Il numero dei carcerati cresce a ritmi record, +728 solo nell’ultimo mese di Manuela D’Alessandro agi.it, 10 novembre 2023 L’aumento è di oltre tremila reclusi negli ultimi sei mesi. “Una crescita imponente avvenuta in modo molto rapido” spiega Valeria Verdolini dell’associazione Antigone. Negli ultimi sei mesi la popolazione carceraria è aumentata di 3041 unità, solo nell’ultimo mese di 728 considerando che a fine settembre si contavano 58987 reclusi e a fine ottobre 59715. Spingendosi più indietro, si osserva che dal 2020 a oggi dietro le sbarre ci sono circa 6mila uomini e donne in più tenendo presente che durante la stagione Covid si è incentivato lo svuotamento per l’emergenza sanitaria. “È una crescita imponente avvenuta in un tempo molto rapido in un momento in cui peraltro la riforma Cartabia dovrebbe aumentare le misure alternative - commenta Valeria Verdolini dell’associazione Antigone -. È vero che è un dato che va a flussi ma la situazione in questo momento è grave se consideriamo anche che il sovraffollamento in inverno crea più problemi, per esempio a causa della mancanza di acqua calda. Le sofferenze per i detenuti non possono che inasprirsi con questi numeri intollerabili”. Sono cifre che rendono necessario spesso il ‘terzo letto’, un indicatore lampante delle difficoltà di gestione. “Significa che in celle di nove metri con un letto a castello si aggiunge una branda pieghevole destinata a una terza persona estratta a sorte”. Lombardia e Puglia sono le regioni con le celle più colme. Il sovrafffollamento è del 116,5% in Italia. Sui 59715 attuali, i detenuti stranieri sono 18803. Quali le ragioni? Secondo Verdolini, “può avere un’influenza anche il cambio di governo con un esecutivo che incentiva il carcere”. L’istituto col record di celle zeppe è quello di Lodi (45 posti per 93 detenuti, tasso del 207%). Seguono Brescia, Busto Arsizio, Monza e Bergamo e anche a San Vittore, a Milano, è stata superata la quota d’allarme di mille (ora sono 1074). La Lombardia col 141% è la regione con la situazione più critica. “L’aumento dei detenuti sta diventando esponenziale - afferma Valentina Alberta, presidente della Camera Penale di Milano -. A questo ritmo presto supereremo la soglia di 60mila. Gli effetti del sovraffollamento crescente sono amplificati dalla progressiva riduzione dell’orario di apertura delle celle per via di una recente circolare la cui applicazione è molto discutibile. Significativo è che in un anno l’aumento dei condannati definitivi segna un +4mila, quasi tutti con pene brevi, se non brevissime”. In 10mila hanno pene inflitte fino a 3 anni che, dice Alberta, “non ha senso che entrino in carcere. Presto la Corte Europea potrebbe tornare a occuparsi dell’Italia e occorre sforzarsi sulle misure alternative per le pene brevi che funzionano molto meglio per evitare le recidive altrimenti si deve inevitabilmente ipotizzare un provvedimento di clemenza”. Don Grimaldi: “Impegniamoci per rendere le carceri luoghi di speranza, rinascita e riscatto” di Gigliola Alfaro agensir.it, 10 novembre 2023 Ormai siamo in autunno inoltrato, ma, anche se è passato il periodo estivo, considerato da sempre come uno dei momenti più difficili per i detenuti, restano i problemi “ormai incancreniti” che affliggono i nostri penitenziari. Ne parliamo con l’ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane. Carceri sovraffollate, episodi di violenza, mancanza di futuro e suicidi, malattie psichiatriche, accuse di tortura. Il mondo carcerario soffre ormai da anni di tutti questi problemi. C’è chi si spende tantissimo per rendere più dignitosa la vita dei ristretti come i cappellani ed è proprio con l’ispettore generale, don Raffaele Grimaldi, che facciamo il punto della situazione, non dimenticando quanto alla Papa e alla Chiesa italiana sia a cuore questo mondo. Come va negli istituti, don Raffaele? In carcere le emergenze non cambiano tanto dall’estate all’autunno e all’inverno, anche se d’estate si aggiungono il caldo e lo stop di molte attività. I problemi che abbiamo nei nostri istituti sono un po’ incancreniti: sovraffollamento, mancanza di risorse e di personale, spazi inadeguati per la riabilitazione “seria” dei ristretti, soprattutto il problema dell’emergenza psichiatrica nei nostri istituti. Sappiamo bene che attraverso la chiusura degli Opg (ospedali psichiatrici giudiziari) molti detenuti sono rientrati nelle carceri perché le Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) erano poche. Molti istituti vivono questo grande disagio perché il peso della gestione di persone con queste problematiche viene affidata alle strutture penitenziarie che sono anche impreparate a gestire detenuti psichiatrici. Spesso quando leggiamo di aggressioni in carcere avvengono tra personale e questo tipo di detenuti. È vero che il Governo ha stabilito che i detenuti violenti vengano spostati in altri istituti o in altre regioni, ma se i problemi nascono da persone con problemi psichiatrici lo spostamento non risolve il problema. Lo spostamento ha un maggior impatto su chi compie un atto violento ma non ha problemi psichiatrici, chiaramente. Al di là dei reati che hanno commesso i detenuti, dobbiamo ricordare sempre che sono persone da rispettare nella loro dignità. Ogni tanto emergono anche notizie di agenti di Polizia penitenziaria indagati per presunte torture… Sì, può succedere, però, voglio spendere una parola di vicinanza agli agenti della Polizia penitenziaria, che si devono barcamenare negli istituti tra tante problematiche, ci sono turnazioni che non aiutano le persone a svolgere con serenità il proprio lavoro, quando, poi, qualche collega viene meno a causa di qualche giorno di malattia ricade sugli altri la responsabilità e il lavoro aumenta. Allo stress del lavoro si aggiunge il fatto che nei nostri istituti l’utenza è molto cambiata tra senza fissa dimora, malati psichiatrici, immigrati, persone che non conoscono l’italiano e non comprendono le regole. Tutto questo influisce sullo scatenarsi di violenze. I problemi ci sono e non bisogna trascurarli, se si trascurano, s’incancreniscono e diventano situazioni difficili da risolvere. Dopo il suicidio di un ventottenne nella casa circondariale di Caltanissetta, che sarebbe uscito solo tra sei mesi, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (Gnpl) ha ricordato che sono 54 le persone detenute che si sono tolte la vita dall’inizio del 2023, con una una media di un suicidio quasi ogni 5 giorni… Quando parliamo di suicidi in carcere, c’è il rischio di abituarci a queste notizie. È giusto, perciò, il richiamo del Garante. Le persone, che compiono questo gesto estremo con cui mettono fine tragicamente alla loro vita, sono molto fragili, non dovrebbero stare in carcere, avrebbero bisogno di un altro tipo di strutture, dove potrebbero essere seguite in modo diverso, con professionalità specifiche. Oggi si parla tanto di guerra, dall’invasione russa dell’Ucraina al conflitto tra lo Stato di Israele e Hamas, di morti innocenti, di violenze. E, purtroppo, nei nostri istituti penitenziari, tante volte nel cuore di questi detenuti che decidono di suicidarsi c’è un combattimento interiore. Questi drammi, proprio come nel caso di Caltanissetta, spesso si consumano alla vigilia o a pochi mesi dall’uscita dal carcere. Stranieri, senza fissa dimora, detenuti abbandonati dai familiari possono avere paura di uscire dal carcere perché sono senza prospettive e senza punti di riferimento, per non affrontare nuovi rifiuti e nuove difficoltà. Gli operatori che lavorano in carcere fanno il loro dovere, quello che è possibile, ma non è facile rapportarsi a detenuti che vivono situazioni di fragilità. Non dimentichiamo, poi, la scarsità di personale, soprattutto specializzato. Da parte della società civile si sta facendo qualche passo avanti nell’apertura verso questo mondo? Se non c’è un cambiamento a livello culturale, se non c’è un’attenzione a questa umanità fragile, non cambierà mai niente. Il carcere è il luogo dove viene repressa la libertà e, allo stesso tempo, un luogo che serve per garantire la sicurezza fuori. Se la società non ha una cultura dell’accoglienza e un’attenzione alle fasce deboli, se non è capace della cultura del perdono, è più facile che prevalgano sentimenti di condanna e di emarginazione. Il carcere da molti è visto come il luogo della repressione, ma come ci dice Papa Francesco non possiamo negare all’altro il diritto di rialzarsi. La società deve investire anche in fiducia. Non possiamo stare sempre a puntare il dito. Una persona che non si sente amata e accolta rischia di più di commettere altri reati, una volta fuori. Ottobre è stato il mese della giustizia riparativa… Sì, per tutto il mese ogni Istituto penale minorile ha organizzato una sua giornata dedicata alla giustizia riparativa, con incontri in presenza o anche on line, ai quali si sono potuti collegare anche esperti e scuole. La Chiesa come traduce concretamente l’attenzione costante di Papa Francesco verso il mondo carcerario? I cappellani, gli operatori pastorali, le consacrate, i diaconi, i volontari costituiscono un esercito di persone che entrano nel carcere come battezzati a nome dei vescovi e della Chiesa, ma sono molto presenti anche fuori investendo nell’accoglienza e in luoghi di recupero degli ex detenuti. La Chiesa quindi vive un’attenzione particolare verso queste fasce così emarginate di popolazione. Certo, non ci possiamo sostituire allo Stato, anche se possiamo affrontare le emergenze e dare vicinanza. Vuole lanciare un appello? Impegniamoci tutti attivamente affinché le nostre carceri diventino dei luoghi di speranza, di rinascita e di riscatto. Il decreto “Caivano” è legge: giro di vite contro la criminalità minorile e il piccolo spaccio di Dario Ferrara Italia Oggi, 10 novembre 2023 Per il fatto di droga di lieve entità la pena massima aumenta da quattro a cinque anni, il che consente di disporre la custodia cautelare in carcere, e scatta la confisca allargata; triplicata la pena minima, da sei a diciotto mesi, per chi traffica o detiene stupefacenti. Scatta il giro di vite contro il piccolo spaccio con la conversione in legge del decreto legge 123/2023 “Caivano” approvato ieri in via definitiva alla Camera con 155 sì, dopo che il Governo aveva incassato la fiducia. Per il fatto di droga di lieve entità la pena massima aumenta da quattro a cinque anni, il che consente di disporre la custodia cautelare in carcere, e scatta la confisca allargata; triplicata la pena minima, da sei a diciotto mesi, per chi traffica o detiene stupefacenti “quando la condotta assume caratteri di non occasionalità”. La stretta, che colpisce anche il porto abusivo di armi, è stata introdotta al Senato nel decreto adottato dal governo contro il degrado giovanile all’indomani dello stupro di gruppo di due ragazzine di dieci e dodici anni avvenuto al Parco Verde nel comune dell’hinterland napoletano: più facile per i minori finire in carcere; divieto d’accesso in ogni luogo di spaccio e Daspo; stop all’uso di cellulari o pc; pene più severe per i genitori che non mandano i figli a scuola. Addio Gomorra. Introdotto il reato di “stesa” (“Pubblica intimidazione con uso di armi”), il raid in moto con spari in aria all’impazzata in stile Gomorra: reclusione da tre a otto anni per i colpi o gli ordigni esplosi per seminare il terrore, “se il fatto non costituisce più grave reato”. Arresto da uno a tre anni, invece che da sei mesi a due anni, per il porto abusivo di armi. E nelle riunioni pubbliche l’arresto per il porto sale da due a quattro anni invece che da uno a tre. La confisca allargata scatta su beni, denaro e altre utilità di cui il piccolo spacciatore non può giustificare la provenienza. Ragazzi daspati. Non serve la convalida del giudice per l’ipotesi aggravata di Daspo urbano, che si applica anche ai ragazzi sopra i quattordici anni. La misura di prevenzione a carico di un minore va notificata ai genitori e comunicata al pm presso il tribunale per i minorenni. Divieto d’accesso esteso a tutti i luoghi di spaccio: scuole, università, locali e pubblici esercizi. Inasprite le pene per l’inosservanza delle misure disposte dal questore: reclusione uno a tre anni, invece che da sei mesi a due anni, e multa da 10 mila a 24 mila euro, non più da 8 mila a 20 mila. Nessuna probation. Tolleranza zero sui reati dei minori. Scende da cinque a quattro anni il limite edittale per adottare misure cautelari diverse dalla custodia come coprifuoco e comunità. Si riduce da nove a sei anni la soglia che consente la misura detentiva e si allunga la lista dei reati per cui è possibile la custodia cautelare: furto in abitazione, violenza o resistenza a pubblico ufficiale, detenzione o spaccio di droga. Niente sospensione del processo con messa alla prova per reati come omicidio aggravato, violenza sessuale e di gruppo contro minori o con l’uso di droghe, rapina aggravata ad esempio contro anziani. E se le esigenze cautelari si aggravano il giudice sostituisce col carcere il collocamento in comunità. Esteso l’accompagnamento in flagranza. I detenuti che hanno compiuto ventuno o diciotto anni e hanno atteggiamenti violenti possono essere trasferiti in carceri per adulti. Stop uso cellulare e pc ai giovani responsabili di violenze tra i quattordici e i diciotto anni e, in caso di condotte più gravi, anche per quelli tra i dodici e i quattordici; anche per questi ultimi scatta l’ammonimento per condotte più gravi con sanzione pecuniaria ai genitori. Assenze sanzionate. Rischiano anche la reclusione fino a un anno i genitori per le assenze ingiustificate da scuola del minore. La mancata regolare frequenza a scuola del figlio preclude alla famiglia l’accesso all’assegno di inclusione. Il provvedimento contiene misure contro il degrado a Caivano. No al carcere, occorre liberare i minori e renderli adulti responsabili di Samuele Ciambriello Il Riformista, 10 novembre 2023 Ho sempre pensato che una società che giudica un minore e dopo averlo giudicato lo mette in carcere, è una società malata che giudica se stessa e la propria malattia. Con questo spirito nel marzo 1989 ho fondato l’associazione la Mansarda che si è occupata in questi anni di minori a rischio, delle misure alternative, al carcere per i minori e quindi la gestione di due comunità di accoglienza per questi adolescenti a metà, con la morte nel cuore. Mi dispiace che si fa confusione legislativa e anche giuridica oltre che sociale tra disagio minorile, devianza e microcriminalità. I minori che entrano nel circuito della giustizia civile e penale hanno affrontato varie difficoltà: economiche, familiari, educative, scolastiche e relazionali, la figura del minore a rischio è nettamente delineata, la scuola o meglio l’evasione scolastica è il primo campanello d’allarme dove viene costatato tale disagio e invece di pensare al recupero educativo, all’inclusione sociale, alla tutela dei diritti di chi è partito svantaggiato, si pensa a come aumentare le pene e si mettono in campo giro di vite contro il piccolo spaccio di questi adolescenti e il consumo di droghe leggere. È un errore attribuire alla giustizia penale il compito di risolvere questo disagio o questa devianza con il carcere! Lo stop all’uso dei cellulari, il daspo insomma pene più severe per i genitori che non mandano i figli a scuola, siamo passati dall’attuale multa di 30 euro all’anno per i genitori (quando ci sono), che non mandano i figli a scuola, ai due anni di carcere! È una repressione a dir poco folle e dannosa tra l’altro per queste persone ai margini che spesso hanno difficolta ad avere chi li può aiutare a superare una vita da sballo. In Italia già per gli adulti il 32% delle persone è in carcere per aver violato la legge sulle droghe mentre la media europea è del 18%, abbiamo già pene purtroppo significativamente troppo alte, pene produttrici di un carcere che è diventato una discarica sociale. Occorre colpire i rappresentanti della criminalità organizzata, le mafie, occorre depenalizzare il reato del possesso delle droghe leggere e quindi rafforzare l’attenuante della lieve entità. Questo decreto minori, perché chiamarlo Caivano in senso razzista e dispregiativo ha avuto almeno il merito di accendere i riflettori sulle periferie italiane, sul disagio giovanile. Purtroppo in Italia il