Ergastolo ostativo, no della Cassazione al nuovo rinvio alla Consulta di Giulia Merlo Il Domani, 9 marzo 2023 I giudici di piazza Cavour hanno ritenuto di non sollevare una nuova questione di costituzionalità. Gli atti torneranno al tribunale di sorveglianza per valutare se la legge approvata dal governo Meloni permetta un mutamento delle condizioni di detenzione del detenuto che aveva sollevato il caso. I giudici hanno deciso in modo conforme alla memoria della procura generale, rinviando gli atti al tribunale di sorveglianza dell’Aquila, perchè valuti nuovamente il caso del detenuto Salvatore Pezzino, se esistono i presupposti per poter accedere alla liberazione condizionale. Pezzino è da 30 anni in carcere in regime ostativo e non ha mai avuto diritto ai benefici perché non ha collaborato con la giustizia. Eventualmente, potrà essere il tribunale di sorveglianza a sollevare nuove questioni di costituzionalità, qualora le riscontrasse. Il suo caso, infatti, era quello che aveva determinato l’ordinanza della Consulta, che aveva stabilito l’incostituzionalità del 4 bis nella parte in cui prevedeva l’impossibilità assoluta di ottenere benefici carcerari in caso di mancata collaborazione dei detenuti sottoposti a quel regime detentivo. Superato, così, il dubbio di costituzionalità sulle nuove norme in materia di ostatività. La riforma era contenuta nel primo decreto legge approvato dall’esecutivo, pochi giorni prima dell’udienza della Consulta che avrebbe dichiarato incostituzionali le precedenti previsioni. Il caso - La vicenda è molto complicata dal punto di vista giudiziario e riguarda il cosiddetto regime ostativo, previsto dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, che nella sua formulazione originaria prevedeva la subordinazione di qualsiasi beneficio penitenziario alla collaborazione con la giustizia, nel caso di detenuti per alcuni gravi reati, come mafia e terrorismo. Nello stabilirne l’incostituzionalità, la Consulta aveva deciso di lasciare tempo al parlamento di legiferare in modo organico. Il governo Meloni, recependo il lavoro parlamentare della precedente legislatura, ha approvato nell’ottobre un decreto legge poi convertito, che prevede alcune stringenti previsioni per accedere ai benefici anche in caso di non collaborazione. Per questo, la Consulta ha stabilito di restituire gli atti al giudice che glieli aveva mandati - ovvero la Cassazione - per una nuova valutazione del caso concreto di Pezzino, alla luce della riforma. “Le nuove disposizioni”, ha scritto la Consulta, previste dal decreto legge approvato dal governo il 31 ottobre, “incidono immediatamente e direttamente sulle norme oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, trasformando da assoluta in relativa la presunzione di pericolosità che impedisce la concessione dei benefici e delle misure alternative a favore di tutti i condannati (anche all’ergastolo) per reati cosiddetti “ostativi”, che non hanno collaborato con la giustizia”. Secondo molti giuristi, tuttavia, le nuove norme non avrebbero risolto l’incostituzionalità e anzi, a ben vedere, la formulazione renderebbe ancora più afflittiva la previsione. I giudici di piazza Cavour, invece, hanno ritenuto che le nuove norme non sollevano evidenti dubbi di costituzionalità e dunque non hanno investito la Consulta di un nuovo giudizio sul 4 bis riformato. Un sollievo per il governo Meloni, che altrimenti rischiava un nuovo fronte aperto in materia di giustizia. Proprio ieri, infatti, è stata fissata per il 18 aprile l’udienza della Corte costituzionale per il caso di Alfredo Cospito, che rischia la condanna all’ergastolo per il reato di strage politica. La Consulta, quindi, dovrà valutare se nella fattispecie di strage politica deve operare o meno il divieto di bilanciamento tra “recidiva reiterata specifica” nella commissione di un reato e la “lieve entità” del fatto. Ergastolo ostativo, la Cassazione rinvia. E c’è il rischio della prova diabolica di Valentina Stella Il Dubbio, 9 marzo 2023 Torna davanti al Tribunale di Sorveglianza il caso che ha fatto finire il 4 bis davanti alla Corte costituzionale. Nessuno tocchi Caino: “Anche noi rispediamo indietro la riforma”. Ieri la Prima sezione penale di Cassazione, riunita in Camera di Consiglio, ha deciso sul ricorso di Salvatore Francesco Pezzino contro l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di L’Aquila, con il quale gli era stata negata la liberazione condizionale in ragione della mancata collaborazione con la giustizia (e preso atto dell’assenza della cosiddetta collaborazione impossibile). L’uomo, attualmente recluso nel carcere sardo di Tempio Pausania e in carcere dal 1984, tramite l’avvocato Giovanna Araniti aveva presentato il ricorso “pilota” che ha spinto la Consulta a fare pressioni sul legislatore perché modificasse la norma sul fine pena mai. “La decisione - spiega una nota di piazza Cavour - segue alla restituzione degli atti alla Corte di Cassazione che era stata disposta dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 227 del 10 novembre 2022, alla quale era stata rimessa la questione di legittimità costituzionale delle norme del cd. ergastolo ostativo, perché era sopraggiunta una nuova disciplina per l’accesso ai benefici penitenziari per i detenuti non collaboranti con condanna all’ergastolo per reati cd. ostativi (d. l. 31 ottobre 2022, n. 162, conv. con modificazioni con la l. 30 dicembre 2022, n. 199). Il Collegio ha annullato l’ordinanza impugnata, così come richiesto anche dalla Procura Generale”. La difesa in via principale invece aveva chiesto di far tornare la nuova norma all’attenzione propria della Consulta, considerando che c’è una disposizione transitoria che prevede l’applicazione retroattiva della legge, contenendo elementi peggiorativi. In subordine era stato chiesto l’accoglimento del ricorso previa lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni peggiorative. “L’annullamento - prosegue il comunicato - è stato disposto con rinvio al Tribunale di sorveglianza di L’Aquila affinché, alla luce della nuova disciplina, valuti con accertamenti di merito preclusi al giudice di legittimità la sussistenza o meno dei presupposti ora richiesti dalla legge per la concessione dei benefici penitenziari ai detenuti per reati cd. ostativi non collaboranti”. Questa decisione non deve sorprendere: era più che plausibile che gli ermellini rinviassero, considerato che la nuova norma fa cadere la preclusione della non collaborazione per l’accesso ai benefici. Toccherà quindi ai magistrati abruzzesi valutare se per Pezzino esistono i presupposti per poter accedere alla liberazione condizionale. Il timore, come sottolineato da diversi giuristi, è che però dovrà superare una prova diabolica per ottenere quella libertà persa ormai da decenni. Come ci spiega il legale di Pezzino, l’avvocato Giovanna Araniti: “Al momento non abbiamo le motivazioni della decisione adottata oggi dalla Cassazione (ieri, ndr). La difesa rimane in attesa di poterle leggerle. Adesso è prematura qualsiasi considerazione, in quanto la motivazione potrebbe essere molto complessa sulle varie questioni sollevate”. Ciò non esclude che in base ad essa la difesa possa chiedere al Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila di sollevare nuovamente un dubbio di costituzionalità. Insomma la strada per Pezzino per vedersi libero è ancora lunga. Ma, come ci disse in una intervista esclusiva, “sono dell’idea che, seppur tra sconforto e sofferenza, il “gioco vada portato avanti fino alla fine perché finché c’è vita c’è speranza, finché la lucidità regge”. In merito alla decisione della Cassazione hanno commentato i dirigenti di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini, Sergio d’Elia ed Elisabetta Zamparutti: “Rinvio è la parola che ha connotato la riforma del 4bis dopo la condanna dell’Italia da parte della Cedu nel caso Viola vs Italia. La Corte Costituzionale ha rinviato al Parlamento, poi ha rinviato l’esame della legge di conversione del decreto alla Cassazione che a sua volta ha rinviato al Tribunale di Sorveglianza la valutazione del caso. Rinviare è rimandare indietro e questa è la valutazione che facciamo di questa riforma del 4bis che, seppur metta la parola fine alla presunzione assoluta di pericolosità, introduce tanti e tali paletti, da rendere davvero difficile l’esercizio del diritto alla speranza”. Per loro “la partita però non è ancora chiusa, perché il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha ancora aperta la procedura nei confronti dell’Italia. È a questi organismi sovranazionali europei (Comitato dei Ministri e Corte Europea) che Nessuno tocchi Caino con il suo monitoraggio continuerà a fornire tutti gli elementi per valutare se la nuova normativa e la sua applicazione in concreto rispetta la sentenza Viola contro Italia”. Sull’ergastolo ostativo continua il gioco dell’oca: si torna al Tribunale di sorveglianza di Angela Stella Il Riformista, 9 marzo 2023 Sul ricorso dell’ergastolano Pezzino (che vorrebbe accedere ai benefici pur essendo non collaborante) la Cassazione ha disposto il rinvio al TdS dell’Aquila perché valuti sulla base della riforma del regime ostativo del governo Meloni. No al rinvio alla Corte costituzionale. Ieri la Prima sezione penale di Cassazione ha deciso sul ricorso dell’ergastolano ostativo Salvatore Pezzino contro l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di L’Aquila, con la quale gli era stata negata la liberazione condizionale in ragione della mancata collaborazione con la giustizia (e preso atto dell’assenza della cd. collaborazione impossibile). Come ormai noto, si tratta del caso arrivato alla Corte Costituzionale che ha prima ritenuto l’ergastolo ostativo incompatibile con la Costituzione, in quanto veniva negata la possibilità di accedere al beneficio ai non collaboranti, poi ha dato al Parlamento (troppo) tempo per una nuova legge ed infine a novembre ha restituito gli atti alla Cassazione a cui ha chiesto di rivalutare la vicenda alla luce della nuova norma introdotta dal Governo Meloni all’interno del pacchetto del decreto anti-rave. Il Collegio dei giudici ha annullato l’ordinanza impugnata, così come richiesto anche dalla Procura Generale. L’annullamento è stato disposto con rinvio al Tribunale di sorveglianza di L’Aquila affinché, in base alla nuova disciplina, “valuti con accertamenti di merito preclusi al giudice di legittimità la sussistenza o meno dei presupposti ora richiesti dalla legge per la concessione dei benefici penitenziari ai detenuti per reati cosiddetti ostativi non collaboranti”, scrive in una nota la Cassazione. Nella istanza impugnata il Tribunale non si era proprio potuto pronunciare nel merito perché Pezzino era non collaborante e non c’era appunto la successiva decisione della Consulta. La difesa in via principale invece aveva chiesto agli ermellini di far tornare la nuova norma all’attenzione propria della Consulta, considerando che c’è una disposizione transitoria che prevede l’applicazione retroattiva della legge, contenendo elementi peggiorativi. In subordine era stato chiesto l’accoglimento del ricorso previa lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni peggiorative. Come ci spiega il legale di Pezzino, l’avvocato Giovanna Araniti: “al momento non abbiamo le motivazioni della decisione adottata oggi dalla Cassazione (ieri, ndr). La difesa rimane in attesa di poterle leggerle. Adesso è prematura qualsiasi considerazione, in quanto la motivazione potrebbe essere molto complessa sulle varie questioni sollevate”. Ciò non esclude che in base ad essa la difesa potrebbe nuovamente chiedere di sollevare il dubbio dinanzi al Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila. Insomma ma la strada per Pezzino per vedersi libero è ancora lunga. In merito alla decisione della Cassazione hanno commentato i dirigenti di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini, Sergio d’Elia ed Elisabetta Zamparutti: “Rinvio è la parola che ha connotato la riforma del 4bis dopo la condanna dell’Italia da parte della Cedu nel caso Viola vs Italia. La Corte Costituzionale ha rinviato al Parlamento, poi ha rinviato l’esame della legge di conversione del decreto alla Cassazione che a sua volta ha rinviato al Tribunale di Sorveglianza la valutazione del caso. Rinviare è rimandare indietro e questa è la valutazione che facciamo di questa riforma del 4bis che, seppur metta la parola fine alla presunzione assoluta di pericolosità, introduce tanti e tali paletti, da rendere davvero difficile l’esercizio del diritto alla speranza”. Per loro “la partita però non è ancora chiusa, perché il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha ancora aperta la procedura nei confronti dell’Italia. È a questi organismi sovranazionali europei (Comitato dei Ministri e Corte Europea) che Nessuno tocchi Caino con il suo monitoraggio continuerà a fornire tutti gli elementi per valutare se la nuova normativa e la sua applicazione in concreto rispetta la sentenza Viola contro Italia”. La Cassazione rimanda gli atti al TdS: “Valuti se mafioso che non collabora può essere liberato” di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 9 marzo 2023 Al primo vaglio di legittimità, dunque, gli ermellini hanno promosso la riforma dell’ergastolo ostativo - uno dei primi atti dell’esecutivo di destra - che ha allentato i paletti che precludevano i benefici penitenziari in favore dei condannati per reati gravi ritenuti ostativi a concessioni premiali. Si tratta del meccanismo che vieta a mafiosi e terroristi, condannati al fine pena mai, di accedere ai benefici penitenziari e alla libertà vigilata, dopo 26 anni di detenzione, se non collaborano prima con la magistratura. Il tribunale di Sorveglianza deve valutare se un detenuto condannato all’ergastolo per reati di mafia può essere liberato anche se non ha mai collaborato con la giustizia, alla luce della nuova norma varata dal governo nei mesi scorsi. È questo il senso della decisione della Cassazione, che ha ordinato un nuovo giudizio al Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila dopo il ricorso presentato dalla difesa di Salvatore Pezzino, 61 anni, condannato per mafia e omicidio. Pezzino, originario di Partinico, ha già scontato più di trent’anni anni di carcere in regime ostativo, cioè senza alcun beneficio perché non ha mai collaborato. Dopo l’udienza in camera di consiglio la Suprema corte ha annullato con rinvio l’ordinanza impugnata, in seguito alla restituzione degli atti da parte della Corte Costituzionale, alla luce delle nuove norme del governo di Giorgia Meloni, varate con il decreto legge del 31 ottobre scorsa. Al primo vaglio di legittimità, dunque, gli ermellini hanno promosso la riforma dell’ergastolo ostativo - uno dei primi atti dell’esecutivo di destra - che ha allentato i paletti che precludevano i benefici penitenziari in favore dei condannati per reati gravi ritenuti ostativi a concessioni premiali. E’ questa l’ultima puntata della questione relativa all’ergastolo ostativo, il meccanismo che vieta a mafiosi e terroristi, condannati al fine pena mai, di accedere ai benefici penitenziari e alla libertà vigilata, dopo 26 anni di detenzione, se non collaborano prima con la magistratura. Un meccanismo inventato da Giovanni Falcone, che però la Consulta aveva considerato incostituzionale nel maggio del 2021. Una decisione alla quale si era arrivati dopo che Pezzino, difeso dall’avvocata Giovanna Araniti, aveva presentato ricorso al tribunale di Sorveglianza chiedendo la liberazione condizionale. Il Parlamento aveva un anno di tempo per riscrivere la norma che vieta la libertà vigilata per boss e terroristi che non collaborano: in alternativa pericolosi capimafia, autori di stragi come i fratelli Graviano e Leoluca Bagarella, sarebbero tornati in libertà. La fine anticipata della legislatura, però, aveva fatto naufragare l’iter parlamentare. Dopo le elezioni, dunque, il nuovo governo di centrodestra aveva varato un decreto, modificando la norma sull’ostativo così come prevedevano le indicazioni della Consulta. Dopo l’approvazione della nuova legge, dunque, la corte Costituzionale aveva restituito gli atti alla Cassazione. Ai giudici della Consulta “era stata rimessa la questione di legittimità costituzionale delle norme del cosiddetto ergastolo ostativo, perché era sopraggiunta una nuova disciplina per l’accesso ai benefici penitenziari per i detenuti non collaboranti con condanna all’ergastolo per reati cosiddetti ostativi”, spiega la Cassazione. “Il Collegio odierno ha annullato l’ordinanza impugnata, così come richiesto anche dalla Procura Generale. L’annullamento è stato disposto con rinvio al Tribunale di sorveglianza di L’Aquila affinché, alla luce della nuova disciplina, valuti con accertamenti di merito preclusi al giudice di legittimità la sussistenza o meno dei presupposti ora richiesti dalla legge per la concessione dei benefici penitenziari ai detenuti per reati cd. ostativi non collaboranti”, continua la prima sezione penale della Suprema corte, spiegando perché ha rinviato la questione al tribunale di Sorveglianza. Alla luce della nuova disciplina, dunque, i giudici de L’Aquila dovranno valutare con accertamenti di merito la sussistenza o meno dei presupposti ora richiesti dalla legge per la concessione dei benefici penitenziari ai detenuti per reati ostativi che non collaborano con la giustizia. Finora il tribunale di Sorveglianza non era mai entrato nel merito del caso Pezzino ritenendo che, con le vecchie norme, l’assenza della collaborazione gli precludesse in ogni caso la liberazione condizionale che gli avrebbe consentito di uscire dal carcere dopo 30 anni. Un’ipotesi che adesso è percorribile, anche senza la collaborazione della giustizia. La condotta del detenuto, però, deve essere valutata alla luce di tutta una serie di paletti molto stringenti. 41 bis, quando il carcere diventa vendetta di Stato di Franca Garreffa* icalabresi.it, 9 marzo 2023 Il caso Cospito ha riaperto il dibattito sul fine pena mai. Una misura pensata per i capimafia ma che spesso finisce per accantonare i principi della Costituzione e ridursi a trattamento disumano a prescindere dai reati commessi dai detenuti. Preferisco sia Claudio a parlare di sé affinché la terribilità di pene come l’ergastolo ostativo e il 41 bis non siano considerate una forza motrice in grado di annullare l’orientamento al crimine. Si può fare invece qualcosa in più, non in termini di terribilità nonostante un Parlamento a trazione giustizialista. E Claudio è un esempio concreto di “quel qualcosa in più” davvero funzionale a riconsiderare le proprie azioni e cambiare. Il regime di cui all’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario è una misura la cui esigenza è incontestabile a mio giudizio. Ma riguarda solo coloro che si ritiene possano dare ordini dal carcere ai propri sottoposti. Quindi, è una misura strettamente necessaria all’interruzione dei rapporti tra figure apicali di associazioni criminali o terroristiche e loro affiliati all’esterno. Individualisti e associazioni - Non ritengo, dunque, inutile questa misura in relazione alle motivazioni che l’hanno concepita. Il problema è che scuote le coscienze per come viene applicata. Si tratta di una vera e propria tortura e indigna oltremodo il fatto che l’abbiano inflitta persino a Cospito, che arriva da dieci anni scontati in AS2, che certamente si è reso responsabile di reati che prevedono pene elevatissime pure in assenza di vittime. Ma non si tratta di reati che prevedono il regime del 41-bis, che non si applica neppure agli associati alle organizzazioni criminali ma solo alle figure apicali, figuriamoci a un anarchico individualista. 