Alfredo Cospito, peggiorano i valori del sangue: trasferito d’urgenza all’ospedale di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 7 marzo 2023 L’anarchico che era detenuto a Opera è stato di nuovo ricoverato. Verranno monitorati eventuali nuovi innalzamenti dei valori ematici. Stavolta a preoccupare non sono i valori in discesa, ma quelli in risalita. Un aumento anomalo di elettroliti e minerali presenti nel sangue che ha fatto temere ai medici del carcere di Opera un principio di acidosi. È per questo che nel pomeriggio di lunedì è scattato d’urgenza (e in tutta segretezza) il nuovo trasferimento di Alfredo Cospito all’ospedale San Paolo. Un ritorno nel reparto penitenziario dell’ospedale dopo che il 27 febbraio, sette giorni prima, l’anarchico 55enne era stato invece riportato nel carcere di Opera, sempre su parere dei medici. In quell’occasione l’aumento di oltre un chilo di peso e il progressivo miglioramento dei valori del sangue era legato alla parziale interruzione dello sciopero della fame (aveva mangiato alcuni yogurt) e agli integratori che Cospito aveva deciso di assumere nell’attesa del giudizio della Cassazione sul carcere duro. Sentenza che era arrivata il 24 febbraio con il rigetto del ricorso presentato dai legali del fondatore della Federazione anarchica informale e la conferma del 41bis. Il 55enne aveva subito annunciato di aver di nuovo interrotto l’assunzione degli integratori e lo stop a qualsiasi forma, anche liquida, di cibo limitandosi ad acqua, sale e zucchero. Ora dopo una settimana il quadro clinico è tornato ad aggravarsi, secondo gli stessi medici di Opera e Cospito è stato trasferito in via cautelativa in ospedale. Secondo alcune fonti mediche, nuovi esami eseguiti nella serata al San Paolo avrebbero un po’ ridimensionato il quadro clinico con un rientro dei valori sanguigni a livelli bassi ma accettabili. Ma tali da escludere ipotesi più serie e scompensi organici. Tuttavia Cospito resterà al San Paolo anche nelle prossime ore per monitorare eventuali nuovi innalzamenti dei valori. Inoltre il San Paolo garantisce, pur nell’ambito della detenzione in regime di 41 bis, la presenza di una terapia sub-intensiva. Di fatto riducendo così di almeno venti minuti i tempi di un intervento d’urgenza necessari per il trasferimento dal carcere di Opera all’ospedale San Paolo. Da un lato c’è l’esigenza di garantire le migliori cure al detenuto, ma dall’altro cresce (e di molto) la preoccupazione di chi nelle istituzioni ha la responsabilità della sua salute. Sabato il suo medico personale, Marco Crosignani aveva visitato il 55enne nel Sai, il centro clinico del carcere, e lo aveva trovato “molto affaticato” segnalando ai legali un repentino deperimento fisico. Del resto Cospito prosegue con lo sciopero della fame dal 20 ottobre, oltre quattro mesi. Tanto che Crosignani aveva chiesto di effettuare non più una sola visita a settimana ma due, e la prossima era prevista per mercoledì. Lunedì mattina l’avvocato Flavio Rossi Albertini ha visitato il 55enne in carcere e il trasferimento in ospedale gli è stato comunicato a cose fatte. “Non posso sapere se dopo sia successo qualcosa ma credo che lo spostamento sia dovuto a un abbassamento dei valori del potassio” fa sapere il legale. Tra due settimane, sabato 18, è prevista a Milano una grande manifestazione nazionale per il ventennale dell’uccisione di Davide “Dax” Cesare, militante dei centri sociali. Il timore è che la vicenda Cospito faccia da collante per la partecipazione di diversi gruppi anarchici, anche dall’estero. Il rischio è di avere un nuovo corteo come quello di sabato a Torino con vetrine, auto sfasciate e disordini con la polizia: la Digos ha denunciato in totale 52 anarchici, molti incastrati dai filmati delle telecamere. Caso Cospito, per il Comitato nazionale di bioetica c’è il diritto a rifiutare i trattamenti Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2023 Lo sciopero della fame è espressione di autodeterminazione della persona. Il Comitato nazionale di Bioetica (Cnb), interpellato il 6 febbraio scorso dal ministero della Giustizia, ha espresso all’unanimità un parere in dieci punti sui quattro quesiti formulati dal dicastero attorno al rifiuto e alla rinuncia di trattamenti sanitari da parte di una persona detenuta, alla legge n. 219/2017 (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”) e alla sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale su fine vita e suicidio assistito. Quesiti formulati in merito al “caso Cospito”, relativo alla scelta del detenuto di proseguire con lo sciopero della fame e di rifiutare eventuali trattamenti di mantenimento in vita. Il Cnb sottolinea di non poter di solito esprimersi su singoli casi ma che il regolamento prevede che ciò possa avvenire “in ipotesi eccezionali in cui ricorrano motivi di interesse generale e comunque nel rispetto della funzione giurisdizionale spettante alla Magistratura”. Tra le “risposte” dei saggi del Cnb, “spicca la condivisione del rifiuto di adottare misure coercitive contro la volontà attuale della persona”. E tutti inoltre “ritengono che non vi siano motivi giuridicamente e bioeticamente fondati che consentano la non applicazione della legge 219/2017 nei confronti della persona detenuta, che, in via generale, può rifiutare i trattamenti sanitari anche mediante le Disposizioni anticipate di trattamento (Dat)”. La maggioranza dei componenti del Cnb (19 membri), “ha ritenuto che, nel caso di imminente pericolo di vita, quando non si è in grado di accertare la volontà attuale del detenuto, il medico non è esonerato dal porre in essere tutti quegli interventi atti a salvargli la vita. La stessa Corte Europea dei Diritti Umani - rilevano dal Comitato - ha sostenuto di recente che ‘né le autorità penitenziarie, né i medici potranno limitarsi a contemplare passivamente la morte del detenuto che digiuna’“. “Occorre innanzitutto ribadire - prosegue il Cnb nei suoi 10 punti, ricordando quanto chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 26 del 1999 - alcuni punti fermi sulla capacità giuridica generale della persona in stato di detenzione per quanto concerne il compimento degli atti di stretta rilevanza personale. I detenuti sono ovviamente persone capaci di intendere e di volere e possono, quindi, autodeterminarsi in tale sfera”. Di conseguenza, “qualsiasi detenuto può non solo esprimere assenso o dissenso ai trattamenti diagnostici o sanitari che lo riguardano, ma può anche, in previsione di una futura eventuale incapacità di autodeterminarsi, efficacemente redigere le Dat, ai sensi dell’art. 4 della legge 219/2017. Sotto questo profilo può affermarsi, in via generale - precisano gli esperti - che in regime di detenzione carceraria non vi siano limiti e peculiarità, dal punto di vista etico, nell’applicazione della Legge 219/2017”. Quanto al significato dello sciopero della fame e nel contesto del diritto della persona a manifestare liberamente il proprio pensiero (art. 21 della Costituzione), questo è “espressione di autodeterminazione della persona: forma di testimonianza e protesta non violenta a difesa di ideali, diritti, valori e libertà”, precisano i saggi. Per cui “rappresenta dunque un modo, sia pure estremo, di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su situazioni ritenute ingiuste o su diritti che si desidera rivendicare. Un tale comportamento esprime quindi una libertà morale del soggetto”, che “va sempre pienamente rispettata, in particolare quando provenga da un soggetto che, fortemente limitato dal regime di detenzione cui è sottoposto, individui nello sciopero della fame, in mancanza di altri mezzi, una forma estrema di comunicazione, mettendo anche a rischio la propria vita”. Sulle cure forzate per Cospito il Comitato di bioetica si spacca di Valentina Stella Il Dubbio, 7 marzo 2023 La maggioranza dei componenti dà via libera a interventi contrari alla volontà del detenuto, riportato oggi in ospedale. D’Avack: “Scelta scaricata su di noi”. Dopo tre riunioni il Comitato nazionale di Bioetica non è riuscito a convergere in un unico parere sul caso di Alfredo Cospito, l’anarchico che dallo scorso 20 ottobre porta avanti uno sciopero della fame per protestare contro il 41 bis. Come già anticipato dal Dubbio, il Comitato si è spaccato sostanzialmente in due, tra pro-life e pro-choice. In un comunicato diramato ieri sera si legge: “La maggioranza dei componenti del Cnb (19) ha ritenuto che, nel caso di imminente pericolo di vita, quando non si è in grado di accertare la volontà attuale del detenuto, il medico non è esonerato dal porre in essere tutti quegli interventi atti a salvargli la vita. La stessa Corte europea dei Diritti umani (Cedu) ha sostenuto di recente che “né le autorità penitenziarie, né i medici potranno limitarsi a contemplare passivamente la morte del detenuto che digiuna”. Le Dat sono incongrue, e dunque inapplicabili, ove siano subordinate all’ottenimento di beni o alla realizzazione di comportamenti altrui, in quanto utilizzate al di fuori della ratio della legge 219/2017”. In pratica siccome Cospito sta facendo lo sciopero della fame per ottenere la revoca del 41 bis non può veder rispettare le proprie Dichiarazioni anticipate di trattamento. “Altri componenti del Cnb (9) ritengono”, prosegue il comunicato, “che non vi siano motivi giuridicamente e bioeticamente fondati che consentano la non applicazione della legge 219/2017 nei confronti della persona detenuta in sciopero della fame, anche in pericolo di vita. Anche in questo caso la nutrizione e l’idratazione artificiali possono essere rifiutate, anche mediante le Dat e la pianificazione condivisa delle cure. Il diritto inviolabile di vivere tutte le fasi della propria esistenza senza subire trattamenti sanitari contro la propria volontà - derivazione logica del diritto alla intangibilità della sfera corporea di ogni essere umano - costituisce un principio costituzionale fondamentale del nostro ordinamento”. In sostanza, secondo il punto di vista alternativo emerso nel Cnb, la legge 219/2017 sulle dichiarazioni anticipate di trattamento non prevede che il rifiuto dei trattamenti sanitari sia subordinato alle ragioni per cui la persona sta male. Quindi qualsiasi sia il percorso che ha portato Cospito alla condizione attuale, la sua richiesta di rifiutare l’alimentazione artificiale deve essere rispettata perché la sua volontà è stata espressa da soggetto capace di intendere e volere. La nota del Comitato quindi precisa: “Altri ancora (2), pur privilegiando questa seconda posizione per quanto riguarda l’interpretazione dell’ordinamento vigente e l’applicabilità delle Dat, ritengono che un diverso bilanciamento dei principi in gioco non sia da escludere, anche guardando all’esperienza di altri Paesi. Considerano tuttavia che un intervento del legislatore sia la via obbligata, comunque stretta per vincoli e giurisprudenza costituzionali. Sottolineano inoltre la necessità di offrire un esplicito e chiaro riferimento normativo a chi si troverà a prendere queste decisioni, a partire dai medici”. L’unanimità è stata raggiunta solo sul fatto che lo sciopero della fame è una forma di opposizione legittima, non aggressiva nei confronti di terzo. Questo aspetto contrasta con la narrazione fatta dal governo per cui si tratterebbe un gesto di ricatto, “il corpo come arma” disse Nordio. Ovviamente quanto espresso dal Cnb non è assolutamente vincolante per il ministero ma è una arma in più che ha il governo per non trasformare Cospito in un martire. Come ha spiegato al Dubbio l’ex presidente del Cnb e attuale membro del Comitato, il professor Lorenzo D’Avack, “ho espresso la mia piena contrarietà al fatto che ci siamo dovuti esprimere su un singolo caso, prassi che il Cnb non segue mai”. In realtà il nome Cospito nella richiesta arrivata dal ministero della Giustizia non appare mai, appunto per questo motivo: il tema generico è quello in merito alle problematiche connesse all’autodeterminazione nel ricevere o meno i trattamenti sanitari da parte di persone private della libertà personale. Ma è chiaro che via Arenula ha interpellato il Cnb su Cospito. Su questo conclude D’Avack: “Il ministro Nordio ha scaricato su di noi la responsabilità di quello che andrebbe fatto con Alfredo Cospito, quando in realtà è un problema esclusivamente politico”. Proprio mentre era riunito il Cnb, è giunta la notizia dell’ennesimo ricovero per l’anarchico: su indicazioni dei medici del centro clinico del carcere di Opera, Cospito è ritornato nel reparto di medicina penitenziaria dell’ospedale San Paolo di Milano. Il nuovo trasferimento si sarebbe reso necessario in quanto l’esponente della “Fai”, dopo il rigetto da parte della Cassazione della richiesta di revoca del 41 bis, ha sospeso l’assunzione di integratori. È la seconda volta che Cospito dal penitenziario milanese viene portato nella struttura ospedaliera: resta comunque in regime di 41 bis, anche se, a quanto si è appreso, sarebbe stato collocato in una stanza diversa rispetto a quella in cui era stato ricoverato in precedenza, più vicina al reparto di terapia sub-intensiva, ma sempre nel reparto di medicina penitenziaria del San Paolo. Da un ultimo monitoraggio i suoi valori sono apparsi troppo alti. Non si esclude un possibile inizio di acidosi. Si tratta, è stato chiarito, di una situazione delicata e da monitorare in via cautelativa con il ricovero. Il caso Cospito è diventato un dilemma etico di Gulia Merlo Il Domani, 7 marzo 2023 A distanza di pochi giorni dalla manifestazione anarchica di Torino in suo sostegno, Alfredo Cospito, detenuto al 41 bis e in sciopero della fame da più di 130 giorni, è stato riportato dal carcere di Opera al reparto di medicina penitenziaria dell’ospedale San paolo di Milano. Cospito, infatti, ha smesso nuovamente di assumere gli integratori dal 24 febbraio, quando la Cassazione ha rigettato il ricorso della difesa per la modifica del suo regime detentivo. Attualmente beve solo acqua e soprattutto tè e sta assumendo due cucchiai di zucchero e uno di sale al giorno e pesa 70 chili, che sarebbe la soglia limite per un uomo della sua altezza. La decisione di riportarlo in ospedale sarebbe stata presa “a scopo precauzionale” perché i medici hanno riscontrato un mutamento dei valori del sodio e del potassio. Questo secondo trasferimento nella struttura ospedaliera fa rialzare la tensione intorno alla salute dell’anarchico e soprattutto a come gestire l’eventualità di un suo improvviso peggioramento. Infatti è stato ricoverato nella stanza più vicina al reparto di terapia sub-intensiva e l’ipotesi è quella di un possibile inizio di acidosi, l’accumulo di acidi nell’organismo a causa del digiuno. Il tema solleva una serie di quesiti delicati e complessi dal punto di vista giuridico, che riguardano sia il diritto all’autodeterminazione che la tutela della salute. Anche perché Cospito ha consegnato al suo avvocato, Flavio Rossi Albertini, una dichiarazione anticipata di trattamento (Dat), in cui rifiuta il trattamento sanitario dell’alimentazione forzata e il documento è stato inoltrato anche al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Proprio in vista della fase più drammatica che è conseguenza inevitabile dello sciopero della fame, il 6 febbraio scorso il ministero della Giustizia ha investito il Comitato nazionale di bioetica di una serie di quesiti. L’ente è un organo consultivo del consiglio dei Ministri ed è tenuto a rendere pareri che però non possono essere riferibili a casi specifici, ma può solo rispondere su quesiti astratti. Gli stessi quesiti, che non sono stati resi noti nella loro precisa formulazione da parte del ministero, riguardano in particolare il comportamento da tenere nel caso in cui un paziente, che si trovi in condizione di custodia da parte dello Stato, rifiuti le terapie sanitarie. Il comitato di Bioetica - Il dibattito all’interno del comitato nazionale, composto da 33 membri, è proseguito nel corso di tutto il mese. Al suo interno, si è formato un diverso orientamento tra chi viene considerato più vicino alle posizioni pro vita, quindi alla possibilità dei medici di agire in scienza e coscienza