populismo penale non è ancora finito e coinvolge anche il settore della giustizia minorile. Si coniuga anche con il populismo politico che raramente ha il dilemma tra approccio securitario e garantismo, ma questo riguarda anche il sistema dell’informazione che accende i riflettori su Napoli, Caivano, dimenticando che le città più calde per la presenza di baby gang sono Torino, Milano e Genova dove ci sono fenomeni sempre più preoccupanti di risse, giovani che si organizzano in baby gang in incontri a suon di botte. Questo non lo dico io ma l’allarme non ascoltato e quindi non pubblicato sui giornali o in tv, è arrivato dalla Direzione di analisi criminale interforze del Ministero dell’Interno. La risposta al disagio giovanile è solo più carcere di Franco Corleone L’Espresso, 10 novembre 2023 Il governo dei buoni a nulla e capaci di tutto, col decreto legge 123 del 15 settembre, denominato “decreto Caivano”, ha confermato la sua vocazione di rozza approssimazione. L’occasione di propaganda è stata offerta dalla tragica violenza contro due ragazzine in un paese disastrato e il decreto ha l’obiettivo ambizioso di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa, alla criminalità minorile. Nel provvedimento, è presente una norma assolutamente estranea: la modifica del comma 5 dell’articolo 73 della legge antidroga, ossia l’aggravamento per i reati di droga “di lieve entità”. È un vizio antico quello di intervenire con norme punitive sul consumo di droghe in decreti utilizzati come taxi. Così era stato per la legge Fini-Giovanardi inserita illegalmente nel decreto delle Olimpiadi invernali di Torino nel 2006. Si dovette aspettare la Corte costituzionale che nel 2014 cancellò quella legge manifesto del proibizionismo più sfrenato. La previsione di pene più leggere per i reati di droga meno gravi ha una lunga storia. Nasce con la legge Iervolino-Vassalli del 1990 che segna il giro di vite punitivo voluto da Bettino Craxi. Di fronte alla previsione di sanzioni penali per il consumo personale, fu segno di buon senso (e frutto della battaglia delle opposizioni) alleggerire parzialmente la pressione introducendo una attenuante “per fatti di lieve entità” (con la detenzione da uno a sei anni per le droghe pesanti, da sei mesi a quattro anni per le droghe leggere). Il senso della norma più lieve risulta chiaro guardando alla estrema severità delle pene base: reclusione da otto a venti anni per le droghe pesanti, da due a sei anni per le droghe leggere. La legge Fini-Giovanardi eliminò la distinzione tra droghe leggere e pesanti, perciò anche la “lieve entità” per la cannabis fu aggravata, allineandola alle droghe pesanti. Nel 2013 anche in seguito alla battaglia di associazioni antiproibizioniste, la lieve entità da semplice attenuante divenne fattispecie autonoma. Infine, nel 2014 (d.l. 36 convertito in legge n. 79) questa fu riconfermata con una diminuzione della pena da sei mesi a quattro anni (senza distinzione tra le sostanze). Inopinatamente, nel famigerato “decreto Caivano” la pena massima veniva innalzata a cinque anni e un senatore di Fratelli d’Italia proponeva l’abolizione della lieve entità se il fatto era commesso “a scopo di lucro” (sic!). L’abnormità era tale che il governo ha riformulato l’emendamento con una pena più grave (da 18 mesi a 5 anni), quando la condotta assuma “caratteri di non occasionalità”. Questa norma viola il principio di ragionevolezza in quanto la pena si avvicina per la cannabis alla pena base e non tiene conto della linea della giurisprudenza e della sentenza della sezione sesta della Cassazione (n. 41090 del 2013) che interpreta il carattere non episodico del piccolo spaccio secondo il principio di proporzionalità della pena. Il risultato sarà quello di dilatare la carcerazione e rendere più ardue le alternative. C’è del metodo nella follia del governo e della maggioranza che ignora lo studio della Cassazione pubblicato nel Libro Bianco sulle droghe della Società della Ragione. Che fare? Ottenere finalmente la piattaforma per la firma digitale dei referendum e rilanciare la sfida nel Paese contro il proibizionismo. Nordio: “Riforma della giustizia? Non deluderemo gli elettori” di Josephine Carinci ilsussidiario.net, 10 novembre 2023 Il ministro Nordio affronta il tema della riforma della giustizia parlando di tempistiche lunghe. Ospite della trasmissione Radio “Ping Pong”, il ministro Carlo Nordio affronta vari temi: da Israele fino alla riforma della giustizia. Partendo dalla guerra in Medioriente, il politico afferma: “Israele ha non solo il diritto di esistere, cosa quasi banale da affermare, ma il diritto di difendersi. E quando l’aggressione viene portata avanti in un modo così anomalo come quello terroristico, dove poi i terroristi si rifugiano in uno stato limitrofo peraltro in territorio limitrofo, è chiaro che il diritto di autodifesa comprende il diritto di inseguimento e quindi il diritto di andare a scovare questi terroristi dove stanno per evitare che si verifichino casi analoghi. Non c’è dubbio che noi dobbiamo essere molto fermi nel distinguere tra l’aggressore e l’aggredito e nell’evitare qualsiasi forma non solo di sostegno o di simpatia ma anche di equidistanza nei confronti tra l’aggressore e l’aggredito tra Israele e Hamas”. Riguardo il protocollo firmato tra Italia e Albania per l’accoglienza dei migranti in due centri in Albania sotto giurisdizione italiana, Nordio spiega: “Queste persone non vengono sottratte alla giurisdizione italiana, viene preliminarmente emessa un’ordinanza di un magistrato, si tratta soltanto di una collocazione territoriale che è resa necessaria da questa massa improvvisa, massiccia e probabilmente anche duratura, forse anche in aumento, di persone che premono ai confini del Mediterraneo. Se noi teniamo presente che secondo le informazioni vi sono più di un milione, forse due, forse tre persone che ambiscono ad attraversare il mare per arrivare nelle nostre coste, qualcuno dovrà pur dire dove li dobbiamo mettere, al di là delle anime belle che predicano un’accoglienza indiscriminata. Una delle soluzioni dovrebbe essere quella della distribuzione territoriale nell’ambito dell’Unione Europea”. Un pacchetto di riforme penali è già pronto e sarà portato nei prossimi Consigli dei ministri. Quello di cui però non si parla, secondo Nordio, “è il grande lavoro che stiamo facendo sulla giustizia civile. Vorrei ricordare che quest’anno c’è stata per la prima volta nella storia una riduzione dell’arretrato del contenzioso civile abbastanza consistente, anzi direi molto consistente, e le cose stanno andando avanti bene”. Per il ministro, i rallentamenti non sono dovuti alla mancanza di coesione tra le forze della maggioranza: “Da un lato il Parlamento è intasato di provvedimenti e dall’altro ci sono, mi lasci dire, anche delle procedure estremamente bizantine ed estremamente vetuste per quanto riguarda l’approvazione di un disegno di legge. Procedimenti in commissione che prevedono delle audizioni, che prevedono delle cose che per chi come me, per digiuno di politica, sembrano quasi metafisiche. Una volta che il governo ha approvato un disegno di legge, sarebbe bene che la commissione, con una rapida, dialettica, anche accesa discussione, però decidesse presto”. Infine, un commento sui temi come la separazione delle carriere: “Le attese dell’elettorato di centrodestra non verranno deluse. Si tratta di riforme estremamente complesse che non possono essere risolte in poco tempo”. Parlando invece delle nuove carceri, il ministro della Giustizia spiega: “Stiamo facendo di tutto per riadattare gli stabilimenti che sono obsoleti. Per quanto poi riguarda le nuove, non mi sembra che sia un blocco, mi pare che sia un’iniziativa innovativa perché la costruzione di un carcere nuovo comporta tempi e costi che sono incompatibili con l’urgenza che di fronte alla quale ci troviamo, mentre le caserme dismesse offrono tutte le opportunità del controllo che ha un carcere, quindi le mura, le garitte ecc. e in poco tempo e con poche risorse potrebbero essere adattate a una situazione carceraria per detenuti di scarsa pericolosità”. Musolino: “Le riforme mirano a rompere gli equilibri istituzionali” di Mario Di Vito Il Manifesto, 10 novembre 2023 Il segretario di Magistratura Democratica: “Calamandrei diceva che la Costituzione è una polemica contro il presente: se si vogliono mettere in crisi i diritti, la giurisdizione ha il compito di difenderli”. Stefano Musolino, segretario di Magistratura Democratica, il vostro congresso arriva in un momento in cui si susseguono riforme della giustizia, tra prescrizione, intercettazioni e annunci di altre misure ancora… Viviamo una stagione in cui si insegue un’urgenza continua costruita da un circuito mediatico che lavora sulle emozioni della folla, e questo non può che generare una molteplicità di provvedimenti. Di fatto si continuano a riformare riforme precedenti, mentre il diritto avrebbe bisogno di periodi di sedimentazione per verificare il funzionamento delle decisioni prese. Purtroppo non c’è mai il tempo per farlo. Non sembra esserci alcuna logica a guidare il legislatore. Cosa ne pensa del cosiddetto premierato, cioè di quanto Giorgia Meloni ha definito “la madre di tutte le riforme”? C’è preoccupazione e non solo per gli aspetti istituzionali della cosa, ma soprattutto dalla prospettiva dei diritti. Ricordiamoci che questa riforma verrebbe accompagnata da quella dell’ordinamento giudiziario, con la separazione delle carriere, la questione dei laici al Csm, il sostanziale annullamento dell’obbligatorietà dell’azione penale… Significa che esiste una voglia di rompere gli equilibri istituzionali, una spinta verso un sistema con un decisore unico. Nella sua relazione congressuale lei fa una dura critica di quello che definisce “il magistrato burocrate”. Non teme però che questo possa dare luogo ad accuse di politicizzazione della magistratura? Bisogna premettere che un magistrato quando fa le sue scelte si ispira sempre ai valori della Costituzione e dei trattati internazionale. Il magistrato che non interpreta le norme in questo contesto, evidentemente, non fa bene il suo lavoro. Schiacciarsi sull’efficientismo è un errore grave: chi coltiva più la propria carriera che le persone che vogliono ottenere giustizia, coltiva in realtà un’idea contraria alla Costituzione. Voglio citare una frase famosa di Piero Calamandrei, che diceva che “la Costituzione è una polemica contro il presente”. Penso che un magistrato debba agire in quest’ottica. Quando arriva una maggioranza che vuole mettere in crisi i diritti fondamentali, la magistratura ha il preciso compito di difenderli comunque. Prima citava la separazione delle carriere. È un tema che appare molto caro alla destra che ci governa. In realtà tutta la riforma prospettata è un attacco all’autonomia e all’indipendenza della magistratura e questo va ben al di là della separazione delle carriere. Che comunque è sbagliata: quello che è successo a Milano è un sintomo evidente di quello che rischiamo (la vicenda della procura che aveva chiesto 153 misure cautelari per mafia, ma il gip ne ha concesse solo 11 negando l’esistenza di una maxi-cupola che coinvolgerebbe insieme camorra, ‘ndrangheta e cosa nostra, ndr). Il pm in alcuni casi non è indifferente al risultato della sua inchiesta e quindi risulta poco attento alla ricerca della verità, schiacciandosi su una prospettiva di polizia giudiziaria, cioè sulla repressione pura e semplice. Insomma, il pm non dovrebbe necessariamente mirare alle condanne, può accadere di indagare e di non chiederne. A proposito invece di correnti della magistratura: dopo la rottura dell’anno scorso, quali rapporti pensate di avere in futuro con Area democratica per la giustizia? Dipende da loro. La separazione da Area è avvenuta perché noi di Md volevamo recuperare un approccio più radicale. Diciamo che loro hanno una visione più maggioritaria e più inclusiva della nostra. È del tutto legittimo, ovvio, ma noi vogliamo avere una voce diversa. Area è un po’ di lotta e un po’ di governo: battibecca in continuazione con la destra, cioè con Magistratura indipendente, poi però ci governa insieme nell’Anm. Chiaramente il dialogo con loro è sempre possibile, ma devono riconoscere Md come soggetto che sta nell’associazionismo giudiziario e non come una concorrenza alla quale togliere spazi. Rappresentiamo sensibilità diverse, ma possiamo trovare sinergie nel riconoscimento delle nostre rispettive identità. E ora chiediamoci se per sequestrare quei messaggi in chat abbiamo sacrificato i diritti di Giorgio Spangher Il Dubbio, 10 novembre 2023 Si tratta di capire se documenti e dati informatici siano acquisibili senza l’avallo del giudice e con la sola richiesta del pubblico ministero. Finalmente si è aperto il dibattito su una questione molto importante sul piano delle garanzie: stiamo parlando dell’acquisizione di intercettazioni e messaggistica criptata, laddove il trojan non riesce ad arrivare. Il caso parte dalla Francia ma giunge in Italia, fino ad investire le Sezioni Unite della Cassazione. La questione dei criptofonini era già allo stato latente da tempo. In Italia, ma non solo nel nostro Paese, anche in Europa, nel mese di marzo 2021 le Autorità francesi, belghe e olandesi, nell’ambito di una “Joint Investigation Team”, sviluppano un’indagine internazionale su larga scala denominata “Argus”. Le piattaforme criptate d’interesse utilizzate dalla criminalità organizzata sono quella denominata “Sky Ecc” e ‘ Ssy Ecc’. Scaturiscono numerosi arresti e sequestri di droga, armi e denaro. Gli Uffici di Procura italiani entrano in possesso della messaggistica già decriptata attraverso l’emissione di molteplici O. I. E - Ordini d’Indagine Europei - mediante cui si chiede all’Autorità giudiziaria francese, per il tramite di Eurojust, di trasmettere i messaggi scambiati tra specifici codici identificativi. Come noto alcuni avvocati italiani si rivolgono ai Tribunali del Riesame che rigettano i loro ricorsi. Vanno dunque in Cassazione la quale inizialmente dà loro torto ma poi con due recenti sentenze della Sesta sezione penale (relatori Aprile e Calvanese) annulla con rinvio ai rispettivi Tribunali di Reggio Calabria e Milano per colmare le lacune motivazionali del provvedimento cautelare. Tuttavia a piazza Cavour non esiste una interpretazione unitaria della materia, e pochi giorni dopo quelle sentenze, la Terza Sezione Penale (relatore Noviello) si rivolge alla Sezioni Unite. Questo in sintesi lo scenario entro il quale ci muoviamo. Ma quali sono i profili di criticità che solleva la vicenda? Ci sono diversi piani. I francesi come hanno trovato la chiave di decriptazione? Sembra addirittura che su questo aspetto sia stato posto il segreto di Stato in Francia. Come e chi in Francia ha acquisito quel materiale, ossia ci chiediamo: i cugini d’oltralpe ci hanno trasmesso dei dati che hanno ottenuto in conformità alla propria legislazione interna. Ma quest’ultima ha lo stesso sistema di garanzia della nostra? Condividiamo gli stessi fondamentali principi di tutela dei diritti fondamentali della persona? Poi c’è il problema della corretta qualificazione giuridica del materiale probatorio acquisito tramite O. I. E (ordine europeo di indagine): si tratta davvero di documenti e dati informatici acquisibili senza l’avallo del giudice e con la sola richiesta del pubblico ministero? Come è noto ogni atto (dato statico, dato dinamico) è assicurato da una serie di garanzie che vanno rispettate per l’acquisizione e l’uso nel procedimento. Infatti dalla risposta a questa domanda deriva anche il regime di utilizzabilità del materiale acquisito (anche alla luce dei principi sanciti dalla Corte di Giustizia europea, come quello del 2021 riguardante l’Estonia che il nostro Paese ha recepito quando Ministro della Giustizia era Marta Cartabia). C’è poi il tema fondamentale relativo al rispetto del principio del contraddittorio nella fase di acquisizione della fonte di prova. Sullo sfondo la sentenza della Corte Costituzionale sul famoso caso Renzi/ Open che a giugno 2023 ha ribadito alla Procura di Firenze che “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”. Nel concetto di “corrispondenza” tutelato dall’articolo 15 della Costituzione rientrano i messaggini telefonici. Insomma, si