41 bis: legittimo, ma con dei limiti - Va sottoposto a severa critica sia l’uso smodato e reiterato di questa sanzione sia come essa viene applicata perché è un regime di sostanziale isolamento e di afflizioni che non hanno alcuna logica. La sua messa in pratica ne ha di fatto smentito le intenzioni originarie. Intanto raramente si verifica una revoca di tale misura. La maggior parte dei condannati ne subisce automaticamente la proroga ben oltre il decennio e con il corollario costante di inutili vessazioni. Gravi malati oncologici ormai privi di qualsiasi autonomia e funzioni o persone con patologie psichiatriche irreversibili quali ordini dovrebbero impartire? Che senso ha il limite di un colloquio al mese con i familiari se la conversazione avviene per mezzo di un citofono con un vetro divisorio e tra l’altro tutto registrato? Perché limitare il numero di libri che si possono tenere in cella? Come fa ad esserci una perdurante attualità criminale di fronte a un tempo così lungo per circa 750 persone? Questo è all’incirca il numero di detenuti al regime di isolamento. È vero che la Corte costituzionale, la Corte europea dei diritti umani e il Comitato europeo per la prevenzione della tortura hanno dichiarato che il 41 bis è legittimo e compatibile con il divieto di trattamenti degradanti o contrari al senso di umanità. Contestualmente, però, vi è sempre stata la sottolineatura sui limiti temporali all’applicazione del 41-bis, invocandone la temporalità, la provvisorietà e la sua revoca. Invece, si verifica sempre una superficiale e irragionevole quanto inutile replica negli anni. Isolamento e diritti - Sono persuasa che andrebbero raccolte testimonianze e studiati i referti medici di persone che hanno vissuto questa condizione per mostrare lo stato di un corpo e di una mente dopo l’esperienza di decenni di isolamento. Le neuroscienze - con l’apporto di altre discipline quali la psicologia, la sociologia, la psichiatria, la medicina legale, le scienze del comportamento e la genetica comportamentale - dovrebbero mostrare le conseguenze di tale trattamento, altro che compatibile se non è applicato per come è scritto sulla carta. Il problema è che la società non ha voglia di verità e giustizia. Ormai è troppo incattivita e asservita a una logica eminentemente repressiva della lotta alle mafie e per questo il ministro può girarsi tranquillamente da un’altra parte. Per l’opinione pubblica quanti si siano macchiati di determinati reati non sono più individui, cittadini, persone, esseri umani. E qualsiasi discussione costruttiva, così, diventa complicata se non impossibile. Invece i diritti umani fondamentali vanno riconosciuti a ciascuna persona, anche se si è macchiata di fatti gravissimi. L’Università della Calabria - Innumerevoli nostri studenti del Pup (Polo universitario penitenziario, ndr) dell’Università della Calabria provengono da più di un decennio di 41-bis e condanne all’ergastolo ostativo. E 35 detenuti attualmente al 41 bis sono iscritti a percorsi di studio universitari in vari Atenei italiani. La carcerazione delle persone ha uno scopo e non può essere vendetta. Non sta scritto da nessuna parte che le persone sottoposte al regime del 41bis debbano essere escluse dall’offerta trattamentale per il reinserimento che spetta a tutte le persone ristrette. Non deve rammaricarsi l’opinione pubblica: nessun contatto o celle aperte o riduzione della vigilanza, niente di più falso. Il caso Cospito - L’illegittimità del provvedimento di applicazione del 41 bis a Cospito è la motivazione alla base della sua protesta. A mio avviso giustamente rifiuta di accettare passivamente una pena così ingiusta. Sia lo Stato che l’Amministrazione penitenziaria sono responsabili delle condizioni di vita e di salute di Alfredo Cospito. Ma lo Stato non può coartare la volontà di Cospito di protrarre sine die il suo sciopero della fame fino alle estreme conseguenze: è un suo diritto lasciarsi morire. Che poi la sua battaglia personale si sia tramutata in una battaglia contro il 41-bis perché stranisce? Inoltre, non si possono criminalizzare tutti coloro i quali contestino l’ingiusta applicazione del 41 bis a Cospito magari srotolando striscioni contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo. Chiunque sia sano di mente non tollera, non accetta e non condivide azioni violente contro cose o persone e neppure chi incita alla violenza. Ma non può neppure accettare la tesi che dall’isolamento nel quale si trova Cospito abbia dato seguito a una trattativa tra anarchici e mafiosi. È stato scritto che Cospito sia d’accordo con ‘ndranghetisti o camorristi. Semplicemente Cospito durante un’ora d’aria ha parlato con le selezionate persone lì collocate, degli argomenti principali di cui si parla in qualsiasi regime e sezione. Doveva stare muto? Non aveva come limitazione di stare pure in silenzio, almeno fino a oggi non è stata escogitata anche questa privazione. Anche noi universitari in carcere parliamo con persone condannate per mafia. Non siamo accondiscendenti con i loro eventuali desiderata e neppure empatizziamo con i mafiosi solo perché dialoghiamo con loro. Il cimitero dei vivi e la sentenza Viola - Le carceri italiane sono ancora cimitero dei vivi per circa mille condannati alla pena inestinguibile, il fine pena mai. Diverse decisioni della Cedu ci dicono che le carceri devono essere umane. Si pensi alla famosa “sentenza Viola”, che aveva condannato l’Italia per trattamento inumano riservato al detenuto Marcello Viola che non poteva collaborare con la giustizia essendosi sempre dichiarato innocente. E poi, successivamente, i diversi ricorsi dell’Italia sempre respinti in sede europea. Con la sentenza Viola, lo Stato di diritto ha superato quella tensione che in nome dell’emergenza nel 1992 ha stravolto principi costituzionali introducendo in una stagione indubbiamente tragica, dopo le uccisioni dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, una legge ritenuta indispensabile in quel momento per contrastare la mafia anche attraverso una risposta legislativa illegittima che portò in quel momento a derogare sul rispetto della Costituzione. In ogni caso oggi siamo lontanissimi dalla stagione delle stragi mafiose. Se il rispetto dei valori costituzionali dei due magistrati Falcone e Borsellino è nota anche alle generazioni dei più giovani grazie anche al dibattito costante all’interno delle scuole, la misinformazione dei media e persino di alcuni magistrati che attribuiscono la paternità dell’ergastolo ostativo a Falcone e Borsellino, accosta costantemente i loro nomi alle narrazioni repressive della lotta alle mafie quando invece le loro posizioni sono sempre state conformi al dettato costituzionale, in linea con l’idea di un carcere compatibile con la Costituzione. Collaborare è importante, ma non sempre si può - Se non si può escludere che un ergastolano ostativo che non collabori mantenga contatti con i sodalizi criminali dei territori di appartenenza è irragionevole però la presunzione di attualità dei suoi collegamenti con la criminalità organizzata se non collabora. È importante la collaborazione, nessuno lo mette in dubbio. Ma una sana democrazia non può usare la collaborazione come arma di ricatto. Vi sono innumerevoli ragioni che inducono un condannato a non collaborare e che, come ribadito dalla Cedu (Viola contro Italia) e dalla Corte costituzionale, possono non essere dettate dalla intenzione di mantenere i rapporti con la criminalità organizzata. Potrebbero, bensì, dipendere dall’esigenza di proteggere la propria famiglia dalle vendette criminali. Oppure i condannati non possono rendere alcuna collaborazione utile perché tutti i nomi e ogni aspetto delle passate vicende criminali sono ormai note alla magistratura magari perché rese da altri coimputati pentiti. O, ancora, il loro apporto criminale nell’ambito del clan è stato marginale, di semplice manovalanza e dunque tale da non conoscere fatti o persone utili alla collaborazione. Se poi consideriamo i casi di coloro che, pur condannati, si professano innocenti, come potrebbero collaborare se non accusando falsamente qualcun altro? *Sociologa Dispes, Università della Calabria Il triste 8 marzo delle donne detenute. In 12 sono al 41bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 marzo 2023 Tra le donne autrici di reato, qualsiasi indagine svolta ha infatti evidenziato la massiccia presenza di esperienze di pregressa vittimizzazione che sono state all’origine del reato. “Al femminile non c’è possibilità di usufruire del teatro, non c’è possibilità di fare corsi di musica, visto che gli strumenti sono solo al maschile. L’area adibita all’aria non ha palloni utilizzabili… e non dà alcuna possibilità di svolgere attività sportive. L’area educativa esiste solo al maschile e le detenute sono prive di educatori stabili”, così scrive una detenuta del carcere di Como al difensore civico di Antigone. E riceve ogni anno lettere con domande e dubbi di donne detenute in diversi carceri o reparti del Paese. Così si legge nel primo rapporto dell’associazione di Antigone sulle condizioni delle recluse in carcere. Come già scritto ieri su Il Dubbio, il basso numero di detenute in Italia (circa il 4% del totale) non consente di garantire che le donne siano confinate vicino alle loro case. Ciò si traduce in una situazione in cui le donne possono essere detenute in reparti di carceri maschili, più vicine ai loro luoghi di residenza, o in carceri femminili che spesso si trovano a grande distanza da casa, poiché ce ne sono pochissime. Sempre nel rapporto di Antigone, è significativa un’altra lettera di una detenuta del carcere di Latina: “Non faccio colloqui con mia madre dal 20.12.2019. Non ho più il papà e mia madre non ce la fa a venire sia per problema di salute sia per problema economici. È vero che io ho sbagliato, ma mia madre che colpa ne ha? Il mio percorso non è servito a niente? Non ce la faccio più, sto male, questo distacco è troppo”. Anche dal carcere di Messina si fanno carico di quanto sia dolorosa questa realtà, soprattutto quando sono madri: “tante mamme - scrive al difensore civico di Antigone - lontano dai propri figli, da Napoli, Roma, Puglia e sono stati trasferiti qui su un’isola? I disagi vengono creati alle famiglie e ai tanti bambini che sono privati d’avere contatti da vicino con le proprie mamme”. E la realtà dei figli e delle figlie che risentono della difficoltà dell’assistenza diretta e la “colpa” per l’abbandono è un altro motivo di angoscia e dolore permanenti. Un altro aspetto, del tutto trascurato, è ben riportato da Cristiana Taccardi nel rapporto di Antigone. Sottolinea come, tra le donne autrici di reato, qualsiasi indagine svolta ha infatti evidenziato la massiccia presenza di esperienze di pregressa vittimizzazione che sono state, in modo diretto o indiretto, all’origine del reato realizzato. È emblematico in tal senso che nel 2022 ben 5 donne si siano tolte la vita in carcere. Sempre nel medesimo rapporto di Antigone, si sottolinea che rispetto al contesto italiano, poche indagini approfondiscono l’ormai assodato legame tra vittimizzazione e detenzione femminile. Chiara Carrozzino di Antigone dedica invece un interessante ed elaborato capitolo dedicato alle donne recluse in Alta sicurezza (AS) e al 41 bis. Secondo quanto rilevato dall’ultima osservazione svolta, attualmente le donne al 41 bis sono pari a 12, tutte detenute presso l’istituto penitenziario presente all’Aquila. Questo numero esiguo non si discosta dai dati rilevati negli ultimi anni: i dati disponibili a novembre 2020 hanno indicato un totale di 748 persone sottoposte al regime di cui all’art. 41 bis o. p.: 731 uomini e 13 donne, oltre a 4 internati. Ed ancora la “Relazione sull’amministrazione della giustizia” pubblicata dal Ministero della Giustizia il 25 gennaio 2022, ha rappresentato come al 31 ottobre 2022 i detenuti sottoposti al 41- bis ammontavano a 728: 12 donne e 716 uomini; quindi, appena l’1,3 per cento della popolazione presente negli istituti penitenziari. Oltre alle sezioni AS, sono presenti anche alcune sezioni “Z”, destinate ad ospitare donne collaboratrici di giustizia o comunque legate a collaboratori di giustizia. Sono ovviamente poche e le sezioni sono tre. Risultano completamente separate rispetto alle altre e costringono chi le occupa ad un regime che comporta molti limiti. Ed infatti - come spiega Carrozzino nel rapporto di Antigone - l’esiguità del numero dovrebbe far riflettere sulla solitudine che tale stato porta. Una solitudine obbligata. Poche detenute, ma malate. “Subito un nuovo modello” di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 marzo 2023 Primo rapporto di Antigone sulle donne in carcere in Italia. Diagnosi psichiatriche gravi sul 12,4% delle presenti contro il 9,2% del totale. Mancano i ginecologi. Ci sono due fatti che emergono nettamente dal “Primo Rapporto sulle donne detenute in Italia” realizzato dall’Associazione Antigone e presentato ieri a Roma: il primo, più scontato perché ormai verificato a livello mondiale e non solo italiano, è che le donne delinquono meno e tengono condotte carcerarie migliori degli uomini. Sono perciò più facilmente “trattabili” e riescono meglio nel potenziale reinserimento sociale. Purtroppo però, una volta fuori, quasi mai trovano supporti, cure e opportunità adeguate. Il secondo è che nei confronti del crimine femminile esiste una discriminazione positiva: e questo non solo è un bene ma, ben lungi dal togliere qualcosa allo speculare mondo criminale maschile, dimostra come il sistema dell’esecuzione della pena potrebbe essere molto più efficace se si seguisse il “modello donna”. Vediamolo con i numeri snocciolati nel rapporto: “La criminalità femminile è pari al 18,3% del totale, mentre le detenute sono solo il 4,2%. Le donne arrestate o denunciate sono 151.860, in base ai dati del 2021. Gli uomini invece 679.277”, ossia un rapporto di 1 a 4 circa tra femmine e maschi. Non che le donne non possano commettere ogni sorta di reati: riguarda il “gentil sesso” “il 20,2% delle denunce totali per furto, il 23,2% delle truffe o frodi informatiche, il 7,5% delle rapine, l’1,9% del totale delle violenze sessuali, il 15,9% di denunce per stalking, il 7,7% delle violazioni della legge sulle droghe, il 6,1% degli omicidi, il 16,8% delle denunce di associazione a delinquere di stampo mafioso e il 25,8% di sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione. Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, chiarisce quest’ultimo dato: “Le prostitute, soprattutto migranti, vengono spesso accusate di sfruttare e favoreggiare le loro colleghe solo perché condividono spazi comuni per esercitare la professione”. Va sottolineato però il calo costante delle imputate e delle detenute straniere. Ma ogni 100 mila abitanti vi sono 8 donne detenute, 182 uomini e 17 persone transgender. E negli ultimi 15 anni anche gli ingressi in carcere delle donne sono diminuiti più che quelli degli uomini. Per quanto riguarda le carceri minorili, “al gennaio 2023, sui 385 giovani reclusi solo 10 erano ragazze, pari al 2,6% del totale, una percentuale ancora inferiore a quella delle donne detenute adulte”. “Vuol dire che alle donne vengono concesse più facilmente le misure alternative al carcere, soprattutto i domiciliari”, spiega Marietti. Dunque il carcere è “tendenzialmente un luogo maschile”. Almeno in Italia, visto che “la media mondiale delle donne detenute è del 6,9%, ossia del 2,7% superiore rispetto a quella italiana”, con punta massima ad Hong Kong (19,7%). Sul nostro territorio ci sono quattro carceri femminili (il romano Rebibbia è il più grande d’Europa), un Istituto a custodia attenuata autonomo per le madri con figli e 44 sezioni femminili in altrettante carceri maschili. Mediamente, le celle che ospitano donne sono più pulite, curate e in condizioni strutturali migliori: “La doccia è presente nel 60% delle celle, contro il 47,5% per gli uomini”, per esempio, e così via. E però il sovraffollamento prodotto dall’eccessiva detenzione degli uomini si ripercuote sulle detenute: Antigone ha potuto verificare che l’affollamento nelle sezioni femminili è del 115%, contro il 113,7% degli uomini. In un carcere su tre manca il servizio di ginecologia. “Le donne con diagnosi psichiatriche gravi sono il 12,4% delle presenti, contro il 9,2% dei presenti in tutti gli istituti visitati nel 2022, e fanno regolarmente uso di psicofarmaci il 63,8% delle presenti, contro il 41,6% del totale”. Scarsissime le attività in comune con gli uomini e per quanto riguarda l’istruzione e la formazione c’è un vero e proprio gap tra i due sessi: nel 2021 erano 1.093 i detenuti iscritti all’Università, le donne solo 36. Una si è laureata, contro 18 uomini. In queste condizioni, permangono ancora in carcere, insieme alle loro madri, 17 bambini di età inferiore a un anno. Mentre “sono solo due in tutta Italia le case famiglia protette previste dalla legge 62/2011”. E allora Antigone propone dieci nodi prioritari su cui elaborare riforme normative. Tra le più rilevanti: un ufficio specifico al Dap diretto da esperti in politiche di genere; un approfondito esame volto a verificare se la donna ha subito violenza sessuale o altri abusi prima dell’ammissione in carcere; uno staff adeguatamente formato e specializzato sulla violenza di genere; la continuità di cura per la donna tornata in libertà; attività diurne congiunte di tutti i sessi, “in accordo con il principio per cui la vita in carcere deve approssimarsi il più possibile a quella nella comunità libera”. Infine, propone Antigone, “le carceri e le sezioni femminili devono essere improntate il massimo possibile al modello della custodia attenuata”. Poi, conclude Marietti, “si parta da questo modello per riformare tutte le carceri”. Le donne in carcere sono poche e rischiano di restare senza voce di Federica Brioschi Il Riformista, 9 marzo 2023 Sono circa 2.400 le detenute in Italia: il 4,2% della popolazione carceraria, 15 le madri con 17 figli al seguito. Appena 10 le ragazze negli istituti minorili. Numeri esigui che rischiano di far passare in secondo piano le loro necessità. Il nostro sistema penitenziario è declinato nelle norme e nell’organizzazione istituzionale al maschile. Non vi è una specifica attenzione rivolta alle donne detenute nelle leggi, nei regolamenti penitenziari e nel management penitenziario anche per via dei numeri esigui che, in Italia come altrove, rappresentano questa minoranza le cui necessità rischiano di rimanere inascoltate. Proprio per portare