per prevenire il decesso; e chi invece sostiene la libera scelta del detenuto. Alla fine, la decisione è arrivata: il comitato si è trovato concorde su 10 punti votati all’unanimità. A maggioranza, invece, ha è stato votato un parere che chiarisce che, come scritto in una pronuncia della Cedu, “né le autorità penitenziarie, né i medici potranno limitarsi a contemplare passivamente la morte del detenuto che digiuna”. Altri 9 componenti del Cnb, invece, hanno ritenuto che non ci siano motivi giuridicamente e bioeticamente fondati che consentano la non applicazione della Legge 219/2017, quella sulla Dat, nei confronti della persona detenuta in sciopero della fame, anche in pericolo di vita. Nonostante il quesito non sia formalmente riferibile allo specifico al caso di Cospito, all’interno del comitato alcuni componenti hanno vissuto con apprensione la scelta del ministero di affidare loro una questione così spinosa che inevitabilmente viene letta come riferita alla situazione dell’anarchico detenuto a Milano, visto il contenuto dei quesiti. Dentro al comitato c’è chi lo ha considerato una sorta di scaricabarile nella valutazione di una situazione delicatissima, a fronte di un ministero e di un governo che hanno mantenuto la linea dura del rigetto di qualsiasi revisione della misura detentiva. C’è però anche chi sottolinea come invece il comitato - nell’aver accolto i quesiti - implicitamente abbia accettato anche la legittimità del ministero a porli. Il comitato, infatti, ha continuato a riunirsi in queste settimane e nei prossimi giorni dovrebbe pubblicare il suo parere. A prescindere dal suo contenuto, il valore formale è quello di orientamento per l’attività amministrativa e non è vincolante, anche perchè non potrà entrare nel merito del caso specifico. Tuttavia avrà inevitabilmente un peso di moral suasion, visto anche il peggiorare delle condizioni di salute di Cospito e l’eccezionalità del suo caso. Con la decisione di rigetto della Cassazione, infatti, il detenuto ha di fatto esaurito le soluzioni percorribili dal punto di vista giudiziario, che avrebbero potuto fargli interrompere lo sciopero della fame. Rimangono solo ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo e la nuova impugnazione davanti al tribunale di sorveglianza della decisione del ministro Nordio, che però hanno tempi incompatibili con l’aggravarsi del suo stato di salute. “Devi vedere”, viaggio nelle carceri dimenticate di Alessandro Capriccioli* Il Dubbio, 7 marzo 2023 La nuova campagna radicale accompagna cittadine e cittadini nei luoghi di detenzione, “che non possono essere destinati all’oblio”. Non c’è posto più chiuso del carcere. Detta così pare una banalità, perché (ovviamente) il carcere è un luogo progettato apposta perché chi ci vive dentro non possa uscirne. Eppure, per rendersi conto che l’affermazione non è poi così banale basta riflettere su un fatto: quella chiusura non vale in una sola direzione. Non si limita, cioè, a essere una protezione del “fuori” da ciò che sta “dentro”, ma si spinge fino a proteggere ciò che sta dentro da quelli che stanno fuori. O per meglio dire a nasconderglielo. Per capirci: non soltanto dal carcere non si può uscire, ma nel carcere non si può neppure entrare; circostanza che, a ben guardare, appare decisamente più singolare. Tralasciando ogni considerazione (che pure sarebbe interessante svolgere) sulla ratio di questa inaccessibilità, ciò che interessa in questa sede è constatare che essa si traduce nella sostanziale sottrazione del carcere, e con esso delle persone che sono costrette a viverci, dal resto della comunità: sottrazione che da una parte allontana dalla percezione comune l’idea che le persone detenute rimangano titolari di diritti malgrado i reati commessi (è ancora così, con buona pace dei sempre più numerosi “manettari” che sembrano di avviso contrario), e dall’altra contribuisce a relegare le carceri alla dimensione di “non luoghi”, sospesi in una sorta di dimensione spazio- temporale parallela, irraggiungibile e misteriosa per la maggior parte di noi. Entrare negli istituti penitenziari, rompere quella barriera di marginalità che rappresenta il primo presupposto del nostro ormai conclamato fallimento rispetto alla finalità “rieducativa” sancita dalla nostra Costituzione, fare in modo che le persone possano verificare coi loro occhi cosa siano quei luoghi e incontrare chi ci vive, è di per sé un’iniziativa politica. Per questo, come Radicali, abbiamo lanciato la campagna “Devi vedere”, il cui obiettivo è accompagnare i cittadini e le cittadine in una serie di visite nelle carceri del nostro Paese, estendendo un’attività che i militanti radicali svolgono da decenni con passione e dedizione, quale che sia la loro appartenenza politica. Abbiamo ripetuto tante volte, anche da queste pagine, come il vero obiettivo di fondo per tenere insieme sicurezza e Stato di diritto non possa che essere il progressivo superamento del carcere: poiché, però, è impossibile superare ciò che non esiste, “aprire” le porte delle prigioni, perlomeno dall’esterno verso l’interno, rappresenta il primo passo per restituire a quei “non- luoghi” la materialità che è stata loro sottratta dall’oblio e dall’oscurità. Sembra un piccolo passo, ma noi siamo convinti che possa essere quello più importante. *Segretario di Radicali Roma Parlamento, l’abuso delle commissioni d’inchiesta di Michele Ainis La Repubblica, 7 marzo 2023 Nei primi mesi della legislatura deputati e senatori hanno consumato un record: 63 proposte. L’ultima sul Covid. Tra poltrone, quattrini e dolce far niente, ecco gli usi distorti di questo strumento ispettivo. Come diceva il vecchio Craxi? Quando non si vuol decidere un problema, allora si nomina una bella commissione. Tanto più se armata dei medesimi poteri dell’autorità giudiziaria, com’è il caso delle commissioni parlamentari d’inchiesta. E tanto più se ogni commissione distribuisce poltrone (presidenze, vicepresidenze, sottopresidenze) e quattrini (costano in media 300 mila euro l’anno). Sarà per questo che nei primi mesi della legislatura il Parlamento ha consumato un record: 63 proposte, firmate da un po’ tutti i partiti. Talune già trasformate in legge, come l’inchiesta sul femminicidio o quella sulla mafia, che peraltro si trascina dal 1962. Altre annunziate con clamore, come quella sul Covid, benché si sovrapponga alle indagini dei giudici di Bergamo, generando non poca confusione. Altre, molte altre, comunque ai nastri di partenza, anche perché la maggioranza avrebbe raggiunto già un’intesa: 7 presidenze a FdI, 4 alla Lega, 3 a FI, 2 ai centristi. In questo scialo si riflettono le velleità dei nostri rappresentanti in Parlamento, ovvero un’ambizione, un desiderio inappagato. Qualcuno vorrebbe emulare il commissario Montalbano, sicché punta a risolvere i grandi misteri della cronaca nera. La scomparsa di Emanuela Orlandi (4 proposte); la morte di David Rossi, capo comunicazione del Monte dei Paschi di Siena; l’omicidio di Angelo Vassallo, sindaco Pd ucciso nel 2010; lo scandalo Forteto (2 proposte), cooperativa agricola teatro di pedofilia e molestie sessuali. Altri parlamentari, viceversa, sollevano lo sguardo verso i destini del pianeta: da qui l’inchiesta sui cambiamenti climatici (un’idea del senatore Fina), sul rischio idrogeologico (deputato Bicchielli) o su quello cibernetico (sempre lui). Oppure si concentrano sulle piaghe sociali, dal degrado delle periferie (4 proposte) alla violenza sportiva, dalle pratiche commerciali scorrette ai naufragi nel Mediterraneo, dalle fake news al fenomeno delle sette. Ma la tentazione più diffusa è quella di riscrivere la storia, indossando i panni di Tucidide. Così, i deputati Zaratti e Rampelli vorrebbero battezzare un’inchiesta sulla violenza politica degli anni Settanta. La loro collega Varchi tende l’indice sulla strage di via D’Amelio. Mentre tutta Forza Italia, dopo l’assoluzione di Berlusconi nel processo Ruby ter, chiede a gran voce una commissione d’inchiesta sull’uso politico della giustizia. E of course su Tangentopoli, seme d’ogni male. Da qui una nuova categoria del diritto costituzionale, destinata allo studio dei manuali. Se in passato i giuristi distinguevano le indagini condotte dalle Camere nei due tipi dell’inchiesta politica (che mira ad accertare le responsabilità del governo su una materia d’interesse pubblico) e di quella legislativa (volta ad acquisire dati e informazioni per poi legiferare), ora s’affaccia una creatura bifida: l’inchiesta (parlamentare) sull’inchiesta (giudiziaria). Ovvero, l’inchiesta al quadrato. Ma da qui pure un dubbio al cubo, circa gli usi e gli abusi di questo strumento ispettivo. Giacché i nostri parlamentari erano mille, come i garibaldini; adesso sono un terzo in meno. Come faranno a presidiare questi organismi straordinari, quando già faticano ad essere presenti nelle commissioni permanenti e nelle Giunte? A meno che confidino sul dolce far nulla che s’accompagna, in genere, a questo tipo di lavoro: stando ai dati di Openpolis, le commissioni d’inchiesta si riuniscono - in media - per 6 ore al mese. Sempre che lo facciano, perché quella sulla ricostruzione dell’Aquila (deliberata dal Senato nel 2016) non venne mai costituita. Mentre per quella sui rifiuti (del 1995) l’unico rifiuto esaminato dai suoi commissari fu il rifiuto di riunirsi. Ecco perché 7 proposte vorrebbero adesso rinnovarla, per rinverdire i fasti del passato. In secondo luogo, l’inchiesta parlamentare è un’eccezione, non la regola. E infatti nelle prime due legislature (1948-1958) ne furono varate appena tre. Perché la loro stessa istituzione suona come un atto di sfiducia verso la magistratura, e al contempo come un quarto grado di giudizio, come se di appelli e contrappelli già non ne avessimo abbastanza. E perché, in una Repubblica ordinata, sono i giudici a firmare le sentenze, non i politici. In Italia, al contrario, il Parlamento indaga, giudica, processa; mentre il governo legifera in sua vece con l’arma dei decreti. Ma la confusione, come diceva Dante (Paradiso, XVI), “sempre principio fu del mal de la cittade”. Inchiesta Covid a rischio flop: la procura “sfida” il nodo Cassazione di Simona Musco Il Dubbio, 7 marzo 2023 I precedenti sull’epidemia colposa sono chiari: l’accusa non tiene. I legali: processo alla politica. L’inchiesta giudiziaria sulla gestione della pandemia di Covid rischia di nascere già morta. E ad instillare il dubbio che sia destinata a naufragare è stato lo stesso procuratore di Bergamo, Antonio Chiappani, che intervistato da Repubblica si è detto consapevole dell’esistenza di “un problema di configurabilità” del reato, contestato, tra gli altri, all’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, all’ex ministro della Salute Roberto Speranza, al governatore della Lombardia Attilio Fontana e al suo ex assessore al Welfare, Giulio Gallera. Tutti, assieme ad altre 15 persone, tra le quali numerosi tecnici del Cts, sono destinatari degli avvisi di garanzia per i reati di epidemia colposa aggravata, omicidio colposo plurimo e rifiuto di atti di ufficio. Reati che, stando alle contestazioni, avrebbero provocato oltre 4mila morti evitabili. Il problema ruota tutto attorno all’accusa di epidemia colposa, dalla quale discenderebbe poi l’accusa di omicidio colposo plurimo. Un problema che la Cassazione, a più riprese, ha chiarito: “In tema di delitto di epidemia colposa - recita la sentenza 9133/2017, ripresa dalla più recente 20416/2021 proprio in tema Covid -, non è configurabile la responsabilità a titolo di omissione in quanto l’art. 438 cod. pen., con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni”, richiede una condotta commissiva a forma vincolata, incompatibile con il disposto dell’art. 40, comma secondo, cod. pen., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera”. Per cui “in assenza di qualsivoglia accertamento circa l’eventuale connessione tra l’omissione contestata al ricorrente e la seguente diffusione del virus” non è possibile ravvisare “la sussistenza del nesso di causalità tra detta omissione e la diffusione del virus”. Insomma, tutto rischia di evaporare in un nulla di fatto. E lo sa anche Chiappani, che dunque, nella stessa intervista, svela le ragioni che muovono la procura: “Di fronte alle migliaia di morti e alle consulenze che ci dicono che potevano essere evitati, non potevamo chiudere con una richiesta di archiviazione”. Doverosa per legge, però, se gli elementi in possesso dell’ufficio di procura indicano quella strada. Proprio per tale motivo, dunque, l’indagine di Bergamo appare più come un tentativo di processare la storia (e la politica) che altro. Anche perché l’analisi su ciò che andava fatto - e non è stato fatto - si basa su consapevolezze acquisite a posteriori, dopo due anni terribili durante i quali l’Italia è stata però presa ad esempio per la gestione di un’emergenza imprevedibile. Dal lockdown ai vaccini. Il dubbio dei legali che assistono gli indagati è che si stia tentando, col senno di poi, di censurare una serie di valutazioni che la politica ha preso anche sulla base di ciò che dicevano i tecnici. Decisioni complicatissime in uno scenario scientifico incerto, tanto incerto da essere ancora oggi oggetto di dibattito. E che si voglia assegnare ad un Tribunale penale il compito di sciogliere nodi complicatissimi, in un contesto non certo sereno, proprio perché epicentro di quel disastro che ora la procura attribuisce alla politica. Un cortocircuito che nasce dalle parole dello stesso procuratore: l’indagine, ha infatti affermato, era doverosa per “soddisfare la sete di verità della popolazione” e non, dunque, per accertare responsabilità giuridiche individuali. E il rischio, sussurra qualche avvocato, è che la stessa logica possa essere seguita dalla Corte. Insomma, ci sono tutti gli estremi per un legittimo sospetto, questa la voce che circola tra gli addetti ai lavori: che garanzie di terzietà ci sono? E quali sono i compiti della magistratura, soddisfare le aspettative di un territorio o applicare la legge? Ma non solo. L’inchiesta ha una connotazione politica fortissima: il consulente dell’accusa è infatti Andrea Crisanti, oggi parlamentare dem e pochi giorni fa in tv per spiegare i contenuti della sua perizia. E gli indagati sono suoi avversari politici, fanno notare i legali, indignati per quello che appare come un cortocircuito pazzesco. “Questo è l’emblema di tutto ciò che volevamo evitare: la spettacolarizzazione dei processi e la commistione tra politica e attività giudiziaria. È la tempesta perfetta, ciò contro cui noi avvocati protestiamo da anni. Non è possibile risolvere per via giudiziaria le grandi fasi storiche”, fa sapere un legale che preferisce rimanere anonimo. L’altro aspetto della vicenda, dunque, è la critica giudiziaria all’azione politica a fronte di documenti che attestano come tutto il mondo si sia trovato nella stessa identica situazione dell’Italia, compresi i Paesi con un piano pandemico aggiornato, come la Svizzera e l’Inghilterra. A dimostrazione del fatto, secondo un principio eziologico, che non poteva essere la mancanza di qualcosa a rappresentare l’elemento per cui si è sviluppata l’epidemia. D’altronde, come ha evidenziato Ranieri Guerra, ex numero due dell’Oms ed ex direttore generale dell’ufficio di Prevenzione del ministero della Salute, una valutazione di “adeguatezza o meno” della gestione delle prime fasi della pandemia come quella prospettata dovrebbe in ogni caso tenere conto di tutti gli elementi all’epoca disponibili ed analizzarli attraverso un ragionamento ex ante e non certamente ex post. Insomma, nessuno poteva prevedere un evento di questa portata straordinaria. E suggerire ai familiari delle vittime l’idea che si poteva fare qualcosa e non è stato fatto rischia di diventare un boomerang. A ciò si aggiungono le fughe in avanti sulla stampa. Numerose sin dall’inizio e coronate dalla comunicazione degli avvisi di garanzia a mezzo stampa, fuga di notizie sulla quale ora è la stessa procura di Bergamo - quella dalla quale qualcuno ha fatto uscire l’avviso di conclusione indagini - a indagare. Fughe che sono continuate anche