tratta di questioni molto delicate, per le quali, a parere di chi scrive, non si è ancora giunti in profondità e occorrerà sviluppare una seria riflessione. Dobbiamo chiederci se per caso siano state sacrificate norme poste a presidio delle libertà fondamentali al solo scopo di combattere e contrastare determinati fenomeni criminali di portata transnazionale. In Cassazione stanno giungendo molti ricorsi in merito e sia all’avvocatura quanto alla magistratura occorre una risposta quanto prima e questo spingerà sicuramente le Sezioni Unite a prendere una decisione, perché come in questo caso stiamo parlando di numerose misure cautelari che potrebbero essere annullate. Sconto di pena ai recidivi che collaborano con la giustizia di Dario Ferrara Italia Oggi, 10 novembre 2023 È incostituzionale il divieto di prevalenza dell’attenuante per chi collabora con la giustizia. Così la Consulta. Sconto di pena dalla metà a due terzi per il narcotrafficante pentito nonostante la recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale. È incostituzionale il divieto di prevalenza dell’attenuante per chi collabora con la giustizia rispetto alla norma introdotta dalla legge 251/05. E ciò anche quando non si tratta di un piccolo pusher ma del membro di un’associazione criminale: “è di grande importanza” fin dagli anni 80 l’aiuto agli inquirenti che viene dall’interno dei clan, mentre risulta contraddittorio il divieto previsto dalla ex Cirielli per il potenziale collaboratore solo perché più volte condannato, circostanza piuttosto ricorrente nelle associazioni a delinquere. Così la Consulta, sentenza 201/2023, pubblicata ieri. Rischio disparità - Accolta la questione di legittimità sollevata dal gup di Napoli in un procedimento per lo spaccio di hashish dentro il carcere di Secondigliano. I capi dell’organizzazione sono camorristi ma hanno collaborato contribuendo a far luce sul “sistema” con la corruzione degli agenti penitenziari. Ora rischierebbero una sanzione pari ai coimputati che non si sono pentiti, giudicati in procedimento separato, ai quali pure sono state applicate le attenuanti generiche perché il traffico di droga leggera è in quantità modesta; una condanna severa, considerando che per i capi la pena minima è vent’anni, pur se diminuita di un terzo per la scelta del rito abbreviato. E uno dei “corrieri” rischierebbe una condanna superiore a quella dei non dissociati anche se ha contribuito a far scoprire i fatti di corruzione che consentivano ai detenuti di stare nelle stesse celle e usare i cellulari. Scelta politica - Le considerazioni espresse dalla Consulta nella sentenza 74/2016 sul singolo pusher valgono anche per l’associazione a delinquere finalizzata allo spaccio: l’incentivo alla collaborazione rappresentato dallo sconto di pena è una scelta di politica criminale e può ottenerlo chi si decide ad aiutare gli inquirenti anche per mero calcolo utilitaristico, senza resipiscenza; l’importante è che contribuisca ad assicurare elementi di prova del reato o a sottrarre ai clan le risorse per compiere altri delitti: la decisione costituisce comunque un distacco dell’autore del reato dall’ambiente criminale in cui operava, spesso lo costringe a cambiare vita e comunque espone lui e i familiari al rischio di ritorsioni. Equivalenza insufficiente - La gravità del reato associativo, poi, costituisce una ragione in più per assicurare a chi esce allo scoperto l’incentivo promesso in via generale dalla legge; che non può essere assicurato dalla mera equivalenza dell’attenuante alla recidiva reiterata: la pena sarebbe comunque di poco al di sotto di quella prevista per l’omicidio volontario, scoraggiando ogni collaborazione. Associazione a fini di spaccio, la collaborazione prevale sulla recidiva di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 10 novembre 2023 La Corte costituzionale, sentenza n. 201/2023, prosegue nell’attività demolitoria del divieto automatico di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata disposto dalla legge ex Cirielli. Nuova pronuncia di illegittimità della Consulta sul divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, previsione introdotta nel 2005 dalla cd. legge ex Cirielli (n. 25/2005). Questa volta la Corte costituzionale, sentenza n. 201/2023, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto co., del Cp, nella parte in cui, con riguardo ai reati di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante della collaborazione (art. 74, comma 7, Dpr 309/1990) sulla recidiva reiterata (art. 99, quarto co., cod. pen.). Il giudice rimettente doveva giudicare (con giudizio abbreviato) sulla responsabilità di un pugno di detenuti imputati del delitto di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, aggravato, per essersi associati (tra il 2014 e il 2019) in più di dieci, per l’acquisto, detenzione e spaccio all’interno del carcere di Secondigliano. Tutti gli imputati hanno numerosi precedenti penali. Tuttavia, sempre per il rimettente, devono essergli riconosciute sia le attenuanti generiche (droga leggera in quantità non ingente), sia l’attenuante speciale prevista dall’art. 74, comma 7, Tu stupefacenti, che prevede la diminuzione della pena dalla metà a due terzi “per chi si sia efficacemente adoperato per assicurare le prove del reato o per sottrarre all’associazione risorse decisive per la commissione dei delitti”. E nonostante tale ultima attenuante meriterebbe di essere considerata prevalente sulla recidiva, tale esito è precluso dall’art. 69, quarto comma, cod. pen. Con l’effetto, tra l’altro, di applicare agli imputati collaboranti pene nella sostanza corrispondenti a quelle dei coimputati non dissociatisi (ai quali sono state riconosciute le attenuanti generiche ex art. 62-bis cod. pen., con giudizio di equivalenza con la recidiva). La Consulta ricorda che l’art. 69, quarto comma, cod. pen è stato già oggetto di molteplici pronunce di illegittimità costituzionale parziale, che hanno colpito il divieto di prevalenza di altrettante circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen. (per una recente dettagliata rassegna, sentenza n. 94 del 2023, punto 10 del Considerato in diritto; nonché, in seguito, sentenze n. 141 e n. 188 del 2023). In particolare, la sentenza n. 74 del 2016 ha già dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 69, quarto comma, cod. pen. nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della parallela circostanza attenuante (art. 73, comma 7, Tu stupefacenti) che - rispetto al delitto di traffico di sostanze stupefacenti compiuto al di fuori di un contesto associativo - prevede la diminuzione della pena dalla metà a due terzi “per chi si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, anche aiutando concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti”. In quell’occasione si è osservato che l’attenuante “è espressione di una scelta di politica criminale di tipo premiale”, aggiungendo che il divieto assoluto “impedisce alla disposizione premiale di produrre pienamente i suoi effetti e così ne frustra in modo manifestamente irragionevole la ratio, perché fa venire meno quell’incentivo sul quale lo stesso legislatore aveva fatto affidamento per stimolare l’attività collaborativa”. “Tali considerazioni - prosegue la decisione - non possono non valere anche rispetto alla circostanza attenuante di cui all’art. 74, comma 7, t.u. stupefacenti, che parimenti prevede la diminuzione della pena dalla metà a due terzi “per chi si sia efficacemente adoperato per assicurare le prove del reato o per sottrarre all’associazione risorse decisive per la commissione dei delitti”. Sul punto il Collegio sottolinea come l’esperienza del contrasto alle differenti forme di criminalità organizzata nel nostro Paese “ha ampiamente mostrato, dagli anni Ottanta in poi che il contributo dei collaboratori di giustizia intranei ai sodalizi criminosi è di grande importanza ai fini della scoperta dell’organigramma dell’associazione e delle sue attività delittuose”. Il che è, in effetti, accaduto anche nel caso di specie. Appare dunque contraddittorio che, per effetto del generale divieto introdotto nell’art. 69 cod. pen. dalla legge “ex Cirielli”, questo sostanzioso incentivo alla collaborazione venga meno laddove il potenziale collaboratore sia - come spesso accade, trattandosi di associati a delinquere - già stato più volte condannato. Né potrebbe ritenersi che un incentivo alla collaborazione sia comunque rappresentato dal riconoscimento dell’attenuante come meramente equivalente rispetto alla recidiva reiterata. Infatti, ciò comporterebbe comunque l’applicazione delle pene molto elevate previste dall’art. 74 t.u. stupefacenti (vent’anni di reclusione nel minimo per i capi, appena al di sotto della pena minima prevista per l’omicidio volontario). Pene, conclude la Corte, che rischiano di “scoraggiare qualsiasi scelta collaborativa, e che il legislatore ha invece inteso diminuire - addirittura sino ai due terzi - per favorire simili scelte, ritenute essenziali a fini di indagini”. La Consulta ha così dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 74, comma 7, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen. Emilia Romagna. Nelle carceri è allarme sovraffollamento di Cristian Casali e Luca Molinari cronacabianca.eu, 10 novembre 2023 Il garante dei detenuti Roberto Cavalieri ha presentato in commissione Parità la relazione sull’attività 2022, esposta anche la programmazione per il prossimo anno. Sovraffollate, con problemi legati alla sanità, con popolazione a netta prevalenza maschile, seri problemi all’accesso alle pene alternative alla reclusione anche quando questo sarebbe possibile. È il quadro delle carceri emiliano-romagnole che emerge dalla relazione relativa all’attività svolta nel 2022 che il garante dei detenuti Roberto Cavalieri ha presentato oggi nel corso della commissione Parità presieduta da Federico Alessandro Amico. I numeri parlano chiaro: la presenza media dei detenuti è stata di 3.339 persone, di cui 144 donne e in media 1.610 stranieri (di cui il 60% provenienti dall’Africa), la maggior parte dei detenuti sono definitivi (74,43% in media sul totale della popolazione detenuta, 69,93% per gli stranieri): il tasso di sovraffollamento è stato in media del 111,10%, il valore massimo raggiunto è stato di 114,87% e mai si è sceso sotto la capienza regolamentare. I condannati non definitivi (appellanti, ricorrenti e con posizione mista) sono 11,43% e quelli in attesa di primo giudizio 12,57: la maggior parte dei detenuti sono definitivi (74,43% in media sul totale della popolazione detenuta, 69,93% per gli stranieri). Sotto l’aspetto della durata della pena i dati dimostrano che una quota importante dei detenuti, il 35%, presenta un residuo pena ridotto e tale da, in via ipotetica, permettere l’accesso a benefici o a misure alternative alla detenzione, mentre i detenuti con la pena all’ergastolo complessivamente arrivano a poco meno di 190 (di cui il 70% si trova a Parma, istituto che si caratterizza per la presenza di circuiti di alta sicurezza e 41bis). In questi ultimi mesi del 2023 e nel 2024 proseguiranno le viste nelle strutture carcerarie della regione, dopo Castelfranco Emilia (nel modenese) e Forlì previsti incontri a Ravenna, Modena, Reggio Emilia, Parma e Piacenza. Avviata poi la mappatura dei servizi del territorio offerti ai detenuti. Sul tema programmata anche una ricerca sui percorsi formativi per i carcerati, misurandone l’efficacia rispetto all’inserimento nel mondo del lavoro. Sull’argomento carcere e lavoro anche un convegno organizzato per il prossimo primo dicembre a Reggio Emilia. L’obiettivo è anche quello di fare rete tra i tanti attori coinvolti su questo tema. Anche per il mondo del volontariato un appuntamento previsto a giugno. A seguito di segnalazioni dalle carceri sono già stati aperti, quest’anno, più di quattrocento fascicoli. “Un impegno e una sfida, dal garante, per togliere dall’invisibilità l’ambiente carcerario”, interviene Roberta Mori (Pd). “L’obiettivo è quello di affrontare i problemi del carcere, il garante in questo tipo di strutture è un riferimento importante”, aggiunge. La consigliera rileva poi l’importanza di “accompagnare questi percorsi di riabilitazione con il sostegno della politica”. Per Francesca Maletti (Pd) “va affrontato il tema del sovraffollamento, drammatica anche la presenza consistente in carcere di detenuti sotto i 25 anni”. Poi, aggiunge, “l’aumento dei minori soli non accompagnati tra i detenuti dimostra come siano insufficienti le risorse messe in campo per evitare che questi ragazzi facciano scelte sbagliate”. Affronta anche il tema delle donne in carcere: “Solo il 4% tra i detenuti, ma subiscono strutture pensate per gli uomini, certi spazi andrebbero ripensati”. Chiude sulla questione suicidi: “Perché numeri così alti in Emilia-Romagna?”. Il presidente Amico riferisce della progettualità, sul tema, in programma per i prossimi mesi: “Diverse le questioni sul tavolo, con il coinvolgimento dell’Assemblea legislativa, a partire dall’offerta sanitaria nei diversi istituti penitenziari, l’Emilia-Romagna ha deciso di aumentare le risorse dedicate”. Marche. Il Garante Giancarlo Giulianelli: “Aumentare le telefonate dei detenuti” anconatoday.it, 10 novembre 2023 Giulianelli interviene su una delle problematiche emerse nei consueti colloqui effettuati durante le visite negli istituti penitenziari. Dopo le deroghe concesse durante la pandemia, infatti, si è tornati alle precedenti disposizioni. Il Garante Giancarlo Giulianelli interviene sul problema emerso nel corso dei consueti colloqui con i detenuti, a seguito delle visite effettuate negli ultimi giorni, e costituito dalle telefonate con i familiari. Durante il periodo della pandemia da Coronavirus, infatti, era stato previsto un aumento delle stesse telefonate e delle videochiamate, considerate le restrizioni per quanto riguarda le visite in presenza. Terminata l’emergenza sanitaria, in base alle direttive emesse dagli organismi competenti, si è ritornati al vecchio sistema con una diminuzione dei contatti telefonici e con possibili deroghe soltanto in casi specifici. “Ovviamente - sottolinea il Garante - questo stato di cose determina ulteriori disagi oltre a quelli già presenti negli istituti penitenziari: pertanto sarebbe il caso di un intervento a livello centrale per trovare una soluzione. Del resto anche il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, in diverse occasioni si è espresso favorevolmente proprio in questa direzione, non da ultimo per evitare che il problema vada ad incrementare tensioni all’interno delle strutture”. Gli uffici dell’Autorità di garanzia hanno a questo proposito già effettuato un monitoraggio di settore, per verificare la situazione in tutti gli istituti delle Marche. Lazio. Al via gli Sportelli per i detenuti: si potranno chiedere informazioni e presentare reclami romasette.it, 10 novembre 2023 Il Garante Anastasìa, ha incontrato operatori e referenti delle quattro università laziali, con cui sono stati stipulati appositi accordi, e della onlus Arci Viterbo solidarietà. “Obiettivo di questi sportelli è quello di garantire a tutte le persone detenute negli istituti di pena del Lazio di poter accedere nei tempi più rapidi possibili al Garante regionale, per chiedere informazioni, esprimere doglianze o presentare reclami. Grazie al contributo e alle competenze delle università e dell’Arci di Viterbo, riusciremo ad ascoltare e rispondere altrettanto rapidamente a ogni detenuto che ne faccia domanda”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, nel corso dell’incontro che si è svolto stamane nella Sala Etruschi della sede del Consiglio regionale del Lazio. La riunione era stata convocata per un confronto della struttura amministrativa di supporto al Garante con i referenti delle quattro università e della onlus Arci Solidarietà Viterbo che dovranno svolgere per i prossimi tre anni i servizi di sportello negli istituti penitenziari del Lazio. Nel corso dell’incontro sono state affrontate questioni che vanno dai rapporti e dalle condotte all’interno degli istituti penitenziari agli aspetti amministrativo-gestionali e alle modalità di trattamento dei dati personali delle persone ristrette. Gli sportelli svolgono un’attività di sostegno ai