una specifica attenzione su questi bisogni, Antigone ha deciso di dedicare loro uno specifico rapporto, presentato non a caso l’8 marzo, in occasione della Festa Internazionale della Donna. Rapporto che è anche stato un’occasione di riflessione. Le donne infatti radicalizzano una serie di caratteristiche della popolazione carceraria nel suo complesso che sempre più sono rappresentate nella massa delle persone che la società rinchiude in galera. La massa della popolazione detenuta è costituita da persone che provengono dagli strati più marginali della società, che sperimentano povertà economica ed educativa, che vivono un’emarginazione che il periodo di detenzione non fa altro che approfondire, che presentano uno scarso spessore criminale (i reati per cui vengono condannate sono meno gravi e le pene comminate inferiori) e anche una scarsa pericolosità penitenziaria. Se si guarda ai dati erano 2.392 le donne presenti negli istituti penitenziari italiani al 31 gennaio 2023, di cui 15 madri con 17 figli al seguito, ovvero il 4,2% dei detenuti in Italia. A queste donne si aggiungono anche le circa 70 donne trans ospitate in apposite sezioni protette all’interno di carceri maschili. Infine, inserite all’interno del circuito penale minorile sono presenti anche alcune ragazze minori e giovani adulte. Al gennaio 2023, sui 385 giovani reclusi nelle carceri minorili italiane solo 10 erano ragazze, le comunità ospitavano 58 ragazze sottoposte a misure penali e altre 1.300 (il 9,4% del totale) erano in carico ai servizi per la giustizia minorile. Vista l’esiguità dei numeri, le carceri femminili presenti sul territorio italiano sono solamente quattro e si trovano a Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia. Ospitano 599 donne, pari a un quarto del totale. L’Istituto a custodia attenuata di Lauro ospita 9 madri detenute e altri tre piccoli Icam ospitano 5 donne in totale. Le altre 1.779 donne sono distribuite in 44 sezioni femminili ospitate all’interno di carceri maschili. Le celle che ospitano le donne generalmente non differiscono molto da quelle che ospitano gli uomini. Le condizioni strutturali sono però spesso migliori, e solitamente appaiono anche più pulite e più curate. In particolare, il bagno, molto più spesso che nel caso degli uomini, è in ambiente separato e dotato di doccia e di bidet. Venendo invece alla vita in carcere risultano scarsissime le attività in comune con gli uomini, presenti soltanto nel 10% degli istituti che ospitano donne. Dal punto di vista delle attività lavorative e di formazione professionale le donne risultano tendenzialmente più rappresentate rispetto alla media delle loro presenze in carcere. Invece dall’analisi dei numeri relativi all’istruzione emerge come nei gradi inferiori di istruzione le donne iscritte e promosse rispetto al totale delle donne presenti tendano a essere percentualmente più rappresentate degli uomini iscritti e promossi sul totale degli uomini presenti. Tuttavia nei gradi più alti (università inclusa) la situazione si ribalta. Oggi come in passato, le donne tendono a frequentare corsi di alfabetizzazione e apprendimento della lingua italiana e gli altri corsi di primo livello, accedendo meno ai corsi di secondo livello. Sono questi dati e questa analisi che portano Antigone a chiedere che si riparta dall’immaginare un modello di detenzione nuovo e più aperto, dove il tempo della pena acquisti direzione e significato, dove il raccordo con il territorio circostante sia capillare e continuo. Basta bambini in carcere, Fratelli d’Italia blocca tutto. Il Pd: “Una norma di civiltà” di Antonio Bravetti La Stampa, 9 marzo 2023 La maggioranza stoppa gli emendamenti per crescere i figli delle detenute in case famiglia. L’ira dei dem: “Volevamo festeggiare l’8 marzo, ma questa destra non lo ha permesso”. “Avevamo pensato di poter festeggiare l’8 marzo con un segno di civiltà e invece FdI lo ha reso impossibile”. Il Partito democratico accusa Fratelli d’Italia di aver fatto slittare a fine mese la legge sulle detenute madri che permetterebbe ai bambini fino a 6 anni di non scontare in carcere la pena insieme alle mamme, ma in strutture protette. La norma, su cui c’era un consenso trasversale che aveva consentito la procedura d’urgenza, doveva essere votata ieri in commissione Giustizia alla Camera. Tutto rimandato al 27 marzo, invece. “È colpa di Fratelli d’Italia - denuncia la capogruppo del Pd a Montecitorio Debora Serracchiani - hanno presentato degli emendamenti che di fatto stravolgerebbero il testo”. Sono “attacchi strumentali”, replica FdI, che difende le modifiche proposte: il partito di Giorgia Meloni vuole escludere il beneficio per le detenute (o padri detenuti) recidivi. La norma era stata approvata alla Camera nella scorsa legislatura, con i voti di tutti i partiti tranne quelli di FdI, astenuti. Il Senato non aveva fatto in tempo a convertirla in legge. A ottobre il Pd l’ha ripresentata. L’obiettivo è consentire alle detenute con figli di scontare la pena fuori dal carcere. “Gli emendamenti di FdI renderebbero inefficace la legge - attacca Alessandro Zan, relatore in commissione - perché tolgono al giudice la discrezionalità sui singoli casi e introducono degli automatismi che privano le madri detenute che sono recidive della possibilità di accedere con i loro bambini alle case famiglia”. Per Zan “con l’emendamento di FdI ci sarebbe ritorno al passato. Noi chiediamo un passo di civiltà per togliere i bambini dal carcere: loro non hanno alcuna colpa e la casa famiglia non vuole dire annullare la pena”. A protestare col Pd anche Azione e Alleanza Verdi Sinistra. “La proposta di legge è stata approvata nella scorsa legislatura a grandissima maggioranza - ricorda Enrico Costa (Az) - l’auspicio è che non venga toccata”. Per Devis Dori (Avs) “non si comprenderebbe un passo indietro su questa proposta. È inaccettabile che i minori debbano essere in un contesto carcerario”. Da fonti di maggioranza trapela che l’irrigidimento di FdI potrebbe dipendere non tanto dal contenuto della proposta di legge, quanto dalla protesta che sta portando avanti l’opposizione contro il sottosegretario Andrea Delmastro che di fatto, da quando Pd-M5S-Avs e Terzo Polo hanno minacciato di abbandonare i lavori parlamentari se si fosse presentato in rappresentanza del governo, non si è più visto. “Se fosse davvero questo il motivo - osserva Serracchiani - sarebbe davvero gravissimo”. Fratelli d’Italia parla di “attacco strumentale” e ribatte: “Invece di unirsi alle reali e necessarie battaglie per tutte le donne italiane, il Pd sceglie una battaglia di retroguardia”. Carolina Varchi, capogruppo in commissione Giustizia, sottolinea che le detenute madri sono “appena 17 in tutta Italia”, facendo della norma “quasi un provvedimento ad personam”. L’emendamento al centro dello scontro prevede che “in caso di recidiva i benefici sono immediatamente revocati e può essere disposta la decadenza dalla responsabilità genitoriale o sospensione dall’esercizio di essa. Varchi non fa passi indietro: “Siamo disponibili a ragionare su modifiche che vadano nella direzione da noi auspicata e infatti abbiamo depositato emendamenti, ma non accettiamo aut aut dal Pd che evidentemente vuol fare di questo provvedimento una bandiera”. Per Pietro Pittalis (Fi), vicepresidente della commissione, l’emendamento a firma Varchi “pone un problema serio, non campato per aria”. Il partito azzurro aveva presentato delle modifiche “tecniche”, ma ha già dato la disponibilità a ritirarle. “Credo che dopo il rinvio - ragiona con La Stampa - serva un passaggio in maggioranza, magari anche col rappresentante del governo Ostellari, per calibrare un’azione e poi confrontarsi con l’opposizione. Questo non può essere un tema divisivo. Dobbiamo superare queste differenze senza snaturare il nostro obiettivo, che resta il bene del bambino. Spero che il Pd non alzi barricate, perché avrebbero un effetto opposto”. “Il 41 bis non è vita”. La bella lettera di Alfredo Cospito di Iuri Maria Prado Il Riformista, 9 marzo 2023 Non ha ricevuto l’attenzione che meritava la lettera con cui Alfredo Cospito ha illustrato le ragioni della propria iniziativa. E si spiega. C’era infatti in quelle righe manoscritte, prive di qualsiasi retorica, la denuncia di una realtà accantonata, la spiacevole quanto innegabile realtà di un potere pubblico che si rende autore di violazioni intollerabili e soprattutto non necessarie - se non a fini soltanto vendicativi - quando appresta il regime carcerario del 41bis. Questo anarchico responsabile di delitti gravi, per quanto meno gravi rispetto a quelli attribuiti ad altri; questo soggetto certamente pericoloso, per come lascia intendere di potersi abbandonare ulteriormente alla commissione di illeciti altrettanto e forse più gravi; insomma questo “delinquente” ha tuttavia messo in fila lungo quella sua lettera negletta le ragioni che indicano dove sta l’ingiustizia, e cioè nel potere dello Stato che riduce in questo modo e a questo scempio la vita delle persone. Dice Alfredo Cospito ciò che tutti sanno senza che nessuno faccia nulla perché l’andazzo cambi, e cioè che quella cui sono costretti i detenuti in regime di 41bis è “non vita”. E a questa “non vita” Cospito vorrebbe sottrarre non solo sé stesso ma chiunque. Dice di amare la vita, pure se fosse quella di un detenuto messo però in condizione di crescere, di migliorarsi, di trarre nutrimento e speranza dalle letture che desidererebbe e che invece gli sono vietate come tutto il resto: perché è appunto la vita a essere vietata con il 41bis, e ciò che la sostituisce è la “non vita” dell’isolamento assoluto, il regime di reclusione che non prevede nessun contatto con nessuno, nessuna possibilità di ricevere conforto da un amico o da un familiare, nemmeno la possibilità di avere con sé la fotografia dei genitori, in un generale trionfo di sopraffazione che giunge a punte tragicamente ridicole come il divieto d’ascolto della musica melodica. E dice infine, Cospito, di non volersi sottrarre alla condizione che lo affligge facendo ciò per cui lo Stato torturatore gli darebbe un premio: lotta senza rinnegare la propria responsabilità, senza assolversi dalla propria criminalità, e in questo modo si condanna all’irrisione e riprovazione comune. Ma in questo modo la sua lotta semmai si nobilita. Perché in questo modo, vale a dire non assolvendosi da nulla, denuncia un’ingiustizia che pretende di farsi giusta in base al criterio più osceno, e cioè misurandosi sulle colpe di chi la subisce. La società ha il diritto di tenere in prigione Alfredo Cospito. Ma avrebbe il dovere di sentirsi in debito con lui: perché è da lui, non dallo Stato che lo imprigiona, che viene una speranza di maggiore giustizia. Cospito, il medico: “Sottopeso e sempre più grave, ma prosegue il digiuno”. di Viola Giannoli La Repubblica, 9 marzo 2023 Intanto il Csm apre una pratica a tutela dei giudici. La visita dello specialista che afferma: “Non ho potuto parlare con i colleghi dell’ospedale San Paolo perché non erano autorizzati a incontrarmi e dunque non conosco le loro intenzioni su un’eventuale alimentazione forzata”. Il 18 aprile udienza della Consulta. “Le condizioni di sottopeso di Alfredo Cospito si fanno sempre più gravi”. Andrea Crosignani esce dall’ospedale San Paolo di Milano dove l’anarchico è di nuovo tornato da qualche giorno sempre recluso in regime di 41 bis. E in un audio inviato all’avvocato della difesa, Flavio Rossi Albertini, affida quello che è ormai diventato un bollettino sanitario bisettimanale sulla salute del 55ene pescarese della Fai in sciopero della fame da 140 giorni (oggi compreso). “Non ho purtroppo potuto parlare coi colleghi dell’ospedale perché non avevano l’autorizzazione a incontrarmi ma ho solo consultato la cartella clinica”, fa sapere il medico di parte. “E per questo non so dirti quali saranno le decisioni anche in merito a un eventuale ipotesi di nutrizione forzata”. Un’ipotesi che si è fatta strada nelle ultime ore non solo per il peggioramento delle condizioni di salute dell’anarchico, ma anche dopo l’inatteso parere del Comitato nazionale di bioetica, parere puramente consultivo ma richiesto dal ministro Carlo Nordio al quale i componenti del Cnb hanno risposto a maggioranza che Cospito non può essere sottoposto a Tso finché è lucido ma in caso di imminente pericolo di vita i medici non sono esonerati dall’intervenire. Nel suo caso, sostengono 19 componenti su 33 del Comitato di bioetica, le disposizioni anticipate di trattamento, ovvero il rifiuto più e più volte espresso e comunicato da Cospito di essere sottoposto a cure forzate, non valgono. Perché sono viziate dal suo sciopero della fame, deciso in autonomia, per ottenere qualcosa, ovvero la revoca del 41 bis. Non è ancora questa la situazione, ma è un orizzonte. Perché “Alfredo ha perso ancora peso”, spiega il medico, “ora la bilancia misura 69 chili. Ma è lucido e determinato a proseguire nel suo digiuno rifiutando anche l’assunzione del potassio. Gli ho spiegato che però questa condizione è ad altissimo rischio aritmico e l’ho informato di cosa potrebbe causare”. “I valori del sodio sono nei limiti di norma, il potassio è sempre un po’ sotto, la previsione è che possa ulteriormente scendere”. Cospito presenta “un’iniziale acidosi metabolica che ci sta con la sua condizione di digiuno con valori ancora conservati”. In sostanza, l’anarchico soffre di un accumulo di acidi nell’organismo dovuto al fatto che non si alimenta ma al momento la situazione non è ancora precipitata. Così come non è ancora preoccupante il risultato dello screening elettrocardiografico. Ma, avvisa il medico, “tutte queste condizioni sono destinate a peggiorare ed è necessario che lui abbia un monitoraggio completo”. Una situazione che sconsiglia dunque il ritorno nel carcere di Opera. Cospito “mi ha manifestato una anestesia alla gamba destra dove c’è un deficit motorio del piede”, conclude il medico. “E per questo riterrei sensata una valutazione neurologica ed eventualmente ulteriori accertamenti con una tac all’encefalo o una elettromiografia”. Esami che però, spiega Crosignani “possiamo solo suggerire”. Poi saranno i medici del San Paolo a dover decidere. Intanto il Consiglio superiore di magistratura ha aperto una pratica a tutela di tutti giudici, a partire da quelli della Cassazione, che si sono pronunciati sul caso Cospito. Il Comitato di presidenza di Palazzo dei marescialli ha dato il via libera alla richiesta presentata dai consiglieri di Magistratura Indipendente, secondo i quali i magistrati sono stati oggetto di una “denigrazione generica e generalizzata” e di una “delegittimazione diffusa ed indiscriminata”. Il fascicolo è stato assegnato alla Prima Commissione. Per il 18 aprile, invece, la Corte Costituzionale ha fissato l’udienza che riguarda l’ordinanza della Corte d’Assise d’Appello di Torino con cui sono stati tramessi gli atti alla Consulta chiamata a esprimersi sulle attenuanti di cui potrebbe beneficiare Cospito a seguito dell’attentato verificatosi nel 2006 alla caserma degli Allievi carabinieri di Fossano, nel cuneese. Nella sostanza, i giudici torinesi, nell’ordinanza avevano accolto la questione di legittimità costituzionale, sollevata dalle difese, sull’attenuante rispetto al reato di strage politica per il quale la procura aveva chiesto l’ergastolo. Il tema è quello della ‘lieve entità’: per Alfredo Cospito avendo la contestazione di recidiva reiterata specifica, la legge vieta il bilanciamento e, quindi, dovrebbe essere applicata la pena dell’ergastolo. Per questo si è deciso di rinviare gli atti alla Consulta per valutare se anche nel reato di strage politica debba operare il divieto di bilanciamento oppure no. Cospito, il 18 aprile l’udienza alla Consulta. Il medico: “La sua vita resta appesa a un filo” di Errico Novi Il Dubbio, 9 marzo 2023 La soluzione giudiziaria del caso Cospito è di per sé complicatissima, considerato il quadro politico e la difficoltà di insinuare nell’opinione pubblica una visione più critica del 41 bis. Ma proprio sulle pagine del Dubbio, Alberto Cisterna aveva segnalato come una via d’uscita avrebbe potuto aprirsi qualora la Corte costituzionale bocciasse le norme che sono costate l’ergastolo all’anarchico. Ora la pronuncia della Consulta sul reato di “strage politica”, e in particolare sulla circostanza per cui il delitto sia punibile con il fine pena mai anche in assenza di vittime, si avvicina: l’udienza sul caso è stata fissata per il 18 aprile. Non una scadenza ravvicinata, certo, considerate le condizioni di Alfredo Cospito, che è a 140 giorni di sciopero della fame, ricoverato all’ospedale San Paolo di Milano. Tanto più che, dopo l’eventuale sentenza costituzionale favorevole al detenuto (che consentirebbe l’accesso alle attenuanti nel processo per l’attentato compiuto nel 2006 alla caserma degli Allievi carabinieri di Fossano), bisognerebbe attendere un’eventuale nuova istanza di revoca del 41 bis, che il legale di Cospito, Flavio Rossi Albertini, potrebbe legare appunto al venir meno dell’ergastolo. Tempi lunghi, incompatibili con le attuali prospettive di salute del recluso. Le sue “condizioni di sottopeso” sono “sempre più gravi”, ha riferito il medico di fiducia di Cospito, Andrea Crosignani, che ieri lo ha visitato. “Gli ho spiegato che è una condizione ad altissimo rischio, ma Alfredo”, ha fatto sapere il medico per il tramite del legale, “è lucido e assolutamente determinato a continuare ancora con lo sciopero della fame, rifiutando ancora l’assunzione del potassio” Il caso Cospito approda anche alla Prima commissione del Csm, dove è stata aperta una pratica a tutela dei giudici che si sono occupati della vicenda. Nel documento si citano le dichiarazioni dei difensori dell’anarchico e alcuni articoli di giornale, e si sostiene che “in luogo di critiche puntuali e argomentate relative a specifiche attività processuali o a specifici provvedimenti, si assiste a una denigrazione generica e generalizzata dell’intera attività giurisdizionale, con il risultato di determinare presso la pubblica opinione una delegittimazione diffusa e indiscriminata della funzione svolta dai magistrati”. Diventa cieco durante la detenzione in carcere. Ma dopo i domiciliari potrebbe tornare in cella di Valentina Stella Il Dubbio, 9 marzo 2023 È legittimo ed umano far rientrare in carcere una persona diventata cieca proprio a causa della malasanità penitenziaria? Questa è la domanda che si pongono moglie e figlio di Salvatore Giuseppe Di Calogero, classe 1975, condannato in primo e secondo grado a 8 anni e 8 mesi per associazione mafiosa. Viene arrestato nel 2019 in esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal G.I.P. del Tribunale di Caltanissetta. Nei successivi undici mesi di detenzione viene trasferito in cinque istituti penitenziari differenti, trasferimenti dovuti al fatto che i vari istituti non fossero in grado di gestire la malattia iper tiroidismo con esoftalmo da “morbo di Basedow”. Dopo i numerosi rigetti alle istanze volte alla scarcerazione per consentire al detenuto di accedere alle cure necessarie, il GIP nel 2020 concede