Torna l’appuntamento della Giornata nazionale di Studi nella Casa di Reclusione di Padova Ristretti Orizzonti, 8 marzo 2023 Quest’anno riprenderemo la Giornata nazionale di Studi in presenza, il 19 maggio, dalle 9:00 alle 17:00. Vi preghiamo di segnarvi la data, metteremo al più presto online il programma e il modulo per l’iscrizione, il titolo della Giornata è: “La tenerezza e la Giustizia”. “La tenerezza è un modo inaspettato di fare Giustizia” (Papa Francesco) Straniere in calo, 12 sottoposte al 41 bis, 6 su 10 fanno uso di psicofarmaci: le donne nelle carceri di Andrea Carli Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2023 È quanto emerge dal primo rapporto di Antigone sulla detenzione femminile. Al 31 gennaio 2023 erano 17 i bambini di età inferiore a un anno che vivevano in carcere con le loro madri detenute. L’affollamento delle sezioni femminili è del 115%, contro il 113,7% degli uomini. Le donne, con il piccolo peso numerico che arrecano al sistema penitenziario, non sono responsabili del sovraffollamento carcerario ma lo subiscono più degli uomini, quando non soffrono al contrario di isolamento. È quanto emerge dal primo rapporto di Antigone sulla detenzione femminile, pubblicato l’8 marzo, il giorno della festa della donna. Sono in trattamento per tossicodipendenze il 14,9% delle donne detenute, contro il 20,8% del totale dei detenuti. Le donne con diagnosi psichiatriche gravi sono il 12,4% delle presenti, contro il 9,2% dei presenti in tutti gli istituti visitati nel 2022, e fanno regolarmente uso di psicofarmaci il 63,8% delle presenti, contro il 41,6% del totale. Il disagio psichico appare dunque più significativo tra le donne. Dodici le donne sottoposte al 41 bis. Le dodici detenute sono tutte presso l’istituto penitenziario presente all’Aquila. Sono lo 0,5% del totale della popolazione femminile reclusa. Una percentuale circa tre volte inferiore a quella maschile. 8 sono le donne nel regime AS2 (detenuti appartenenti ad associazioni terroristiche nazionali e internazionali) e 218 nell’AS3 (organizzazioni criminali di stampo mafioso). Circa il 10% delle donne è in regime di AS. Nel caso degli uomini la percentuale sale al 16,8%, segno di un profilo criminale più alto. Le donne sono ristrette a Piacenza, Latina. Lecce, Santa Maria Capua Vetere, Vigevano, Roma Rebibbia, Reggio Calabria. Una donna su due lavora - Le donne in carcere sono inserite in percorsi lavorativi in percentuali maggiori rispetto agli uomini. Alla fine del 2021, ultimo dato disponibile, la metà delle donne in carcere risultava avere un impiego (ma si tenga presente che per essere conteggiati tra i detenuti lavoratori può bastare che la persona lavori anche solo poche o pochissime ore settimanali, con conseguente scarsa o scarsissima remunerazione). Le donne lavoratrici erano nel complesso 1.118, pari al 5,8% del totale delle persone impiegate. Di queste, 925 (l’82,7%) lavoravano alle dipendenze dell’Amministrazione e 193 (il 17,3%) per esterni. Negli ultimi quindici anni la percentuale di donne sul totale dei detenuti lavoratori è oscillata sempre attorno a queste cifre, non superando il 6,6% e non scendendo al di sotto del 5,4%. Il 7% è analfabeta - Per quanto riguarda i percorsi di istruzione, gli ultimi dati disponibili (ancora una volta sono quelli al 31 dicembre 2021) ci dicono che il titolo di studio era stato rilevato per i due terzi delle donne presenti in carcere, ovvero 1.515 su 2.237. Il numero maggiore di donne (667), pari quasi alla metà del dato rilevato, era in possesso di licenza di scuola media inferiore. Le donne detenute prive di alcun titolo di studio erano 39 mentre addirittura 108 le analfabete, pari al 7,1% del totale delle donne recluse. 59 sono le detenute laureate. I reati delle donne: in primo luogo quelli contro il patrimonio - I reati contro il patrimonio per le donne pesano il 29,2% su tutti i reati ascritti alla popolazione detenuta femminile, mentre per gli uomini pesano il 23,7% sui reati ascritti alla popolazione detenuta maschile, con uno scarto di 5,5 punti percentuali. Gli uomini pesano maggiormente nella legge sulle armi (4,7 punti percentuali di più), a indicare probabilmente che nei reati contro il patrimonio effttuati dagli uomini le rapine rispetto ai furti semplici pesano più che per le donne. Anche l’associazione di stampo mafioso vede 2,5 punti percentuali in più tra gli uomini detenuti sulle donne, mentre i reati contro la pubblica amministrazione ne vedono 2,2. Le altre tipologie di reati presentano percentuali più o meno analoghe tra gli uomini e tra le donne in carcere. Condannate a pene inferiori rispetto agli uomini - Gli uomini, rileva l’indagine, si addensano percentualmente nelle condanne a oltre dieci anni di reclusione o all’ergastolo ben più di quanto non accada per le donne. Viceversa, queste ultime si addensano percentualmente nelle condanne fino a sette anni di carcere ben più di quanto non accada per gli uomini. Le ergastolane sono trenta. Le detenute che devono scontare meno di un anno di pena sono 65. 72 oltre i 20 anni. Più donne che uomini ai domiciliari - Per quanto riguarda la detenzione domiciliare, le donne che sono interessate da questa soluzioni sono più degli uomini. In particolare, 2.113 sono le donne in affidamento, delle quali il 74,2% proviene dalla libertà, il 19,7% da una detenzione già iniziata in carcere e il 6% dalla detenzione domiciliare o dagli arresti domiciliari. Sulle 1.185 donne in detenzione domiciliare, invece, regna una suddivisione più equilibrata tra coloro che sono state condannate dalla libertà (il 40%) e coloro che sono state condannate dalla detenzione (il 46%), a cui si aggiungono le donne in attesa della decisione ex art. 656 c.p.p. (il residuale 14,2%). Nel caso delle donne l’affidamento in prova supera di poco le cifre relative alla detenzione domiciliare, rapporto che invece soggiace a uno scarto più ampio nella sfera maschile, dove gli uomini in affidamento svettano in maniera nitida, dimostrandosi quasi sempre in numero decisamente superiore rispetto al numero degli uomini in detenzione domiciliare. “Una statistica che si potrebbe spiegare con il più facile accesso di madri e donne incinte a quest’ultima misura - si legge nel report -, ma anche con un substrato culturale che tende a relegare la donna nel solo ruolo domestico, smorzandone ogni afflato lavorativo e professionalizzante, che invece avrebbe la possibilità di sviluppare in condizioni di maggiore libertà e attraverso lo svolgimento di attività risocializzanti”. Solo 33 sono le donne in semilibertà. Diminuiscono le detenute straniere - La presenza delle donne straniere sulla totalità delle donne detenute è del 30,5%. Nel 2013 la percentuale delle donne straniere sul totale delle donne era del 40,05% Negli ultimi 10 anni le donne straniere detenute nelle carceri italiane sono diminuite sia in termini assoluti che percentuali. Rispetto ai paesi di provenienza delle donne straniere, la nazionalità più presente è la Romania, che parte da numeri molto alti nel 2013 (con 287 presenze) e diminuisce nel corso degli anni fino a stabilizzarsi negli ultimi tre intorno alle 180 unità. La seconda nazionalità più presente è quella nigeriana che fra il 2013 e il 2015 si attesta intorno alle 90 unità, sale progressivamente fino a un picco di 204 persone e torna a scendere fino alle 111 nel 2022. La terza nazionalità più presente segue a considerevole distanza e varia molto a secondo degli anni. Nel 2022 sale al terzo posto la nazionalità bulgara con 66 persone. Nel caso delle donne straniere i reati più presenti sono quelli contro il patrimonio (376), quelli contro la persona (285) e le violazioni della normativa sulla droga (142). Queste tre sono le principali tipologie di reato anche per il totale dei detenuti stranieri. Seguono a una distanza significativa violazioni della legge sugli stranieri (73), prostituzione (71), reati contro l’amministrazione della giustizia (57) e contro la pubblica amministrazione (57). 17 bambini reclusi con le loro 15 mamme - Al 31 gennaio 2023 erano 17 i bambini di età inferiore a un anno che vivevano in carcere con le loro 15 madri detenute. L’andamento della presenza dei bambini in carcere, viene sottolineato nell’indagine, ha continuato a oscillare negli ultimi trent’anni in alto (fino a superare le 80 unità) e in basso senza essere particolarmente influenzato neanche dalle modifiche normative introdotte nel tempo a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori. È stata invece la pandemia, con la paura per le carceri che ha comportato e le conseguenti azioni intraprese, a ridurre drasticamente i numeri, passati dai 48 bambini della fine del 2019 ai 29 della fine del 2020, fino a raggiungere i 17 che oggi si trovano all’interno di istituti di pena. Segno di come - osserva Antigone - al di là delle norme, per risolvere il problema dei bambini in carcere si debba e si possa lavorare nella prassi della magistratura agendo caso per caso sulle singole situazioni. Contrariamente a quanto si crede solo lo 0,24% delle transazioni in criptovalute è appannaggio di truffe e illeciti. Ecco tutti i tipi di reati commessi nella blockchain e come non abboccare Ascoltalo ora Solo due le case famiglia protette - Sono solo due in tutta Italia le case famiglia protette previste dalla legge n. 62 del 2011 per andare incontro alle difficoltà incontrate nell’accedere ad alternative al carcere da detenute madri prive di un domicilio ritenuto adeguato dalla magistratura. A Milano accoglie questo tipo di utenza (dal 2010, ancora prima dell’entrata in vigore della legge) la casa famiglia protetta dell’associazione “Ciao....un ponte tra carcere, famiglia e territorio”, che attualmente ospita quattro madri con cinque bambini. Alcuni anni dopo, nel 2017, è nata a Roma la “Casa di Leda”, che può ospitare sei donne con otto bambini fino ai dieci anni di età. L’8 marzo delle detenute, mentre si muore ancora in carcere di Enrico Cicchetti Il Foglio, 8 marzo 2023 Cifre e storie. L’affollamento, le dipendenze, i figli e il nodo della salute. I dati nel primo Rapporto sulle donne detenute in Italia dell’associazione Antigone. Intanto una donna è morta in cella a Rebibbia. Alla vigilia della giornata internazionale della donna, una detenuta è stata trovata morta in cella, nella sezione femminile del carcere di Rebibbia. Aveva gravi problemi di tossicodipendenza e non era la sua prima volta in prigione. La garante dei detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni, ha scritto su Facebook: “Era in carcere da 3 giorni in isolamento sanitario (previsto dalle norme anti Covid). 47 anni, una vita faticosa e dolorosa”. E all’Ansa ha spiegato che “ieri pomeriggio ha accusato un malore. Intorno alle 23.30 è stata visitata in carcere dal medico ma è poi rimasta in cella, sempre in isolamento. Questa mattina è stata trovata nel letto priva di vita. Questo grave episodio conferma che soggetti con patologie di questo tipo non possono essere ‘assorbite’ e curate dal carcere”. Quello di ieri non è un caso isolato. Nelle nostre prigioni ci sono donne che avrebbero bisogno di cure più che di carcere. Il 14,9 per cento delle detenute è tossicodipendente. E poi ci sono i troppi atti di autolesionismo, 31 ogni 100 presenti (contro i 15 degli istituti maschili), e i troppi suicidi in carcere, anche nei reparti femminili. Nell’anno appena trascorso in cinque si sono tolte la vita all’interno di un istituto di pena (ci fu un solo episodio nel 2020 e uno nel 2021). Due di loro soffrivano di disagio psichico, altre due avevano problemi di tossicodipendenza. Nel caso di una 27enne che si è uccisa una notte nel carcere di Verona, il magistrato di sorveglianza ha ammesso che il sistema aveva fallito e che quello non era il luogo adatto a lei. Questi numeri e le tragiche storie da cui provengono sono raccolti nel primo Rapporto sulle donne detenute in Italia, pubblicato oggi dall’associazione Antigone, la onlus “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”. Il tema della sanità in carcere è uno di quelli più scottanti. Le donne con diagnosi psichiatriche gravi sono il 12,4 per cento delle presenti, contro il 9,2 per cento dei presenti in tutti gli istituti visitati dagli osservatori di Antigone nel 2022, e fanno regolarmente uso di psicofarmaci il 63,8 per cento delle presenti, contro il 41,6 del totale. Dati che mostrano un disagio enorme. Il femminile di Rebibbia, dove ieri è morta la detenuta, è il più grande d’Europa. Ci sono 334 carcerate anche se la sua capienza regolamentare è di 275 posti. L’affollamento carcerario è un problema annoso per l’Italia e le sezioni femminili non fanno eccezione: il tasso d’affollamento rilevato durante le visite di Antigone è risultato essere del 115 per cento, contro il 113,7 per cento degli uomini. Il dato ufficiale per gli istituti femminili sarebbe del 112,3 per cento, superiore al tasso di affollamento ufficiale generale delle carceri italiane (pari al 109,2 per cento, e tuttavia inferiore a quello reale vista la mancata considerazione dei posti letto inutilizzabili). In Italia ci sono 8 donne detenute ogni 100mila abitanti donne (gli uomini sono 182 ogni 100mila. Le donne, ormai da anni, sono il 4,2 per cento del totale dei detenuti. Nessuna sorpresa, fin qui: il carcere è un luogo maschile. Erano 2.392 le donne presenti negli istituti penitenziari italiani al 31 gennaio 2023, di cui 15 madri con 17 figli al seguito. Le quattro carceri femminili di Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia ospitano 599 donne, un quarto del totale. Nove madri detenute si trovano nell’istituto a custodia attenuata di Lauro e altre cinque donne sono in altri tre piccoli Icam. Le 1.779 detenute rimanenti sono sostanzialmente distribuite nelle 44 sezioni femminili all’interno di carceri maschili. Sono dodici le detenute al 41 bis, tutte all’Aquila. Sono lo 0,5 per cento del totale della popolazione femminile reclusa. Una percentuale circa tre volte inferiore a quella maschile. Una donna su dieci è in alta sicurezza. C’è una cifra, tra quelle citate, che vale la pena osservare più da vicino perché illumina un fenomeno da tenere a mente. È quello dei bambini più piccoli di un anno che vivono in carcere con le loro madri. È stata la pandemia a ridurne il numero: siamo passati dai 48 della fine del 2019 ai 29 della fine del 2020, sino a raggiungere i 17 di oggi. È un dato interessante perché mostra come, al di là delle norme, per risolvere il problema si debba e si possa lavorare nella prassi della magistratura agendo caso per caso sulle singole situazioni. Anche in prigione le donne sono vittime di discriminazione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 marzo 2023 Oscillano tra il 4 e 5% della popolazione detenuta, ma sono disperse tra le varie carceri pensate esclusivamente al maschile. Al 28 febbraio, su 56.319 detenuti presenti nelle nostre carceri, sono 2.425 le donne ristrette. Esistono soltanto 4 istituti penitenziari esclusivamente femminili: Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia. E sono, sempre secondo gli ultimi dati del ministero di giustizia, un totale di 622. Il resto delle detenute, quindi 1803, sono disperse nel resto delle carceri, pensate esclusivamente al maschile. Ma non solo. Tale dispersione è anche dovuta dal vincolo di vicinanza territoriale ai propri affetti previsto dall’Ordinamento penitenziario: quel che manca, è la riorganizzazione della mappa stessa degli Istituti penitenziari, con almeno un carcere femminile per regione. Le detenute oscillano sempre tra il 4 e il 5% della popolazione carceraria. Non solo le donne in carcere sono poche, ma la maggioranza è in comunità molto piccole, all’interno di strutture disegnate per gli uomini. La bassa incidenza statistica sulla popolazione detenuta totale, potrebbe far illudere di una maggiore attenzione istituzionale nel costruire percorsi di reinserimento sociale, ma nella pratica è una causa di discriminazione. Il tempo sottratto alla vita esterna per un uomo e per una donna non hanno uguale peso, relativamente ai contesti lasciati, agli affetti, alle funzioni esercitate prima che la privazione della libertà li troncasse, alle relazioni da riannodare una volta scontata la pena. Quasi 10 anni fa, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria aveva attivato un apposito settore dedicato alla riflessione sulla detenzione femminile, alle proposte, al monitoraggio delle situazioni concrete. Di ciò non si è più avuta notizia. Progetto completamente abbandonato nonostante il Dap, nel 2019, ha riconosciuto che il sistema penitenziario ha, d i fato, una visione “maschio-centrica”. Così pensata al maschile che ad esempio, il 60% delle detenute non ha il bidet in cella nonostante sia previsto dalla legge. Come ha spiegato l’avvocato Carlotta Toschi su “Sbarre di Zucchero”, non ci sono norme ad hoc nella legge 26 luglio 1975, n. 354 tuttavia le disposizioni relative ai servizi sono contenute nel regolamento di attuazione. I vani in cui sono collocati i servizi igienici devono essere forniti di acqua calda corrente, calda e fredda, dotati di lavabo, di doccia e negli istituti o sezioni femminili, anche di bidet. Sempre Toschi sottolinea che le donne, in particolare, sono più a rischio degli uomini di sviluppare un’infezione urinaria. Soprattutto nel periodo delle mestruazioni hanno una maggiore necessità di igiene ma molte carceri, appunto, non offrono il bidet. Altro problema è che le detenute vengono escluse dalla già carente offerta lavorativa e trattamentale, che si tende a proporre alla popolazione carceraria più numerosa, ovvero quella maschile. In alcune sezioni vige il vuoto trattamentale: assenza di lavoro, di progetti, di laboratori e talvolta anche delle stesse attività scolastiche, per la mancanza dei numeri minimi per comporre una classe. Ristrette in piccole sezioni, non di rado si devono accontentare di fare piccoli lavori a maglia o all’uncinetto per riempire in qualche modo il tempo vuoto del carcere. Attività figlie di una visione stereotipata per cui le donne possono solo fare questi tipi di lavoro. La discriminazione, però, non nasce da una volontà istituzionale, ma dalla mancanza di un pensiero sulla differenza di genere. Quando una donna finisce in carcere, fuori ci sono sempre i figli, una madre, un padre, a volte anche un marito che restano abbandonati e senza sostegni. E così la detenuta, oltre al peso della carcerazione, si sente colpevole di averli lasciati soli, si sente responsabile per non poter far nulla per loro. Non di rado ne derivano conseguenze fisiche. Dai disturbi al ciclo mestruale, all’ansia, ma anche depressione, anoressia e bulimia. Vi è stata nel tempo una persistente difficoltà culturale ad affrontare la problematica della donna-delinquente-detenuta, in quanto, storicamente, la donna deviante, che cioè contravveniva alle regole che la società (maschile), non è mai stata considerata, in ragione della sua inferiorità biologica e psichica, come portatrice cosciente di ribellione, ma o una “posseduta” (la strega) o una malata di mente (l’isterica). Non si poteva ammettere che la donna potesse coscientemente desiderare di infrangere le regole. La donna delinquente è sempre stata stigmatizzata di aver abiurato la propria natura femminile dedita alla maternità e alla cura; colpevole dunque, di fronte alla legge degli uomini, e a quella di natura. Nella società libera non è corretto - riferendosi alle donne - parlare di soggetti vulnerabili. Però in carcere, in una situazione privata della libertà, tale definizione è appropriata. Lo spiega