detenuti che ne fanno richiesta, per la risoluzione delle problematiche individuali, attraverso un’azione di informazione e ausilio nella redazione di istanze a firma propria. Gli operatori che svolgono attività di sportello comunicano ai referenti della struttura amministrativa di supporto al Garante i casi in cui sia necessario interloquire con i responsabili delle amministrazioni pubbliche nella risoluzione dei problemi rappresentati dalla persona detenuta e devono comunicare tempestivamente tutte le problematiche di natura generale relative all’istituto di propria competenza emerse nel corso dello svolgimento dell’attività. Il dirigente della struttura amministrativa di supporto al Garante, Massimo Messale, ha stipulato accordi (ex art. 15 della l. 241/1990), con decorrenza 1 novembre, con le università Roma Sapienza, Roma Tre, Tor Vergata e con l’Università di Cassino e del Lazio meridionale, alle quali è riconosciuto un ristoro annuo delle spese sostenute, per un totale di 189 mila euro nel triennio. A parte l’Università Sapienza, si tratta di fatto della prosecuzione di rapporti di collaborazione in essere da tempo. Le tre università romane erogheranno il servizio di sportello nelle case circondariali di Roma Regina Coeli, di Rebibbia Femminile, di Rebibbia Terza Casa Icat, di Rebibbia Nc, e di Velletri, e nella Casa di reclusione di Rebibbia. L’accordo con l’università di Cassino e del Lazio meridionale riguarda le case circondariali di Cassino, di Frosinone e di Latina. Alla onlus Arci Solidarietà Viterbo che da anni presta tale servizio nel carcere di Viterbo è stato affidato, a seguito di una procedura ad evidenza pubblica, anche il servizio di sportello nella Casa di reclusione di Civitavecchia, e nelle case circondariali di Civitavecchia nuovo complesso, Rieti (72mila euro nel triennio). L’unico dei 14 istituti per adulti nel Lazio in cui non è previsto alcun servizio di sportello è il carcere di Paliano, nel quale sono accolti i collaboratori di giustizia le cui istanze sono riservate personalmente al Garante, così come per i detenuti in regime di 41bis ospiti degli istituti di Rebibbia nuovo complesso e Viterbo. Sardegna: Sdr: “3 neo-direttori delle carceri su 6 già dimissionari”. Appello ai parlamentari sardi sardegnareporter.it, 10 novembre 2023 “Neanche i nuovi direttori accettano di venire a lavorare in Sardegna. Ricevuto l’incarico uno ha subito rinunciato, un altro si è dimesso e un terzo ha chiesto aspettativa. Così restano scoperti Isili, Tempio e Alghero in aggiunta a Sassari, Nuoro e perfino Cagliari. Insomma poco o niente cambia ammesso che non ci siano altre defezioni. Una umiliazione per l’intero sistema penitenziario sardo soprattutto dopo che Patrizia Incollu e Peppino Fois hanno lasciato sulla strada la loro vita per onorare il lavoro”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme ODV” facendo notare che “nessun’altra regione italiana ha subito questo trattamento né prima né adesso”. “Non si può inoltre trascurare che a fronte di tante esigenze - sottolinea - è scoperto perfino il primo e più importante Ufficio del PRAP, quello del Vice Provveditore, mentre il titolare Antonio Mario Galati, che arriva dalla Calabria, dovrà faticare non poco a tenere le fila della situazione. Il perdurare del grave disagio organizzativo si ripercuote pesantemente su chi lavora quotidianamente negli Istituti, agenti penitenziaria e personale amministrativo, trattamentale e sui detenuti e i loro familiari che si ritrovano ancora una volta senza una direzione stabile in grado di offrire risposte”. “I Parlamentari sardi - afferma ancora la referente carceri di SDR - non possono ignorare questa situazione e devono intervenire con forza rivendicando i diritti di chi opera nelle strutture detentive isolane ricordando al Ministro della Giustizia e al Capo del Dipartimento che l’isola ha retto una condizione invivibile negli ultimi 10 anni ma non può più accettare di essere lo zimbello d’Italia”. “I concorsi, così come avviene per l’assegnazione delle cattedre scolastiche, non possono essere nazionali ma regionali, a maggior ragione in un’isola. Ciò anche perché si potrebbe evitare che chi partecipa abbia consapevolezza piena del territorio e del ruolo che va ad assumere. Non è lodevole aderire a un bando, partecipare a corsi di formazione pagati dallo Stato e poi, dopo tre anni, rinunciare a un posto di lavoro utilizzando il titolo acquisito per altre carriere o finalità. Insomma, ammesso che nessun altro rinunci all’incarico o chieda aspettativa - conclude Caligaris - le carceri della Sardegna continuano a gravare su pochi seri professionisti”. Santa Maria Capua Vetere. La Passione di Marouane, l’altro Cristo della “mattanza” di Luigi Romano* openmigration.org, 10 novembre 2023 Marouane Fakhri era un ragazzo marocchino, tra le vittime della rappresaglia a freddo operata da alcuni reparti della polizia penitenziaria, dopo le proteste delle persone detenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nell’aprile del 2020, per la paura del contagio epidemico di Covid-19. Trasferito prima nel carcere di Ariano Irpino e poi in quello di Pescara. Qui si era riuscito a reintegrare, venendo selezionato per seguire un corso di formazione da operatore socio-sanitario e continuando gli studi per conseguire il diploma. Eppure, proprio in questo carcere, il ragazzo si è dato fuoco per poi morire due mesi dopo all’ospedale di Bari. Nelle prime pagine della Guida alla procedura penale, Cordero definisce il processo una ‘macchina complicata’ la cui analisi richiede ‘arnesi adeguati’. Al di là delle finalità della ‘meccanica processuale’, uno degli effetti indotti del congegno è il raffreddamento del conflitto provocato dalla condotta di reato. La ricomposizione della ferita avviene all’interno di un rituale che segue schemi precisi per riaffermare gli interessi dell’ordine costituto. In tal senso, il tempo del processo gioca un ruolo non trascurabile, infatti nel caso della ‘Mattanza’, sta trasformando il collasso umano e istituzionale del carcere di Santa Maria Capua Vetere del 6 aprile 2020 in una asettica partita di scacchi. In quel giorno di aprile, circa 300 agenti, reclutati tra i reparti della polizia penitenziaria dell’istituto casertano, del nucleo traduzione del carcere di Secondigliano e del Gruppo di Intervento Rapido (istituito in quei mesi per sopperire alle difficoltà dell’emergenza pandemica), sono entrati nel reparto Nilo dove sono reclusi i detenuti comuni (le sezioni del carcere ‘Francesco Uccella’ prendono il nome dei fiumi: Nilo, Tevere, Volturno…) dando vita ad una violentissima rappresaglia a freddo. L’obiettivo degli agenti intervenuti in accordo con gli apici di comando dell’amministrazione, secondo la tesi avanzata dalla Procura della Repubblica, era di terrorizzare i detenuti di questo padiglione in fibrillazione per la paura del contagio epidemico. Per questi eventi la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere è impegnata a verificare la responsabilità penale di 105 imputati. Tuttavia, nel corso della ricostruzione dibattimentale irrompono nello spazio sterilizzato alcune vicende che per la loro forza distruttiva intrinseca sono capaci di riprodurre la vertigine dell’implosione. Quando sono state proiettate le immagini della videosorveglianza del carcere che ritraevano Marouane, il clima nell’aula bunker è diventato subito teso. Fakhri era nato in Marocco il 16 agosto 1993, era stato trasferito dall’istituto di Velletri ed era recluso al Nilo da pochissimi giorni, il reparto dei comuni oggetto della ‘perquisizione straordinaria’ del 6 aprile. Il giovane marocchino era recluso nella cella n. 12 e dal rumore dei passi pesanti e dal numero degli agenti in tenuta antisommossa aveva capito che quel giorno si stava per compiere un massacro. Quando una squadra di agenti entrò nella sua cella il ragazzo per la paura non riuscì a trattenere l’urina e si inginocchiò come atto di clemenza, come un prigioniero che si consegna al nemico. Attraversò come tutti il corridoio umano di agenti, prendendo un numero considerevole di calci, schiaffi, pugni, correndo fino alla sala della socialità. Si legge nel decreto che ha disposto il giudizio: “… giunto nella sala ricreativa, ove vi era già un numero non inferiore a venti detenuti, tutti ristretti presso la prima sezione del reparto Nilo, in ginocchio e con le mani e testa appoggiati al muro, dopo essersi inginocchiato per la paura di aver constatato la presenza ivi del xxxx, che nei giorni precedenti lo aveva percosso, quest’ultimo, munito di scudo e manganello. Dicendo “questo è mio, questo è una crema buona… è il uappetiello di Velletri”, unitamente ad un collega, anch’egli armato con scudo e manganello, intimava al Fakhri di mettersi al muro, che obbediva, strisciando in ginocchio a terra, sotto i colpi inferti con manganello”. Come anticipato, la scena è stata ripresa dalle telecamere del circuito di videosorveglianza, quindi proiettata in udienza nel corso dell’escussione del Carabiniere Medici ascoltato dalla Corte come teste dalla Procura. I Pubblici Ministeri hanno sottolineato come “la scena immortalata in quel minuto appare in tutta la sua atroce violenza”: Fakhri colpito ripetutamente e costretto a strisciare. L’immagine di quel corpo, ridotto in ginocchio al cospetto dell’autorità, è esplicativa del senso dell’intera operazione straordinaria cominciata alle 15.30 del 6 aprile. Dopo gli episodi della Mattanza, Marouane fu trasferito nel carcere di Ariano Irpino. Forse sulla base di un processo di rimozione più che di elaborazione delle violenze, Fakhri trovò la forza di proiettarsi oltre alla carcerazione. Nell’istituto avellinese, anche grazie all’ausilio delle figure professionali incontrate, coltivò la speranza di costruire una vita dopo la detenzione. Appassionato di letteratura, curioso di ogni stimolo esterno, frequentava assiduamente i corsi scolastici fino ad impressionare i docenti e il personale dell’amministrazione perché rifiutava di presentare istanza di liberazione anticipata temendo di non riuscire a terminare gli studi. Il trascorso nel carcere sammaritano emergeva pochissime volte, le persone che lo hanno incrociato ricordano che non amava parlarne. Dopo la notifica delle misure cautelari agli agenti indagati e condotti in seguito a processo dalla magistratura inquirente si presentò il problema di convivenza tra denuncianti e denunciati nello stesso ‘circuito penale’. In relazione a tale circostanza, per evitare che le vittime potessero subire ritorsioni da parte del personale di polizia, vennero trasferiti fuori regione 44 detenuti. Tra questi vi era anche Marouane che giunse nella casa circondariale di Pescara. Quando le relazioni istituzionali consentono un dialogo continuo tra le complesse branche del sistema che intervengono nell’esecuzione della pena-misura e le condizioni di vivibilità dell’istituto sono minimamente accettabili, il trasferimento pesa di più sulle spalle del detenuto costituendo un cambiamento radicale. Bisogna ricominciare da capo: conoscere le persone che sono in stanza, capire le dinamiche interne dell’istituto e della sezione, valutare se è possibile continuare il percorso di cure, di lavoro o di studio e, quando il soggetto è ‘definitivo’, è necessario intraprendere un nuovo rapporto con la magistratura di sorveglianza. Anche per i familiari comporta una diversa pianificazione degli spostamenti. Sono delle variabili che possono sembrare scontate ma nella fase attuale di crisi strutturale del sistema penitenziario, anche un semplice trasferimento (di pochi chilometri) potrebbe cambiare il corso degli eventi. Marouane conosceva il mondo carcerario e queste perplessità lo avranno certamente interrogato. Infatti, il primo periodo nella Casa Circondariale di Pescara non è stato semplice. Tuttavia, il ragazzo era così determinato che riuscì in poco tempo a riadattarsi al nuovo contesto istituzionale. La direzione dell’istituto lo selezionò per seguire, in art. 21 O.p., un corso di formazione per la qualifica di operatore socio-sanitario. All’esterno continuò a studiare seguendo i corsi serali per conseguire il diploma e grazie alla passione per la scrittura e per lo studio dell’italiano era stato selezionato come partecipante ad un concorso di scrittura. Da questa storia (conciliante rispetto ai sentimenti violenti e punitivi che affogano le nostre comunità, strumentalmente pubblicizzabile all’esterno delle mura circondariali per l’immagine funzionale della pubblica amministrazione) ci si aspetterebbe soltanto un lieto fine. In fondo, Fakhri era riuscito a risollevarsi più di una volta, nonostante gli orrori subiti. Eppure, per isolare il finale di questa storia siamo costretti a ritornare nell’aula bunker del carcere di Santa Maria Capua Vetere, in mezzo alle campagne di Teverola a ridosso dell’interporto logistico che consente la distribuzione delle merci in tutta l’Italia meridionale. Tra le pagine di questo processo c’è la fine della storia. All’udienza del 31 maggio 2023, un avvocato di parte civile prende parola: “Presidente, ne approfitto dell’organizzazione solo per comunicarvi che l’avvocato Lucio Marziale, che difende la posizione della parte civile Fakhri Marouane mi ha appena notiziato, quindi mi sembra opportuno notiziare anche la Corte qui, che il suo assistito purtroppo si è dato fuoco in carcere a Pescara. È in condizioni gravissime, tanto gravi che è stato trasportato in eliambulanza sabato a Bari, dove attualmente è ricoverato”. Un’istituzione in caduta ripida segna traiettorie non sempre prevedibili, tenta grottescamente di recuperare l’ordine del discorso, ma si ritrova a rompere argini sempre più estesi e ripercorrere continui crolli. Il giovane Marouane è morto dopo due mesi di agonia nell’ospedale di Bari, aveva quasi la totalità del corpo ricoperto da ustioni. Cosa è successo nell’Istituto di Pescara quel giorno? Quali equilibri si sono modificati affinché Fakhri compisse un gesto simile? Con quali modalità si è dato fuoco? La carne del ragazzo ha bruciato per un intervallo di tempo considerevole, quando è stato soccorso? I familiari hanno depositato un esposto alla Procura della Repubblica competente affinché indaghi sulle ragioni del decesso. Anche Antigone ha interrogato con un esposto l’Ufficio di Procura per chiarire le cause della morte affinché le membra del giovane Marouane lascino traccia e non siano inghiottite dal vuoto abituale generato dal crollo del sistema. Dopo Hakimi, morto nelle celle di isolamento del carcere di Santa Maria Capua Vetere, anche di Marouane non possiamo conoscere altro. Sul corpo di entrambi sono state scritte le identiche violenze. È possibile soltanto immaginare cosa sarebbe potuto accadere… e a proposito di questo prendo in prestito le parole di uno scritto di Marouane: “… ho iniziato a spolverare dei ricordi scolpiti nella mia memoria. Alzavo la testa per sembrare un bravo ragazzo, poi scivolavo con lo sguardo che non sapeva dove appoggiarsi, a volte nel vuoto. E ad ogni mia breve rivelazione di dolore, veniva disegnata sulle loro facce un’espressione che oscillava tra la tristezza e una profonda malinconia. Sembravo una vecchia zingara in qualche circo che ipnotizzava chi la guardava. Al posto della palla di vetro, usavo delle parole sciolte, e chi mi ascoltava mi prestava lo sguardo, per poi iniziare un suo proprio viaggio nella sua immaginazione. Come se l’immedesimazione nei miei guai desse a chi ascoltava la possibilità di rivivere qualche emozione sepolta nei suoi ricordi sfocati. Come se cercassero qualche verità, qualche dolore che non sono in grado di affrontare. Come se fossero prigionieri della realtà. Come se fantasticare nell’immaginazione fosse l’unico modo per essere liberi”. *Avvocato e assegnista di ricerca presso l’Università di Napoli Federico II, dal 2013 è membro dell’Osservatorio di Antigone sul monitoraggio degli istituti di pena. È redattore di Napoli Monitor e della rivista Lo stato delle città. Sassari. Cospito, il giudice dice Sì all’acquisto di Cd. Il Dap ricorre di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 novembre 2023 Secondo l’amministrazione penitenziaria i compact disc produrrebbero diversi pericoli, tra cui quello “neomelodico”. Il nuovo braccio di ferro intorno alla vicenda