finalmente i domiciliari in provincia di Milano. Solo a quel punto l’uomo è stato operato ad entrambi gli occhi presso il Policlinico Maggiore Cà Granda di Milano, senza poter, purtroppo, recuperare la vista. Ad oggi, è stato dichiarato dall’Inps cieco assoluto. Dopo diciotto mesi di domiciliari a Milano con la sola presenza della moglie e lontano dal figlio minorenne rimasto in Sicilia, nel 2021 viene accolta l’istanza della difesa di trasferimento nella propria abitazione di residenza. Oggi la Cassazione potrebbe confermare la condanna ma la Procura Generale dovrà emettere un ordine di esecuzione e, pertanto, Di Calogero rientrerà in carcere. Gli avvocati Eliana Zecca e Michele De Stefani ritengono questa ipotesi inaccettabile, oltre che inumana, perché la PG potrebbe valutare, data la particolare situazione sanitaria, che Di Calogero possa proseguire i domiciliari in attesa che il competente Magistrato di Sorveglianza decida in via provvisoria l’istanza di differimento pena nelle modalità della detenzione domiciliare. Inoltre, contando i periodi trascorsi tra misura cautelare in carcere e ai domiciliari e considerando anche la liberazione anticipata, gli anni definitivi da scontare sarebbero sotto i quattro. Se è vero, spiega la difesa, che il reato per cui è stato condannato rientra tra quelli dell’art. 4 bis op che vieta benefici, dall’altro lato “l’art. 146 c. p. sancisce che l’esecuzione di una pena detentiva debba essere obbligatoriamente differita se deve aver luogo, tra l’altro, nei confronti di un soggetto affetto da patologia particolarmente grave per la quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione”. Inoltre, il loro assistito, essendo divenuto cieco solo in età adulta e durante i primi sei mesi di carcerazione, sta seguendo da più di un anno un percorso assistenziale- riabilitativo, sia pratico che psicologico, in seno all’Unione Italiana dei Ciechi ed Ipovedenti di Enna, percorso necessario per imparare a vivere la propria nuova quotidianità e per provare ad accettare il suo nuovo e definitivo stato di non vedente. L’entrata in carcere comporterebbe l’inaccettabile interruzione delle sedute riabilitative in quanto in un istituto penitenziario verrebbe chiuso in una cella di pochi metri quadrati completamente nel suo buio, lontano dalle cure della famiglia da cui da tre anni dipende completamente. Pertanto, i suoi legali auspicano che in caso di rigetto del ricorso per Cassazione la PG di Caltanissetta e il Magistrato di Sorveglianza competente possano evitare ulteriori sofferenze ad un uomo che, oggi, sta vivendo un dramma psicologico e fisico che paragona ad una condanna all’ergastolo ponendo fine a una triste storia, nonostante il buio assoluto che avvolge ed avvolgerà per sempre Di Calogero. La piramide della giustizia: maggioranza femminile, ma poche arrivano al vertice di Giulia Merlo Il Domani, 9 marzo 2023 Il 61 per cento delle laureate in materie giuridiche è donna. Tuttavia, sia in magistratura che nell’avvocatura, le donne che hanno raggiunto ruoli gestionali o di comando sono ancora poche. E un reddito uguale a quello maschile è ancora lontano. Il mondo della giustizia è tra quelli che ancora stentano a colmare la distanza tra uomini e donne nei ruoli di vertice. In Italia, è uno dei settori che ha accolto in ritardo la sua componente femminile. Oggi, la tendenza è opposta: secondo i dati del Miur del 2021, sul totale di 277.871 laureati in materie giuridiche, le donne sono 171.322, pari al 61,6 per cento. Nelle posizioni di vertice, però, i numeri continuano a rimanere bassi. La magistratura - Le prime otto magistrate sono entrate in ruolo nel 1965, dopo l’apertura del concorso anche a loro nel 1963, diciassette anni dopo la conquista del diritto di voto. Secondo i dati 2022 del Csm, su un totale di 9576 magistrati, le donne sono circa il 55 per cento, con una età media di 49 anni, più bassa rispetto ai 52 anni degli uomini. Il flusso di donne che sceglie questa professione è in aumento, con il 71 per cento dei tirocinanti di sesso femminile. La proporzione si inverte specularmente, però, quando si analizzano i dati sugli incarichi direttivi e semidirettivi. Dei 379 capi degli uffici giudiziari le donne sono meno di un terzo: 111 contro 268 uomini, che rappresentano il 71 per cento circa. Tra i semidirettivi, invece, il rapporto inizia ad equivalersi, con le donne che arrivano al 46 per cento su 690 posti complessivi. La piramide vale anche per gli uffici. Tra gli uffici giudicanti il numero di donne con incarichi direttivi è più alta rispetto alle procure. In Corte di Cassazione è di 13 su 31, pari al 29,5 per cento. Tra queste 13, oggi, c’è anche il primo presidente appena nominato, Margherita Cassano. Gli incarichi direttivi a donne nelle procure generali e nelle procure della repubblica sono del 14 per cento e del 17 per cento. Una sola donna, invece, ha un incarico direttivo nella procura generale di Cassazione. L’avvocatura - Anche nell’avvocatura la piramide rimane ben salda. La crisi ha colpito soprattutto la componente femminile e, secondo il rapporto Censis 2022 sull’avvocatura, sono state 6000 le cancellazioni di avvocate dall’albo (il 69 per cento). Su un totale di 241 mila iscritti a cassa forense, il 47,7 per cento è di donne. Il numero dei neo-iscritti è stato di 7.103, il 57,3 per cento dei quali donne. Tra i valori che più evidentemente continuano a mostrare il divario di genere, però, c’è il reddito. Secondo i dati del 2020, il reddito medio di un uomo è di 50.933 euro, mentre una donna guadagna meno della metà, con una media di 23.576 euro. Anche per quanto riguarda la rappresentanza istituzionale, le donne continuano ad essere una minoranza. Attualmente guida il Consiglio nazionale forense - l’organo di rappresentanza istituzionale dell’avvocatura - l’avvocata Maria Masi e ha come vice un’altra donna, Patrizia Corona, e la segretaria Rosa Capria. Nella consiliatura uscente, le donne sono 9 su 32. Anche a livello ordinistico, pur non esistendo dati aggiornati alle ultime elezioni, il numero delle presidenti donne rimane una minoranza e lo stesso vale anche per le associazioni più rappresentative. Corte costituzionale - Un caso a parte è quello della Corte costituzionale. Istituita nel 1956, la Consulta è rimasta lungamente un organo a composizione esclusivamente maschile, sebbene non esistessero preclusioni formali. I titoli per accedervi - magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinaria e amministrative, i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo venti anni di esercizio - però hanno escluso per molto tempo le donne, visto il ritardo con cui le carriere femminili nella giustizia hanno intrapreso il loro corso. La prima donna a mettervi piede è stata l’avvocata Fernanda Contri, per nomina presidenziale nel 1996. Dei 119 giudici che ne hanno fatto parte, nella storia della Consulta solo 7 sono state donne: Contri, Maria Rita Saulle, Marta Cartabia, Daria De Pretis, Silvana Sciarra, Emanuela Navarretta e Maria Rosaria San Giorgio. Attualmente i membri donna sono quattro, con Silvana Sciarra presidente e Daria De Pretis vicepresidente. La prima presidente della Corte è stata Marta Cartabia, quarantaduesima presidente dopo un lungo elenco di uomini. Il Csm - Anche il Consiglio superiore della magistratura è rimasto a lungo precluso alle donne. Insediatosi nel 1959, in attuazione della Costituzione, il Csm visto accedere le prime donne nel 1981 con Cecilia Assanti e Ombretta Fumagalli Carulli, entrambe laiche elette dal parlamento. Per l’arrivo della prima consigliera togata donna, invece, bisognerà aspettare la consiliatura successiva, del 1986, con Elena Paciotti di Magistratura democratica. Oggi al Csm siedono quattro consigliere laiche, tutte in quota centrodestra, e sei togate a cui si aggiunge Cassano, membro di diritto come primo presidente della Cassazione. Ogni donna in più in cima alle gerarchie di avvocatura, magistratura e istituzioni è ancora una conquista e un segnale non scontato nel mondo della giustizia, che così tardi le ha accolte. Con il loro esempio, una nuova generazione di giovani giuriste, avvocate e magistrate avrà la certezza che nulla è più - esplicitamente o implicitamente - precluso. Friuli Venezia Giulia. “Migliorare la qualità della vita dei detenuti” rainews.it, 9 marzo 2023 Una proposta di legge per permettere ai detenuti con fine pena breve, entro un anno, di scontarla in case di reintegrazione sociale, gestite dai comuni, con capacità fino a 15 posti. Verrà depositata a giorni dal Garante dei detenuti del Comune di Udine, Franco Corleone, che chiederà al consiglio regionale di sostenerla, con l’obiettivo di fare del Friuli Venezia Giulia la regione capofila in Italia nel progetto. Lo ha annunciato lo stesso Corleone durante la relazione delle attività svolte nel 2022. Continuano intanto i lavori di ristrutturazione in carcere a Udine per la creazione, entro un anno e mezzo, di 15 nuovi locali per attività formative e culturali, tra cui un teatro aperto alla città. Corleone ha inoltre sollecitato maggiore attenzione al problema dell’alimentazione - le poche risorse non riescono a garantire pasti di qualità - e a quello della salute mentale: necessario, ha ribadito, diminuire il consumo di psicofarmaci, ma anche pensare ad alternative alla detenzione in forma terapeutica, fuori dalle case circondariali. Campania. Minori a rischio, protocollo tra Garante dei detenuti e Centro di Giustizia Minorile ilroma.net, 9 marzo 2023 Sarà firmato questa mattina alle ore 11, presso la sala Nassirya del Consiglio regionale della Campania, il protocollo d’intesa tra il Garante campano delle persone private della libertà personale, Samuele Ciambriello e il Dirigente del Centro di Giustizia Minorile e di Comunità della Campania Giuseppe Centomani. L’occasione sarà utile anche per affrontare un argomento importante quanto delicato sul tema dei “Minori a rischio in Campania: buone prassi e criticità” in ragione della potenziale vulnerabilità dei dati che sia il Garante che il Dirigente del Centro di Giustizia minorile metteranno in luce. In Campania l’anno scorso sono stati presi in carica al servizio sociale 6400 minori. Sulla giustizia minorile c’è una rivoluzione incompiuta, una precarietà e le istituzioni devono garantire un futuro per questi ragazzi. L’accordo che si firmerà prevede l’implementazione delle energie in essere finalizzate al miglioramento dell’efficacia complessiva delle attività connesse a promuovere iniziative culturali, anche a livello universitario, attività d’inclusione socio- lavorativa, programmi di Giustizia Riparativa nonché programmi relativi a momenti di preparazione alla vita sociale che disciplinano e tutelano i diritti dei minori presenti sia negli Istituti Penali per minori, sia nelle Comunità che in affidamento ai servizi sociali. Alla conferenza stampa sarà presente anche la Presidente della VI Commissione consiliare, onorevole Bruna Fiola. Roma. Riguardo alla detenuta morta nel carcere di Rebibbia di Giovanna Longo* Ristretti Orizzonti, 9 marzo 2023 Le agenzie di stampa di ieri 7 marzo riferiscono che nel carcere di Rebibbia femminile è stata trovata morta una detenuta rinchiusa in una cella di isolamento dove era trattenuta da alcuni giorni. La sera prima era stata visitata dal medico affetta da malore acuto. Il tragico episodio impone senza indugio un rapido e serio accertamento dei fatti e lo scrupoloso appuramento della verità. La visita medica aveva, colto veramente la gravità della situazione? Perché la donna dopo la visita medica, è stata trattenuta nella cella d’isolamento rendendo così problematica la possibilità di essere continuamente monitorata e senza che lei potesse tempestivamente chiedere assistenza e conforto? Non sono domande superflue. Esse piuttosto ripropongono il tragico tema, ad oggi non risolto, della compatibilità della condizione carceraria con stati di salute psico-fisica gravi, se non della contraddizione tra carcere e salvaguardia della vita umana. Sulla tragica vicenda sia pienamente accertata la verità. Lo ribadiamo con la piena consapevolezza oggi, 8 Marzo, giornata simbolo della dignità di tutte le donne. *Presidente Associazione A Roma, Insieme - Leda Colombini ODV Teramo. Detenuto morto nel carcere di Castrogno, probabile overdose di farmaci rete8.it, 9 marzo 2023 Un detenuto nord africano di circa 30 anni è morto oggi all’interno del padiglione Sud della Casa Circondariale di Castrogno a Teramo. A darne notizia il segretario generale della Uil Pubblica Amministrazione Polizia Penitenziaria Abruzzo Ruggero Di Giovanni. Da accertare le cause, non si esclude l’ipotesi di un avvelenamento da farmaci o un’overdose: “Non è la prima volta che a Castrogno si hanno notizie di problemi legati all’abuso di farmaci o all’assunzione di sostanze stupefacenti - spiega in una nota Di Giovanni - purtroppo la Polizia Penitenziaria è in affanno a causa delle scelte dell’amministrazione e alla presenza di 200 detenuti in più oltre il numero consentito”. Vasto (Ch). Psichiatra suicida in cella dopo l’arresto, la direttrice del carcere rischia il processo di Alfredo d’Alessandro Il Messaggero, 9 marzo 2023 Per il suicidio nel carcere di Vasto dello psichiatra Sabatino Trotta, avvenuto il 7 aprile del 2021 poco dopo l’arresto nell’ambito di un’inchiesta della Procura di Pescara, rischiano di finire sotto processo Giuseppina Ruggero, direttore della struttura e coordinatore dello staff multidisciplinare di accoglienza e sostegno, e Antonio Caiazza, assistente capo coordinatore della Polizia penitenziaria e addetto alla sorveglianza dei detenuti. Nella richiesta di rinvio a giudizio il procuratore capo di Vasto, Giampiero Di Florio, contesta ad entrambi l’omicidio colposo e la violazione di norme sulla prevenzione di suicidi oltre che di sorveglianza dei detenuti nella sezione in cui si trovava Trotta, il quale si impiccò con il laccio dei pantaloni della tuta legandolo al gancio di apertura della finestra. Per colpa generica consistita in negligenza, imprudenza e imperizia ma anche la colpa specifica consistita nella violazione delle norme che disciplinano l’accoglienza e il sostegno dei detenuti negli istituti penitenziari nel caso della Ruggero e, per quel che concerne Caiazza, nella violazione delle norme che disciplinano le mansioni degli addetti alla sorveglianza dei detenuti e l’accoglienza e sostegno ai detenuti nuovi giunti negli istituti penitenziari - recita l’imputazione - cagionava o comunque non impediva il decesso di Sabatino Trotta. Il gup Fabrizio Pasquale ha fissato l’udienza preliminare per il 15 giugno. Ruggero, difesa dagli avvocati Massimo Solari e Cristiano Bertoncini, secondo l’accusa impedì l’iter di prima accoglienza di Trotta richiedendo, dopo la prima visita di medicina generale, un colloquio immediato del detenuto presso di sé, inducendo Trotta a chiedere il differimento del colloquio psicologico che rappresenta la seconda e cruciale fase dell’iter di prima accoglienza, procedura finalizzata a individuare fattori di rischio suicidiario e che avrebbe potuto far emergere segnali di disagio e sofferenza dello psichiatra, tenuto conto del rilevante clamore mediatico della notizia dell’arresto dell’allora dirigente medico dell’Asl di Pescara che in cella aveva il televisore, dell’approssimarsi dell’interrogatorio di garanzia, del fatto che per Trotta era la prima esperienza in carcere e in isolamento per via delle disposizioni Covid. Sempre secondo l’accusa, la Ruggero omise di accertarsi che Trotta, nuovo giunto, avesse completato il previsto percorso di accoglienza e sostegno, interrompendo l’espletamento del preliminare colloquio con lo psicologo del carcere, presente in quel momento, che si sarebbe dovuto svolgere nel più breve tempo possibile, impedendo pertanto il ritiro di oggetti pericolosi nel disponibilità di Trotta, tra cui il laccio usato per suicidarsi, e la perquisizione di Trotta e la sua sottoposizione al regime di grande sorveglianza o di sorveglianza a vista, tenuto conto anche del fatto che prima di suicidarsi aveva assunto cocaina nella propria cella, violando circolari, ordini di servizio e piani di prevenzione delle condotte suicidarie. Quanto a Caiazza, difeso dall’avvocato Maria Concetta Berardinucci, secondo l’accusa nonostante fosse stato adibito alla sorveglianza dei detenuti della sezione in cui si trovava Trotta, dalle 20,43 alle 23,34 ometteva di fare ingresso nella sezione dove si trovava la cella di Trotta, ubicata a pochi metri dal posto di servizio degli agenti, e ometteva di provvedere attentamente alla sorveglianza di Trotta, attività facilmente esperibile anche mediante lo spioncino sulla porta della cella, atteso che Trotta aveva avuto il tempo di porre lo sgabello sotto alla finestra, di legare il laccio dei pantaloni al gancio della finestra nonché di assumere cocaina. Milano. La pena dopo il fine pena La Stampa, 9 marzo 2023 I detenuti di San Vittore: “Quando i cancelli si riaprono, non riusciamo più ad affrontare lavoro, famiglia e figli”. Prosegue la collaborazione La Stampa con “Costituzione viva”, un gruppo di reclusi dell’istituto penitenziario di Milano. C’è un’espressione attorno alla quale girano tutti i discorsi scanditi dal metronomo del carcere: “fine pena”, la data che segna il termine della pena cui si è stati condannati, e orienta il conto alla rovescia personale nel calendario di ognuno di noi. Ma cosa ci aspetta fuori dal muro di cinta, nel tempo finalmente liberato del dopo pena? Che cosa fa crescere così impietosamente le statistiche della recidiva gonfiandole di continuo, fino al 70%? Nessuno esce dal carcere con l’idea di tornarci. Molti cercano di attrezzarsi per tempo, di farsi trovare pronti ad affrontare le difficoltà del dopo-fuori, della fase che qualcuno chiama di “convalescenza sociale”. Ma troppo spesso gli ostacoli risultano insormontabili. Per la maggior parte di noi, quando finalmente i cancelli si riaprono, fuori non c’è nulla. E nelle condizioni in cui si trova un ex-detenuto, senza adeguate reti di riferimento e di sostegno, diventa proibitivo affrontare i problemi del lavoro, della casa, di ricostruire relazioni, anche con la famiglia e i figli. Eppure, sin dal lontano 1975, alcuni articoli della legge penitenziaria, dal 74 al 77, raccontano un mondo in technicolor (come dice il presidente Giuliano Amato). Parlano dei “Consigli di aiuto sociale”. Si dice chi ne fa parte: giudici, prefetti, sindaci, uffici del lavoro ecc. Si elencano compiti di assistenza, formazione professionale, ricerca del lavoro, sostegno alla famiglia. Tutto chiaro, preciso, dettagliato e corrispondente a necessità oggettive. Ma c’è un dettaglio: nel quasi mezzo secolo di vita di questa legge, che regola tutto l’universo penitenziario, dei Consigli di aiuto sociale non c’è traccia concreta. Potremmo dire di non averne mai visto nemmeno uno, se non fosse che di recente, a Palermo, è stata avviata la costituzione del primo… Questi articoli di legge sono rimasti senza attuazione, ma questo non vuol dire che non sia fatto nulla per realizzare le loro finalità. Sappiamo