il rapporto del Garante nazionale delle persone private della libertà del 2019. Parlare di soggetti vulnerabili è giusto, perché “il carcere è un’istituzione punitiva e di controllo pensata per i maschi e continua a essere tale, pur tra le molteplici voci che si alzano a dire che l’esecuzione penale è uguale per tutti e al contempo attenta a ogni specificità, a cominciare da quella di genere”. Da meno di un anno, le donne hanno deciso di organizzarsi. Tutto è partito dalla ex detenuta Micaela Tosato che ha deciso di uscire allo scoperto soprattutto dopo il suicidio in carcere di Donatella Hodo, una giovane madre di 27 anni reclusa al carcere veronese di Montorio. Si è dato così vita al movimento “Sbarre di Zucchero”. Nel giro di pochi mesi è cresciuto e si sono aggiunte nuove persone. Ad esempio si è aggiunta Monica Bizaj, sempre impegnata per i diritti, fino ad arrivare a giuristi e tanti altri addetti ai lavori. In soli 4 mesi hanno organizzato convegni, beneficienze, e ha aperto altri due distaccamenti a Roma e a Napoli. Le donne si organizzano. Così come, da non dimenticare, che nel carcere di Torino, da tempo, le detenute si sono organizzate tramite numerose iniziative come lo sciopero della fame (grazie anche all’appoggio dell’instancabile attivismo di Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino) per sensibilizzare la politica ai problemi devastanti del sistema penitenziario. Le donne in carcere sono poche e di scarso peso criminale: serve un modello di detenzione nuovo di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 8 marzo 2023 Come Antigone, il nostro 8 marzo abbiamo deciso di dedicarlo a una particolare categoria di donne, quelle che vivono nelle carceri italiane. Abbiamo scelto infatti di presentare presso la Sala Zuccari del Senato “Dalla parte di Antigone. Primo Rapporto sulle donne detenute in Italia”. Le donne in carcere sono solo il 4,2% della popolazione detenuta complessiva, meno di 2.400 persone. Se già di carcere in generale si parla poco e male, di loro si parla ancora meno. E non è su di loro, bensì sulla ben più ampia parte maschile della detenzione, che il carcere si è basato per consolidare il proprio modello detentivo. Le donne rimangono una minoranza troppo spesso dimenticata nelle sue peculiarità ed esigenze specifiche, che abbiamo voluto contribuire a far uscire dall’ombra. Nei mesi scorsi con il nostro Osservatorio sulle carceri abbiamo visitato tutti i luoghi che recludono le donne: le sole quattro carceri interamente femminili che si trovano in Italia (a Roma, a Venezia, a Pozzuoli e a Trani) e che ospitano un quarto delle donne detenute, le 44 sezioni femminili collocate in carceri a prevalenza maschile che ospitano i restanti tre quarti e che a volte sono piccole o piccolissime (ci sono ad esempio cinque donne a Mantova, 4 a Paliano, due a Barcellona Pozzo di Gotto), le tre carceri minorili che ospitano ragazze (Pontremoli, interamente femminile, Roma e Nisida, con sezione femminile), le sei sezioni che ospitano detenute trans pur all’interno di carceri considerate maschili (sezioni spesso abbandonate a loro stesse, senza scuola, lavoro, attività culturali o sportive), i cinque Istituti a custodia attenuata per madri. Nel Rapporto raccontiamo uno per uno i luoghi visitati, dedicando uno spazio a ciascuno di essi. Ma raccontiamo anche i numeri, la vita interna, il lavoro, le attività, il sistema disciplinare, i suicidi, le madri e i bambini, le riflessioni su tanti temi diversi che ruotano attorno alla detenzione femminile in generale. Le donne in carcere non solo sono poche - e lo sono da tanto, visto che il dato percentuale sulle presenze è stabile da decenni - ma sono anche di scarso peso criminale, con reati principalmente legati a piccoli furti e pene tendenzialmente brevi. Alto è il disagio psichico nelle carceri e nelle sezioni femminili: come mostrano i dati raccolti da Antigone, le diagnosi psichiatriche gravi e l’utilizzo di psicofarmaci sono percentualmente maggiori che per gli uomini. Le donne detenute radicalizzano una serie di caratteristiche della popolazione carceraria nel suo complesso che sempre più sono rappresentate nella massa delle persone che la nostra società rinchiude in galera. Parliamo della massa, quella che produce i grandi numeri, che non è il nucleo di detenuti con un elevato spessore criminale. La massa della popolazione detenuta è costituita da persone che provengono dagli strati più marginali della società, che sperimentano povertà economica ed educativa, che vivono un’emarginazione che il periodo di detenzione non fa altro che approfondire, che presentano uno scarso spessore criminale e anche una scarsa pericolosità penitenziaria. Ed è proprio affinché la detenzione delle donne possa, invece di emarginare ulteriormente, riempirsi di contenuti tesi alla reintegrazione in società che alla fine del Rapporto di Antigone, dopo questo lungo viaggio attraverso i luoghi delle donne in carcere, vengono avanzate dieci proposte per riformare la detenzione delle donne. La prima la andiamo muovendo da molti anni: che si istituisca all’interno del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria un’unità amministrativa autonoma, diretta da esperti in politiche di genere, interamente dedicata a occuparsi di detenzione femminile. Solo così si potrà avere quel bagaglio di competenze e di attenzione specifica che viene altrimenti schiacciato dalla ben più numerosa detenzione degli uomini. Dallo scarso spessore criminale e dalla scarsa pericolosità penitenziaria si può e si deve ripartire per immaginare un modello di detenzione nuovo e più aperto, dove il tempo della pena acquisti direzione e significato, dove il raccordo con il territorio circostante sia capillare e continuo. Si può partire dalla detenzione delle donne per rovesciare l’ottica: rendiamola il modello cui parametrare il carcere, la regola dalla quale ripartire per vedere altrove l’anomalia, per vederla in un carcere inutilmente segregante e in una vita interna priva di contenuto. *Coordinatrice associazione Antigone 41bis, la parola torni al Parlamento di Stefano Anastasia Il Manifesto, 8 marzo 2023 Con la decisione della Cassazione del 24 febbraio scorso, la questione giudiziaria dell’applicazione del 41bis ad Alfredo Cospito ha vissuto un passaggio forse dirimente. Sì, è vero: è appena stata presentata una istanza di sospensione della pena per motivi di salute; ci sarà un nuovo giudizio sul rigetto della revoca chiesta al Ministro della giustizia nel mese di gennaio; è pendente una procedura di fronte alla Commissione diritti umani delle Nazioni unite; probabilmente arriverà un ricorso alla Corte europea dei diritti umani. Tutte legittime iniziative della difesa di Cospito, motivatamente sostenute da chi non si rassegna all’anomalia evidenziata anche dalla Procura nazionale antimafia e dalla Procura generale presso la Corte di Cassazione di una misura pensata per i capi di rigide organizzazioni criminali e applicata a un esponente di una non-organizzazione ideologicamente senza capi. Tentativi ulteriori che meritano di essere esperiti, di fronte a un’applicazione di legge che a molti e molte appare come una ingiustizia. Ma accanto a essi, contemporaneamente all’estremo tentativo di tirare fuori Alfredo Cospito dal “suo” 41bis, bisogna prendere sul serio la sua battaglia contro “il” 41bis, che forse è anche il modo per salvargli la vita. Contro la prospettiva infausta della morte in stato di detenzione di un uomo in sciopero della fame da tre mesi resta ancora l’arma della politica, finora messa da parte, nascosta dietro le schermaglie giuridiche, secondo l’ormai antica abitudine italiana alla supplenza giudiziaria. Né ha avuto fiato più lungo il tentativo del governo di nascondersi dietro il parere richiesto al Comitato nazionale di bioetica circa la possibilità di costringere all’alimentazione forzata un Cospito che dovesse diventare incosciente, in barba all’articolo 32 della Costituzione, alla storia di Eluana Englaro, alla legge del 2017 sulle dichiarazioni anticipate di trattamento e all’equivalenza dei trattamenti rivolti ai detenuti e ai cittadini in libertà. Se anche il Comitato Nazionale Bioetica avesse offerto il parere richiesto (il che non è stato con le “riflessioni condivise” diffuse ieri) e il Governo ne avesse tratto la legittimità di interventi salvavita contro la volontà di Cospito, avrebbe potuto attuarli solo durante un suo eventuale stato di incoscienza, realizzando un’inimmaginabile trattamento forzoso a giorni alterni: perdi conoscenza, ti alimento; ti riprendi, smetti di alimentarti; riperdi conoscenza, torno ad alimentarti di soppiatto, in un circolo vizioso senza fine in cui tanto Cospito quanto lo Stato avrebbero perso la propria dignità, ma per univoca responsabilità di quest’ultimo. Ridare la parola alla politica significa prendere sul serio le critiche che da più parti sono venute in queste settimane all’abuso del 41bis (è lecito dubitare che tutte le circa 750 persone che vi sono costrette siano attualmente in condizioni di guidare l’azione criminale delle organizzazioni di cui pure un tempo furono a capo) e agli abusi nel 41bis (le inutili limitazioni nella vita quotidiana dei detenuti che nulla hanno a che fare con le finalità di prevenzione che legittimano l’esistenza di questo regime). Si tratta di critiche che originano da sentenze della Corte europea dei diritti umani e della Corte costituzionale, da rapporti del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e del Garante nazionale Mauro Palma che presenterà a fine mese un nuovo documento. Non si chiedono atti di fede a nessuno, ma - ciascuna nelle materie di propria competenza - le Commissioni parlamentari possono disporre indagini conoscitive intese ad acquisire notizie, informazioni e documentazioni utili al lavoro proprio o dell’Assemblea. Perché le Commissioni giustizia di Camera e Senato, ciascuna per proprio conto o entrambe congiuntamente, non dispongono l’attivazione di un’indagine conoscitiva sulla realtà del regime del 41bis, anche al fine di valutare la opportunità di una sua riforma e della sua riconduzione alle strette necessità che lo giustificano? Ottenere lo stop alla pena per motivi di salute: Cospito prova a evitare il Tso di Errico Novi Il Dubbio, 8 marzo 2023 Il recluso chiede, attraverso il proprio legale, di lasciare il carcere e andare ai domiciliari. Ha valori che il suo legale Flavio Rossi Albertini definisce anomali, in particolare quelle oscillazioni del potassio ora fermo a 3.2 dopo aver toccato quota 4, e in grado di far temere per il cuore. Sempre l’avvocato riferisce dell’ultimo colloquio, in cui l’anarchico, dice, è parso “lucido seppur provato, certo molto determinato nel portare avanti la propria battaglia contro il 41 bis, ma anche preoccupato che i medici abbiano le flebo già pronte”. E cioè che quei “trattamenti sanitari” rifiutati con la firma in calce alle “Dat” possano scattare non appena il quadro clinico precipitasse definitivamente. A maggior ragione dopo che lunedì il Comitato di bioetica, seppur a maggioranza, ha espresso parere favorevole a eventuali interventi salvavita “forzosi”. Così, proprio mentre l’organismo degli scienziati certificava, nel comunicato stampa dell’altro ieri sera, le spaccature al proprio interno, il difensore di Cospito ha giocato l’ultima carta per sottrarre il proprio assistito alla prospettiva di un Tso, un trattamento sanitario obbligatorio: ha depositato dinanzi al Tribunale di Sorveglianza di Milano un’istanza di “differimento pena per motivi di salute”, con temporanea commutazione dal carcere (e quindi dal 41 bis contro il quale l’anarchico è in sciopero della fame da 139 giorni) ai domiciliari, che verrebbero scontati a casa della sorella di Cospito. Fissata l’udienza: se ne parla fra più di due settimane, il 24 marzo. “Alfredo non ha vocazioni suicide”, dice Rossi Albertini, “la sua è una lotta per la vita, non per la morte”. D’altra parte un uomo di 55 anni che non tocca cibo da oltre 4 mesi, che ha ricominciato a rifiutare gli integratori e che ieri, quando ha provato a bere un po’ d’orzo, si è sentito male, non è esattamente in una situazione tranquilla. E non lo è anche per il timore che la sua battaglia frani nell’ineluttabilità delle cure forzate, sempre meno ipotetiche. Il Comitato di bioetica ha fatto cadere le ultime remore etico-giuridiche: come anticipato ieri sul Dubbio dall’articolo di Valentina Stella, l’organismo interpellato dal guardasigilli Carlo Nordio lo scorso 7 febbraio si è espresso a maggioranza dei propri componenti (25 contro 11) per l’idea che il diritto all’autodeterminazione dell’individuo, e la validità di dichiarazioni anticipate di trattamento in cui il recluso rifiuti le cure anche in vista di una perdita di coscienza, vengano meno in caso di “imminente pericolo di vita, quando non si è in grado di accertare la volontà attuale del detenuto”. In un caso simile “il medico non è esonerato dal porre in essere tutti quegli interventi atti a salvargli la vita: né le autorità penitenziarie, né i medici potranno limitarsi a contemplare passivamente la morte del detenuto che digiuna”. Poiché si tratta di un consesso di scienziati e studiosi di bioetica, non certo di una commissione parlamentare, il Comitato presieduto dal professor Angelo Vescovi non ha cassato le “dissenting opinions”: in 9 si sono schierati nettamente per la validità delle Dat di Cospito, e in 2 hanno sollecitato un’improbabile legge che componga il dilemma. Dopodiché, oltre a diffondere il comunicato stampa che, con correttezza, certifica questa divaricazione interna, il Comitato di bioetica ha messo a disposizione dell’opinione pubblica un primo documento con le riflessioni svolte. Il primo slot del “verbale” porta un po’ fuori strada, perché costituisce un’ampia premessa condivisa da tutti, in cui si afferma che nessuno può essere conculcato nella propria dignità, quando si tratta di diritto alla salute. Un nonsense, a dire il vero, visti gli orientamenti dichiarati con onestà nel comunicato, che ieri però ha fuorviato, per alcune ore, la macchina dell’informazione, in cui è prevalsa appunto l’idea di un deliberato rispettoso delle Dat di Cospito. Non è così, evidentemente. Di fronte alla prospettiva di veder non solo fallita la battaglia per la revoca del 41 bis ma di essere persino curato a forza da quello Stato di cui neppure riconosce l’autorità, Cospito ha dunque chiesto al proprio difensore di accelerare sull’ultima opzione, il differimento pena per motivi di salute, chiesto lunedì sera al Tribunale di Sorveglianza milanese. Sospendere, o differire che dir si voglia, vuol dire uscire dal carcere, non solo dal 41 bis. A quel punto Cospito riprenderebbe a mangiare, e si eviterebbe una tragedia dalle conseguenze imprevedibili. Solo che lo stesso istituto del differimento pena suscitò furibonde indignazioni quando, tre anni fa, il Dap di Alfonso Bonafede “osò” incoraggiarne la concessione, in pieno Covid, anche ai detenuti di mafia con particolari fragilità cliniche. Riuscirà l’Italia a tenere sotto controllo i propri nervi o favorirà la definitiva tragedia con il solito rigurgito di moralismo giustizialista? Cospito vuole i domiciliari. Ma il suo sciopero è un problema più grande del 41 bis di Giulia Merlo Il Domani, 8 marzo 2023 Il comitato di Bioetica ha stabilito all’unanimità non è possibile “adottare misure coercitive contro la volontà attuale della persona”. Secondo la maggioranza, i medici non possano “contemplare passivamente la morte del detenuto che digiuna”. Per la minoranza è inviolabile il diritto a non subire trattamenti sanitari contro la propria volontà. Intanto, il legale di Cospito ha depositato al tribunale di sorveglianza di Milano una richiesta di differimento pena per motivi di salute, chiedendo i domiciliari a casa di una delle sorelle dell’anarchico. Dopo un mese di lavoro, il Comitato nazionale di bioetica ha consegnato al ministero della Giustizia le risposte ai quesiti che gli erano stati posti. In teoria, quesiti astratti sulla gestione di un paziente sotto custodia dello Stato che rifiuti le terapie medica. In concreto, domande che evidentemente riguardano il caso di Alfredo Cospito, l’anarchico da oltre 135 giorni in sciopero della fame contro il regime di carcere duro a cui è sottoposto. Il risultato è stato un lungo parere con dieci punti approvati all’unanimità dai 33 membri, in cui si conferma l’essenziale: che non è possibile “adottare misure coercitive contro la volontà attuale della persona” e che anche nei confronti dei detenuti vada applicata la legge 219, che permette di “rifiutare i trattamenti sanitari anche mediante le disposizioni anticipate di trattamento”. Quindi per Cospito non sarà possibile nessuna alimentazione forzata né trattamenti sanitari obbligatori. Il tema nevralgico però riguarda la possibilità o meno per i medici di intervenire comunque in salvataggio del detenuto che pure ha firmato una dat in cui rinuncia a qualsiasi tipo di trattamento medico che preveda l’alimentazione forzata. Su questo il comitato si è diviso e ha scelto la strada più coerente per un organo solo consultivo: ha consegnato tre diversi pareri al ministero, uno di maggioranza e due di minoranza. Spetterà ora a via Arenula decidere se e quale adottare, considerato che si tratta comunque di pareri non vincolanti. La spaccatura tra maggioranza e minoranza ha prodotto l’effetto di svincolarsi dalla pressione posta dal ministero sul comitato, con la scelta di depositare entrambe le soluzioni. Una parte dei suoi componenti, infatti, ha vissuto con apprensione e anche con fastidio la scelta del ministero della Giustizia di interessare un organo consultivo della presidenza del Consiglio di una questione così delicata, anche politicamente. Per di più adottando l’escamotage di porre dei quesiti generici nella formulazione, ma evidentemente riferibili al caso Cospito. Alla fine, tuttavia, ha prevalso la linea di accettare di rispondere ai quesiti, considerandoli per questo validi, anche alla luce della considerazione che, come sottolinea il comitato, ogni valutazione espressa ha carattere “generale”. Del resto, il governo rischia di trovarsi presto a dover gestire le estreme conseguenze dello sciopero della fame dell’anarchico. Politicamente l’esecutivo ha scelto la linea dura dell’intransigenza e anche i magistrati, da ultima la Cassazione con la sentenza di rigetto del ricorso per la modifica del 41 bis, non hanno aperto a spazi giuridici di ripensamento. Con il risultato che, presto o tardi, Cospito morirà o perderà conoscenza e lo Stato dovrà decidere come comportarsi. Il parere di maggioranza - Il parere che ha ricevuto 19 voti è quello più orientato in favore della scelta pro-vita. Fermo restando che non sia possibile utilizzare alcuna “coercizione” nei confronti del paziente detenuto, si sottolinea che “nel caso di imminente pericolo di vita, quando non si è in grado di accertare la volontà attuale del detenuto, il medico non è esonerato dal porre in essere tutti quegli interventi atti a salvargli la vita”. Il parere, prettamente giuridico, si fonda su una recente pronuncia della Corte europea dei diritti umani, in cui si legge che “né le autorità penitenziarie, né i medici potranno limitarsi a contemplare passivamente la morte del detenuto che digiuna”. Questa posizione nasce da un ragionamento che considera lo sciopero della fame non un tentativo di suicidio, ma come forma non violenta di libera manifestazione del pensiero. Dunque, con una procedura rispettosa e proporzionale alla volontà del paziente, l’intervento