penitenziaria di Alfredo Cospito riguarda la possibilità che il detenuto anarchico, recluso al 41 bis, possa ascoltare Cd musicali. Cospito, condannato per strage a 23 anni per due bombe esplose senza morti o feriti, ha presentato un reclamo al magistrato di sorveglianza contro il No ricevuto dal carcere di Bancali. Il 3 ottobre scorso, venti giorni prima che il tribunale di sorveglianza di Roma confermasse il regime detentivo speciale nonostante il parere della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, il giudice gli ha dato ragione. Se il “carcere duro” ha lo scopo di impedire il contatto con organizzazioni criminali esterne, ha scritto il magistrato, il divieto dei Cd ha solo un carattere afflittivo. Violando il diritto a un’innocua attività ricreativa e culturale. Non ci sta il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), che il 10 ottobre ha fatto ricorso. Quel diritto sarebbe già soddisfatto dall’uso di radio e tv. Perché Cospito dovrebbe poter scegliersi la musica? L’introduzione dei Cd con relative limitazioni tecniche comporterebbe un aggravio di lavoro per il personale del carcere. Se tanti reclusi avanzassero simili richieste si potrebbe perfino determinare “un impegno difficilmente sostenibile da parte dell’Amministrazione”. Il Dap sottolinea poi i rischi della musica neomelodica, di cantautori “che orbitano negli stessi territori di provenienza dei detenuti 41 bis”. Anche se Cospito è originario di Pescara, né risultano neomelodici anarco-insurrezionalisti. Un ulteriore pericolo sarebbe il possibile uso dei compact disc come specchietti per comunicazioni notturne tra le celle di isolamento. Perciò, dice il Dap, se Cd saranno che non siano tutto il giorno. Deciderà il tribunale di sorveglianza di Sassari. Palermo. La nuova vita comincia dal carcere: “Qui sto imparando la pazienza, non sbaglierò più” di Serena Termini ilmediterraneo24.it, 10 novembre 2023 Due persone detenute nel carcere dell’Ucciardone si raccontano e raccontano come vivono all’interno della struttura: “Facciamo un corso come peer supporter per conoscerci ed evitare che i detenuti più fragili possano fare stupidaggini”. È nata il 5 marzo del’73 e ha tre figli. Dal 2005 è stata la corrispondente dell’agenzia di stampa nazionale Redattore Sociale con cui oggi collabora. Da sempre, ha avuto la passione per la lettura e la scrittura. Ha compiuto studi giuridici e sociologici che hanno affinato la sua competenza sociale, facendole scegliere di diventare una giornalista. Ciò che preferisce della sua professione è la possibilità di ascoltare la gente andando al di là delle prime apparenze: “fare giornalismo può diventare un esercizio di libertà solo se ti permettono di farlo”. Prendono in mano per la prima volta un libro, alcuni imparano a studiare mentre altri apprendono un mestiere attraverso i diversi corsi professionali. L’ammissione alle attività trattamentali è sempre il risultato di una decisione corale di più figure professionali. Se si ha buona volontà e voglia di conoscere, le opportunità offerte, durante il periodo di reclusione, sono molte. A dirlo sono due persone detenute che incontriamo nella biblioteca del polo didattico della quinta sezione intitolato a Pio La Torre del carcere dell’Ucciardone. Si tratta della sezione dedicata alle attività comuni: la scuola, la sala lettura, la biblioteca e le stanze con le attrezzature di formazione professionale. Il primo a prendere la parola è Michele Cavataio di 46 anni, sposato con tre figli. La sua uscita è prevista nel novembre del 2029. Ci accoglie con degli occhi molto vivaci e un fisico molto muscoloso. “Sono in questo carcere da un anno e un mese - racconta Michele Cavataio -. All’inizio, appena entrato, non avendo un’attività lavorativa specifica, mi sono dedicato allo spazio attrezzato adibito a palestra. Ho la licenza media e un attestato come elettricista che ho preso fuori. Mi piace leggere e per questo mi sono impegnato pure nello studio personale. Sono stato inserito prima come lavorante porta vitto e dopo, dallo scorso agosto, sono addetto alla manutenzione ordinaria come elettricista. Inoltre, sto facendo pure il primo anno della scuola alberghiera e ho fatto anche orientamento in una ditta di impresa di pulizia industriale”. In questo tempo di reclusione il pensiero spesso va all’esterno del carcere. “Prima avevo un lavoro - racconta -. Il mio è stato solo un incidente di percorso, dove, purtroppo, trovandomi in una situazione particolare, ho fatto degli errori che adesso sto pagando. Naturalmente, mi sono assunto le mie responsabilità e, una volta libero, voglio ritornare a lavorare nel campo edile, elettrico o dei trasporti. In attesa di questo momento, vado avanti cercando di migliorami sempre e, soprattutto, guardando il lato positivo di tutto quello che sto facendo in carcere. Nello stesso tempo, cerco pure di aiutare gli altri. Li aiuto con gli allenamenti fisici ma anche a scrivere una lettera o una domandina. Se ci si comporta bene, si riescono a fare diversi percorsi che nella vita ci serviranno. Nella mia vita ho sempre avuto rispetto e amore per il prossimo. In carcere, sto imparando a sapere aspettare; è quell’esercizio della pazienza che ti porta ad essere meno istintivo e ad avere un maggiore autocontrollo nelle diverse situazioni che ti capitano. Ognuno deve fare il suo percorso nella vita senza guardare quello degli altri. La vera libertà è però quella di fuori. In tutto questo tempo, lontano dagli affetti più cari, ho perso tante cose belle come il diploma di mia figlia e altro ancora. La libertà non ha prezzo. Il nostro percorso deve essere solo verso la libertà per cercare di non sbagliare più. Bisogna perseverare nel fare il bene e andare sempre avanti”. Ad accoglierci con un grande sorriso è pure Francesco Spartaro, 51 anni sposato con due figli. Ha scontato già tre anni e ha un fine pena nel 2026. “Qua dentro, il mio primo problema è stato quello di ambientarmi, durante i diversi passaggi da una sezione all’altra - racconta -. Prima avevo iniziato a lavorare come porta vitto e poi ho fatto pure il corso per la sicurezza alimentare Haccp. Ho partecipato, pure, a un corso di sartoria e, adesso, aiuto gli altri a fare piccole cuciture come rammendare un bottone o altro. Penso che una volta libero tutto questo mi potrà servire. Mi piacerebbe aiutare altri detenuti e per questo sto facendo il corso di Peer Supporter. Come Peer Supporter cerchiamo di aiutare gli altri detenuti a conoscere come ci si deve comportare e relazionare con i detenuti dentro la cella e con gli assistenti ed educatori che ci seguono. L’obiettivo è pure quello di evitare che i detenuti più fragili possano fare delle stupidaggini che, purtroppo, succedono”. “Nella vita c’è sempre tanto da conoscere e qua, se si vuole, si possono fare tante attività - continua -. Sono finito in carcere purtroppo per avere detto troppi sì. In carcere ho conosciuto davvero un mondo nuovo tra educatori, e detenuti. Ho imparato tante cose, nonostante l’ambiente sia, a volte, molto pesante. Si apprende, a poco a poco, a socializzare con gli altri perché la convivenza in cella, tra persone con storie e vissuti diversi, non è sempre facile. A tutti quelli che sono fuori oggi dico di aprirsi bene gli occhi perché andare in carcere non vale assolutamente la pena. Ricordiamoci che la libertà è un valore troppo importante che ti permette di essere pienamente te stesso”. E, al temine della nostra conversazione, mentre ci allontaniamo, Francesco ci richiama per un saluto ancora: “Arrivederci, mi saluti la libertà!”. Cagliari. Le uniformi dei carabinieri? Le lavano in carcere Corriere della Sera, 10 novembre 2023 Il progetto per i detenuti “Lav(or)ando” nelle lavanderie industriali delle carceri di Cagliari e Quartuccio grazie alla cooperativa sociale Elan sostenuta da Fondazione Con il Sud. “Quando ero fuori non immaginavo di poter lavorare. All’inizio è stato difficile perché non avevo regole, poi ho capito che non avere regole non porta a nulla”. E così dopo un tirocinio, per G.S. è arrivato un contratto come addetto alla lavanderia. Lui è uno dei i detenuti che lavorano nelle due lavanderie industriali realizzate dalla cooperativa sociale Elan nei due istituti carcerari di Cagliari (Casa circondariale di Uta) e Quartucciu (Istituto penale per i minorenni). Si occupano di lavare i “panni sporchi” dei Carabinieri, dell’Esercito, della Marina Militare, della Polizia Municipale, dei Vigili del Fuoco. Servono i principali Ministeri della Giustizia, della Difesa e degli Interni. Lo considerano un onore e un riscatto, un modo per rimediare agli errori commessi nel passato, dimostrando un impegno verso la società che dovrà accogliergli. Il progetto si chiama “Lav(or)ando” e, grazie al sostegno della Fondazione Con il Sud, favorisce il recupero sociale e lavorativo di 24 persone sottoposte a provvedimenti penali detentivi, attraverso il loro inserimento nelle due lavanderie e, a seguire, in imprese del territorio disponibili ad accoglierli. Affiancati da un tutor, con un contratto di tirocinio di cinque mesi, i detenuti si formano e gestiscono le attività di lavaggio, asciugatura, stiratura e confezionamento dei capi, non solo le divise delle forze dell’ordine ma anche la biancheria dell’istituto e altre commesse esterne. Un sistema di tracciamento informatizzato, basato sull’applicazione di etichette personalizzate con un bare code su ogni indumento e all’utilizzo di un software dedicato, consente di avere un controllo totale sul singolo capo, dalla presa in carico alla riconsegna, evitando smarrimenti e garantendo un report sul numero di lavaggi. Il progetto Lav(or)ando ha anche ideato un marchio etico, con un duplice obiettivo: dare alle aziende della provincia l’opportunità di accogliere i detenuti che hanno fatto il percorso di inserimento lavorativo e incentivarle a dare sempre maggiori commesse alle due lavanderie per aumentare i posti di lavoro. Milano. Sesta Opera, 100 anni dell’associazione di volontariato penitenziario nata grazie ai gesuiti di Roberta Barbi vaticannews.cn, 10 novembre 2023 Pioniera in Italia nell’ambito della giustizia riparativa, l’associazione, attiva a Milano, nacque su iniziativa di alcuni laici della Congregazione Mariana che avevano partecipato agli esercizi spirituali sull’opera di carità “visitare i carcerati”. Oggi festeggia il centenario con un calendario ricco di eventi. Di strada ne è stata fatta tanta, da quel 1923 in cui un gruppo di liberi professionisti della Congregazione Mariana - laici di spiritualità ignaziana oggi Comunità di Vita Cristiana - dopo aver partecipato a Triuggio agli esercizi spirituali del gesuita padre Alberto Beretta, decidono di riunirsi presso la sede di Porta Volta, oggi in San Fedele, e di dedicare parte del loro tempo ai reclusi, proprio come recita la sesta opera di misericordia corporale del Vangelo, da cui prende il nome l’associazione. Iniziano a San Vittore chiedendo colloqui con i reclusi, insegnano a leggere e scrivere agli analfabeti e organizzano una vera e propria scuola per i minori. Oggi sono attivi nei quattro istituti di pena milanesi, nel reparto speciale dell’ospedale San Paolo e nella casa circondariale di Cremona, ma la nuova frontiera è il servizio penale esterno, come spiega il presidente, Guido Chiaretti a Vatican News: “Il carcere ancora oggi è la risposta principale che la società dà all’autore di un reato, ma i dati sulla recidiva ci dicono che è una risposta che non funziona molto bene, basti pensare che in assenza di attività trattamentali questa si attesta intorno al 60-80%, mentre là dove ci sono i volontari e dove c’è vero reinserimento, si abbassa al 20 e a volte arriva anche sotto al 5%”. Dopo quella del 1923, un’altra data importante in questa storia è il 30 novembre 1963: l’associazione Sesta Opera San Fedele è formalmente costituita. Tra i soci fondatori si ricordano Giovanni Lazzati, Francesco e Giovanni Battista e Giuseppe Legnani, Luigi Gatti. Arriviamo così al 1975, quando diventa legge una proposta firmata proprio dell’Opera, che prevede formalmente l’ingresso negli istituti di pena della figura del volontario come aiuto alle persone in condizione di privazione della libertà. Nel 2004, poi, inizia la sfida dell’esecuzione penale esterna. “Il volontario penitenziario è un volontario diverso dagli altri - prosegue Chiaretti - certo, il cuore del suo operato sta nel rapporto tra lui e il suo assistito, ma nel caso specifico tra questi due soggetti c’è l’intero ordinamento giudiziario italiano. Una cosa che mi sento di suggerire a chi volesse avvicinarsi a questo mondo è di essere convinti, di fare un grande lavoro su se stessi perché i detenuti ci mettono appena dieci secondi a inquadrarti e a decidere se possono fidarsi di te o meno”. Le iniziative per festeggiare i cent’anni di Opera San Fedele iniziano oggi, venerdì 10 novembre, nel cuore di Milano con un convegno all’Ambrosianeum cui partecipa l’arcivescovo di Milano monsignor Mario Delpini e in cui è attesa la testimonianza di un ex detenuto, Franco Bonisoli. Sabato mattina, presso l’Auditorium San Fedele, in collaborazione con il Seac - coordinamento delle associazioni di volontariato di ispirazione cristiana operanti nelle carceri e nel più ampio campo dell’esecuzione penale - l’incontro dal titolo “Il contributo del volontario e della società civile per declinare il senso di umanità delle pene”; a seguire, nel pomeriggio, all’interno della casa circondariale di San Vittore l’evento “Qui tutto è cominciato”, con la partecipazione della polizia penitenziaria. Ultimo appuntamento, ma non per importanza, quello di mercoledì 15 novembre con la presentazione del libro “Per una giustizia degna del senso ultimo dell’essere umano”, con il professor Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, nell’ambito della manifestazione BookCity2023. Ma se un occhio dell’Opera è impegnato a celebrare il passato, l’altro è già proiettato nel futuro: “Nel domani vedo il potenziamento del servizio esterno - conclude il presidente Chiaretti - perché nella popolazione carceraria di oggi ci sono molti poveri e molti giovani; inoltre, dopo la pandemia del Covid, si registra anche un aumento degli psichiatrici. E poi, legato a tutto questo, c’è il tema del reinserimento lavorativo. Quello che resta costante e che ci portiamo dalla nostra tradizione, invece, è la gratuità del servizio, anche in una società in cui il tempo e lo sguardo verso l’altro cambiano inevitabilmente”. Torino. “Il carcere minorile contemporaneo. Parliamone” cr.piemonte.it, 10 novembre 2023 “Per ragionare di carcere minorile con coscienza di causa è necessario conoscerne a fondo i meccanismi e le dinamiche che lo governano. Sono convinto sia quanto mai necessario che le istituzioni e i soggetti interessati si impegnino per approfondirne la realtà e trovare le soluzioni più adatte per far sì che l’esperienza della detenzione rappresenti sempre più, per i giovani, un’opportunità di recupero e di reinserimento nel tessuto sociale”. Lo ha dichiarato il componente dell’Ufficio di presidenza del Consiglio regionale Gianluca Gavazza in apertura dell’incontro Il carcere minorile contemporaneo. Parliamone! che si è svolto al Circolo dei lettori di Torino. Organizzato dall’Assemblea legislativa piemontese attraverso gli uffici dei Garanti regionali dei detenuti e per l’infanzia e l’adolescenza, è il primo di una serie di incontri per riflettere sul passato e sul presente del carcere minorile e immaginarne il futuro. “Avere a disposizione 25,3 milioni di euro del Pnrr per l’ambito penitenziario piemontese - ha sottolineato il Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano - è un’occasione per ripensarne e umanizzarne gli spazi affinché da luoghi di detenzione possano davvero diventare luoghi di riabilitazione e rieducazione per dare finalmente attuazione al decreto 121 del 2018 che ha introdotto un ordinamento specifico per i minori e ha previsto attività e attenzioni concrete all’affettività e alle relazioni familiari nell’esecuzione penale minorile”. Il sociologo Franco Prina ha sottolineato come la riforma del processo penale minorile, avvenuta trentacinque anni fa, abbia rappresentato una sorta di grande esperimento sociale per trattare i reati e gli autori di reato. “Oggi - ha aggiunto - i minori in carcere in Italia sono non più di 400, di cui solo la metà è davvero minorenne, mentre circa 21.000 sono quelli che vivono in comunità o sono presi in carico dai servizi sociali e 6.700 quelli messi alla prova. Siamo però chiamati a nuove sfide, poiché i giovani detenuti di oggi non sono più tanto i figli dell’immigrazione dal sud al nord quanto i minori stranieri, spesso non accompagnati, con forti problemi legati alla lingua, alla cultura, allo sfruttamento e alla mancanza di reali opportunità di studio, di integrazione e di lavoro”. Sulla situazione dei minori stranieri non accompagnati si è soffermata la Garante regionale per l’infanzia e l’adolescenza Ylenia Serra, ricordando che “vengono spesso catapultati da situazioni drammatiche in un mondo che non conoscono e che si illudono possa realizzare tutti i loro sogni, cadendo vittime della frustrazione quando si rendono conto che quanto immaginato non corrisponde alla realtà”. La garante comunale dei detenuti Monica Cristina Gallo ha identificato tra i problemi aperti al Ferrante Aporti “la carenza di direttori stabili, la progressiva diminuzione dei servizi di neuropsichiatria infantile e il fatto che non si facciano più i test tossicologici a chi entra perché ritenuti troppo costosi”. “A fronte della recente tendenza secondo cui dei quaranta ospiti dell’Istituto minorile Ferrante Aporti solo i due terzi sono minorenni - ha aggiunto - si registra una presenza di circa centotrenta detenuti tra i 18 e i 24 anni nel carcere per adulti”. Don Ettore Cannavera, infine, ha raccontato la propria esperienza all’interno del carcere minorile di Quartucciu (Ca) e quella di coordinatore della “Comunità La Collina”, una sorta di carcere alternativo in cui i minori autori di reato vengono “educati al rispetto di sé e delle regole in un clima di relazione che mira a svilupparne le potenzialità umane e spirituali”. Al termine dell’incontro - cui sono intervenuti il neodirettore del Ferrante Aporti Giuseppe Carro, l’assessore alle Politiche per la sicurezza del Comune di Torino Gianna Pentenero e l’architetto penitenziario Cesare Burdese - Mellano ha annunciato che il secondo incontro sul tema si svolgerà, sempre al Circolo dei lettori, mercoledì 13 dicembre. Roma. “100 anni di leggi sugli stupefacenti”: il terzo convegno di Giustizia Insieme giustiziainsieme.it, 10 novembre 2023 In occasione del centenario dalla prima legge sugli stupefacenti, n. 396 del 18 febbraio 1923, la Rivista Giustizia insieme ha organizzato il convegno dal titolo: “100 anni di leggi sugli stupefacenti” che si terrà a Roma, il 1° dicembre 2023 presso l’Aula magna della corte di Cassazione. Il convegno si articolerà in due sessioni. La prima sessione al mattino riguarderà la legislazione sulle droghe nella società italiana dal 1923 ad oggi. Ad una relazione sull’evoluzione della normativa vista nel suo sviluppo storico e nei rapporti con i vari assetti politici, seguirà una tavola rotonda sullo scenario nazionale e internazionale del traffico degli stupefacenti, sull’attuale situazione sociale e politica, sugli effetti psicofisici del consumo di droghe e sui possibili prossimi sviluppi della legislazione riguardanti proibizionismo, forme di legalizzazione, normativa sull’uso personale. Partendo dalla illustrazione del quadro attuale delle dimensioni del fenomeno nei suoi risvolti sociali e criminali, delle diverse risposte date da un numero sempre crescente di paesi, si affronterà la questione da tempo assai dibattuta delle effetti delle sostanze stupefacenti e in particolare della cannabis, la sua evoluzione a livello di tipologia di pianta e di modalità di utilizzo, per esporre il quadro delle ipotesi di nuove normative in cui si contrappongono approcci di minore tolleranza e proposte di legalizzazione, nelle sue diverse accezioni. La seconda sessione nel pomeriggio si incentrerà sui vari aspetti dell’intervento riguardante il consumo di sostanze stupefacenti. A due relazioni che inquadreranno la disciplina attuale e in particolare il ruolo della giurisprudenza, seguirà una tavola rotonda sul trattamento del consumo e della dipendenza, con una riflessione sull’approccio istituzionale al fenomeno da parte delle istituzioni: sulla tossicodipendenza, sulle forme di esecuzione della pena, sul trattamento carcerario, sul ruolo delle Comunità e dei servizi territoriali. Partendo dalla descrizione del quadro attuale del consumo di stupefacenti e del suo rapporto con il disagio sociale, si approfondiranno gli aspetti del coinvolgimento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nella difficile gestione dei detenuti per droga, delle misure alternative attuali o che potrebbero essere incentivate, della condizione del tossicodipendente in carcere, della funzione dei SERD e del trattamento del tossicodipendente sul territorio, delle molteplici facce della dipendenza (ludopatia, alcolismo, anoressia/bulimia ecc.), del ruolo delle Comunità e delle richieste alle istituzioni. Entrambe le sessioni termineranno con un dibattito. Trani. “Il gioco serio del teatro”: i detenuti a scuola di teatro con i propri figli comunicareilsociale.com, 10 novembre 2023 Una nuova strada per conoscere se stessi e crescere insieme ai propri figli. “Il gioco serio del teatro” è un percorso didattico-ludico-formativo rivolto ai detenuti e ai loro figli che, attraverso la pratica del palcoscenico e l’apprendimento dei mestieri del teatro, porta a galla il loro mondo interiore, le emozioni, gli eventuali disagi, aiutando a sciogliere le barriere che rendono difficile l’integrazione e la comunicazione col mondo reale. “Il gioco serio del teatro” è un progetto della Cooperativa Sociale “I Bambini di Truffaut”, vincitore dell’edizione 2023 di “Orizzonti solidali”, bando di concorso destinato al terzo settore pugliese, promosso dalla Fondazione Megamark in collaborazione con i supermercati Dok, A&O e Famila. Prima sperimentazione in Italia di un laboratorio-scuola rivolto ai genitori detenuti e ai loro figli che nasce con l’obiettivo di mettere in piedi una vera e propria compagnia stabile. A partire dal 7 novembre, circa 15 detenuti del carcere di Trani (sezione maschile) e i loro figli saranno protagonisti di un laboratorio-scuola sui mestieri del teatro. Fino alla fine di maggio - quando il progetto si concluderà con uno spettacolo finale - l’attrice e regista teatrale Ilaria Cangialosi e lo scrittore e giornalista Giancarlo Visitilli condurranno padri e figli in un percorso di cambiamento e integrazione, trasferendo loro i rudimenti delle professioni (regia, recitazione, scenografo, tecnico di sala, tecnico di costruzione e tanto altro). Si partirà dalla consapevolezza del proprio corpo e della voce quali strumenti di comunicazione, poi i partecipanti scopriranno il gioco e l’improvvisazione. Step successivo dedicato allo storytelling e all’arte di sapersi e di saper raccontare, fino ad addentrarsi, attraverso l’analisi e la drammatizzazione di un testo contenente spunti comici, drammatici e introspettivi, nei livelli sistemico-relazionali del teatro. Le potenzialità dello strumento teatrale rispetto alla crescita personale e nel rapporto con gli altri sono molteplici: il progetto per la prima volta offre l’opportunità a padri detenuti e figli insieme di condividere un’esperienza di questo tipo. Un’esperienza che intende educare i partecipanti alle libere scelte individuali, a sapersi assumere responsabilità e saper rispettare i ruoli. Tutto in uno spazio di sana convivenza tra padri e figli che li stimoli a sviluppare un’autonomia espressiva e a spenderla nel rapporto con gli altri, migliorando l’autostima e acquisendo competenze professionali spendibili in settori specifici relativi allo spettacolo dal vivo, ma anche in professioni che richiedono capacità comunicative e relazionali. Il decennio nero dell’Italia, il libro di Benedetta Tobagi di Carlo Bonini La Repubblica, 10 novembre 2023 L’autrice, nel suo ultimo saggio, ricostruisce il vulnus alla verità inferto dai Servizi alle istituzioni democratiche tra le stragi di piazza Fontana e Bologna. Non è semplice misurarsi con il capitolo più oscuro e cruciale della nostra storia repubblicana - gli anni dal dicembre 1969 all’agosto 1980, dalla strage di piazza Fontana a quella di Bologna - indagando sul vulnus alla verità che le hanno inferto i nostri Servizi segreti di allora. A maggior ragione, non lo è con il rigore e la completezza di cui è capace solo la ricerca storiografica e, insieme, con la passione di chi dimostra di maneggiare con sicurezza la storia politica del nostro secondo Novecento. Benedetta Tobagi, con il suo Segreti e lacune (Einaudi), è riuscita a farlo. Consegnandoci un libro civile che è, insieme, un’inchiesta sul potere, sulla dimensione e natura della sua “indicibilità”, e una denuncia sulla macroscopica arbitrarietà della gestione del segreto e della ragione di Stato da parte di chi aveva il compito di esercitarlo in modo rispondente al giuramento di fedeltà costituzionale. Il motore dell’indagine sono gli archivi della nostra Intelligence sugli anni dello stragismo resi disponibili dalla direttiva Renzi del 2014 e riversati nell’Archivio centrale dello Stato, cui Tobagi ha avuto accesso e di cui ricostruisce gli osceni vuoti nella dialettica intercorsa nel tempo con la magistratura inquirente. Da piazza Fontana a Peteano, a piazza della Loggia, all’Italicus, a Bologna. Nella forma del racconto serrato, denso, scandito dalle felici citazioni del Macbeth, la tragedia con cui Shakespeare indagò il Potere. Illuminando la sottrazione di verità che ci è stata inflitta e le storie e i profili degli uomini che, per oltre vent’anni, all’indomani della prima legge di riforma dei nostri Servizi (1977), si sono avvicendati alla direzione delle nostre agenzie di Intelligence - quella militare (già Sifar, già Sid e quindi Sismi) e quella civile (Sisde) - e di quelli che, nella veste di autorità politica, erano deputati ad averne i poteri di controllo e indirizzo, il libro documenta la tabe da cui la nostra giovane democrazia è stata condizionata almeno fino alla caduta del muro di Berlino. “Il dato certo - scrive Tobagi - è l’esistenza, in Italia, di un variegato blocco di potere conservatore comprendente settori cruciali della classe dirigente, del mondo economico, dalle banche all’industria, e degli ambienti militari”. “Una sorta di destra profonda ben più estesa della sua espressione parlamentare, come denuncia più volte Aldo Moro a partire dal 1962”. “Una componente conservatrice e reazionaria della società e della politica italiana che ha tentato di sfruttare a fondo la Guerra Fredda per bloccare o comunque ostacolare una più profonda democratizzazione della società”. Un blocco - viene da aggiungere - figlio della mancata de-fascistizzazione dell’Italia all’indomani del secondo conflitto mondiale. E dunque naturalmente transitato dall’appartenenza al regime fascista alle neonate istituzioni repubblicane e ai loro apparati di sicurezza. Formati a una doppia fedeltà - quella formale del giuramento di lealtà repubblicano e quella materiale dell’anticomunismo nella versione declinata dall’oltranzismo atlantico - i nostri Servizi lavorano negli anni settanta e nei primi ottanta del Novecento a una sistematica “destabilizzazione del sistema democratico” allo scopo di “stabilizzarlo” in senso neo-centrista e conservatore. Trasformano l’Italia in quello che, già alla fine degli anni ‘70, l’allora capo della Cia William Colby definiva “il più grande laboratorio di manipolazione politica clandestina” degli Stati Uniti. E lo fanno secondo una feroce e discrezionale agenda domestica che contempla anche “indicibili” legami, politici e operativi, con esponenti e formazioni della destra eversiva e con la criminalità organizzata. Fino a quando - è il marzo del 1981 - la scoperta degli elenchi P2 mostra come la loggia coperta del venerabile Licio Gelli (che la giustizia penale ci indica oggi come mandante della strage di Bologna) si configuri essa stessa “come un servizio di informazione parallelo”. E questo in ragione della centralità che le informazioni riservate rivestono ai fini del controllo e del ricatto permanente dei gangli della vita democratica del nostro Paese. La lezione che questo passato ci consegna - osserva Tobagi - è che “la quota di indicibilità rispetto alle attività del potere esecutivo e dei Servizi segreti è piuttosto ampia e le pratiche volte a garantire l’incontrollabilità dei secondi, anche a posteriori, sono state a lungo la norma”. Ebbene, decidere cosa farne nel presente è l’interrogativo di cui non solo si carica il libro ma che in fondo interpella chiunque abbia a cuore la qualità del nostro presente e futuro democratico. Tobagi offre una possibile risposta. La consapevolezza di un costante e perdurante deficit di trasparenza degli interna corporis repubblicani, così come della complessità delle origini della stagione delle “deviazioni di Stato”, possono “proteggerci dal rischio di ricostruzioni falsate, opportunistiche, semplicistiche o consolatorie” della nostra storia recente. Possono diventare “precondizione di una ricerca storica che sappia affrontare con onestà anche le pieghe più oscure senza farsene schiacciare e dunque possa davvero servire come strumento di maturazione e manutenzione della vita democratica del Paese”. Siamo d’accordo con lei. Il libro - “Segreti e lacune”, di Benedetta Tobagi (Einaudi, pagg. 336, euro 29) L’associazione Accoglierete compie dieci anni: così forma i futuri tutori legali di minori migranti di Antonio Andolfi Il Fatto Quotidiano, 10 novembre 2023 Venerdì 20 ottobre si è aperta all’Urban Center la prima giornata per il decennale dell’Associazione Accoglierete, titolo: “Accoglienza e inclusione: una sfida possibile”. A questa è seguita sabato 21 il secondo incontro. Accoglierete è nata dieci anni fa dalla volontà di persone di diventare tutori legali volontari di minori extracomunitari, una decisione motivata dall’arrivo sulle nostre coste di centinaia di minorenni provenienti da Paesi dell’Africa e dell’Asia che giungevano in uno stato di grande smarrimento. Portati nei centri di prima accoglienza, all’arrivo veniva dato loro un numero: non erano più persone, proprio come nei campi nazisti. Troppi mesi erano passati dalla partenza all’arrivo in Sicilia e quel lungo viaggio era stato costellato da sopraffazioni, violenze, pericoli, con la detenzione in carceri libiche; infine l’imbarco su barconi poco adatti e il dramma della traversata, forse la prova più pesante e dolorosa vissuto con tanta paura e incertezza: l’ultimo passo che li portava a diventare maturi giocoforza. Ricordi che in quei minorenni non si sarebbero mai più cancellati. Giorni in cui il loro cuore batteva alla vista di quell’enorme distesa d’acqua che poteva scatenarsi e facilmente portare all’affondamento di quei fragili battelli; inermi nell’osservare la morte di compagni di viaggio e dei loro corpi buttati con indifferenza in mare dagli scafisti, perché divenuti solo merce che appesantiva la barca. E ancora, come dimenticare la violenza su donne e ragazze, i lamenti di persone picchiate, altre con ferite aperte che si lamentavano, poca acqua, poco cibo. Nulla la possibilità di reagire, perché gli scafisti rappresentavano gli unici a cui affidarsi, pena la perdita della vita. In quello stato psicofisico quei minori giungevano così sulla nostra terra. Per cui dopo l’uscita dai centri di prima accoglienza il trovarsi davanti una persona, il tutore volontario, che gli parlava in tutt’altra maniera, che a volte lo portava a casa propria dandogli da mangiare del buon cibo, ridandogli dignità e rispetto, cercando di lenire le sue ferite psicologiche, era visto in un primo momento con diffidenza, con un misto di paura e speranza. Poi, abbandonando l’oscurità vissuta, quei giovani davano fiducia al tutore, di cui stupiva la gratuità del fare, e guardavano avanti verso un mondo migliore. Quel gruppo di tutori volontari rappresentava il solo punto di riferimento per loro nella nuova società. A quell’unico viso amico in un mondo ancora ostile per lingua e cultura s’aggrappavano e ritornavano a sorridere. Dall’altra parte era grande la felicità per i tutori di Accoglierete nel far ricomparire in quei ragazzi la speranza per un nuovo