quante iniziative, tavoli e protocolli sono disseminati per il Paese, e quanto sarebbe insensato sottovalutarne la presenza. Ma tutto questo, nel mondo in bianco e nero che tocca a tanti di noi, lascia irrisolti i problemi di fondo, anzi sfiora appena i grandi numeri, con le loro tante necessità e storie. Storie che parlano delle nostre responsabilità, anche gravi: le riconosciamo e non intendiamo sottrarci. Ma che dire di tutte le lacune e i vuoti in cui si moltiplicano le attese deluse, le fatiche inutili, i fallimenti anche ripetuti? Questo cumulo di sconfitte lo racconta proprio la recidiva, mettendo a nudo che il fuori può essere non meno duro del dentro. Addirittura, per tanti aspetti, peggiore. La detenzione non è solo privazione della libertà. È sofferenza, sovraffollamento, promiscuità forzata, convivenza soffocante, consumo di psicofarmaci, malessere che produce malattia e spinge perfino alla morte: possiamo dimenticare gli 84 suicidi del 2022? Eppure, anche nelle pieghe della pena possono aprirsi squarci di vita solidale, di condivisione e lavoro comune, in cui l’impegno dei detenuti incontra quello delle istituzioni e dei volontari. Ci sembrano momenti di crescita, di maturazione e responsabilizzazione che rendono lo spazio della pena, per il resto così desolato, una vera e propria “formazione sociale in cui si svolge la personalità”; dove si adempiono “doveri inderogabili di solidarietà” e si comincia a capire, vivendolo, il senso e il problema della “pari dignità sociale”. Sentire circolare, tra le sbarre, gli articoli 2 e 3 della Costituzione, è un lusso che poi è facile perdere. Nel reparto femminile da anni, passandoci via via il testimone, cerchiamo di affrontare la quotidianità, affiancando le “nuove giunte” nell’impatto traumatico con il mondo del carcere, quando in un attimo saltano relazioni e contatti con la famiglia e i figli. Momenti drammatici e disperati, in cui si manca di tutto: situazioni limite in cui diventano straordinariamente preziosi un cambio di biancheria, una felpa pulita, un pacchetto di sigarette, le prime istruzioni per l’uso degli spazi e dei tempi del reparto: tutte forme di accoglienza che di per sé fanno la differenza. È proprio a partire da questi momenti di solidarietà attiva, di costruzione di relazioni, di scambio di esperienze, di comune partecipazione a tutto ciò che riempie di senso un tempo altrimenti vuoto, che comincia ad affiorare, proprio nel cuore della pena, la dimensione della “formazione sociale”. Qualcosa che non è scontato si possa ritrovare quando, più o meno sotto traccia, comincia il dopo-pena, la pena nascosta, la “detenzione sociale”, logorante quanto e più della pena tra le sbarre. Abbiamo vissuto il rientro in reparto di una di noi con cui avevamo fatto un buon tratto di strada in comune. A lungo avevamo condiviso i momenti più critici del vivere ristrette, la fatica dei nostri corpi femminili incarcerati, le inquietudini e gli sbalzi d’umore. A sostenerci, sempre, la fiducia reciproca, la scommessa sul futuro, parole, idee e valori che mai avevamo immaginato avessero un valore reale. Era uscita tra applausi e abbracci, con un corredo di vitalità, speranza, progetti a lungo coltivati. Poi, il ritorno in famiglia è stato problematico: non era più, inevitabilmente, la “stessa famiglia”. Le relazioni allentate o perdute, il lavoro saltuario e in nero, lo scivolamento, tra insicurezza e panico, di nuovo verso l’alcol. Una storia di debolezze e limiti che non annullano certo le sue responsabilità. Ma è tutto suo questo fallimento? Nessun concorso di colpa? Non è chiamato in causa l’intero sistema punitivo - dentro e fuori le mura - con le sue porte girevoli, che sembrano inarrestabili e costano tantissimo, a tutti, in tutti i sensi? Una storia finita male, come tante, troppe altre. Può avere senso solo se siamo capaci di ricominciare e ricostruire. C’è un diritto che, in quanto “aspetto costitutivo della persona umana e della sua dignità, è irrinunciabile: il diritto alla speranza. “Per noi, in carcere, questo diritto è, ancora di più, un dovere: il dovere della speranza. La speranza che il fine della pena possa essere per davvero la fine della pena. È la grande promessa della Costituzione che vale per tutti e per ciascuno, anche per i casi più drammatici e persino per il 41-bis. Anche per Alfredo”. Trento. “Lavoro a tempo indeterminato, ma non trovo casa perché sono un ex detenuto” di Sara De Pascale ildolomiti.it, 9 marzo 2023 L’odissea di Giacomo e le notti in auto: “Punito a vita per colpe già scontate”. Dopo anni fra carcere e domiciliari, Giacomo è tornato in libertà, dando il via a una vera e propria nuova vita: “Ho un lavoro a tempo indeterminato e mi prendo cura di mia madre non vedente. Fino a qualche mese fa vivevamo insieme, ma siamo stati sfrattati con la ‘scusa’ del bonus 110%. Da allora è iniziata la mia odissea”. “Ho sbagliato nella vita, non sono un santo, ma è anche vero che ho pagato”. Li riassume così Giacomo (nome di fantasia per tutelarne la privacy ndr) gli anni più bui della sua esistenza, “quando per fare qualche soldino avevo deciso di iniziare a spacciare. Oggi, dopo anni fra carcere, domiciliari e semilibertà, credo di poter dire di aver scontato la mia pena”. “Ho finito di scontare le mie colpe nel 2019 e da allora ho scelto di dare una svolta alla mia vita”, rivela Giacomo, originario di Pergine, a Il Dolomiti. L’uomo, dopo anni di reclusione, aveva infatti deciso di ricominciare, cercando un lavoro vero, una casa “e iniziando a pagare multe mai pagate, richiedendo la rateizzazione per essere definitivamente a posto anche su quel fronte”. Oggi quella del trentino parrebbe essere (ma non lo è) un’esistenza come quella di chiunque altro, fra macchina, un impiego a tempo indeterminato e “la cura di mia mamma che da un anno a questa parte ha iniziato a perdere la vista: ora, sono diventato i suoi occhi”. La sveglia di Giacomo suona presto per raggiungere la madre, sostenerla e accompagnarla a bere il cappuccino al bar o alle visite mediche o, ancora, al supermercato, “perché se non ci sono io il rischio è quello che compri prodotti sbagliati”. Intorno alle 12 prende il via il primo turno al lavoro, in un locale di Trento “dove faccio il lavapiatti e mi occupo di tenere pulita e sistemata la cucina, così come l’addestramento carcerario mi ha insegnato a fare - ironizza. Tutto sembrerebbe aver preso la piega giusta se non fosse che non riesco in nessun modo a trovare casa”. Giacomo aveva vissuto con la madre fino al 12 gennaio 2023 in un’abitazione dalla quale sono stati sfrattati, dopo aver ricevuto il consueto preavviso di un mese: “La proprietaria ci aveva detto che avrebbero dovuto fare dei lavori col bonus 110%: da allora, è iniziata la mia odissea, alla ricerca di un nuovo appartamento, che ad oggi non ho ancora trovato”. Sebbene per la mamma sia stato possibile trovare un posto, per Giacomo paiono non esserci alternative: “Ho dormito qualche giorno in macchina e sono approdato infine alla Casa Bonomelli, che consente un soggiorno massimo di 60 giorni: il 21 marzo, dovrò andarmene”. La ricerca dell’uomo è stata continua ed estenuante, fra i vari alloggi visti di persona e i contatti con proprietari di immobili che “finiscono puntualmente per sparire nel nulla o mi dicono che hanno trovato un altro inquilino”. “All’inizio non mi ponevo troppi problemi e col mio datore di lavoro avevamo pensato potesse essere una questione di contratto (lavorativo) - ricorda Giacomo -. Così, il mio titolare ha provveduto a farmi un contratto a tempo indeterminato che tuttavia non ha cambiato le carte in tavola. Ho quindi capito che, quantomeno qui in zona, il problema sta nel fatto di essere un ex detenuto”. “A nessuno importa che io abbia scontato i miei anni di galera, colpevole di aver spacciato, o che ora io sia un uomo diverso con un’auto, un lavoro vero e soprattutto una madre da accudire - conclude sconsolato -. Non mi do per vinto e continuerò nella mia ricerca, anche e soprattutto perché, consapevole di aver sbagliato, non voglio più tornare indietro ma proseguire sulla ‘retta via’“. Difficoltà, quelle di Giacomo, che potrebbero condurre a cercare “vie di fuga più ‘semplici’, come tornare a spacciare, ma io da quel mondo voglio starci lontano”. Se entro il 21 marzo l’uomo non dovesse riuscire a trovare una nuova sistemazione, finirà per tornare a dormire nella sua auto: “Vorrei che le persone capissero che sì, non sono un santo e ho sbagliato, ma non merito di ‘pagare’ a vita. La forza di andare avanti, nonostante tutto, non mi manca, anche perché so che mia mamma ha bisogno più che mai di me”. Palermo. I detenuti: “Pronti a sciopero della fame se non tornano i colloqui telefonici giornalieri” tp24.it, 9 marzo 2023 Sono pronti a fare lo sciopero della fame circa 500 detenuti del carcere Pagliarelli di Palermo se non dovessero essere ripristinati i colloqui telefonici giornalieri. I detenuti hanno reiterato la richiesta di ripristinare i colloqui, dopo la prima istanza presentata da 800 detenuti alla quale non è stato dato seguito. L’istanza è stata presentata dall’avvocato Vito Cimiotta: “I detenuti sono pronti a una forma di protesta pacifica, non alimentandosi, se la richiesta non dovesse essere accolta”. Napoli. Mattarella a Casal di Principe per don Diana, nella biblioteca della “piccola” Laura di Paolo Foschini Corriere della Sera, 9 marzo 2023 Il presidente Sergio Mattarella a Casal di Principe in onore di don Beppe Diana: così il Capo dello Stato celebrerà il 21 marzo, Giornata dell’impegno in memoria delle vittime innocenti delle mafie. In quella occasione visiterà anche la biblioteca “Grillo parlante” aperta in Comune grazie all’insistenza di una ragazzina che all’epoca aveva 12 anni, Laura Zagaria. Era iniziato come il sogno di una ragazzina che allora aveva 12 anni. Il suo nome è Laura Zagaria e quel che sognava era una biblioteca a Casal di Principe, la sua città. Incidentalmente nota quale regno storico più di camorra che di buone letture. Ma Laura scrisse al sindaco, Renato Natale, e ne nacque una mobilitazione di tale forza che la biblioteca arrivò. E assieme alla biblioteca sempre più libri, donati da tutta Italia. E poi scrittori famosi a presentarvi i loro, di libri. E poi addirittura tutti i finalisti del Premio Strega. Ora, il prossimo 21 marzo, in quel sogno di Laura divenuto realtà - e la cui crescita è stata raccontata da Buone Notizie tappa dopo tappa - entrerà anche Sergio Mattarella. È il giorno in cui per la prima volta nella storia d’Italia un presidente della Repubblica andrà in visita a Casal di Principe. In primo luogo per rendere omaggio alla memoria di don Beppe Diana, il sacerdote trucidato dalla camorra il 19 marzo di 29 anni fa. Ma il programma della visita, pur non ancora ufficializzato nei dettagli, sarà denso. E la biblioteca di Laura sarà sicuramente uno degli appuntamenti. La giornata e la città scelta da Mattarella quale mèta della visita non sono casuali: il 21 marzo è il Giorno della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. E quando il sindaco Renato Natale - lo stesso che sette anni fa aveva ricevuto la lettera di Laura - ha ricevuto invece la telefonata del Quirinale con l’avviso di prepararsi all’arrivo del Presidente ha diffuso una dichiarazione dal tono quasi commosso: “È un riconoscimento alla comunità, il riconoscimento di un percorso che è stato fatto”. Trab le sue prime telefonate naturalmente quella a Marisa, la sorella di don Diana. Rileggere a distanza di questi pochi anni la storia della nascita e crescita della biblioteca di Casale in effetti restituisce speranza e fiducia nell’impegno civile che le comunità sanno assumere quando vogliono. La prima donazione di libri era arrivata da un paesino del Veneto, la cui amministrazione era venuta a conoscenza del desiderio di Laura - ormai divenuto anche del suo sindaco - quasi per caso nel corso di un incontro pubblico. Poi le donazioni si erano moltiplicate, il sindaco Natale decise di destinare a biblioteca metà della Sala consiliare del Comune: e così, nello stesso palazzo che per tre volte era stato commissariato per infiltrazioni, venne aperta la biblioteca intitolata al famoso “Grillo Parlante” di Pinocchio, da lui prima schiacciato con un martello per l’insofferenza del burattino alle sue prediche ma poi recuperato nel finale del libro, come in sogno, per ritrovarne la saggezza. Il seguito è l’adesione al sogno da parte di Luigi Ferraiuolo, segretario generale del “Premio Buone Notizie” di Caserta, che prima porta a Casale lo scrittore Erri De Luca e poi in tandem con Buone Notizie del Corriere lancia la “Chiamata alle arti” che sensibilizza una lista di altri scrittori e scrittrici il cui impegno con la biblioteca “Grillo Parlante” non si è più fermato. Fino all’ospite più prestigioso di tutti, il capo dello Stato, in arrivo il 21 marzo. “Donne che si ritrovano dentro”: un libro dà voce alla popolazione femminile delle carceri Famiglia Cristiana, 9 marzo 2023 L’autore, Antonio Giammarino, fotografo professionista impegnato in attività e laboratori all’interno della Casa circondariale di Chieti, racconta le donne che popolano gli istituti penitenziari, le detenute da un lato, e quelle che hanno scelto di stare dentro per la loro professione dall’altro, indagando la speciale relazione di sorellanza che si instaura tra le une e le altre. La situazione drammatica in cui versano le carceri italiane è un problema noto e allarmante. Ancora peggio se si guarda alle sezioni femminili degli istituti penitenziari. I dati indicano che le donne sono meno soggette rispetto agli uomini a delinquere e i loro reati sono per lo più patrimoniali, dai piccoli furti allo spaccio. Eppure, le donne si rtirovano a sottostare a una doppia pena: “da una parte quella che scontano per il reato commesso, dall’altra il fatto che il basso numero e la ridotta gravità dei loro reati portano la burocrazia a deviare la maggior parte delle risorse finanziarie verso il carcere maschile. E’ lecito allora parlare di discriminazione di genere?”. A porsi e porre questa domanda è Antonio Giammarino nell’introduzione del suo libro Donne che si ritrovano dentro (Edizioni Carabba). In questo piccolo volume - pubblicato nel 2022 - denso di storie, testimonianze, riflessioni e grande umanità, l’autore, fotografo professionista di Pescara impegnato da molti anni in molteplici attività sociali, molto attento alle tematiche relative alla popolazione carceraria in Abruzzo, attraverso una serie di interviste racconta l’universo femminile delle carceri dando voce alle donne che popolano la Cara circondariale di Chieti: persone con le quali Giammarino ha avuto modo di relazionarsi personalmente a lungo, avendo svolto all’interno del carcere laboratori socio-culturali-didattici, oltre ad avere tenuto corsi di educazione alla legalità nelle scuole. “Pochi ambienti come il mondo carcerario presentano uno spaccato così etereogeneo dell’universo donna”, scrive l’autore. Da un lato ci sono le detenute, le donne che non hanno, ma si ritrovano ad essere dentro perché hanno compiuto un reato, madri, mogli, sorelle, figlie, ognuna con il proprio vissuto personale, le proprie sofferenze, la propria fragilità. Dall’altro, ci sono le donne che hanno scelto di essere dentro perché nel carcere svolgono la loro professione: agenti, psicologhe, infermiere, assistenti sociali, impiegate amministrative. Le une e le altre, tutte loro sono donne che si ritrovano dentro e che in questa loro condizione - per motivi di lavoro o per scontare una pena - condividono una parte del loro cammino di vita, del loro percorso interiore, in un costante confronto che, molto spesso, genera uno spirito di solidarietà, di straordinaria “sorellanza”. In occasione dell’8 marzo, Giornata internazionale dei diritti delle donne, il libro Donne che si ritrovano dentro offre lo spunto per riflettere su una parte del mondo femminile che normalmente resta lontana dai riflettori, nell’ombra della reclusione carceraria, che sia una scelta o un obbligo. Il volume - che ha ricevuto anche l’elogio di papa Francesco - è corredato da una fotogallery del progetto “Pittura in... musica”, realizzato dalle detenute della Casa circondariale di Chieti. Donne e carcere, quando “Le sbarre non fermano i pensieri” di Roberta Barbi vaticannews.va, 9 marzo 2023 Il primo libro di Annamaria Repichini, ex detenuta del carcere femminile di Rebibbia a Roma che ora vive ai domiciliari, edito da Contrabbandiera (Firenze), sarà presentato l’11 marzo presso la libreria della Capitale “L’altra città”. Sono pagine di amore e speranza, quelle che Annamaria Repichini dà alle stampe per il suo esordio letterario con “Le sbarre non fermano i pensieri”. I suoi, certo, le sbarre di Rebibbia non li hanno mai fermati, anzi, si sono resi eterni con inchiostro e carta sagomati nei ricordi che trovano casa in queste pagine, dalla Roma degli anni Cinquanta che la vede giovane fra Trastevere e Acilia, dall’amore per la mamma alle prime esperienze, fino all’incontro con il marito e quella prima figlia, arrivata quando era ancora giovanissima, e che molti anni dopo condividerà con lei l’esperienza della cella. Ci sono, certo, anche i ricordi del carcere, che però non hanno cancellato la speranza nel futuro: “Ho ancora speranza nel futuro, certo, sia nel mio che in quello della mia famiglia - racconta a Vatican News - il mio messaggio a detenute ed ex detenute è questo: fate sentire la vostra voce, siate forti e coraggiose, non addormentatevi con le terapie, perché la vita è bella. Comunque”. È questo il bilancio che Annamaria fa della sua esperienza detentiva, in cui non ha perso tempo, dedicandosi, tra le altre cose, al teatro nella compagnia Le Donne dal Muro Alto, alla florovivaistica e alla scrittura: “In carcere il segreto per andare avanti è non sprecare il tempo - ribadisce - io mi sono per prima cosa iscritta a scuola, poi ho fatto diverse esperienze, ho riflettuto su me stessa, ho riordinato le idee e mi sono dedicata ai ricordi, anche con questo libro, è fondamentale non crogiolarsi nel dolore”. La detenzione, lei, l’ha vista sempre come una parentesi che, prima o poi, finisce; questa l’arma vincente con cui ha cercato di far evolvere molte delle sue compagne: “Le donne in carcere, sia quelle anziane ma soprattutto quelle giovani, soffrono il doppio, a causa degli affetti lontani, specie quelli dei figli - afferma - sono mamme, nonne, ma anche mogli e sorelle che nella maggior parte dei casi sono finite lì a causa della povertà, ma anche per amicizie sbagliate e, perché no, anche per uomini sbagliati”. Alla domanda su chi vorrebbe che leggesse il suo libro, Annamaria risponde così: “Sicuramente lo leggeranno molte detenute e molte persone che sono coinvolte nel mondo del carcere, come gli educatori o i volontari, magari qualche avvocato o addirittura magistrato… per me sarebbe importante che chiunque lo leggesse capisse che i detenuti non sono numeri, ma sono persone con sentimenti, con le loro gioie e i loro dolori, e quasi sempre con una gran voglia di riscatto”. E le ultime parole che ci dedica sono ancora