delle autorità carcerarie è lecito, perché proteggerne la vita è un modo per salvaguardare la sua libertà di pensiero. In carcere, infatti, le autorità hanno il dovere di prevenire la morte di chi è sotto la custodia dello Stato. In altre parole, il medico è legittimato a intervenire in scienza e coscienza con tutti gli interventi per salvargli la vita, nel caso in cui il detenuto sia in imminente pericolo di vita e non sia in grado di accertarne la volontà attuale. I pareri di minoranza - Altri 9 componenti del Cnb, invece, hanno ritenuto che “non vi siano motivi giuridicamente e bioeticamente fondati che consentano la non applicazione della L.219/2017 nei confronti della persona detenuta in sciopero della fame, anche in pericolo di vita”. In questo parere, si considera inviolabile il diritto a non subire trattamenti sanitari contro la propria volontà, garantendo “l’intangibilità della sfera corporea di ogni essere umano” a prescindere dal fatto che sia detenuto. Un terzo parere, sottoscritto da altri due membri, aggiunge a questa seconda interpretazione dell’ordinamento la valutazione che “un intervento del legislatore sia la via obbligata, comunque stretta per vincoli e giurisprudenza costituzionali”, così da offrire un chiaro riferimento normativo, soprattutto ai medici che si troveranno concretamente a dover assumere queste decisioni. Nessuno dei pareri, tuttavia, contempla l’ipotesi di trattamenti sanitari obbligatori, quindi con valutazioni psichiatriche del detenuto nè alcuna possibile coercizione contro la volontà del detenuto. Tutti, partono dal presupposto che la dichiarazione anticipata di trattamento sia valida. Le novità su Cospito - Quello finale è un risultato a metà per il ministero della Giustizia, che ha comunque la responsabilità della salute di Cospito. Il detenuto è ospedalizzato e, quando il suo organismo cederà, saranno i medici del San Paolo a dover valutare come e se intervenire in un dilemma per il quale nemmeno il comitato di Bioetica ha dato soluzione univoca. Intanto, proprio nel giorno successivo al parere, cambia anche la linea della difesa di Cospito. Il suo legale, infatti, ha depositato al tribunale di sorveglianza di Milano una richiesta di differimento pena per motivi di salute, chiedendo i domiciliari a casa di una delle sorelle. Nelle scorse settimane, l’anarchico aveva escluso questa strada. Un differimento della pena, infatti, significa solo rimandarla a quando e se tornerà in salute ma non modifica il 41 bis contro cui Cospito sta scioperando. Non è chiaro se, anche in caso di domiciliari, lo sciopero della fame continuerà, il suo avvocato però ha detto che ora Cospito “teme la flebo” in carcere, ma rimane “lucido”. Cospito, i domiciliari e Salomone di Maurizio Crippa Il Foglio, 8 marzo 2023 Il Comitato di Bioetica ha deciso che Alfredo Cospito ha diritto a non essere alimentato, però anche no. Salomone non avrebbe fatto di meglio. Ci hanno pensato un mese, quindi ci si augura bene, prima di rispondere al quesito del ministro di Giustizia. Poi il Comitato di Bioetica ha stabilito che nessuno può sottoporre Alfredo Cospito, finché sarà in possesso delle sue facoltà, a “trattamenti sanitari” come idratazione e alimentazione forzata, che liberamente rifiuta: perché le sue Disposizioni anticipate di trattamento valgono anche per lo sciopero della fame al 41-bis. Però il Comitato ha anche stabilito, in un giudizio salomonico invero piuttosto intorcinato, bisogna rileggere due volte per capire la ratio, che di fronte a un aggravamento i medici sono invece tenuti a intervenire, perché le Dat “sono incongrue, e dunque inapplicabili, ove siano subordinate all’ottenimento di beni o alla realizzazione di comportamenti altrui”, cioè a ottenere la revoca del 41-bis. Qualcuno dirà che è contraddittorio, qualcuno no. Ma ora Cospito ha depositato al tribunale di Sorveglianza di Milano una richiesta di differimento pena, per motivi di salute, chiedendo i domiciliari. E stavolta non ci sarebbe nessuna contraddizione, né logica né politica né umanitaria, ad accogliere una simile richiesta. La giustizia perfetta la si lasci a Salomone. Luciana Delle Donne: “Con Made in Carcere offriamo progetti di vita” di Daniela Lanni La Stampa, 8 marzo 2023 “La nostra Onlus nasce per dare lavoro alle persone ma l’obiettivo è generare un cambiamento sistemico con tutta la popolazione” afferma l’imprenditrice leccese che, il 31 marzo, verrà insignita dal Presidente della Repubblica dell’onorificenza di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. “Non vendiamo prodotti ma progetti di vita”. È il messaggio che Luciana Delle Donne ripete con forza. Lei, donna del Sud, leccese doc, determinata, estrosa e geniale, a 61 anni, diventerà Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Un traguardo importante raggiunto dopo anni di duro lavoro e sacrifici. Ha fatto scelte che pochi avrebbero preso. Era una manager bancaria di successo con “casa in via dei Fiori Chiari a Milano, viaggi all’estero, fili di perle, camicie cifrate, serate nei posti che contano” racconta, poi qualcosa è cambiato, e dentro di lei è scattato il desiderio “di restituire un pezzo della sua fortuna agli altri”. Così, nel 2006, ha lasciato tutto per diventare l’anima, il corpo e il cervello di “Made in Carcere”, una Onlus fondata per “aiutare le persone” e “coinvolgere i detenuti dando loro un lavoro e un futuro”. La sua filosofia è quella di offrire una “seconda opportunità” alle donne detenute e una “doppia vita” ai tessuti. Luciana sarà tra le trenta persone che, il prossimo 31 marzo, saranno insignite dal presidente Mattarella per essersi distinte per un’imprenditoria etica, per l’impegno a favore dei detenuti, per la solidarietà, per il volontariato, per attività in favore dell’inclusione sociale, della legalità, del diritto alla salute e per atti di eroismo. A lei va il riconoscimento “per la sua scelta di impegnarsi nell’aiutare le donne detenute ad avere una seconda opportunità, attraverso un percorso formativo necessario al loro reinserimento nella società lavorativa e civile”. Luciana cosa l’ha spinta a lasciare la sua vita agiata e di successo e dedicarsi al volontariato? “Avevo ottenuto tutto ciò che volevo nel mondo della finanza e ho deciso di dedicare le mie competenze a situazioni difficili, che nessuno voleva toccare. Così mi è venuta in mente la lavorazione in carcere con materiali di scarto. L’obiettivo? Dimostrare che bellezza ed eleganza potevano entrare in questi luoghi. Volevo dare una mano a contesti dimenticati senza andarmene all’estero, in Africa o Brasile, ma restare in Italia e dare il mio contributo al nostro Paese. Ho fondato Officina Creativa (di cui è presidente, ndr), una cooperativa sociale non a scopo di lucro, e creato il marchio “Made in Carcere”. “Made in Carcere” mette in primo piano le detenute. Un progetto studiato per dare loro dignità e speranza. “L’idea da sempre è quella di rimboccarci le maniche e ricostruire un mondo ideale dove il benessere delle persone diventa una priorità. Infatti, abbiamo ideato il Bil, Benessere interno lordo, che fa la parodia al Pil. È un sistema di monitoraggio del benessere utile a dimostrare che “fare bene, fa bene”. E fa bene a tutto: dall’economia all’ambiente, visto che usiamo materiale ecosostenibile. Il lavoro remunerato abbatte la recidiva del reato di circa il 90%. E chi esce dal carcere porta con sé conoscenza di ruoli, responsabilità e metodologia del mondo del lavoro. Quello che facciamo da 17 anni, ora, è diventato un cambiamento sistemico, un modello di economia rigenerativa e riparativa, un riferimento a livello nazionale e internazionale”. Quante persone lavorano e hanno lavorato per questa Onlus? “Sono coinvolte centinaia di persone, il 90% donne, tra i 22 ai 75 anni, tutte retribuite con contratti a tempo determinato o indeterminato, dipende dalla pena che devono scontare. Molte escono per il fine pena, altre restano. C’è spesso un riciclo tra loro. Siamo nei penitenziari di Lecce, Taranto, Trani, Bari e Matera”. Cosa realizzate all’interno del carcere? “La nostra attività è concentrata sui gadget personalizzati, supportiamo eventi, convegni, grandi supermercati. Loro regalano i nostri accessori che sono brandizzati, e sono tanti, alcuni esempi: braccialetti, borse, grembiuli, presine, porta pane, tovagliette, cuscini o laccetti porta cellulari. L’etichetta riportata sul prodotto rappresenta un modo di fare marketing e comunicazione sociale molto potenti, continuamente sotto gli occhi della gente. Poi c’è anche l’e-commerce”. Il progetto si è allargato dando vita anche a piccole realtà sartoriali. In cosa consiste? “Negli anni abbiamo ampliato le nostre attività fuori dalle carceri creando delle sartorie sociali di periferia, una decina sparse per l’Italia, come a Verona, Grosseto, Genova, Napoli, a cui trasferiamo il nostro know-how: forniamo tessuti, stampiamo l’etichetta, bottoni, cerniere. Ciò di cui hanno bisogno. Oltre alle sartorie, abbiamo rivolto l’attenzione verso nuovi settori: nel carcere minorile di Bari abbiamo avviato una pasticceria certificata biologica, che realizza e vende biscotti vegani le “Scappa-telle” e, grazie al sostegno di Fondazione CON IL SUD, collaboriamo con altre pasticcerie presso il minorile di Nisida e Taranto”. Con “Made in Carcere” vuole generare un cambiamento sistemico con tutta la popolazione. Cosa intende? “A noi non interessa la vendita degli oggetti che realizziamo ma, la cosa più importante, è costruire un percorso di consapevolezza anche fuori dal carcere. Infatti, lavoriamo sia nei penitenziari che fuori, con studenti universitari. Per il decimo anno accogliamo per un mese studenti dell’Università Louiss. Sono tra i cinque e gli otto, e stando insieme vengono a conoscenza di questa realtà. Diciamo che la vendita dei nostri prodotti serve per pagare gli stipendi, ma l’obiettivo primario è generare un cambiamento sistemico tra le persone, che vivano in carcere o fuori”. Lei ha offerto una seconda opportunità a chi non pensava di averne più. Com’è cambiata la vita di queste persone? “In meglio. I manufatti “Made in Carcere” rappresentano la filosofia della rinascita. Una seconda chance per le donne detenute e una nuova vita per tessuti e oggetti. Questo lavoro è creativo: permette di sviluppare e apprezzare la bellezza degli oggetti che si realizza, e acquistare consapevolezza e dignità. Poi queste donne aiutano a muovere l’economia. Il nostro obiettivo è quello di diffondere un nuovo stile di vita, fatto di inclusione sociale e sostenibilità ambientale”. Il 31 marzo verrà insignita dal presidente della Repubblica dell’onorificenza di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Cosa significa questo traguardo? “Che ha vinto il buon senso. Condivido questo premio con tutte le persone che mi supportano nel mio sogno, visione e missione. E, dopo Papa Bergoglio, che ha indossato un nostro braccialetto in occasione della visita fatta nel carcere di Poggio Reale nel 2016, ora cercherò di farlo mettere anche al presidente Mattarella”. E non è l’unico premio… “In effetti è un anno particolare. Sono rientrata tra le prime 100 donne in Europa premiate come imprenditrici sociali”. Premi importanti che la spingono verso nuovi progetti? “Ne abbiamo due grossi in cantiere: avviare il centro ricerca Officina Creativa, che vogliamo chiamare “Croc” e realizzare la prima casa delle donne a Cellino San Marco, in un bene confiscato alla mafia. Un luogo polifunzionale che vedrà l’adattabilità di un luogo fisico a tutto quello che il mercato richiederà”. Luciana che messaggio invia alle donne in occasione dell’8 marzo? “Le donne hanno un Dna storico differente da quello degli uomini. È fatto di sofferenze antiche. Sofferenze che danno più forza, energia, costanza, pazienza, tenacia, umiltà e creatività nel trovare vie d’uscita in tempo reale. In carcere diciamo che “abbiamo sempre una soluzione, i problemi li lasciamo agli incapaci”. 8 marzo: Atena nelle carceri per la salute delle donne ansa.it, 8 marzo 2023 A Civitavecchia e Pozzuoli, a fianco delle detenute. Una mostra sulle ‘gabbie’ mentali e fisiche, denominata The Cage, alla Casa Circondariale di Civitavecchia, mentre a Pozzuoli corsi di cucina con il cuoco del Napoli Calcio Paolo Cozzolino che ha offerto consigli per un’alimentazione sana, insegnando anche come preparare piatti semplici e salutari. Con queste iniziative, rivolte alle detenute in occasione della Festa della donna, Atena Donna è presente nelle carceri. Prosegue infatti il percorso Atena Together, un progetto nato da un’iniziativa della presidente di Atena Donna Carla Vittoria Maira, con incontri sulla prevenzione e screening. A Civitavecchia, si terrà proprio domani una mostra delle opere dell’artista Vincenzo Galluzzo, anche autore televisivo e scrittore. The Cage è il titolo della mostra e le sue opere fanno riflettere sulle gabbie mentali e fisiche. Le variopinte cromie sono attraversate da una serie di griglie che percorrono lo spazio ed evocano una sensazione di armonia, rappresentando la vita, la speranza, le emozioni, le aspettative di tutti coloro che sono nella “gabbia”. Una delle opere verrà donata dall’artista al carcere di Civitavecchia come messaggio di riflessione per il futuro. A seguire si terrà l’incontro di volontariato sanitario del progetto Atena Together, questa volta ad incontrare le detenute e le poliziotte sarà il professor Francesco Di Sabato, Responsabile del Centro Cefalee del Policlinico Umberto I, che offrirà alle donne indicazioni e consigli. Dalla postura all’alimentazione, tutto ciò che può essere utile anche per evitare l’abuso di farmaci. Nella struttura di Pozzuoli è stato invece presente a sorpresa il 4 marzo il cuoco del Napoli Paolo Cozzolino che, oltre a cucinare per tutte le detenute, ha offerto consigli per un’alimentazione sana, insegnando anche come preparare piatti semplici e salutari. L’iniziativa rientra nel percorso di lavoro dei Gruppi-Benessere, formati in collaborazione con lo staff medico della casa circondariale dal professor Raffaele Landolfi, internista ematologo professore presso l’Università del Sacro Cuore di Roma. L’obiettivo, secondo Landolfi “è stato stare insieme gustando il tipico pranzo che il cuoco del Napoli prepara per i calciatori. Un modo per far capire come si possa seguire un’alimentazione sana senza penalizzare il gusto”. “Femminicidi costanti. E i fondi tardano” di Alessandra Pigliaru Il Manifesto, 8 marzo 2023 8 marzo. Intervista a Antonella Veltri, Presidente di “Di.Re Donne in rete contro la violenza”. “Fino a quando non ci sarà un serio e vasto programma di cambiamento culturale, continueremo a contare le donne morte e a chiederci se sono più o meno dell’anno precedente”. “Per noi, senza retorica, 8 marzo è ogni giorno”. Antonella Veltri, presidente di Di.Re - Donne in rete contro la violenza, non ha dubbi nel constatare che, al di là di ogni celebrazione, un sistema complesso come quello dei centri antiviolenza (oltre 80 quelli che fanno capo a Di.Re) e case rifugio, sia presente e attivo con ostinazione ogni giorno. Quest’anno la loro attenzione, proprio in virtù dell’impegno quotidiano e consolidato su tutto il territorio, è rivolta anche alla strage di Cutro, ecco perché oggi, come associazione nazionale, i Centri aderiscono alle mobilitazioni “a sostegno del diritto di vivere oltre ogni confine una vita dignitosa. La nostra azione politica - aggiunge Veltri - procederà per continuare a rivendicare e tutelare i diritti di tutte le donne, ma quanto è successo non può essere messo da parte. Se questo è l’esempio di come il governo affronta i temi legati ai diritti umani, dovremo sempre più monitorare, reagire e far sentire la nostra voce”. Dall’inizio del 2023, su 20 donne uccise ben 18 lo sono state in ambito familiare/affettivo; di queste, 11 hanno trovato la morte per mano del partner o dell’ex. Come commenta questi dati? Lo scorso anno abbiamo visto - nuovamente - come gli omicidi siano costantemente in calo. Non è così per i femminicidi. Questi continuano ad essere costanti nel tempo, poiché non vengono affrontate le vere cause: il diritto al controllo e al possesso della donna da parte del partner, della famiglia. La libertà delle donne, la loro autodeterminazione, il percorso di consapevolezza femminile sempre più diffuso e in crescita è direttamente proporzionale alla volontà di dominio e di controllo di un patriarcato che persiste ancora e reagisce sempre più con efferatezza e violenza. Sembra una ripetizione, ma fino a quando il fenomeno della violenza maschile sulle donne non verrà affrontato in modo sistemico, per il fenomeno strutturale che è, fino a quando non verrà messo in atto un serio e vasto programma di cambiamento culturale continueremo a contare le donne morte e a chiederci se sono più o meno dell’anno precedente. A proposito del fenomeno strutturale della violenza maschile contro le donne, i fondi destinati ai vostri Centri sono insufficienti. A che punto è la riflessione istituzionale riguardo i ritardi e le gravi difficoltà che dovete affrontare? Purtroppo, nulla sembra migliorare con il tempo. I fondi continuano ad essere insufficienti e sono sempre più parcellizzati. Fondi che arrivano in ritardo dallo Stato, Regioni che prendono il loro tempo per l’assegnazione, territori che rimangono indietro, alimentando così - anche in questo ambito - disparità e differenze. Per dare risposte continuative alle donne non è possibile proseguire a lavorare navigando a vista. Inoltre, l’Intesa Stato-Regioni ci lascia ancora perplesse, perché continua a considerarci meri servizi alle donne quando il lavoro culturale e di cambiamento strutturale attraverso azioni di formazione e di animazione territoriale lo facciamo ovunque e ormai da tempo. Per non parlare dei centri aiuto maltrattanti che beneficeranno di fondi con conseguenze anche nel processo di contrasto alla violenza alle donne molto preoccupanti. Serve una serie politica di sostegno alle attività delle organizzazioni del terzo settore che hanno una solida e consolidata esperienza nel contrasto alla violenza maschile alle donne. E serve un serio piano di formazione per un vero cambiamento culturale nelle istituzioni: ancora troppo frequenti i casi di vittimizzazione secondaria che sempre più allontanano le donne dai percorsi di giustizia. Senza la conoscenza del fenomeno e del suo radicamento culturale, combatterlo è impossibile. Quali sono i progetti che porterete avanti nei prossimi mesi? D.i.Re si sta muovendo su vari fronti. Abbiamo attivi una serie di fondi per sostenere economicamente le organizzazioni socie e le donne che accolgono. In questo 2023 vogliamo concentrarci particolarmente sui centri antiviolenza più in difficoltà, che spesso operano in contesti svantaggiati. Ci stiamo muovendo molto per supportare i progetti di inserimento lavorativo delle donne, ben sapendo quanto l’autonomia economica sia fondamentale per i loro percorsi di libertà. Abbiamo attivato l’Osservatorio sulla vittimizzazione secondaria, per monitorare l’andamento di questo fenomeno che riguarda le istituzioni e le loro risposte alle donne. Continuiamo a migliorare l’accoglienza delle donne migranti e richiedenti asilo, anche formando vari interlocutori sulla metodologia dell’accoglienza e mediazione culturale. I progetti di D.i.Re offrono risposte ai bisogni che leggiamo grazie al grande radicamento nei territori delle organizzazioni nostre socie. Nessun partito è immune dal contagio mafioso, la mafia accarezza il potere di Rosaria Capacchione Il Domani, 8 marzo 2023 Mentre si celebrano