avvenire. L’idea di fondare l’Associazione venne da alcune persone sensibili, pronti anche a una necessaria preparazione culturale e psicologica per calarsi nel ruolo di tutore legale volontario spesso in difficoltà nel rapportarsi con le istituzioni preposte (Questura, Tribunale dei minori di Catania). L’essere così motivati catalizzò anche famiglie che accolsero le proposte di accogliere minori extracomunitari, aiutandoli nel cammino d’inclusione. Grazie alle tante iniziative l’associazione, la prima di questo genere in Italia, è diventata un faro a livello nazionale. Oggi, Accoglierete possiede una pregnante storia, ricca di tanti episodi. Sono tanti i minorenni d’allora che hanno raggiunto l’istruzione universitaria. Altri hanno trovato un dignitoso lavoro e tanti via in regioni d’Italia e d’Europa, spesso rimanendo in contatto con i propri tutori. Si è voluto in queste giornate porre l’attenzione sulle nuove sfide esponendo un’analisi sui problemi dell’immigrazione e riaffermando la volontà di continuare nello scopo, sfidando le nuove leggi più stringenti. Un intervento coinvolgente per la carica umana che lo contraddistingue è stato quello di Pietro Bartolo, europarlamentare, già medico di Lampedusa. In Albania i migranti saranno trattenuti fino a 18 mesi di Leo Lancari Il Manifesto, 10 novembre 2023 Quello che sorgerà a Gjader, in Albania, sarà un Cpr e non una struttura dove esaminare rapidamente le richieste di asilo, come aveva spiegato due giorni fa Matteo Piantedosi. A contraddire il ministro dell’Interno è stato ieri un fedelissimo della premier Giorgia Meloni come il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, alimentando così il sospetto che l’accordo tra Italia e Albania sia stato pensato e gestito da palazzo Chigi all’insaputa degli alleati. “Quello che accade in Albania è lo stesso che accade in Italia”, ha spiegato Fazzolari parlando a Porta a Porta. “Abbiamo fatto procedure accelerate, in 28 giorni siamo in grado di rispondere alla richiesta. Poi chi non ha diritto può essere trattenuto fino a 18 mesi in attesa del rimpatrio, il massimo consentito dalla legge italiana”. Qualche elemento di chiarezza in più potrebbe arrivare nei prossimi giorni da Giorgia meloni. Fino a ieri sera da Palazzo Chigi non era arrivata nessuna conferma ma dalla maggioranza si fa sapere che la premier starebbe valutando la possibilità di presentarsi in parlamento per riferire sulle questioni di maggiore attualità, dal conflitto in Medio oriente alle riforme, fino all’ultimo capitolo del dossier migranti, quello che riguarda appunto l’accordo siglato all’inizio della settimana con il premier albanese Edi Rama. “Vogliano risposte su temi sui quali continuiamo a non avere riscontri da parte del governo”, ha detto durante la capigruppo di ieri mattina alla Camera la presidente dei deputati dem, Chiara Braga, dando voce allo scontento che impera tra i banchi delle opposizioni. “Non c’è nessun problema a fare un dibattito parlamentare”, ha concesso Fazzolari, confermando però che l’intesa “non necessita di ratifica perché non è un nuovo trattato internazionale tra Italia e Albania”. Che la premier decida o meno di riferire alla Camere - sarebbe la seconda volta da marzo - il contestato accordo con Tirana prosegue comunque la sua marcia e apparentemente senza grandi ostacoli. Una portavoce della Commissione ha confermato di aver ricevuto la documentazione richiesta nei giorni scorsi al governo di Roma e quindi di essere adesso in grado di esprimere un giudizio. Per adesso l’unico vero sconquasso l’intesa tra Roma e Tirana sembra averlo creato nel Pd. Dal Nazareno ieri sono state smentite le voci, circolate in giornata, che il partito avrebbe chiesto l’espulsione del socialista Edi Rama dal Pse, dove tra l’altro il Partito socialista d’Albania di cui è leader è presente solo come osservatore. “Si è trattato di un cortocircuito mediatico, ci si è affrettati a spiegare dal Pd a poche ore dall’inizio a Malaga delle conferenza del Pse. Un “cortocircuito” che ha comunque avuto l’effetto di spaccare il Pd con i moderati contrari a ogni intervento punitivo nei confronti del leader albanese. Espellerlo, e perché, ha chiesto su Twitter Pierluigi Castagnetti: “Perché come capo del governo collabora con quello italiano?”. Replica sempre via Twitter dell’ex ministro Andrea Orlando: “Onestamente non mi pare che le nuove regole dell’Ue possano essere messe sullo stesso piano di un accordo che viola i diritti fondamentali”. Una polemica tutta interna al Pd, pare di capire. Rama, infatti, non è sembrato preoccupato più di tanto dalle divisioni italiane. Assente dal vertice di Malaga perché impegnato alò Forum della pace a Parigi, il premier albanese entra nel merito dell’accordo: “Nel pieno rispetto del Pd vorrei ripetere il mio unico punto di vista - dice -: cercare di aiutare l’Italia in questa situazione, dove nessuno in Europa sembra aver trovato una soluzione condivisibile da tutti, non è il massimo, ma è sicuramente il minimo che l’Albania deve e può fare. Se poi questo non è di sinistra in Italia, pazienza - è la conclusione - sembra che non sia neanche di destra in Albania”. Minniti: “L’accordo con l’Albania soltanto una misura tampone, resta il nodo dei rimpatri” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 10 novembre 2023 L’ex ministro: ora l’Europa si faccia sentire in Africa. Il precedente Londra-Ruanda non funzionò. “L’unico precedente è quello con Regno Unito-Ruanda del 2022. A oggi non è stato trasferito alcun migrante. Aggiungo: la preoccupazione per loro era l’immigrazione albanese. Non fossero cose serissime si potrebbe dire: la Gran Bretagna voleva portare gli albanesi in Ruanda, noi gli africani in Albania, non mi sembra una prova di grande lungimiranza”. Aveva lodato la linea Meloni. Ha cambiato idea? “Avevo apprezzato l’idea di un patto con l’Africa che includesse il piano Mattei che diventava un piano europeo, la lotta ai trafficanti di esseri umani e percorsi per l’immigrazione legale. Due mesi dopo, in uno scenario destabilizzato dall’attacco di Hamas, dal Mediterraneo orientale in fiamme e dai rapporti mutati con i paesi arabi moderati - elementi che influiranno tutti sui flussi migratori - mi sembra prevalga la tattica sulla strategia”. C’è chi considera l’accordo legittimo e chi una parodia di Guantanamo. Lei? “Bisognerà vedere concretamente come si traduce. Prima si era parlato di due centri, poi di uno. Non vorrei dare io una interpretazione autentica del Rama-pensiero. Ma mi sembra pesi l’incognita gigantesca della considerazione dell’extra territorialità”. Il rischio? “Un esempio: un richiedente asilo ha diritto a nominare l’avvocato e parlarci. Cosa accadrà? Andranno gli avvocati in Albania? Verrà lui? Chi pagherà? Non vorrei che questa complicata gestione mettesse in dubbio il diritto alla difesa, soprattutto di un richiedente asilo. C’è il rischio che le tensioni col sistema giudiziario si amplifichino”. L’idea è risolvere tutto in 28 giorni. Pochi? “Tempi difficilmente rispettabili. In ogni caso mi sembra consolidato un punto: o vengono velocemente rimpatriati o tornano in Italia. Ritorna quindi il nodo dei rimpatri con i Paesi di partenza quindi il tema dell’Africa. Guardiamo le cifre: oltre 145 mila arrivati e nella migliore delle ipotesi arriveranno a 4.000. Con questi numeri che senso ha?”. Secondo lei? “È chiaro che è una misura tampone che va nella logica dell’emergenza. Ma l’immigrazione è un dato strutturale del pianeta. Se era vero prima del 7 ottobre, questo principio diventa ancora più importante. Anzi vitale. C’è bisogno che l’Ue faccia sentire la sua voce. Invece anche stavolta ha scelto di non avere ruolo”. Scelto? “Il Consiglio d’Europa ha trovato una difficile mediazione sulle pause umanitarie, ma poi, all’assemblea Onu, l’Ue non è stata in grado di presentare alcun punto di vista unitario. E, al momento del voto, si è divisa in tre: una parte a favore della mozione della Giordania, una astenuta, un’altra contraria. Il segno dell’ininfluenza”. Il governo motiva l’accordo con la pressione record. L’Ue è stata lenta a decidere? “Ha perso una serie di occasioni. L’ultima al vertice straordinario di Malaga, dove bisognava presentare il piano di sostegno economico per l’Africa e la proposta di un patto con Unione Africana e Onu per contrastare flussi illegali e costruire percorsi legali. Se queste scelte fossero state fatte prima del 7 ottobre l’Europa avrebbe lanciato un ponte di fiducia verso l’Africa e il Mediterraneo di grandissimo valore nell’attuale tempesta”. Anche la Germania pensa a un accordo simile. Sbaglia? “Su questi temi nessuno si salva da solo. E l’Ue non può non occuparsi di tutto ciò perché un pezzo grande del suo destino è legato all’Africa. Più tardi lo capirà e peggio sarà per Europa. Non vorrei che l’idea dell’hot-spot albanese fosse l’abbandono di quella strategia. Ma ricordo quello che disse un grande generale cinese, Sun Zu, vissuto diversi secoli prima della nascita di Cristo: una strategia senza tattica è la via più lunga per arrivare alla vittoria, una tattica senza strategia è il rumore di fondo di una sconfitta”. Medio Oriente. Impegni delle Ong, è tragedia umanitaria e il governo tace di Silvia Stilli* Il Manifesto, 10 novembre 2023 Non si possono più accettare il genocidio in atto nella Striscia di Gaza e la gravissima crisi umanitaria che mette a rischio chi riesce a sopravvivere. L’apertura di corridoi umanitari in sicurezza deve essere garantita in maniera permanente, non per concessione del governo israeliano. Va preteso immediatamente il cessate il fuoco. L’AOI, l’Associazione delle Organizzazioni Italiane della società civile di solidarietà e cooperazione internazionale, ha condannato Hamas per l’attacco del 7 ottobre, chiesto il rilascio immediato delle persone private della libertà e preteso il rispetto del diritto internazionale a Gaza invasa dalle forze militari di Israele. Il 1 novembre, per ragioni di impossibilità nel garantire l’operatività nella Striscia, gli ultimi cooperanti delle Ong italiane sono stati evacuati. Lo staff locale continua ad essere operativo, nonostante gli uffici distrutti e lo stato di pericolo costante. AOI, come altre realtà, sta raccogliendo fondi per far arrivare aiuti nella Striscia e già alcuni invii sono giunti a destinazione, grazie alla rete di partner locali e internazionali. Il sostegno alla popolazione civile palestinese, soprattutto quella di Gaza, colpita da una punizione collettiva, non può essere lasciato alla libera iniziativa delle associazioni sostenute volontariamente dai cittadini. Le organizzazioni italiane aspettano una risposta certa da parte del governo per il mantenimento degli impegni presi con le organizzazioni del sistema Onu e con le Ong a Gaza e in Cisgiordania. Impegni che devono essere intensificati in un’emergenza così grande, con più di 1.500.000 civili sfollati in situazioni di assoluta precarietà e centinaia di migliaia persone nella zona Nord isolate, a partire dai feriti ricoverati negli ospedali. In tutta Gaza non vi sono ‘safe zones’. Gli ultimi dati raccolti parlano di 10.569 morti e 26.745 feriti; 171 le vittime in Cisgiordania, 2386 i feriti; 2.260 dispersi. Cifre impressionanti se paragonate a quelle delle vittime civili dal febbraio 2022 della terribile guerra in Ucraina: 9.806 morti, 17.962 feriti. Il segretario generale delle Nazioni unite chiede il cessate il fuoco e si dichiara “inorridito” dalla situazione umanitaria a Gaza, appellandosi al rispetto del diritto internazionale da parte della potenza occupante. Il capo dell’Ufficio dell’Alto Commissariato dei Diritti Umani a New York ha posto fine al proprio mandato affermando che le Nazioni Unite hanno di nuovo fallito, nel loro dovere di difendere il diritto internazionale. Le sue parole sono pesanti come pietre, e definiscono ciò a cui stiamo assistendo nella Striscia di Gaza “un caso di genocidio da manuale”, frutto di “un’ideologia coloniale etno-nazionalista”. Il direttore generale dell’OMS si dichiara “completamente scioccato” dagli attacchi ad ospedali e ambulanze. Per il Portavoce dell’Unicef Gaza è un cimitero di migliaia di minori. A queste voci si uniscono quelle di milioni di persone che nelle piazze di tutto il mondo chiedono la fine dell’assedio e del genocidio nella Striscia; tra loro, molte cittadine e cittadini israeliani. Le violenze di Hamas non giustificano decenni di negazione dei diritti del popolo palestinese, né l’occupazione illegale e l’impunità dei governi di Israele di fronte ad almeno 70 risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che condannano queste pratiche e impongono il rispetto della legalità internazionale. L’atteggiamento prevalente in Italia di stampa e media è discriminatorio verso chi condanna le violazioni e i crimini israeliani, rischiando l’accusa di antisemitismo. Esponenti di governo definiscono razziste associazioni come Amnesty o giustificano pubblicamente le stragi di civili a Gaza come un danno collaterale. Le Ong sono di nuovo sotto attacco con l’accusa di finanziare partner palestinesi collusi con i terroristi. Le opposizioni in Parlamento devono reagire con una posizione unitaria e forte, perché insieme alla vita di milioni di persone è a rischio la tenuta della democrazia nel nostro Paese. *Presidente AOI, Associazione Organizzazioni di Solidarietà e Cooperazione Internazionale Italiane Afghanistan. Quando le deportazioni di massa non fanno notizia di Andrea Venanzoni Il Riformista, 10 novembre 2023 Tra la brutalità delle forze di polizia del Pakistan e la morsa della miseria che attanaglia l’Afghanistan, sommata all’oppressione del regime dei Talebani, c’è un’intera umanità alla deriva. Lungo le alture battute da un gelido vento al confine tra Pakistan e Afghanistan, si agita una umanità alla deriva, incalzata dalla brutalità delle forze di polizia del Pakistan: centinaia di migliaia di profughi in fuga dal regime dei Talebani e dalla morsa della miseria che attanaglia un Paese roccioso e montuoso che pure nel corso dei secoli ha vinto imperi e spezzato il giogo di potenze coloniali e che oggi invece si aggomitola nella disperazione portata dall’islamismo radicale degli ex studenti coranici provenienti proprio dal confinante Pakistan. L’avviso, con scarso preavviso, brutale nello scenario che avrebbe avviato e realizzato, era giunto ad ottobre avanzato; le autorità pakistane hanno deciso di espellere dal Paese gli afgani privi di documenti e di titoli che ne legittimassero la permanenza in Pakistan. Numeri impressionanti, da esodo biblico; si parla di quasi un milione e seicentomila afgani che rischiano di essere allontanati con la forza, mentre si stima che a fine ottobre se ne siano volontariamente allontanati già quasi duecentomila, spaventati dai metodi scarsamente umanitari mostrati dalla polizia pakistana. Non si va troppo per il sottile, da quelle parti. Testimonianze e video che arrivano da quelle latitudini sono impressionanti, non solo per queste distese brulicanti di una umanità fusa in migliaia di corpi, senza speranza e senza più lacrime da versare, ma per gli orridi resoconti di furti, rapine, violenze, sopraffazione, angherie a cui i profughi vengono sottoposti. Come se non bastasse, queste centinaia di migliaia di individui, uomini, donne, bambini, anziani, un intero popolo, mancano di tutto; cibo, vestiti, acqua. Le condizioni igieniche sono tremende e il clima in quelle zone soggetto, come noto, a repentini mutamenti, con passaggi da un caldo torrido e desertico al gelo innevato delle alture. Per rendere una sia pur vaga idea quantitativa del disastro che si sta consumando nella generalizzata indifferenza dell’opinione pubblica, si immagini la popolazione della intera città di Milano, a cui aggiungere quella di Catania, lasciata a bivaccare in una terra di nessuno, senza aiuto, ausilio, conforto, medicine, mezzi di sussistenza e di sostentamento. E proprio la indifferenza appare una delle caratteristiche più odiose per un Occidente che ha eretto i diritti umani a vessillo e stella polare del suo operato, un Occidente in cui giornali, politici, università, piazze, come ha sottolineato Federico Rampini, sono sempre pronti a indignarsi, a divampare, a reclamare giustizia, per la negazione di un qualunque vero o presunto diritto o