dopo le comunicazioni ufficiali: sui giornali sono finite decine di chat irrilevanti, con il solo scopo di “indignare la gente - conclude il legale -. Una pessima pagina dell’informazione, della giustizia e della politica”. Dopo Mori, adesso tocca a un altro generale antimafia. Ma i fatti lo “assolvono” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 marzo 2023 La stampa ha dato notizia dell’avviso di chiusura indagini da parte della procura di Caltanissetta a carico degli ex generali dei carabinieri della Dia Alberto Tersigni e Angiolo Pellegrini. L’accusa è quella di non aver vagliato le dichiarazioni di Pietro Riggio, ora collaboratore di giustizia e che all’epoca operava da infiltrato per conto della Dia stessa con lo scopo di arrivare alla cattura di Bernardo Provenzano. In quel periodo, da confidente, raccontò agli ex ufficiali di aver appreso dall’ex poliziotto Giovanni Peluso che nel 2001 c’era un progetto di attentato nei confronti del giudice Guarnotta, che all’epoca presiedeva il processo di primo grado nei confronti dell’allora senatore Dell’Utri. Secondo quanto riporta la stampa, per la procura nissena i due ex generali della Dia non avrebbero messo al vaglio tali dichiarazioni. Anzi, sono accusati di aver affermato il falso dinnanzi alla procura che chiedeva chiarimenti sui fatti, non avrebbero detto ciò che sapevano e avrebbero addirittura ostacolato le indagini “finalizzate ad acquisire elementi per comprovare l’autenticità delle dichiarazioni di Riggio”. Qualcosa però, sempre se è corretto come riportato da alcuni giornali, non torna. Da parte degli allora colonelli, non si trattava di comprovare la buona fede di Riggio, ma se la notizia de relato che ha appreso, fosse vera o meno. In realtà, dagli atti emersi duranti il processo d’appello trattativa Stato Mafia, gli ex ufficiali della Dia Alberto Tersigni e Angiolo Pellegrini hanno messo eccome al vaglio quelle dichiarazioni, confrontandosi anche con l’allora capo della procura di Palermo Pietro Grasso. Ma andiamo con ordine. Pietro Riggio era un ex agente della polizia penitenziaria, con relazioni di parentela ed amicizie ingombranti. Nel frattempo diventa un favoreggiatore di esponenti mafiosi, viene tratto in arresto e finisce nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere dove conosce altri ex agenti delle forze dell’ordine condannati per varie tipologie di reati. Ed è lì che, tra gli altri, conosce Giovanni Peluso. Un soggetto particolare che, come vedremo, si rivelerà un millantatore per spillare denaro. In questa combriccola detenuta nel carcere, c’era anche Antonio Mazzei. Un ex delinquente di bassa lega che effettivamente era stato a suo tempo convocato dalla Dia perché - secondo i carabinieri stessi-, sia lui che lo stesso Peluso, avrebbero detto di essere in grado di poter arrivare alla cattura di Provenzano. Lo stesso colonnello Pellegrini della Dia ha poi constatato che erano dei truffaldini e millantatori. Però in quel frangente, Mazzei era stato preso molto sul serio. Ricordiamo che su Provenzano c’era una taglia milionaria, e quindi faceva gola. Sarà proprio questo Mazzei a informare l’ex colonnello della Dia Pellegrini che c’era un ex agente di polizia penitenziaria ancora detenuto che sarebbe stato disponibile a fornire notizie utili per la cattura di Provenzano, in cambio di garanzie sul buon esito, per sé e per il cugino Barbieri, della vicenda processuale che li vedeva entrambi imputati di associazione mafiosa. Avviene quindi il reclutamento. In effetti Riggio, una volta uscito dal carcere, è subito rientrato nel giro delle estorsioni per conto di cosa nostra. In quel frangente, come confidente, ha portato a qualche risultato come l’individuazione di una talpa all&# 39; interno della Procura di Caltanissetta, così come ha aiutato a capire le dinamiche di Cosa nostra nissena e dato informazioni su tentativi di estorsione nel territorio. Ma finì lì. Molto utile per le cose che conosceva, ma poco e nulla per le cose che apprendeva de relato. In particolar modo da questo Peluso. Ma chi è quest’ultimo? Proviene dal nutrito sottobosco composto da falsari, truffatori, papponi. Lo stesso Peluso - come si legge nelle motivazioni della sentenza di secondo grado della trattativa stato mafia - era un pregiudicato per truffa, violenza sessuale, sfruttamento della prostituzione e altri reati. Costui si spacciava per uno che avrebbe commesso l’attentato di Capaci, di far parte dei servizi deviati, e altri racconti “indicibili”. Protagonista di delitti eclatanti e trame eversive decisamente non alla portata della sua statura. Tra i vari racconti che fece a Riggio, uno è quello del sedicente progetto di attentato nei confronti dell’allora giudice Guarnotta. Gli ex colonnelli Alberto Tersigni e Angiolo Pellegrini hanno fatto fina di nulla? Nonostante sia già poco credibile di suo visto che dopo la sconfitta dell’ala stragista, la mafia ha usato la tattica della “sommersione”, e quindi nessun rumore e nessun eclatante attentato, gli ufficiali della Dia misero subito sotto intercettazione telefonica Peluso. È quello che risulta inequivocabilmente agli atti. Ma non solo. La Dia avvisò correttamente l’allora procuratore Grasso. Come si legge nell’informativa della Dia, si parla di una fonte (ovvero Riggio) che rivela ai carabinieri “non meglio indicati soggetti, presumibilmente non in linea con gli attuali orientamenti di “Cosa Nostra”, potrebbero avere in mente di porre in atto un episodio eclatante, verosimilmente nel capoluogo dell’isola”. La fonte dice che tali soggetti, per l’attentato, potrebbero servirsi di “tale Peluso Giovanni, ex poliziotto, che proprio in questi giorni avrebbe preso la dimora a Catania presso persone compiacenti e si sarebbe recato più di una volta a Palermo, servendosi di mezzi pubblici”. Quindi presero sul serio questo racconto de relato, appurando nello stesso tempo che Peluso era un pregiudicato per prostituzione e truffa. Quest’ultimo reato è stato per Grasso un campanello d’allarme, tant’è vero - come si legge nell’informativa - che ha concordato l’avvio delle indagini preventive “con la possibilità, tenuto conto dei precedenti penali del Peluso, che possa trattarsi di millanterie nei confronti della fonte”. Ebbene, alla fine le indagini hanno confermato questo dubbio. Riportiamo integralmente il contenuto della nota del 2001 a firma dell’ex colonnello Pellegrini: “Le conversazioni registrate ed i conseguenti accertamenti svolti, non hanno consentito di poter confermare la partecipazione del Peluso all’ipotesi di reato inizialmente formulata in virtù della quale il servizio era stato richiesto. Il Peluso, ispettore cli polizia sospeso dal Servizio, in quanto indagato, dalle risultanze del servizio di ascolto è risultato condurre un tenore cdi vita non regolare. I suoi interessi lo hanno portato ad accostarsi a persone - alcune delle quali ancora in vita e in via di identificazione - con le quali intrattiene comuni interessi sulle cui finalità si ha motivo di sospettare un arricchimento illecito. Ma, allo stato degli atti, nulla che possa giustificare un indizio di affiliazione alla grande criminalità organizzata. Piuttosto, il linguaggio criptico di alcune conversazioni telefoniche, il ricorso a millanterie e frasi ci convenienza, nonché suoi trascorsi, lascerebbero propendere per il coinvolgimento del Peluso in attività illecite cli tipo truffaldino, i cui elementi tuttavia non è dato comprendere”. È giustificabile che un collaboratore come Riggio si era convinto di conoscere tanti segreti “indicibili”, rivelando ciò che era venuto a sapere dal millantatore Peluso. D’altronde, tra le varie cose, oggi Riggio denuncia che la Dia in realtà non voleva catturare Provenzano. Ma l’unica “prova” che è in grado di esibire resta quella affidata alle rivelazioni che gli sarebbero state fatte dal solito Peluso in occasione di un incontro che il collaborante colloca temporalmente nel 2003 inoltrato, ovvero nella seconda metà del 2003. Detto questo, se da una parte Riggio è giustificabile, sarebbe del tutto disarmante se ci avessero creduto dei professionisti come gli allora ufficiali della Dia e l’allora procuratore Grasso. Chi scrive, non conosce i dettagli della chiusura delle indagini nei confronti di Tersigni e Pellegrini, ma ci si augura che la procura nissena non abbia preso sul serio le narrazioni di Peluso. Quest’ultime vanno bene per i programmi in prima serata su La Sette, ma non per le indagini o le aule di giustizia. Ergastolo ostativo, pg Cassazione: “Le nuove norme non tornino alla Consulta” di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 7 marzo 2023 “Superata la preclusione dei benefici a chi non collabora”. In vista dell’udienza che dovrà rivalutare la posizione di Salvatore Pezzino - il boss mafioso che col suo ricorso ha fatto dichiarare incostituzionale il divieto di accedere ai benefici carcerari senza collaborare con la giustizia - la Procura generale della Cassazione scrive il tema non deve più tornare di fronte alla Corte costituzionale, in quanto la mancata collaborazione non costituisce più un fattore preclusivo alla liberazione. La difesa invece chiede un nuovo rinvio. Le nuove norme sull’ergastolo ostativo non devono tornare alla Consulta. È la posizione della Procura generale della Cassazione in vista dell’udienza di mercoledì che dovrà rivalutare la posizione di Salvatore Pezzino, il boss mafioso recluso da trent’anni che col suo ricorso ha fatto dichiarare incostituzionale il divieto di accedere ai benefici carcerari senza collaborazione con la giustizia. Quella normativa è stata superata a novembre con il primo provvedimento del governo Meloni, il cosiddetto “dl Rave”, che ha imposto una serie molto fitta di “paletti” da rispettare perché anche gli “uomini d’onore” mai pentiti possano uscire in anticipo dal carcere. Per questo, nella requisitoria scritta, i sostituti procuratori Pietro Gaeta e Giuseppe Riccardi sostengono che il tema non debba più tornare di fronte alla Corte costituzionale, in quanto la mancata collaborazione non costituisce più un fattore preclusivo alla liberazione ove sussistano i requisiti della durata della pena espiata (almeno trent’anni) e del “sicuro ravvedimento”, che - ricordano - comporta anche “una attiva partecipazione al percorso rieducativo” e la “mancanza attuale” di “collegamenti” con i clan, e con il “contesto” nel quale il reato è stato commesso (nonché la mancanza di pericolo di un loro ripristino). Per questo - scrive la Procura generale - il ricorso di Pezzino va accolto, rinviando la questione della concessione dei benefici al Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila (dove si trova il carcere in cui il boss era detenuto ai tempi della richiesta). I giudici adesso avranno “l’obbligo di confrontarsi con la diversa regola di giudizio, che amplia la base cognitiva e valutativa per la concessione della liberazione condizionale, elidendo la preclusione assoluta della collaborazione mancata o impossibile: in tal senso, dovrà essere dunque valutato in concreto il percorso rieducativo del Pezzino, e l’assenza di collegamenti, attuali o potenziali, con la criminalità organizzata e con il contesto mafioso”, si legge. Chiede un nuovo rinvio alla Consulta invece la legale di Pezzino, l’avvocatessa Giovanna Araniti: la nuova normativa, sostiene, “maschera, in concreto, attraverso una mera facciata declamatoria de iure del superamento della presunzione assoluta, il reale intento di determinare una serie di condizioni tali da rendere davvero difficoltosa quella riducibilità dell’ergastolo ostativo, facendo rientrare, de facto, dalla finestra ciò che apparentemente era stato espunto”. Detenuto al 41 bis vuole vedere i pronipoti. La Cassazione: “Non ne ha diritto” palermotoday.it, 7 marzo 2023 La Cassazione ha definitivamente bocciato l’istanza del mafioso che chiedeva di poter incontrare i bambini, nipoti di suo fratello. Per i giudici sono parenti di quarto grado e non è previsto. Se fossero stati discendenti dei suoi figli, invece, avrebbe potuto avere un colloquio con loro. Il vecchio boss di Pagliarelli, Settimo Mineo, 84 anni, chiedeva di poter incontrare - nonostante sia recluso al 41 bis - i suoi pronipoti, tutti minorenni e nipoti del fratello, ma la prima sezione Cassazione, come già avevano fatto il magistrato e il tribunale di Sorveglianza di Sassari, ha rigettato definitivamente la sua istanza in quanto si tratta di parenti di quarto grado e che, dunque, non rientrano tra quelli autorizzati da una circolare del Dap del 2017. La mappa dei boss palermitani al 41 bis - Il mafioso, che avrebbe dovuto essere a capo della ricostituita Commissione provinciale di Cosa nostra, come emerso con l’operazione “Cupola 2.0” di dicembre 2018, è stato condannato dal collegio presieduto da Angela Tardio a pagare le spese processuali. Secondo i giudici, infatti, i colloqui sono ammessi solo con parenti fino al terzo grado e i pronipoti da parte del fratello sono invece di quarto grado. Il boss Spera vuole lasciare il 41 bis e rifiuta le cure - Mineo aveva fatto ricorso contro la decisione del tribunale di Sorveglianza di Sassari, città in cui è detenuto, del 9 giugno dell’anno scorso, che a sua volta aveva confermato quella del magistrato di Sorveglianza: secondo la sua difesa, infatti, nella tabella del Dap sono inseriti tra i famigliari con cui è possibile avere colloqui al 41 bis pure i pronipoti. E di fatto è proprio così, ma come spiega adesso la Cassazione in quel caso ci si riferisce ai nipoti del figlio (che sono parenti di terzo grado) e non già di un fratello, come nel caso del boss. Anche Pippo Calò contro il carcere duro - La Suprema Corte ha stabilito che il ricorso di Mineo “non merita accoglimento”, spiegando che “la circolare del Dap ha opportunamente chiarito chi siano i famigliari con i quali il detenuto può svolgere i colloqui, individuandoli nei parenti e affini entro il terzo grado, con un corretto esercizio del potere organizzativo che assicura un adeguato contemperamento tra le esigenze di sicurezza, da un lato, e quelle di conservazione e mantenimento delle relazioni affettive famigliari del detenuto, dall’altro”, si legge nella sentenza. Per i giudici “i figli del nipote ex fratre, a differenza dei figli del nipote ex filio, sono parenti di quarto grado e quindi, al di là di quanto possa desumersi dalla tabella riepilogativa contenuta nella circolare dell’Amministrazione penitenziaria”, i pronipoti “sono prima indicati quali parenti (ovviamente di terzo grado) del coniuge e poi (sempre nello stesso grado) per definire il rapporto di affinità del coniuge con gli stessi”. Pescara. Tragedia nel carcere di San Donato, muore suicida un giovane detenuto ilpescara.it, 7 marzo 2023 Un giovane detenuto si è tolto la vita nella Casa circondariale di Pescara: a denunciare quanto avvenuto è il sindacato Sinappe. Tragedia nel carcere di San Donato a Pescara per un giovane detenuto che è morto a seguito di un estremo gesto volontario. Il fatto è avvenuto nel pomeriggio di domenica 5 marzo. E l’ha fatto, come riferisce Giuseppe Di Domizio, segretario provinciale del sindacato Sinappe, si sarebbe impiccato con delle lenzuola legate alle inferriate della cella. Nonostante il tempestivo intervento sia della polizia penitenziaria, con i suoi sanitari, che poi con i soccorritori del 118 non è stato possibile salvare il carcerato. “Continua la serie infinita di eventi critici, ormai diventati giornalieri”, commenta Di Domizio, “per l’ennesima volta lo Stato ha perso! Si, perché ogni volta che avviene un suicidio in un penitenziario, è lo Stato a essere sconfitto. Il Prap (provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria) Lazio, Abruzzo e Molise ha di fatto abbandonato il penitenziario pescarese, (tante richieste di aiuto da parte della direzione per la forte crescita di eventi critici ingestibili, inascoltate), a una morte lenta. La casa circondariale di Pescara è diventato un contenitore, da riempire purtroppo, con detenuti che sono riottosi e disadattati, provengono maggiormente dagli istituti laziali, gli stessi allontanati per ordine e sicurezza e che sono