gli anniversari di morti innocenti, è difficile riconoscere fra le persone una bandiera di partito. Anche questo è uno dei sintomi della crisi che stanno vivendo. Cadono, in questi giorni, gli anniversari di alcuni dei delitti più feroci, delle morti innocenti di uno sconosciuto sindacalista e di un prete di paese, Federico Del Prete e don Peppe Diana. E nelle celebrazioni del ricordo, su social e giornali ecco i volti di quanti, in loro nome, si continua la battaglia contro la mafia. Campania, provincia di Caserta, feudo di quello che fu il clan dei Casalesi dei mille morti ammazzati e delle stragi revansciste che avrebbero dovuto fermare - e non lo fecero - il primo maxiprocesso alla camorra degli affari e gli ergastoli a chi quegli omicidi aveva commissionato. Cadono, in questi giorni, gli anniversari di alcuni dei delitti più feroci, delle morti innocenti di uno sconosciuto sindacalista e di un prete di paese, Federico Del Prete e don Peppe Diana. E nelle celebrazioni del ricordo, su social e giornali ecco i volti di quanti, in loro nome, continuano la battaglia contro la mafia. Ci sono magistrati, uomini in divisa, giornalisti. E tanta gente comune alla quale è difficile, forse impossibile, attribuire una univoca etichetta di partito. La crisi dei partiti - Di sinistra, di destra, di nessuna parte, pezzi di società fluida che si aggregano attorno a un ideale che non ha bandiera. Vale per le associazioni antimafia, vale per gli ambientalisti, vale per le associazioni culturali che promuovono libri e video di autori locali, vale per i comitati civici. La crisi dei partiti ha reso evidente, per la verità, ciò che era già prima: le persone oneste lo sono a prescindere; la mafia (e la camorra, e la ‘ndrangheta) continua a pescare i suoi sodali tra quanti detengono il potere, indifferente al colore. E i partiti, tutti i partiti (ma soprattutto il Pd, che ha ereditato quelle che furono forma e organizzazione del Pci e della Dc) non sono più in grado di assolvere al compito di aggregare il consenso attorno a quei temi. Non solo per le pulsioni populiste generalizzate, ma per mancanza di parole d’ordine e di programmi chiari, coerenti, univoci, ridotti al rango di slogan. Così, sui temi più complessi della giustizia penale e della sicurezza, dal 41 bis all’ergastolo ostativo, dalle confische all’amministrazione dei beni sequestrati e all’impiego dell’esercito, non è possibile ravvisare differenze tra destra e sinistra, tra pensiero conservatore e ideali progressisti. La malattia della semplificazione - Caduti tutti nella trappola dei social, luogo della semplificazione (e della forca) per eccellenza. E non è un caso, probabilmente, che pur di non scontentare la pancia del paese, molte scelte rispondono a un’ottica esclusivamente securitaria (il carcere come unica pena possibile, per esempio, con la riforma dell’esecuzione penale che, pur approvata oltre cinque anni fa non è mai stata attuata) e non di prevenzione e di giustizia effettiva. Non ha molto senso, oggi, rivendicare un’esclusività della sinistra nella lotta alla mafia, traslando l’impegno che fu del Pci nelle attuali formazioni politiche; non ne ha nemmeno cercare di mettere al bando la destra (non certo quella stragista, con le sue documentate collusioni con Cosa Nostra, ‘ndrangheta, camorra) sugli stessi temi. Perché la storia dei singoli è ben diversa - altrimenti sarebbe come strappare a metà la foto di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, di differente origine culturale e politica eppure grandi amici, uguali nell’impegno antimafia e nella tragedia - e perché in parlamento, come nella società civile, raramente ci si è divisi sulla legislazione antimafia o sul complessivo impianto della sicurezza nazionale. La questione meridionale - Di volta in volta, a seconda del colore del governo locale (comunale o regionale) la cronaca giudiziaria e le sentenze ci raccontano fatti e sistemi che fanno riferimento a quella maggioranza pro tempore, con collusioni e compromissioni molto gravi ma che riguardano tutti: dal Pd a Forza Italia a Fratelli d’Italia. Ma è sbagliato attribuire la responsabilità di quei fatti al posizionamento ideologico del partito di appartenenza, per la verità volatile quanto buona parte dell’elettorato. Molto invece ci sarebbe da dire sulla mai esaurientemente affrontata e risolta questione meridionale. Se le organizzazioni mafiose continuano a cercare e trovare solide sponde nella politica è perché non è mai venuto meno il reciproco interesse a coltivare quei rapporti: affari contro voti, sempre più fluttuanti e sempre più scambiabili con la promessa di un posto di lavoro, di una bolletta pagata, di un posto in ospedale per il familiare ammalato. Bisogni primari ai quali al sud (ma non più solo al sud) la politica, quale che sia il suo colore, non riesce a dare risposte. Conoscere la storia - Nella storia del nostro paese c’è un capitolo quasi mai raccontato sui libri, poco studiato nelle università, male approfondito se non nella sua parte più tragica - le stragi di Capaci e via D’Amelio - e affidato quasi esclusivamente alle manifestazioni delle giornate per la Legalità. È quella parte di storia italiana (sua parte integrante, sostiene lo storico Isaia Sales) che è la storia della mafia, nelle sue varie declinazioni regionali: dalle origini a Portella della Ginestra, dalle stragi di Bologna a quelle del 1992/1994, dall’alleanza tra Raffaele Cutolo e le Br all’attentato del Rapido 904. Fino ai giorni nostri. E non è retorica ripetere che conoscerla serve a comprendere ciò che è accaduto ma anche ciò che potrà ancora accadere. Sotto altre forme e con altri nomi, ma per le stesse ragioni. Una lezione che ha dovuto imparare chi si credeva immune dal contagio per aver visto cadere per mano mafiosa i suoi padri e i suoi compagni, e che dovrà ben studiare chi solo ora si trova a confrontarsi con l’esercizio del potere. Covid, inchiesta dovuta e da archiviare di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 8 marzo 2023 Il procuratore e il consulente Crisanti spiegano di voler dare “risposte ai parenti delle vittime”. Ma così finisce in secondo piano l’obiettivo di un’inchiesta penale: stabilire le responsabilità. Epidemia Covid, verità, reati penali, dolore delle vittime e dei superstiti. “Reati penali”, ridondanza entrata nell’uso giornalistico, perché reato è già penale, ma utile a sottolineare specificità e limiti dell’intervento penale. Faciloneria, scorrettezze, inadeguatezze riprovevoli non sono di per sé “reati penali”. La “responsabilità penale è personale” (art. 27 Costituzione). La giustizia penale non interviene su “fenomeni”, su “eventi”, ma deve accertare specifici reati per i quali specifiche persone si provi siano responsabili. Tutti comprendiamo la differenza tra responsabilità per un fatto che una persona ha “voluto” commettere (dolo) e, invece, la responsabilità per un fatto che “non è voluto”, ma si è verificato per “negligenza, imprudenza o imperizia ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti...” (art. 43 codice penale). Per una volta il linguaggio tecnico della legge è chiaro e comprensibile a chiunque. L’accertamento della responsabilità per colpa è uno dei problemi più delicati per la giustizia. Di fronte a una catastrofe tutti esigono la “verità”, ma se vogliamo che “sia fatta giustizia”, occorre confrontarsi con la questione della diligenza, prudenza, perizia, capacità professionale che era possibile esigere da quella persona, allora, in quella situazione specifica. Pensiamo alla colpa medica: talora la colpa è evidente, ma nella maggioranza dei casi l’accertamento è molto difficile e anche qui vale il principio che sintetizziamo nella formula della responsabilità “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Per affermare la “colpa” occorre che la conseguenza di danno, che si è verificata, fosse, allora, prevedibile. Non solo: occorre anche che fosse, allora, possibile evitarla. Prevedibile alla luce delle conoscenze di quel momento ed evitabile alla luce dei mezzi in quel momento ritenuti idonei e concretamente disponibili. Non vi è spazio per il senno di poi. Il Procuratore della Repubblica di Bergamo nel comunicato del 20 febbraio informa che il suo ufficio “ha concluso le indagini nei confronti di 17 persone che, a vario titolo, hanno gestito la risposta alla pandemia da Covid-19”, indagini che hanno “consentito innanzitutto di ricostruire i fatti così come si sono svolti a partire dal 5 gennaio 2020”; aggiunge giustamente che “l’avviso di conclusione delle indagini non è un atto d’accusa”. L’avviso, così ancora il comunicato della Procura, è stato adottato all’esito di un’attività che “ha comportato valutazioni delicate in tema di configurabilità dei reati ipotizzati, di competenza territoriale, di sussistenza del nesso di causalità ai fini dell’attribuzione delle singole responsabilità”. Non è un atto di accusa, ma non è un atto “neutro” perché conseguenza di una scelta alternativa rispetto all’archiviazione che il pubblico ministero è tenuto a richiedere al giudice “quando gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna” (art.4 08 c.p.p.). Sin da ora merita attenzione l’impostazione delle indagini, quale emerge dalle dichiarazioni rese dal Procuratore Antonio Chiappani. “Il materiale raccolto servirà non solo per le valutazioni di carattere giudiziario, ma anche scientifiche, epidemiologiche, di sanità pubblica, sociologiche amministrative” (Corriere della sera, 2 marzo); “Questa indagine presenta molte difficoltà tecniche ma il mio obiettivo è che la gente sappia quello che è successo” (La Stampa, 2 marzo); “Magari qualcuno sarà prosciolto, qualche posizione sarà archiviata o magari giudici riterranno che, sull’epidemia colposa non si debba procedere” (Repubblica, 3 marzo). Sembra svanire, o quanto meno essere posto in secondo piano, il solo obbiettivo dell’indagine penale: accertamento di “reati penali” e di responsabilità personali. Che “la gente sappia quel che è successo”, che “il materiale raccolto” possa servire, anche, per valutazioni non di carattere giudiziario, può essere una ricaduta oggettiva dell’indagine penale. Non conosciamo gli atti e vi è da augurarsi vivamente che, a dispetto delle dichiarazioni sulla stampa del Procuratore, l’attività di indagine non abbia seguito quella impostazione e sia stata orientata all’unico “obbiettivo” che codice e Costituzione assegnano alla giustizia penale. In questo quadro si aggiungono le dichiarazioni del prof. Andrea Crisanti. Già il fatto che il redattore della consulenza si senta in dovere di “spiegarla” alla stampa è del tutto inconsueto, ancor più il contenuto. Chi abbia letto qualche consulenza o perizia (atti che per definizione vengono disposti in situazioni complesse) conosce la prudenza degli esperti che spesso adottano la formula che alcune conclusioni sono “incompatibili” con i fatti accertati, altre sono “compatibili”, ma nessuno si spinge ad affermare la “sua Verità”. Eppure il prof. Crisanti non si ritrae: “Ho tentato di restituire agli italiani la verità sui processi decisionali” (Corriere della sera, 3 marzo); “Abbiamo utilizzato... modelli matematici altamente predittivi che ci hanno permesso di trarre conclusioni” (Nazione-Carlino-Giorno, 3 marzo). E va oltre: “Mi sono impegnato per dare una risposta al dolore dei parenti delle vittime” (Il Messaggero, 3 marzo); dubito che sia stato richiesto nei “quesiti” che, secondo prassi, la Procura rivolge ai consulenti. Di fronte a questi importanti interrogativi vi è da augurarsi, questa volta più che mai, che il confronto con le difese possa concludersi in tempi rapidi. Altri, non i magistrati, potranno e, meritoriamente, dovranno applicarsi a “valutazioni scientifiche, epidemiologiche, di sanità pubblica, sociologiche, amministrative”. Nel frattempo manteniamo ben saldo il riferimento ai compiti e ai limiti rigorosi della giustizia penale: questo sì deve essere il messaggio da comunicare “alla gente”, evitando di indurre aspettative destinate, con ogni verosimiglianza, ad andare deluse. È anche rispetto per la “incommensurabilità” del dolore dei familiari delle vittime, che non deve essere posto a confronto con i limiti e la “misura” della giustizia penale. “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione” (art. 112 Costituzione), ma, specularmente, il Pm ha “l’obbligo” di richiedere l’archiviazione quando non vi è “una ragionevole previsione di condanna” (art. 408 c.p.p.), evitando aggravi al sistema giudiziario, sconcerto nella pubblica opinione e inutili sofferenze agli indagati. Ergastolo ostativo, oggi udienza della Cassazione: attesa per la decisione tg24.sky.it, 8 marzo 2023 Si svolge l’udienza della Prima sezione penale in cui si affronta il caso di Salvatore Pezzino, da 30 anni in carcere senza mai uscire perché non ha collaborato con la giustizia. Due giorni fa, intanto, la Procura della Cassazione ha fatto sapere il proprio parere, ribadendo che non è necessario inviare alla Consulta le norme che, lo scorso novembre, hanno modificato lo strumento dell’ergastolo ostativo. La Cassazione si esprime sull’ergastolo ostativo. Oggi si svolge l’udienza della Prima sezione penale in cui si affronta il caso di Salvatore Pezzino, da 30 anni in carcere senza mai uscire perché non ha collaborato con la giustizia. Due giorni fa, intanto, la Procura della Cassazione ha fatto sapere il proprio parere. Secondo i Pg Pietro Gaeta e Giuseppe Riccardi, nella loro requisitoria scritta in vista dell’udienza, non è necessario inviare alla Consulta le norme che, lo scorso novembre, hanno modificato l’ergastolo ostativo togliendo i ‘paletti’ - questo almeno l’obiettivo della riforma dopo le sollecitazioni della Consulta e della Ue - alla liberazione condizionale per chi non ha collaborato con la giustizia. Cosa chiede la difesa di Pezzino - Insiste, invece, per l’invio degli atti alla Consulta, l’avvocatessa Giovanna Araniti che difende Pezzino e che ritiene che la riforma varata dal governo sia “fumosa” e solo di “facciata”. Secondo la Procura del Palazzaccio, invece, la riforma ha eliminato le preclusioni precedenti e ora il Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila può esaminare la richiesta di Pezzino - da tre anni trasferito nel carcere sardo di Tempio Pausania - che era stata respinta ‘a occhi chiusi’ sulla base del solo fatto della non collaborazione. “In altri termini, il Tribunale di Sorveglianza, in seguito al novum normativo, introdotto recependo le indicazioni della pronuncia ‘ad incostituzionalità differita’ della Corte Costituzionale, ha l’obbligo di confrontarsi - sottolinea la requisitoria - con la diversa regola di giudizio, che amplia la base cognitiva e valutativa per la concessione della liberazione condizionale, elidendo la preclusione assoluta della collaborazione mancata o impossibile: in tal senso, dovrà essere dunque valutato in concreto il percorso rieducativo del Pezzino, e l’assenza di collegamenti, attuali o potenziali, con la criminalità organizzata e con il contesto mafioso”. Le posizioni delle parti - Secondo Araniti, però, la requisitoria non affronta “gli inevitabili interrogativi che ogni nuova disciplina pone, soprattutto nel caso di specie: la novella risponde effettivamente alle esigenze di bilanciamento tra i diversi valori costituzionali?” “Occorre, infatti, valutare - sostiene Araniti - se l’introduzione di una serie di disposizioni (non solo stringenti, ma inserenti nuovi limiti ed un nuovo regime probatorio, di difficile attuazione per chi è detenuto da trent’anni, alcune fumose, in violazione anche del principio di tipicità che deve connotare ogni norma) peggiorative (il tema del peggioramento, al netto dell’innalzamento dei limiti di pena per l’accesso alla condizionale, neppure viene considerato), maschera, in concreto, attraverso una mera facciata declamatoria ‘de iure’ del superamento della presunzione assoluta, il reale intento di determinare una serie di condizioni tali da rendere davvero difficoltosa quella riducibilità dell’ergastolo ostativo, facendo rientrare, de facto, dalla finestra ciò che apparentemente era stato espunto”, ossia il requisito della collaborazione. Il caso di Pezzino - Salvatore Pezzino è detenuto all’ergastolo ostativo in carcere dal 1982, quando aveva 22 anni. Venne condannato a 30 anni per un omicidio, organizzato con altri familiari dopo che avevano subito un attentato, commesso nel 1984 durante un permesso premio, e a 5 anni e 4 mesi per associazione mafiosa, reato del tutto espiato. Negli anni il Tribunale di sorveglianza de L’Aquila gli ha negato la liberazione condizionale perché non ha mai collaborato. Il ruolo della Corte Costituzionale - Lo scorso 8 novembre la Consulta ha rimesso la questione chiedendo alla Cassazione di valutare se le nuove norme, contenute nel dl rave varato a fine ottobre continuano a destare dubbi di costituzionalità. A febbraio, per la seconda volta in pochi mesi, la Corte costituzionale ha “salvato” il carcere ostativo, rinviando gli atti ai giudici, che avevano sollevato dubbi sulla costituzionalità delle norme che limitano l’accesso ai benefici penitenziari ai responsabili di gravi reati, non solo di mafia e terrorismo. La ragione è la nuova legge alla luce della quale i magistrati dovranno valutare se le loro riserve sulla normativa hanno ancora ragion d’essere o siano state superate dalla disciplina entrata in vigore a ottobre dello scorso anno. L’ergastolano ribelle che vuole fermare la legge sull’ostatività di Valentina Stella Il Dubbio, 8 marzo 2023 Oggi la prima sezione penale della Corte di Cassazione, riunita in Camera di Consiglio, dovrà pronunciarsi sul caso di Salvatore Pezzino, detenuto che, seppur ergastolano ostativo non collaborante, aveva chiesto l’accesso alla liberazione condizionale ben due anni fa. L’udienza del 25 gennaio era stata rimandata per una mancata notifica dell’avviso di udienza alla Procura generale. Come ormai noto, si tratta del caso arrivato alla Corte costituzionale che ha prima ritenuto l’ergastolo ostativo incompatibile con la Costituzione, poi ha dato al Parlamento (troppo) tempo per una nuova legge ed infine a novembre ha restituito gli atti alla Cassazione a cui ha chiesto di rivalutare la vicenda alla luce della nuova norma introdotta dal Governo Meloni all’interno del pacchetto del decreto anti-rave. Nella memoria presentata dal sostituto procuratore generale Giuseppe Riccardi e dall’Avvocato generale Pietro Gaeta si chiede ai giudici di rinviare tutto al Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila. Secondo la requisitoria depositata, dopo la riforma dell’ergastolo ostativo varata nel novembre scorso, sono state effettuate modifiche e rimosse le previsioni preclusive. La mancata collaborazione non costituisce più un fattore preclusivo alla liberazione condizionale, ove sussistano i requisiti della durata della pena espiata e del “sicuro ravvedimento”, che comporta anche “una attiva partecipazione al percorso rieducativo” e l’assenza “attuale” di “collegamenti” con i clan, e con il “contesto” nel quale il reato è stato commesso. Pertanto secondo la Procura “il Tribunale di Sorveglianza, in seguito al novum normativo, introdotto recependo le indicazioni della pronuncia “ad incostituzionalità differita” della Corte Costituzionale, ha l’obbligo di confrontarsi con la diversa regola di giudizio, che amplia la base cognitiva e valutativa per la concessione della liberazione condizionale, elidendo la preclusione assoluta della collaborazione mancata o impossibile: in tal senso, dovrà essere dunque valutato