Perché adesso Alfredo Cospito deve smettere lo sciopero della fame di Gianfranco Pellegrino Il Domani, 6 marzo 2023 Lo sciopero della fame dell’anarchico Alfredo Cospito contro il regime carcerario del 41 bis ha avuto successo perché ha suscitato un pronunciamento dell’Onu che ribadisce alcuni principi minimi sul trattamento dei detenuti. Nonostante sia ancora al 41bis, Cospito ha vinto, in un certo senso, la sua battaglia. Ma a questo punto c’è il serio rischio che continuare su questa strada sia inutile. Anzi, c’è il dubbio che diventi nocivo o controproducente. Su questo giornale ho sostenuto che quello dell’anarchico Alfredo Cospito non è un ricatto. Non lo è perché un ricatto consiste nel minacciare una ritorsione, nel costringere la vittima a fare qualcosa che non è dovuto, né giusto. Cospito invece fa appello a ragioni morali che egli ritiene fondate e ne fa testimonianza col suo digiuno, nell’unica maniera che ritiene possibile. Ma, proprio alla luce di questo, ora Cospito dovrebbe smettere lo sciopero della fame. Questo perché la testimonianza di una posizione morale, proprio come la disobbedienza civile, risponde a una logica di efficienza, a considerazioni strumentali. Lo sciopero della fame di Cospito, come quello di altri nel passato, non è un ricatto perché non vuole costringere ad azioni che lo stesso ricattatore sa essere immorali, ma è un mezzo per persuadere, per forzare gli interlocutori e la società a compiere atti che si ritengono giusti. È la coercizione esercitata da quelle che Cospito ritiene ragioni morali contro il 41bis, che si sia d’accordo o meno. E la forza coercitiva della morale non è mai un ricatto. Lo sciopero - Ma, nella situazione in cui siamo adesso, il suo sciopero della fame o ha avuto tutto il successo che poteva o è diventato inutile. Ha avuto tutto il successo che poteva, perché ci ha costretto a parlare del 41bis e delle sue logiche e ha indotto alcuni di noi a pensare meglio a uno strumento nato per obiettivi legittimi e condivisibili, ma che può essere stravolto e snaturato dal suo uso disinvolto. Ha avuto successo perché ha indotto, nonostante la confusione che Cospito stesso ha incautamente ingenerato, a distinguere fra mafiosi e anarchici, fra chi dà sicuramente ordini agli sgherri e chi si pone come ispiratore, tutt’al più, di ideologie non condivisibili. Ha avuto successo perché ha suscitato un pronunciamento del Comitato per i Diritti Umani dell’Onu che ribadisce alcuni principi minimi sul trattamento dei detenuti. Nonostante sia ancora al 41bis, Cospito ha vinto, in un certo senso, la sua battaglia. Ma adesso è inutile - Ma a questo punto c’è il serio rischio che continuare su questa strada sia inutile. Anzi, c’è il dubbio che diventi nocivo o controproducente. Non solo perché mette a rischio la vita di Cospito, ma anche perché facendolo snatura il suo atto. La sua testimonianza, se portata all’estremo, può diventare martirio ed essere strumentalizzato in vari modi, come Cospito medesimo ricorda nella sua lettera. O può equivalere a un suicidio. Atto questo che è rispettabile, e forse anche razionale, date le prospettive di una vita priva di alcuni di quelli che Cospito reputa diritti fondamentali. Ma si tratta di un’azione diversa, con un significato morale alternativo e divergente. Laddove la testimonianza contro il regime del 41bis ha l’intento di sottoporre all’opinione pubblica una tesi morale e di indurre a considerarla, il suicidio fa ridiventare la questione personale. Questo non la priva certo di risvolti morali: costringere una persona al suicidio può indurci a ripensare le nostre posizioni, e togliersi la vita pur di non accettare condizioni umilianti può essere giusto ed ammirevole. Ma il rischio è confondere il piano impersonale con il piano personale, la disobbedienza civile e la testimonianza con l’obiezione solitaria di coscienza. E scivolare, alla fin fine, nel ricatto. Per tenersi lontano da tutto questo, Cospito dovrebbe smettere il suo sciopero della fame, e cercare di spostare la battaglia altrove, con l’aiuto del suo avvocato e dei tanti che ne hanno considerato le argomentazioni e le sorti in questi giorni. *Professore associato di filosofia politica alla LUISS Guido Carli. Si occupa di storia dell’etica e filosofia politica contemporanea Giustizia che sappia riparare per le vittime della pandemia di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 6 marzo 2023 Il processo penale è per sua natura inadeguato ad affrontare i casi con «vittime diffuse». Forse più efficace sperimentare percorsi innovativi di riconciliazione sociale. Non si è detto mille volte che il Covid ha fatto più morti di una guerra? E allora per curare le ferite personali e sociali della pandemia Covid ci vuole davvero una «giustizia di guerra». Non nell’accezione di sommaria caccia alle responsabilità per (e pur di) placare le disperate e incommensurabili aspettative di giustizia dei familiari delle vittime. Ma nemmeno nel senso dell’opposta semplificazione che, volendo tutto anestetizzare con la ruffiana evocazione di un generico giudizio solo sul piano politico, e magari devolvendolo al caravanserraglio della propaganda incrociata di una Commissione parlamentare d’inchiesta, sbrigativamente liquida le conclusioni dei pm di Bergamo su 19 figure istituzionali con l’assunto che l’imprevedibilità della pandemia tolga in partenza legittimità e senso a qualsiasi intervento giudiziario. Al processo penale orientato alla punitività classica forse sì. Ma non appunto alla giustizia post bellica, cioè alla «giustizia di transizione» nel senso definito dalle Nazioni Unite in quei documenti che solitamente si pensano riferiti a contesti geografici in uscita da guerre civili e conflitti armati, e che invece solo qualche progetto-pilota universitario (come sei anni fa quello dei professori Forti-Mazzucato-Giavazzi-Visconti) ha sinora provato a trasfondere ad esempio nel campo dei reati ambientali o finanziari delle grandi imprese che stravolgano vita e territori di intere comunità. Nel perseguire reati a «vittime diffuse» (sia per numero sia per scala geografica) il processo penale è infatti strumento paradossalmente inservibile proprio perché vincolato a standard legali stringenti, rigide griglie di ammissibilità delle prove, esigibile prevedibilità di precisi confini alle condotte penalmente rilevanti, necessità di un nesso causa-effetto tra la singola condotta del singolo indagato e il prodursi della singola infezione foriera della morte della singola persona, aggancio a solide leggi di copertura scientifica, precise posizioni di garanzia in capo ai soggetti imputabili, scioglimento dell’intreccio di fonti legislative di rango variabile. E con questi parametri si può già scrivere nel marmo, adesso per quando sarà il momento delle sentenze, che ben difficilmente qualcuno potrà mai essere condannato sino in Cassazione: esattamente come negli ultimi anni sta quasi sempre avvenendo nelle sentenze sugli omicidi colposi dei lavoratori esposti nei decenni scorsi all’amianto. E tuttavia, per scongiurare la frustrazione delle aspettative che i familiari delle vittime vengono incoraggiati a riporre nel processo penale come balsamo alle proprie ferite, può esistere forse un’altra forma di giustizia. Ed è appunto la giustizia riparativa, di transizione, post bellica, nella quale chi ha preso/omesso decisioni e chi ne ha subìto le conseguenze si incontrano e partecipano in modo volontario - con l’aiuto di mediatori specializzati, e nella corale cura della comunità - a un confronto autentico sugli effetti del dolore inflitto o subìto, allo scopo di riparare, suturare, aggiustare, rammendare, ricomporre le fratture personali e sociali: riconoscendo le ritenute ragioni degli uni e i sentimenti provati dagli altri, le paure vissute dai decisori (nella percezione degli interessi da bilanciare) e la rabbia dei cittadini giustificata dalla constatazione delle bugie e delle contraddizioni disvelate dall’inchiesta. Un metodo diverso. Ma anche un percorso giudiziario percorribile tra non molto nel nostro sistema, appena entro l’estate il ministero perfezionerà i decreti attuativi del nuovissimo articolo 129 bis del codice di procedura penale introdotto dal decreto legislativo 150 del 10 ottobre 2022 (la cosiddetta riforma Cartabia), in base al quale «in ogni stato e grado del procedimento l’autorità giudiziaria» potrà, «anche d’ufficio, disporre l’invio dell’imputato e della vittima del reato a un Centro di giustizia riparativa per l’avvio di un programma» appunto di riconciliazione. Prima di liquidarla come un’idea stramba, si consideri quanto gli obiettivi perseguiti nei documenti Onu su questa «giustizia di transizione» incontrino esattamente i bisogni anelati da chi seppe morti i propri cari senza più nemmeno averli potuti assistere negli ospedali, e magari li rivide solo alla tv nelle bare dentro i camion dell’esercito che li portavano a cremare: diritto a conoscere, dovere di preservare la memoria, ascolto delle vittime non come sterile audizione di maniera ma come autentico riconoscimento del loro dolore, garanzie che non si ripeta l’accaduto, radiografia delle cecità dei sistemi organizzativi, correzione delle falle nei processi decisionali insensibili agli imprevisti segnali di rischio, sino a gesti che prescindano da singole colpevolezze penali ma che in chiave solidaristica si facciano carico di risarcire le conseguenze di scelte rivelatesi errate a posteriori. Alla ricerca, insomma, di una sorta di «guarigione sociale» quale base per ripristinare la fiducia nelle istituzioni. Sarebbe - nel solco ad esempio del tribunale sudafricano «per la verità e la riconciliazione» dopo la fine del regime dell’apartheid negli anni 90 - un percorso comunque faticoso: anche e soprattutto perché (tanto per un ex premier, un ex ministro, un presidente di Regione o un grande scienziato, quanto per una figlia che in Valseriana abbia visto il padre ingoiato per sempre in una Rsa) sarebbe un metodo poco familiare agli abituali riflessi mentali di indagati che per difendersi finiscono però quasi per pretendere pure la medaglia d’oro al valore delle proprie controverse scelte, e di vittime che per dare un senso al proprio dolore finiscono per pretendere ovunque responsabilità penali. Ma l’alternativa, sebbene più facile, e cioè il già iniziato tiro alla fune attorno al processo a punitività classica, ha già la sua (non lieta) fine segnata: l’assalto delle vittime (ormai non raro nei tribunali) al giudice che, in sentenza, non avrà dato loro ciò che in partenza sarà stata crudele illusione far credere potesse arrivare da un processo penale. Sequestro dei beni, l’antimafia alla deriva di Alessandro Barbano Il Foglio, 6 marzo 2023 Un’eccezione italiana. Nel nostro paese è possibile confiscare i beni a cittadini assolti, a terzi mai indagati, a eredi ignari e, da ultimo, pure alle vittime della mafia, cioè a imprenditori costretti a pagare il pizzo. Negli ultimi due anni in Italia sono stati sequestrati nella lotta al crimine beni per 5 miliardi e 300 milioni di euro, contro gli appena 100 milioni sequestrati nel resto del mondo. La notizia giunge dal summit svoltosi a Roma il 15 febbraio scorso tra le forze di polizia di diciannove paesi Ue, la procura europea, l'Interpol e altre organizzazioni internazionali. Pubblicata sul sito della polizia di Stato, è stata rilanciata senza stupore, e con supina condiscendenza, da pochi organi di informazione, che hanno fatto proprio l'appello del direttore centrale della polizia criminale, Vittorio Rizzi, ad allineare la caccia ai latitanti alla sottrazione dei patrimoni illeciti. Nessun politico e nessun mafiologo, tra i tanti che sdottoreggiano nei talk dopo la cattura di Matteo Messina Denaro, l'ha trovata, come invece a me pare, stupefacente. Al netto di quello che ha tutta l'aria di essere un errore, e cioè l'aver probabilmente confuso il mondo con l'Eurozona, il volume dei sequestri in Italia risulta cinquanta volte maggiore di quello dei restanti diciannove paesi del Vecchio Continente messi insieme. Riferita alle confische, la nostra quota di beni espropriati è addirittura cento trentatré volte quella di tutti gli altri. Neanche se fossimo diventati il Venezuela o l'Honduras un simile rapporto sarebbe giustificabile. Il dato risulta più sorprendente se si considera che ormai da anni il nostro paese registra un numero di omicidi tre volte inferiore a quello di Germania, Francia e Gran Bretagna. Si dice che la mafia è più furba e non spara per fare affari sotto traccia. Ma gli affari loschi si fanno anche altrove: nel porto di Anversa si sequestra in un anno due volte e mezzo la quantità di cocaina scovata a Gioia Tauro. Siamo sicuri di essere ancora un unicum criminale nel panorama internazionale? Se noi espropriamo cinque miliardi di ricchezza con le misure di prevenzione in soli due anni, senza che nessuno ci venga dietro, sono tutti, i nostri partner europei, inetti e collusi con il crimine? Oppure noi stiamo viaggiando contromano in autostrada e siamo tanto ubriachi da non accorgercene? Questa domanda è diretta ai partiti che nelle ultime settimane hanno alzato la bandiera del garantismo. E i cui esponenti, anche di vertice, sono purtroppo ignari di ciò che sta accadendo nel nostro paese. Dove