per loro, le detenute che l’hanno accompagnata per un tratto della sua vita: “Fate cose buone, non sprecate il tempo, perché poi quello che fate di buono ve lo ritroverete. Non date nulla per scontato. Io facendo così sono diventata più riflessiva e meno impulsiva”. E ora è diventata anche scrittrice. Dopo il Reddito di Cittadinanza tagli e restrizioni per i poveri di Andrea Ciarini Corriere della Sera, 9 marzo 2023 Le modifiche del Mia produrranno certo dei risparmi (2-3 miliardi all’anno si stima) ma i problemi di chi è a rischio povertà nonostante abbia un lavoro, rimarranno. Dopo gli annunci sono arrivate anche le anticipazioni. Il nuovo Reddito di Cittadinanza, chiamato MIA (Misura per l’Inclusione Attiva), sarà presentato tra poco, con alcune sostanziali novità in tema di lavoro. I poveri non attivabili continueranno ad avere accesso all’assistenza ma con un sussidio ridotto negli importi e a tempo, per gli altri (i cosiddetti attivabili), oltre alla riduzione degli importi (-30% in media), di nuovo ci sono limitazioni temporali nell’accesso e paletti più rigidi all’attivazione. Viene estesa inoltre la sospensione del sussidio quando si percepisce un reddito superiore ai 3 mila euro annui a tutti i tipi di contratto. Niente di tutto questo serve a scoraggiare il lavoro nero se questo era l’obiettivo. Andava piuttosto ritoccata l’aliquota marginale che oggi, per ogni euro da lavoro guadagnato, riduce il sussidio di 80 centesimi. Queste modifiche produrranno certo dei risparmi (2-3 miliardi all’anno si stima) ma i problemi di chi è a rischio povertà nonostante abbia un lavoro rimarranno. Anzi, è molto probabile che aumenteranno, tanto più se a questa stretta seguirà la reintroduzione dei voucher per il lavoro accessorio per un ampio spettro di settori (l’agricoltura, il commercio, ristorazione e turismo solo per citarne alcuni) dove già oggi è radicato un vasto precariato a rischio povertà. I dati li conosciamo e sono preoccupanti. Più dell’11% della forza lavoro in Italia è rischio povertà, una percentuale nettamente al di sopra della media europea (l’8,9% nel 2021), con le punte di maggiore disagio tra i giovani, le donne e nelle regioni del Sud. Il paradosso è che non si contano così tanti occupati in Italia come oggi, come ha ricordato l’Istat nell’ultimo rapporto sull’occupazione (+465 mila unità rispetto allo scorso anno). Ma non basta aumentare l’occupazione per avere condizioni di lavoro decenti, se quasi la metà dei lavoratori italiani ha contratti scaduti che non vengono rinnovati. E non basta eliminare o dare una stretta al Reddito di Cittadinanza perché gli attivabili trovino un lavoro, né basta dire che sarà rafforzata la formazione. Già oggi i beneficiari devono seguire corsi di formazione. Lo stesso programma GOL ha tra i suoi target i percettori di RdC. Ma anche con i nuovi corsi di formazione i risultati rischiano di rimanere al di sotto delle attese, specie nelle aree del paese più deboli, dove peraltro la presenza delle agenzie private di collocamento (che entreranno nel sistema di attivazione) è scarsa. E questo per un semplice motivo. Quando la domanda è debole o stagnante, come in molte aree del Mezzogiorno, quando il lavoro pagato poco o sommerso è l’unica alternativa alla disoccupazione, le politiche attive del lavoro possono poco se rimangono slegate da interventi per creare e fare emergere nuova domanda di lavoro. Negli anni passati la sinistra non si è occupata abbastanza non solo degli ultimi ma anche di molti penultimi incastrati in lavori mal pagati. Nei loro confronti è necessaria una offerta politica più radicale perché sono le fratture e le disuguaglianze che si sono fatte più profonde: non il basso costo del lavoro come unica possibilità di inserimento lavorativo; non bonus di ogni sorta per questa o quella categoria, ma salario minimo e integrazioni fiscali per aumentare le retribuzioni nette di chi è a rischio intrappolamento nel lavoro povero; non il reddito minimo che torna a essere residuale, ma uno strumento in grado di raggiungere anche i beneficiari che un lavoro lo hanno trovato, senza decalage, sospensioni o forme più o meno esplicite di stigmatizzazione sociale; non solo le politiche attive del lavoro quando l’occupazione rischia di essere spiazzata ma politiche per la piena occupazione e investimenti per creare lavoro a partire dai bisogni non soddisfatti e scoperti dei territori, specialmente quelli più deboli o a rischio desertificazione non solo industriale ma anche sociale. Si tratta di bisogni sociali, ambientali, culturali, legati a filiere territoriali di prossimità che possono incubare nuova occupazione se inseriti in una strategia per trasformare questi bisogni in domanda di lavoro. È questa del resto la filosofia di molti programmi di Job Guarantee che iniziano a essere sperimentati in alcuni paesi europei e che farebbero bene anche all’Italia, in un rapporto con gli attori della società civile e del terzo settore che non guardi semplicemente al sostegno degli ultimi, ma alla ideazione e realizzazione di interventi in grado di rivitalizzare tutto il perimetro del welfare. Fine vita e ius soli. L’agenda Schlein punta sui diritti di Giovanna Casadio La Repubblica, 9 marzo 2023 Dai detenuti alle coppie gay: pronto il pacchetto di proposte che la nuova segretaria lancerà dopo l’Assemblea Pd di domenica 12 marzo. La goccia, che fa traboccare il vaso, è uno stop inatteso: si ferma la corsia veloce per la legge sui figli in carcere con le madri detenute. Una vergogna da sanare: 19 bimbi sono dietro le sbarre invece che in una casa protetta con le loro mamme. Fratelli d’Italia carica di emendamenti la proposta, il Pd non ci sta. Si blocca tutto e si rinvia. Perciò “reagire si deve”: commenta Debora Serracchiani, la capogruppo dem. Il Pd di Elly Schlein lancia la campagna per i “nuovi diritti” e pensa a una primavera di mobilitazioni. Non più relegati a margine, i diritti della persona - sociali e civili - saranno centrali nella linea della neo segretaria. Un esempio. Mentre rilancia la lotta ai contratti pirata, sul salario minimo, sul contrasto al part time involontario, Schlein sottoscrive la modifica della legge sull’immigrazione Bossi-Fini. La proposta è stata presentata dal segretario di +Europa, Riccardo Magi, ma oggi il testo che arriva in commissione Affari costituzionali della Camera è firmato anche dalla neo segretaria, da Serracchiani e da Matteo Mauri e Simona Bonafè. La Lega vuole ripristinare i decreti sicurezza di Salvini? Ecco la controffensiva: regolarizzazioni, permesso di soggiorno temporaneo per gli immigrati che cercano lavoro, reintroduzione del sistema dello sponsor. Nella società saranno le associazioni, già riunite nella campagna “Ero straniero”, a battere un colpo. Il cantiere-diritti di Schlein è ricco di progetti, con alcune priorità: legge sul fine vita, battaglia per il riconoscimento dei genitori gay in tutta la Ue, matrimonio egualitario. Alessandro Zan, il parlamentare e attivista Lgbt che ha dato il nome al ddl contro l’omotransfobia, affossato nell’ultimo miglio, avverte: “Serve una mobilitazione. Ripresentiamo le leggi che erano a un passo dalla approvazione in via definitiva nella passata legislatura e che sono state bloccate, come il fine vita. Però si va anche oltre, puntiamo al matrimonio egualitario”. Fine vita - Qualcosa si muove. La legge per una morte dignitosa si impantanò al Senato, dove il leghista allora a capo della commissione Giustizia, Ostellari la osteggiò. Ma c’è la sentenza del 2019 della Consulta che, dopo il “caso dj Fabo-Cappato”, sollecita il Parlamento a legiferare. I Verdi-Sinistra hanno preparato una proposta firmata dai capigruppo Luana Zanella e Peppe De Cristoforo, sul suicidio assistito che semplifica procedure e amplia i casi. Adesso con il Pd di Schlein e le altre opposizioni contano di metterla in calendario: assicura Francesca Ghirra (AVS). Dopo le unioni civili, il matrimonio - Per il nuovo Pd la legge sulle unioni civili, detta anche legge Cirinnà (la dem Monica Cirinnà ne fu la madrina), è insufficiente. Dice Zan: “E’ una legge comunque discriminatoria, perché per le coppie eterosessuali è possibile il matrimonio che per quelle omosessuali è vietato. Va eliminata questa disparità di trattamento e ci batteremo per il matrimonio egualitario. Lo Stato non può più tollerare famiglie di serie A e di serie B”. Anche Ivan Scalfarotto per Iv presenta una proposta su matrimonio egualitario. Genitori gay riconosciuti nella Ue - Il Pd annuncia una dura battaglia in Parlamento dove è scontro con la destra sul parere da mandare a Strasburgo sul riconoscimento dei genitori gay. Zan rilancia: “Il regolamento Ue indica che due madri e due padri devono essere considerati tali in tutti gli stati dell’Unione, un provvedimento di civiltà e buon senso, presentato con orgoglio dalla stessa Ursula Von der Leyen, non di certo un’estremista di sinistra. Sui diritti è la destra italiana a essere retrograda e reazionaria, con posizioni alla Orban e non certo delle destre dei paesi europei più avanzati”. Si riprende poi, con la stepchild adoption, l’adozione del figlio del partner che fu stralciata dalle unioni civili. Legalizzazione della cannabis - La proposta per la legalizzazione di 4 piantine di cannabis a uso domestico per ora giace nei cassetti della commissione giustizia di Montecitorio. La proposta di Magi è sottoscritta anche da Elly Schlein. Ius Soli - La cittadinanza italiana ai figli di immigrati nati e cresciuti nel nostro Paese è nel Dna del Pd. È in cima all’agenda dem la proposta a firma Matteo Orfini Ddl Zan - La legge contro l’omotransfobia è stata ripresentata in Parlamento. Migranti. Braccio di ferro tra Meloni e Salvini sul nuovo decreto di Andrea Colombo Il Manifesto, 9 marzo 2023 Il leghista vuole norme più dure dei suoi decreti del 2019. La premier tratta con l’Ue. Oggi il cdm a Cutro. In superficie la concordia è perfetta: nessuna distinzione tra le impostazioni di Meloni e Salvini sull’immigrazione. Sott’acqua invece le divisioni ci sono eccome e per certi versi le strategie sono quasi opposte. Per questo il preconsiglio dei ministri che ieri pomeriggio avrebbe dovuto scrivere il copione per il cdm di oggi a Cutro è slittato a stamattina e ieri sera molto era ancora in forse. Non solo la sostanza ma anche la forma: decreto unico o misure distinte? Molto probabilmente prevarrà la prima ipotesi, sponsorizzata da Chigi ma neppure questo è ancora certo. Più che di un braccio di ferro si tratta di una partita a dama, nella quale ciascuno cerca di avanzare e conquistare posizioni. La presidente non ha alcuna intenzione di uscire dalla riunione del governo a Cutro con appiccicata addosso l’etichetta dell’aguzzina. Il lavoro sull’immagine è di senso opposto e non le sfugge che la location è destinata ad amplificare tutto. L’irrigidimento contro scafisti e trafficanti, sul quale sono tutti d’accordo, è garantito. Aumenteranno le pene, attualmente da 1 a 5 anni, e le multe, per ora di 15mila euro. Verrà introdotta l’aggravante in caso di decessi tra i migranti trasportati. Sin qui è tutta discesa. Anche sulle agevolazioni per i profughi non dovrebbero esserci grossi problemi. I corridoi umanitari, specialmente se arriverà il mezzo miliardo di euro promesso da von der Leyen, saranno di certo nominati. Lo snellimento delle pratiche per il riconoscimento d’asilo non dovrebbe incontrare ostacoli. Già molto meno liscio il capitolo flussi, quello che riguarda non i profughi ma i “migranti economici”, insomma quelli che fuggono solo dalla morte per fame. Saranno ampliati sia nel numero che nella durata ma quanto e per quanto è oggetto di contesa. Il ministro Lollobrigida aveva parlato di 500mila ingressi legali, il collega Piantedosi, che se non è un pupazzo del ventriloquo Salvini poco ci manca, aveva derubricato a 85mila ingressi l’anno, l’Agricoltura ritiene che ci sarà bisogno di 200mila paia di braccia, ai leghisti sembra uno sproposito. Qui la partita è ancora tutta aperta. La vera spina però è quel che nel decreto non dovrebbe esserci e che invece Salvini vuole a tutti i costi: disposizioni che permettano una crociata non solo per “fermare le partenze” ma anche per respingere gli arrivi, buttare fuori gli irregolari, stringere le maglie dei permessi di soggiorno. Insomma, il ritorno ai decreti Sicurezza del 2019, quelli firmati da Salvini e dal suo capo di gabinetto Piantedosi. La Lega gioca su due tavoli: quello governativo a Cutro e quello parlamentare a Roma. Nella commissione Affari costituzionali della Camera verrà incardinata proprio oggi una proposta di legge a firma Iezzi-Molinari che quanto a restrizioni sui permessi di soggiorno va persino oltre i dl Sicurezza. “Vedremo se FdI li voterà o no”, lancia la sfida Molinari anche se il voto e di là da venire. “Non ci sono nostre obiezioni”, assicura il vicepresidente della commissione De Corato, un fratello tricolore ma di quelli vecchio stile, poco permeato dal nuovo corso meloniano. Fi, in forma anonima, si dice certa che la proposta perderà ogni senso grazie al decreto che il governo si accinge a varare e lo stesso De Corato è sicuro che nel dl di Cutro la stretta sui permessi ci sarà. Per Giorgia Meloni è un rompicapo che potrebbe essere parzialmente risolto con un escamotage: stringere un po’ le maglie ma con la clausola che nessuno verrà rinviato nei paesi d’origine se con la vita a rischio. Come la premier uscirà dal labirinto lo si capirà solo oggi, ma certo il sostegno europeo le offre una carta forte. Dopo la lettera della presidente della Commissione europea ieri lo ha confermato anche il premier olandese Rutte, dopo l’incontro a Roma. L’olandese ha ammesso che in materia Italia e Olanda non sono d’accordo su tutto aggiungendo però che la collaborazione può essere “il motore per trovare soluzioni”. Piena intesa sulla guerra ai trafficanti e sulla necessità di collaborare con i Paesi africani e aperto apprezzamento della lettera di von der Leyen, quella della “soluzione europea per una sfida europea”. Parole che Meloni considera un decisivo “cambio di passo”. Migranti. Cosa c’è nel decreto legge: dai permessi umanitari a pene più severe per gli scafisti di Grazia Longo La Stampa, 9 marzo 2023 Spunta norma contro la corruzione nell’accoglienza: il governo studia un provvedimento per stoppare eventuali altri casi Soumahoro, introducendo più controlli sulle realtà che incassano soldi pubblici. “Regole più stringenti sull’accoglienza, una stretta sui permessi umanitari”, la linea della Lega che insiste sulla necessità di tornare ai decreti sicurezza di Salvini. La linea di Fdi è quella di puntare alle norme che verranno inserite nel Consiglio dei ministri di domani a Cutro, poi di aprire il confronto in Parlamento. Il partito di via Bellerio torna a chiedere “l’allontanamento di chi non ha diritto a stare in Italia come fanno tutti gli altri Paesi del mondo”. “Stiamo preparando un decreto importante ed equilibrato che reintroduce alcune regole di salvataggio e sicurezza”, ha detto il vicepremier e ministro delle Infrastrutture, Salvini. Il testo è ancora in lavorazione e il pre-consiglio dei ministri, in un primo momento convocato per le 16 di oggi, è slittato a questa mattina alle 8,30. Ma il contenuto del decreto potrebbe arrivare direttamente nel Consiglio dei ministri, spiega una fonte. I partiti attendono di conoscere cosa verrà inserito. “Non possiamo discutere di misure se non abbiamo ancora visto niente”, dice un esponente di primo piano del partito di via Bellerio. È prevista la linea dura contro gli scafisti e un’aggravante in caso di naufragio dell’imbarcazione e di morte dei migranti. Ma nel pacchetto non ci saranno solo misure di contrasto: oltre all’intenzione di rendere effettive le espulsioni, con accordi con i Paesi di origine, si punta anche a norme per facilitare le procedure per chi ha le carte in regola per arrivare in Italia, su nuovi corridoi umanitari, su finanziamenti ad hoc per i comuni per l’attività di inclusione, su una maggiore apertura ai flussi migratori regolari, sul rafforzamento dei centri di accoglienza. Il presidente del Consiglio Meloni guarda anche al Consiglio europeo del 24 e 25 marzo. “Si conferma un cambio di approccio” dell’Europa, “ci devono essere dei passi in avanti”, la questione migratoria - ha sottolineato - “va affrontata partendo dalla difesa dei confini esterni e dalla lotta ai trafficanti”. La premier che aveva già parlato per un’ora con il primo ministro olandese Rutte a margine dello scorso Consiglio europeo ha trovato una sponda sul fatto che il tema dell’immigrazione non può riguardare solo i Paesi d’arrivo dei migranti. FI e Lega insistono sulla necessità di una convergenza sul pacchetto di norme e c’è preoccupazione anche per il ruolo del Parlamento. “Se non ci convincono le norme saremo liberi di esprimerci in Aula”, mette in chiaro un ‘ex lumbard’. In realtà anche in FdI c’è chi rilancia la necessità di un dialogo preventivo per evitare strappi quando il decreto (ma potrebbero essere più provvedimenti) che dovrà passare il vaglio del Quirinale (“Ci stiamo confrontando”, spiega una fonte dell’esecutivo) arriverà alle Camere. Intanto, in vista del Consiglio dei ministri di domani a Cutro tecnici al lavoro e, riferiscono fonti di maggioranza, spunta una norma per stoppare eventuali altri casi Soumahoro, introducendo più controlli sulle realtà che incassano soldi pubblici per l’accoglienza. Inoltre si lavora a ridurre i vincoli per realizzare i Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) in modo da facilitare le espulsioni. Migranti. Detenzione fino a 6 mesi: i Centri di rimpatrio tornano a essere prigioni di Alessandra Ziniti La Repubblica, 9 marzo 2023 Pronto il giro di vite del governo sulla permanenza nei Cpr: ce ne sarà uno per regione, concessione alle richieste leghiste. La stretta alla protezione internazionale no. E neanche l’esclusione dei richiedenti asilo da corsi di italiano, formazione, progetti di lavoro. Meno che mai gli ulteriori paletti ai ricongiungimenti familiari. Sono giorni ormai che, sfogliando la margherita delle nuove norme su cui gli uffici legislativi del Viminale stanno lavorando per mettere a punto un provvedimento che reintroduca alcuni dei capisaldi dei vecchi decreti sicurezza, si procede per esclusione. Nonostante le spinte di Matteo Salvini, che ancora ieri hanno portato il governo a non trovare la quadra, niente di tutto questo ovviamente può essere portato dal cdm sulla spiaggia di Cutro. Niente, sarebbe la mediazione in corso in queste ore, tranne la riscrittura delle regole dei rimpatri con quella che Matteo Piantedosi definisce “la logistica del supporto”. In altre parole, i CPR, gli odiosi centri per il rimpatrio, vere e proprie carceri in cui gli immigrati che non hanno diritto a rimanere in Italia vengono rinchiusi in regime di detenzione amministrativa. Un allungamento dei tempi di detenzione in attesa del rimpatrio (da tre a sei mesi) e la realizzazione di nuovi centri (uno per ogni regione) insieme al potenziamento dei dieci già esistenti è l’unica delle misure “di ritorno” del vecchio decreto