in concreto il percorso rieducativo del Pezzino, e l’assenza di collegamenti, attuali o potenziali, con la criminalità organizzata e con il contesto mafioso”. A chiedere il ritorno alla Consulta è invece la difesa di Pezzino - attualmente detenuto nel carcere sardo di Tempio Pausania -, rappresentata dall’avvocato Giovanna Araniti. Lo scoglio più grande per tutti quelli che vorranno accedere al beneficio è appunto l’allegazione di elementi atti ad escludere l’attualità dei collegamenti con la criminalità e il rischio di un loro futuro ripristino. Su questo Araniti nella sua memoria scrive: “Su questo concetto c’è stata un’evoluzione giurisprudenziale. Codesta Corte di Cassazione, sui permessi, in recenti pronunce ha chiarito anche il significato dell’onere di allegazione, che non può divenire probatio diabolica (per evitare un’interpretazione esasperata a danno del condannato, si segnala ex multis la sentenza del 14 luglio/ 10 settembre 2021, n. 33743)”. Tra l’altro, si sottolinea nella memoria, “è innegabile, poi, che non si sono tenute in debito conto le indicazioni della stessa Corte costituzionale sull’importanza e la centralità del principio di rieducazione ex art. 27 comma 3 Cost., che riguarda tutte le categorie di detenuti”. Per Araniti, “il punto centrale della nuova disciplina consiste nella circostanza che la stessa formalmente elimina quale requisito di ammissibilità la collaborazione con la giustizia, ma in concreto, crea un procedimento confuso e denso di requisiti aggiuntivi, di difficile assolvimento a carico del condannato detenuto da oltre trent’anni, con impossibilità de facto di un’effettiva revisione della pena ostativa”. Pertanto “si insiste affinché la Corte Ecc. ma, in via principale, reputi la rilevanza e non manifesta fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate anche in relazione alla nuova disciplina”. Le strade della Cassazione - Gli scenari possibili sono tre (i primi due quelli più probabili). Il primo: essendo oggi possibile anche per un ergastolano ostativo non collaborante aspirare alla liberazione condizionale, in quanto de iure non esiste più una preclusione assoluta a richiederla, i giudizi di Cassazione potrebbero rinviare gli atti al Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila, sostenendo che la norma ha superato i criteri di incostituzionalità, affinché sia esso ad applicarla al caso specifico. Il secondo: rinviare direttamente alla magistratura di sorveglianza perché determini se ci sono i presupposti per richiedere l’accesso al beneficio da parte di Pezzino. Il Tribunale a sua volta potrebbe nuovamente sollevare dubbio di legittimità costituzionale. Il terzo: gli ermellini potrebbero loro stessi rinviare alla Corte costituzionale. Pescara. Aveva chiesto una misura alternativa il detenuto malato psichiatrico morto suicida emmelle.it, 8 marzo 2023 È morto al carcere di San Donato dove era stato trasferito nel reparto psichiatrico. Aveva chiesto attraverso il suo legale di avere misure alternative alla detenzione in carcere, Luca Di Teodoro, il detenuto 45enne che si è tolto la vita nel carcere di San Donato a Pescara domenica sera. I suoi precedenti, la difficile convivenza con la famiglia e le frequenti liti con i genitori, ma soprattutto la patologia diagnosticata dai medici penitenziari, erano state al tempo stesso la sua seconda condanna. Per il giudice di sorveglianza aveva respinto l’istanza e l’organizzazione carceraria ne aveva deciso il trasferimento da Castrogno in un penitenziario, quello pescarese, che avrebbe dovuto essere più a misura del suo quadro clinico, disponendo di un reparto psichiatrico. Ma non ce l’ha fatta. Domenica sera si è impiccato alle sbarre della sua cella, senza che il personale della Polizia penitenziaria potesse fare qualcosa per salvarlo. Roma. Muore a 47 anni a Rebibbia: ha avuto un malore, ma il medico l’ha lasciata in isolamento di Andrea Ossino La Repubblica, 8 marzo 2023 La donna era in una cella da tre giorni. Solo un anno prima anche il suo compagno era morto nella stessa prigione. È morta in carcere, come era accaduto al suo ragazzo appena un anno fa. Una vita dentro e fuori le sbarre, quella della coppia, imbrigliati nella dipendenza della droga, con il fisico provato dagli effetti delle sostanze. Nessuna comunità, solo ordinanze di custodia cautelare. Lei, italiana di 47 anni, doveva firmare quotidianamente davanti alle forze dell’ordine. Non lo ha fatto e sabato è stata accompagnata nella sezione femminile del carcere di Rebibbia. E lì dopo tre giorni è morta, da sola, lontano dagli altri detenuti, in una cella di isolamento dove era stata accompagnata rispettando le norme per contenere il coronavirus. Il corpo della donna è stato trovato senza vita solo due giorni fa, da un’altra detenuta incaricata di portare le colazioni e la sua storia è venuta alla luce solo grazie alla presenza costante nei penitenziari della garante dei detenuti, Gabriella Stramaccioni. L’idea di chi indaga è che la quarantasettenne sia morta in seguito a un problema di salute. Del resto la notte prima, intorno alle 23,30, era stata visitata da un medico. Il dottore evidentemente non ha riscontrato nulla che potesse far pensare a un simile epilogo e non avrebbe chiesto di trasferire la donna in ospedale o quantomeno di farle trascorrere la notte in infermeria. Dinamiche sulle quali sarà necessario fare chiarezza con un’indagine, iniziando a capire le cause della morte: una risposta che potrà arrivare solo con l’autopsia. Livorno. Le Sughere e Gorgona, è emergenza carceri di Nicola Vanni livornotoday.it, 8 marzo 2023 La denuncia del garante dei detenuti, Marco Solimano, e della Camera penale di Livorno: “Strutture fatiscenti, sovraffollamento, ambienti insalubri. La situazione è disastrosa, le autorità competenti provvedano alla nomina di un direttore”. Una struttura fatiscente. Dove non si raggiungono neppure i parametri minimi per ritenere la vita carceraria “non disumana e degradante”, con ambienti insalubri e sovraffollati e mancanza di spazi per le attività rieducative. Dove i lavori di ristrutturazione alla caserma dormitorio del personale penitenziario sono fermi da due anni “senza sapere perché”, mentre quelli ai due padiglioni chiusi nel 2011 sono sì in fase di ultimazione, ma la riapertura degli edifici, in ampliamento e non in sostituzione dei vecchi, non farà altro che aggravare una situazione già disastrosa. Il tutto, ed è questa l’emergenza primaria alla quale dare una risposta immediata, in assenza ormai da un anno di un direttore di ruolo. Stiamo parlando del carcere Le Sughere di Livorno e da qui parte l’appello del garante dei detenuti, Marco Solimano, e della Camera penale di Livorno affinché si nomini subito un direttore per la casa circondariale di Livorno e Gorgona che vada a “colmare un vuoto istituzionale”. “Perché una figura dirigenziale pro tempore come quella della dottoressa Maria Grazia Giampiccolo - spiega la presidente della Camera penale, Autora Matteucci -, nonostante gli ammirevoli tentativi, non può sopperire a quei bisogni che unicamente idee e valori di progettualità a lungo termine possono riuscire a soddisfare in sinergia con le aree trattamentali. Il direttore di un istituto penitenziario è come il sindaco di una città: pensate a un comune senza un sindaco e capirete l’importanza di un direttore in un carcere”. “Le condizioni di invivibilità de Le Sughere - aggiunge la referente dei detenuti della Camera penale, Guia Tani - sono state riscontrate anche dalla Magistratura di sorveglianza di Livorno che ha accertato violazioni dei parametri stabiliti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. E nella nostra ultima visita, ad agosto scorso, abbiamo constatato l’assoluto degrado e la fatiscenza della struttura. Ad oggi, però, proprio per l’assenza di una figura dirigenziale è impossibile programma interventi urgenti per superare le già deprecabili condizioni ambientali in cui versa il penitenziario livornese”. “Molti degli ambienti di detenzione sono gravemente fatiscenti e insalubri - spiega il garante dei detenuti, Marco Solimano -, inadeguati a consentire la piena attuazione di quella finalità rieducativa della pena cui si ispira la nostra Costituzione. È così da molti anni ed è assurdo per una struttura tutto sommato nuova, costruita appena nel 1985. A tutto questo, si aggiunge anche la mancanza di una chiara visione dello scenario futuro quando saranno consegnati i cosiddetti nuovi padiglioni”. L’ipotesi più probabile è che i due padiglioni servano all’ampliamento dell’istituto che potrebbe quindi passare a ospitare da 280 a 6-700 detenuti. “Diventerebbe un carcere di primo livello - dice Solimano - e invece non ci sono i requisiti. Ma soprattutto non se ne conosce l’utilizzo di questi padiglioni: noi abbiamo già chiesto che i nuovi vadano a sostituire i vecchi e non ad ampliamento dell’istituto, ma anche per questo è necessario che si nomini quanto prima un direttore di ruolo, Purtroppo le carceri sono la cenerentola tra le priorità della politica, con investimenti inadeguati e sempre minori”. “E invece - conclude l’assessore al Sociale, Andrea Raspanti - il carcere è un presidio per la sicurezza della comunità. Una persona potrebbe anche pensare: ‘non mi interessano le condizioni dei detenuti, tanto se sono in galera vuol dire che qualcosa hanno fatto’. Ma non è così, si tratta di un servizio pubblico che deve funzionare, in primis per i detenuti e poi per la comunità. Oggi, e da sempre, siamo pertanto presenti per far sentire la vicinanza dell’amministrazione comunale che appoggia in pieno la richiesta del garante dei detenuti e della Camera penale”. Spoleto (Pg). Il carcere non accoglierà detenuti con problemi psichiatrici consiglio.regione.umbria.it, 8 marzo 2023 “Il carcere di Spoleto non accoglierà tutti i detenuti con problemi psichiatrici provenienti dal resto d’Italia. La struttura non riuscirebbe a lavorare al meglio avendo carenza di personale e di strumentazione necessaria a fronteggiare simili difficoltà”. È quanto dichiara il consigliere regionale della Lega Manuela Puletti, sottolineando che “lo definisce un mio emendamento, poi sottoscritto da tutti i consiglieri dell’Assemblea Legislativa, approvato questa mattina in Aula”. “L’emendamento - spiega Puletti - si è reso necessario in quanto trasformare l’articolazione di osservazione specialistica di Spoleto in articolazione permanente di degenza, come previsto dal documento originale, avrebbe arrecato danno alla funzionalità dell’istituto in questione e non sarebbe stato nemmeno di utilità al resto degli istituti umbri, in quanto sarebbe servito soltanto all’invio nella nostra regione di altri detenuti problematici della Toscana. L’istituto di Spoleto attualmente ospita detenuti 41 bis, alta e media sicurezza e inoltre è provvisto di un reparto di osservazione psichiatrica temporanea. In tale contesto la fruizione in sicurezza di spazi comuni come ad esempio l’area sanitaria, le aree per le attività scolastiche e sportive, le aree destinate ad attività lavorative è già fortemente compromessa e l’introduzione di un ulteriore circuito non solo andrebbe ulteriormente ad aggravare una situazione già pessima, ma non sarebbe in grado di garantire agli eventuali degenti la necessaria partecipazione alle attività trattamentali e terapeutiche”. “Ringrazio - prosegue Puletti - la Terza commissione regionale e il suo presidente, Eleonora Pace, per aver elaborato una proposta di risoluzione condivisa da tutte le componenti della commissione stessa, attraverso un lavoro di mediazione e, mai scontato, grazie anche ai colleghi consiglieri per aver recepito questa esigenza proveniente dai diretti interessati. Credo che oggi sia stato dato un grande esempio di come dovrebbe funzionare la politica, trovando soluzioni, ascoltando le reali esigenze di chi quotidianamente si dà anima e corpo per garantire ordine pubblico e sicurezza. Una menzione particolare va al Sappe, sindacato che in questa battaglia di buon senso ha dato un importante contributo. L’attenzione della Lega sul tema della sicurezza e delle carceri è sempre massima tanto che domani sarà in Umbria il sottosegretario Andrea Ostellari per visitare gli istituti penitenziari di Spoleto e Terni”. Viterbo. Tavolo di lavoro Asl-Garante per tutela salute dei detenuti quotidianosanita.it, 8 marzo 2023 Il tavolo, con cadenza mensile, ha l’obiettivo di migliorare il sistema di erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, a garanzia dei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali e in quelli locali. Prima nel Lazio la procedura per il rilascio della documentazione sanitaria. Tra i progetti la prevenzione del rischio suicidario. Venerdì scorso si è svolto un incontro del tavolo paritetico per la tutela della salute delle persone detenute, presieduto dalla direzione sanitaria della Asl di Viterbo e dalla direzione della Casa circondariale Mammagialla di Viterbo, e nel quale partecipano la Polizia penitenziaria e il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Lo ha reso noto ieri la Asl di Viterbo. Il tavolo, operativo con cadenza mensile, si pone l’obiettivo di migliorare il sistema di erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, in maniera efficace e appropriata, a garanzia dei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali e in quelli locali. In questi mesi, il lavoro del tavolo ha messo a punto diverse strategie utili al raggiungimento di obiettivi comuni. Cinque sono gli ambiti “che hanno visto già il raggiungimento di notevoli risultati”. Sul fronte dei percorsi di telemedicina “sono state rese più accessibili le cure specialistiche, il teleconsulto, la televisita e l’utilizzo del fascicolo sanitario elettronico”. Il coinvolgimento della Centrale operativa aziendale della Asl, inoltre, “ha rappresentato un momento di integrazione importante, principalmente per coordinare gli interventi sanitari da effettuare all’esterno del penitenziario”. Particolarmente innovativa, prima nel Lazio, è la procedura per il rilascio della documentazione sanitaria che semplifica l’iter di accesso da parte del detenuto. “Un ulteriore punto qualificante del lavoro svolto fino ad ora è la messa a regime nell’ambito penitenziario dei Progetti individuali di salute (Pris), grazie a un’equipe di valutazione multidimensionale integrata, (chiamata Equipe Pris), che consente la gestione del percorso di salute del detenuto, dall’ingresso in struttura, mettendo anche le basi per una continuità delle cure al termine del periodo di detenzione”. Infine, “a seguito dei lavori del tavolo, la Asl di Viterbo ha deliberato la revisione del Percorso diagnostico terapeutico assistenziale volto a rafforzare le attività di rilevazione e gestione del rischio autolesivo e delle condotte suicidarie che è diventato parte integrante del Piano locale di prevenzione. “Il contesto detentivo costituisce di per sé un fattore stressante e traumatico anche per i detenuti sani - commenta il direttore generale Antonella Proietti -. Lo è ancora di più in caso di patologie. Non dobbiamo dimenticare che i detenuti, ancorché vincolati a una sentenza che li ha privati della libertà personale, sono, nel preciso momento in cui entrano in contatto con il personale sanitario, dei malati con pari diritti e dignità di ogni cittadino”. “La salute costituisce un bene insopprimibile di ogni uomo - aggiunge il direttore della Casa circondariale di Viterbo Anna Maria Dello Preite -. Quando la sua tutela deve essere garantita all’interno di una struttura detentiva, il rischio di restrizioni è molto alto, dovendosi contemperare le esigenze di assistenza sanitaria con quelle di sicurezza. Da questo punto di vista i progetti portati avanti dal tavolo paritetico mirano essenzialmente a rimuovere ogni ostacolo all’affermazione dei principi costituzionali in materia di tutela della salute e di dignità umana”. “L’esperienza del tavolo paritetico di Viterbo - conclude Stefano Anastasia, garante dei detenuti della Regione Lazio - si sta mostrando molto proficua, perché consente di individuare efficacemente criticità e soluzioni condivise per la garanzia dei livelli essenziali di assistenza sanitaria alle persone detenute. Dalla diffusione di questa buona pratica credo che possano venire utili indicazioni anche per l’Osservatorio regionale sulla sanità penitenziaria che spero il nuovo assessore vorrà convocare al più presto”. Viterbo. Progetto per reinserire i detenuti attraverso la formazione professionale forme.online, 8 marzo 2023 Manpower, Fondazione Human Age Institute e Fondazione Severino firmano un protocollo: la prima persona assunta è un detenuto del carcere di Viterbo che oggi lavora nella ristorazione. Il reinserimento dei detenuti nella società passa attraverso un percorso di rieducazione in cui il lavoro ha un ruolo fondamentale. Secondo i dati del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, infatti, solo il 2% dei detenuti che hanno avuto la possibilità di un inserimento professionale torna a commettere un reato. Contro una media che sfiora invece il 70% per coloro che non l’hanno avuta. Per questo, Manpower, Fondazione Human Age Institute e Fondazione Severino Onlus hanno sottoscritto un protocollo di intesa per promuovere iniziative finalizzate a formare detenuti ed ex-detenuti e ad agevolarne l’inserimento nel mercato del lavoro. Cosa prevede l’accordo per i detenuti - L’accordo prevede che Manpower agevoli l’accesso al lavoro di persone detenute ed ex-detenute attraverso un’attività di supporto e selezione di lavoratori. Inoltre, Manpower si occupa della predisposizione e programmazione di corsi formativi, con l’obiettivo di fornire loro strumenti volti a un pieno reinserimento nella società. Fondazione Severino individua i soggetti ristretti che parteciperanno ai corsi e i candidati più adatti alle varie opportunità lavorative. Fornendo assistenza sulla normativa che regola i benefici fiscali e previdenziali per le imprese che danno lavoro a detenuti. A questa attività si affianca un’azione di sensibilizzazione e on-boarding da parte di Fondazione Human Age Institute indirizzata alle aziende che parteciperanno al progetto. In particolare, c’è la necessità di accompagnare l’inserimento delle persone individuate, facilitando il dialogo tra azienda e lavoratore. Attraverso questo monitoraggio, sarà possibile osservare gli impatti sociali che l’inclusione lavorativa porta con sé, valorizzando l’impegno sulla “S” degli obiettivi ESG perseguiti dalle aziende. Il protocollo è già attivo: nei giorni scorsi è stata inserita in un ristorante la prima risorsa, proveniente dal carcere di Viterbo, tramite contratto di somministrazione. Torino. Processo sul centro sociale Askatasuna, intercettati abusivamente i difensori di Mauro Ravarino Il Manifesto, 8 marzo 2023 La denuncia dei legali al processo: la procura ha lasciato trascrivere centinaia di colloqui con gli assistiti, quando la legge non lo consente. Decine e decine di colloqui fra gli avvocati difensori e i loro assistiti - scambi per lo più neutrali e tecnici - registrati e trascritti. Dovevano essere distrutti, invece, sono finiti nei cosiddetti brogliacci (le trascrizioni delle forze dell’ordine) dei fascicoli della procura di Torino per il maxi processo sul centro sociale Askatasuna. “Centinaia di telefonate” trascritte “pur essendo, in base alla normativa, vietato”. Lo hanno rivelato i legali degli imputati, comunicandolo al Tribunale del capoluogo piemontese. “Le intercettazioni vanno dal dicembre 2019 a meno di un anno dopo e - spiega l’avvocato Claudio Novaro, che difende 14 dei 28 imputati - sono a carico di una serie di soggetti di area di Askatasuna e No Tav. Qualche udienza fa avevo detto che c’erano intercettazioni trascritte tra difensori e assistiti, il pm aveva replicato che non era possibile. Ci siamo, allora, presi la briga di fare un conteggio, tra me e una mia assistita ci sono 69 intercettazioni. Volevamo che ciò fosse messo a verbale questa incongruità, anche per dare un’idea di come sono state fatte le indagini ovvero con metodi estremamente pervasivi. Il Tribunale ci ha detto di fare un elenco, cosa che faremo e consegneremo. Faremo, inoltre, un’istanza in procura perché vengano distrutte queste intercettazioni e, poi, una segnalazione al Consiglio dell’ordine perché è inammissibile che vengano registrate e trascritte le intercettazioni tra imputati e difensori”. Le conversazioni erano state intercettate durante le indagini preliminari e non figurano tra gli atti processuali, ma la loro presenza nel fascicolo della procura è dimostrata, appunto, dai brogliacci. Il processo contro i militanti di Askatasuna, storico centro sociale di Torino con sede in corso Regina Margherita, vede 28 imputati di cui 16 accusati di associazione a delinquere. Reato che le difese - ma anche molte realtà sociali e artisti che si sono stretti attorno al Csoa - contestano, perché eluderebbe il contesto sociale in cui sono maturate proteste e iniziative, in questi anni, a Torino come in Val di Susa. Molti dei 72 reati si sarebbero verificati, infatti, in Valle e solo una parte nella città della Mole, dove riguarderebbe più che altro lo Spazio Neruda, che ospita famiglie migranti. “Il reato associativo - commenta l’avvocato Novaro - non sta, in questo caso, né in cielo né in terra. Per confutarlo, avremo molti testi che ricostruiranno cosa sono davvero Askatasuna e il movimento No Tav. Oggi (ieri, ndr) abbiamo voluto far notare alcune gravi incongruità dell’indagine. Come quando misero le microspie per ascoltare Dana Lauriola e Nicoletta Dosio che andavano in treno a Bologna per un dibattito. Il quadro che emerge è allarmante dal punto di vista della tutela della privacy, le intercettazioni dovrebbero essere calibrate su esigenze particolari e con una durata limitata. Tutto ciò dà la misura di come abbiano lavorato gli inquirenti”. Verona. “Così diamo sostegno alle vittime di reato” di Marianna Peluso Corriere di Verona, 8 marzo 2023 Dopo un anno di attività, Rete Dafne Verona, che da marzo 2022 offre supporto, in forma riservata e gratuita, prima, durante e dopo il procedimento penale a tutte le vittime di reato che ne facciano richiesta, è in grado di offrire un primo importante spaccato delle persone accolte e dei servizi erogati (fino a dicembre 2022). Dall’apertura del servizio, si sono registrati 23 contatti, di cui 12 donne e 11 uomini, 20 italiani e 3 stranieri (provenienti da Romania, Francia e Albania). La fascia di età maggiormente colpita è quella degli over 60, con 9 vittime registrate. “Tutte le vittime di reato - ha spiegato Margherita Forestan, di Rete Dafne Verona - da noi possono trovare l’informazione sui diritti, ma soprattutto sostegno emotivo, un luogo dove esternare e trasformare in qualche modo un’esperienza negativa in qualcosa di rielaborato da poter raccontare. Va sottolineato che la Rete, oltre ad essere a Verona, è parte di Rete Dafne Italia, presente in molti territori e in grande espansione. Questo ci fa capire come determinati bisogni che stanno emergendo, riescono a trovare risposta grazie alle competenze che mettiamo a disposizione in modo gratuito”. I reati subiti nel 2022 che hanno indotto a contattare il servizio sono stati in sette casi contro il patrimonio (truffe e furti), in otto casi contro la persona (minacce, lesioni, violenza di genere) e in due casi contro la famiglia. “Da tempo ci occupiamo di percorsi di inclusione socio-lavorativa di persone detenute - ha evidenziato Marta Cenzi di Fondazione Cariverona, tra i sostenitori del progetto -. L’anno scorso ci siamo convinti a guardare anche alle vittime di reato, per dare loro un supporto concreto”. La rete, frutto di un protocollo d’intesa tra undici enti pubblici e privati del territorio, opera negli spazi della circoscrizione 1 del centro storico, messi a disposizione dal Comune di Verona (per prendere appuntamento, chiamare i numeri 045.8078950 oppure 375.7456000). Il servizio di accoglienza della Rete Dafne si concretizza con uno o due colloqui con la vittima di reato, dai quali emergono i bisogni della persona. Successivamente viene attivata la presa in carico della vittima alla quale vengono offerti colloqui di sostegno psicologico (psicologi/psicoterapeuti), di informazione sui diritti, civile e penale (avvocati) e di mediazione penale/familiare (mediatori). Parma. Contro gli stereotipi sui detenuti: una tesi dal carcere da 110 e lode di Laura Lipari parmateneo.it, 8 marzo 2023 Questa, per Maurizio Angelo Moscato, è la seconda laurea a pieni voti studiata e scritta all’interno della sua cella nella Casa di Reclusione di Parma. Un elaborato che dà voce a chi vive la realtà del penitenziario. L’importanza della cultura, della rieducazione e soprattutto dell’informazione, sono questi gli argomenti trattati dal gelese Maurizio Angelo Moscato, attualmente detenuto nel carcere di Parma, durante l’esposizione della sua tesi di laurea magistrale in Giornalismo e Cultura editoriale dell’Università di Parma. La dedizione e l’impegno con cui di volta in volta ha preparato gli esami sono sempre stati premiati con il massimo dei voti e lo stesso è avvenuto durante la proclamazione per aver terminato il percorso di studi. Ad accompagnarlo per l’intero cammino accademico sono state le tutor, le Dottoresse Clizia Cantarelli e Annalisa Margarita, e la Relatrice, la professoressa Vincenza Pellegrino. Insieme a Moscato hanno formato un team tanto solido da riuscire a portare all’esterno un racconto di lotta contro ogni tipo di stigma che quotidianamente investe la persona dietro le sbarre. Dottore bis - Per Moscato si tratta della seconda laurea; la prima, in Lettere, era stata conseguita a gennaio del 2017, davanti ai docenti dell’Università Tor Vergata di Roma e ai suoi congiunti. Un ulteriore traguardo è stato festeggiato lo scorso giovedì 15 dicembre. Moscato ha esposto il suo elaborato, “Lo stigma sul carcere e i detenuti: gli stereotipi, i pregiudizi e la disinformazione”, di fronte alla commissione parmigiana, presieduta dal professor Marco Deriu, e ai parenti. Durante l’intero discorso, Moscato, che affronta la realtà detentiva da 34 anni, ha insistito con l’argomento riguardante la disinformazione da parte dei media che influenzano l’opinione pubblica,da cui spesso derivano i pregiudizi nei confronti dei ristretti che, come sostiene il gelese, vivono in un “luogo non luogo”. Il doppio processo a cui sono sottoposti scaturisce, non di rado, una sentenza eseguita nella piazza virtuale offerta dal web. In questo modo, comodamente da casa, le persone possono giudicare la colpevolezza e dall’”imperfetto conosciuto” diventa il “perfetto sconosciuto” stigmatizzandolo sul momento senza conoscere in alcun modo quelli che sono i dettagli della vicenda: come si evolverà il suo cammino detentivo, se la rieducazione gli donerà una possibilità di riscattarsi e gli offrirà nuove competenze. Ci sono, infatti, anche aspetti che spesso non sono considerati importanti da chi sta oltre le mura. Per esempio i traguardi raggiunti dai detenuti grazie all’aiuto della cultura. “Lo studio universitario è da considerare come un’esperienza utile per affrontare una lunga e infinita pena detentiva”, ha affermato Moscato. Lui per primo, consapevole delle difficoltà che uno studente detenuto deve affrontare quando decide di intraprendere un percorso universitario, si è messo nuovamente alla prova dedicando gran parte delle sue giornate allo studio. Riprendere in mano i libri non ha significato soltanto poter dare un senso alle sue giornate, che altrimenti sarebbero sempre uguali a se stesse, ma anche e soprattutto poter raccontare uno stato di semi abbandono da parte delle istituzioni per chi, come lui, dimostra una considerevole trasformazione interiore. “Mi sono impegnato, ho fatto sacrifici ulteriori, ho rinunciato a tante ore d’aria (passeggio, sport), attività che per un detenuto sono fondamentali. È stata un’altra esperienza che mi ha arricchito di altro sapere”, ha scritto tra le pagine della tesi. Dalle accuse di mafia al riscatto morale - Il suo passato legato a Cosa Nostra, secondo alcuni collaboranti che lo accusano, è solo un ricordo lontano, uno sbaglio commesso da ragazzo che Moscato ha cercato e cerca tutt’ora di riscattare attraverso il potere della cultura, dell’informazione e dell’istruzione, gli unici mezzi in grado di restituirgli una libertà ormai persa da anni. Come lui anche altri ristretti hanno deciso di dare una svolta alla propria vita prendendo o riprendendo in mano un libro scolastico. I dati del Ministero della Giustizia rilevati nel 2021, però, scoraggiano. Parlano infatti di 4.493 persone con una licenzia media superiore e solo 598 con una laurea. Prendendo in considerazione la Casa di Reclusione di Parma si contano al suo interno appena 36 studenti detenuti. Un numero ancora molto basso se si tiene conto che la popolazione carceraria italiana totale è di 54.841 persone. A tal proposito Moscato ci racconta anche la piaga del sovraffollamento mostrando come in alcuni istituti sia stata “raggiunta o superata la soglia del 200%, numeri non molto diversi da quelli che si registravano ai tempi della condanna della Cedu”. Morire di carcere - I capitoli dell’elaborato, intrisi di aspetti quotidiani, mostrano dunque la parte più oscura del carcere spesso dimenticata dalla società. Tra gli argomenti che colpiscono di più c’è anche quello che tratta la triste realtà dei suicidi dentro le celle. Secondo il Dossier “Morire in carcere” a cura del Centro Studi di Ristretti Orizzonti, infatti, la situazione diventa di anno in anno sempre più allarmante. Solo quest’anno il numero di persone che si sono tolte la vita all’interno di un istituto di pena sono 74, un numero che mai si era registrato in precedenza,su un totale di mille morti in 20 anni. Tragedie che spesso passano in sordina. A tal proposito, durante l’esposizione della tesi, Moscato ha voluto ricordare, in un momento particolarmente toccante, la lettera del Giudice di sorveglianza di Donatella. Il caso della ragazza, che si è tolta la vita nei mesi scorsi nel carcere di Verona, è diventato presto mediatico dopo che il Magistrato, durante il funerale, ha voluto manifestare il suo cordoglio e il suo pentimento sostenendo di aver fallito come figura rappresentativa dell’intero sistema. Un ulteriore tema che si lega con l’argomento appena affrontato, e che tra le altre cose potrebbe ridurre il numero di suicidi, riguarda la mancanza di personale nella sfera educativa. La Casa di Reclusione di Parma conta appena 4 educatori su 10 previsti su circa 687 persone detenute. “Negli istituti visitati - dagli operatori dell’Associazione Antigone - c’è in media un educatore ogni 80 detenuti ed un agente di polizia penitenziaria ogni 1,8 detenuti”. Sono numeri impressionanti che evidenziano la moltitudine di lacune ancora da colmare per far sì che la pena venga umanizzata. Come sostiene lo stesso Moscato: “Va rinforzato il sistema delle relazioni affettive, vanno aumentate le telefonate, va evitato l’isolamento forzato dal mondo”. La sua tesi di laurea fa emergere proprio l’importanza di investire tempo e denaro sulla rieducazione del detenuto, solo in questo modo il reinserimento nella società potrà restituire alla comunità uomini nuovi e migliori. Quello che si chiede Moscato, però, è il quesito che resta in bilico tra le labbra dei più: ad oggi, tenendo conto della situazione in cui gran parte delle carceri italiane si trovano, si può parlare davvero di reinserimento? Roma. Viaggio nel carcere di Regina Coeli, storie di detenuti che cercano la propria strada nell’arte di Alessia Rabbai fanpage.it, 8 marzo 2023 Alcuni detenuti hanno realizzato dei murales in ricordo dei loro Paesi d’origine. Raccontano la loro storia e di come l’Arte li abbia salvati. C’è un detto popolare che dice che chi non sale il gradino del carcere di Regina Coeli non può considerarsi romano e neanche di Trastevere. Fanpage.it ha varcato il grande portone al civico 29 di via della Lungara, per incontrare e intervistare alcuni detenuti, che ci hanno raccontato la loro storia. Quella di Manuel e Pedro che arrivano da lontano, che parte dall’America Latina e si incrocia dentro le mura dell’ex convento dedicato a Maria nel titolo di ‘Regina del Cielo’ e riconvertito all’uso attuale nel 1881, dove devono scontare una condanna per furto. Ci raccontano come l’Arte li ha salvati, facendo ritrovare loro la creatività e sentire meglio. Uno degli aspetti più importanti degli istituti penitenziari durante la reclusione riguarda la riabilitazione, per agevolare il reinserimento in società: corsi di lingua italiana, studio e altre attività. Spesso ciò non succede, eppure ci sono esempi virtuosi, come al Regina Coeli, attualmente gestito dalla direttrice Claudia Clementi. Detenuti e studenti dello IED Roma hanno realizzato insieme all’artista e docente Laura Federici alcuni murales. Lavori che ricordano le città d’origine, rappresentate attraverso il ricordo di chi è lontano e non può vederle. In Italia ci sono 189 istituti penitenziari i quali secondo i dati del Ministero della Giustizia aggiornati a gennaio 2023 ospitano 56127 detenuti. Quattordici sono nel Lazio, con 5.971 persone recluse tra uomini e donne. L’Argentina vista con gli occhi di Manuel bambino - All’ingresso dell’area dedicata ai detenuti c’è la prima corte, con otto sezioni e tre piani. Al centro troneggia una statua della Madonna. Proseguendo tra corridoi, scale e porte che si aprono e si chiudono alle nostre spalle, si arriva alla seconda corte, dove i detenuti hanno realizzato tre murales. Tra vociare e carrelli dei pasti, sirene e celle che sbattono, i detenuti ci mostrano i disegni che hanno fatto, la nostalgia negli occhi e il pensiero rivolto verso casa, alle loro famiglie. Nel murales di Manuel, trentanove anni con la passione per l’Arte e la cucina, c’è l’Argentina, strade, palazzi, tradizioni, un Paese visto dalla prospettiva di un bambino. “Rappresenta la mia vita, un luogo bellissimo, dove ho trascorso la mia infanzia prima di andare via, dove c’è la mia famiglia” racconta. Il Peru colorato di Pedro - Pedro, trentacinque anni, nato e vissuto in un quartiere povero di periferia, ha interrotto gli studi per andare a lavorare molto presto e portare i soldi a casa. Ci mostra il suo Perù, tanti colori accesi, che mettono allegria e fanno venire in mente i balli latini. In Italia dopo varie tappe in giro per il mondo, dall’Argentina ad Amsterdam, la sua speranza come quella di tanti nella sua situazione, una volta fuori è di ricominciare: “Voglio riabbracciare la mia famiglia e trovare un lavoro”. Beato il Paese che non ha bisogno di guerriere di Concita De Gregorio La Stampa, 8 marzo 2023 L’8 marzo non è per niente una festa, ricorda vittime di tragedie del passato e glorifica le eroine. Arriverà mai il momento in cui la gentilezza e la cura daranno un posto, sicuro, nel mondo? Elogio della gentilezza controvento, controtempo. “Si batte”, “combatte”, “gareggia”. Le dodici donne dell’anno secondo la rivista Time sono guerriere. Ce n’è persino una che fa a pugni per mestiere, pugile professionista: Ramla Ali, 33, che in biografia di ragioni per picchiare ne ha parecchie e di benemerenze pure. Originaria della Somalia, sostenitrice dei rifugiati, per sua storia personale ha scelto di offrire lezioni gratuite a donne di minoranze etniche e religiose, alle sopravvissute ad abusi domestici. Sopravvissute, c’è proprio scritto. Sopravvivere è un titolo di merito: hai vinto, se non ti hanno ammazzata. In aggiunta, è la prima somala a competere alle Olimpiadi e stupenda ambasciatrice di due marchi globali di moda con sede a Parigi. Che fenomeno, effettivamente. Però anche che segno triste del tempo, un po’, che per essere modelli di donna si debba essere in lotta. Supersoniche, capaci di tutto e tutto insieme, il ring e il tacco dodici, bioniche. Che riferimento irraggiungibile e chissà se davvero ispirazionale e non mortificante, per una sedicenne in qualunque cameretta si trovi nel globo, portare ad esempio un’attivista iraniana protetta dall’omicidio annunciato in un rifugio segreto dell’Fbi (Masih Alinejad), la sorella di un’attivista uccisa (Anielle Franco). Combattono, si battono, eroine. Se avessi sedici anni oggi, se fossi una ragazza fra quei cinquantamila adolescenti autoreclusi in camera - rapporto Cnr Pisa di questa settimana - che non escono più dalla loro stanza perché nel mondo fuori sentono di non poter essere niente. Nel mondo virtuale, lì sì, nel gioco, con un avatar, possono essere eroi di una battaglia in cuffia. Se alla mia età dovessi togliere due anni, perché questo bisogna fare: scontare due anni a chi ne ha venti, diciotto, sedici. Quei due anni di pandemia non li hanno vissuti. Non sono sicurissima, ecco, che vorrei sentirmi dire forza, dai, esci e combatti. Mettiti a repentaglio, vai a fare a pugni nel mondo. Non sono certa, soprattutto, che questo magnifico esempio portato da un mondo adulto e a me ostile saprebbe convincermi a lasciare il rifugio dove mi sembra di poter cambiare le sorti di qualcosa, pazienza se è un gioco, per andare in un altro dove se non ho il fisico, se non ho la tempra allora sarò una fallita: una che non eccelle nel merito, che non supera con agilità gli esami, che non sa manipolare i potenti per trarne vantaggio, essere fedele scudiera, traccheggiare nello stage alle offerte di favori in cambio di carriera. Forse resterei in stanza. Certo, le ragazze iraniane rischiano la vita per la libertà, la perdono uccise dai tiranni. Lo vedrei anche io: le donne afghane si mettono in mare coi figli neonati, rischiano la morte e muoiono. Ma è davvero questa la via che vogliamo indicare a chi si affaccia alla vita persino qui, nell’Occidente opulento ed evoluto: in paesi dove per buona sorte e per sacrificio di chi ci ha precedute se anche non fondi una Onlus e non sfili intanto in passerella puoi vivere lo stesso e avere diritti, libertà, possibilità? Non siamo tutti obbligati a essere eroi, le donne in specie: perché dovremmo esistere solo se più forti, più agguerrite, capaci di sconfiggere il vicino? Quando arriverà il momento in cui anche la gentilezza, la cura delle piccole cose, la possibilità di essere quello che siamo chiunque noi siamo ci dia un posto, sicuro, nel mondo? È di nuovo l’8 marzo. Non è per niente una festa. È una ricorrenza che ricorda donne vittime di tragedie del passato e glorifica, nel presente, donne guerriere. Le cose vanno un po’ meglio, si sente dire in giro, anche da noi. Qualcosa è cambiato persino nella retrograda maschilista Italietta del “chi ti porta”, “di chi sei figlia, moglie, sorella”. Abbiamo per la prima volta nella storia una capa del governo donna, una capa dell’opposizione donna, una presidente della Cassazione persino. Accipicchia. Eppure no, non è cambiato molto. Speriamo, scommettiamo sul futuro. Ma le donne guadagnano meno, sono denigrate di più, messe alla prova il triplo e facci vedere chi sei, forza, combatti. Se guardiamo alle nostre figlie, e guardiamole per favore, dovremmo essere capaci di dir loro non importa, se sei una che vince. Non è una gara la vita. Non