per i respingimenti alle frontiere e adesso pure per i centri di permanenza degli immigrati in Albania, serbando poi invece un indecoroso, claustrale silenzio su quella che è una delle più massicce e inumane deportazioni di massa mai viste. Gli afgani fanno poca notizia. Sperduti in quel quadrante geografico anche scarsamente individuabile da molti sulle cartine geografiche, di scarsissimo appeal mediatico-politico, senza grandi difensori della loro causa, sembrano contare assai meno della furiosa sarabanda montata per Gaza e per la causa palestinese, spesso pure trascolorante nel sostegno al vessillo di Hamas. Per questi sconfitti dalla storia e dalla ipocrisia dell’Occidente che fa gargarismi coi diritti umani, per questi miserabili, nel senso che fu proprio di Hugo, nessuno srotola striscioni dai balconi, nessuno organizza petizioni, con o senza asterischi, nessuno occupa le facoltà o interviene nei salotti televisivi, reclamando un sia pur minimale briciolo di attenzione. Di certo non va meglio nemmeno nel mondo islamico, dove però l’ipocrisia si era già snudata con gli stessi palestinesi. Tanto roboanti e minacciose erano state certe dichiarazioni di sostegno alla popolazione di Gaza, quanto nullo era stato l’interesse concreto ad ospitare i rifugiati in fuga da Gaza e da Hamas, più che dalle bombe israeliane. E così poco sorprende constatare quanto nulla davvero importi della sorte di questi loro sfortunati correligionari, che vengono espulsi, cacciati, sovente bastonati, da altri loro correligionari, in un corto circuito la cui prima vittima è il senso di umanità. Le sinistre mondiali poi, quelle che hanno caldeggiato qualunque genere di accoglienza, e che si sono battute contro le politiche a loro dire razziste e tiranniche di respingimenti, di contingentamento e secondo le quali non esistono confini o barriere o perimetri nazionali, muoiono lungo quella direttrice che divide Afghanistan e Pakistan e dentro cui si perde, si dipana, si attorciglia un oceano di corpi alla deriva, abbandonati e dimenticati da tutti. E viene quindi il sospetto che una certa richiesta di umanità fosse solo strumentale formula di polemica politica, piccina e contingente. E ora in questo oblio collettivo, si dimentica la lezione formulata da Kant, “agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche come fine, e mai come semplice mezzo”. La Polizia di Milano lo ha arrestato su mandato di cattura internazionale per associazione terroristica. È stato fermato in occasione dei controlli volti alla prevenzione e alla repressione dei reati sulle linee metropolitane, mostrandosi fin da subito aggressivo nei confronti degli agenti e pronunciando a voce alta la frase “Allah Akbar”. E, come se non bastasse, ha provato anche ad afferrare dal suo zaino un coltello con una lama di oltre 12 centimetri. L’identità dell’uomo è stata presto ricostruita: un algerino di 37 anni ricercato in Algeria perché ritenuto appartenente alle milizie dello Stato Islamico oltre che impiegato nel teatro bellico siro-iracheno. Sarà estradato in Algeria il prossimo 22 novembre; in attesa è stato portato alla casa circondariale San Vittore. L’arresto, avvenuto in seguito alla fase dei controlli del caso, è scattato la sera del 29 agosto nella stazione della metropolitana di Cadorna. Negli atti si legge che il 37enne avrebbe non solo tentato di eludere il controllo alla richiesta di documenti ma avrebbe anche spintonato gli agenti. Nel 2015 avrebbe deciso di lasciare l’Algeria per andare a combattere in Siria per l’Isis. Matteo Salvini, vicepresidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture, sui propri canali social ha ringraziato le forze dell’ordine per il lavoro svolto. “Avanti così, inseguiamoli uno per uno e rispediamoli a casa”, ha affermato l’ex titolare del Viminale. Per Giuseppe Sala, sindaco di Milano, l’arresto dell’algerino è “un’ottima cosa”. Riccardo De Corato, deputato di Fratelli d’Italia ed ex vicesindaco del capoluogo lombardo, ha invitato a tenere alta la guardia alla luce della pericolosa fase storica che l’Occidente sta attraversando: “A Milano ci sono circa 150.000 musulmani: costoro, che si radunano nelle moschee della città e solo nella nostra ce ne sono 12 abusive, chi li controlla? Chi verifica ciò che fanno nei loro luoghi di culto e quello che dicono gli imam nei sermoni?”. Congo. “Fermare la violenza è ecologia. Da medico curo le donne stuprate” di Edoardo Vigna Corriere della Sera, 10 novembre 2023 Il Nobel per la pace che ha scelto di correre come presidente: “Le aggressioni crescono intorno alle aree minerarie. C’è un legame fra degrado ambientale e danno alle comunità”. Nel 2018, un anno prima del Covid, Denis Mukwege, 68 anni, ha vinto il Premio Nobel per la Pace: ginecologo e ostetrico, aveva fondato l’ospedale Panzi di Bukavu, nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, dove è diventato uno dei massimi esperti mondiali nel trattamento dei danni fisici dovuti allo stupro. Stupri di guerra, per lo più, quelle guerre che nel suo Paese sono senza fine. All’ospedale, e con la sua Fondazione, ha curato più di 80mila donne. Ora ha deciso di provare a cambiare le cose anche in un altro modo: alle elezioni di dicembre correrà per la presidenza di un Paese di 90 milioni di persone, pieno di immense ricchezze naturali sfruttate senza limiti né rispetto, e di altrettanto enormi povertà. Essere stato così immerso negli orrori dei più diversi conflitti ha dato al dottor Mukwege la forza e la convinzione di vedere cosa occorre fare: da dove si deve partire, allora, per creare una società giusta e sostenibile? “Per costruire una società del genere qui dobbiamo prima affrontare le cause profonde della violenza e dei conflitti. Per me, raggiungere l’uguaglianza di genere è una componente chiave. È imperativo dare priorità all’eliminazione della violenza sessuale e di genere. Inizia con la garanzia dell’accesso alle cure, l’attuazione di strategie di prevenzione, il rafforzamento delle reti di supporto a chi è sopravvissuto e dei meccanismi legali per perseguire i trasgressori. Allo stesso tempo, dobbiamo adottare misure di “giustizia di transizione”, offrendo riparazione per le atrocità del passato e promuovendo la riconciliazione all’interno della comunità. Combinando questi sforzi con l’impegno per la sicurezza, l’istruzione, l’emancipazione economica e una governance responsabile, possiamo aprire la strada a una società fondata sulla dignità, l’uguaglianza e una pace duratura”. Lei ha detto: “Credo nel cambiamento, altrimenti avrei abbandonato la battaglia. Non ho dubbi che i congolesi sarebbero in grado di scavalcare le montagne: hanno solo bisogno di sapere che il cambiamento è possibile”. Qual è il primo cambiamento necessario? “Quello cruciale è la fiducia collettiva nella possibilità del cambiamento stesso. Quando il popolo congolese crederà con tutto il cuore nella propria capacità di spezzare il ciclo dello sfruttamento e della sofferenza, troverà la forza e la determinazione per affrontare le cause profonde della violenza e promuovere la giustizia. Questa è la pietra angolare di ogni futuro di speranza”. Cosa le fa ancora credere negli esseri umani, nonostante ciò che ha visto? “È proprio perché sono stato testimone dell’incredibile resilienza e forza degli esseri umani, in particolare delle donne che ho curato all’ospedale e alla Fondazione Panzi che hanno vissuto orrori indicibili. Nonostante sopportino un dolore inimmaginabile, trovano il coraggio di guarire e ricostruire non solo le loro vite, ma anche le loro comunità. La loro forza è stata la forza trainante della mia dedizione a questo lavoro per oltre 25 anni”. La sostenibilità riguarda anche l’ambiente in cui vivete. La foresta del fiume Congo è il primo polmone verde della Terra, miniera delle materie più appetite da grandi potenze e multinazionali, oro o coltan che sia. L’avidità per queste risorse non può che alimentare il ciclo di violenza e instabilità... “È un circolo vizioso, guidato dalla domanda di minerali critici per la cosiddetta transizione verde dell’Occidente, che aggrava le sfide ambientali che la regione deve affrontare. Alla Fondazione abbiamo osservato una correlazione preoccupante: i tassi di violenza sessuale aumentano intorno alle aree minerarie. Ciò evidenzia il legame diretto tra lo sfruttamento delle risorse, il degrado ambientale e il danno alle comunità vulnerabili. È fondamentale affrontare questi problemi sistemici nell’industria mineraria, fornendo al contempo un supporto alle sopravvissute. In tal modo, possiamo proteggere sia le donne sia l’ambiente da ulteriori danni”. Il suo Paese chiede maggiori finanziamenti per i progetti climatici. Senza, nuove trivellazioni petrolifere potrebbero sostituire le piccole attività, portando altre devastazioni sociali e ambientali... “Penso che il più importante “progetto climatico” nella Repubblica Democratica del Congo dovrebbe concentrarsi sull’eliminazione dello sfruttamento, della violenza e degli abusi sessuali prevalenti nelle comunità minerarie. Affrontare questo problema critico riduce il degrado ambientale associato all’estrazione delle risorse ma dà anche priorità alla sicurezza e alla dignità delle donne colpite in modo sproporzionato dalla violenza sessuale in queste aree. Concentrarsi sull’eliminazione di tale violenza stabilisce un precedente vitale per una gestione responsabile delle risorse, e significa creare un ambiente in cui il benessere delle comunità e la conservazione del mondo naturale siano tenuti in uguale considerazione”. Viviamo tempi orribili, che lei conosce bene. Qual è la prima cosa a cui pensa quando pensa alla guerra? “Quando penso alla guerra non posso fare a meno di pensare al suo impatto sproporzionato sui più vulnerabili. I corpi delle donne e dei bambini troppo spesso diventano il campo di battaglia. Sono testimone delle sopravvissute agli stupri in tempo di guerra, l’insondabile sofferenza che sopportano pesa molto sul mio cuore. Dai neonati alle donne di 80 anni: la violenza non conosce limiti”. Qual è la cosa più terribile a cui lei ha dovuto assistere? “Ho assistito a non poche atrocità. Dal massacro dell’ospedale di Lemera - dove ho iniziato la mia carriera e dove sono stati uccisi i miei pazienti e colleghi - al reparto chirurgico di Panzi, dove ho operato i corpi di piccoli violentati. Sono queste le cose che mi motivano a continuare a lottare”. Lei è il massimo esperto di ricostruzione interna del tratto genitale femminile dopo uno stupro, guida un team di migliaia di persone che compiono anche 10 interventi chirurgici al giorno. Accanto al suo ospedale ha costruito una struttura dove le pazienti - e i loro bimbi - trovano rifugio. Le donne imparano a cucire, a tessere, per diventare autosufficienti e ricominciare a vivere. Ma è possibile ricominciare a vivere dopo un’esperienza così devastante? “Il potere delle donne è dimostrato ogni giorno dalla resilienza e dall’ottimismo delle nostre sopravvissute, molte delle quali hanno sperimentato l’inimmaginabile. Eppure, nonostante la sofferenza, sono determinate a costruire una vita migliore per sé stesse e, se sono madri, per i loro figli. Una componente chiave del modello Panzi è fornire alle pazienti non solo cure mediche, ma anche opportunità di buona vita. Molte di loro sono state abbandonate dalle famiglie e noi le dotiamo di competenze e risorse lavorative essenziali, consentendo di ritrovare indipendenza e fiducia in sé stesse. Forniamo supporto psicologico e accesso ai servizi legali: testimoniare il potere trasformativo di questo approccio olistico fa riaffiorare la forza dello spirito umano, anche di fronte a un dolore profondo”. La Fondazione Lavazza e la Fondazione Panzi hanno avviato un nuovo grande progetto triennale: l’obiettivo è dare accesso a nuove opportunità lavorative alle vittime di violenza, attraverso un percorso di formazione nella produzione e commercializzazione del caffè, in particolare la coltivazione e la tostatura dei chicchi, per 300 donne. Il Sud Kivu, dove ha sede Panzi, è la principale regione di coltivazione del caffè nella RDC. Perché è importante? “Questo progetto affronta la questione critica dell’emancipazione economica per le donne vittime di violenza. È pensato per essere completo, per avere un impatto su ogni livello della catena di approvvigionamento del caffè. Sostenendo le sopravvissute e altre donne vulnerabili, apre nuove opportunità e fornisce loro capacità preziose in un settore fiorente. Una delle sue caratteristiche innovative è la formazione a più livelli: le donne sono dotate non solo delle competenze per coltivare e raccogliere i chicchi di caffè, ma anche per tostarli e servire come bariste. Questo approccio multilivello è strategico, consente loro di beneficiare dell’aspetto fondamentale della catena di approvvigionamento, ma anche di attingere alle fasi più redditizie. Rappresenta uno sforzo olistico per dare potere alle donne che hanno affrontato sfide immense. E catalizza un impatto trasformativo che va ben oltre l’emancipazione economica immediata, dando forma a una distribuzione globale più equa della ricchezza e a un futuro più equo e resiliente per queste donne e per le loro comunità. Eh sì, perché sfrutta anche il significato storico del caffè nella RDC per creare un futuro sostenibile per tutti”. In vent’anni, l’ospedale e la Fondazione Panzi hanno sviluppato un modello di sostegno per le donne che, fra i molteplici ostacoli, hanno affrontato anche lo stigma sociale che può arrivare a impedire loro di tornare nelle comunità e nelle famiglie. Dei 4 pilastri (cure mediche, supporto psicologico, aiuto legale e reinserimento socioeconomico) è su quest’ultimo che si muove la collaborazione con Fondazione Lavazza. È così essenziale essere indipendenti? “Raggiungere l’indipendenza è davvero un aspetto vitale del processo di recupero. Svolge un ruolo cruciale nel consentire di ricostruire la propria vita. Permette di provvedere a sé stesse, ma anche di contribuire alle comunità e famiglie. Attraverso collaborazioni come con la Fondazione Lavazza, le donne acquisiscono un senso di professionalità e autosufficienza. Che fa molto per superare lo stigma sociale associato alle loro esperienze passate e le aiuta a reintegrarsi con dignità e scopo. Inoltre, questa collaborazione contribuisce anche alla trasformazione della società. Stiamo creando un’industria più inclusiva ed equa coinvolgendo le donne a tutti i livelli della catena di approvvigionamento del caffè. Questo abbatte i tradizionali ruoli di genere e sfida le norme sociali, dimostrando che le sopravvissute alla violenza sessuale possono essere partecipanti attive”. Nel 2012 lei tenne un discorso all’Onu per sensibilizzare il mondo sul problema della violenza come arma di guerra e per condannare l’impunità per gli stupri di massa in Congo. Pochi mesi dopo, quattro uomini armati hanno attaccato la sua casa, tenendo in ostaggio le sue figlie. Dopo quell’episodio, è volato all’estero ma un anno dopo è tornato. Cosa le ha fatto cambiare idea? “Sono tornato seguendo la chiamata delle donne della comunità, molte delle quali ex pazienti. Hanno iniziato a vendere frutta e verdura per raccogliere i soldi per il mio biglietto aereo di ritorno. Il loro coraggio ha toccato nel profondo il mio cuore, facendomi superare le paure, riportandomi dove c’era più bisogno di me”. Papa Francesco, che ha incontrato in primavera, ha detto che siamo in una Terza guerra mondiale “a pezzi” che il mondo ha visto con l’invasione dell’Ucraina. Fra le guerre più dimenticate quella in Congo è al primo posto. Fa parte di questo quadro “globale”? “Innegabilmente. È la crisi umanitaria che ha provocato più vittime dalla Seconda guerra mondiale. Ma ciò che rende questo conflitto particolarmente allarmante è la sua natura geopolitica di lunga data, con diverse nazioni coinvolte. Le conseguenze del non affrontarla vanno ben oltre i nostri confini. I gruppi armati interni, spesso sostenuti da attori esterni, hanno cercato di sfruttare le aree minerarie come mezzo per finanziare le loro operazioni. Gli attori esterni, vicini o potenze globali, sono stati coinvolti o lo hanno indirettamente esacerbato con i loro interessi. L’incapacità di portare qui la pace minaccia il delicato equilibrio dell’economia mondiale”.