perlopiù con patologie psichiatriche, siamo a una percentuale elevatissima, superiore addirittura al 60%, nonostante sia risaputo, che a Pescara esiste un solo reparto Atsm di 7 posti al massimo”. Frosinone. Morto in carcere, i genitori denunciano direttore, magistrato, medici e consulente di Angela Nicoletti frosinonetoday.it, 7 marzo 2023 Domenico e Rita Lupo, padre e madre di Salvatore, deceduto nel penitenziario di Frosinone, hanno presentato un esposto ai Carabinieri di Palermo dopo la richiesta di archiviazione da parte della Procura di via Calvosa. La morte in carcere a Frosinone di Salvatore Lupo, 31enne palermitano, si arricchisce di un altro colpo di scena. “Domenico e Rita Lupo, genitori di Salvatore insieme con Teresa e Maria, le sorelle della vittima deceduta nel dicembre del 2019 - spiega in una nota l’avvocato Salvino Caputo, difensore della famiglia Lupo - si sono recati presso la compagnia dei Carabinieri di Monreale per denunciare la direttrice della Casa Circondariale, il Dirigente medico di turno la sera del decesso, il Dirigente dell’Ospedale ‘Spaziani’, dove è stato effettuato l’esame autoptico sulla salma del giovane, il consulente medico nominato dalla Procura della Repubblica di Frosinone e il magistrato della Procura della Repubblica di Frosinone titolare delle indagini”. Una vicenda controversa che ha visto come ultima tappa la riesumazione del cadavere. Secondo la versione dei familiari, il giovane sarebbe rimasto ucciso da una dose di medicinali, fornita dal carcere la sera prima della morte e il cui blister scomparve nel nulla. La Procura della Repubblica di Frosinone - spiega Caputo insieme con i legali Giada Caputo, Valentina Castellucci, Mauro Torti e Francesca Fucaloro - per due volte ha presentato una richiesta di archiviazione, respinta dal giudice per le indagini preliminari a seguito degli atti di opposizione presentati dal collegio difensivi dei familiari di Lupo. Adesso la Procura della Repubblica di Frosinone, dopo la riesumazione della salma di Lupo e il relativo esame medico legale, ha riproposto per la terza volta richiesta di archiviazione. “La scomparsa delle medicine e dei prelievi - hanno detto i familiari di Lupo - costituisce un fatto di gravità inaudita, anche perché non ci risulta che da parte degli organi competenti, Procura della Repubblica e Polizia Giudiziaria, siano stati effettuate indagini per individuare i responsabili della scomparsa di prove di enorme valenza che certamente avrebbero chiarito le cause del decesso. Lo Stato aveva il dovere di proteggere il nostro figlio e fratello e per questo abbiamo presentato una articolata denuncia presso i carabinieri di Monreale - ha continuato Domenico Lupo - perché venga fatta chiarezza e vengano individuati i responsabili. Salvatore era un giovane, alto, atletico, forte e abituato alla fatica fisica. Certamente sono intervenuti fattori che hanno causato il suo decesso. Altrimenti non si spiegherebbe la scomparsa di prove di rilevantissima importanza”. “Nostro figlio era affidato allo Stato che aveva il dovere di giudicarlo ma anche e soprattutto di proteggerlo. Troppi episodi oscuri sono avvenuti intorno al suo decesso: non ci fermeremo, finché non verrà fatta giustizia e individuati i responsabili della sua morte, avvenuta in una cella del carcere di Frosinone”. Lecce. Delegazione in carcere per vagliare sovraffollamento e carenza di personale lecceprima.it, 7 marzo 2023 Il consigliere regionale Pagliaro faceva parte del gruppo che ha visitato il penitenziario leccese. Riscontrati fin troppi disagi, come già da tempi immemori narrano i sindacati della polizia penitenziaria “Porrò la questione in Commissione sanità”. “Nel carcere di borgo San Nicola di Lecce ci sono al momento 1.078 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di circa 750. Oltre trecento persone in più, mentre il personale di polizia penitenziaria è sott’organico e vive una condizione di profondo disagio e stress che invoca un intervento risolutivo della politica, finora sorda al grido di allarme delle guardie penitenziarie”. A parlare è Paolo Pagliaro, consigliere regionale e capogruppo de La Puglia domani che, sostanzialmente, non tratteggia un quadro dissimile da quello che da tempi immemori dipingono diverse sigle sindacali della polizia penitenziaria. Il sovraffollamento è una delle peggiori piaghe del sistema carcerario, e non solo a Lecce, ma in parte della regione. Pagliaro ha svolto oggi un sopralluogo con gli ex deputati radicali Sergio D’Elia e Rita Bernardini dell’associazione Nessuno tocchi Caino, Maria Mancarella, garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Lecce, Massimo Pagliaro, Alexia Pinto, Veronica Merico e Silvia Ardito in rappresentanza della Camera penale di Lecce, Giuseppe Talò, Roberto Cavallo, Paola Antini, Luisella Aversa e Augusto Fonseca attivisti radicali di Nessuno tocchi caino. “Ci siamo scontrati con una realtà carceraria molto dura, dove il sovraffollamento toglie lo spazio vitale e si registra un aumento allarmante dei casi di dipendenze, di depressione e di tentativi di gesti estremi”, spiega Pagliaro. “L’emergenza più grave è di tipo sanitario: un intero piano dell’infermeria ospita circa trenta detenuti con patologie psichiatriche, e nell’intero istituto circa 250 detenuti sottoposti a trattamento farmacologico o di consulenza specialistica per un solo psichiatra a disposizione. Una sproporzione - aggiunge - che non garantisce la qualità e la continuità del rapporto con il detenuto”. “Nonostante la riduzione del personale e una pianta organica inadeguata, con professionalità e umanità straordinarie si cerca di garantire la normale attività di assistenza e vigilanza ed anche l’attivazione dei laboratori che tengano impegnati i detenuti garantendo loro anche una busta paga: il forno, la pasticceria, l’officina creativa Made in carcere, Linkem, la cooperativa di semiliberi per la cura dell’orto e la produzione di ortaggi con l’ambizione di prevedere in futuro, grazie ad un progetto presentato, la trasformazione ed il confezionamento. Sono stati attivati anche tirocini formativi - prosegue il consigliere regionale -, corsi di alfabetizzazione media e superiore di tipo tecnico, è stato previsto anche un polo universitario”. Ma restano tanti, troppi i problemi. “Con la carenza di personale di sorveglianza - aggiunge Pagliaro -, risulta assai difficile contrastare i tentativi sempre più frequenti di recapitare droga ed altro materiale illecito o pericoloso attraverso i droni, direttamente nelle celle. La comunità penitenziaria è fatta di detenuti e detenenti, e quando va in crisi un settore, rischia il collasso l’intero sistema. Ecco perché - conclude - porrò il problema della carenza di personale sanitario specialistico, che è di competenza regionale, in un’audizione in Commissione sanità”. Viterbo. Salute detenuti, incontro tra Asl e vertici Mammagialla Corriere di Viterbo, 7 marzo 2023 Venerdì scorso si è tenuto il tavolo paritetico per la tutela della salute delle persone detenute, presieduto dalla direzione sanitaria della Asl e dalla direzione della Casa circondariale Mammagialla. All’iniziativa partecipano anche la Polizia penitenziaria e il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Il tavolo, operativo con cadenza mensile, si pone l’obiettivo di migliorare il sistema di erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione individuati nel Piano sanitario nazionale. Si prefigge, inoltre, di trovare il giusto equilibrio tra la gestione di un sistema complesso, quale è la casa circondariale, il mantenimento dei livelli di sicurezza, la garanzia del rispetto della privacy e dei diritti del detenuto e il mantenimento dello stato di salute. Un vasto progetto che non può prescindere dall’interazione - integrazione positiva tra le diverse componenti unite dagli stessi principi fondamentali di equità, imparzialità, riservatezza e tutela. In questi mesi, il lavoro del tavolo ha messo a punto diverse strategie utili al raggiungimento di obiettivi comuni. Cinque sono gli ambiti che hanno visto già il raggiungimento di notevoli risultati. Sul fronte dei percorsi di telemedicina, ad esempio, sono state rese più accessibili le cure specialistiche, con metodiche innovative quali il telereferto per le indagini diagnostiche, il teleconsulto tra i professionisti, la televisita e l’utilizzo del fascicolo sanitario elettronico. Il coinvolgimento della Centrale operativa aziendale della Asl, inoltre, ha rappresentato un momento di integrazione importante, principalmente per coordinare gli interventi sanitari da effettuare all’esterno del penitenziario. Lucca. Il cappellano don Simone Giuli: “Il carcere sia davvero un luogo di rieducazione” di Paolo Pinori luccaindiretta.it, 7 marzo 2023 Sono ottanta i detenuti, molti sono stranieri del nord Africa, ma non mancano gli italiani. Il parroco: “Quello che mi ha insegnato il penitenziario è che nella vita conta molto dove si nasce”. Il carcere come vero luogo di rieducazione. È questa una delle funzioni, non sempre riconosciuta, dei nostri istituti di detenzione e dove i servizi rieducativi sono messi a disposizione dei detenuti la recidiva scende dell’80 per cento. Questo grazie a molti operatori e realtà che operano all’interno del carcere per creare dei percorsi volti al reinserimento sociale del carcerato all’interno della società, come la Caritas diocesana. Sono 190 gli istituti penitenziari in Italia, con una capienza di 50 mila posti e una disponibilità reale di 47 mila. Nel 2018 i detenuti erano quasi 60 mila e dal 2006, anno dell’indulto, il numero dei carcerati è in netto aumento. Ciò che in realtà colpisce di questi dati è che di questi 47mila carcerati, sono 31mila le persone che hanno una condanna o un residuo di pena, fino ad un massimo di tre anni. Di questi, 10mila hanno una pena inferiore ad un anno. La casa circondariale di Lucca a San Giorgio, si differenzia da una casa di reclusione perché al suo interno sono detenute persone in attesa di giudizio o condannate a pene inferiori ai cinque anni. Don Simone Giuli da dieci anni è cappellano della casa circondariale di Lucca e si occupa di detenuti dalla morte del precedente cappellano Don Beppe Giordano, parroco di San Pietro a Vico. “Dopo la morte i Don Beppe Giordano iniziai a occuparmi dei carcerati come volontario con Don Luigi Sonnenfeld, caro amico del vecchio cappellano - spiega Don Simone Giuli -. Sentivo che quel mondo mi attraeva, perché al loro interno c’erano veramente persone che avevano bisogno di vicinanza e ascolto. Ho colto una sfida che avvertivo dentro di me.” “A Lucca abbiamo una casa circondariale - prosegue -, all’interno della quale, nella maggioranza dei casi, ci sono persone in attesa di giudizio, sono solo uomini, molti anche di giovane età, stranieri, soprattutto del Nord Africa del Maghreb. Ma anche tanti Italiani, persone che spesso non hanno una storia facile o un retroterra familiare e sociale che li ha indirizzati nella vita. Quello che a me ha insegnato il carcere è che, nella vita conta molto dove si nasce. Noi che stiamo meglio, abbiamo avuto la fortuna di avere una famiglia strutturata e questo è dovuto a dove siamo nati, ma a seconda della nostra provenienza potremmo essere noi dall’altra parte. Nella casa circondariale di Lucca non si parla di reati gravissimi come in altri in altri carceri”. Il carcere di Lucca è un convento dell’ottocento, una struttura vecchia, con molte carenze strutturali e dagli spazi limitati, ma secondo Don Simone Giuli è anche una struttura viva: “È molto bello il lavoro che noi con Caritas insieme agli agenti di polizia penitenziaria, facciamo nell’area rieducativa - dice il cappellano -. In carcere, adesso ci sono circa un’ottantina di detenuti e si cerca di portare avanti un lavoro proprio al servizio delle persone. Noi di Caritas gestiamo tutta la parte del vestiario, per i detenuti che non hanno colloqui e quindi non hanno nessuno. Gli diamo delle tute, magliette, intimo, ciò di cui hanno bisogno per lavarsi, asciugamani e molto altro. Inoltre portiamo avanti anche un bel progetto di digitalizzazione in cui i detenuti inseriscono materiale cartaceo della Asl nei computer. Collaboriamo anche per le attività sportive, abbiamo partecipato alla realizzazione del campetto da calcetto in collaborazione con altri enti della città. Inoltre, io sono cappellano del carcere e anche direttore della Caritas e in entrambi i ruoli cerco di dare una mano per il reinserimento dei detenuti nella società, anche a livello lavorativo, in collaborazione con la Casa San Francesco o attraverso le cooperative che Caritas sostiene, come Calafata o Nanina, per il lavoro agricolo e il riuso solidale. Un’inclusione lavorativa al momento della loro uscita.” Il tema della rieducazione è quello che preme di più a Don Simone Giuli. Infatti negli istituti di pena in cui vengono messi a disposizione dei servizi di recupero del condannato, i casi di recidiva scendono dell’80 per cento. Un detenuto costa allo Stato 200 euro al giorno, ma la spesa per la loro rieducazione sfiora appena 95 centesimi. “All’interno del carcere si lavora, si studia e si impara ad essere reinseriti nella società - dichiara Don Simone -. Questa è una parte importante, noi ci proviamo, perché in Italia purtroppo è ancora prevalente un’impostazione detentiva della pena, rispetto a quanto afferma l’articolo 27 della Costituzione, che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Un dato infatti è chiarissimo: nelle carceri dove c’è un forte investimento sull’attività di educativa solo il 20 per cento dei detenuti cade nella recidiva, cioè ricommette dei reati. Invece nelle carceri dove questo non avviene le percentuali sono l’esatto contrario”. Per quanto riguarda la casa circondariale di Lucca vengono offerte ai detenuti adeguate attività educative? “Sicuramente sui servizi che mette a disposizione Lucca può sicuramente migliorare - ammette Don Simone Giuli -. Però ci sono corsi importanti come quello di cucina, di teatro, di lettura, di attività sportive, la biblioteca. Però a mio avviso si può investire ulteriormente su questo aspetto anche qui a Lucca”. Catanzaro. Quelle “Mani in libertà” che superano i limiti delle mura del carcere catanzaroinforma.it, 7 marzo 2023 Non è il primo progetto di pasticceria che impegna i detenuti all’interno di un carcere italiano, ma è senz’altro “il” primo progetto di tal sorta che vede gli albori in un istituto di pena calabrese, l’ “Ugo Caridi” di Catanzaro. E nonostante le mille difficoltà legate alla pandemia, alla burocrazia ed ai tempi necessari per l’adeguamento strutturale del locale adibito a laboratorio di pasticceria, il progetto “Dolce Lavoro” sostenuto dalla Fondazione Con il Sud è andato avanti sin dal 2020, entrando nel 2023 nella fase di attuazione con l’avvio dei tirocini. A fare da spartiacque tra il momento formativo - in cui i sette detenuti coinvolti nel progetto si sono cimentati nei corsi d’inglese e francese (con Caterina Mirarchi e Annamaria Palaia come insegnanti), e nella pasticceria sotto la guida del capo pasticcere Fabio Mellace e di Antonella Arena (come esperta di panificazione è intervenuta Valentina Amato, mentre Anita Nicotera li ha seguiti nella pasticceria mignon e nelle decorazioni e Roberta Senatore nelle creazioni di cioccolato)per un totale di seicento ore - e quello laboratoriale, è stata la consegna degli attestati, avvenuta contestualmente all’inaugurazione del locale ristrutturato e messo a norma. Nel dare ufficialmente il via al prosieguo del progetto la direttrice della Casa Circondariale, Patrizia Delfino, ha voluto attorno a sé il provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, Liberato Guerriero; il presidente del Tribunale di Catanzaro, Rodolfo Palermo, e la magistrata di sorveglianza Angela Cerra: “Oggi consegniamo in comodato d’uso alla cooperativa “Mani in libertà” i locali interamente ristrutturati per il laboratorio di pasticceria - è stato il commento della direttrice Delfino - Per l’Istituto il laboratorio rappresenta una risorsa, perché va nella direzione della rieducazione e dell’inclusione socio-lavorativa dei detenuti mediante l’acquisizione di nuove competenze spendibili nel mondo del lavoro”. E se per il provveditore Guerriero la formazione finalizzata al lavoro rappresenta un elemento centrale nell’attività carceraria, per il presidente Palermo si tratta di un’occasione che è doveroso non perdere, mentre per la magistrata Cerra l’impegno in un progetto lavorativo può aiutare a fare scoprire ai detenuti talenti inimmaginabili. Quel che è certo è che, per Antonietta Mannarino, presidente dell’associazione “Amici con il Cuore”, capofila del progetto, l’entusiasmo coinvolgente dei detenuti li ha spinti ad andare avanti con la certezza di percorrere la strada giusta. D’altronde, come hanno ricordato gli stessi pasticceri che hanno tenuto il corso, gli allievi, che ora si apprestano a diventare tirocinanti, sono davvero bravi a creare dolci, anche in assenza dei macchinari necessari. Figuriamoci ora cosa saranno in grado di fare con i forni di ultima generazione, gli enormi frigoriferi ed il cuoci- crema che fanno bella mostra di sé nella stanza adibita a laboratorio. Il tirocinio darà loro la possibilità di esprimere la propria creatività nella produzione di dolci artigianali della tradizione calabrese, ma non solo, attraverso la cooperativa appositamente costituita, “Mani in libertà”, che supererà i limiti delle mura del carcere tramite la vendita online. Un progetto ambizioso, che può contare su un vasto partenariato - composto, oltre che da “Amici con il Cuore” e dalla Casa Circondariale, anche dall’impresa sociale Promidea, rappresentata per l’occasione da Giuseppe Pedullà e Piero Caroleo; dall’associazione “Liberamente”, con la presenza di Francesco Cosentini, e dall’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna di Catanzaro - ma soprattutto sulla tenacia dei detenuti di alta sorveglianza, che nella pasticceria ripongono le speranze di una vita carceraria meno amara, in cui poter lasciare il segno al di fuori delle sbarre. In cui, cioè, per riprendere le parole dell’entusiasta Antonietta Mannarino, in prima fila nella conduzione delle attività laboratoriali, “farete ritorno come persone più dolci in società”. E dopo la consegna degli attestati, con tanto di applausi singolarmente rivolti a ciascun corsista, i presenti hanno preso visione del locale rimesso a nuovo e benedetto dal cappellano del carcere don Giorgio Pilò. A tagliare insieme il nastro, la direttrice Delfino e la presidente Mannarino. Modena. Il Teatro dei Venti, recitare in carcere (pagati) sognando la libertà di Fabio Postiglione Corriere della Sera, 7 marzo 2023 Il teatro può salvare il mondo. Anzi, i mondi. Le vite. Quelle dei detenuti che studiano da attori e recitano come professionisti davanti a un pubblico pagante. Scontano la pena e sognano la libertà. Studiano, leggono, rispettano regole e orari, si incontrano cinque volte a settimana e proiettano la loro anima al di là delle sbarre. “Il nostro non è un approccio educativo, nemmeno conosciamo i reati che hanno commesso, ma puramente artistico”. Stefano Tè, napoletano di San Giorgio Cremano, Premio Ubu 2019 per l’allestimento scenico di “Moby Dick”, è fondatore e registra della compagnia Teatro dei Venti, dal 2006 impegnata in progetti sociali e percorsi creativi nei penitenziari, e che quest’anno con i detenuti del carcere Sant’Anna di Modena ha già messo in scena “Giulio Cesare”, e con quelli di Castelfranco Emilia, a maggio, produrrà l’Amleto. “Abbiamo ricevuto un invito a novembre al Teatro delle Passioni di Modena - racconta Tè. Un invito in un luogo importante, con i detenuti che potrebbero lasciare il carcere per diverse repliche, ci stiamo lavorando”. Lo hanno già fatto, ed è stato un successo. Con “Antigone”, dove i protagonisti erano ancora una volta i detenuti del carcere Sant’Anna, e soprattutto con l’”Odissea”, progetto nato a cavallo della pandemia, trasformatosi e adattatosi strada facendo, come il protagonista dell’opera. “Una forma complessa - ricorda Tè -. Un pullman che accoglieva il pubblico e che attraversava le due Carceri di Modena e Castelfranco Emilia. Il viaggio, la loro personale Odissea, che gli attori detenuti affrontavano e portavano al pubblico. Un narratore portava al pubblico in versi e parole quello che accadeva o che era accaduto”. Parole e immagini che si rincorrevano tra loro. “Ho un grande interesse per testi che hanno al centro l’umano, le fragilità, le ossessioni, il conflitto, la bramosia di potere - spiega il regista -. E in particolare le opere di Shakespeare ritengo che siano molto adatte al mondo del carcere”. Il sostegno “tecnologico” dei cittadini - Quello del Teatro dei Venti nelle Carceri è un vero e proprio presidio culturale, con una presenza costante nel corso dell’anno, a parte una pausa estiva. Questo radicamento ha consentito di proseguire le attività anche durante il lockdown, quando, dopo un periodo di sospensione, sono state attivate le prove da remoto in entrambi gli Istituti. Le attività sono state rese possibili dalle donazioni di computer e materiale informatico effettuate da diversi cittadini, che hanno risposto a un appello del Teatro dei Venti. I detenuti attori che frequentano i percorsi del Teatro dei Venti, compatibilmente con le disposizioni del magistrato di Sorveglianza e della Direzione, sono assunti e percepiscono una retribuzione per le prove e le repliche. E questo è il presente. Ma poi c’è il futuro. Non tutti i detenuti che partecipano ai corsi partecipano alla produzione ma “con l’Europa siamo in ballo con un progetto ambizioso che potrebbe accogliere nel mondo lavorativo anche figure professionali diverse”. E così dal buio delle carceri potrebbero nascere tecnici audio, del suono, scenografi. E iniziare una nuova vita. Da zero. Recitando da protagonisti la loro stessa vita. Milano. L’altra evasione al Beccaria. Con i valori del rugby, per imparare a vivere di Giorgio Temazi Corriere della Sera, 7 marzo 2023 “Siamo tornati al Beccaria tre settimane dopo l’evasione del 25 dicembre. Incontriamo i ragazzi per insegnare il rugby. Lo facciamo da 15 anni, ogni sabato. Con la speranza che i valori del rugby possano aiutarli a comprendere qualcosa di utile. Per vivere, più che per giocare”. Valerio Savino è il responsabile del progetto, varato nel 2007, dall’Associazione Sportiva Rugby Milano: uno sport basato sulla gestione dell’aggressività, proposto a ragazzi che con la propria aggressività fanno conti difficili. Una sfida, basata sull’ascolto; una squadra come opportunità contro la solitudine, perché un compagno che lotta e avanza per donare un vantaggio all’altro si trasforma in una rivelazione. Da ricambiare poco dopo: “Abbiamo svolto un allenamento il 24 dicembre, il giorno prima dell’evasione dei sette detenuti. Con noi quel giorno c’era don Gino Rigoldi. E grazie a lui che il nostro progetto ebbe inizio. Parlammo del Natale come di un momento critico, così come accade in agosto, quando viene percepito un vuoto profondo. Entrambi respiravamo un’aria strana, una tensione anomala, segno che qualcosa stava per accadere. Dal nostro rientro nell’istituto, in gennaio, quella tensione sembra attenuata. Però, dopo il clamore, dopo le prime pagine dei giornali e i proclami sull’urgenza di intervenire per migliorare le condizioni dell’istituto, ho la sensazione che nulla sia accaduto. Lo dico da semplice operatore che non conosce certi meccanismi istituzionali ma, insomma, tutto sembra rimasto come prima. So che don Gino sta facendo il possibile per riassestare il quadro educativo. Intanto però il Beccaria di oggi, a noi che lo frequentiamo una volta la settimana, pare identico al Beccaria del 2022. Lo dico sperando di sbagliarmi”. Gli educatori dell’AS Rugby Milano procedono lungo un percorso in salita. II turnover del carcere minorile comporta ricominciare quasi da zero ogni anno per dedicare un tempo lungo alla crescita di fiducia da parte dei ragazzi. Dentro una realtà in involuzione: “Il tema della criminalità giovanile mostra cifre impressionanti. I dati del Ministero segnalano incrementi a doppia cifra dei fenomeni delittuosi legati all’adolescenza. Incontriamo minori in grave disagio soprattutto dopo la pandemia, con una crescente attitudine a delinquere causata anche da un uso fuorviante dei social media. Questo richiede un atteggiamento nuovo, moderno e adeguato in termini educativi, che va dalle condizioni delle infrastrutture alla mentalità e all’esperienza degli operatori, come degli agenti di custodia. Il contributo che possiamo dare con il rugby non risolve ma può offrire un piccolo sostegno. Ci occupiamo di giovani che si trovano al Beccaria da più tempo e hanno una maggiore consapevolezza del percorso che stanno affrontando. Tanto è vero che nessun rugbista ha partecipato a quell’evasione”. Savino ha 48 anni, si occupa di sicurezza informatica, allena, oltre ai ragazzi del Beccaria, i giocatori del Milano che disputano il campionato di seria A. È convinto che questo progetto (supportato da Banca Popolare di Milano, Bmw Italia ed Edison), abbia un senso: “Sino a quando ci sarà un solo ragazzo disposto a mettersi in gioco, andremo avanti, con il desiderio di occuparci delle singole persone, accogliendoli senza giudicare. Aiutati da uno sport che trasmette atteggiamenti e messaggi positivi, al punto da smuovere la coscienza, la riflessione su se stessi. Nel rugby il prossimo non lo si imbroglia, non c’è simulazione o protesta. L’avversario è un compagno di strada. Giocando, alcuni ragazzi assimilano, si fanno addirittura promotori di una lealtà rivelata. L’importante, credo, è presentarsi non come professori ma come portatori di una attività giocosa, svincolati da qualunque altro interesse”. Rugbisti che tornano ogni settimana, a differenza di chi, magari, si presenta per qualche giorno all’anno e stop. “Ormai siamo visti - racconta - come fratelli maggiori. Gente che si trova lì per il piacere di esserci. Lo scorso agosto non potendo andare in ferie, ho preferito restare al Beccaria. Il fatto che un piccolo pezzo del mondo esterno si ricordi di questi ragazzi in modo semplice, senza gadget, senza pretendere nulla, credo possa aiutarli a ritrovare un filo di tenerezza, un po’ di fiducia”. Angelo Massaro, in cella 21 anni da innocente: “La mia storia in un film” di Nicolò Delvecchio Corriere del Mezzogiorno, 7 marzo 2023 Il docufilm “Peso morto” di Francesco Del Grosso racconta la storia di Angelo Massaro, finito in carcere a 29 anni per un omicidio mai commesso: ne è uscito solo 2017 dopo la revisione del processo. “Un’opera d’arte, ma un pugno nello stomaco. Il regista Francesco Del Grosso è riuscito a creare un capolavoro da una storia drammatica. E non perché sia la mia, ma perché parla di tutte le vittime del sistema giudiziario”. Angelo Massaro è uscito dal carcere nel 2017, a 21 anni da quando ci era entrato da innocente. Lo avevano condannato per l’omicidio di Lorenzo Fersurella, il suo migliore amico, e solo una tardiva revisione del processo gli ha consentito di uscirne da innocente. Il calvario di Massaro, iniziato a Fragagnano (Taranto) quando aveva appena 29 anni, è raccontato nel docufilm “Peso morto” e verrà proiettato oggi al Multicinema Galleria di Bari (ore 17.30) nell’ambito del Sudestival. Prodotto da Black Rock Film in collaborazione con l’associazione Errorigiudiziari.com, scritto dai giornalisti e fondatori della no-profit Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, in pochi mesi ha già vinto diversi premi e ha all’attivo anche una proiezione negli Stati Uniti. Massaro, come mai ha scelto di raccontarsi in un film? “Tutto è iniziato nel 2017, quando incontrai Lattanzi e Maimone poco dopo essere uscito dal carcere. Rimasero impressionati dalla mia storia al punto da propormi il docufilm, e ho accettato”. Chi andrà a vederlo cosa deve aspettarsi? “Di uscirne con un pugno nello stomaco. L’obiettivo non è né attaccare la magistratura né trasmettere pietà, ma solo sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema di cui si parla poco. I giudici, nella stragrande maggioranza dei casi, lavorano bene e trattano gli imputati come persone, non come numeri. I pochissimi che non lo fanno, invece, possono distruggere intere famiglie. Sto ancora aspettando le scuse di chi mi ha rubato 21 anni di vita”. Come è stato rivivere quel periodo? “Una sofferenza, necessaria però per dar voce ai tanti che vivono situazioni simili. Dietro la mia storia ce ne sono tante altre che nessuno conosce. E io continuo a vivere sulla mia pelle il pregiudizio dei miei compaesani”. All’epoca aveva una moglie di 22 anni, Patrizia, un bimbo di due e un altro di appena un mese... “Loro hanno sofferto tanto quanto me. I miei figli, Antonio e Raffaele, hanno frequentato le scuole in un paese diverso da Fragagnano perché venivano additati come “i figli dell’assassino”. Che risposta avete avuto dalla critica? “Ottima. In poco abbiamo già ricevuto il premio della Fondazione Libero Bizzarri, due primi posti al Parma Film Festival, una menzione speciale al film festival Extra Doc di Roma e riconoscimenti per la miglior regia al Salento Finibus Terrae di San Severo e all’Asti International Film Festival”. Chi l’ha aiutata in questi 21 anni? “Innanzitutto la mia famiglia, poi i miei avvocati Salvatore Maggio e Salvatore Staiano, che hanno fatto un miracolo. E Valentino e Benedetto di “Errori Giudiziari”. Mi hanno preso che ero un disadattato sociale e aiutandomi a ricostruire la mia vita. Quando sono uscito dal carcere non sapevo fare niente, non sapevo nemmeno cosa fosse l’euro”. Quando le e sbarre non fermano i pensieri di Gian Mario Gillio riforma.it, 7 marzo 2023 Un libro - quello di Annamaria Repichini - per andare oltre le sbarre, oltre i luoghi comuni, grazie all’arte della scrittura, del teatro, dell’incontro. Il nostro Paese è tra quelli con il maggiore sovraffollamento carcerario: 105,5 posti ogni 100, contro una media europea di 82,5. In Spagna il tasso di occupazione delle celle è del 73,6 per cento, in Germania dell’81,6 per cento, mentre la situazione francese, ricorda il sito Linkiesta è più simile a quella italiana, con il 103,5 per cento. Nel 2022 si contano purtroppo 214 morti nelle carceri italiane, 85 di queste per suicidio. 