è possibile confiscare immense ricchezze a cittadini assolti, a terzi mai indagati, a eredi ignari e, da ultimo, alle vittime della mafia, cioè a imprenditori costretti a pagare il pizzo. Perché le misure cosiddette di prevenzione prescindono dall'accertamento di un delitto, a differenza da quanto avviene ovunque in Europa. E perché, tanto nella legislazione, quanto nella giurisprudenza, quanto nella cultura inquisitoria, si fa strada un ribaltamento giuridico che coincide con una ritirata civile: la colpevolezza viene surrogata dalla pericolosità. Che vuol dire, in concreto? Che nel mirino della giustizia non c'è più il reato, ma il reo. Ma un reo senza un reato di che cosa sarà mai colpevole? i niente, spiegano quei giuristi viziosi che hanno concepito un sistema mostruoso e che oggi lo difendono contro ogni evidenza e contro ogni censura, sostenendo che la confisca non è una pena ma una misura che protegge l'economia dalle infiltrazioni criminali. Senonché state a sentire in che modo si realizza questa protezione. I cinque miliardi e trecento milioni di beni espropriati sono più dei tre miliardi e mezzo destinati dalla manovra del governo Meloni al taglio del costo del lavoro. Se si considera che il 94 per cento delle imprese confiscate va in malora e finisce in liquidazione nelle mani dello stato, si può stimare che l'impatto della prevenzione sull'economia causi in due anni una perdita economica di cinque miliardi, salvando solo i restanti trecento milioni. È una valutazione approssimativa, riferita alle aziende espropriate, ma in quel pacchetto di beni sottratti ai privati ci sono molti immobili, che sotto la gestione pubblica vengono novanta volte su cento vandalizzati e depredati, e tuttavia preservano ancora una parte di valore. In ogni caso si tratta della più grande distruzione di ricchezza che l'intervento pubblico determina nell'economia privata e insieme della più grande manomorta della storia repubblicana. Una politica digiuna di qualunque categoria giuridica e un'informazione passiva ignorano o fingono di ignorare che, dietro la retorica della lotta alla mafia, si è consolidato nella nostra democrazia un sistema ideologico e insieme parassitario, che si propone, con l'esercizio dell'azione penale, di redistribuire la ricchezza e finisce invece per immetterla in un circuito corporativo, costituito da spezzoni della burocrazia pubblica e delle libere professioni. Come tutte le concrezioni di potere capaci di autoalimentarsi fuori da ogni controllo, questo sistema è andato in tilt, finendo per danneggiare l'economia e favorire proprio la criminalità, che pure dovrebbe combattere. Non a caso i primi danneggiati dall'azione pervasiva della prevenzione penale sono le vittime della mafia, cioè gli imprenditori costretti a pagare il pizzo per lavorare. Nei giorni scorsi a Reggio Calabria è stato eseguito il sequestro di beni per 45 milioni di euro a due fra gli imprenditori edili più importanti della città. Ne fanno parte diciotto società, una in Florida, dieci veicoli, 337 fabbricati e 23 terreni tra la Calabria e gli Stati Uniti. Francesco e Demetrio Berna erano stati arrestati tre anni fa sulla base delle dichiarazioni di un pentito che li accusava di essere imprenditori di riferimento della cosca "Libri". Proclamatisi sempre innocenti, i due fratelli hanno raccontato ai pm di pagare il pizzo a tutte le cosche reggine e per questo sono diventati testimoni di giustizia, vivono da tre anni sotto protezione insieme con i loro familiari, e sono stati ammessi a costituirsi come parti civili contro i boss che hanno denunciato. Nel frattempo le loro aziende sono state sottoposte a sequestro penale e l'amministratore giudiziario, con l'avallo del giudice, ha assunto uno dei due, Francesco, come consulente, per impedirne il fallimento e salvare il posto di decine di lavoratori. Nel processo di primo grado a loro carico gli imprenditori hanno confutato le accuse del pentito, dimostrando, anche con la denuncia degli estortori, di essere vittime della mafia e non collusi. Alla vigilia della sentenza di primo grado giunge, come un fulmine a ciel sereno, il sequestro di prevenzione sui beni già sequestrati dal giudice penale. Che cosa dovrebbe prevenire la prevenzione, se il patrimonio dei due fratelli è già nella custodia dello stato? C'è una sola risposta plausibile per questa domanda: il nuovo sequestro si giustifica per impedire che, nell'ipotesi di una loro assoluzione, i beni gli vengano restituiti. Perché il procedimento di prevenzione non solo è autonomo, ma si fa notoriamente con gli scarti di quello penale, e finisce per surrogarlo quando quest'ultimo manca l'obiettivo: non sono riuscito a condannarti, ma ti tolgo tutto quello che hai. Per raggiungere questo risultato nel procedimento di prevenzione l'azione penale assume il pizzo come prova che giustifichi la confisca. Con beata impudenza lo spiega il cronista di Repubblica, riassumendo le motivazioni del decreto di sequestro: "Benché sottoposti a estorsione a opera delle numerose cosche presenti nei quartieri della città in cui erano aperti cantieri, i Berna sarebbero stati rappresentati, nelle interlocuzioni con i vertici delle varie `ndrine, dagli esponenti della cosca ‘Libri', che avrebbe garantito loro un trattamento di favore". Come dire: lasciate in pace i Berna, perché pagano a noi e noi li proteggiamo. E siccome i due fratelli foraggiano la mafia, saranno perseguitati dalla mafia e dallo stato che ha rinunciato a proteggerli. Quello dei Berna non è un caso eccezionale, ma l'esempio di una tragica ordinarietà, che si ripete da almeno un ventennio in regioni come la Sicilia e la Calabria, con l'avallo di alcune sentenze della Corte di Cassazione, per le quali, "ai fini dell'applicazione delle misure di prevenzione, il concetto di `appartenenza' è, notoriamente, più ampio di quello di 'partecipazione', ricomprendendo tutte quelle aree di contiguità, dal concorso esterno alle variegate espressioni di cointeressenza, che occorre perseguire per rimuovere ogni forma di fattiva solidarietà al fenomeno della criminalità organizzata". Cioè non solo i partecipi, non solo i concorrenti esterni, ma anche chi paga il pizzo in quanto fonte di "fattiva solidarietà" alla mafia. I supremi giudici non lo dicono espressamente, ma autorizzano di fatto decine di pm e di corti di primo e secondo grado a pensarlo e a scriverlo. Viene a questo punto da chiedersi: chi mai più a Reggio Calabria denuncerà il ricatto, sapendo che avrà contro, allo stesso tempo, la mafia e lo stato? E chi, tra coloro che decidono e raccontano le sorti del paese, avrà il coraggio di fermare questa feroce deriva di polizia? "Misure di prevenzione fondamentali nella lotta alla criminalità organizzata, anche se ci sono dei nodi critici” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 6 marzo 2023 Intervista all’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho. Il magistrato, ora esponente del Movimento Cinque Stelle, affronta un tema molto delicato: «Quello degli amministratori giudiziari è un punto dolente: serve un controllo per l'affidamento degli incarichi e sulla tutela della continuità e della produttività dell'azienda». «Le misure di prevenzione sono molto importanti nel contrasto alla criminalità organizzata di stampo mafioso», afferma l’ex procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Federico Cafiero De Raho, attuale parlamentare del Movimento Cinque Stelle. Ritenute da sempre tra gli strumenti più efficaci nella lotta alla criminalità organizzata sul versante economico-finanziario che mira a colpire l’accumulazione dei capitali illeciti e la possibilità di riciclarli attraverso investimenti nel circuito legale, le misure di prevenzione hanno però spesso evidenziato elementi di criticità nella loro applicazione. Se il loro scopo dovrebbe essere quello di individuare i canali che consentono alle organizzazioni criminali di reinvestire i proventi delle attività illecite, non sono purtroppo pochi i casi in cui hanno invece determinato il fallimento di aziende e società che nulla avevano a che vedere con la mafia, gettando sul lastrico centinaia di famiglie. Onorevole De Raho, per la sua esperienza, il sistema delle misure di prevenzione è efficace o necessita di correttivi? Come ho detto, le misure di prevenzioni si sono rivelate di particolare efficacia. Ricordo, comunque, che l’impianto normativo è molto cambiato negli anni. Le leggi fondamentali sulle misure di prevenzione personali risalgono al 1956, quelle patrimoniali al 1965. Negli anni ci sono poi stati numerosi interventi di modifica che hanno conferito loro l'attuale fisionomia, notevolmente diversa dunque rispetto a quella originaria. Nel 1982, con la legge Rognoni-La Torre, c’è poi stato un cambio di passo per adeguare l'ordinamento alle mutate modalità operative delle organizzazioni mafiose. Il meccanismo è sempre quello della sproporzione fra reddito e beni? Sì. La mancanza di giustificazioni è un presupposto oggettivo per il sequestro e la confisca. Nel 2021 il quadro normativo ha subito altre modifiche importanti... Certo, il soggetto ora partecipa in prima persona. Per quanto riguarda le interdittive, ad esempio, esiste un contraddittorio preventivo dove il prefetto contesta formalmente gli elementi acquisiti. Il soggetto può quindi fornire tutti gli elementi giustificativi del caso. Il prefetto, dopo questo passaggio, emana un provvedimento con delle prescrizioni che danno vita a una sorta di “collaborazione”. Si tratto di un modello che prevede un controllo da parte di un Nucleo interforze. Lo scopo è evitare di bloccare l’operatività della società solo sulla base elementi di sospetto. Rimane, comunque, sempre il tema di coloro che sono chiamati ad amministrare i beni. Molti i casi che hanno evidenziato una gestione non corretta... Questo è un punto molto delicato. Quando era procuratore nazionale antimafia ho insistito perché venisse approntato un elenco degli amministratori giudiziari al fine di consentire un controllo circa la trasparenza dell'affidamento degli incarichi. Come dovrebbe essere questo elenco? Oltre all’indicazione dei soggetti idonei per titoli ed esperienza, deve essere riportato l’affidamento dell’incarico nelle varie procedure di sequestro e confisca. Il punto fondamentale riguarda l'indicazione dei corrispettivi percepiti e quanti incarichi si hanno. E in caso si verifichino situazioni dannose per il bene che istituti si possono immaginare per consentire di recuperare la sua piena funzionalità? Premesso che mi pare di tutta evidenza che si debba riparare il danno che è stato prodotto, io pensavo ad una legge ad hoc che prevedesse dei ristori per le società, come una apertura di credito garantita dallo Stato per riprendere l’attività e quindi sopperire alla gestione non corretta degli amministratori. In queste situazioni è infatti fondamentale ripartire dalla capacità economica della società. Un altro aspetto degno di nota riguarda proprio la fine della capacità produttiva dell’azienda oggetto di tali misure... Anche questo è un tema complesso. Pensiamo al supermarket, dove si comprano e vendono le merci. Non dovrebbero esserci problemi. Ed invece si assiste al tracollo di queste attività. Il motivo è dovuto alla stessa organizzazione criminale che non consente di fare acquisti. I mafiosi sono molti attenti in questi casi e “consigliano” ai clienti di non comprare più in quel supermarket e di andare altrove. Come risolvere questo problema? Ho proposto di verificare e di analizzare se il bene possa liberamente continuare ad esercitare la propria attività. Ma non solo. Pensiamo ai beni che vengono vandalizzati e distrutti dalla mafia per impedire loro di avere una finalità sociale. Un caso di scuola riguarda l’edilizia. Vedasi le aziende che producono calcestruzzo... Certo. Anche in questo caso, nessuno lo compra e ci si rivolge altrove. Spesso, poi, tramite dei prestanome, la mafia avvia altre attività di questo genere così da raggiungere comunque i risultati economici sperati. Un punto debole del sistema? Fino a che il bene non viene definitivamente confiscato ed entra così a far parte del patrimonio dello Stato. Troppe garanzie, nei processi: sono più comode le misure di prevenzione… di Fabrizio Costarella* e Cosimo Palumbo** Il Dubbio, 6 marzo 2023 Ormai da tempo stiamo assistendo a un uso massiccio delle misure di prevenzione, sia in ambito amministrativo sia in ambito giudiziario. Ciò è dovuto a una legislazione, sempre emergenziale, che mira al contrasto di fenomeni criminali estremamente eterogenei tra loro, facendo ricorso alla costante implementazione del catalogo contenuto nel testo unico per le disposizioni antimafia (Decreto legislativo 159/11). “Codice” che, peraltro, reca disposizioni la cui genesi va fatta risalire alla esigenza, avvertita particolarmente nelle periferie industriali di fine ’800, di reprimere devianze sociali quali il vagabondaggio, prevenendo così la commissione di reati da parte di soggetti socialmente emarginati e, quindi, potenzialmente pericolosi. Questo strumento, nato dunque in chiave prettamente special preventiva e di applicazione del tutto residuale rispetto alle pene, si è rivelato, nel tempo, un’utile scorciatoia per giungere, attraverso una sempre meno evidente funzione praeter delictum, alla aggressione dei patrimoni illecitamente accumulati. Tanto da arrivare a prescindere, ormai, persino dalla prognosi di futura pericolosità del soggetto destinatario, perdendo così la funzione special preventiva, per assumere contorni sempre più spiccatamente sanzionatori. Nel percorso di evoluzione ed espansione l’impulso decisivo verso l’attuale sistematico uso di queste misure si rinviene nel pacchetto sicurezza del 2008 che, consentendo la confisca disgiunta dalla misura di prevenzione personale, l’ha resa uno strumento agile e deformalizzato nella repressione della criminalità da profitto. Repressione (le parole sono importanti) e non più prevenzione, perché da tempo la prognosi di prossima pericolosità personale dei proposti, che nelle intenzioni del Legislatore del 1873 era il presupposto necessario per l’applicazione di misure che, in quanto preventive, dovevano dispiegarsi nel futuro, ha assunto il ruolo, per usare le parole delle Sezioni unite nella sentenza Spinelli, del presupposto fattuale e della “misura temporale” dell’ablazione, nel senso di consentire la confisca anche quando non sia possibile prevedere la futura proclività al reato, purché si tratti di beni accumulati in costanza di pregresse manifestazioni delittuose. Dalla prevenzione di fenomeni di marginalità ed emarginazione (destinate agli “oziosi e vagabondi”), le misure di prevenzione hanno lentamente preso la scena del contrasto ai reati lucrogenetici, a valle della commissione, o presunta tale, degli stessi e, cioè, mediante l’apprensione del profitto, o presunto tale, di tali delitti. E, tuttavia, tale fenomeno presenta non pochi punti di frizione, se così inteso, con l’intera architettura costituzionale, sulla quale si regge l’equilibrio tra pretesa punitiva dello Stato, sicurezza sociale, libertà personale e libertà di iniziativa economica privata. Si tratta, infatti, di un giudizio sommario, non a caso definito procedimento (e non processo) di prevenzione, destinato a concludersi con un giudizio che, non essendo formalmente una sentenza di condanna, si basa su indizi che non solo non devono essere gravi, precisi e concordanti, ma neanche assimilabili a quelli, ben più labili, sufficienti per la irrogazione di una misura cautelare. Sospetti e, spesso, anche valutazioni probabilistiche. Uno strumento, quindi, di natura e di applicazione naturalmente inquisitorie, per le decise asimmetrie nella formazione e nella valutazione della prova, tanto più utile alle ragioni dello Stato quanto più caratterizzato da aspetti di peculiare asistematicità rispetto alle forme dell’accertamento della responsabilità penale, all’esito del processo. Si pensi, ad esempio: - Alla imprescrittibilità dell’azione, per cui la misura di prevenzione può essere richiesta ed applicata senza limiti di tempo rispetto al fatto-indice di pericolosità. - Alla sottrazione alla riserva di Legge, per cui la norma può essere etero-integrata dalla produzione giurisprudenziale, con effetto formante del precetto, annettendo così, al diritto dei Giudici una funzione legislativa concorrente, rispetto al diritto delle Fonti. - Alla retroattività delle norme di sfavore e, per effetto della “tassativizzazione giurisprudenziale” avallata anche dal Giudice delle Leggi con la sentenza 24/19, anche della integrazione interpretativa del precetto. Retroattività affermata sulla analogia legis tra misure di prevenzione e misure di sicurezza, che non pare trovare base normativa valida, alla luce dei principi generali dell’ordinamento. - Alla previsione di presunzioni di derivazione illecita del patrimonio del proposto, che invertendo l’onere della prova e ponendolo a carico di chi si difende, sovvertono i canoni della accusatorietà, sui quali si basa il nostro modello processuale penale. - Alla tendenziale instabilità del giudicato, che consente la ripetuta attivazione dell’azione di prevenzione sulla base di presupposti di fatto non solo nuovi, ma anche semplicemente non valutati. Tale eccezionalità avrebbe imposto di non sviare l’applicazione delle misure di prevenzione dalla loro finalità special preventiva, esclusivamente indirizzata verso manifestazioni di pericolosità che si presentassero concrete e, soprattutto, future, poiché solo il perseguimento di interessi pubblici superiori avrebbe potuto consentire una aggressione così deformalizzata di diritti costituzionalmente garantiti, quali la libertà individuale nelle sue diverse declinazioni e la libertà di iniziativa economica, esercitata mediante il diritto alla proprietà privata. Numerosi sono stati, sul punto, i richiami della Giurisprudenza europea: basterebbe leggere la dissenting opinion nella decisione De Tommaso/Italia, per apprezzare come il sistema prevenzionale nazionale sia visto con sospetto in sede convenzionale, e giustificato solo, appunto, in chiave di prevenzione di fenomeni criminali di particolare allarme. Di fronte alla progressiva giurisdizionalizzazione del procedimento di prevenzione (con l’estensione degli istituti processuali penali in tema di diritto alla prova, astensione e ricusazione, decadenza dall’azione), ma anche davanti all’allineamento ai principi convenzionali in punto di qualità della Legge, avevamo creduto ad una evoluzione delle misure di prevenzione nel senso di attenuarne le asistematicità, così da rispettare quegli standard minimi di garanzia che dovrebbero regimentare azioni le quali, pur non essendo assimilate a pene, da queste ultime hanno finito per mutuare una funzione ormai spiccatamente afflittiva. Avevamo creduto che, avvicinandosi alla “materia penale”, le misure di prevenzione potessero affrancarsi da quei profili di “terribilità” che, per anni, le avevano relegate nel sottoscala polveroso dove, come vecchi arnesi, erano state relegate e dove, per le loro caratteristiche, avrebbero dovuto rimanere. Attenta dottrina, tuttavia, ci aveva messo in guardia da tempo su come l’abbraccio tra processo penale e misure di prevenzione avrebbe potuto costituire l’occasione, piuttosto che di una nobilitazione delle seconde, della corruzione del primo, del quale la prevenzione si sarebbe presto proposta come utile succedaneo. È, infatti, in atto da tempo un disegno, visibile ormai ai più, che prevede il progressivo abbandono del processo penale come strumento di accertamento delle responsabilità, in favore di un procedimento agile, snello e che, pur non comportando l’irrogazione di una pena, finisce per colpire diritti costituzionalmente tutelati, la cui compromissione meriterebbe altra sacralità di accertamento, se è vero, come è stato autorevolmente affermato, che lo Stato liberale si baserebbe altrimenti sulla promessa di diritti che non possono essere garantiti. Una riprova evidente di quanto appena affermato la fornisce l’introduzione dell’articolo 578 ter nel codice di procedura penale. Nel disciplinare gli effetti della novellata improcedibilità del processo sulle misure cautelari reali, la norma prevede la possibilità di trasferimento dell’azione reale nel procedimento di prevenzione. Le conseguenze e gli obiettivi della novella sono palesi: dalle ceneri del processo penale, concluso con la improcedibilità processuale per l’inerzia del Giudice di appello nasce, su sollecitazione dello stesso, un più che eventuale procedimento di prevenzione in modo che la disposta confisca penale, caducata dalla improcedibilità, possa essere sostituita dalla confisca di prevenzione. Il Legislatore, pressato da esigenze - non necessariamente nobili - di rispetto dei vincoli del Pnrr, da un lato presta dovuto ossequio a uno dei cardini del “giusto processo”, che si declina anche attraverso la ragionevole durata dello stesso, così prevedendo che l’allontanamento temporale della decisione dal fatto faccia venire meno l’interesse dello Stato alla repressione dell’illecito. Dall’altro, mostrando un volto assai diverso, recupera le conseguenze patrimoniali del processo, sfruttando le denunciate asistematicità dell’azione di prevenzione. E, in particolare, la sua capacità di ovviare, attraverso l’imprescrittibilità dell’azione, alla cronica inefficienza della macchina della Giustizia nel celebrare processi di ragionevole durata. Le apparenze, davanti all’Europa, sono salve: non si può essere imputati per sempre. La sostanza, tuttavia, è un’altra: si può essere “proposti” a vita. Il tramonto del processo penale non è che una tessera di un complessivo mosaico che connota ormai questo scorcio di millennio. Il precipizio verso il vetero-inquisitorio (quale è il procedimento di prevenzione) e la riduzione del processo penale a mercanteggiamento, sono due conseguenze solo apparentemente divergenti. È la mutagenesi del procedimento di prevenzione, che consente di “punire senza accertare”. “Punire senza accertare” è un ossimoro che fa rabbrividire. Un paradosso, per un sistema sanzionatorio di stampo accusatorio, come quello sul quale si regge il modello processuale penale di ogni paese democratico, compreso (ancora) il nostro. E allora dobbiamo ammettere di essere stati miopi, di non aver raccolto gli avvertimenti dalla dottrina, di aver creduto che le misure di prevenzione avrebbero subìto, avvicinandosi in qualche misura alle garanzie penalistiche, una nobilitazione sistematica. E invece, esse sono salite dal sottoscala polveroso al piano nobile del processo penale ancora cariche di tutto il loro portato inquisitorio di stampo illiberale; dalla marginalità, al cuore del contrasto (senza garanzie) di fenomeni criminali ormai tanto eterogenei, da non nascondere più la loro natura ormai anche formalmente repressiva. Occorrerebbe fermare questa deriva, sollecitando con forza il legislatore a rimettere al centro del sistema repressivo solo il processo penale, abbandonando la facile scorciatoia della logica del sospetto per punire condotte che si ritengono, con giudizio sommario, illecite. Proposta utopica, questa, destinata a restare una voce nel deserto. Ma la sola alternativa, è di assistere silenti al calar della notte sul processo penale, mentre sorge l’alba del “diritto della prevenzione punitiva”. *Avvocato del Foro di Catanzaro **Avvocato del Foro di Torino Vi spiego come le misure di prevenzione hanno portato via tutto a una famiglia di innocenti di Pietro Cavallotti Il Dubbio, 6 marzo 2023 Dodici anni di processo penale per mio padre e i miei zii. Assolti. Poi la “prevenzione”: il loro patrimonio è stato considerato frutto del reato che non hanno commesso. Poi è toccato a noi figli. Si dice che le misure di prevenzione sono uno strumento indispensabile nella lotta alla mafia. Un’arma super efficace che tutto il mondo ci invidia. Con questa premessa (che sembra una presunzione assoluta) non ci può essere alcuno spazio per la critica. Tuttavia, basta uscire dalle assemblee parlamentari e dai salotti di certa antimafia per rendersi conto che le cose non stanno proprio così. La storia della mia famiglia lo dimostra. Sulla base del nulla, mio padre e i miei zii venticinque anni fa sono stati arrestati con l’accusa di mafia, salvo essere assolti dopo un sofferto periodo di detenzione e ben dodici anni di calvario. Le accuse sono state smentite, non c’erano prove, non c’era niente. Eppure, quel niente è bastato per confiscare tutto il loro patrimonio nel parallelo processo di prevenzione, durato altri diciassette anni. Il loro patrimonio è stato considerato il frutto del reato che non hanno commesso. Lo chiamano “doppio binario”. Ci sarebbe da ridere se solo non stessimo parlando di cose che hanno segnato per sempre la nostra vita. Quale che sia la logica (giuridica) delle misure di prevenzione, il risultato è che ti tolgono tutto: l’azienda, il lavoro e persino la casa. La storia continua con il sequestro delle aziende che noi figli avevamo creato nel tentativo di rifarci una vita. Per l’accusa eravamo prestanome dei nostri padri (assolti). Durante il processo è stato escluso il trasferimento di beni e risorse ma l’accusa, anziché riconoscere l’errore, ha sostenuto che l’oggetto dell’attribuzione fittizia era l’esperienza lavorativa che i padri avevano trasmesso ai figli. La vera ragione per quale siamo stati travolti era l’avere imparato un lavoro! Dopo circa otto anni di sequestro, l’azienda è stata dissequestrata. Peccato però che durante l’amministrazione giudiziaria era stata messa in liquidazione, riempita di debiti e svuotata di tutte le risorse. Non abbiamo avuto neanche il tempo per capire quale fosse la reale entità del danno, che il Tribunale ne ha dichiarato il fallimento. In sintesi, siamo passati dall’amministratore giudiziario al curatore fallimentare, che dovrà vendere ciò che rimane del patrimonio aziendale per pagare i debiti fatti dal suo predecessore. Ovviamente, i danni non li pagherà nessuno perché non è previsto alcun indennizzo nel caso di ingiusto sequestro. A questo punto qualcuno potrebbe commettere l’errore di spiegare il dramma della mia famiglia con la teoria dell’errore giudiziario, l’errore è sempre possibile, se solo tante altre persone non avessero subito lo stesso trattamento. Io credo che occorra modificare la legge per evitare che altre famiglie innocenti vengano distrutte. Qualche altro però potrebbe eccepire che la Corte costituzionale ha stabilito che le misure di prevenzione non sono in contrasto con la Costituzione. E allora perché tante lamentele da parte di avvocati, giornalisti illuminati e cittadini sfortunati che chiedono semplicemente giustizia? Ci sono più ragioni. La Corte costituzionale, nel salvare le misure di prevenzione, ne ha considerato solo le finalità politiche che le dovrebbero giustificare, trascurando del tutto i reali effetti che si ripercuotono sulla vita delle persone. Si arriva a dire che la confisca ha una natura “ripristinatoria” e che l’effetto afflittivo è solo qualcosa di collaterale o comunque di poco peso nella bilancia dei valori in gioco. Cosa ci sia da “ripristinare” quando una persona non ha commesso alcun reato non è dato saperlo. Come non è dato sapere neppure come si possa spiegare ad una madre che viene buttata fuori di casa insieme ai suoi bambini che, nel ragionamento giuridico della Corte, il loro dolore è solo qualcosa di superfluo. Si dice anche che il diritto di proprietà è un diritto di “serie B” e che perciò può subire limitazioni, fino ad essere compresso del tutto, come se una confisca non riguardasse, oltre al patrimonio, anche il lavoro, la libertà e la dignità stessa delle persone coinvolte. Il giudice del sequestro è lo stesso che poi deve decidere la confisca e non può essere terzo e imparziale. La confisca può arrivare anche dopo un’assoluzione non per prevenire qualche reato ma per sabotare le sentenze penali quando queste sono favorevoli agli imputati. Di fronte a una confisca che si fonda su una motivazione illogica confermata in appello, ci si deve rassegnare perché non è possibile ricorrere in Cassazione per questo motivo. Tutto questo si somma in un contesto in cui basta l’indizio di qualcosa che, nel caso della pericolosità mafiosa, non è reato. Indizi che peraltro non devono essere neppure gravi, precisi e concordanti. Le accuse dei pentiti non hanno bisogno di riscontri. Qui non valgono i princìpi di legalità e del giudicato, per cui un processo di prevenzione può essere aperto, chiuso e poi riaperto ancora, magari dopo l’introduzione di una nuova fattispecie che permette di confiscare con effetto retroattivo. Efficienza o barbarie? E soprattutto: togliere tutto a una persona che non è mafiosa è lotta alla mafia o persecuzione? Una riforma del sistema dovrebbe avere ad oggetto tutti questi aspetti, nella ritrovata consapevolezza che non ci può essere lotta alla mafia quando viene calpestato lo Stato di Diritto e, con esso, la libertà dei cittadini. I beni confiscati sono il vero buco nero della democrazia italiana di Alessandro Barbano* Il Dubbio, 6 marzo 2023 I dati raccolti dalla banca centrale del Ministero della giustizia, citati da Marta Cartabia nella sua audizione, indicano la cifra monstre di 215.995 beni fin qui interessati dalle misure di prevenzione. di questi, 81.913 sono stati confiscati. Nel solo 2020, anno della pandemia, in cui tutto pare essersi fermato tranne la macchina dell’antimafia, i procedimenti di prevenzione patrimoniale sono stati 10.239, contro i 9.813 dell’anno precedente. All’inizio Paola Fortuna non vuole crederci: ventiquattro immobili confiscati alla mafia tra via Matteotti e viale dei Martiri. E lei, sindaca di Pojana Maggiore, e prima ancora consigliera comunale fin dal 2009, non ne sapeva niente. Ma l’articolo del «Giornale di Vicenza», nei primi giorni di aprile del 2015, è molto dettagliato. Quei beni erano dello Stato e, sulla carta, pronti per essere assegnati a finalità pubbliche. Allora come mai nessuno l’aveva avvisata? La risposta del funzionario prefettizio, a cui chiede spiegazioni, è laconica: non ci sono disposizioni che ci obblighino a farlo. Qualcosa di più la sindaca lo apprende dall’amministratore di condominio: si tratta di un negozio, otto appartamenti, sei magazzini e otto garage, tutti vuoti e con apposti i sigilli, mentre magari tante associazioni del territorio sono costrette a pagare affitti esorbitanti per disporre di locali adeguati. Così la prima cittadina decide di chiamare il prefetto di Vicenza, che suggerisce di contattare l’Agenzia nazionale, il braccio operativo del ministero della Giustizia che gestisce i patrimoni dopo la confisca di secondo grado. Ma, per modalità e tempistica, quei contatti si trasformano in un’odissea burocratica. Le telefonate e le mail all’indirizzo della sede di Milano non ricevono risposta. La sindaca è più fortunata quando decide di inviare una lettera formale alla sede centrale dell’Agenzia, a Reggio Calabria, con la quale il Comune di Pojana esprime ufficialmente la disponibilità a ricevere in destinazione i beni. Nel frattempo Fortuna ha allertato associazioni e soggetti del terzo settore perché riferiscano interessi e necessità. Finalmente, cinque anni dopo, l’8 maggio 2020, l’Agenzia risponde con un invito a esprimere ufficialmente l’interesse alla destinazione dei beni e con l’indicazione di un professionista da contattare per un sopralluogo. E il sopralluogo arriva a distanza di due settimane, mentre il paese sta uscendo dai divieti del lockdown pandemico. L’incaricato dell’Agenzia nazionale si presenta all’appuntamento, ma non ha neanche le chiavi degli edifici sequestrati e dunque non è possibile verificarne la consistenza e lo stato di conservazione. La sindaca non si dà per vinta. L’8 giugno, con delibera all’unanimità dell’amministrazione comunale, la manifestazione di interesse viene inviata all’Agenzia. Al buio. In un modo o nell’altro quei locali possono essere utili: il Comune di Pojana progetta di insediarvi alloggi per anziani, per famiglie disagiate e per le forze dell’ordine, una comunità educativa per minori e un ambulatorio medico. Ma i buoni propositi della giunta vicentina sono destinati a smarrirsi nel labirinto kafkiano dell’Antimafia. Perché tutti i ventiquattro locali erano sì confiscati dal 14 settembre del 2017, ma quasi tre anni dopo restava ancora da definire la procedura di accertamento dei diritti dei terzi. L’assegnazione non sarebbe potuta avvenire se il giudice delegato non avesse approvato il pagamento dei cosiddetti «crediti di buona fede», nei confronti dei soggetti che vantavano su quegli immobili pretese esigibili. Si trattava di quantificarle, reperire le risorse per soddisfarle mettendo all’asta e vendendo una parte di quei beni, pagare i creditori e finalmente consentire all’Agenzia di assegnare al Comune i beni rimasti. Due procedure complesse fanno un mostro burocratico. Tra il 2020 e il 2021 il Comune ha inoltrato tre richieste di informazioni all’Agenzia nazionale sullo stato della procedura, ricevendo risposte vaghe e oscure, inutili a programmare, e perfino a capirci qualcosa. In realtà la povera sindaca di Pojana Maggiore non sapeva che stava andando a sbattere contro un meccanismo infernale. Perché se la verifica dei crediti richiede quattro anni, in un rimpallo di competenze vecchie e nuove tra giudice delegato e Agenzia nazionale, la vendita potrebbe richiederne il doppio. La vendita è il tabù dell’intera normativa della prevenzione. Il rischio che i beni ritornino nelle mani della criminalità organizzata ha suggerito al legislatore una serie di limiti e divieti che somigliano ai paletti di uno slalom. Si aggiunga che l’Agenzia nazionale può avocare a sé l’intero procedimento, ma la liquidazione del patrimonio confiscato si svolge ignorando le preferenze del Comune sui beni da preservare, poiché non esiste tra i due enti alcuna collaborazione operativa. Le scelte dell’Agenzia potrebbero non tenere conto delle esigenze manifestate da Pojana Maggiore, ma soprattutto il Comune non sarà mai informato di quali beni saranno venduti e quali gli saranno assegnati. Cosicché la sindaca non potrà neanche portarsi avanti con la procedura per conferirli alle associazioni no profit coinvolte. La destinazione delle confische è un’interminabile gimcana condannata a finire in un vicolo cieco. Poi, finalmente, quando ormai la sindaca ha perso le speranze, a giugno 2022 arriva al Comune il piano di liquidazione del giudice delegato, con la notizia che le ipoteche sui beni saranno estinte con una parte della liquidità confiscata ai titolari del patrimonio. Dopo sette anni l’incredibile vicenda sembra essere giunta al termine. A quel punto Fortuna contatta ancora l’Agenzia nazionale per sapere se è ipotizzabile una data per l’assegnazione. Dall’altro capo del telefono l’incaricata la gela con queste parole: «Come, non ha saputo? I beni sono stati messi a disposizione delle prefetture, perché potrebbero servire a ospitare i profughi ucraini». «No, non ho saputo niente. E chi avrebbe dovuto dirmelo?» La successiva telefonata alla prefettura di Vicenza conferma il provvedimento che sospende l’assegnazione: «È arrivata una circolare da Roma - le spiega il funzionario - abbiamo già fatto un sopralluogo nei locali per verificarne l’idoneità ad accogliere persone». Buono a sapersi. È una storia tanto paradossale da dubitare che sia realmente accaduta. E invece l’errore più grande che si possa commettere è considerarla un’eccezione. Al contrario, si tratta della regola, per stessa ammissione della Commissione parlamentare. Che non a caso invoca, com’è suo costume e in spregio a qualunque garanzia di difesa, «un’assegnazione provvisoria agli enti locali, anziché aspettare anni per la destinazione del bene, spesso non verificandone le condizioni di degrado o di occupazione abusiva, accumulando debiti per spese condominiali non pagate». L’assegnazione provvisoria è un rimedio peggiore del male, perché legittima un esproprio arbitrario, senza neanche le garanzie minime del procedimento di prevenzione. Tuttavia questa surreale proposta mostra l’abisso di un sistema che ha prodotto una gigantesca manomorta pubblica, in assenza di qualunque capacità gestionale. I beni confiscati sono il vero buco nero della democrazia italiana. Lo ha dovuto constatare amaramente Marta Cartabia poche settimane dopo la sua nomina a ministra della Giustizia: «Sembra incredibile» ha detto la guardasigilli in audizione alla Commissione antimafia, ammettendo che lo Stato non conosce esattamente il numero e la tipologia dei beni sequestrati e confiscati nei procedimenti di prevenzione e ignora, in quanto non rilevati, quelli relativi al processo penale. Prima di lei lo aveva denunciato la Corte dei Conti, non senza far notare che questa unica e inaccettabile forma di ignoranza pubblica è tanto più grave se si pensa che negli ultimi dieci anni sono stati erogati notevoli finanziamenti per tre diversi sistemi informatici. Che nulla potevano contro i ritardi dei tribunali nell’iscrizione delle misure di prevenzione e contro il mancato dialogo tra questi e gli amministratori giudiziari e tra questi e l’Agenzia nazionale. Secondo quanto racconta la relazione della Commissione antimafia, il flusso dei dati pervenuti all’Agenzia per via telematica è pari a meno del 10 per cento dell’intero ammontare dei dati trasmessi; il restante 90 per cento arriva per via cartacea e con i tempi biblici della burocrazia giudiziaria. Un altro grave sbaglio sarebbe credere di poter derubricare una simile giungla come un disordine burocratico della macchina della giustizia. In realtà è lo specchio di un’irresponsabilità del potere nella quale sfuma qualunque distinzione tra l’esercizio della legalità e l’abuso. Il sistema della prevenzione è un elefantiaco reticolo di relazioni arbitrarie, fondate su un rapporto fiduciario che talvolta coincide con un rapporto amicale, e regolate da una discrezionalità amplissima. Che per un decennio ha distribuito deleghe, incarichi e consulenze senza limiti e senza controlli effettivi, e che tutt’ora resta un universo opaco. L’Osservatorio permanente sulla raccolta dei dati relativi ai beni sequestrati e confiscati, insediato dalla guardasigilli Marta Cartabia il 21 giugno 2022, dispone di una mappa parziale e generica di questa babele, ma i pochi dati a disposizione bastano a certificarne il fallimento: le aziende sequestrate o confiscate, affidate alla gestione degli amministratori giudiziari, risultano essere 2.245, ma solo 145, cioè il 6,5 per cento, sono attive. Per le altre 2.100 la misura di prevenzione è stata la condanna a morte. Ma le dimensioni del fenomeno reale sono ben diverse. I dati raccolti dalla Banca centrale del ministero della Giustizia, citati da Marta Cartabia nella sua audizione, indicano la cifra monstre di 215.995 beni fin qui coinvolti nelle misure di prevenzione. Di questi 81.913 sono stati confiscati. Nel solo 2020, anno della pandemia, in cui tutto pare essersi fermato tranne la macchina dell’Antimafia, i procedimenti di prevenzione patrimoniale sono stati 10.239, contro i 9.813 dell’anno precedente. Per incompleti che siano, questi dati provano un fallimento che certamente non giova alla lotta contro la criminalità organizzata. Al netto dei ritardi nella destinazione dei beni, del dialogo inesistente tra l’Agenzia nazionale e le procure, della scarsità di risorse nelle casse dei Comuni, della sospensione o della revoca, da parte delle banche, delle linee di credito, la morte delle aziende e il degrado dei patrimoni confiscati hanno una ragione più profonda, che si finge di non vedere: il flop dell’idea che il pubblico possa sostituirsi ai privati nella gestione d’impresa, e soprattutto che possa farlo attraverso soggetti delegati, gli amministratori giudiziari, che con la cultura d’impresa spesso hanno poco a che fare. Ce lo vedete un avvocato o un commercialista a gestire un cantiere edile, un autosalone o un’azienda agricola? E un prefetto a fare il manager? Perché è questo lo scenario che si profila all’orizzonte. Dal 2017 ai profili delle libere professioni, già inadeguati, la legge ha aggiunto anche il personale dell’Agenzia nazionale: una parte è infatti stata abilitata alla mansione di amministratore giudiziario, maturando uno specifico scatto di qualifica e salariale. *Un estratto dal libro “L’Inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene” di Alessandro Barbano I magistrati contro Nordio: "No all'aumento di due anni dell'età pensionabile delle toghe" di Liana Milella La Repubblica, 6 marzo 2023 Per il presidente dell'Anm Santalucia è una misura che alimenta il carrierismo ed è “inutile” perché “saranno veramente pochi i magistrati che sceglieranno di restare in servizio”. Il segretario di Area Albamonte: “Il governo pensi ad accelerare i concorsi". Proprio come nel 2014. Quando l’allora premier Matteo Renzi tirò fuori dal cilindro il “coniglio” dell’età pensionabile delle toghe e la tagliò di ben 5 anni (da 75 a 70) con conseguenze catastrofiche che il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ancora ricorda (“la Cassazione fu letteralmente decapitata”), tant’è che il Csm di allora (era quello di Palamara) spese quattro anni per nominare i capi degli uffici (solo 33 alla Suprema corte). E certo questo spiega anche perché proprio in quegli anni l’argomento principe nelle chat era quello degli incarichi. Oggi ci siamo di nuovo e il sindacato delle toghe è già sul piede di guerra. È certo contro lo stesso Santalucia, e il gruppo della sinistra di Area. Criticissimo ieri il segretario Eugenio Albamonte che bolla la proposta come “improponibile e inutile”. Soprattutto perché, come svela lo stesso Santalucia, via Arenula sta ipotizzando un meccanismo che rischia di far fallire la faccenda in anticipo. Ma partiamo dall’inizio, da quando “matura” la proposta nella testa del Guardasigilli Carlo Nordio. È il 24 novembre quando il neo ministro della Giustizia incontra per la prima volta il sindacato delle toghe. E lì lancia a Santalucia e al comitato direttivo che gli siede davanti il ballon d’essai dell’aumento dell’età pensionabile: “Cominciate a pensare a questo problema…”. Massima freddezza dei giudici che ben ricordano le polemiche e le conseguenze negative del taglio di Renzi che già allora non vedeva del tutto d’accordo il Guardasigilli Andrea Orlando, il cui capo dell’ufficio legislativo era proprio Santalucia. Furono costretti alla pensione magistrati famosi come gli allora procuratori di Milano Edmondo Bruti Liberati e di Torino Armando Spataro. E lo stesso Renzi fu poi costretto a un ulteriore decreto per “salvare” per un anno l’allora presidente della Cassazione Gianni Canzio. La proposta di Nordio sembra fermarsi lì. Ma rieccola spuntare all’inizio di febbraio, questa volta per bocca di Alberto Rizzo, il potente capo di gabinetto del ministro. Che ne riparla con Santalucia e gli fornisce anche i dettagli, tra cui quello destinato a incattivire ulteriormente una categoria che considera del tutto improduttivi i continui stop and go sull’età pensionabile. Rizzo articola la proposta: l’età della pensione, per tutte le magistrature - quindi ordinaria, contabile, amministrativa, militare, l’avvocatura dello Stato - passa da 70 a 72 anni. Motivo? Mancano magistrati in servizio, i concorsi sono in ritardo. Ma per anticipare l’accusa di “carrierismo”, Rizzo svela che i capi degli uffici, sull’orlo della pensione perché giunti a 70 anni, se dovessero accettare di restare due anni in più, devono rinunciare al posto direttivo e tornare a fare gavetta. Per intenderci, un presidente di sezione della Cassazione deve tornare a essere un giudice ordinario che scrive sentenze. Santalucia ascolta la proposta, e subito scuote la testa. Perché la considera proprio per come è costruita destinata al fallimento in partenza. Come dice ai colleghi - che oggi ne parleranno nella riunione dell’Anm a piazza Cavour - “è già facile prevedere che saranno davvero pochi quelli che decideranno di restare in servizio perdendo il posto direttivo o semi direttivo”. Ma c’è di più, come aggiunge Albamonte: “Qui il rischio è che questa proposta venga completamente cambiata durante il dibattito parlamentare e cada del tutto proprio l’ipotesi del capo dell’ufficio che pur di restare in servizio altri due anni torna soldato semplice”. Anche Santalucia la pensa proprio così. E ieri lo ha già detto ai colleghi preannunciando il dibattito di oggi, convinto com’è che “questo gioco del legislatore sull'età pensionabile, che ancora una volta si prospetta episodico e frammentario, non valga la candela". Anche perché, negli ultimi vent’anni, i governi hanno proprio “giocato” sulla questione soprattutto per i propri interessi. Come ha fatto l’allora premier Silvio Berlusconi nel 2002 quando ha portato il limite a 75 anni perché voleva attirarsi le simpatie della Cassazione, dove stavano per approdare i processi suoi e di Cesare Previti. Del resto è fin troppo evidente che cambiare il tetto dell’età può, all’improvviso, favorire alcuni e danneggiare altri. Giusto sotto mano ecco l’esempio dell’ormai ex presidente della Cassazione Piero Curzio, che va in pensione proprio oggi, e che se fosse stata in vigore la legge “Nordio” sarebbe potuto restare, ma sarebbe finito a scrivere sentenze. Quindi questo non avrebbe cambiato il destino di Margherita Cassano che ha preso il suo posto. O ancora, l’eventuale legge modificherebbe i termini delle prossime sfide per posti direttivi, perché chi oggi non può “correre” perché non ha i quattro anni necessari per coprire il posto, potrebbe invece averli se l’età si allunga da 70 a 72 anni. Parliamo di posti importanti, come il presidente aggiunto o il procuratore aggiunto della Cassazione. Santalucia è convinto che la legge, se davvero dovesse passare, sarebbe nei fatti “un fallimento” perché chi ha un posto direttivo non resta in servizio se tanto lo perde, mentre i “soldati semplici” che hanno già maturato la pensione non ritengono utile restare in servizio. In termini di “numeri” l’eventuale legge sarebbe un flop. Tant’è che il gruppo di Area, come dice Albamonte, già boccia ufficialmente l’ipotesi. Lo stop and go delle carriere viene visto dalle toghe solo come un mezzo surrettizio per tenere in servizio qualcuno di utile all’establishment. Guerriglia anarchica, per ora nessun arresto. L’Antiterrorismo: “C’è un salto di qualità” di Irene Famà e Francesco Grignetti La Stampa, 6 marzo 2023 «La sentenza della Cassazione segna uno spartiacque». La paura per manifestazioni più radicali e il precedente di Camenish, amico di Cospito. Dopo una giornata a devastare se ne stavano lì in disparte, a qualche metro dalla questura di Torino, ad aspettare copia degli atti, o altri attivisti ancora trattenuti negli uffici. Poi l’orda anarchica ha lasciato la città. Con trentasette denunce e undici fogli di via. In ventotto erano stati fermati dalla Digos nella giornata di sabato durante l’attività di prevenzione. Erano arrivati da tutta Italia in solidarietà di Alfredo Cospito. E da Spagna, Francia, Germania. Gli agenti li hanno bloccati in stazione o per strada: negli zaini petardi, maschere antigas, mazze, qualche martello. Altri cinque sono stati fermati durante gli scontri. Nessuno è stato arrestato. «Volevano raggiungere il centro, piazza Castello - ha spiegato il questore di Torino Vincenzo Ciarambino - Se così fosse successo, vi lascio immaginare le conseguenze». I sindacati di polizia intervengono. «Fino a che punto queste manifestazioni dovranno essere tollerate?», si chiede Eugenio Bravo del Siulp. E Pietro Di Lorenzo del Siap aggiunge: «Nessuno li comprende, nessuno li giustifica ma da decenni agiscono indisturbati». E le indagini ora proseguono per individuare i responsabili delle devastazioni e per ricostruire la regia. La manifestazione di sabato, gli anarchici la organizzavano da mesi. Da quando la scorsa estate, durante un presidio per le vie della città, circolavano dei volantini di minaccia contro la Digos e la magistratura torinese. L’anarchico libertario Guido Mantelli, in radio, l’ha ribadito a inizio marzo: «La Digos e la procura sono un tandem assassino». E ancora, ha definito il procuratore generale Francesco Saluzzo come il «principale responsabile» della detenzione di Alfredo Cospito al 41bis. E Pasquale Valitutti, volto storico dell’anarchia, sabato pomeriggio ha rinnovato le minacce: «Chi ha condannato a morte Alfredo verrà giustiziato». La violenza della manifestazione torinese era stata prevista dagli apparati di sicurezza. Non soltanto perché Torino è divenuta ormai la città simbolo dell’anarchismo, ma perché dalla pancia di questo movimento si alzano sordi brontolii che non fanno pensare a nulla di buono. Spiegano fonti dell’Antiterrorismo che la sentenza della Cassazione «segna uno spartiacque. Basta guardare i siti d’area. Da quel momento sembra che abbiano deciso di non trattenersi più». In effetti sul sito “Il Rovescio” si leggono parole di fuoco: «Niente sarà più come prima. Con la freddezza dei boia hanno deciso di ammazzare Alfredo. La democrazia si risolve semplicemente in questo: inchieste, spettacolarizzazioni mediatiche, sentenze di morte». Davvero questi documenti fanno presagire un salto di qualità. Secondo i nostri analisti, il percorso è chiaro. Le manifestazioni potrebbero diventare sempre più violente. E però quel che spaventa di più è una possibile stagione di attentati. «Gli anarco-insurrezionalisti sono fantasiosi nella ricerca degli obiettivi, ma seguono moduli operativi abbastanza consolidati». Il rimbalzo continuo tra detenuti e militanti, ad esempio. Qualcosa che s’è già visto dieci anni fa: il Cospito di allora si chiamava Marco Camenish, un militante svizzero che in nome dell’ecologismo più arrabbiato aveva minato diversi tralicci tra i monti elvetici. Arrestato, era poi evaso con altri, e nella fuga fu uccisa una guardia penitenziaria. Camenish si rifugiò in Italia. Anni dopo i carabinieri lo arrestano dalle parti di Sondrio, di nuovo a seguito di un conflitto a fuoco. Ebbene, nel 2012 Camenish avviò uno sciopero della fame. Non era una cosa spontanea, ma orchestrata. Un altro leader dell’anarchismo, lo spagnolo Silva da Pomba, detenuto in Germania, iniziò anche lui lo sciopero della fame per solidarietà. In Italia e in Grecia cominciarono a viaggiare molti pacchi bomba. Furono colpite l’università Statale di Milano e un centro di detenzione per immigrati a Gradisca del Friuli. «Con Cospito sta andando come fu con Camenish. I documenti del “prigioniero politico” sono di indirizzo ai compagni che stanno fuori; le azioni dei compagni fuori devono incoraggiare la lotta del detenuto». Nel 2003, proprio a sostegno di Camenish, la neonata Federazione anarchica informale - che ora sappiamo essere stata fondata da Cospito - lanciò una «campagna contro la repressione» che battezzò beffardamente Operazione Santa Klaus. Inviarono plichi bomba all’allora presidente dell’Ue Romano Prodi, al presidente del Ppe, ad Europol ed Eurojust. Dieci anni dopo, a parti rovesciate, Camenish fece uscire dal carcere svizzero dove nel frattempo era stato estradato, un inno a sostegno di Cospito. «Il fuoco e il sabotaggio rivoluzionario con ogni mezzo necessario, la voce della dinamite e delle Tokarev li perseguiti senza tregua», scriveva. Era un ammiccamento alla pistola di marca Tokarev con cui l’italiano aveva appena gambizzato un manager dell’Ansaldo. Sono trascorsi venti anni, e di nuovo una mano anarco-insurrezionalista ha inviato un pacco bomba quest’estate alla sede della società Leonardo e più di recente al tribunale di Pisa. «A colpi di esplosivi - hanno rivendicato - saranno colpite le strutture e mutilati gli uomini del potere». Il timore dei nostri analisti è che sia solo l’antipasto di quel che sarà, con Cospito sempre più debilitato e a rischio della vita. Treviso. Un "libro sospeso" per i carcerati di Santa Bona di Isabella Loschi oggitreviso.it, 6 marzo 2023 L’iniziativa alle Librerie Paoline con Cittadinanzattiva Treviso, don Pietro Zardo: “Il dono di un libro è un gesto di solidarietà". È ripartito il progetto di solidarietà "Il libro sospeso", che unisce insieme a Treviso - per il secondo anno consecutivo - l’associazione Cittadinanzattiva, la Libreria Paoline e la Cappellania del carcere con don Pietro Zardo. L’attività consiste nella raccolta di libri nuovi, acquistabili alla Libreria Paoline, da destinare alle persone detenute alla Casa circondariale di Treviso. Lo scorso anno, la prima volta in cui l’iniziativa fu proposta in città, alla direzione del carcere di Santa Bona furono consegnati 127 libri, ciascuno dei quali con una dedica. Anche quest’anno, i libri si potranno acquistare per tutto il periodo di Quaresima fino a sabato santo, l’8 aprile prossimo; nella proposta di titoli, ci saranno anche testi per bambini, pensando ai figli dei carcerati. Un altro messaggio è indirizzato ad aziende e imprese, affinché anche loro raccolgano questo gesto di solidarietà. “L'iniziativa non vuole assolutamente essere commerciale o banale - ha spiegato per Cittadinanzattiva Treviso, Giancarlo Brunello - bensì puntare al valore delle persone e a portare con più forza l’attenzione sul tema della giustizia riparativa, che abbiamo molto a cuore”. Il sindaco Mario Conte ha sottolineato “l’importanza di queste iniziative, che vogliono aiutare a riavvicinarsi alla lettura, a sentire il profumo della carta e l’emozione di un buon libro, anche in un’ottica di reintegrazione e reinserimento sociale delle persone che hanno sbagliato le quali, anche grazie alla lettura, possono riflettere e intraprendere un nuovo percorso”. Altra questione determinante, i libri per i detenuti sono importanti. Nel 2022, prima edizione del progetto, il direttore della Casa circondariale di Treviso, Alberto Quagliotto, scrisse: “La lettura in carcere può essere un momento di contatto tra due sfere di pensiero: quella dello scrittore e quella del lettore, in un ambiente dove non il pensiero, bensì la quotidiana materialità di muri, porte e sbarre, rischia di dominare lo spirito. La lettura diventa pertanto un atto insopprimibile di libertà interiore, ancor prima che naturale veicolo di trasmissione di contenuti di svago, bellezza e profondità”. Catanzaro. “Detenzione femminile, problematiche e prospettive”, l’incontro smuove le coscienze cn24tv.it, 6 marzo 2023 Un tema delicato, complicato, che scuote le coscienze di ognuno di noi quanto mai del tutto sviscerato, quello della detenzione femminile. Un argomento trattato dalla Fidapa di Catanzaro, mercoledì scorso, 1 marzo, nella Sala Concerti di Palazzo de Nobili. L’emozione della presidente Laura Gualtieri, nel prendere parola e fare gli onori di casa, non lascia spazio ad altre interpretazioni, se non all’estrema sensibilità della Fidapa verso un argomento così intimo, ignoto ai più, che tocca il cuore di tutti, in particolare di chi è donna, madre. “La Fidapa non si occupa solo di parità di genere ma anche di problematiche che riguardano la comunità in cui essa opera - puntualizza l’avvocato Gualtieri nell’inaugurare un pomeriggio che ha visto una sala concerti gremita -. Il problema delle carceri, oltre ad essere importante, per certi versi è anche scomodo, ancor più se ci immettiamo nel tema specifico della detenzione femminile, un mondo del tutto inesplorato. Chiunque commetta un reato deve necessariamente scontare la pena, ma è altrettanto vero che una donna che abbia commesso un reato possa essere una brava madre”, osserva la presidente Gualtieri, visibilmente commossa. “Il nostro intento è smuovere le coscienze - conclude - per contribuire a quel cambiamento sociale e culturale che auspichiamo”. E non può essere altrimenti, perché da sempre la sezione catanzarese della Federazione Italiana Donne Arti Professioni Affari promuove un’opera di intervento nel tessuto culturale del territorio, che transita mediante eventi del genere. Immancabile il saluto del Sindaco Nicola Fiorita, il quale, nel rievocare il suo percorso da docente anche nelle carceri, lancia un messaggio perentorio: “Credo che qualunque persona, dovunque sia - su un barcone, in strada o in una cella - abbia il diritto di essere salvato”. L’avvocato Vincenzo Agosto, presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Catanzaro, inaugurando il giro degli interventi, da par suo auspica che l’attenzione verso questa tematica resti accesa: “Il carcere toglie la propria identità di donna, portando a uniformarsi in orari e spazi comuni. Ecco, su questo aspetto dobbiamo soffermarci a riflettere, immedesimandoci in coloro che vivono questa condizione dovuta a degli errori e per la donna è ancor più dura - ammette il presidente Agosto. Mi auguro che si possa discutere sempre più di questioni che appaiono secondarie, ma dovrebbero essere urgenti, per capire le difficoltà degli ultimi, che magari non consideriamo presenti nella nostra quotidianità e ma hanno bisogno del nostro aiuto”. Di prevenzione socio-economica parla l’avvocato Valerio Murgano, presidente Camera Penale “A. Cantafora” di Catanzaro: “Secondo studi recenti, i reati commessi dalle donne sono correlati al patrimonio o agli stupefacenti. Occorre una prevenzione intesa come sostegno alla famiglia, specie per le madri - sottolinea il presidente Murgano. Il sostegno socio-economico alla famiglia limita al massimo la possibilità che una donna commetta reati. È necessario che la carcerazione sia davvero l’extrema ratio”. Le problematiche connesse alla detenzione femminile convergono di conseguenza sul mondo del volontariato: ecco l’impegno della Fondazione “Città Solidale” onlus. “Siamo impegnati sensibilmente in questo ambito, perché Città Solidale accoglie nelle sue strutture molte donne, in prevalenza immigrate, vittime di tratta o violenza, sottratte alla strada, alla povertà - dice il presidente, Padre Piero Puglisi -. Da tempo progettiamo strutture alternative al carcere, perché non è luogo in cui una donna possa vivere un percorso di rieducazione e rinascita. Abbiamo il dovere di salvare l’ambiente nel quale far crescere un bambino, che non può stare in una stanza angusta, dietro le sbarre. Fondazione Città Solidale intende realizzare delle strutture nel territorio, affinché i bimbi e le loro madri possano crescere in luoghi sereni, familiari, virtuosi”. A moderare il dibattito, quindi, l’avvocato Francesco Iacopino, segretario della Camera Penale “A. Cantafora”, che si è soffermato sul problema della genitorialità tra le mura carcerarie, sull’evoluzione normativa e sulle difficoltà applicative, oltre al problema del lavoro che induce ad infrangere la legge: “Riflettere sulla condizione femminile detentiva è ancor più meritorio - afferma l’avvocato Iacopino -. Si tratta di donne caratterizzate da un’estrema marginalità sociale, spesso extracomunitarie, prive di mezzi di sostentamento, e ciò impone riflessione sul modello di società che oggi permette che i più deboli non abbiano alcuna speranza o finestra se non quella affacciata sulla realtà penitenziaria”. La dottoressa Laura Antonini, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Catanzaro, pone l’accento sul riflesso sociale che questa problematica assume: “Sebbene il dato delle donne detenute in Italia sia molto basso, le ricadute sono pesanti, specie per le donne che hanno un ruolo aggregante in famiglia, generando fratture ancor più profonde - analizza la presidente Antonini -. Vi sarebbero norme per tutelare il rapporto madre-figlio all’intern dell’istituzione carceraria, ma non si applicano a dovere. Purtroppo si tende a parlare di meno rispetto alle problematiche inerenti alla detenzione degli uomini”. Eloquenti, poi, le parole dell’onorevole Rita Bernardini, presidente associazione “Nessuno Tocchi Caino”: “In Italia le donne detenute sono poco più di duemila rispetto ad una popolazione di cinquantaseimila detenuti - osserva -. Il problema è che vivono in istituti penitenziari concepiti al maschile, afflitte dalle conseguenze psichiatriche figlie di marginalità sociale o povertà e ad oggi, in Calabria, sono sessantatré le donne carcerate. Innanzitutto servirebbe fare in modo che non vi siano più bimbi detenuti. Questo Paese non è riuscito a intervenire su un problema che potrebbe essere risolto facilmente con case-famiglia dove il bimbo non veda un agente di polizia penitenziaria che apra o chiuda la cella”. Su questa falsariga, l’intervento dell’avvocato Orlando Sapia, Responsabile Osservatorio Carcere - Camera Penale “A. Cantafora”: “Questo dibattito entra nel cono d’ombra dell’esecuzione penale, relativa alla presenza delle donne nella realtà carceraria, portatrici di esigenze diverse dall’universo maschile, in quanto madri, spesso. Sarebbe opportuno che lo Stato impegnasse maggiori risorse in una capillare presenza delle cosiddette case-famiglie protette”. Conclusioni affidate al professor Domenico Bilotti, docente di Diritto Ecclesiastico nell’Università Magna Graecia di Catanzaro: “Nel prisma della detenzione femminile avvengono cose che ci riguardano ogni giorno. La Fidapa oggi ha applicato lodevolmente l’articolo 2 della Costituzione, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili entro i quali si svolge la personalità umana - dice il professor Bilotti, congratulandosi con Laura Gualtieri -. Grazie alla freschezza dell’emozione della presidente Gualtieri, si è affrontato il dibattito parlando di donne detenute non come fossero ‘criminali’, ma in quanto donne con diritti, seppur colpevoli”. A suggellare l’evento, il saluto finale dell’Assessore alla cultura, pubblica istruzione e pari opportunità Donatella Monteverdi, a dimostrazione della vicinanza dell’amministrazione comunale verso il tema. Un tema che segna un ulteriore passo in avanti nell’opera di divulgazione culturale e formazione della Fidapa di Catanzaro. Latina. Giovani Democratici: “La nostra attenzione sulle storie di chi non ha voce” latinatoday.it, 6 marzo 2023 “Parliamo di carcere”: questo il titolo dell’incontro in programma a Latina sabato 11 marzo annunciato dal segretario provinciale Giovani Democratici Stefano Vanzini. "Le carceri sono un mondo su cui preferiamo non poggiare lo sguardo. Non attira, non fa rumore e, quindi, viene colpevolmente ignorato, nel locale così come nel nazionale. Per questo abbiamo deciso di organizzare una giornata concentrata solo sul tema delle carceri, della vita al suo interno ma anche all'esterno, delle relazioni tra il sistema penitenziario, la droga e la mafia e del percorso di recupero. È un tema che vogliamo esplorare insieme alle tante realtà e associazioni che lo vivono tutti i giorni”. Si tratta, spiega Vanzini, di “un primo passaggio per iniziare un percorso che speriamo possa portarci a mettere sotto i riflettori quelle che sono situazioni limite, ma che purtroppo sappiamo appartenere alla quotidianità di tanti. Non possiamo accettare più luoghi dove lo stato di diritto non arriva. Dove la nostra Costituzione non esiste. Ci saranno ospiti che verranno per guidarci verso una comprensione più ampia di aspetti di cui conosciamo soltanto la superficie. Per mettere in discussione tutte le nostre certezze sulla funzione e su come è il carcere”. L’incontro si terrà presso lo spazio Latinadamare a Latina, Viale XVIII dicembre dalle 15.00 alle 20.00. Prevede in apertura tre tavoli tematici, “Carcere e droga”, “Chi vive il carcere?” e l’ultimo “41-bis = Mafia (?)”. A seguire a partire dalle 18 la presentazione de “Il Carcere tra ieri e oggi” con Mauro Pescio e Luigi Manconi. Ferrara. "Liberi di cadere, liberi di volare", presentazione del libro di Fernando Muraca ferraratoday.it, 6 marzo 2023 Il tema della giustizia riparativa è al centro dell'appuntamento in programma alla mensa di Viale K, in via Gaetano Pesci 261 con entrata da via Wagner, giovedì alle 20.30. Nell'occasione, verrà presentato il libro "Liberi di cadere, liberi di volare", edito da Città Nuova, in presenza del suo autore Fernando Muraca e di un'assistente sociale del Ufficio esecuzione penali esterne di Bologna. Un'opportunità per riflettere del tema dell'accoglienza dei detenuti, in virtù degli argomenti della colpa e della riconciliazione affrontati nel volume. Fra le pagine del libro, è infatti presente la storia di un figlio in carcere che ha commesso un torto irreparabile e del suo rapporto sofferto con la madre. Spazio quindi a un incontro imprevedibile, mentre il perdono inizia a farsi strada da una parte, oltre a un percorso di riscatto. Una vicenda reale di speranza attraverso la veste di un romanzo, possibile fonte d'ispirazione per tante persone. Fernando Muraca è regista, documentarista, attore, sceneggiatore e autore di teatro. Ha partecipato a numerose produzioni televisive, come 'Il commissario Rex' e 'Don Matteo 8 e 10', e cinematografiche, come 'La terra dei santi'. Dal 1996 al 2000 ha lavorato come sceneggiatore e story editor per la televisione per molte fiction messe in onda in prima serata nelle reti nazionali. Nel 2000 con il cortometraggio 'Ti porto dentro', ha iniziato la sua attività di regista, ottenendo numerosi riconoscimenti. "La serie tv Mare Fuori è un carcere davvero: ma solo di umanità" di Pasquale Raicaldo La Repubblica, 6 marzo 2023 Intervista a Carmine Recano, il Comandante dell'Istituto di pena minorile di Nisida nella serie tv "Mare fuori". "Qualcuno mi ha attribuito dichiarazioni inventate: mi sarei salvato, nonostante Secondigliano. Non è vero, rifuggo quel tipo di retorica: non sono i luoghi che condizionano le esistenze". C'è un momento preciso, nella carriera degli attori più fortunati, in cui accade. E dev'essere straniante. La leggendaria Rita Hayworth ci rideva su: "Tutti gli uomini che conosco - diceva, riferendosi al film noir diretto da Charles Vidor - si sono innamorati di Gilda e si sono svegliati con me al loro fianco". Perché accade esattamente questo: la linea di demarcazione tra l'attore e il personaggio si assottiglia, diventa quasi impercettibile. A lui è capitato con il successo debordante di "Mare fuori", numeri da record per la terza stagione su Raidue. Ecco, per strada hanno iniziato a chiamarlo "comandante". Empatia? Certo. Goliardia? Forse. Ma c'è di più. "Sembra davvero che qualcuno non scinda la realtà dalla finzione, quasi riconoscendomi l'autorità che ho nella fiction. E tutti si sono affezionati al personaggio che interpreto". Carmine Recano ha un filo di barba fintamente incolta, un marchio di fabbrica, e tra i capelli si fa largo il brizzolato di un quarantaduenne che sperimenta, oggi più che mai, la grande popolarità : nella serie è Massimo Esposito, al comando dell'Istituto di pena minorile di Napoli, ispirato al carcere di Nisida. Qui si intrecciano le storie di detenuti sottratti alla libertà giovanissimi, in cerca di un motivo per sperare, vivere, guardare avanti. Lui li sorveglia e per molti diventa quasi un papà. E anche qui, ecco, fiction e realtà si sovrappongono: "Sul set per molti attori, giovanissimi, era la prima esperienza. Sono diventati quasi figli miei. Con Carolina Crescentini abbiamo trasferito loro alcuni dei trucchi dei mestieri. Oggi sono diventati bravissimi". Recano, che cosa significa essere fermato per strada? "Non è una questione di popolarità, ma di responsabilità. Un giorno una mamma mi ha fermato per strada, restituendo il senso ultimo del mio lavoro. Mi ha detto grazie. "Di cosa?", le ho chiesto. Mi ha risposto così: "Con "Mare fuori" per la prima volta sono riuscita a confrontarmi con mio figlio su alcune tematiche". A questo serve una serie televisiva: a far riflettere. Non abbiamo soluzioni ai grandi problemi del disagio giovanile, ma raccontiamo storie di legami, amore e amicizia in primis, in un contesto come quello del carcere". Si aspettava il successo della serie? Come lo spiega? "I dati di ascolto sono stati ottimi dalla prima stagione, ma quest'anno c'è stato un vero e proprio boom. Alla gente piace emozionarsi: noi raccontiamo la realtà del carcere, certo, ma lo facciamo soprattutto attraverso le storie di chi condivide un'esperienza così totalizzante, proiettando i sentimenti degli adulti in una dimensione giovanile. Evitiamo di mitizzare i personaggi, come accade in "Gomorra". Non offriamo un unico punto di vista: non si tifa per chi delinque. A costo di perdere per strada personaggi di riferimento, come Ciro. Pur in un linguaggio nazional popolare, la fiction non fa sconti: chi fa delle scelte sbagliate, alla fine paga. Chi analizza i propri errori e viene ri-educato, può invece riscattarsi. E molte scuole ci chiamano per portare la nostra testimonianza sui temi del disagio giovanile: siamo diventati un punto di riferimento". Come ha studiato per diventare "comandante"? "Rifuggendo i cliché, provando a comprendere il disagio di chi è costretto alla detenzione, anche confrontandomi con ragazzi che hanno avuto esperienze in carcere e con alcuni operatori. La forza del comandante è la sua profonda umanità. E in carcere vince soprattutto l'umanità". In rete girano diversi "meme" con il suo volto. Uno dice: ecco la trama di "Mare Fuori", e c'è lei. Si sente un sex symbol? "A 42 anni ho altre priorità, ma il riscontro favorevole del pubblico fa piacere. Faccio la stessa vita di prima, con qualche selfie in più. Mi sento molto fortunato, perché quando mi guardo intorno vedo attori bravissimi che faticano ad emergere. In fondo, sono un po' insicuro: mi chiedo sempre se sono all'altezza di un progetto". Quando ha capito che avrebbe voluto fare l'attore? "La mia sembra una storia già ascoltata, un grande classico. Accompagni un amico che fa recitazione a teatro, ti notano e dopo due settimane ti chiamano. Con la spensieratezza dei miei 19 anni, entro in una stanza e dopo un po' il regista mi fa: complimenti, sei il mio protagonista. Il film era "Un nuovo giorno" di Aurelio Grimaldi. Mi sono trasferito a Roma e ho cominciato a studiare. Ma a quell'età non hai consapevolezza: entri in un vortice, solo dieci anni dopo mi sono guardato allo specchio, dicendomi che forse davvero il mio mestiere è quello". La famiglia come ha reagito? "Papà operaio, mamma casalinga: mi hanno dato la massima libertà di scegliere, rispettando ogni singola decisione". Ci parli della sua Napoli... "La mia famiglia è originaria di Montecalvario, ma fino ai 12 anni ho vissuto a Secondigliano, dove ho frequentato la scuola media Moscati. Poi ci siamo trasferiti nella zona di piazza Mazzini, ho preso la licenza media e poi il diploma tecnico-commerciale. Qualcuno mi ha attribuito dichiarazioni inventate: mi sarei salvato, nonostante Secondigliano. Non è vero, rifuggo quel tipo di retorica: non sono i luoghi che condizionano le esistenze. Il disagio, che ti porta a intraprendere strade sbagliate, nasce soprattutto all'interno del nucleo familiare. Dietro un ragazzino che sbaglia, c'è il cattivo esempio di un adulto. Secondigliano ha le sue criticità, ma non mi piacciono le etichette: raccontano una sola realtà, il mondo è pieno di sfumature". Ha detto che non potrebbe vivere senza il mare, vero? "Mi aiuta a riflettere, mi tranquillizza, mi dà pace. Un giro in via Partenope mi riconcilia con me stesso". Dal cinema alla televisione, la città vive un momento straordinario. "Napoli è cinema, Napoli è televisione. Siamo un popolo vivo e creativo. Il nostro segreto è che dopo aver raccontato una storia ce n'è subito dietro un'altra che bussa. La città è un contenitore inesauribile di persone, vicende, racconti. Ha una luce particolare e un'energia irresistibile, emozioni contrastanti che favoriscono la creatività. Chi ci vive è fortunato. Problemi? Ci sono, certo, ma non dipendono dal popolo: è che si è sempre investito troppo in altre zone del Paese". Cosa ha in programma ora, comandante Recano? "Sono in tourneè con "Mine Vaganti" di Ozpetek (regista con il quale Carmine ha instaurato, a partire da "Le fate ignoranti", una lunga collaborazione, ndr), interpreto il ruolo che nel film era di Alessandro Preziosi. Dal 9 al 12 marzo siamo al teatro Acacia di Napoli. Da maggio si torna sul set con le riprese della quarta stagione di "Mare fuori"". Meglio il teatro o la televisione? "In televisione e nel cinema il regista genera un rapporto intimo con lo spettatore, benché filtrato dalla macchina dalla presa, che indugia sul non detto, sui dettagli, su occhi e mani. A teatro non abbiamo filtri, e ogni volta accade qualcosa di nuovo, diverso: in chi recita, nel pubblico...". Associazioni e volontari senza aiuti. Il governo dimentica il Terzo settore di Stefano Iannaccone Il Domani, 6 marzo 2023 Il Terzo settore è sparito dall’agenda del governo Meloni. Dall’insediamento, poco o nulla è stato fatto, nonostante le richieste siano note da tempo, in particolare al ministero del Lavoro, guidato da Marina Elvira Calderone, che ha assegnato la delega della materia alla viceministra, l’esponente di Fratelli d’Italia, Maria Teresa Bellucci. Il punto più significativo riguarda il mancato sostegno economico contro il caro bollette, per l’anno 2023, nella legge di Bilancio. Il mondo del volontariato è stato uno dei pochi esclusi dai contributi stanziati. I ristori sono stati concessi, per lo scorso anno, nel perimetro del decreto Aiuti quater. E lì si sono fermati, costringendo gli enti a fare di necessità virtù di fronte al rincaro dei prezzi dell’energia. Ma questo è solo un punto di partenza, perché lo spettro di problemi è ampio. «Chiediamo di essere messi nelle condizioni di portare avanti l’impegno innanzitutto attraverso norme che lo agevolino invece di ostacolarlo», dice Vanessa Pallucchi, portavoce del forum Terzo settore. La distanza con il centrodestra si manifesta, poi, su alcune politiche del governo, come nel caso del decreto sulle Ong in palese contrasto con la visione del mondo associazionismo, formato da volontari che fanno dell’accoglienza una delle loro attività principali. Promesse elettorali - Eppure in campagna elettorale il destino di questi enti sembrava stesse molto a cuore al partito di Meloni. Giulio Tremonti, all’epoca candidato di FdI e indicato come possibile ministro in un esecutivo di centrodestra, aveva rilanciato la sua vecchia intenzione di rafforzare il 5 per mille in favore delle associazioni, trasformandolo in una sorta di 10 per mille. «Una cosa che si può fare subito», sosteneva l’attuale deputato di Fratelli d’Italia. La proposta era inattuabile, perché bisognava intervenire su altre questioni per consentirla. Ma aveva il merito di dare attenzione al terzo settore. Nel programma elettorale di Fratelli d’Italia, poi, erano stati previsti punti concentrati a favore dell’associazionismo e del volontariato. Nel capitolo dedicato allo stato sociale, era presente l’intenzione di fornire «sostegno, in particolare agli enti impegnati nell’assistenza a persone in difficoltà economica e abitativa». Meloni prometteva anche la «reintroduzione del 2 per mille per gli enti che si occupano di cultura», rispondendo alle istanze delle associazioni. Solo che, allo stato, non si scorgono iniziative in tale direzione. «In campagna elettorale i partiti di maggioranza, penso soprattutto a FdI, hanno elogiato il mondo del volontariato salvo poi, una volta al governo, voltargli le spalle», sottolinea la senatrice del Movimento 5 stelle, Barbara Guidolin, che ricorda come nella legge di Bilancio siano stati negati «anche i sostegni contro i rincari energetici». Richieste disattese - Nella manovra economica è stata inserita, grazie a un emendamento approvato alla Camera, la sperimentazione del reddito alimentare. Alla base c’è la volontà di destinare ai più poveri i pacchi alimentari, con i prodotti invenduti dei negozi della distribuzione alimentare. Lo strumento prevede un coinvolgimento del mondo dell’associazionismo, in virtù della conoscenza capillare dei fenomeni di povertà sui territori. Solo che il ministero di Calderone deve ancora predisporre il decreto attuativo, scaduto lo scorso 2 marzo. Al di là della legge di Bilancio, non si sta facendo fronte a varie richieste, come l’innalzamento almeno a 400mila euro della soglia per i bilanci semplificati, oggi fissata a 200mila euro, o la possibilità di rendere deducibili le retribuzioni ai lavoratori assunti dagli enti non commerciali. Così la pressione fiscale è attualmente più alta per il terzo settore rispetto agli enti “profit”. Politica distratta - C’è poi il capitolo del Pnrr, su cui il mondo dell’associazionismo lamenta uno scarso coinvolgimento, a dispero di conoscenze e competenze maturate sul campo.Qualche concessione è giunta dal Milleproroghe, approvato definitivamente da Montecitorio in settimana. Le Onlus potranno almeno ricevere per il 2023 il 5 per mille, un beneficio che rischiavano di perdere in attesa di un intervento fiscale complessivo. Insomma, almeno questo disastro è stato scongiurato. In generale «quello che constatiamo», osserva Pallucchi, «è che spesso la politica non riesce a comprendere il valore, anche economico oltre che sociale, del terzo settore, e si limita, quando non scivola addirittura nelle accuse o campagne di fango, a una visione “caritatevole” del suo impegno», conclude la portavoce del forum. L’aumento della disuguaglianza previsto dal Mef è esplosivo di Matteo Rizzolli Il Domani, 6 marzo 2023 Nei tre anni successivi alla pandemia la disuguaglianza in Italia ha preso l’ottovolante. disuguaglianza in forte salita nel 2020, con l’economia italiana in contrazione che ha colpito soprattutto i lavoratori precari e marginali. Una serie di misure compensative (ricordate le casse integrazioni straordinarie ed i decreti dignità?) hanno tentato di abbassare la disuguaglianza e la ripresa del 2021 ha certamente aiutato. Con il 2022 abbiamo visto dispiegarsi gli effetti della riforma dell’Irpef che ha abolito uno scaglione di reddito (disuguaglianza su) e l’introduzione dell’Assegno unico (disuguaglianza giù); abbiamo poi visto l’impatto dell’inflazione e della guerra sui prezzi dell’energia (disuguaglianza su), e la parzialmente mitigazione dai vari bonus energia (disuguaglianza giù). Con la legge di bilancio 2023, il governo Meloni sta di nuovo intervento con misure che sono destinate a far peggiorare significativamente la disuguaglianza, anche se sta tentando di nasconderlo. È uscita infatti da poco la Relazione sugli indicatori di Benessere equo e sostenibile (Bes) 2023 pubblicata dal ministero dell’Economia dalla quale si emerge che le politiche del governo attuale introdotte con la legge di bilancio 2023 vanno nella direzione di un aumento della disuguaglianza del reddito disponibile. Un aumento considerevole - Perché la disuguaglianza è un problema? Perché può avere implicazioni negative per la stabilità economica e sociale di un paese. In particolare, una disuguaglianza eccessiva può generare tensioni sociali, ridurre la coesione sociale e creare instabilità politica. Inoltre, quando una parte significativa della popolazione ha un reddito insufficiente, ciò può limitare la domanda aggregata e rallentare la crescita economica. Dal 2017, il Mef invia ogni anno al parlamento una relazione sull’impatto delle politiche economiche dell’anno precedente e dell’anno in corso e dei tre anni successivi, di una serie di indicatori di benessere equo-sostenibile (Bes). Questi indicatori sono utilizzati per integrare il processo di programmazione economica e tra questi indicatori vi è anche quello della disuguaglianza, misurata come il rapporto tra la ricchezza del quinto della popolazione più ricco ed il quinto più povero. La lettura di questo rapporto è quindi molto istruttiva per formulare dei giudizi circa le politiche economiche dei governi. Mentre nel 2022 si stima una sostanziale diminuzione della disuguaglianza principalmente dovuta all’introduzione dell’assegno unico per i figli che più che compensa l’impatto negativo della riforma dell’Irpef e alle misure una tantum contro il caro energia, le stime per il 2023 mostrano un peggioramento di circa il 2 percento della disuguaglianza. Il 2 percento è tanto oppure è poco? Per fare un raffronto, si tratta della metà dell’impatto che ha avuto l’intera pandemia, quindi un impatto alquanto significativo. La distanza tra il quinto più ricco e quello più povero è destinata nel 2023 ad aumentare sia perché i poveri diventano più poveri e sia perché i ricchi diventano più ricchi. I poveri infatti subiscono l’eliminazione dei contributi monetari contro il caro energia che erano stati erogati nell’anno precedente, nonché la riduzione del periodo di percezione del reddito di cittadinanza da 12 a sette mesi per buona parte dei nuclei familiari (quelli senza minori, persone con disabilità o anziani). I ricchi allo stesso tempo giovano dell’innalzamento della soglia sotto la quale si può applicare il vantaggioso regime forfettario della flat tax al 15 percento (soglia estesa da 65mila euro a 85mila euro di fatturato) e della flat tax incrementale al 15 per cento per gli incrementi di reddito registrati tra il 2023 e il reddito più alto registrato nel triennio precedente. Il reddito di cittadinanza - Si noti che il peggioramento della disuguaglianza previsto per il 2023 ancora non tiene conto dell’annunciata abrogazione del reddito di cittadinanza che, secondo la legge di Bilancio appena approvata, avrà luogo a partire dal 1° gennaio 2024. Insomma, il peggioramento significativo del 2023 è solo il probabile preambolo ad un’impennata della disuguaglianza che avverrà nel 2024 se il Rdc verrà davvero abolito o radicalmente limitato. Ricordiamo infatti che pur non avendo abolito di certo la povertà come qualcuno improvvidamente aveva annunciato al momento della sua approvazione, il reddito di cittadinanza ha certamente ridotto le disuguaglianze: tra il 2019 ed il 2020, quando il reddito di cittadinanza è entrato pienamente in vigore, l’indice di disuguaglianza sopramenzionato si è ridotto di circa il 5 per cento secondo le stesse stime del Mef del 2020. È quindi davvero difficile credere al rapporto Bes 2023 che prevede per il 2024 (anno della prevista abrogazione del reddito di cittadinanza) lo stesso livello di disuguaglianza del 2023 almeno di non ritenere - come di fatto gli estensori del rapporto fanno - che qualsiasi misura verrà istituita nel 2024 avrà lo stesso effetto redistributivo del reddito di cittadinanza attuale. Uno scenario pericoloso - La questione della disuguaglianza ci interpella come cittadini e come studiosi delle politiche pubbliche. John Rawls ci insegnava che le nostre società democratiche possono tollerare la persistenza e addirittura l’aumento della disuguaglianza solo a patto che la condizione dei più poveri migliorasse con il tempo. Lo scenario che il rapporto del Mef ci mette davanti però cambia radicalmente: nei prossimi due anni la combinazione di misure favorevoli ai percentili più ricchi della popolazione (flat tax in testa) e di misure restrittive verso i percentili più poveri (vedi limitazione ed abrogazione del reddito di cittadinanza) allargherà la forbice della disuguaglianza soprattutto attraverso la punizione delle fasce più deboli. Questo oltre a essere ingiusto è anche socialmente dirompente e pericoloso. Scuola. Perché occorre ritrovare le parole del dialogo di Elena Loewenthal La Stampa, 6 marzo 2023 Continueremo come sempre e sempre più a promuovere i valori della democrazia, della tolleranza e del pluralismo indicati nella Costituzione». Le parole del professor Di Mario, dirigente del liceo Carducci di Milano, sono tanto ineccepibili quanto necessarie. Dovrebbero peraltro essere ovvie, ovunque e più che mai dentro la scuola, che non è un luogo comune ma qualcosa di ben di più, di ben più speciale. E invece, a quanto pare di questi tempi non lo sono affatto, ovvie: c’è bisogno di ribadirle, ripeterle, mandarle a memoria. Quelle parole sono infatti l’altra faccia di un mondo in cui appendere davanti a una scuola, uno striscione che chiama la violenza e la raffigura con le facce della premier Meloni e del ministro Valditara a testa ingiù è considerato un gesto politico. Di protesta, rivolta, denuncia, mentre altro non è se non una manifestazione di violenza ottusa e incosciente. «Oggi abbiamo ricevuto un danno, doloroso», continua il preside, chiamando in causa quel circuito banale che «banalizza la stessa lettura della realtà». Parole che Valditara ha fatto bene ad elogiare, aprendo quel dialogo con la scuola che forse andava aperto qualche giorno fa di fronte a gesti di Firenze non meno violenti ed insensati che rappresentano un vulnus per tutti, fuori e dentro la scuola. C’è davvero qualcosa di malato, e di vuoto, in questo linguaggio fatto di aggressioni fisiche e parole fuori luogo: tutto è inammissibile, tutto va rifiutato. Non lo si può più tollerare. Ha ragione ancora una volta Di Mario: quello di questa violenza, fisica o verbale che sia, è un linguaggio vecchio e incagliato in stereotipi che dovremmo tutti, e più che mai gli studenti delle nostre scuole, esserci lasciati alle spalle. È il sintomo di un fallimento o quanto meno di una battuta d’arresto dell’educazione, della memoria storica coltivata come valore primario, del rispetto dell’altro da sé e prima ancora del libero confronto di idee come matrice della nostra identità. Le proteste studentesche di oggi sembrano negare tutto questo, rifiutarlo come fosse un bagaglio superfluo, in nome di una violenza tutta fatta di vecchi e insopportabili stereotipi. È compito della scuola, dunque, ma anche della politica e della società in senso lato, fare in modo di seppellire definitivamente queste bestialità e ritrovare le parole per un dialogo degno di tale nome. Non è respingendo i migranti che si governa l’immigrazione di Claudio Cerasa Il Foglio, 6 marzo 2023 Alle radici della tragedia di Crotone c’è anche una legge irresponsabile del 2018. E le ragioni per cui gli sbarchi in Italia sono aumentati non dipendono dalle ong, tanto criticate dalla destra nazionalista. Dati e opportunità di una svolta trattando con l’Europa. La settimana appena trascorsa è stata mediaticamente dominata da un robusto sciame di indignazione rivolto al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, accusato con buone ragioni di avere una parte non irrilevante di responsabilità nella tragedia verificatasi al largo delle coste calabresi, dove a seguito di un naufragio sono morti 70 migranti e si cercano una trentina di dispersi. Nei prossimi giorni, le autorità giudiziarie verificheranno con maggiore esattezza le ragioni per cui l’Italia ha scelto di trattare la gestione di un’imbarcazione sovraffollata come un caso non Sar (nel 2017, come ricordato da Luca Gambardella sul Foglio, la Guardia costiera, in un suo rapporto, notava che “ogni imbarcazione sovraffollata è un caso Sar di per sé ed è una possibile situazione di pericolo anche in assenza di un segnale di emergenza in base al principio di precauzione”). Ma quello che anche dalla tragedia di Crotone risulta chiaro è che non è respingendo i migranti che si governa l’immigrazione. Proteggere i confini è sacro, naturalmente, ma la protezione dell’interesse nazionale quando si parla di migranti passa anche dalla demolizione di alcuni luoghi comuni spesso veicolati dalla cultura della destra nazionalista. In questo senso, il cortocircuito che si è andato a manifestare al largo di Crotone nasce anche da qui. Nasce da una legge irresponsabile fatta nel 2018 dal governo Conte/Salvini/Di Maio grazie alla quale oggi l’Italia può trattare il caso di un’imbarcazione in difficoltà nelle acque internazionali come se fosse un caso di sicurezza da proteggere e non un caso di vite umane da salvare. E nasce, poi, da una logica perversa, in base alla quale la priorità numero uno è provare a risolvere i problemi alla superficie, ovverosia in modo superficiale, focalizzando l’attenzione solo su quale sia il modo giusto per disincentivare le partenze, alimentando così una speranza vana spesso evocata in campagna elettorale dai sovranisti attraverso uno slogan ormai conosciuto: stop immigrazione. Sulla base di questo principio, l’attenzione dei sovranisti tende a essere molto bassa quando in ballo ci sono le partite che contano (costruire alleanze in Europa per governare l’immigrazione, favorire la redistribuzione, intervenire con investimenti importanti nei paesi da cui partono i migranti) e tende a essere molto alta quando in ballo ci sono partite che contano poco o niente. Un esempio concreto di questo approccio, che rientra sempre all’interno della politica degli slogan, è l’odio rivolto dai populisti di destra alle ong. La tesi la conoscete: le ong sono dei “pull factor”, ovverosia la loro presenza nel Mediterraneo incentiva le partenze, e vedrete che eliminando le ong le partenze non ci saranno più. La logica è sempre quella: fermare, non governare. Per giustificare questa tesi, toglietemi una ong e vi solleverò il mondo, la grancassa mediatica della destra nazionalista, che quando si parla di immigrazione tende a far dimenticare velocemente ogni genere di svolta moderata, ha dato molto spazio a un passaggio piccolo, minuscolo, contenuto nella mastodontica relazione dei servizi segreti presentata martedì scorso a Roma. Scrivono i servizi: “Sebbene nel corso del 2022 l’incremento più significativo dell’attività di soccorso in mare abbia riguardato le operazioni del Dispositivo istituzionale (ad esempio Frontex, Guardia costiera, Guardia di Finanza), si registra anche l’aumento del soccorso in mare effettuato dalle navi ong, principalmente in area Sar libica”. Tanto è bastato per far scattare tutti sull’attenti e dire: eh, lo vedi, il problema sono le ong. Solo che c’è un problema: le cose non stanno così. I servizi hanno ragione quando dicono che si è registrato un aumento del soccorso in mare delle navi ong. Ma dimenticano di dire alcune cose. Primo: la percentuale, sul totale degli arrivi, dei migranti che arrivano in Italia con le ong è pari al 16 per cento (dati ufficio studi del Senato, gennaio 2021). Secondo: durante il governo Meloni, i migranti arrivati con le ong sono passati dal 20 per cento al 7,7 per cento mentre gli sbarchi sono raddoppiati passando da 21.447 dell’anno precedente a 42.641 dei mesi del governo Meloni (la comparazione sullo stesso periodo è stata fatta dall’Ispi). Terzo punto, le ragioni per cui gli sbarchi in Italia sono aumentati non hanno nulla a che fare con la presenza delle ong ma hanno a che fare con fenomeni più complessi, per affrontare i quali occorrerebbe parlare un po’ meno di temi comodi (le ong, appunto) e un po’ più di problemi complessi (le alleanze in Europa, per esempio). È la stessa relazione dei Servizi, per esempio, ad affrontare i problemi complessi e a ricordare che il “pull factor” non è quello che succede in mare ma è quello che accade a terra. Sono, scrivono i Servizi, “fattori molteplici e ricorrenti di medio-lungo periodo, come l’instabilità politica, i conflitti armati, i cambiamenti climatici estremi e la forte spinta demografica, che hanno contribuito a mantenere elevata, anche nel 2022, la pressione dei flussi migratori irregolari in direzione dell’Italia e dell’Europa” (molteplici). E ancora: “Con particolare riferimento alle principali aree di crisi umanitarie (Siria, Afghanistan, Ucraina), che hanno contribuito ad alimentare la pressione migratoria sul nostro paese” (se non ti occupi dei regimi illiberali, prima o poi saranno i regimi illiberali a occuparsi di te). E ancora: “La rotta del Mediterraneo centrale, caratterizzata da flussi che originano prevalentemente dalle coste libiche e tunisine, si conferma la principale direttrice di trasferimento via mare di migranti irregolari in Italia” (la politica estera solida, credibile, pragmatica serve a questo: a governare i fenomeni prima che non lo siano più). E infine: “In Tunisia, secondo paese di partenza dei flussi via mare diretti in Italia, nonché seconda nazionalità dichiarata allo sbarco sul territorio nazionale, la spinta migratoria risulta in aumento rispetto al 2021 (+60 per cento) principalmente a causa della perdurante crisi economico-sociale e alla vicinanza geografica alle coste italiane” (la Tunisia è una democrazia, aiutare una democrazia è più semplice che aiutare una dittatura, sai con chi parlare, e un paese che vuole salvaguardare il suo interesse nazionale dovrebbe sapere che quell’interesse lo si può salvaguardare non alzando muri o litigando con i propri partner europei ma costruendo solide alleanze con i paesi europei, per investire nei paesi instabili, per finanziarli, per aiutarli, per coccolarli, per proteggerli). E infine i Servizi hanno ricordato altri dati non convenzionali. Tra i paesi europei di primo ingresso, e questo è facile, l’Italia batte tutti, con 119.031 arrivi nel 2022 (Spagna 31.219, Grecia 18.308). Tra i paesi dell’Unione europea per richiesta d’asilo però ci sono delle sorprese. Primo: Germania (243.835). Secondo: Francia (156.455). Terzo: Spagna (117.950). Quarto: Austria (101.730). