giovedì in ospedale il detenuto afghano che aveva tentato di impiccarsi nel carcere di Montorio. L’uomo era stato salvato in extremis il giorno prima dagli agenti della Polizia Penitenziaria ma le ferite cerebrali riportate dal detenuto si sono rivelate troppo gravi. “Succede di nuovo e succede ancora nel carcere di Montorio. Un altro suicidio come quello di Cristian Mizzon, solo pochi mesi fa. La vittima è una persona di nazionalità afghana (con cittadinanza austriaca ottenuta in qualità di rifugiato politico), da qualche anno recluso a Venezia e, da pochi giorni, trasferito a Verona. Questi continui suicidi in carcere sono inaccettabili” scrive in una nota il Direttivo di Sbarre di Zucchero. Comunicato dell’Associazione La Fraternità Per dar seguito alla notizia apparsa oggi su L’Arena, informo che il detenuto che ha tentato il suicidio nel carcere di Montorio, in realtà, è deceduto alle 13.30 di ieri. Il quotidiano parla di un salvataggio in extremis posto in essere dagli agenti, con ciò limitandosi a pubblicare un comunicato del sindacato di Polizia penitenziaria. Lascia allibiti il fatto che non si sia sentito il dovere, dal punto di vista giornalistico, di appurare l’effettivo stato delle cose. La vittima è una persona di nazionalità afgana (con cittadinanza austriaca ottenuta in qualità di rifugiato politico), da qualche anno recluso a Venezia e, da pochi giorni, trasferito a Verona. Il tutto è stato riferito stamattina dal Garante dopo che era pervenuta un’informazione da parte di una nostra volontaria che si era recata in carcere. Brescia. “Ampliare l’attuale carcere di Verziano vorrebbe dire creare un nuovo Canton Mombello” di Salvatore Montillo giornaledibrescia.it, 11 novembre 2023 “Sull’ampliamento del carcere di Verziano ho molti dubbi. Occupando, con i nuovi edifici, le aree oggi destinate alle attività ludiche e di recupero, ai laboratori e alla formazione dei detenuti, il rischio è che in poco tempo diventi come Canton Mombello”. Il copyright è di Monica Cali, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Brescia da appena un anno, durante il quale ha potuto sperimentare in prima persona “lo stato di assoluto degrado di Canton Mombello, sovraffollato, in condizioni igieniche deprecabili, dove in una cella vengono stipati fino a diciotto detenuti”. La notizia dei fondi stanziati dal ministero delle Infrastrutture per la realizzazione del nuovo carcere di Brescia ha ravvivato un dibattito che si è trascinato stancamente nel corso degli ultimi quindici anni e che ha avuto un sussulto a fine ottobre, quando i vertici della giustizia bresciana hanno denunciato le condizioni “da prigione sudamericana” del penitenziario Nerio Fischione. È stata Cali a lanciare il sasso nello stagno, sostenuta dal presidente della Corte d’Appello, oggi ex, Claudio Castelli, e dal Procuratore Generale, Guido Rispoli, cui va il merito di aver riportato al centro del dibattito pubblico la necessità di costruire un nuovo carcere a Brescia e, di rimbalzo, aver sbloccato i fondi, quei 38,8 milioni di euro che consentiranno, insieme ai 15 milioni già appostati nel 2014 dall’allora ministro Orlando, di realizzare il nuovo penitenziario. Il progetto - Cali, Castelli e Rispoli ieri hanno partecipato alla trasmissione di Teletutto, Messi a fuoco, condotta da Andrea Cittadini, durante la quale è stata scattata una fotografia della situazione che vivono oggi i detenuti bresciani e si è immaginato il futuro. E il progetto di ampliamento della casa di reclusione di Folzano preoccupa le autorità giudiziarie: “A Verziano - ha spiegato Cali - sono rinchiusi detenuti e detenute che devono scontare pene lunghe, compreso l’ergastolo. Gli spazi di vivibilità, sport, studio, svago, sono indispensabili e non possono essere occupati dai nuovi padiglioni”. Posizione condivisa da Claudio Castelli, in pensione dallo scorso mercoledì dopo sette anni da presidente della Corte d’Appello, secondo cui “la pena deve tendere alla rieducazione e al recupero, come ci impone il dettato costituzionale. In Italia purtroppo il carcere è spesso una discarica sociale. Ma così è un fallimento”. Risultati che si possono ottenere solo con progetti di recupero che a Verziano per fortuna funzionano. “Sotto questo punto di vista - ha aggiunto il procuratore generale Guido Rispoli - Brescia è sorprendente: sono tanti i progetti che puntano a dare una seconda opportunità ai detenuti, grazie alla società civile e alle imprese”. Secondo la presidente del Tribunale di Sorveglianza Monica Cali, quindi, “per il nuovo carcere serve trovare un’altra area”, oppure, come ha chiarito Castelli “recuperare intorno a Verziano altri spazi”. La palla ora passa alla politica. Per una svolta attesa da anni. Pisa. Incontro iniziale del progetto “Fuori dall’ombra. La via della giustizia riparativa” di Luisa Prodi* Ristretti Orizzonti, 11 novembre 2023 “La riconciliazione e la giustizia possono camminare insieme “: questo, in sintesi, il messaggio che Claudia Francardi e Irene Sisi hanno voluto trasmettere ai quattrocento studenti del Liceo Dini che nella mattina di venerdì 10 novembre hanno gremito il salone storico della Stazione Leopolda in occasione dell’incontro iniziale del progetto “Fuori dall’ombra. La via della giustizia riparativa”. L’incontro di è aperto con una relazione di Alessandro Remorini, del Centro di Giustizia Riparativa di Pisa, che ha spiegato il senso di una giustizia orientata alla ricomposizione sociale. Daniela Conviti, dell’associazione di volontariato penitenziario Controluce, ha poi illustrato alcuni esempi di percorsi di giustizia riparativa. Di seguito la testimonianza drammatica e coinvolgente di Irene Sisi e Claudia Francardi: nel 2012 Matteo, figlio di Irene, fermato ad un posto di blocco da un carabiniere in una notte sballata, lo ferì gravemente. Quel carabiniere, marito di Claudia, morì un anno dopo. Anziché dare spazio all’odio Irene e Claudia decisero di farsi “artigiane di pace” in un cammino di riconciliazione e di solidarietà, dando testimonianza di una nuova idea di giustizia, soprattutto ai giovani. Una testimonianza che ha colpito in profondità gli studenti riuniti alla Leopolda, che si sono messi in gioco con molte riflessioni personali e domande. Le attività del progetto proseguiranno con incontri di operatori penitenziari, ex detenuti e volontari da svolgere nelle singole classi, perché sempre più la scuola diventi scuola di vita. *Associazione Controluce Roma. Nel carcere minorile di Casal del Marmo lavoro e pasta per ricominciare di Alessia Guerrieri Avvenire, 11 novembre 2023 Il pastificio, che a regime coinvolgerà 20 minorenni detenuti o con misure alternativa, è realizzato dalla cooperativa Gustolibero e sostenuto da Cei e Caritas Italiana. Baturi: l’uomo può cambiare. Rimettere insieme i pezzi di una barca senza timoniere che si infrange sugli scogli è un percorso lungo e difficile. Come fare una buona pasta, per cui ci vuole pazienza, amore, attenzione, dedizione. I ragazzi spiegano il processo di produzione che dalla semola fa arrivare sul nastro trasportatore penne, paccheri, fusilli. Lo hanno imparato col tempo e con l’aiuto di chi in queste settimane li ha istruiti nel nuovo pastificio Futuro, nato tra le mura del carcere minorile romano di Casal del Marmo. Futuro, un nome che vuole essere un sogno e un auspicio per i circa 20 detenuti, ex detenuti o giovani sottoposti a misure alternative che - a regime - in mezzo a questi macchinari ricostruiranno appunto i pezzi di una vita uscita fuori binario. Lo faranno tra questi 500 metri quadri di azienda, un progetto ideato dopo la visita di papa Francesco nel 2013 in questo istituto penitenziario, realizzato da “Gustolibero società cooperativa sociale onlus” e sostenuto dalla Conferenza episcopale italiana (attraverso i fondi dell’8xmille) e da Caritas Italiana, in sinergia con la direzione dell’istituto penale minorile Casal del Marmo, il Centro della giustizia minorile Lazio- Abruzzo-Molise, il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, le diocesi di Roma e di Porto-Santa Rufina. Per ora ci lavorano in tre e la soddisfazione di vedere tanta gente ad ascoltare le loro spiegazioni sulla trafilatura al bronzo è evidente sui loro volti. Perché il lavoro è un mezzo per generare futuro, “la forma educativa più significativa”. Attraverso il lavoro - ricorda infatti il segretario generale della Cei, l’arcivescovo di Cagliari Giuseppe Baturi- “si impara ad amare se stessi, gli altri, coloro che serviamo attraverso il contributo della nostra fatica, come il cibo che viene consumato per soddisfare le proprie esigenze di vita, per instaurare rapporti di amicizia e per guardare con fiducia al futuro”. Ma pastificio Futuro è anche “un segno di amicizia sociale: il fatto che tante istituzioni abbiano collaborato per realizzare un bene è il segno di cosa dovrebbe essere la politica, perché l’amore al prossimo sia amore sociale e amore politico”. Philipe e Mohammed donano il frutto del loro operato alle istituzioni presenti. Abbassano lo sguardo in segno di imbarazzo, ma si compiacciono dei loro complimenti. “Crediamo nell’uomo. L’uomo può cambiare - aggiunge monsignor Baturi - ci vuole cura, ci vuole l’educazione che, come ricorda il Papa, è la forza più radicale per la trasformazione del mondo”. Ecco appunto, educare alla pazienza, all’essiccazione lenta della pasta, all’imbustamento semi- manuale per aumentare il numero di quanti potranno lavorare nel pastificio. Pastificio che, come ricorda il cardinale vicario di Roma Angelo De Donatis, è un “segno concreto di un sogno condiviso che nel lavoro congiunto ha visto la sua realizzazione”, per dare una possibilità a ragazzi che “hanno mancato il bersaglio della vita e vogliono rimettersi in carreggiata grazie ad un salvagente”. In ultima fila ci sono quattro giovanissime detenute che lavoreranno qui. Ascoltano con curiosità le potenzialità di questo laboratorio che può produrre fino a 220 Kg all’ora di pasta, che significa 4mila pacchetti da 500 grammi al giorno. Questa è una “opera-segno - aggiunge il direttore di Caritas Italiana don Marco Pagniello - una opportunità nuova per questi ragazzi, una speranza per le loro famiglie e una occasione per il sistema, perché dimostra che ci può essere una seconda occasione per tanti”. Come quella personale raccontata dal presidente della Regione Lazio Francesco Rocca, che insieme al sindaco di Roma Roberto Gualtieri ha assicurato “massimo sostegno” per aiutare nella vendita. Roma. “Umanità in marcia”: la nuova edizione del memorial per Stefano Cucchi di Luciana Cimino Il Manifesto, 11 novembre 2023 Una corsa per i tanti Stefano Cucchi che ancora reclamano giustizia. “Umanità in marcia”, la staffetta dei diritti in memoria del ragazzo ucciso il 22 ottobre 2009 mentre era in custodia cautelare, partirà domani per la prima volta da Tor Bella Monaca, alla periferia est di Roma. Il memorial percorrerà le strade di Roma fino ad arrivare alla targa in suo nome al Parco degli Acquedotti, dove si terrà l’assemblea pubblica con le associazioni e le realtà sociali che hanno sostenuto la battaglia per la verità e la giustizia della sorella Ilaria, della famiglia e dell’avvocato Fabio Anselmo. L’evento, in programma lo scorso 20 ottobre, era stato poi rinviato a causa dell’allerta meteo. “Siamo al nono Memorial dedicato a mio fratello Stefano, ucciso di botte da uomini in divisa, dalla parte sbagliata dello Stato - ha commentato Ilaria Cucchi, senatrice di Alleanza Verdi Sinistra (Avs) - Noi siamo ancora qui, con Fabio Anselmo, con mio padre devastato dalla malattia, con le decine di associazioni e movimenti a parlare dei tanti Stefano Cucchi che ancora soffrono perché privati dei diritti fondamentali”. Sono oltre 80 le associazioni che promuovono il memoriale, tra le quali, per citarne solo alcune, anche Fiom Nazionale, Amnesty International, Articolo21, Libera, Cgil Roma e Lazio, Anpi, Emergency. Oltre a numerosissime realtà attive sul territorio come Casetta Rossa, Spin Time, Baobab Experience e Lucha y Siesta. Il percorso, che partirà alle 9 da Largo Ferruccio Mengaroni tappe, attraversando Quarticciolo e Pigneto per finire alle ore 12.30 a Via Lemonia, è suddiviso in più tappe che ricordano le battaglie comuni per l’affermazione dei diritti umani, civili e sociali. Ogni tappa sarà dedicata alla difesa di un diritto fondamentale e sarà animata dalle associazioni e realtà quotidianamente impegnate sul tema. La conclusione sotto la targa dedicata a Stefano con testimonianze, interventi, e contributi artistici. “La Staffetta dei Diritti è diventato un appuntamento importante - hanno spiegato gli organizzatori - proprio per questo non si tratta soltanto di una corsa ma è molto altro, un percorso che abbraccia tante realtà e cittadini lungo le sue tappe, in molti provenienti non solo da Roma ma da tutta l’Italia”. Ilaria Cucchi, nel ringraziare “le associazioni, i movimenti, la società civile che ancora sono in marcia dalla parte dell’umanità per i diritti, per Stefano, per tutte e tutti” ha poi ribadito che “sui diritti umani, civili, sociali non facciamo passi indietro, anzi chiamiamo alla mobilitazione per affermarli, soprattutto in un momento storico così delicato in cui come mai sono sotto attacco”. Percorso completo: La staffetta dei diritti partirà alle ore 9.30 da largo Ferruccio Mengaroni, toccherà le seguenti tappe: piazza Giovanni Castano (Tor Bella Monaca), alle ore 10.30 al parco Modesto Di Veglia al Quarticciolo (via Ugento 30), alle ore 10.55 Lago Ex Snia (via Prenestina), alle 11.05 Centro antiviolenza GiuridicaMente Libera (via del Pigneto 281), alle ore 11.15 Scuola Pisacane (via di Acqua Bullicante 30), alle ore 11.30 Parco Sangalli - Largo Petazzoni (Tor Pignattara), Parco di Centocelle (via Papiria, angolo viale Marco Fulvio Nobiliore), alle ore 12.00 Lucha y Siesta (via Lucio Sestio 10). La staffetta terminerà alle ore 12.30 al Parco degli Acquedotti (Via Lemonia, angolo Viale Appio Claudio), e seguirà un’assemblea pubblica con testimonianze, interventi, e contributi artistici. Le associazioni e le realtà del territorio che aderiscono: Comitato Promotore Memorial Stefano Cucchi; Associazione Stefano Cucchi Onlus; A Buon Diritto; Acad; Alberi in Periferia; A.M.D.I.F Associazione Marocchina Diritto Infanzia e Famiglia; Amnesty International Italia; Angelo Mai; ANPI Roma e Provincia; ANPI VI Municipio; Antigone Lazio; ÀP - Accademia Popolare Antimafia; Articolo21; Asinitas - Centri interculturali con i migranti; Associazione Culturale Comunitaria; Associazione di Quartiere Collina della Pace; Aurelio in Comune; Baobab Experience; BAPNE Italia; Carminella Associazione di Promozione Sociale; Casale Alba 2; Casetta Rossa Spa; Celio Azzurro; Cemea del Mezzogiorno; Centro giovani e scuola d’arte MaTeMù; Cgil FP Roma e Lazio; Cgil Roma e Lazio; CIES Onlus; Cinecittà Bene Comune; Circolo Mario Mieli; Cittadinanzattiva; CNCA Lazio; Comitato di Quartiere Quarticciolo; Comitato di quartiere Villa Certosa; Comune-info; Cooperativa Diversamente; Cooperativa Sociale Folias; Coro Romolo Balzani; Cresco; CSOA La Strada; CSOA Spartaco; Cubo Libro; DaSud; El Chentro Sociale; Emergency Gruppo Roma Appia; Emergency Gruppo Roma Est; Famiglie Arcobaleno APS; Fanfaroma - Associazione culturale Controchiave; FIOM-Cgil nazionale; FIOM-Cgil Roma-Lazio; Hollywood tutto sul cinema; LabSu; La Corsa di Miguel; La Fattorietta; Le Donne del Muro Alto; Libera Roma; Libera Roma Presidio “Rita Atria” VII Municipio; Liberi Nantes; Libreria Tuba; Lokomotiv Prenestino; LOtto con tutte; Lucha y Siesta; Mediterranea; Nonna Roma; Open Arms; Palestra Popolare Quarticciolo; PID Onlus; Pisacane 0-99; Progetto Diritti; QuadraCoro APS; Quadraro Gym; Refoodgees; Rete NO Bavaglio; Runners For Emergency; Runner Trainer Roma; Scuola Popolare Tor Bella Monaca; Spin Time; Terra! Onlus; Titubanda Smart; UISP Roma; Una volta per tutte; Via Libera; Villetta Social Lab; Z.O.E. - Zone Oltre le Evidenze. Il cibo per tutti c’è, ma i Paesi in via di sviluppo ne avranno sempre meno di Marinella Correggia Il Manifesto, 11 novembre 2023 Il rapporto Food Outlook 2023 presenta le stime sulla produzione di cereali, latte e carne. Con previsioni negative sull’import-export. Fotografia dei mercati alimentari globali, il rapporto biennale Food Outlook 2023 appena pubblicato dalla Fao (Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura) offre le ultime stime su produzione, commercio e utilizzo di cereali, semi oleosi e altri grassi, carne, pesce, latte. Quanto alla produzione, “le ultime stime per la maggior parte degli alimenti di base sono favorevoli, ma eventi climatici estremi, crescenti tensioni geopolitiche e improvvisi cambiamenti politici comportano rischi e potrebbero potenzialmente alterare i delicati equilibri fra domanda e offerta”. Si prevede per il 2023-2024 una riduzione nel volume degli scambi dei cereali diversi da grano e riso, malgrado un aumento della produzione mondiale di mais. Anche il commercio mondiale di oli vegetali e grassi dovrebbe subire una modesta flessione, accanto all’aumento della produzione e del consumo globale. Probabile diminuzione dell’import-export nel prossimo anno anche per zucchero, prodotti lattiero-caseari, carne e pesce. Il Food Outlook aggiorna anche le stime Fao sulla spesa per le importazioni alimentari a livello mondiale nel 2023: si prevede che raggiungerà i 2000 miliardi di dollari, +1,8% in più rispetto al 2022. Le quotazioni internazionali di ortofrutta, bevande e zucchero (generi alimentari dall’impatto opposto sulla nutrizione e sulla salute) sono aumentate, quelle degli oli vegetali e animali sono diminuite. Per i paesi meno avanzati, i paesi in via di sviluppo importatori netti di alimenti e i paesi dell’Africa sub-sahariana, si prevede una contrazione dell’11% della spesa aggregata per l’import (non necessariamente per una maggiore indipendenza alimentare). Il rapporto offre anche una panoramica sull’andamento dei prezzi interni degli alimenti nei paesi a basso reddito importatori netti di prodotti alimentari, con un picco nell’aprile 2022, poi una discesa e una ripresa nel luglio 2023. Le tante tabelle illustrano dinamiche globali e nazionali, non solo produttive ma anche geopolitiche, sanitarie e ambientali. Alcuni esempi. Scendono i prezzi internazionali delle carni, soprattutto del pollame, per via di un’offerta globale abbondante. In aumento continuo anche la produzione di pesci, di cattura e allevamento (oltre 180 milioni di tonnellate). Si prevede un aumento del consumo di grano sia come cibo che come mangime, soprattutto in Cina. Il paese poi torna a importare carne bovina da vari paesi occidentali (dopo 22 anni, effetto mucca pazza) e carne suina dalla Russia (questione peste suina). L’Arabia saudita dal canto suo dopo 21 anni apre alla carne sudafricana in seguito a ispezioni nei macelli e nei silos. L’Ucraina rimuove il bando al pollame polacco salvo per le aree colpite dalla malattia di New Castle. E l’Unione europea prosegue con l’esenzione doganale per tutti i prodotti ucraini (carne compresa). L’Indonesia contesta le norme anti-deforestazione dell’Ue rispetto al suo olio di palma. Intanto il Burkina Faso investe nell’”Offensiva agropastorale e alieutica 2023-2025” puntando su otto prodotti fra i quali riso e mais ma anche niébé, sesamo, sorgo. Questo quadro globale va visto anche alla luce di un altro rapporto Fao, The State of Food and Agriculture 2023, sul costo nascosto (nel senso che non si riflette nei prezzi) dei sistemi agroalimentari: oltre 10.000 miliardi di dollari all’anno, ovvero il 10% del prodotto interno lordo (Pil) mondiale. I maggiori costi nascosti (oltre il 70%) sono legati alle diete non salutari. Un quinto dei costi totali, poi, è di tipo ambientale, legato alle emissioni di gas serra e di azoto, al cambiamento di destinazione d’uso dei terreni e all’utilizzo dell’acqua. I paesi a basso reddito sono in proporzione i più colpiti dai costi nascosti, che rappresentano più di un quarto del loro Pil e sono associati a povertà e a sottonutrizione. Tasse, sussidi, leggi e regolamenti sono leve che i governi possono utilizzare. Nel bene e nel male: secondo Detox Development: Repurposing Environmentally Harmful Subsidies (primavera 2023), della Banca mondiale, sono dannosi dal punto di vista ambientale e sociale molti dei sussidi in agricoltura, pari a oltre 635 miliardi di dollari all’anno, e alla pesca, oltre 35 miliardi di dollari l’anno. “Antisemiti”: tempesta social per screditare Amnesty International di Adriana Pollice Il Manifesto, 11 novembre 2023 Un video su X mostra dei volantini strappati di bimbi israeliani rapiti, Noury: “Operazione strumentale e intimidatoria contro i nostri dialogatori”. Napoli, Port’Alba: tre attivisti al banchetto di Amnesty International sono finiti nel tritacarne mediatico. Un video postato su X da un utente (che si definisce chairman del Jewish Economic Forum) bolla loro e l’intera organizzazione come pagliacci antisemiti: “C’è qualcosa di più antisemita che strappare le immagini dei bambini israeliani rapiti?”. Nel pomeriggio è intervenuto Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia: “Un video accusa nostri dialogatori di aver strappato alcuni volantini ritraenti immagini di bambini israeliani rapiti. Nel video si vede un volantino a pezzi ma non chi l’avrebbe fatto a pezzi. Sono accuse infondate. I nostri dialogatori hanno spiegato cortesemente che non possiamo esporre materiale relativo a violazioni dei diritti umani realizzato da altre organizzazioni. Pertanto, il volantino è stato rimosso e depositato in un cestino. L’indipendenza di Amnesty International si tutela così: proponendo solo proprio materiale”. Curioso che l’interscambio sia stato documentato: “Il fatto che la scena sia stata filmata - prosegue Noury - rivela le intenzioni dell’autore e di chi poi ha ricevuto e diffuso il video: un attacco orchestrato nei confronti di Amnesty International per indebolire e delegittimare un’organizzazione auto finanziata, che non prende parte al tifo delle contrapposte narrazioni. Non c’è comunicazione in cui Amnesty non abbia espresso condanna per i crimini di guerra di Hamas (così come poi, naturalmente, per quelli commessi nella risposta militare israeliana) e non abbia sollecitato l’immediata liberazione dei civili israeliani. Tutto questo rischia di essere azzerato da un’operazione palesemente strumentale oltre che intimidatoria: lo dimostrano la zoomata sul nome e cognome di una dialogatrice e i primi piani dei volti degli altri due colleghi”. Il video ha scatenato i commenti social della stampa italiana, molti contro Amnesty. Controllare il sentiment non è però facile così ci pensa un utente a tirare le somme: “Riassunto dei nemici di Israele secondo i giornalisti kompetenti italiani: le Nazioni Unite; Greta Thunberg; il Papa; Amnesty International”. A suscitare l’ostilità nei riguardi Amnesty potrebbe essere stato il rapporto Apartheid israeliano contro i palestinesi del febbraio 2022, rilanciato dai collettivi universitari che in questi giorni stanno animando iniziative di solidarietà nei confronti della Palestina. A Napoli oggi dalle 15 ci sarà un sit in “per protestare verso la rappresentanza consolare degli Usa, principale sostenitore politico e diretto sostenitore militare delle operazioni di pulizia etnica a Gaza”. La Questura non ha autorizzato il presidio di fronte al consolato ma solo alla Rotonda Diaz: “Gli Usa non vogliono vedere il dissenso” il commento della Rete Napoli per la Palestina. Dopo le occupazioni dell’Orientale e de La Sapienza (ieri irruzione nella sede di Roma dell’Ue e, nel pomeriggio, sit in nel piazzale del Verano), è stata la volta dell’Università di Padova: “Gli atenei italiani - hanno dichiarato ieri - si rendono complici intrattenendo partnership e rapporti con le università israeliane e cioè con istituzioni che in Palestina profilano, reprimono e puniscono studenti e studentesse che come noi agiscono e si attivano per supportare la lotta per uno stato palestinese libero e democratico”. Per il 17 novembre è annunciata una mobilitazione nazionale: “Blocchiamo scuole e università, blocchiamo la guerra” l’appello. Il nodo informazione e conflitti è stato al centro della quattro giorni di Napoli dedicata a Julian Assange, a cui ieri è stata conferita la cittadinanza onoraria, la pergamena consegnata alla moglie Stella Morris dal sindaco Gaetano Manfredi. L’iniziativa è partita dai consiglieri comunali Sergio D’Angelo e Antonio Bassolino, salutata anche dall’ex sindaco Luigi de Magistris. Presente alla cerimonia anche la mamma di Mario Paciolla, il cooperante ucciso in Colombia. Nella Sala dei Baroni le bandiere della Palestina. “Julian è da 4 anni e mezzo in una delle peggiori prigioni d’Inghilterra - ha spiegato Morris - e rischia una condanna a vita negli Usa. È stato usato come deterrente per intimidire i giornalisti e per inibire un libero dibattito. Quello che sta accadendo a Gaza è un momento molto buio, ci sono uccisioni anche di giornalisti e questo vuol dire che un giorno non ci saranno più giornalisti a Gaza”. Studenti pro Palestina, lo psicanalista Ammaniti: “Per i giovani l’Occidente è simbolo dell’oppressione” di Paolo Conti Corriere della Sera, 11 novembre 2023 Lo studioso: “Parlando in termini di inconscio collettivo, in questo contesto tornano antichi sospetti, addirittura con sfumature paranoiche, nei confronti dell’ipotetico strapotere degli ebrei”. “I nostri adolescenti hanno un atteggiamento di opposizione verso quella parte del mondo che per loro è più potente e più dominante. Cioè l’Occidente. E questa loro posizione è più forte dell’ideologia stessa, cioè degli schieramenti politici internazionali. In Israele ragazze e ragazzi vedono uno Stato strutturato, ben armato, sostenuto dagli Stati Uniti, tecnologicamente avanzato, che appartiene a quella parte di mondo che loro vogliono combattere. Dall’altra parte, nella loro ottica, ci sono i palestinesi oppressi da Israele. Una realtà vista come povera, priva di risorse economiche, oppressa da Israele. È uno schema che ricorre in molti Paesi. Tutti abbiamo letto che cosa sta accadendo nei campus americani”. Massimo Ammaniti, famoso psicoanalista e professore onorario di Psicopatologia dello sviluppo all’università Sapienza, offre una lettura non ideologica di un fenomeno visibile anche qui a Roma quanto nei campus universitari americani. Proprio alla Sapienza la facoltà di Scienze politiche è stata occupata dai collettivi studenteschi pro-Palestina. Ieri ha colpito molti lettori l’intervista rilasciata alla nostra Valeria Costantini dallo studente ventenne Federico Manetti, uno dei leader dei collettivi occupanti. Generica opposizione all’Occidente - Parlando della strage del 7 ottobre di ragazzi che partecipavano a un rave, di fatto suoi coetanei, compiuta da Hamas ha risposto: “Terrorismo? Non so se possiamo definirlo così, il discorso è più complesso. Cioè la ritengo un’azione di resistenza... Anche il tema degli ostaggi, terribile certo, ma va sempre inserito in un metodo difensivo”. Dice Ammaniti: “Più che in termini di contrapposizione tra Islam contro mondo ebraico o mondo cristiano, parlerei proprio di contrapposizione verso l’Occidente come simbolo di un oppressivo potere mondiale. Come vediamo, lo stesso sta accadendo nelle grandi università Usa, addirittura a Harvard. È una dinamica tipicamente adolescenziale che si riflette in moltissime scelte di quell’età, persino in quelle marginali, come non rispettare il semaforo rosso pedonale. Addirittura quel segnale può apparire qualcosa di autoritario. In più, purtroppo molte posizioni di Netanyahu e la stessa situazione della Cisgiordania non aiutano”. Antichi sospetti - Però, professor Ammaniti, emergono fattori molto pericolosi come l’antisemitismo: “Drammaticamente è così ed è, in qualche modo, la terribile conseguenza della contrapposizione all’Occidente. Parlando in termini di inconscio collettivo, in questo contesto tornano antichi sospetti, addirittura con sfumature paranoiche, nei confronti dell’ipotetico strapotere degli ebrei che, secondo queste deliranti analisi, avrebbero nelle loro mani il grande potere economico finanziario mondiale. Conosciamo i terribili slogan: “il sistema giudaico-plutocratico”, e via dicendo. Qui, com’è evidente, torniamo alla lotta a un potere mondiale, con queste spaventose implicazioni antisemite”. Puntare sugli aspetti emotivi - Giorni fa, sul Corriere della Sera, Federico Rampini sosteneva che quei giovani sostenitori di Hamas, studenti degli atenei più ricchi degli Stati Uniti dovrebbero essere orripilati dal sessismo e dall’omofobia dei Paesi islamici. Ma cosa si può fare per proporre loro materiali di riflessione? “Certamente i documenti storici sulla Shoah. Ma secondo me bisognerebbe puntare di più sugli aspetti emotivi. Raccontare cosa accade in Iran, paese che sostiene Hamas, ai ragazzi che si battono per la libertà. E alle ragazze che si ribellano all’uso del chador, barbaramente ferite a morte dai Guardiani della rivoluzione. Lo stesso si può fare raccontando dei giovani israeliani che vivono in un clima di costante allarme in un Paese circondato da altre realtà ostili. È il processo di immedesimazione che può funzionare, molto più degli strumenti più tradizionali, come l’informazione così come la conosciamo”. Migranti. Il piano Italia-Albania avviato in primavera. Il mancato avviso al Quirinale di Francesco Verderami Corriere della Sera, 11 novembre 2023 La premier Meloni e il confronto con von der Leyen. Ecco chi era a conoscenza dell’intesa con il premier albanese Rama. La decisione di Giorgia Meloni di annunciare l’intesa con l’Albania sui migranti non ha colto di sorpresa i ministri del governo. Ma il Colle. Questa operazione con Tirana va avanti dalla scorsa primavera, da quando la premier italiana iniziò a discuterne con il primo ministro albanese Edi Rama. Da quel momento al piano - ideato e gestito direttamente da Palazzo Chigi - presero a collaborare in gran riserbo alcuni membri dell’esecutivo. E c’è la prova di quanto affermava ieri Antonio Tajani, e cioè che alla costruzione dell’accordo avevano lavorato anche la Farnesina e il Viminale: l’8 giugno, durante il vertice europeo dei ministri della Giustizia e dell’Interno, Matteo Piantedosi aveva ingaggiato un lungo braccio di ferro con il collega tedesco, ottenendo infine che il Regolamento per i migranti prevedesse la possibilità di eseguire le procedure di frontiera “anche con accordi con Stati terzi”. Ecco la chiave che aveva spalancato la porta a Meloni. E il piano con Tirana si stava affinando nei dettagli, quando la premier ha deciso di bruciare i tempi e di ufficializzarlo senza informare gli alleati di governo. È indicativa la photo opportunity dell’altro giorno che ritrae Rama con i suoi ministri, mentre Meloni è attorniata soltanto dai suoi collaboratori. Di qui il nervosismo degli alleati, critici per il fatto che “Giorgia anche stavolta ha voluto ballare da sola”. Ma il punto più delicato della vicenda è un altro: Palazzo Chigi non ha provveduto ad informare il Quirinale. Non è chiaro se si sia trattato di un difetto di comunicazione, dato che il capo dello Stato si trovava all’estero, o se sia stata una scelta deliberata, dettata dalla volontà di evitare intoppi al disegno di governo. È certo che il Colle non ha affatto gradito. Questione di metodo e probabilmente anche di merito: in ogni caso è calato il gelo con la presidente del Consiglio. E chissà se l’irritazione sia dovuta anche al fatto che nei mesi passati Meloni aveva avuto una serie di interlocuzioni con Ursula von der Leyen, che per grandi linee dunque doveva sapere qualcosa dell’iniziativa. Non a caso da Bruxelles non si sono finora levate critiche verso Roma. Il progetto di Meloni è una scommessa ancora da vincere, perché il percorso che ha intrapreso è pieno di incognite giuridiche, economiche e politiche. Intanto, sotto il profilo legislativo, l’accordo con Tirana dovrà essere accompagnato da una norma primaria per consentire di estendere la giurisdizione italiana su quella porzione di territorio albanese dove verranno situati i centri per i migranti. Un inedito a cui stanno lavorando il Guardasigilli Carlo Nordio e il suo omologo di Albania. Questo vuol dire che il governo dovrà passare inevitabilmente per le Camere. E per il Parlamento dovrà passare anche la copertura economica del progetto, forse con un emendamento alla legge di Stabilità. Tuttavia, informa un autorevole ministro, “ancora non sono state tirate le somme” dei costi di impianto e dei costi di esercizio, che si prevedono “più onerosi di quanto siano stati immaginati”. Infine c’è l’aspetto politico. In questi giorni Meloni ha avuto gioco facile con l’opposizione. Alla reazione (scomposta) del Pd che mirava all’espulsione di Rama dal Partito socialista europeo, la premier ha risposto con le parole del primo ministro albanese: “Aiutare l’Italia non sarà di sinistra e nemmeno di destra. Forse è semplicemente giusto”. Ma il silenzio dei Paesi dell’Unione non è dovuto solo alle imminenti Europee, che consigliano di evitare attriti sull’argomento con gli elettori. L’attesa serve a verificare l’efficacia del progetto italiano: un eventuale flop scaricherebbe i costi politici solo sul governo di Roma. Meloni è consapevole che l’accordo con l’Albania non è “la” soluzione al problema migratorio e che la via più efficace passa attraverso il “piano Mattei” e gli accordi con i Paesi africani. Ma la premier è comunque convinta che il piano stipulato con Tirana possa avere un effetto deterrente, riducendo le partenze verso l’Italia: “Perché chi arriva - spiega un esponente di governo - rischia di non andare in Germania o in Francia ma di finire in Albania”. Tutti attendono al varco Meloni, che intanto ha un problema da risolvere con il Quirinale. La sinistra europea arranca sui migranti di Alessandro De Angelis La Stampa, 11 novembre 2023 In tutta l’Europa si assiste a un inasprimento nell’approccio sull’immigrazione, cui non sono estranee neanche le forze sinistra radicale. Rapido viaggio nell’Europa progressista. In Germania il cancelliere Scholtz, socialdemocratico, sotto pressione per l’avanzata di Afd, ha faticosamente siglato un accordo con i governatori regionali che ha parecchie assonanze col “modello albanese” di Giorgia Meloni. Si prevede, questo il punto più delicato, che l’esame del diritto di asilo possa avvenire anche nei paesi di transito e nei paesi terzi. In Spagna, come noto, il socialista Sanchez non è affatto tenero coi migranti (a Ceuta e Melilla, in passato c’è scappata pure qualche pallottola). Di fronte all’aumento degli sbarchi alle Canarie, la scorsa settimana, il ministro dell’Interno spagnolo è volato in Senegal per fare ulteriore pressione sul governo affinché blocchi le partenze. E ancora: nella Francia di Macron, che di destra non è, il Parlamento ha iniziato a discutere un disegno di legge che punta a inasprire le regole sull’immigrazione, criticato dalle Ong sul terreno dei diritti. Nella socialdemocratica Danimarca - già un passo avanti in quanto a misure restrittive - la premier Mette Federiksen ha tentato di varare il famoso “modello Ruanda” e ha proseguito con lo smantellamento dei quartieri abitati da immigrati di origine musulmana. In tutta l’Europa (anche progressista) si assiste cioè a un inasprimento nell’approccio sull’immigrazione, cui non sono estranee neanche le forze sinistra radicale, che fu “altermondista”, solidale, traversatrice di mari sulle Ong. La rappresentazione icastica è la Linke tedesca. Proprio sull’immigrazione si consumata una scissione da parte dell’ex leader Sahra Wagenknecht, contraria alla candidatura di Carola Rakete e alla linea umanitaria, oltre che scettica sui vaccini e sull’Ucraina ai limiti della consonanza con Aft. La ricetta è superare il “buonismo di sinistra” in nome di una retorica in salsa marxista: le politiche di accoglienza favoriscono chi vuole la forza lavoro a buon mercato, teniamoli a casa loro. Che è esattamente quel che ha sostenuto Jean-Luc Mélenchon negli ultimi due lustri anche se, in verità, alle ultime presidenziali, ha usato toni un po’ meno “lepenisti”. Robert Fico, il “sovranista rosso” sospeso dal Pse per le sue posizioni filo-puntiniane, è invece passato direttamente alle vie brevi: droni, cannoni ad acqua e cavalli della polizia ai confini slovacchi. Insomma, il populismo di sinistra sente la contiguità elettorale col populismo di destra e ne mutua logiche e parole. Il riformismo socialdemocratico, sotto pressione per le prossime elezioni, più che sfidare la destra coniugando umanità (nel senso di integrazione) e sicurezza, la insegue sul terreno securitario. Qualche considerazione, nel giorno in cui il Pse è a congresso a Malaga. Tutte queste risposte hanno un limite: sono dettate dalla logica emergenziale, ma nessuna dà una risposta “strutturale” al dato “strutturale”, amplificato dal 7 ottobre: l’Africa. Invece di una risposta europea sull’Africa è tutta una ridda di risposte nazionali, che peraltro servono a poco: sulla logica del paese terzo non è riuscita neanche la Merkel con la Tunisia né Sunak col Ruanda. Anche la sinistra nostrana ha una “via italiana”, che consiste, sostanzialmente, nel negare il problema: “accogliamoli tutti”. L’umanità senza sicurezza, contrapposta alla sicurezza senza umanità, e accompagnata da una critica tutta moralisteggiante alle politiche altrui. Senza proporre una strategia alternativa di governo del fenomeno. Magari, vista la posizione geografica, facendosi carico di un’iniziativa politica, nel Pse e dunque nell’Europa, sull’Africa. Lì dove è già franato il famoso piano Mattei di Giorgia Meloni. Patria della libertà? Negli Stati Uniti ci sono 200.000 ergastolani di Valerio Fioravanti* L’Unità, 11 novembre 2023 Finalmente qualcuno sospetta che 200.000 ergastolani in un solo Paese siano troppi. L’Organizzazione delle Nazioni Unite, lo sappiamo, ha poteri molto limitati, e per questo motivo ha tanti detrattori che la definiscono “inutile”. Sulle grandi cose, le guerre, le invasioni, i disastri naturali sì, l’Onu in tempi brevi non riesce quasi mai a fare cose risolutive. Però è una tribuna importante, e lo è ancor di più quando si tratta di cause che i mass media ritengono “minori”, di poco interesse, o che comunque riguardano posti troppo lontani, o persone di poco rilievo. Pochi giorni fa, nella sede di Ginevra, ha concluso la sua 139.ma sessione quadrimestrale il Consiglio dei Diritti Umani, che si è occupato anche degli Stati Uniti. Ogni Stato membro dell’Onu viene sottoposto a quella che si chiama “revisione periodica”. Con una ciclicità di quattro anni e mezzo, per ogni Paese vengono convocati esperti, eventuali “relatori speciali” nominati in precedenza per casi particolarmente rilevanti, e Organizzazioni Non Governative considerate rappresentative. Come dicevamo, quest’anno è stata “revisionata” anche la situazione dei diritti umani all’interno degli Stati Uniti. Con una novità rispetto al passato: non solo la pena di morte, ma anche “l’altra pena di morte”, ossia l’eccesso di ergastoli. Quattro associazioni statunitensi (Releasing Aging People in Prison, Visiting Room Project, California Coalition for Women Prisoners, Abolitionist Law Center) hanno portato altrettanti ex ergastolani a relazionare su quello che sembra a tutti gli effetti un paradosso: la nazione che ritiene di incarnare i valori della libertà più e meglio di ogni altra al mondo tiene rinchiusi nelle sue prigion i 203.800 ergastolani, forse anche di più visto che l’ultimo conteggio è di tre anni fa. Praticamente negli Usa, ogni 1.500 abitanti, uno è condannato all’ergastolo. Per fare un raffronto, in Italia c’è un ergastolano ogni 32.780 abitanti, ventidue volte di meno. Come Nessuno Tocchi Caino registra ogni anno nel momento in cui vengono pubblicate le statistiche più complete, il livello medio di criminalità violenta in Europa è cinque volte più basso di quello statunitense, sempre considerando la popolazione. E nella statistica europea l’Italia, che ci si creda o no, figura da tempo tra i paesi meno violenti. L’Europa usa molto meno carcere degli Stati Uniti, e sembra che ne ottenga in cambio società molto meno violente. Ma torniamo a Ginevra. Hanno preso la parola davanti ai membri del Consiglio Stanley Jamel Bellamy, Anthony Hingle, una donna, Kelly Savage-Rodriguez, e Robert Saleem Holbrook. Hanno spiegato che “tecnicamente” l’argomento in questione si chiama non pena di morte, ma morte per pena, in inglese Death By Incarceration. E gli ergastoli sono di tre tipi diversi: l’ergastolo senza condizionale, che non prevede mai la scarcerazione (e quindi porta alla morte in carcere), poi c’è l’ergastolo “normale”, che prevede la possibilità di essere rilasciati “sulla parola” dopo un periodo che a seconda degli Stati varia tra i 20 e i 30 anni, e infine c’è l’ergastolo “virtuale”, ossia le pene che superano la normale aspettativa di vita, come essere condannati a 65, 80 o 100 anni di detenzione. I quattro testimoni hanno raccontato le loro vicissitudini: tutti arrestati molto giovani, tutti appartenenti a minoranze etniche, e tutti rilasciati, dopo tanto carcere scontato, grazie a Governatori (pochi) che nei loro Stati hanno promosso leggi di “riequilibrio delle condanne”, soprattutto rivolte alle persone arrestate quando erano molto giovani. I quattro testimoni, oltre a far notare che 2/3 di tutti gli ergastolani sono “di colore”, intendendo con questo sia neri che ispanici, hanno lamentato una cosa ineccepibile: sembra che il sistema penale statunitense non voglia prendere atto che gli esseri umani, col passare del tempo, di decenni, possono cambiare. “Gli Stati Uniti dovrebbero vergognarsi di sé stessi perché siamo l’unico Paese che parla di persone usa e getta”, ha detto Bellamy. “A livello internazionale dobbiamo fare pressione sugli Stati Uniti e fargli capire che le persone cambiano”. “Siamo esseri umani e abbiamo bisogno di essere riconosciuti come tali”, ha continuato. I membri del Comitato sono stati chiaramente commossi dalle testimonianze, facendo riferimento direttamente alla morte per incarcerazione nelle loro osservazioni e chiedendo alla delegazione del governo degli Stati Uniti di spiegare la sproporzione dei detenuti di colore. Nei primi giorni di novembre verrà pubblicato il rapporto sulla “revisione” degli Stati Uniti. Nessuno sarà scarcerato il giorno dopo, certo, ma intanto il problema è stato sollevato. *Associazione Nessuno Tocchi Caino Medio Oriente. La vita sospesa degli sfollati libanesi lungo il confine di Pasquale Porciello Il Manifesto, 11 novembre 2023 I bambini giocano e le loro voci riempiono le aule in uno dei cortili del complesso che ospita la Scuola d’Arte e l’Università libanese di Tiro. È una giornata di sole, fa caldo, a qualche centinaia di metri il mare è immobile e la luce entra dalle grandi finestre illuminando i teloni di plastica del Unhcr, le pile di materassi, i panni stesi ad asciugare e le poche cose che frettolosamente le famiglie scappate dal confine con Israele e ospitate in una delle tante strutture allestite per l’emergenza sono riuscite a portarsi dietro. Da un lato le lezioni, dall’altro gli sfollati. Seduta ricurva su una sedia da scuola, con i gomiti appoggiati alle ginocchia e le mani in un secchio d’acqua, Mariam lava qualche indumento alla buona: “Non possiamo cucinare qui per i nostri figli, il cibo viene da fuori e spesso i bambini non lo mangiano perché non sono abituati. Non possiamo lavare per bene i vestiti, non abbiamo niente che ci appartenga qui, tutte le nostre cose sono là. Vogliamo solo tornare a casa”. Con lei nell’aula diventata stanza una folla di bambini e il marito Mustafa Hafiz che ci spiega come sono arrivati a Tiro: “Abbiamo preso i nostri figli e di notte siamo venuti qui in macchina. Degli amici ci avevano detto di questa struttura. Da un mese siamo qui. Un’altra mia figlia col marito è rimasta a Beit Lif (al confine). Non escono di casa. Ho detto loro di venire qua”. La guerra è a pochi chilometri. Di notte si sentono vivi i boati delle esplosioni a Tiro. Si combatte senza tregua dall’8 ottobre, il giorno dopo l’inizio della guerra tra Hamas e Israele, e il fronte è ormai il confine tutto, da Naqura, sul mare, alle Fattorie Cheba’a, occupate da Israele nel 1967 e contese tra Siria, Libano e Israele. “Ci sono 11 strutture d’accoglienza dove abbiamo ricevuto circa 1.000 persone. Quattro sono qui a Tiro, sette a Hasbaya (governatorato di Nabatieh). Forniamo loro assistenza medica, cibo, servizi essenziali assieme a ong locali e internazionali” dice Bilal Kashmar dell’Unione delle municipalità di Tiro che gestisce la struttura. 25.705 sfollati secondo i numeri dell’agenzia Onu Iom (organizzazione internazionale per la migrazione) che lavora a stretto contatto con la croce rossa libanese e l’unità governativa di crisi, numero in lieve calo rispetto a fine ottobre quando erano circa 29mila. Alcuni cominciano infatti a trovare sistemazioni vere e proprie: sanno che anche una volta finita la guerra non potranno comunque tornare indietro fino a quando case e infrastrutture saranno rimesse a posto. Saida, Nabatieh e Tiro le tre città a maggiore affluenza; sette degli otto governatorati libanesi ospitano in 214 strutture private gli sfollati. Il coordinatore umanitario in Libano Imran Riza ha rilasciato ieri un breve e chiaro comunicato stampa nel quale si legge: “Assistiamo di recente ad attacchi che uccidono e feriscono civili nel sud del Libano, tra cui donne, bambini e giornalisti. Inoltre danni ingenti sono stati inflitti a proprietà private, infrastrutture pubbliche, terreni agricoli, forzando oltre 25mila persone a lasciare le loro case. I contadini rischiano la loro vita per raccogliere le olive e il tabacco, loro unica fonte di sostentamento”. Molte delle montagne e delle colture al confine bruciano. Human Rights Watch ha già confermato l’uso di bombe al fosforo bianco da parte delle Idf (Israeli Defence Forces). Il 5 novembre un missile israeliano ha colpito un’auto ad Ainata uccidendo una donna e le tre sue nipoti di 10, 12 e 14 anni. La figlia della donna e madre delle bambine al volante della vettura è sopravvissuta, ma è in stato di forte choc. I civili uccisi dall’inizio degli scontri al confine sono 14 in Libano e 2 in Israele. Il 13 ottobre Issam Abdallah di Reuters è stato ucciso dal missile israeliano che ha colpito l’auto sulla quale si trovava con altri colleghi di Al-Jazeera e Afp (Agence France-Presse) rimasti feriti e su cui era evidente la scritta press, come pure sui giubbotti e sugli elmetti che i giornalisti indossavano. Oggi è previsto il secondo discorso del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah. Il primo era stato il 3 novembre, dopo un lunghissimo e inquietante silenzio durato per tutto il conflitto. Un discorso dalla solita forte retorica antiamericana e antisionista, dal quale era però emersa una volontà di non alzare il livello degli scontri, a patto che Israele facesse lo stesso. Più di trenta dei 128 deputati libanesi avversari del Partito di Dio hanno lanciato ieri, alla vigilia del summit dei paesi arabi e musulmani di oggi a Riyadh, assieme alla condanna di Israele un appello ai leader presenti affinché “aiutino il Libano a contrastare i tentativi di coinvolgerlo in una guerra totale (…) e si impegnino in tutte le arene internazionali, soprattutto Onu e Consiglio di sicurezza, per l’applicazione definitiva della risoluzione 1701” dell’11 agosto 2006 che sancisce la fine delle ostilità tra Hezbollah e Israele. La guerra al confine intanto continua e almeno per il momento non dà segni di tregua. Iran. Sola e senza medicine, ma il regime non rilascia Nasrin Sotoudeh di Simona Musco Il Dubbio, 11 novembre 2023 Libera la metà delle donne arrestate al funerale di Armita Garavand assieme all’avvocata per i diritti umani, alla quale non viene concesso il pagamento della cauzione. Continuano gli abusi del regime iraniano su Nasrin Sotoudeh, l’avvocata per i diritti umani in prigione dal 29 ottobre per aver partecipato, senza velo, al funerale di Armita Garavand, la 16enne pestata a morte dalla polizia morale. Sotoudeh era stata arrestata assieme ad altre donne e altri uomini presenti al funerale, ma mentre più della metà delle donne arrestate sono state rilasciate su cauzione - pari a 500 milioni di toman, circa 11mila euro - le autorità si rifiutano di concedere la liberazione all’avvocata, che da sempre rappresenta una spina nel fianco della Repubblica islamica. I suoi familiari, come spiega al Dubbio il marito Reza Khandan, non hanno ancora avuto la possibilità di incontrarla. Sotoudeh si trova attualmente nella sezione di quarantena della prigione femminile di Qarchak, un ex allevamento di bestiame che per diverso tempo è stato utilizzato come ricovero per tossicodipendenti, prima di essere convertito in carcere. Un luogo, ha raccontato in più occasioni Khandan, in cui l’aria risulta perennemente impregnata dall’intenso odore di fogna, non essendo dotato di un vero e proprio sistema di scarico. Un posto popolato da insetti e con un sovraffollamento così grave che ogni cella di dieci metri quadrati contiene dodici letti, con quattro file di letti a castello. Nessuna delle stanze ha finestre o sistemi di filtrazione dell’aria e l’acqua è così salata da provocare, col tempo, danni irreversibili ai reni e ad altri organi. Il cibo è immangiabile, come in tutte le prigioni iraniane. Ma quella di Qarchak risulta essere un vero e proprio di tortura, non solo fisica, ma anche psicologica, cercando di punire le donne in ogni modo possibile: le sale per le visite, infatti, sono costruite in modo tale che i bambini troppo piccoli non possano raggiungere il vetro per vedere i volti delle loro madri. Un abuso ulteriore in un luogo che sembra un inferno. “Le condizioni di detenzione di mia moglie sono pessime - spiega ancora Khandan -. Soffre spesso di dispnea e non prende le medicine”, nonostante i problemi di salute, sia cardiaci sia polmonari. E sono poco rassicuranti le notizie che arrivano dal Tribunale che dovrà “giudicarla”: pochi giorni fa, in una sezione del Tribunale rivoluzionario dove dovrebbe essere processata anche Sotoudeh, un uomo di 61 anni ha avuto un attacco di cuore ed è morto nel bel mezzo dell’udienza a causa dell’intenso stress psicologico e all’ansia vissuti in aula, secondo quanto riferito dal suo avvocato, Sora Askari-Rad. Si tratta di Saeed Khademi, le cui attività di istruttore di meditazione e yoga erano state interpretate come anti-islamiche dalle autorità. Khademi rischiava la pena di morte, ai sensi del Codice penale islamico dell’Iran. Da qui il suo stato psicologico, amplificato dal timore che incute la Corte Rivoluzionaria, nota per i suoi duri procedimenti contro dissidenti e attivisti e descritta da Askari-Rad come un luogo “terrificante”, ha dichiarato a Radio free Europe. Sarà questo tribunale a dover stabilire, ora, se le accuse contro Sotoudeh reggono o meno. L’avvocata è accusata di riunione e collusione con l’intento di disturbare la sicurezza del Paese, propaganda contro il regime, disturbo dell’ordine pubblico e ribellione. Inoltre, è stato aperto un altro fascicolo, ma non è ancora dato conoscere le accuse mosse in questa seconda indagine. Si ipotizza che ciò potrebbe riguardare il suo rifiuto di indossare l’hijab obbligatorio durante il funerale di Armita Garavand. In carcere, Sotoudeh è stata anche colpita con un taser e ha avuto un infarto. Diverse donne, stando al racconto di Khandan, avrebbero subito maltrattamenti al loro ingresso in prigione. “Una delle donne arrestate al funerale di Armita ha avuto un infarto e le sue condizioni sono molto gravi - ha spiegato nei giorni scorsi in un post su Facebook. La prigione di Qarchak non aveva sedie a rotelle e barelle. È stata in ospedale fino al mattino”. Un’altra donna, colpita da un attacco di cuore della stessa gravità, non è stata invece portata in ospedale. “Anche Nasrin e altre due donne arrestate durante il funerale di Armita hanno subito attacchi di cuore negli ultimi giorni. A causa dell’eccessiva pressione esercitata su queste prigioniere il primo giorno e la prima notte della loro detenzione nella sede della polizia morale, non si trovano in condizioni normali. Durante la detenzione di Nasrin, oltre alle solite percosse, l’hanno colpita con il taser”. Intanto continuano gli appelli da tutto il mondo per la liberazione di Sotoudeh. A partire da quello lanciato dal Cnf, che assieme a oltre trenta organizzazioni internazionali ha chiesto la sua scarcerazione e la decadenza di tutte le accuse. “Le autorità iraniane - si legge nell’appello - devono smettere di perseguitarla per i suoi sforzi volti a proteggere, tra l’altro, le donne dalle discriminazioni e dalle umiliazioni a cui sono sottoposte, in violazione del principio di civiltà sancito dall’articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ratificata dall’Iran nel 1948, secondo il quale “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”, dove la dignità viene ancora prima dei diritti”. L’appello è anche affinché la comunità internazionale e le istituzioni europee, che intrattengono un dialogo con l’Iran, condannino “tutte le forme di violenza, comprese le esecuzioni, le discriminazioni e le persecuzioni, riconoscendo le libertà di pensiero, di coscienza, di religione, di espressione, di riunione e di associazione, nonché il diritto a un processo equo, come fondamenti del vivere civile”. Australia. Storica sentenza contro la detenzione a tempo indeterminato degli immigrati per scoraggiare i richiedenti asilo di Annabel Hennessy* La Repubblica, 11 novembre 2023 Attualmente ci sono 124 persone detenute da più di cinque anni. Dal 1992 le autorità di Camberra adottano una politica di detenzione obbligatoria dei migranti. In una decisione storica di due giorni fa - si legge in un articolo, rilanciato da Human Rights Watch firmato da Annabel Hennessy, giornalista investigativa per The West Australian e The Sunday Times - l’Alta Corte australiana ha stabilito che la detenzione a tempo indeterminato degli immigrati è illegale. La decisione ribalta una sentenza del 2004 che stabiliva che i non cittadini senza visto potevano essere detenuti a tempo indeterminato, a condizione che il governo intendesse rimuoverli non appena “ragionevolmente possibile”. Il caso dei rifugiati Rohingya. Il caso attuale è incentrato su un rifugiato Rohingya apolide che affronta la prospettiva di una vita in detenzione. L’uomo è nato in Myanmar ed è arrivato in Australia in barca da adolescente nel 2012. Gli era stato concesso un visto temporaneo, ma è stato annullato nel 2015 quando è stato condannato per un reato penale e imprigionato. Al termine della sua condanna nel 2018, il governo lo ha trasferito in un centro di detenzione per immigrati. Il governo australiano aveva respinto la sua domanda di visto sulla base del fatto che aveva commesso un “grave crimine ed era un pericolo per la comunità”. In quanto di etnia Rohingya, gli viene effettivamente negata la cittadinanza in base alla legge sulla cittadinanza del Myanmar del 1982. Anche altri sei paesi a cui il governo australiano aveva chiesto di reinsediarlo lo hanno respinto. Il senso della sentenza. Nella sentenza dell’8 novembre, l’Alta Corte ha stabilito che, poiché non vi è alcuna reale prospettiva che l’uomo possa essere rimosso dall’Australia in un “futuro ragionevolmente prevedibile”, la sua detenzione continua è illegale e deve essere rilasciato immediatamente. La sentenza potrebbe innescare ulteriori rilasci di detenzione per immigrati. Secondo quanto riferito, ci sono 92 persone in posizioni simili a cui è stato in gran parte rifiutato il visto per motivi caratteriali. La maggior parte di loro non poteva essere deportata nei propri paesi d’origine perché temeva di essere perseguitata. Una detenzione media di 708 giorni. Il governo australiano ha messo centinaia di non cittadini in detenzione per immigrati per anni. Il detenuto medio è detenuto per 708 giorni e attualmente ci sono 124 persone detenute da più di cinque anni. I governi australiani che si sono succeduti hanno usato la detenzione dei richiedenti asilo come forma di deterrenza. Dal 1992, l’Australia ha una politica di detenzione obbligatoria di tutti i richiedenti asilo che arrivano via mare. Nel 2013, il governo ha ulteriormente affinato questa politica imponendo l’invio di coloro che arrivano via mare in detenzione offshore o il ritorno delle barche nel paese da cui sono partiti. Cosa dice il diritto internazionale. Secondo il diritto internazionale dei diritti umani, la detenzione degli immigrati dovrebbe essere una misura eccezionale di ultima istanza, non una punizione. La sentenza dell’Alta Corte offre una speranza concreta a coloro che languono in un limbo da anni nei centri di detenzione per immigrati australiani. *Reporter investigativa per The West Australian e The Sunday Times