32 invece i decessi avvenuti per “cause da accertare” o “cause accidentali”. Accertamenti che spesso riconducono ad “atti suicidari”. Nel 2023, i suicidi sono già 6, l’ha ricordato pochi giorni fa a Torino in un incontro in Regione Emilia Rossi, componente del Collegio del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Il tema carceri (come quello dei Centri di permanenza “temporanea” per i rimpatri) e della loro inadeguatezza in termini di diritti - che nelle condizioni attuali non favoriscono il reintegro nella società - dovrebbe essere un tema dirimente e quotidiano della riflessione politica nazionale, come ricorda l’Articolo 27 della nostra carta Costituzionale che recita: “[…] Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato [cfr. art. 13 c. 4]”. Riabilitazione dei detenuti che la politica spesso ignora. In virtù di accordi congiunti fra Roma Capitale (nel caso di Rebibbia), il Ministero della Giustizia e il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, in alcune carceri italiane sono state attivate iniziative tese alla riabilitazione. Un racconto di vita (intrecciato con l’esperienza carceraria) è certamente quello di Annamaria Repichini. Un esordio d’infanzia difficile, “vissuta in una periferia romana degli anni ‘50, sino agli anni ‘60, tra la voglia di evadere […]; poi l’incontro con un personaggio affascinante e ambiguo […] e l’avventura di crescere una figlia e conquistare un’indipendenza economica nella Tor Bella Monaca degli anni ‘80”, ricorda il sito Noi Donne, per ricordare la presentazione del volume “Le sbarre non fermano in pensieri” prevista il prossimo 11 marzo a Roma. “Seguiamo Repichini - si legge sul sito della rivista Noi Donne esperienza editoriale che dal 1944 racconta l’universo femminile grazie all’intuizione di Laura Bracco, Nadia Spano e Rosetta Longo - oggi diretta da Tiziana Bartolini) - nel suo slalom attraverso attività commerciali, con momenti alti, come il gestire un negozio di abbigliamento tutto suo e poi l’impatto con il lato oscuro del benessere economico, con lo scivolamento verso attività sbagliate. Una discesa che porta Annamaria a sessantaquattro anni in carcere, catapultata in una realtà dura e per l’ennesima di fronte alla necessità di reagire, tirare su la testa, ricominciare a tessere rapporti, indagare su di sé, ridefinire la sua identità”. In carcere Annamaria s’innamora della scrittura. Il libro è il frutto di questa conquista. Patrizia Barbanotti (laureata in Storia presso l’Università di Firenze e in Scienze bibliche e teologiche presso la Facoltà valdese di teologia di Roma e predicatrice locale della Chiesa valdese), ha curato insieme all’autrice la redazione del volume: “Una conoscenza - ci dice -, quella con Annamaria, avvenuta attraverso la rete di solidarietà della mia chiesa. In passato, grazie alla pastora Letizia Tomassone - in sede di collettivo informa-carcere del centro sociale evangelico -, eravamo state sollecitate a lavorare sulla scrittura “dal carcere al femminile” e un fratello molto impegnato sul fronte del volontariato in carcere, mi mise in contatto con Annamaria. Nel tempo e a distanza, telefonicamente, si è stabilita una relazione che ha permesso di arrivare alla stesura di un vero e proprio libro. Attraverso questa relazione - rileva Barbanotti - posso dire che Aannamaria ha dato rilievo, anche attraverso i miei occhi, a cose positive della sua vita e al tempo stesso ha riflettuto su alcune risposte superficiali che si era data. Questo scambio di idee e sguardi sulle proprie vite, credo sia stato prezioso per tutte e due”. Annamaria Repichini nata nel 1951 a Trastevere, quarta di cinque figli, orfana di padre a soli cinque anni, consegue il diploma di terza media ma è costretta a lasciare la scuola per aiutare la famiglia. Una serie di azioni illecite la porterà nel 2015 a varcare la soglia di Rebibbia. Dove sperimenterà opportunità riabilitative incontrando l’arte teatrale, con la regia di Francesca Tricarico, fa esperienza di scrittura attraverso il laboratorio di Noi-Donne, si cimenta con la sceneggiatura con Ilaria Spada, vince un concorso di poesia, partecipando a corsi di disegno e dipingendo murales. Il volume “Le sbarre non fermano i pensieri”, sarà presentato l’11 marzo a Roma presso la libreria L’altra città alle 18,30 (Via Pavia 106). Rileggere Cesare Beccaria, alla ricerca di una giustizia disarmata di Michele Magno Il Foglio, 7 marzo 2023 Un nuovo studio di Philippe Audegean spiega perché spesso non riusciamo a cogliere l’effettivo carattere di novità dell’autore illuminista: è stato proprio il suo enorme successo a ridurlo, nel tempo, a una banale caricatura. Ha senso rileggere oggi un testo concepito oltre due secoli e mezzo fa, e sul quale sono stati già versati fiumi d’inchiostro? Ha senso se il suo autore si chiama Cesare Beccaria (1738-1794). Si dice che per meglio capire il presente e scrutare il futuro bisogna salire sulle spalle dei giganti del passato. Il figlio del marchese di Gualdrasco e Villareggio è stato innegabilmente un gigante del suo tempo. Pubblicato anonimo nel 1764 da una libreria livornese, “Dei delitti e delle pene” accese in tutta Europa un vastissimo dibattito sui fini e sui limiti della giustizia penale. Un “libriccino”, come lo definì suo nipote Alessandro Manzoni, che ha segnato una pietra miliare nella storia della civiltà giuridica occidentale (ma anche l’imperatrice Caterina II di Russia promosse una riforma del codice penale ispirata ai suoi princìpi). Una civiltà giuridica perennemente chiamata a confrontarsi con i quesiti fondamentali posti da Beccaria: perché punire? Come punire? Cosa proibire? Come giudicare? Eppure, secondo diversi studiosi il pamphlet ammirato dai philosophes dell’Encyclopédie e dai costituenti americani sarebbe soltanto un felice mosaico di vecchie idee, per giunta superate nella pratica giudiziaria. Ma, come osserva Philippe Audegean in un saggio fresco di stampa, forse non riusciamo sempre a coglierne l’effettiva novità proprio a causa del suo enorme successo, che lo ha paradossalmente banalizzato (Violenza e giustizia. Beccaria e la questione penale, il Mulino, febbraio 2023). Il docente di filosofia alla Sorbona, curatore di una prestigiosa edizione francese Dei delitti, si propone pertanto di dimostrare che quella di Beccaria non è semplicemente una brillante sintesi delle riflessioni sul diritto penale sviluppate da Montesquieu (l’unico “grande” a essere menzionato nella sua opera), ma una elaborazione originale che ha un preciso intento politico: quello di demolire il potere arbitrario dei magistrati, screditandone l’intero impianto teorico. Infatti, una delle tesi principali dell’illuminista lombardo è perentoria: il castigo legale non è un’espiazione o il ripristino dell’ordine turbato dal delitto. La pena è sempre un male, giustificato dalla sola necessità di prevenire mali futuri. Non è quindi altro che un “male necessario”. Egli formula queste asserzioni avvalendosi di una versione del “pactum subiectionis” che - diversamente da Hobbes - non legittima l’assolutismo come unico mezzo per arginare la forza disgregante degli interessi particolari. Il pessimismo antropologico di Beccaria, al contrario, prescrive una drastica contrazione del potere discrezionale del sovrano. Infatti, se alla base del contratto sociale c’è un compromesso coatto per sfuggire alla guerra di tutti contro tutti; se gli individui hanno acconsentito all’autorità con la morte nel cuore, si deve concludere che “Fu dunque la necessità che costrinse gli uomini a cedere parte della propria libertà: egli è adunque certo che ciascuno non ne vuol mettere nel pubblico deposito che la minima porzion possibile” (cap. II). In altri termini, gli esseri umani hanno accettato di essere puniti non per diventare migliori, ma con l’unico scopo di evitare la violenza. Le giaculatorie sulla redenzione e sul dolore che salva l’anima vengono coerentemente aborrite. Non solo i supplizi non purgano dai vizi e dalle passioni, ma non procurano nemmeno l’emenda del reo e la rieducazione del condannato (cap. XII). E se le sanzioni penali sono indispensabili per impedire alla collettività di precipitare nel caos, non ne segue che quanto più esse sono severe tanto più diminuisce la criminalità. Il sistema punitivo di antico regime era imperniato su tale assunto. Beccaria lo qualifica come un “funesto errore”: “Quelle pene e quel metodo d’infliggerle deve esser prescelto, che, serbata la proporzione, farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo” (cap. XII). Da questa istanza umanitaria deriva il capitolo più lungo e più celebre del libro, il XVIII, in cui vengono magistralmente smontati gli argomenti a sostegno della tortura e della pena capitale; e in cui viene altresì lucidamente perorata la depenalizzazione dell’adulterio, dell’omosessualità maschile, dell’infanticidio e del tentato suicidio. Allora da cosa dipende, si chiede Beccaria, la tendenza dominante all’inasprimento delle pene? In primo luogo, il danno che subisce una vittima innocente suscita sentimenti di rabbia e di vendetta. Questi sentimenti non hanno nulla di deprecabile, ma la funzione dello Stato è appunto quella di contenerne gli effetti. Inoltre, la religione cristiana ha alimentato una credenza irrazionale nel valore purificatore della sofferenza. Infine le leggi penali, ideate e applicate da magistrati che rappresentano gli interessi dei più potenti, esasperano la gravità dei delitti compiuti dai più poveri: debiti, furti e altri crimini contro il patrimonio (cap. XVI). Per frenare questa tendenza l’ordinamento penale deve prevedere un’ampia gamma di procedure e garanzie, imponendo anzitutto una rigida applicazione del principio di legalità. Se il giudice potesse scegliere le pene interpretando personalmente la loro opportunità sociale, verrebbe meno lo stato di diritto in quanto, facendo incombere sui cittadini la minaccia di una violenza arbitraria, instaurerebbe il regno del terrore, distruggendo la libertà politica. Per altro verso, il principio intangibile della presunzione d’innocenza deve proteggere l’imputato da ogni provvedimento intimidatorio anteriore alla sentenza. In mancanza di regole vincolanti per i magistrati, insomma, i cittadini si sentirebbero vulnerabili di fronte al pregiudizio o al capriccio delle autorità giudiziarie. Il legislatore deve quindi chiudere qualsiasi spazio all’interpretazione della legge penale da parte del giudice: le sentenze devono essere emanate automaticamente sulla scorta di prove accertate. In altre parole, va liquidato “l’intermediario dispotismo” dei magistrati. Come sottolinea Audegean, per comprendere la genesi di questa dura polemica bisogna trasferirsi nella città in cui prese forma: la Milano del Settecento, fulcro della società lombarda e importante provincia dell’impero asburgico. È qui che nel 1761 Beccaria comincia a frequentare il cenacolo di Pietro e Alessandro Verri. In quel periodo intorno ai due rampolli di una famiglia dell’alta borghesia meneghina si andava raccogliendo una gioventù irrequieta, che non si riconosceva nell’ambiente oligarchico dalla quale proveniva. A sua volta, questo conflitto generazionale era espressione di una crisi politica. L’amministrazione accentratrice di Vienna, infatti, incontrava l’accanita resistenza degli aristocratici milanesi, che rivendicavano la loro autonomia presentandosi come i depositari di una tradizione giuridica che garantiva la libertà delle istituzioni comunali. Imprevedibilmente, i giovani patrizi guidati dai Verri si schierarono sul fronte opposto a quello presidiato dagli esponenti del proprio ceto. Questa confraternita intellettuale anticonformista, decisa a condurre una battaglia senza esclusione di colpi contro le forze della superstizione, dell’ignoranza, del fanatismo, si rivolse all’intellighenzia dell’Illuminismo per perfezionare la propria formazione politica. Nell’estate del 1762, Beccaria leggeva il Contratto sociale di Rousseau e cercava in Helvétius e negli Scozzesi le radici di quell’utilitarismo che fin dal 1763, nel suo Discorso sulla felicità, Pietro Verri aveva riassunto nella formula: “Felicità pubblica o sia la maggior felicità possibile divisa colla maggior uguaglianza possibile”. Agli occhi degli Asburgo, questi “enfants terribles dell’aristocrazia milanese apparvero ben presto come un inatteso cavallo di Troia, capace di espugnare la fortezza oligarchica che circondava le province lombarde dell’impero” [Audegean]. Il capolavoro di Cesare, nato dal sodalizio con Pietro, divenne rapidamente il best-seller di una pubblicistica che si prefiggeva di guidare una ribellione contro il primato culturale di un ceto sociale le cui radici affondavano nella padronanza della “scientia iuris”. Per Verri e Beccaria, era una anacronistica scienza giuridica inadatta a misurarsi con i problemi della produzione, del commercio, della finanza moderne. Ecco perché la scienza economica doveva subentrare a quella dei giurisperiti, incapaci di fornire soluzioni e di orientare l’azione di governo. Non a caso il primo compito che Pietro affidò a Cesare all’inizio del loro sodalizio fu la redazione di un opuscolo sulle monete nel Ducato di Milano: all’amico chiedeva di esercitare le sue capacità non di giurista ma di matematico - capacità eccezionali che, sin dagli anni di collegio, gli erano valse il soprannome di “Newtoncino”. Subito dopo lo invitò a occuparsi della giustizia penale lombarda. Il nuovo scritto, revisionato e modificato dallo stesso Pietro, fu completato con i suoi quarantasette capitoletti nel 1766. Nello stesso anno venne inserito nell’Indice dei libri proibiti per la sua distinzione tra reato e peccato, laddove con una prosa asciutta aveva denunciato le storture della prassi forense, mettendo in realtà sotto accusa tutta la cultura penale europea. Nel 1816 il figlio di Beccaria Giulio allestì un’intera sala del palazzo milanese di via Brera per custodire i manoscritti del padre: un piccolo santuario domestico eretto in sua memoria. Quali sovrapporte agli ingressi della sala, commissionò a un ignoto pittore quattro tele a tempera. Mentre le ultime due sono dedicate alle lezioni universitarie di economia tenute da Beccaria dal 1769 al 1772, le altre due illustrano l’evento più memorabile della sua vita: la stesura delle diverse bozze dell’opera che gli aveva dato una fama internazionale. La prima tela raffigura il momento che precede la scrittura: quello dell’ispirazione civile. La Giustizia, velata e in ceppi, con aria affranta, è presentata da un Genio alato a Cesare. Questi, seduto sullo scrittoio, ruota le le spalle per volgere lo sguardo verso di loro. Lo spettatore intuisce che sta alzando la voce per restituire dignità alla giustizia. Nell’immagine della seconda tela lo si vede invece intento a scrivere il suo capolavoro. A dettarglielo è Minerva, cioè il lume della ragione. Nella grazia neoclassica della prima tela colpisce il volto mesto e chino della Giustizia. Ha le mani legate: è impotente, asservita. La sua condizione sembra quasi alludere al trionfo dell’ingiustizia. Colpiscono anche gli oggetti che stanno ai piedi della sua figura dimessa: un ceppo, su cui il boia esegue la decapitazione; e una spada, iconico attributo della Giustizia insieme alla benda e alla bilancia. Quale significato ha la presenza di questi oggetti? L’idea del pittore o, più probabilmente del committente, è che la Giustizia è afflitta e impotente perché le viene affidato il cruento ufficio di tagliare la testa ai condannati. La spada non compare nella tela come un attributo della Giustizia, bensì come la sua negazione. La Giustizia - l’autentica giustizia - si affaccia con i tratti della mitezza: è una figura disarmata. Il che tuttavia non risolve il suo rapporto con la violenza. Contrapponendosi all’eulogia della “potestas gladii”, Beccaria avverte pienamente il carattere inesorabile e tragico di quel rapporto: interprete di una nuova sensibilità umanistica, approda a una sua sofferta consapevolezza. Nella rappresentazione tradizionale, la spada era il fulgido emblema della giustizia che punisce la malvagità. È contro questa ideologia mistificante che insorge Beccaria. Beninteso, la violenza penale serve a combattere quella di chi delinque: ma sempre violenza resta. Ecco perché la figura della Giustizia è drammatica: non potendo rinunciare alla violenza, deve costantemente sforzarsi di farne l’uso minimo necessario. In fondo, è proprio questo concetto di “minimo necessario”, insieme cifra stilistica e nucleo filosofico dei Delitti, uno dei lasciti più preziosi di Beccaria per affermare una cultura garantista del diritto penale. Purtroppo, non paiono ancora sussistere le condizioni politiche acciocché il Parlamento italiano compia un risoluto passo in avanti su questa strada. Se il futuro è nel grembo di Giove, non resta che sperare in congiunzioni astrali più benigne. Rispetto per chi sceglie di morire di Dacia Maraini Corriere della Sera, 7 marzo 2023 Ma perché un uomo che consapevolmente decide di lasciare un mondo troppo doloroso e infelice deve trasferirsi in Svizzera per morire con dignità? Un caro amico, bravissimo scultore del legno, mi ha scritto da Berna dove è andato per darsi una morte dolce. Un breve messaggio di addio. A cui ho subito risposto cercando di dissuaderlo: “Sebastian, anche se sei malato e non hai più voglia di vivere, pensa che potresti ancora ridere; non è bello ridere insieme? Potresti bere un caffè e sentirti pronto ad affrontare una giornata anche difficile”. Ma mentre gli scrivevo ho capito che stavo dicendo delle sciocchezze. Sebastian Schadhauser, tedesco innamorato dell’Italia, ha avuto una vita difficile: il padre ucciso in guerra, la madre morta recentemente, la seconda moglie italiana con l’Alzheimer non lo riconosceva più, un tumore lo stava distruggendo, tutto questo gli aveva tolto il piacere di vivere, anche se non era all’ultimo stadio della malattia. Mi ha scritto Margarethe von Trotta che gli era molto amica, raccontandomi che avrebbero dovuto vedersi presto. L’aveva trovato sereno al telefono. “Anche l’amico che lo ha accompagnato mi ha detto che era tranquillo, anzi scherzava. Non aveva dubbi”. Eravamo tutte e due sorprese di questa sua scelta che non aveva comunicato agli amici fino all’ultimo momento. Ma perché un uomo che consapevolmente decide di lasciare un mondo troppo doloroso e infelice deve trasferirsi in Svizzera per morire con dignità? Ricordiamo che fino a meno di un secolo fa il suicidio era considerato un reato. L’idea nasce da una religione che ritiene la vita una proprietà divina di cui l’uomo non può disporre. Per alcune nazioni islamiche è ancora un reato. In Europa ormai in quasi tutti i Paesi il suicidio è considerato un diritto. Ma in Italia rimane un tabù. Non che sia reato per la legge (anche perché sarebbe difficile condannare un morto), ma praticamente è come se lo fosse, perché viene punito l’amico/l’amica che si tenga vicino chi vuole togliersi la vita. Il caso Cappato insegna: un uomo che per fare approvare una legge civile si espone e si autodenuncia accompagnando in Svizzera persone malate terminali o talmente infelici da non sopportare più la vita. Certo, si deve fare di tutto per dissuadere da una tale crudele decisione, ma bisogna anche avere rispetto per chi ha deciso, come Socrate a suo tempo, come Virginia Woolf, come tante altre persone serie e non devastate da malattie mentali, del proprio futuro. Migranti. Il piano del governo per scafisti, asilo e salvataggi: la Lega vuole la linea dura di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 7 marzo 2023 La Lega rilancia la stretta del decreto Salvini. Meloni a Cutro si impegnerà a riaprire il decreto flussi per almeno 100 mila lavoratori extra. La bozza ancora non c’è. Anzi, le bozze. Visto che al Consiglio dei ministri di giovedì a Cutro Giorgia Meloni vuole arrivare con un pacchetto di norme sull’immigrazione che possano dare seguito al monito del capo dello Stato, Sergio Mattarella a trasformare il “cordoglio in scelte concrete di Italia e Ue”. E all’appello di papa Francesco all’accoglienza. “Non saranno provvedimenti di facciata”, filtra da Palazzo Chigi, ma “l’inizio di un percorso articolato che affronta l’intero problema nella sua complessità”. E certamente non saranno una riproposizione di quei decreti sicurezza che peraltro la Corte costituzionale ha già bocciato. Si tenta così di disinnescare le polemiche dall’opposizione che hanno investito la premier e il governo. Per questo genera scompiglio la calendarizzazione proprio nella stessa giornata di giovedì alla Camera, in commissione Affari costituzionali, della stretta sui permessi di soggiorno voluta dalla Lega per porre fine ad alcune “discrezionalità” delle commissioni nel concederli con un ddl che torna al decreto Salvini. Ma dal governo si smentiscono dissidi: “La sintesi sarà trovata come sempre”. Si lavora su tre direttrici: la lotta al traffico, l’accoglienza e il pressing sull’Unione Europea. Tuttavia il pacchetto non potrà non tenere conto anche di una revisione della gestione del soccorso in mare. La “falla” nella catena delle competenze, che ha contribuito, almeno in parte, al naufragio, va sanata subito. E in queste ore si valuta la possibilità di rivedere l’assetto normativo e di procedure per rendere più chiaro a tutti ciò che la premier Meloni ha dichiarato in ogni occasione: “Prima di tutto occorre salvare le vite umane”. In questo caso potrebbero bastare nuove circolari dei ministeri competenti per la redistribuzione dei compiti delle forze in campo subito dopo la segnalazione di pericolo o l’arrivo di un Sos. Sull’accoglienza la premier Meloni arriverà a Cutro forte di un impegno a riaprire il decreto flussi per almeno 100 mila lavoratori extra Ue. Un provvedimento che potrebbe avere durata biennale. Con una quota premio di ingressi per quei Paesi che firmano accordi per il rimpatrio di migranti illegali. E si tenterà di rendere più efficace anche la normativa sull’asilo e la protezione umanitaria. Per questo si apriranno corridoi umanitari anche con la cooperazione di quelle associazione in grado di garantire l’accoglienza, così come già accaduto per gli ucraini. Sul traffico di esseri umani l’intenzione è di usare il “pugno duro” con gli scafisti, una parte della maggioranza già pensa a un inasprimento delle pene. In realtà le norme già ci sono, così come la previsione di pene molto alte per chi compie il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e per questo ci si confronterà con il Quirinale sull’opportunità di procedere per decreto. La strada passa comunque per una politica che combatta le organizzazioni criminali nei Paesi d’origine. Impegno già sottoscritto nel vertice dei Paesi del Med 5 di cui fanno parte Italia, Cipro, Grecia, Malta e Spagna. Di tutto questo occorrerà discutere con l’Ue perché è vero che anche dopo quest’ultimo naufragio le autorità di Bruxelles hanno promesso massimo impegno, ma è pur vero che finora tutte le dichiarazioni che negli anni avevano assicurato vicinanza e cooperazione all’Italia non si sono mai tradotte in provvedimenti concreti. Ecco perché si tornerà a chiedere maggiore sensibilità sul tema dei ricollocamenti, ribadendo la necessità che sia istituito “un meccanismo di solidarietà permanente e obbligatorio”. Un passo che prevede ormai necessariamente la modifica del trattato di Dublino che impone l’accoglienza, l’identificazione e la permanenza nel Paese di primo sbarco. L’Italia chiederà per questo anche una norma che - in caso di soccorso in mare durante una operazione di salvataggio e non di polizia - consenta ai naufraghi di poter essere subito trasferiti in un altro Paese Ue senza rimanere dove sono sbarcati. Migranti. “Salvare vite è un dovere”. Ma fa litigare i magistrati di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 7 marzo 2023 Strage di Cutro. Le correnti di destra e di centro delle toghe attaccano il documento approvato dal parlamentino dell’Anm che ricorda Costituzione e doveri internazionali del nostro paese: così si fa politica. L’Associazione nazionale magistrati ricorda al governo che “l’obbligo di salvataggio in mare è inderogabile” e vale per tutti e che “nessuna norma potrà mai imporre ad alcuno di non fuggire dai paesi dove la guerra o la miseria impediscono l’accesso a condizioni di vita dignitose”. Lo fa approvando un documento proposto dalle correnti di sinistra, rinviato sabato dall’ordine del giorno del Comitato direttivo nazionale, ma poi ripreso domenica in chiusura dei lavori. Lo fa con un solo voto di scarto, quando qualche sedia era già vuota e grazie al voto favorevole di due toghe (una di Unicost e una di Articolo 101) appartenenti a gruppi che avevano dichiarato voto contrario. Favorevoli Area democratica per la giustizia e Magistratura democratica, le due correnti che hanno presentato documenti diversi e li hanno poi messi assieme. Rinunciando, nel testo finale, a qualche passaggio in si chiedeva di fare luce sulle responsabilità dei mancati soccorsi o si proponeva l’apertura di canali regolari di migrazione. Tentativi di trovare una convergenza, inutili. Il giorno dopo, ieri, la corrente di destra e quella moderata, Magistratura indipendente e Unità per la Costituzione, prendono le distanze dal documento, malgrado sia stato approvato. Per Mi l’immigrazione - ma qui parliamo di una strage - è “un tema controverso” e “non è consentito all’Anm emettere comunicati pro o contro l’indirizzo politico del governo”. Altrimenti “si rischia di trasformare l’Anm in un partito dei giudici con effetti nocivi per la credibilità dell’intera magistratura”. Mentre per Rossella Marmo, presidente di Unicost, “fare riferimento alle dichiarazioni del ministro (Piantedosi, ndr), senza citarlo è fortemente inopportuno, rischia di coinvolgere la magistratura in una polemica politica dalla quale dovrebbe mantenersi estranea”. Argomenti simili li aveva espressi già domenica Gasparri di Forza Italia. Che ieri ha idealmente abbracciato le toghe di centrodestra, felice perché “non sono più il solo a dire la verità”. “Crediamo che la magistratura non possa restare estranea al dibattito sui diritti - è la replica alle critiche di Stefano Musolino, segretario di Md - perché anche tacere ha un significato politico. Nell’Anm si sono confrontate due idee di magistratura: una chiusa in una torre eburnea, una consapevole che solo il confronto sui diritti le restituirà legittimazione. Siamo contenti di avere contribuito a fare prevalere questa su quella”. Migranti. Un team di avvocati indaga sulla strage a Cutro Simona Musco Il Dubbio, 7 marzo 2023 Il monito di Mattarella: “Dopo il cordoglio servono scelte concrete”. Il procuratore di Crotone: “Perché nessuno è intervenuto? Bella domanda”. “Di fronte all’evento drammatico che si è consumato” davanti alle coste calabresi, “ma ancor più a quel che questo raffigura di condizione drammatiche” in Afghanistan “come in altri Paesi, il cordoglio deve tradursi in scelte concrete, operative, da parte di tutti: dell’Italia, per la sua parte, dell’Unione europea, di tutti i Paesi che ne fanno parte, perché questa è la risposta vera da dare a quel che è avvenuto, a queste condizioni che, con violazioni di diritti umani e della libertà, colpiscono tutti, in qualunque parte del mondo”. Dopo esser stato in silenzio davanti alle bare in fila sul parquet del Palasport di Crotone, trasformato in camera ardente dopo il tragico naufragio di migranti a Steccato di Cutro che è costato la vita ad almeno 70 persone, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha lanciato un monito alle istituzioni, intervenendo a Potenza all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università della Basilicata. Un messaggio breve ma forte, quello del Capo dello Stato, che ha richiamato il governo e l’Ue alle proprie responsabilità nella gestione del fenomeno migratorio. “In qualunque comunità - ha sottolineato - la libertà non è effettiva se non è appannaggio di tutti e il mondo intero è ormai sempre più una comunità raccolta, con ormai nessuna distanza effettiva, interconnessa, dentro la quale la mancanza di libertà colpisce tutti, ovunque. Questo richiamo è per noi particolarmente avvertito in questi giorni” dopo la tragedia di Cutro, “che ha coinvolto interamente la commozione del nostro Paese”. Mattarella ha ricordato quanto avvenuto solo due anni fa a Kabul, con l’occupazione da parte dei Talebani, evento che ha spinto l’Italia ad accogliere le persone in fuga. Immagini terribili, quelle di quei giorni, che fanno comprendere “il perché intere famiglie, persone che non vedono futuro, cercano di lasciare con sofferenza, come sempre avviene, la propria terra, per cercare un avvenire altrove, per avere possibilità di un futuro altrove”. Una risposta implicita, forse, alle parole con le quali il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha giudicato le partenze di migliaia di disperati, quasi colpevoli del loro tentativo di sfuggire a morte certa nel proprio Paese. Il team di avvocati a sostegno delle vittime - In attesa delle mosse della procura e del Consiglio dei ministri convocato a Cutro giovedì 9 marzo, a Crotone si è costituito un pool di avvocati - Luigi Ligotti, Mitja Gialuz, Vincenzo Cardone e Francesco Verri - che assisterà gratuitamente alcune delle famiglie delle vittime. I filoni di indagine della procura, al momento, sono due: uno che vede indagati quattro presunti scafisti e un altro sulla macchina dei soccorsi. Nell’ambito del primo fascicolo, la prossima settimana, si terrà l’incidente probatorio. “Il secondo procedimento - spiegano gli avvocati Luigi Ligotti, Mitja Gialuz, Vincenzo Cardone e Francesco Verri - mira a raccogliere gli elementi per valutare se ci sono responsabilità per il mancato soccorso in mare. In entrambi i procedimenti forniremo il nostro attivo contributo - anche per mezzo di ricerche e investigazioni difensive - per accertare i fatti e perseguirli se risulteranno provati”. Nelle prossime ore verranno nominati dei consulenti, in grado di guidare il team di avvocati nell’interpretazione delle procedure e delle comunicazioni che sono avvenute (o non avvenute) la notte tra sabato 25 e domenica 26 febbraio. “Quello che vogliamo capire è cosa sia successo, dalla partenza all’arrivo, se così possiamo chiamarlo”, spiega al Dubbio l’avvocato Verri. Nelle mani dei legali c’è intanto il rapporto di Frontex - che secondo la premier Giorgia Meloni non avrebbe avvisato le autorità italiane del pericolo - un documento “stringato ma importante”, evidenzia Verri. L’Agenzia europea, alle 23.03 di sabato 25 febbraio, ha avvisato la centrale operativa della Guardia costiera di Roma, il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e il Nucleo di coordinamento centrale del ministero dell’Interno della presenza del caicco, fornendo le coordinate dell’imbarcazione. Ma non solo: nella mail spedita alle autorità italiane si segnalava la possibile presenza di persone sottocoperta, nonché “una telefonata satellitare dalla barca verso la Turchia”, i “boccaporti a prua aperti”, nessun salvagente visibile e una “significativa risposta termica” degli stessi. “Di notte, d’inverno, perché i boccaporti dovrebbero essere aperti? Perché c’è qualcuno sotto coperta. C’era una nave, di notte, con mare forza 4 e previsioni serie di peggioramento rimasta a navigare tutta la notte fino alla tragedia. Questo è un dato di fatto”, rileva Verri. La procura di Crotone, intanto sta “lavorando in maniera puntuale, non ci stiamo fermando un attimo - ha dichiarato il procuratore di Crotone, Giuseppe Capoccia -. Stiamo acquisendo tutti gli elementi connessi a questa vicenda e ciò che riguarda i momenti precedenti al disastro. Ma siamo già a un buon punto di ricostruzione della rete di comunicazioni che sono avvenute prima dell’evento”. E sul perché nessuno abbia soccorso l’imbarcazione il procuratore si è limitato a dire: “Bella domanda”. L’indagine aperta a Roma - Intanto anche la procura di Roma ha aperto un fascicolo - senza ipotesi di reato e senza indagati -, dopo l’esposto depositato dall’avvocato Fabio Anselmo per conto dei parlamentari di Avs Angelo Bonelli, Ilaria Cucchi, Giuseppe De Cristofaro, Devis Dori, Eleonora Evi, Aurora Floridia, Nicola Fratoianni, Francesca Ghirra, Marco Grimaldi e Luana Zanella, finalizzato a far emergere eventuali responsabilità politiche. “Dal 2019 - si legge nell’esposto - l’Italia ha iniziato a distinguere le situazioni di immigrazione illegale da quelle di ricerca e soccorso urgente (Sar), cui corrispondono procedure, mezzi e perfino “culture” di intervento diverse”. L’evento, come noto, è stato gestito dalle Fiamme Gialle come ipotesi di immigrazione illegale, mentre la predisposizione di un evento Sar avrebbe consentito di spedire in mane le motovedette “praticamente inaffondabili” della Guardia Costiera. Ma chi classifica l’evento? “Le autorità a terra”, ha spiegato alla stampa Vittorio Alessandro, ammiraglio in congedo della Guardia costiera. “L’evento doveva dunque essere classificato immediatamente come caso Sar - continua l’esposto -. Riteniamo che sia necessario approfondire se vi siano state disposizioni ministeriali che abbiano impedito l’uscita in mare della Guardia Costiera”. Migranti. La lotta ai trafficanti non risolve: per fermare l’ecatombe servono vie d’accesso legali di Rocco Vazzana Il Dubbio, 7 marzo 2023 Al momento l’unica opzione disponibile per i migranti è quella offerta dai criminali. “I trafficanti di esseri umani siano fermati”, invoca il Papa dopo la strage di Cutro, appello subito rilanciato dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Parole sante, verrebbe da dire, ma non esaustive. Perché un conto è puntare il dito contro le organizzazioni criminali che gestiscono la roulette delle partenze, un conto è pensare di eliminare il problema trattenendo più o meno forzatamente decine di migliaia di profughi al di là del Mediterraneo o ammassando esseri umani in un campo turco. Se muori in mare o in un “lontano” lager libico la sostanza è identica, cambia solo il senso di colpa, alleggerito, di chi pretende il lusso di non guardare. L’attività dei trafficanti, del resto, risponde alla più elementare delle regole del mercato basata su domanda e offerta. E alla biblica domanda di una vita al riparo da guerre, persecuzioni, fame e carestie l’unica offerta disponibile, al momento, è quella criminale. Senza contare il fatto che chi oggi al governo invoca misure radicali per impedire nuove Cutro, fino a ieri ha fatto di tutto per rendere impossibile l’attività di salvataggio in mare persino alle Ong, definite “pull factor”, fattori di attrazione, per i migranti, invogliati a partire, secondo questa logica, dalla consapevolezza che in mare qualcuno li avrebbe salvati. Il disincentivo alla fuga, secondo queste argomentazioni, dovrebbe essere dunque la morte probabile, la stessa a cui la maggior parte dei profughi andrebbe incontro se non lasciasse disperatamente la propria regione di provenienza. L’unica alternativa reale per salvare vite umane è quella di moltiplicare le vie d’accesso legali ai Paesi europei di destinazione. Che non significa solo aprire corridoi umanitari - quasi sempre gestiti dal mondo dell’associazionismo religioso, in virtù di un Protocollo d’intesa col governo italiano - ma gestire a livello statale ed europeo i viaggi dei migranti. Per capire la marginalità statistica dei corridoi umanitari basta dare un’occhiata ai numeri forniti dalla Comunità di Sant’Egidio, l’organizzazione che gestisce la maggior parte degli ingressi protetti. Da febbraio 2016 al maggio 2022 (data degli ultimi dati disponibili) hanno raggiunto l’Europa in sicurezza “4.679 persone”, si legge sul sito del movimento d’ispirazione cattolica. “I paesi di origine dei rifugiati più rappresentati sono Siria (67 per cento) ed Eritrea (15,1 per cento); a seguire Afghanistan, Somalia, Sud Sudan, Iraq e Yemen”. Di questi profughi arrivati in sei anni, 3.955 sono stati trasferiti in Italia, gli altri in Francia (546 persone), in Belgio (150), nel Principato di Andorra (16), gli altri tra Germania e Svizzera. Numeri importanti, senza alcun dubbio, ma risibili se confrontati con le richieste d’asilo politico. Nel solo 2021, secondo i dati Eurostat, i Paesi Ue hanno ricevuto circa 535mila domande di protezione, un numero quasi raddoppiato nel 2022, 966 mila, secondo uno studio pubblicato dall’Euaa, l’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo. I soli corridoi umanitari, alla luce di questi dati, non possono dunque bastare. Nessuna legislazione deterrente impedirà a una popolazione così numerosa e variegata di mettersi in viaggio per scampare a un destino quasi sempre segnato, come crede il ministro dell’Iterno Matteo Piantedosi. E a occhio non funzionerebbe nemmeno “raggiungere tutte le popolazioni in difficoltà e fargli presente che quei viaggi non sono come vengono dipinti dai trafficanti di uomini che fanno pagare anche 7mila euro, come nel caso della tragedia di Crotone, ma sono viaggi molto rischiosi e si può morire”, come suggerisce il vice presidente della Camera Fabio Rampelli. Per scongiurare nuove Cutro (ma sono 26mila i morti nel Mediterraneo negli ultimi 10 anni secondo l’Oim) l’unica alternativa è un ripensamento radicale delle politiche dell’accoglienza in Italia e in Europa. Non sarà il sequestro di una nave da soccorso a fermare le partenze, né lo smantellamento di alcune organizzazioni criminali. E neanche stringere accordi col governo libico. Il Mediterraneo è solo una parte di un viaggio lunghissimo che spesso dura parecchi anni. E l’Italia, nella maggior parte dei casi, è solo una nuova tappa, non la destinazione. “I trafficanti di esseri umani siano fermati”, sì. E a chi fugge venga offerta la possibilità di farlo in sicurezza. Una bagnarola pronta ad affrontare le onde salterà fuori sempre. Migranti. Panchine al posto dei letti, bagni promiscui: i superstiti del naufragio trattati come animali di Giuseppe Legato La Stampa, 7 marzo 2023 La denuncia dei legali: “I 98 sopravvissuti nell’ex Cara in condizioni disumane”. Nove giorni fa l’imbarcazione turca Summer Love partita il 22 febbraio da Smirne si è schiantata in una secca a pochi metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro: più di 70 morti, di cui 16 bambini. Una strage. Dal giorno dopo i 98 sopravvissuti sono ospitati nei locali dell’ex Cara di Crotone, una struttura travolta anni fa dall’articolata inchiesta del procuratore Nicola Gratteri e che oggi torna al centro della bufera. Perché, pare di capire da autorevoli testimonianze di chi c’è stato dentro, “ospiti” è la parola sbagliata. “Sono trattenuti in forma arbitraria in due capannoni inadeguati non solo per chi è scampato a un naufragio terribile, ma per qualunque essere umano. Vanno chiusi”. La voce della professoressa Alessandra Sciurba, docente all’università di Palermo e coordinatrice della Clinica legale Migrazione e diritti, racconta l’altra faccia della tragedia di Steccato di Cutro. “Da un lato c’è un paese che si commuove, dall’altro ci sono persone che si vedono negati i propri diritti”. Insieme a Franco Mari, parlamentare di Alleanza Verdi-Sinistra è entrata l’altroieri in quei locali che - assicura - “sarebbero utili come spazio coperto per un gregge di pecore”. Precisazione: “Mi creda: siamo rimasti allibiti da quanto abbiamo visto: è una situazione che forse si può accettare in emergenza per 4 ore dopo lo sbarco. Il resto è illegale”. Così dunque stiamo trattando i “survived”, uomini, donne e bambini riusciti ad arrivare a riva senza farsi inghiottire dal mare nella maledetta notte del 25 febbraio: “Ci sono una quarantina di letti con materassi di gomma piuma senza lenzuola, altri cinquanta o sessanta dormono su panche di ferro; donne e uomini condividono lo stesso bagno, ergo, per le signore, è impossibile fare una doccia. Hanno solo le ciabatte estive, le scarpe che sono arrivate sono calzature sbagliate. Nei capannoni non c’è riscaldamento”. Ancora: “Non possono uscire quando vogliono, non possono andare a trovare le salme dei loro parenti se non scortati dalle forze di polizia, non possono condividere il lutto con i parenti arrivati da tutto il mondo”. Il punto è che non si capisce in quale regime tecnico-politico sono trattenuti lì dentro: “Se fosse un hotspot ci vorrebbe la convalida di un giudice e invece non c’è”. Su questo aspetto si è a lungo concentrato, negli ultimi giorni, il lavoro di un pool di legali e accademici dell’Asgi, associazione che si concentra sugli aspetti legali dell’immigrazione tra cui diritti umani e diritto marittimo internazionale. La nota dell’avvocato Lidia Vicchio è un coraggioso atto d’accusa alle istituzioni: “Dall’osservazione diretta all’ex Cara abbiamo rilevato l’assenza totale di indicazioni chiare e precise da parte del governo e della Prefettura di Crotone, l’assenza di una cabina di regia, anche per garantire supporto ai familiari delle vittime del naufragio, e una gestione scaricata completamente sull’amministrazione locale e sulle associazioni locali e non, che erano presenti”. Temi tecnici, che però sono diritti. I sopravvissuti non dovrebbero stare lì dentro “ma nei centri di accoglienza straordinaria (Cas) istituiti con decreto (142/2015) del ministero dell’Interno, nei quali la permanenza è limitata alle esigenze di prima accoglienza e per l’espletamento delle operazioni necessarie alla definizione della posizione giuridica”. E una volta espletati gli adempimenti, vanno trasferiti nelle strutture Sai (Sistema di accoglienza e integrazione). Il trasferimento - sostiene la legale - “non è un’opzione, ma legge” e “a tutt’oggi gli ospiti sono trattenuti, senza alcuna distinzione di genere, compresi i minori, in un unico locale”. Eppure i posti nei Sai “c’erano e ci sono, e di ciò era stata informata anche la Prefettura di Crotone; solo in provincia di Cosenza già dall’1 marzo, erano stati rintracciati ben 44 posti immediatamente disponibili che potevano, e possono, accogliere i superstiti”. Al 3 marzo scorso, data del sopralluogo del pool di Asgi ci sarebbero - se possibile - altri diritti calpestati: Quali? “Lo straniero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi dove vengono effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico ed è assicurata l’informazione sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di ricollocazione in altri Stati membri dell’Ue”. Nemmeno questo. Regno Unito. La mossa di Sunak: gli “irregolari” deportati in Ruanda di Francesco Oppi europa.today.it, 7 marzo 2023 Il premier Sunak: “Chi arriva qua illegalmente non potrà più restare”. La proposta di legge per fermare il boom di immigrazione clandestina dopo la Brexit. Niente diritto all’asilo per chi arriva nel Regno Unito a bordo di un barcone. Ma anche divieto a vita di ingresso nel Paese, anche legalmente, per i migranti che almeno una volta hanno tentato, con il supporto o meno dei trafficanti, di attraversare la Manica partendo dalle coste del Nord Europa. Sono questi due dei punti più controversi del piano che il governo del primo ministro britannico Rishi Sunak dovrebbe presentare questa settimana per rispondere al boom di immigrati clandestini che raggiungono il Regno Unito via mare. Un fenomeno esploso soprattutto dopo la Brexit. I dettagli del disegno di legge, che dovrebbe essere presentato in parlamento il 7 marzo, non sono ancora noti. Ma sui media sono emersi ampi stralci della bozza, che prevederebbe l’espulsione immediata dei “clandestini” a prescindere se abbiano diritto o meno all’asilo. Per loro, verrebbe attuato un bando a vita da ogni futuro nuovo tentativo d’ingresso nel Regno Unito e divieto di richiedere un passaporto britannico per sempre. Il piano era stato lanciato l’anno scorso dall’ex premier Boris Johnson, ma il nuovo leader Sunak ha reso il testo ancora più severo. L’ulteriore giro di vite mira a provare a rendere concreto l’impegno post Brexit di ridurre gli arrivi di migranti clandestini. Se prima dell’uscita dall’Ue, il flusso passava principalmente attraverso il tunnel della Manica (con migranti stipati dentro i camion), con la Brexit la strategia dei trafficanti si è avvicinata a quella dei “colleghi” del Mediterraneo: dalle coste di Francia e Belgio, sono sempre di più le piccole imbarcazioni che partono alla volta del Regno Unito. Secondo i dati del ministero dell’Interno britannico, nel 2022 oltre 45mila persone hanno raggiunto illegalmente il Paese, rispetto alle 28mila dell’anno precedente, mentre quest’anno sono già 3mila i migranti che hanno solcato il canale su piccole imbarcazioni. Sunak ha evocato la necessità di un sistema più efficiente “di freno” per scoraggiare coloro i quali si affidano agli scafisti e alle gang criminali che “lucrano sul traffico di esseri umani”. E per garantire in modo effettivo “il controllo dei confini” del Regno Unito. L’obiettivo è contrastare in primis “le piccole imbarcazioni” che attraversano il Canale sfidando il pericolo concreto di naufragi e tragedie. “Sia chiaro, chi arriva qua illegalmente non potrà più restare”, ha tagliato corto. Attualmente chiunque giunga nel Regno Unito ha diritto di ricevere asilo in base alla Convenzione europea sui diritti umani e alla Convenzione sui rifugiati delle Nazioni unite. Ma il governo vuole aggirare tali convenzioni inviando i richiedenti asilo giunti illegalmente in Paesi terzi sicuri. Nell’aprile scorso, il governo Johnson aveva raggiunto un accordo con il Ruanda: finanziamenti al Paese africano in cambio dell’accoglienza dei clandestini giunti nel Regno Unito. L’accordo non è stato finora messo in opera per via di una serie di ricorsi da parte delle ong, ma lo scorso dicembre l’Alta corte di Londra ha dato ragione all’esecutivo, stabilendo che la deportazione è in linea con le leggi britanniche. Il Consiglio per i rifugiati, la principale ong britannica del settore, si è espresso contro un tale scenario, accusando i ministri di aver infranto gli impegni presi dal Regno Unito con la firma e la ratifica delle convenzioni internazionali. Secondo il direttore generale del Consiglio, Enver Solomon, questo tipo di legislazione “imperfetta” non fermerà le piccole imbarcazioni e rischia di trasformare in criminali coloro che sono in fuga dalla guerra: “Tutto ciò è inattuabile e costoso”, ha evidenziato Solomon ai microfoni della Bbc. “Questa legislazione non ridurrà le morti nella Manica, né il caos e l’incompetenza che caratterizzano il nostro sistema d’asilo”, ha dichiarato Sonya Sceats, amministratrice delegata di Freedom from torture. Altre critiche sono arrivate dalla Croce rossa, secondo cui questi piani sono “estremamente preoccupanti”. Tunisia. La Banca mondiale sospende i negoziati dopo le dichiarazioni di Saied contro i migranti di Leonardo Martinelli La Repubblica, 7 marzo 2023 La Banca mondiale blocca il suo partenariato con la Tunisia. E così, almeno per il momento, tutti i futuri finanziamenti al Paese maghrebino, che pure, in una fase di crisi economica grave, ne ha un disperato bisogno, saranno congelati. La ragione? “Le dichiarazioni di Kais Saied - si legge in una nota interna, resa pubblica da alcuni media - sui migranti dell’Africa subsahariana hanno provocato atti di persecuzione e violenze a carattere razzista”. Insomma, si tratta di una sorta di condanna internazionale della Tunisia per razzismo. E le conseguenze per il Paese possono essere dolorose, perché la Tunisia si trova per le finanze pubbliche sull’orlo del default. Per evitare tale evenienza, sta aspettando da mesi che il Fondo monetario internazionale le accordi un prestito di quasi due miliardi di dollari. Il via libera, però, non arriva mai e probabilmente a sfavore di Tunisi gioca proprio l’enigmatico e inclassificabile personaggio che si ritrova come presidente. Ecco, il fatto che ora la Banca mondiale blocchi i suoi fondi, almeno temporaneamente, può influenzare in maniera negativa il processo di approvazione del prestito dell’Fmi. Tutto è iniziato lo scorso 21 febbraio, quando Saied ha dichiarato che “misure urgenti” erano necessarie “contro l’immigrazione clandestina dall’Africa subsahariana”, parlando di “orde di migranti clandestini” il cui arrivo rappresenta “un’impresa criminale ordita per cambiare la composizione demografica della Tunisia”. Ha fatto riferimento esplicitamente alla teoria della “grande sostituzione”, sposata in Europa dall’estrema destra più becera, come se i migranti subsahariani arrivassero in Tunisia per sostituirsi alla componente arabo-musulmana della popolazione e non per procurarsi in qualsiasi modo un passaggio in un barcone in direzione di Lampedusa (quello che la maggioranza intende fare). Secondo i dati ufficiali, i subsahariani residenti nel Paese sarebbero circa 21mila ma certe stime arrivano fino a 50mila. Le parole di Saied hanno provocato aggressioni nei confronti dei migranti e molti di loro hanno perso da un giorno all’altro le case che affittavano e il lavoro (spesso l’unico modo di procurarsi le risorse per pagare agli scafisti un passaggio verso l’Italia). La situazione è talmente tesa che certi Paesi africani, come la Costa d’Avorio, il Mali e la Guinea, hanno organizzato voli aerei per riportare in patria i loro cittadini. La nota interna della Banca mondiale è firmata da David Malpass, il presidente. Lui spiega che la sua istituzione non può proseguire le proprie missioni sul posto, dato che “la sicurezza e l’inclusione dei migranti e delle minoranze fanno parte dei valori centrali d’inclusione, di rispetto e di antirazzismo”, propri alla Banca Mondiale. Fonti vicino all’istituzione, comunque, sottolineano che “i progetti finanziati attualmente lo resteranno e quelli in corso andranno avanti” ma “fino a nuovo ordine” non saranno varati nuovi finanziamenti a un Paese che economicamente sta scivolano verso il baratro. Per calmare le acque, domenica sera, la presidenza tunisina aveva annunciato facilitazioni per regolarizzare i subsahariani rimasti (ma senza presentare nessuna scusa). Queste misure, secondo Malpass, vanno “nella buona direzione” e la Banca Mondiale “ne valuterà e sorveglierà con attenzione l’impatto”. Ma, all’apparenza, non sono sufficienti. Nella nota il presidente della Banca mondiale ricorda che “la Tunisia ha una lunga tradizione di apertura e di tolleranza che è incoraggiata da molte persone all’interno del Paese”.