devi prevalere, sterminare l’avversario. Devi esistere e pretendere rispetto. Ma l’educazione al rispetto non riguarda le donne: riguarda la società intera, la quale è tuttora governata da un modello maschile di forza, di prevaricazione, di potere. Bello, sarebbe un 8 marzo in cui non ci fosse bisogno di dire alle ragazzine: armati ed esci a picchiare, a rischiare la vita. Se non vogliono rischiarla hanno anche ragione. Vivi la tua vita come vuoi viverla, questo dovremmo prima o dopo riuscire a dir loro. Non da martire, non da pugile, non da Antigone destinata alla morte. Resta pure ai margini, costeggia i bordi se questo ti fa sentire libera. Se non vuoi giocare a questo gioco non giocarlo. C’è posto per tutte, anche per te. Vieni fuori, nessuno ti farà del male. Il Pd e la gerarchia dei nuovi diritti di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 8 marzo 2023 L’arrivo di Elly Schlein alla testa del Partito democratico - da fuori e senza l’appoggio della maggioranza degli iscritti - per il suo profilo politico e per l’immagine che la caratterizza, dà occasione e anzi obbliga a riprendere un tema antico, come quello dei diritti civili e dei diritti sociali: del loro rapporto, delle priorità, della compatibilità. Da tempo la questione dei diritti non compare come tratto politico identitario nella azione del Pd. Non bastano infatti sporadici episodi parlamentari nel campo dei diritti civili, mentre per i diritti sociali (lavoro, sanità, scuola, fisco, povertà) non vi è stata significativa caratterizzazione del partito, programmaticamente e ad ogni costo governativo. Quanto ai diritti civili, il Pd, frutto della confluenza di culture e progetti politici di cattolici e di ex-comunisti, non si è sciolto dai tratti culturali illiberali comuni alle due storie; lo spazio lasciato al tema dei diritti individuali, specialmente a quelli che ora si chiamano “i nuovi diritti”, è rimasto limitato. Essi richiedono l’abbandono di ogni velleità di imporre, foss’anche da parte di una maggioranza, scelte restrittive statali su ciò che appartiene all’autonomia delle persone. Diritti sociali e diritti civili pongono alle autorità pubbliche obblighi diversi: i primi hanno bisogno di interventi positivi, mentre i secondi, essenzialmente e prima di tutto, pretendono l’astensione dello Stato da interferenze nella libertà delle persone e garanzie di possibile, concreta realizzazione. L’interesse del nuovo corso del partito risiede anche nella domanda se la nuova Segretaria potrà riorientare il partito, superando senza fratture la perdurante influenza dell’origine storica e le scelte contingenti di acquiescenza e rassegnazione. Il carattere del nuovo vertice del Pd sembra rispondere ad una simile esigenza. Ma in ordine ai diritti occorre finalmente chiarire che gli uni non escludono gli altri ed anzi vanno insieme. Quando i diritti umani sono emersi, divenendo oggetto di conflitto politico, si sono espressi in Occidente in dichiarazioni e atti costituzionali, con l’attenzione puntata sui diritti individuali, civili e politici. Tale essenzialmente è l’elenco dei diritti della francese Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino e del Bill of Rights americano. Ma subito sul terreno politico si è reclamato invece il riconoscimento dei diritti sociali. E i due corpi di diritti, invece di unirsi sono entrati in competizione, indicati i primi come quelli dei borghesi e i secondi quelli della classe operaia. Nel secondo Dopoguerra, quando la comunità internazionale ha voluto assumere la responsabilità della protezione dei diritti fondamentali, la contrapposizione ha fatto capo da un lato agli Stati occidentali e dall’altro all’Urss e agli Stati satelliti. Così la Dichiarazione universale dei diritti umani approvata dall’Assemblea dell’Onu nel 1948, pur pretendendo, fin dal titolo, di avere universale valenza, non ha ottenuto il voto unanime della Assemblea. Infatti, i Paesi del blocco sovietico (oltre che, per motivi diversi, l’Arabia Saudita e il Sudafrica) si astennero. Essa contiene un lungo elenco di diritti di entrambe le categorie. Per assicurare a quei diritti un valore giuridico vincolante per gli Stati, che andasse oltre la semplice dichiarazione politica, nel 1966, con due Patti internazionali (quello dei diritti civili e politici e quello dei diritti economici, sociali e culturali) vennero approvati due separati elenchi di diritti. La separazione venne adottata per permettere agli Stati di ratificare l’uno e non l’altro, ma così fu certificata l’autonomia e persino l’incompatibilità degli uni rispetto agli altri. E sembrò facile etichettare i primi come propri della destra politica e i secondi come della sinistra. Infondata semplificazione, poiché esiste una destra sociale e non vi è ragione perché a sinistra non si apprezzino le libertà individuali. Tanto più che per molti diritti e molte libertà è difficile dire se siano classificabili nell’una o nell’altra categoria. In ogni caso la Costituzione ed anche la Carta dei diritti umani della Unione europea menzionano e assicurano gli uni e gli altri, che necessariamente convivono. I condizionamenti reciproci sono strettissimi. I diritti sociali come quelli al lavoro, all’istruzione, alla salute devono essere assicurati perché sia possibile il concreto esercizio dei diritti di libertà. Infatti a chi ha fame, è malato o ignorante non serve la libertà di stampa o quella di circolazione. Le due categorie hanno in comune la derivazione dal diritto al rispetto della dignità di tutte le persone, che è alla base di tutte le carte dei diritti e della nostra Costituzione. Sul riconoscimento della dignità di tutti e ciascuno, richiamando la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, il Conseil constitutionnel francese ha fondato il diritto costituzionale (sociale) alla abitazione. Dal divieto di trattamenti inumani o degradanti, la Corte europea dei diritti umani ha derivato l’obbligo (sociale) degli Stati di fornire alloggio ai migranti richiedenti asilo, costretti a vivere per strada. La ragione della valorizzazione di diritti sociali minimi, pur sulla base di una Convenzione europea che nel 1950 si è voluto limitare ai soli diritti civili, consiste proprio nel fatto che vi sono condizioni sociali in assenza delle quali i diritti e le libertà civili individuali non sono possibili. È poi chiaro il legame tra diritti civili e diritti sociali nella recente esperienza della pandemia, che, in considerazione del diritto sociale e collettivo alla salute, ha imposto limitazioni ad alcuni diritti individuali. Artificiale è dunque la separazione dei diritti civili individuali dai diritti sociali. Se qualche differenza esiste sul piano delle garanzie che riguardano i vari diritti (per esempio, quanto alle modalità del ricorso ad un giudice), sul piano politico non ha senso limitare l’impegno agli uni e non agli altri e cercare in questo modo l’identità di un partito. Come accade in parte per il richiamo ai doveri piuttosto che ai diritti, che sono strettamente legati, l’effetto può essere quello dell’abbandono degli uni o degli altri. Magari dietro lo schermo delle priorità. Tenere insieme, agire nelle istituzioni e della società coerentemente e visibilmente per una politica dei diritti, questo è tema che risponde ad una richiesta che non riguarda certo soltanto il Partito democratico. Esso però ora è urgentemente interpellato, perché è in cerca di identità. Il bivio di Meloni sull’immigrazione: seguire il trucismo o rottamarlo? di Claudio Cerasa Il Foglio, 8 marzo 2023 La mediocre informativa del ministro Piantedosi ha riproposto uno dei temi più complicati da maneggiare per la cultura sovranista: la gestione dei flussi migratori. Ci sono solo due alternative per la premier. La mediocre informativa consegnata ieri alle Camere dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi - che in un lungo e appassionato intervento a difesa dell’operato del governo non è riuscito a offrire una risposta chiara all’unica domanda cruciale sulla tragedia di Cutro, ovverosia per quale ragione in quella notte maledetta si è scelto di considerare l’arrivo di un’imbarcazione carica di migranti in un mare prossimo alla tempesta come un evento da trattare con la logica della protezione dei confini e non con la logica della protezione delle vite umane - conferma che di fronte al presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, c’è un bivio importante sul tema della gestione di una parola complicata da maneggiare per la cultura sovranista: l’immigrazione. Di fronte a questo bivio, ci sono due strade. La prima è quella che ha scelto di seguire negli ultimi giorni la Lega, e di riflesso anche il ministro dell’Interno, ed è quella di rivendicare una linea di condotta che ha una sua coerenza: non arretrare sulla difesa della linea dura, non smettere di demonizzare le ong, non arretrare sulla scelta di ricercare sull’immigrazione risposte più nazionali che europee e non avere problemi a considerare ogni imbarcazione che si avvicina all’Italia come una potenziale fonte di pericolo. La seconda strada è quella che in questi giorni ha cercato timidamente di mettere in campo la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ed è una strada che mostra una consapevolezza nuova da parte del capo del governo: non insistere con la politica del blocco navale, non avere paura a maneggiare la parola solidarietà, non demonizzare i migranti che arrivano in Italia e comprendere a poco a poco che l’unica possibilità concreta che ha l’Italia di gestire l’immigrazione ha a che fare più con le politiche europee che con quelle nazionali. Non è un caso che proprio in questi giorni, nei giorni in cui il partito che più di tutti protegge Piantendosi non abbia trovato una sola occasione per chiedere scusa per le parole pronunciate dal ministro all’indomani del naufragio dei migranti al largo di Crotone, che il ministro più importante di Fratelli d’Italia, Francesco Lollobrigida, cognato della premier, abbia a sorpresa introdotto nel dibattito pubblico un tema importante, come quello dell’aumento delle quote di ingresso dei migranti, “almeno 500 mila”, attraverso una revisione al rialzo del decreto flussi. Può sembrare un dettaglio, ma nell’affermazione di Lollobrigida vi è un salto logico cruciale, di chi finalmente comprende che l’immigrazione più che essere bloccata deve essere governata. Scegliere con coerenza questa strada, per il presidente del Consiglio, che meritoriamente ha deciso di svolgere il prossimo Consiglio dei ministri a Cutro, significa però avere anche consapevolezza di quali dovrebbero essere i prossimi passi in avanti per declinare con intelligenza la politica degli ingressi legali e dei rimpatri immediati. E significa capire che oltre il decreto flussi, importantissimo, occorre concentrarsi a livello europeo anche su altri temi cruciali. Per esempio, il rafforzamento degli accordi finanziari con i paesi da cui ha origine l’immigrazione. Per esempio, il rafforzamento delle politiche europee per i rimpatri dei migranti economici. Per esempio, la semplificazione delle procedure che esistono per l’accoglienza di chi ha diritto di asilo. Per esempio, la costruzione di alleanze in Europa - non dunque con gli ex paesi di Visegrád - utili a rafforzare l’unica politica che aiuterebbe l’Italia a essere meno isolata nelle politiche di accoglienza dei migranti: riforma del trattato di Dublino e accordi pragmatici per la redistribuzione. Continuare a seguire l’agenda del trucismo, un’agenda disumana e inefficace, o scrivere una nuova pagina, sull’immigrazione, provando a dettare l’agenda in Europa. Cutro o non Cutro, il futuro del governo Meloni passa anche da qui: tornare al trucismo o superarlo? Cercansi risposti meno mediocri di quelle offerte ieri da Piantedosi, grazie. Migranti. Il governo si assolve: “Colpa degli scafisti”. Sintonia Meloni-Ue di Andrea Colombo Il Manifesto, 8 marzo 2023 Von der Leyen sposa la linea di palazzo Chigi sullo stop alle partenze. Salvini vede la premier e insiste sul rilancio dei suoi dl. È sera quando palazzo Chigi emette la sua sentenza sulla tragedia di Cutro confermando la piena assoluzione per tutti: “Al momento della segnalazione di Frontex l’imbarcazione non presentava problemi di navigazione. Il naufragio non può quindi essere responsabilità della Guardia Costiera né della Guardia di Finanza, che hanno operato con correttezza. Non ci sono state carenze nelle operazioni di soccorso. La tragedia è stata causata dal comportamento criminale degli scafisti”. Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato e non se ne parli più. Il tentativo sbrigativo e goffo di chiudere l’incidente arriva alla fine di una giornata campale. Annunciato, atteso, rinviato l’incontro con Salvini si è svolto ieri sera. I comunicati ufficiali e le fonti ufficiose parlano di incontro cordiale, di piena sintonia. Nel merito però l’esito resta in sospeso: Salvini non ha rinunciato alla sua stretta sugli arrivi, insiste per il recupero dei suoi decreti sicurezza. La premier vuole invece concentrare le energie sulla guerra senza quartiere contro i trafficanti e su una strategia opposta a quella del leghista: quella che mira a fermare le partenze più che a respingere gli arrivi. Quali misure verranno partorite dal cdm convocato per domani pomeriggio a Cutro ancora non è stato deciso: di certo c’è solo l’irrigidimento drastico delle pene per trafficanti e scafisti. La scelta è stata rinviata a oggi, nella riunione del preconsiglio dei ministri che scriverà la sceneggiatura per la rappresentazione teatrale di Cutro. La premier ha però a disposizione una carta decisiva: l’intesa perfetta con Bruxelles. Ieri è arrivata la risposta di Ursula von der Leyen alla missiva inviata da Meloni: nella sostanza la presidente della commissione sposa l’impostazione di palazzo Chigi, nella forma sovrabbonda in complimenti e riconoscimenti. La frase chiave, quella che la premier potrà sventolare rivendicando il merito di aver spinto la Ue su una strada nuova, sembra ma non è di circostanza, anche se di concreto per ora non implica nulla: “La migrazione è una sfida europea che richiede una soluzione europea”. Dal punto di vista della strategia e degli obiettivi, la visione di una presidente della commissione sempre più spostata a destra combacia con quella di palazzo Chigi. Per i profughi vanno creati corridoi umanitari e la Ue promette di investire “almeno mezzo miliardo di euro entro il 2025”. Per chi rischia solo di morire di fame la musica cambia: bisogna “prevenire le partenze irregolari” e il molto spazio dedicato alla cooperazione con i Paesi del Nord Africa, in particolare Tunisia ed Egitto, suona sinistro tenendo conto di cosa quella cooperazione ha voluto dire in Libia. Evidentemente quei lager non turbano più che tanto la presidente. Promette nuovi mezzi alla gloriosa guardia costiera libica, esalta anzi “la nostra azione congiunta che ha sviluppato capacità di protezione internazionale e gestione della migrazione in Nord Africa”. Sembra ironia macabra. Sui salvataggi in mare, von der Leyen punta sul rilancio del gruppo di contatto europeo e glissa sulla richiesta italiana di un codice per le Ong. Non ci sarà, troppe sono le voci contrarie. Ma quella per Meloni è quasi storia di ieri, quando anche lei metteva al primo posto gli arrivi e non le partenze. La “profonda soddisfazione” che palazzo Chigi esprime commentando la risposta europea è sincera, anche se il percorso è appena iniziato. Il Consiglio europeo del 23 marzo non deciderà niente ma discuterà di immigrazione, sulla base di un report presentato da von der Leyen, che appare oggi più che mai vicina alla premier italiana. Del resto l’abbandono della linea Salvini, odiata a Bruxelles, serviva proprio a permettere un passo ulteriore nel riavvicinamento tra l’ex sovranista e i suoi nemici del passato. La lunga giornata si era aperta con le due informative di Piantedosi, identiche sin nelle pause, alla Camera e al Senato. Il ministro dell’Interno si è trincerato dietro una piatta e burocratica elencazione dei fatti. Non ha chiarito nulla ed è stato ben attento a non addentrarsi neppure con la punta del piede nelle acque infide della politica. I colpevoli sono solo i trafficanti e contro di loro bisogna combattere una guerra totale. Sarebbe anche una guerra giusta se non fosse adoperata come alibi per negare ogni responsabilità politica e materiale per l’eccidio, se non servisse ad assolvere se stesso e tutto l’apparato dello Stato. Con l’esplicito “plauso” della presidente del consiglio. Migranti. Chi sono i veri trafficanti di esseri umani di Iuri Maria Prado Il Riformista, 8 marzo 2023 Era chiaro che con quest’ultima strage, che drammaticamente non sarà l’ultima, si sarebbe riaffermato con tanta più forza l’assunto balordo, politicamente indecoroso e intellettualmente vigliacco, secondo cui “la colpa è degli scafisti”. E la notizia dell’arresto, l’altro giorno, del diciassettenne pakistano che avrebbe coordinato “gli spostamenti dei migranti in territorio turco fino all’imbarco”, e poi avrebbe collaborato a gestirli “a bordo dell’imbarcazione su direttiva degli scafisti”, arriva a guarnizione perfetta e provvidenziale di quel racconto osceno: la storia dell’Italia ministeriale, materna, bianca e cristiana perfettamente adempiente ai propri doveri e inflessibile nell’intendimento di spezzare le reni allo spregiudicato adolescente che specula sulla tratta dei poveracci. Ed era non solo prevedibile, ma certissimo, che avrebbero adoperato le parole del Papa per certificare la legittimità, e a questo punto anche la santità, dei programmi di respingimento e delle politiche che individuano nei cosiddetti scafisti i responsabili esclusivi delle stragi di migranti. Che poi il Papa si riferisse ai “trafficanti di esseri umani”, e cioè a una realtà ben più vasta e organizzata rispetto agli armatori delle tinozze su cui è caricata questa gente, è ovviamente un dettaglio che sfugge alla demagogia che usurpa l’Angelus per spiegare che i naufragi si evitano affondando i barconi. Per non dire del fatto che a far traffico di esseri umani sono anche gli Stati - e l’Italia è uno di questi Stati - che se li rimpallano e li smistano al nobilissimo fine di non averli tra i piedi: e pace se finiscono nei lager, che è il nostro modo di aiutarli a casa loro. Ma se c’è una volta che va bene parlare di “capro espiatorio”, è questa volta. La linea governativa, ma sostanzialmente condivisa anche presso quel progressismo che reclama “rigore” per non lasciare alle destre il monopolio dell’allarmismo sicuritario, vuole che il problema capitale - e il nemico numero uno - sia lo scafista, che è un ottimo espediente per non discutere delle evidentissime responsabilità del bell’ordinamento che ha fatto venticinquemila morti in un decennio scarso, non casualmente sottoposto alle cure di governi di ogni colore. E non che siano da lasciar liberi e da mandare assolti quelli che partecipano alla tratta di esseri umani, ma far credere che il problema sia quello è come dire che il responsabile del sistema schiavista è il liberto che inquadra i suoi simili mentre l’acquirente li passa in rassegna, o che la morte dei deportati durante il viaggio verso la piantagione schiavista è colpa dell’ultimo disgraziato che per paura, per fame o perché vi è costretto dalla minaccia, collabora con il negriero per raccoglierli su una riva africana. Non c’è bisogno di nessun atteggiamento assolutorio per dire che il guardiano a cavallo, col fucile sotto braccio e il virginia in bocca a sorvegliare il lavoro dei neri incurvi sul cotone era il meno responsabile di altri nella società che considerava ammissibile la riduzione a stato bestiale degli esseri umani. E non bisogna essere capziosi, ma solo appena onesti, per sapere che la degradazione di un mondo che facciamo finta di non conoscere - ma è proprio quello da cui provano a scappare questi disgraziati - coinvolge necessariamente anche chi, magari ragazzino, si fa manovalanza dell’ignominia. Non senza ripetere, infine, che sulla caccia allo scafista bisognerebbe avere il coraggio di dire in che modo abbiamo troppo spesso ritenuto di attuarla, e cioè allungandogli del denaro per fare un lavoro anche più schifoso ma per noi molto utile: la riconversione aziendale da trasportatore di carne umana a magazziniere, così i migranti anziché venire da noi tornavano ad essere affidati agli aguzzini dei campi di concentramento. E poi - e questo lo hanno fatto con pari sfrontatezza e con analoga rivendicazione sia a destra, sia a sinistra - il bel vanto del calo degli sbarchi in faccia all’elettorato. Per il lavoro sporco andavano bene, gli scafisti. Per quello che ci sporca le spiagge, no. La Tunisia inquieta l’Italia. Autoritarismo, crisi, xenofobia: il mix che apre un nuovo fronte a sud di Giulia Belardelli huffingtonpost.it, 8 marzo 2023 È una guerra tra poveri quella che nelle ultime settimane sta facendo precipitare la Tunisia in una spirale di paura e violenza, con potenziali conseguenze esplosive per il paese nordafricano geograficamente più vicino all’Italia. La promessa democratica nata con la rivoluzione dei Gelsomini è stata ormai definitivamente calpestata dalla svolta autoritaria del presidente Kais Saied, che si ritrova sempre più in difficoltà nell’affrontare una crisi economico-finanziaria devastante. Da qui bisogna partire per comprendere la caccia ai migranti subsahariani che si è aggravata nel paese dopo l’invettiva del presidente contro le “orde di irregolari”, accusati di minacciare la “composizione demografica della Tunisia” e commettere “violenze, crimini e pratiche inaccettabili”. Le parole di Saied hanno aperto un vaso di Pandora che si è materializzato in un aumento delle aggressioni di matrice razzista ai danni di migranti subsahariani. A seguito dei commenti xenofobi fatti da Saied, la Banca mondiale ha deciso di sospendere i colloqui sul suo futuro impegno con la Tunisia. Un impegno di cui però il governo tunisino ha disperatamente bisogno, dato il tracollo economico alle porte. Il presidente uscente della Banca mondiale, David Malpass, ha affermato che la tirata di Saied ha contribuito a incoraggiare “molestie di matrice razzista e persino violenze” e che l’istituzione ha rinviato un incontro programmato con la Tunisia a data da destinarsi. “Data la situazione, la direzione ha deciso di sospendere il Country Partnership Framework e di ritirarlo dalla revisione del consiglio di amministrazione”, si legge nella lettera allo staff firmata da Malpass. I fenomeni di razzismo nei confronti dei migranti in Tunisia non sono nuovissimi, ma di sicuro sono peggiorati negli ultimi mesi, soprattutto dopo le dichiarazioni del presidente il 21 febbraio. Quelle parole hanno creato un clima di paura all’interno delle comunità africane del paese. Un video ampiamente condiviso online mostra persone cacciate dalle loro case, i loro averi gettati per strada. Una madre guineana con tre figli ha raccontato di essere stata presa a sassate mentre andava a procurarsi del cibo per la sua famiglia. Anche i tunisini dalla pelle scura sono stati presi di mira, ha detto l’attivista Saadia Mosbah, che presiede l’associazione antirazzista M’nemti. I governi africani hanno risposto evacuando dalla Tunisia centinaia di loro cittadini negli ultimi giorni. Sabato due aerei hanno trasportato circa 300 persone dalla Tunisia ai loro paesi d’origine (Mali e Costa d’Avorio), e circa 50 guineani sono stati evacuati all’inizio della settimana su aerei noleggiati dai loro governi, secondo i media tunisini. Altre centinaia di persone si sono riversate nelle loro ambasciate per chiedere di lasciare la Tunisia. “La notizia della sospensione dei negoziati con la Banca mondiale è la certificazione della deriva autoritaria della Tunisia, che sta avendo anche delle ripercussioni economiche complicate”, commenta per HuffPost Luca Barana, ricercatore IAI esperto in flussi migratori. “Questo cambia il ruolo di Tunisi a livello internazionale, dopo che per molti anni - a fronte del conflitto in Libia, della guerra in Siria, della regressione in Egitto - la Tunisia era considerata l’unica speranza democratica rimasta dopo le rivoluzioni del 2011. Oltre a questo, ci sono gli effetti della crisi economica e dell’inflazione. Probabilmente questa svolta razzista del presidente Saied è anche una mossa politica per recuperare consenso presso la popolazione interna, a fronte di difficoltà politiche ed economiche sempre più gravi: una sorta di riproposizione della guerra tra poveri che vediamo da anni anche in Europa nella retorica di molte forze politiche”. Il governo tunisino sta cercando di dissipare le crescenti preoccupazioni internazionali per l’ondata di discriminazioni nei confronti degli africani subsahariani, dopo che lunedì anche l’UE ha messo in guardia contro l’incitamento all’odio nei confronti di persone in fuga da conflitti e povertà. Tunisi ha annunciato una serie di nuove, seppur limitate, misure per gli africani subsahariani che vivono nel paese. Queste includono una hotline per i migranti per segnalare eventuali violazioni dei loro diritti, assistenza medica e psicologica per tutti i migranti e nuovi permessi di soggiorno per studenti provenienti da altri paesi africani “per facilitare la loro permanenza sul suolo tunisino”. Un’altra misura elimina le multe per gli africani subsahariani i cui permessi di soggiorno sono scaduti, se accettano un programma di rimpatrio volontario. Nonostante le nuove misure del governo, le forze dell’ordine continuano a radunare persone prive di documenti di soggiorno. Il portavoce della Guardia nazionale, Houssemeddine Jbabli, ha dichiarato che 58 persone di nazionalità subsahariana sono state arrestate venerdì durante le operazioni di controllo dei documenti d’identità in diverse regioni. Sono stati accusati di essere entrati illegalmente in Tunisia dall’Algeria. Secondo il Forum tunisino per i diritti economici e sociali, si stima che circa 21.000 immigrati subsahariani vivano in Tunisia, molti senza permesso di soggiorno, e molti si pensa che alla fine si dirigeranno verso l’Europa. “I flussi della Tunisia dal mese di novembre sono un po’ cambiati, nel senso che c’è stato un ribaltamento dei profili”, spiega ad HuffPost Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) per il Mediterraneo. “Prima, ad arrivare in Italia erano soprattutto i tunisini, tra l’altro di profili diversi rispetto agli anni passati: più nuclei familiari e un ceto medio-alto (professori universitari, commercianti e così via, un chiaro sintomo della crisi economica che già da tempo ha colpito il paese, soprattutto dopo il Covid). Da novembre in poi, la maggior parte degli arrivi ha riguardato invece i migranti subsahariani, soprattutto da Costa d’Avorio e Guinea, ma anche Mali: nazionalità che prima vedevano la Tunisia come paese di destinazione e non di transito. Negli ultimi mesi abbiamo visto un aumento di queste partenze verso l’Italia e l’Europa, sia per effetto della crisi economica (che sicuramente ha colpito in primis le parti più vulnerabili della società, quindi anche i migranti) sia per effetto di questa ondata di xenofobia e violenza contro i subsahariani e più in generale i neri”. La svolta autoritaria e razzista della Tunisia è un elemento che l’Italia e l’Europa, probabilmente, preferirebbero non guardare, ma che rischia di diventare sempre più macroscopico. Per ora l’Italia continua a garantire il suo sostegno al governo tunisino sia nelle parole sia nei fatti. Il ministro degli Interni Matteo Piantedosi e il titolare della Farnesina Antonio Tajani sono stati a Tunisi il 18 gennaio scorso promettendo al governo tunisino più sostegni all’economia, in cambio di un maggiore impegno nel fermare le partenze verso l’Italia. Secondo il progetto The Big Wall di Action Aid, dal 2011 a oggi l’Italia ha speso 47 milioni di euro, 15 solo negli ultimi due anni, nel tentativo di rafforzare la guardia costiera tunisina. Solo poche settimane fa il governo italiano ha approvato una nuova fornitura, aggiudicata da Nissan Italia, al ministero degli Esteri di Tunisi per il contrasto all’immigrazione irregolare: si tratta di cento pick-up per un valore di oltre 3,6 milioni di euro. Come emerso dalla Relazione annuale 2022 dell’intelligence, l’Italia guarda con crescente preoccupazione gli arrivi dalla Tunisia, “una realtà che ha mille problemi e che non riesce più a contenere le partenze”. In realtà, come spiega Di Giacomo (OIM), l’anno scorso dalla Tunisia sono arrivate solo 35mila persone, un numero assolutamente gestibile. “È vero che c’è stato un aumento degli arrivi in Italia via mare, ma stiamo sempre parlando di numeri gestibili. Non c’è un’emergenza numerica, mentre c’è senza dubbio un’emergenza umanitaria, perché abbiamo già 284 morti nel Mediterraneo centrale quest’anno rispetto ai 130 dell’anno scorso”. Quello che si apre è un ulteriore problema nella politica di esternalizzazione dei confini messa in atto dall’Italia e dall’UE. “Negli ultimi anni ci si è un po’ cullati nell’illusione che la Tunisia potesse essere un partner a cui esternalizzare sempre di più il controllo delle frontiere, perché un partner affidabile, tendenzialmente democratico, stabile e così via”, commenta Barana. “La collaborazione della Tunisia sui temi migratori era quasi data per scontata. In realtà abbiamo visto che non è così, anzi: avere un partner stabile non è garanzia che sia più accondiscendente nei confronti dei nostri interessi, quando si parla di riduzione dei flussi e aumento dei rimpatri. Ci sono stati svariati tentativi di portare la Tunisia a un tavolo sui rimpatri, soprattutto da parte italiana, non sempre con successo. In realtà la Tunisia già prima di queste vicende non rientrava nella definizione di porto sicuro, non avendo una legislazione in materia d’asilo. Ora, con questa svolta razzista delle istituzioni, ci rientra ancor meno di prima, anche nella sostanza”. Se la Libia continua a essere un buco nero dei diritti umani, la Tunisia - soprattutto per i migranti subsahariani - rischia di trasformarsi a sua volta in un inferno. “Chiunque arrivi dalla Libia, anche se spinto da ragioni economiche, ha profili di vulnerabilità a causa della totale assenza di uno stato di diritto riguardo alla protezione dei migranti che vivono nel paese”, ricorda Di Giacomo. “Quella dalla Tunisia, invece, è sempre stata una migrazione di tipo economico: le persone, soprattutto tunisini, scappavano non perché vittime di violenza, ma per la situazione economica. In questo momento, le persone che arrivano dalla Tunisia cominciano ad avere un profilo paragonabile a quello della Libia, anche se le violenze lì sono sempre moltiplicate rispetto a quelle che al momento ci sono in Tunisia. È evidente che le persone che fuggono da questo clima di violenza non possono più essere considerate migranti economici. La questione, in verità, inizia a essere sfumata anche per gli stessi cittadini tunisini, vista la svolta autoritaria del governo e la repressione del dissenso. È un paese che va tenuto sotto stretta osservazione”. Israele. Riforma della giustizia: è rivolta contro Netanyahu di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 8 marzo 2023 Scioperi, cortei e scontri di piazza per di fendere la Corte suprema. L’ultimo spiacevole intoppo è anche una piccola umiliazione per Benjamin Netanyahu: fino a ieri non si trovavano infatti piloti disponibili per trasportarlo a Roma dove è atteso dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni per un incontro bilaterale. I vertici della compagnia El Al giurano che dietro il disguido non c’è niente di politico, niente di personale, è solo un problema organizzativo, una temporanea carenza di personale per i Boeing 777, il modello solitamente utilizzato dal premier israeliano per i viaggi all’estero. Nel futuro si doterà di una specie di Air force one, il velivolo si chiamerà “Ala di Sion” ed è già al centro delle polemiche per gli altissimi costi per i contribuenti (possiede sofisticati sistemi antimissile a raggi infrarossi e costa la bellezza di 260 milioni di dollari). In ogni caso la “diserzione” dei piloti ha mandato su tutte le furie la ministra dei Trasporti Miri Regev, già nota alle cronache per le sue esternazioni ben poco diplomatiche come l’aver definito “terroristi, anarchici e privilegiati” gli israeliani che in queste settimane stanno contestando duramente il premier per la controversa riforma della giustizia del suo governo ultranazionalista. In particolare si era riferita a un gruppo che aveva urlato slogan violenti verso la first lady Sara Netanyahu, “sorpresa” mentre era dal parrucchiere, chiedendone persino “l’arresto immediato”. Alla fine il premier dello Stato ebraico è volato a Roma cambiando semplicemente aereo, anche se il quotidiano Times of Israel sostiene che quello della El Al è stato un vero e proprio atto di disobbedienza politica, uno smacco simbolico per un leader che sta tentando di attuare una riforma che cambierebbe le stesse fondamenta istituzionali di Israele. L’obiettivo della risicatissima maggioranza parlamentare che sostiene l’esecutivo, è infatti la limitazione dei poteri della Corte suprema che nell’ordinamento attuale dispone del diritto di veto su alcune leggi promosse dal governo. Diverse volte nel corso degli anni gli alti giudici hanno respinto misure e provvedimenti reputati contraddittori con le Leggi fondamentali (Israele non ha una vera e propria Costituzione). In un sistema politico così pluralista e frammentato le indicazioni negative della Corte possono senz’altro rallentare i processi decisionali e l’approvazione delle leggi, ma si tratta della natura stessa della democrazia israeliana che con la riforma Netanyahu verrebbe snaturata, indebolendo il principio di separazione dei poteri. Inoltre la coalizione intende modificare i criteri di nomina della Corte che verrebbe selezionata dall’esecutivo, facendone poco più che una propaggine del potere politico. Dal canto suo la Corte ha già risposto, dichiarando Netanyahu in palese conflitto di interessi, visto i procedimenti giudiziari a suo carico “Sono una banda di vecchi sinistrorsi radical chic”, aveva tuonato il premier prima di lanciare l’offensiva contro i giudici. Ma la società israeliana ha reagito e il progetto di riforma è riuscito nel mezzo miracolo di unire le opposizioni solitamente litigiose e divise su quasi tutto. Scioperi, cortei e anche momenti di altissima tensione con le forze dell’ordine che hanno impiegato gas lacrimogeni, cannoni d’acqua e granate assordanti per disperdere i dimostranti, hanno segnato il rovente clima politico delle ultime settimane in Israele. Oltre ai simpatizzanti di sinistra e ai ceti medi delle città, anche i militari hanno raggiunto la protesta che mai come oggi è trainata dal basso con tutti i partiti che le vanno a rimorchio. Stati Uniti. Fino a 99 anni di carcere per chi pratica un aborto di Marina Catucci Il Manifesto, 8 marzo 2023 A 8 mesi dalla sentenza della Corte suprema che abolisce il diritto federale all’Ivg. Nonostante le donne negli ultimi anni siano state un elemento cruciale nella vita politica Usa - pensiamo alla Womens’ March che ha guidato tutto il movimento contro Trump, solo per fare un esempio - la condizione femminile resta un problema americano. Una delle questioni ancora irrisolte è la disparità salariale: nonostante la legge sull’uguaglianza salariale del 1963, che proibisce la discriminazione basata sul genere, le donne negli Usa guadagnano in media il 18% in meno rispetto agli uomini, e le donne di colore e quelle disabili affrontano disparità ancora maggiori. Un altro problema è la rappresentanza nelle posizioni di potere. Anche se la vicepresidenza è ora occupata da una donna, e negli ultimi anni il numero di donne al Congresso è aumentato, a Capitol Hill si è arrivati solo al 24% di seggi occupati da donne, che continuano ad essere sottorappresentate in posizioni di leadership a tutti i livelli: per esempio sono solo il 27% degli amministratori delegati delle grandi aziende Usa. La violenza contro le donne è una piaga anche in Usa. Secondo i dati del Fbi nel 2021 sono stati segnalati oltre 700.000 casi di violenza domestica e, sempre stando a quanto riportato dai federali, ogni anno vengono rapite o uccise circa 1.500 donne. Altra pagina nera è l’accesso alle cure sanitarie, ed anche in questo caso le donne di colore hanno maggiori difficoltà. Da quando la Corte Suprema ha rovesciato la sentenza del 1973 Roe v. Wade cancellando il diritto federale all’aborto, i limiti all’accesso alle interruzioni di gravidanza negli stati conservatori si sono moltiplicati. L’accesso all’aborto ora varia notevolmente a seconda dello stato in cui si vive: se quelli democratici proteggono, anche tramite le costituzioni locali, il diritto a interrompere una gravidanza, quelli a guida repubblicana vanno nella direzione opposta. In Texas, Georgia e Ohio non si può abortire dopo la sesta settimana, l’Alabama vieta gli aborti in quasi tutte le circostanze, compresi i casi di incesto e stupro, e prevede fino a 99 anni di carcere per i medici che effettuano la procedura. Arkansas, Iowa, Louisiana, Mississippi, Dakota del Nord, e Oklahoma permettono l’aborto solo se la vita della madre è in pericolo. Alabama, Florida, Idaho, Indiana, Kansas, Kentucky, Michigan, Mississippi, Missouri, Nebraska, North Dakota, Oklahoma, South Carolina, South Dakota e Tennessee consentono l’aborto solo nei primi 2 mesi di gravidanza. Per aiutare le donne, a gennaio la Food and Drugs Administration aveva dato alle farmacie la possibilità di vendere le pillole abortive direttamente alle pazienti con prescrizioni, almeno negli stati in cui l’aborto è legale. Le due maggiori catene di farmacie, Walgreens e Cvs, si erano dette d’accordo, ma Walgreens ha cambiato rotta dopo che una cordata di procuratori generali repubblicani ha minacciato un’azione legale contro le farmacie che vendono la pillola. In risposta il governatore dem della California Gavin Newsom ha ordinato al dipartimento della Salute e dei servizi umani di rivedere i legami tra lo stato e la compagnia, facendo perdere a Walgreens quasi 14 milioni di clienti. Nessuno protegge, invece, i diritti delle donne del Texas dove il governatore di ultra destra Greg Abbott ha guidato la crociata contro l’aborto, e dove si attende a breve la sentenza che potrebbe mettere in pericolo l’accesso al mifepristone, un farmaco abortivo. Cinque donne texane a cui è stato negato l’aborto nonostante fossero in pericolo di vita hanno fatto causa allo stato: è la prima volta che delle donne intraprendono un’azione legale contro i divieti che hanno bloccato l’accesso all’aborto. Per le donne che si trovano negli Stati del sud, dove c’è la più alta concentrazione di governatori Gop, spesso l’unica soluzione per interrompere una gravidanza e spostarsi, e raggiungere il North Carolina, dove la procedura rimane legale fino a 20 settimane: negli 8 mesi trascorsi dalla sentenza della Corte suprema questo stato è diventato la meta principale per le donne che vivono dove questo diritto è negato, e ha registrato infatti un aumento del 37% degli aborti.