sicurezza che alla fine potrebbe entrare nei provvedimenti che il Cdm adotterà a Crotone. Un contentino per Salvini che ancora ieri a Verona ha insistito: “Il ministro dell’Interno Piantedosi sta lavorando ad un decreto che aiuta a garantire diritti a chi li ha, a salvare vite, però garantisca l’allontanamento di chi non ha diritto di stare in Italia, come fanno tutti gli altri Paesi del mondo”. Sulla riforma dei CPR Piantedosi punta molte delle sue carte per rendere effettive quelle espulsioni che, nella stragrande maggioranza, restano solo sulla carta anche verso i pochi Paesi (considerati sicuri) con i quali l’Italia ha stretto accordi che adesso prevedranno anche quote premiali di ingressi regolari nel nuovo decreto flussi. Davanti alla commissione Affari costituzionali, Piantedosi ha dato i numeri aggiornati dei rimpatri: soltanto il 50% degli immigrati irregolari trattenuti nei CPR viene effettivamente rispedito a casa. I pochissimi accordi con i Paesi di origine, la necessità che questi riconoscano l’identità del migrante e ne accettino il rientro, le lungaggini burocratiche, i ricorsi, fanno sì che, una volta su due, gli attuali 90 giorni al momento previsti per il loro trattenimento nei CPR passino con un nulla di fatto. E, alla fine, i migranti (dopo una inutile quanto vessatoria detenzione in strutture fatiscenti, affidate a privati, affrancate dal controllo dei magistrati di sorveglianza e in condizioni vergognose) vengono lasciati andare. D’altra parte, i rimpatri reali di coloro che sono liberi sono inesistenti, solo il 2 %. Per un numero complessivo di espulsioni effettive che, mediamente, si aggira sulle 3.000 all’anno, nulla rispetto agli oltre 50.000 fogli di via consegnati nel 2022 e diventati carta straccia. Da qui la scelta di ampliare la rete dei CPR (che adesso conta su 1.110 posti) grazie ad un finanziamento di 42 milioni di euro già previsto nella legge di bilancio. E poi c’è la nuova idea di Piantedosi: i rimpatri forzati accompagnati, una via di mezzo tra l’espulsione obbligatoria e i rientri volontari (curati dall’Oim) accompagnati da una somma di denaro con la quale chi torna nel suo Paese può avviare un’attività. Somma che - secondo la proposta Piantedosi - potrebbe essere data anche a chi è comunque destinato ad un rimpatrio forzato per evitare opposizioni e resistenze che spesso vanificano l’espulsione. Migranti. Naufragio di Cutro, c’era già stata una richiesta di soccorso un giorno prima del disastro di Giovanni Tizian e Nello Trocchia Il Domani, 9 marzo 2023 Esistono una serie di dispacci dal Centro di coordinamento dei soccorsi marittimi della Guardia Costiera (Imrcc) con questo codice, Sar case 384, inviati alle “navi in navigazione nel mar Ionio”, perché quella è la zona da cui è arrivato un segnale di mayday da un natante in possibile “distress”. Dispacci che precedono di un giorno abbondante le segnalazioni ufficiali, a partire dalla quella di Frontex del 25 febbraio sera. Il primo firmato Guardia costiera è del 24 febbraio, ore 20.44: Sar case 384. Con il primo messaggio inviato il 24 alle 20.44 a tutte le navi in circolazione si descrive una barca in difficoltà nel mar Ionio, stessa area marittima in cui si trovava quella naufragata. Era la stessa? Nessun’altra barca è arrivata a riva. C’è un mistero attorno al naufragio di Steccato di Cutro in cui hanno perso la vita 72 persone, tra questi sedici bambini. Si tratta di un cosiddetto Sar case, identificato con il numero 384. È la formula che certifica un’operazione di search and rescue, ricerca e soccorso in mare. Esistono dispacci dal Centro di coordinamento dei soccorsi marittimi della Guardia Costiera (Imrcc) con questo codice, Sar case 384, inviati alle “navi in navigazione nel mar Ionio”, perché quella è la zona da cui è arrivato un segnale di mayday da un natante in possibile “distress”. Dispacci che precedono di un giorno abbondante le segnalazioni ufficiali, a partire dalla quella di Frontex del 25 febbraio sera, della nave finita in tragedia. Il primo - firmato Guardia costiera - è del 24 febbraio, ore 20.44: Sar case 384. Sui social il giornalista Sergio Scandura aveva rilevato la stranezza di un dispaccio della mattina del 25. Domani ha raccolto le altre comunicazioni, che iniziano la sera del 24, e sentito la Guardia costiera, che, dice: “La stessa imbarcazione? Non può escludersi al 100 per cento”. Con il primo messaggio inviato il 24 alle 20.44 a tutte le navi in circolazione si descrive una barca in difficoltà nel mar Ionio, stessa area marittima in cui si trovava quella naufragata. Per questo potrebbe essere quella che poi si spezzerà nelle acque calabresi la notte del 26 febbraio. I dispacci arrivano fino alla mattina del 25 febbraio per poi non avere più seguito. Il mistero - Possibile che la barca indicata in questi dispacci e quella di Cutro fossero le stesse? È un mistero che dalla Guardia costiera non riescono definitivamente a chiarire: “Non essendo stata trovata l’imbarcazione dell’evento Sar 384 non si può avere la certezza che fossero due situazioni diverse, la certezza l’avremmo avuta se l’avessimo individuata e allora si poteva escludere senza ombra di dubbio”. Un funzionario della Guardia costiera spiega che dopo avere ricevuto la segnalazione, tramite un canale radio, hanno avvisato le navi in circolazione nel mar Ionio ma l’imbarcazione non è stata individuata. “C’è stato anche un volo della Guardia di finanza ma non è stato riscontrato nulla”. Eppure nei giorni del 24 e 25 non risulta, né alla Guardia costiera né al ministero dell’Interno, alcuno sbarco sulla costa calabrese. Che fine ha fatto dunque la barca in sofferenza del mar Ionio. Secondo alcune fonti investigative, consultate da Domani, incrociando i dispacci del 24 e 25 con la posizione del natante che si spezzerà sulla costa calabrese molti elementi farebbero pensare che si tratta della stessa imbarcazione. La Guardia costiera sostiene, al contrario, che per la modalità con cui è arrivata la segnalazione la barca doveva per forza trovarsi vicino alla costa, dunque escluderebbe l’ipotesi della barca poi naufragata. Altri esperti sostengono invece che nel canale radio indicato nei dispacci del 24 febbraio si possa comunicare da ovunque. La questione Sar - L’apertura dell’evento Sar 384, avrebbe dovuto mettere in allarme e attivare un immediato intervento quando Frontex ha avvistato un barcone in direzione Isola Capo Rizzuto. La segnalazione dell’agenzia europea delle frontiere è arrivata alle 23:03. Il governo l’ha definita generica, senza l’indicazione di un’emergenza in atto. Ma la comunicazione di Frontex, l’avvistamento è delle 22:26, conteneva tre elementi essenziali. Primo: soltanto una persona era visibile a bordo, ma “le termocamere dell’aereo Frontex hanno rilevato una significativa risposta termica dai portelli aperti a prua e altri segni che potrebbero esserci persone sotto il ponte”. Secondo: non risultavano visibili giubbotti di salvataggio a bordo. Terzo elemento, collegato all’evento Sar 384: Frontex aveva captato una chiamata satellitare diretta in Turchia. Tutto questo non è servito per far scattare l’evento Sar o valorizzare quello aperto ore prima e scomparso nel nulla. Frontex indica posizione dell’imbarcazione, immagini all’infrarosso, rotta e velocità che avrebbero consentito di calcolare le ore necessarie per l’arrivo sulle coste italiane del caicco e prevedere l’arrivo della tempesta. La Guardia costiera non si muove, lo fa la Guardia di finanza che ha un limite di 12 miglia, massimo di 24, perché è un’operazione di polizia di frontiera, e quindi aspetta. Tempo sprecato - Passano ore decisive, le fiamme gialle sono uscite con due imbarcazioni, solo alle 2:20. Hanno rischiato di incrociarsi pericolosamente nelle acque in burrasca, sono rientrate e poi hanno ripreso il mare per fare ritorno in porto alle 3 passate. Come Domani ha svelato, alle 3:40, la sala operativa del comando provinciale di Vibo Valentia comunica all’autorità marittima di Reggio Calabria il rientro delle unità navali chiedendo alla Guardia costiera l’intervento di proprie unità navali per raggiungere il target, senza ricevere riscontro. La Guardia costiera smentisce questa ricostruzione, ma non fornisce indicazioni, dati, elementi. E ammette di non essere certa che il caso Sar 384 non fosse quello finito in tragedia a Steccato di Cutro. Menzogne, arroganza, guerre: se la storia ignora la memoria di Massimo Nava Corriere della Sera, 9 marzo 2023 Anniversari e ricorrenze rimandano al conflitto fra sovranità degli Stati e diritti dei popoli, che ha offerto negli ultimi vent’anni i più svariati pretesti per interventi armati. Decisamente, il mese di febbraio è stato un mese di anniversari importanti. Non solo quello, appena ricordato, dell’invasione russa dell’Ucraina, ma anche di quello di vent’anni fa, in cui maturò la decisione degli Usa di invadere l’Iraq. Storia e Memoria non si divertono con le coincidenze, ma le analisi dovrebbero tenerne conto. La maggioranza dei Paesi rappresentati all’Onu ha condannato l’azione della Russia, ma allora l’Assemblea assistette a due drammatici interventi contrapposti. Il 5 febbraio, il segretario di Stato Usa, Colin Powell, cercò di dimostrare che il dittatore Saddam Hussein fosse in possesso di armi di distruzione di massa e che pertanto andasse attaccato, con l’obiettivo di abbattere il regime e avviare un processo democratico. Ma il ministro degli esteri francese, Dominique de Villepin, si oppose con fermezza, sostenendo la necessità di perseguire la via diplomatica e i controlli delle agenzie internazionali sugli arsenali dell’Iraq. Di fatto, si creò una spaccatura fra Francia e Stati Uniti, la cui onda lunga sarebbe arrivata in Europa e nel mondo arabo e africano. L’immagine dell’America fu offuscata. La Storia darà ragione alla Francia. Non solo perché le accuse di Powell si dimostrarono false, come lui stesso ammise anni dopo, ma perché la guerra in Iraq avrebbe fatto a pezzi il diritto internazionale e innescato una drammatica instabilità in tutto il Medio Oriente, le cui conseguenze furono il Califfato dell’Isis, gli attentati di matrice islamica in Europa, la guerra in Siria. In Iraq, all’invasione e ai bombardamenti seguirono anni di attentati contro la popolazione civile e scontri fra le componenti religiose. In Afghanistan, cominciò un’altra operazione militare, fino all’ignominiosa riconquista da parte dei talebani. “In Iraq - disse de Villepin dopo il conflitto - non erano in gioco soltanto guerra e pace, ma anche le regole su cui deve essere fondato l’ordine internazionale. L’intervento preventivo non può essere una regola”. L’allora segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan definì l’intervento in Iraq con un solo aggettivo: “Illegale”. Come in una profezia, de Villepin aveva indicato il rischio di aggravare le divisioni tra società, culture e popoli, un terreno fertile per il terrorismo e l’instabilità internazionale. “La guerra è sempre la sanzione di un fallimento. (...) Parlo a nome di un vecchio Paese, la Francia, di un continente come il mio, l’Europa, che ha conosciuto guerre, occupazioni, barbarie...”. Ma furono parole al vento. Allora, come del resto oggi, la diplomazia fu messa tra parentesi, accantonata come un segno di debolezza o peggio di benevolenza verso il nemico. Salvo ritornare di moda in un deserto di lutti e macerie. Colin Powell a un giornalista dell’Abc News ammise: “Naturalmente. È una macchia. Io sono colui che ha agito in nome degli Stati Uniti e questo sarà parte della mia storia. È stato doloroso”. Ma il 20 marzo, esattamente vent’anni fa, la guerra cominciò e l’Iraq fu invaso dalla cosiddetta “coalizione di volenterosi”, guidata da Stati Uniti e Gran Bretagna e sostenuta - ieri come oggi - dal più solerte alleato degli americani, la Polonia. Non erano necessarie sfere di cristallo, rapporti dell’intelligence o profonda conoscenza dell’Iraq per prevedere che la guerra sarebbe stata breve e il dopoguerra infinito. Bastava ascoltare testimoni del tempo come il vecchio Amir, che citava Lawrence d’Arabia: “Quando si comincia una guerra da queste parti è come mangiare una zuppa con il coltello”; o guardare vecchie fotografie, come quella del 1917 (per chi ama le coincidenze, era sempre in marzo), che raccontavano l’invasione britannica. I soldati che entravano a Bagdad erano agli ordini del generale Stanley Maude che disse: “Non veniamo qui come nemici, né come conquistatori, ma come liberatori”. Seguirono rivolte e massacri. I vecchi di Bagdad non potevano accertare l’esistenza delle armi di distruzione di massa, il pretesto della guerra, ma nemmeno immaginare che la tragedia del loro Paese sarebbe cominciata con una bugia proclamata nella massima istituzione internazionale. La guerra divise l’Europa, dal momento che Francia e Germania si opposero all’intervento, mentre Gran Bretagna, Polonia e Italia sostennero la decisione americana. Anni dopo, anche il Parlamento di Londra mise sotto accusa il premier Tony Blair, confermando che l’intervento fu deciso sulla base di motivazioni false e non seriamente vagliate. La Francia, allora paladina del diritto internazionale e dell’opposizione alla guerra, cambiò tuttavia registro anni dopo: l’ex presidente Nicolas Sarkozy fu infatti il primo sostenitore del bombardamento della Libia per eliminare Gheddafi. Seguirono guerra civile, scontri tribali, ondate migratorie, instabilità endemica. Anniversari e ricorsi storici, oggi come ieri, rimandano al conflitto fra sovranità degli Stati e diritti dei popoli e delle minoranze. Conflitto che ha offerto negli ultimi vent’anni i più svariati pretesti e giustificazioni per interventi armati. Basti ricordare la legittima difesa e la lotta al terrorismo (Afghanistan), il dovere d’ingerenza (Bosnia, Kosovo), le armi di distruzione di massa e l’esportazione della democrazia (Iraq), la protezione di una minoranza (Libia). Giustificazioni più o meno etiche, come il “bombardamento umanitario”, un ossimoro, o dettate da ambizioni e interessi strategici, che hanno contribuito a indebolire il sistema internazionale delle regole e a mortificare il ruolo delle Nazioni Unite, con il risultato che il vuoto di legalità è stato progressivamente riempito da altre logiche, da obiettivi politici e militari con pretesa di fondamento morale e ideologico e in sostanza dalla più ignobile delle leggi, quella del più forte, come nella martoriata Ucraina, vittima della legge di Putin. Francia. La strana morte in carcere a Parigi di una mamma napoletana di Manuela Galletta La Stampa, 9 marzo 2023 Per i francesi si sarebbe tolta la vita, i parenti chiedono la verità. Gilda Ammendola, 32enne di Portici, è deceduta nel carcere di Fleyry-Mèrogis. Poco prima aveva fatto sapere ai famigliari di inviarle effetti personali. Una prima telefonata per chiedere l’invio di un pacco contenente abiti e pochi altri effetti personali, ché non c’era certezza sulla durata della reclusione in carcere. Poche ore dopo un’altra telefonata per comunicare la più drammatica delle notizie: di quel pacco non vi era più bisogno, chi avrebbe dovuto riceverlo si era tolto la vita. E’ giallo sulla morte di Gilda Ammendola, la 32enne di Portici deceduta nel carcere di Fleyry-Mèrogis a Parigi. La procura di Roma ha aperto un’inchiesta a seguito dell’esposto presentato dall’avvocato Domenico Scarpone su input dei parenti della donna. Unica via, quella dell’esposto, per superare i muri procedurali francesi: alla famiglia di Gilda non è stato consentito né di vedere il corpo né tantomeno di partecipare, mediante un loro perito, all’autopsia svolta a Parigi. Chiamando in causa gli inquirenti italiani, invece, si apre un doppio binario di indagine che permetterà agli Ammendola di seguire da vicino la ricerca della verità. Una verità che ad oggi ha pochi punti fermi. Madre di una bambina di 8 anni, Gilda viene arrestata il 21 gennaio. Il giorno seguente la famiglia della donna riceve una telefonata da un funzionario del carcere che li informa di una richiesta fatta proprio da Gilda: la 32enne chiede alcuni effetti personali. Terminata la telefonata, i parenti della donna raccolgono le cose necessarie e si attivano per il trasferimento a Parigi del pacco. Poche ore dopo, però ricevono una nuova telefonata dal carcere. E’ sempre un funzionario, ma stavolta il contenuto dell’informazione è drammatico: Gilda Ammendola si è tolta la vita, impiccandosi. I familiari della 32enne restano sgomenti. “Per quale ragione una persona che pensa di suicidarsi chiederebbe effetti personali necessari ad affrontare le giornate in prigione?”, si domandano. Da Parigi poi non arrivano risposte. Lì ci sono procedure diverse e la famiglia di Gilda è sostanzialmente tagliata fuori. La giustizia italiana resta l’ultima spiaggia. L’avvocato Scarpone chiama in causa la procura di Roma e parte un’indagine parallela. Già disposta l’autopsia che si sarebbe dovuta tenere ieri ma, per motivi tecnici, è stata rinviata a martedì prossimo. Il pubblico ministero Eugenio Albamonte, titolare del fascicolo, ha nominato il professore Luigi Cipolloni, che fece parte del pool medico-legale incaricato dalla procura del caso Cucchi, per eseguire l’esame autoptico. È il primo step per capire se nella morte di Gilda Ammendola ci sono zone d’ombra. Svizzera. Detenuto ricorre al suicidio assistito Corriere del Ticino, 9 marzo 2023 Un uomo condannato nel Canton Zurigo a una misura di internamento ha messo fine alla sua vita con l’aiuto di Exit. Si tratta della prima persona in questo regime che ha fatto ricorso al suicidio assistito in Svizzera. La notizia, pubblicata dalla “WOZ - die Wochenzeitung”, è stata confermata all’agenzia Keystone-ATS dalla direzione di giustizia e degli interni zurighese. In base a un’anticipazione dell’articolo sull’edizione che uscirà domani, l’interessato è un uomo internato nel carcere Bostadel di Menzingen (ZG), e il suicidio assistito è avvenuto il 28 febbraio al di fuori della prigione. Quest’ultima non ha voluto commentare. Da parte sua il dipartimento zurighese non ha fornito indicazioni sull’uomo per motivi di protezione dei dati e della personalità, ma ha sottolineato che il diritto di ogni persona capace di discernimento di scegliere il momento della propria morte vale anche per i detenuti: l’assistenza al suicidio non può essere negato soltanto perché la persona in questione è sottoposta a un’esecuzione delle pene o delle misure. Congo. Omicidio Attanasio, chiesta la pena di morte per i sei imputati nel processo di Giusy Baioni e Gianni Rosini Il Fatto Quotidiano, 9 marzo 2023 La pena di morte è spesso richiesta e comminata nella Repubblica Democratica del Congo per casi legati alla sicurezza nazionale, ma non viene applicata da 20 anni e viene sistematicamente commutata in ergastolo. Sugli imputati pendono le accuse, a vario titolo, di omicidio, associazione a delinquere e detenzione illegale di armi e munizioni da guerra, con quest’ultima accusa che giustifica il ricorso al tribunale militare. La procura di Kinshasa ha chiesto la pena di morte per i sei imputati nel processo congolese sull’agguato nel quale il 22 febbraio 2021 vennero uccisi l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e l’autista del programma alimentare mondiale Mustapha Milambo. Di fronte ai giudici militari che si sono riuniti sotto il tendone adibito ad aula di tribunale del carcere militare di Ndolo, i pm hanno chiesto la massima pena per quella che, a loro dire, fu un’esecuzione. Nessun fuoco incrociato, quindi, nessun errore: la morte dei due italiani e dell’autista congolese è stato un epilogo voluto dal gruppo di fuoco composto da sei persone, una ancora latitante e processata quindi in contumacia, che ormai più di due anni fa assaltò il convoglio sul quale viaggiavano le vittime, uccise l’autista immediatamente e giustiziò poi le altre due dopo un breve spostamento tra la vegetazione. “Le vittime sono state rapite, trascinate nel profondo della foresta prima di essere giustiziate”, ha detto il procuratore militare, il capitano Bamusamba Kabamba, nella sua requisitoria. L’udienza è stata rinviata all’11 marzo, quando sono in programma le arringhe difensive alle quali seguirà la sentenza del tribunale militare. La pena di morte è spesso richiesta e comminata nella Repubblica Democratica del Congo per casi legati alla sicurezza nazionale, ma non viene eseguita da 20 anni perché sistematicamente commutata in ergastolo. Sugli imputati pendono le accuse, a vario titolo, di omicidio, associazione a delinquere e detenzione illegale di armi e munizioni da guerra, con quest’ultima accusa che giustifica il ricorso al tribunale militare. Il processo di Kinshasa, nel quale sia lo Stato italiano sia la famiglia Attanasio si sono costituiti parte civile, è stato caratterizzato da dubbi e stranezze fin dal principio. L’accusa si basa in gran parte sui video del primo interrogatorio fatto a cinque dei sei imputati poco dopo l’arresto e nel quale gli uomini si sono tutti assunti le responsabilità dell’agguato, indicando uno di loro, Marco Prince Nshimimana, come l’esecutore materiale dell’omicidio. Ma nel corso della prima udienza sia Nshimimana sia gli altri quattro, Bahati Kiboko, Murwanashaka Mushahara André, Issa Seba Nyani e Amidu Sembinja Babu, hanno ritrattato dichiarandosi innocenti. Il motivo dietro la loro confessione? È stata “estorta con la tortura”. E soprattutto si trattava di interrogatori svolti senza la presenza degli avvocati difensivi ai quali gli imputati avevano diritto. Così sono iniziate le verifiche che non hanno fatto emergere, secondo quanto appreso da Ilfattoquotidiano.it, alcun segno di tortura, anche se resta complicato stabilirlo semplicemente dall’analisi dei video. Ma i dubbi sul corretto svolgimento del processo non si fermano qui. Anche sulla figura di Bahati Kiboko rimangono molte domande senza risposta. L’uomo, infatti, ha più volte dichiarato che nelle ore dell’agguato si trovava ancora in carcere a Goma e che quindi non poteva trovarsi sul luogo dell’omicidio. A riprova delle sue affermazioni, il suo avvocato ha presentato un documento carcerario in cui si attesta che l’uomo è stato fatto uscire di prigione solo nel pomeriggio di quel 22 febbraio, ore dopo l’agguato, avvenuto intorno alle 10.15 ora locale. Una ricostruzione contestata dall’accusa, tanto che il tribunale ha predisposto delle verifiche. Ed è a questo punto che emergono i dubbi. Secondo quanto riferito da fonti della Farnesina a Ilfattoquotidiano.it, il Tribunale di Kinshasa non ha richiesto la documentazione sulla scarcerazione di Kiboko direttamente alla prigione di Goma, ma ha deciso di delegare l’analisi del dossier al tribunale della città capoluogo del Nord Kivu: “È stato posto un quesito formale al Tribunale di Goma che ha trasmesso una relazione scritta in proposito redatta sulla base delle risultanze dell’esame dei registri del carcere di Goma - dicono - In udienza ne è stata data lettura e il documento è stato incluso nel fascicolo e consegnato ai legali della difesa”. Questo documento, concludono, proverebbe che la scarcerazione di Kiboko non è datata 22 febbraio 2021, bensì un mese prima, il 22 gennaio. Ciò che risulta strano, però, sono le modalità con le quali sì è arrivati a questa conclusione. Prima di tutto, non si capisce la necessità di incaricare il Tribunale locale di fornire una relazione alla Corte della capitale basata su un dossier ufficiale riguardante un detenuto, quando la verifica delle affermazioni di Kiboko sarebbe potuta avvenire semplicemente ottenendo la documentazione del carcere. Inoltre, come in Italia, anche in Rdc al momento della liberazione di un detenuto viene prodotto un provvedimento di scarcerazione che deve essere controfirmato dal diretto interessato. È questo l’unico documento in grado di togliere ogni dubbio sulla veridicità o meno delle dichiarazioni dell’imputato. Ma non è chiaro se questo sia stato allegato alla relazione inviata da Goma. Tunisia. La paura dei migranti subsahariani: “Parole razziste dal presidente, ora la polizia ci cerca e crescono le violenze” di Leonardo Martinelli La Repubblica, 9 marzo 2023 Sono l’ultimo capro espiatorio della crisi economica, per il leader di Tunisi Kais Saied, che ha usato contro di loro anche una teoria complottista dell’estrema destra europea. I ragazzi e le ragazze della Guinea, della Costa d’Avorio e della Sierra Leone raccontano come si vive nel nuovo clima d’odio. L’accampamento, un centinaio di migranti subsahariani, si è formato spontaneamente in una stradina del quartiere del Lac, uno dei più esclusivi di Tunisi. Intorno ville bianche con i bodyguard (tanti ricchi del Golfo hanno qui il loro pied-à-terre). O edifici luccicanti, da dove escono giovani impiegati, di call center o società di import-export. Ma in questa casa dall’entrata invalicabile, un cancello dalla griglia fitta, ha sede l’ufficio tunisino dell’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, un’agenzia Onu. La campagna d’odio del presidente Saied - Mohamed Tofana, 17 anni, bivacca qui, per terra, da due settimane. Vuole tornare nella sua Guinea. Era arrivato in Tunisia cinque mesi fa: “Avevo trovato un lavoro da cameriere in un ristorante, non lontano da qui. Andava tutto bene. Ma poi ci sono state le parole del presidente”. Kais Saied, che sta dando una preoccupante svolta autoritaria alla Tunisia, ha varato “misure urgenti” contro i migranti subsahariani, presenti nel suo Paese (e che nella maggior parte dei casi sperano solo di racimolare le risorse necessarie per pagarsi un passaggio in un barcone direzione Lampedusa). Ha usato parole forti, ha parlato di “orde di migranti clandestini”. E ha fatto riferimento esplicitamente alla teoria della “grande sostituzione”, sposata in Europa dall’estrema destra più becera, come se i migranti subsahariani arrivassero nel suo Paese per sostituirsi alla componente arabo-musulmana della popolazione. L’effetto è stato immediato. “Il giorno dopo nel palazzo dove vivevo, con tanti altri migranti - continua Mohamed - ha fatto irruzione la polizia. Hanno arrestato alcuni dei miei compagni. Io e altri siamo riusciti a fuggire. Poi siamo rientrati nell’appartamento, ma a quel punto sono arrivati dei giovani tunisini. Erano delinquenti di bassa lega. Ci hanno picchiato e rubato tutto. Io sono fuggito qui. Ho paura”. Natasha, 27 anni, viene dalla Sierra Leone. Era arrivata due mesi fa, dopo un periplo di due settimane attraverso il deserto. Provata, malata alla fine. “Mi stavo riprendendo, per poi trovare un lavoro. Dopo le parole del presidente, giovani delinquenti tunisini sono entrati nell’appartamento dove vivevo. Hanno rubato tutto, anche i materassi”. Fuga dalla Tunisia - In Tunisia, secondo le cifre ufficiali, vivono 21mila migranti subsahariani, anche se certe stime arrivano fino a 50mila. Negli ultimi giorni, la Costa d’Avorio ha già organizzato voli aerei per riportare in patria 300 dei suoi cittadini, un centinaio per la Guinea, circa 145 per il Mali. Ma ancora altri ne vengono organizzati e non si sa bene fino a quando: la fuga dalla Tunisia continua. Chi non sa cosa fare viene all’Oim e chi non ha più casa resta qui, per strada. I datori di lavoro tunisini o chi affitta appartamenti ai migranti hanno paura, la polizia può fare irruzione da un momento all’altro. Man mano, anche l’agenzia Onu cerca di trovare posti negli alberghi o nei voli aerei per i Paesi di origine di queste persone. Esiste un continuo ricambio nell’accampamento: c’è chi va e chi viene. O chi arriva a chiedere informazioni. Come Donatien Gaultier Sukuri, quarant’anni, della Costa d’Avorio, accompagnato dalla moglie e da figlio di 4 anni. “I miei amici tunisini mi chiamano David - racconta - Siamo arrivati tre anni fa. Io facevo il cameriere e mia moglie le pulizie a domicilio. Non avevamo problemi. Senza le ‘parole del presidente’, saremmo rimasti qui. Ma abbiamo entrambi perso il lavoro. Soprattutto abbiamo paura per la nostra sicurezza. Viviamo in un quartiere, Bhar Lazreg, dove la polizia non viene mai, neanche per difenderci. L’altro giorno camminavo per strada e un gruppo di ragazzi, facce da delinquenti, mi hanno picchiato. Sono riuscito a fuggire. Ma i passanti non mi hanno aiutato. Avevano paura. Un po’ li capisco, ma mi ha fatto male”. “Ha liberato i cani feroci” - “Con le sue parole è come se Saied avesse liberato dei cani feroci e indicato i ladri da braccare”. A parlare è Saadia Mosbah, 63 anni, già hostess della compagnia aerea di bandiera Tunisair. È nera e tunisina. Fa parte della minoranza di colore del Paese, originaria del Sud, l’anticamera del Sahara. Saadia è alla guida di Mnemty, associazione che lotta contro le discriminazioni razziali. Viene ogni giorno qui all’accampamento a portare beni di prima necessità, oggi il latte in polvere per i neonati. Ci tiene a dire che “tutti questi prodotti me li danno altri tunisini, chiedendomi di aiutare i subsahariani”. Dopo le parole del presidente, “ho avuto paura del domani”, dice. Perché, inevitabilmente, le aggressioni razziste stanno colpendo anche i neri tunisini. Pure Saadia ha dovuto subire episodi d’intolleranza negli ultimi giorni, comprese signore distinte che per strada le hanno chiesto: “Quando ritorni a casa tua?”. “Ma io ci sono già a casa mia”, ha risposto lei. È successo quanto già visto in Europa, quando esponenti di governi di varia natura si sono scatenati contro i migranti e puntualmente le aggressioni quotidiane sono aumentate, i razzisti si sono sentiti giustificati e i migranti sono diventati capri espiatori di altri problemi (qui in Tunisia la crisi economica è gravissima). E poi in questo Paese non esiste un dibattito pubblico sul tema, a parte quello debordante e assurdo sui social. E soprattutto in Tunisia oggi si comincia ad avere molta paura ad andare contro Saied. Ogni giorno, comunque, all’accampamento passa una donna, che chiameremo Fatima. Porta viveri, coperte, pannolini. È un architetto d’interni. Ha il suo ufficio accanto, in questo quartiere di ricchi. Lì sta stoccando tutti i prodotti donati da tunisini che vivono o lavorano nei dintorni. “Facciamo il possibile - dice - ma non cancelleremo mai quello che il nostro Governo ha fatto subire a questa gente”. Stati Uniti. Baby-migranti schiavi nelle aziende, il volto oscuro del nuovo corso di Biden di Elena Molinari Avvenire, 9 marzo 2023 Dopo le inchieste dei media la Casa Bianca costretta a promettere più controlli, ma le esigenze elettorali sembrano prevalere sulla garanzia di politiche più umane. Il dipartimento al Lavoro Usa farà più controlli e la Casa Bianca vigilerà sul rispetto della legge che protegge i minori. Joe Biden è corso ai ripari, dopo che un’inchiesta del New York Times ha raccontato le storie di un centinaio di bambini impiegati in lavori pericolosi, estenuanti e illegali. Ma l’ombra dello scandalo persiste sul presidente democratico, eletto sulla promessa di rendere l’immigrazione negli Usa più umana e di proteggere i più vulnerabili. La triste realtà, però, è che a poco più di un anno e mezzo dalle prossime elezioni la tolleranza nei confronti dei disperati che premono sul confine meridionale statunitense in numeri da record non è una politica vincente. E la stretta si va intensificando. Secondo funzionari del governo, la Casa Bianca sta valutando di rimettere sotto custodia detentiva le famiglie di irregolari, misura sospesa due anni e mezzo fa. Se da un lato Biden vuole evitare di essere accusato di chiudere un occhio mentre le marche più note di magliette, di cereali e della grande distribuzione sfruttano minori indifesi, dall’altro non può permettersi di alienare la maggioranza degli americani che vogliono mettere un limite agli arrivi. L’equilibrio non sarà facile da raggiungere, perché le rivelazioni del quotidiano newyorkese (come già altre simili della Reuters) hanno puntato i riflettori su una realtà dalle proporzioni e dagli estremi vergognosi per un Paese che si presenta al mondo con un esempio di rispetto delle regole, dei diritti e delle libertà individuali. Dei 130mila minori entrati da soli negli Stati Uniti lo scorso anno, il triplo rispetto a cinque anni fa, il dipartimento alla Salute, responsabile di proteggerli dallo sfruttamento, ha perso le tracce di circa 85mila. L’Amministrazione ha talmente fretta di farli uscire da centri di accoglienza straripanti e spesso insalubri - le cui immagini in tv hanno già creato più di uno scandalo - che ha ridotto al minimo i controlli sugli “sponsor”. Si tratta di adulti che chiedono l’affido temporaneo dei ragazzini in attesa che un giudice decida il loro status legale negli Usa, sostenendo di essere parenti o di aver l’autorizzazione dei genitori rimasti nei Paesi d’origine. Molti assistenti sociali ammettono di non aver il tempo di controllare che i bambini finiscano nelle mani di qualcuno che non li spingerà disossare polli 12 o 14 ore di fila di notte. Perché a quanto pare è questo che succede in circa i due terzi dei casi. Nell’America del 2023, dodicenni, tredicenni e quattordicenni lavorano in giganteschi macelli, manovrano macchinari pericolosi per fornitori della Ford, lavano lenzuola negli hotel, fanno il pane degli ipermercati Walmart. Spesso quando dovrebbero dormire, perché di notte è più facile passare inosservati. Non che le fatiche di questi giovanissimi siano così difficili da notare. Non sono concentrati in qualche cittadina remota, ma in tutto il Paese, nei ristoranti di New York come sui cantieri di Miami o nelle fabbriche di Detroit. E gli insegnati in prima linea, quelli che insegnano inglese come lingua seconda, sono abituati a studenti addormentati sui banchi, o assenti per settimane di fila o che non fanno mai i compiti. La legge americana proibisce ai minori di essere impiegati nella costruzione, sulle catene di montaggio, in occupazioni considerate pericolose, comprese le panetterie industriali, o con macchinari. Vieta anche a chi ha meno di 16 anni di lavorare più di tre ore al giorno o dopo le sette di sera. Il problema, naturalmente, non sono solo gli sponsor, molti dei quali effettivamente lucrano sulle spalle dei minori, ma fra i quali non manca chi fa del suo meglio per dare un tetto a bambini che conoscono appena. Un intero sistema economico è stato costruito sulla realtà che questi ragazzini arrivano negli Usa in debito nei confronti degli sciacalli che li hanno contrabbandati attraverso almeno due frontiere e vivono nella costante consapevolezza che la famiglia a casa ha bisogno di soldi. Allora oltre a “sponsor professionali” che si presentano come zii di venti ragazzini in un anno, ci sono agenzie d’immigrazione oberate, aziende che fingono di ignorare i visi paffuti che riempiono i loro stabilimenti e si nascondono dietro le carte d’identità false, ispettori del ministero rassegnati di fronte a misure troppo blande nei confronti delle aziende e scuole che non hanno abbastanza risorse per aiutare gli immigrati. Allora forse un giro di vite a livello federale potrà fare qualcosa per questi ragazzini. Di certo è benvenuto, ma quest’anno ci si aspetta che altri 130mila valichino il confine da soli. E il 2024 è un anno elettorale. Iran. Pegah Moshir: “A 8 anni capii la violenza della polizia, ora do voce al mio popolo” di Greta Privitera Corriere della Sera, 9 marzo 2023 Fino al 16 settembre 2022, Pegah Moshir, 31 anni, ammette di non aver mai parlato pubblicamente del “lato oscuro” dell’Iran. Non si azzardava a scrivere sui social del dittatore Khamenei, né della condizione delle donne. “Non lo facevo per paura che mi avrebbero negato di tornare a Teheran”, racconta l’attivista diventata famosa sul palco di Sanremo accanto a Drusilla Foer, oggi ospite nell’inchiesta “Donne che cambiano il mondo. Tra diplomazia e attivismo”, che apre la prima giornata di Obiettivo 5 alla Sapienza di Roma. Poi, il 16 settembre, Mahsa Amini viene uccisa dalle Guardie della rivoluzione e Pegah inizia a parlare. Come? “Su Instagram ho iniziato a raccontare le proteste. Ricordo di aver postato un video che in poche ore ha fatto 160 mila visualizzazioni. Oggi parlo di quello che succede ogni giorno: dalle impiccagioni agli avvelenamenti nelle scuole femminili”. Da Instagram è finita sul palco più famoso d’Italia, quello di Sanremo... “Un onore poter portare la rivoluzione delle donne iraniane in prima serata”. Lei era già un’attivista... “Ho iniziato a occuparmi di diritti quando a 15 anni mi è stato negato di andare in gita perché non avevo la cittadinanza italiana. Poi mi sono interessata di parità di genere, inesistente in Iran. E di parità anche nel mondo digitale”. Che cosa significa? “I bias, gli stereotipi di genere del mondo reale li portiamo tutti nel mondo digitale, negli algoritmi, nelle piattaforme con cui ci interfacciamo ogni giorno. Vigilare sull’universo online e costruire insieme un’etica digitale è fondamentale per la parità”. Un suo ricordo della sua vita iraniana? “Non posso dimenticare la prima volta che ho visto in azione la polizia morale. Ero in un grande centro commerciale. Le guardie avevano parcheggiato davanti all’ingresso un enorme pullman dentro il quale sbattevano ragazze accusate di avere i piedi scoperti o i pantaloni a pinocchietto che mostravano le caviglie. Facevano la stessa cosa con i ragazzi accusati a loro volta di avere magliette a maniche troppo corte, da cui spuntavano i muscoli. Ricordo i pianti e le urla di quei giovani e la mia paura. Avevo solo 8 anni”. Lei è in Italia da quando ha 9 anni. Perché avete lasciato l’Iran? “Mio padre amava questo Paese e ha deciso di lasciare Teheran perché voleva darci una vita migliore. Ad accelerare i tempi è stato un episodio capitato a mio fratello”. Cioè? “Mio fratello è un genio della musica. A quattro anni suonava già tantissimi strumenti tra cui il tombak, il tamburo persiano. Era entrato a far parte di un programma per bambini della tv nazionale. Un giorno, mio padre è stato contattato dal direttore del canale. Gli disse che mio fratello non poteva più partecipare perché il suono che produceva faceva ballare troppo i bambini a casa”. Che infanzia ha avuto? “Di regole e divieti. Un esempio: alle elementari ci costringevano a portare il velo, a cantare l’inno e a recitare “morte agli americani e agli israeliani”“.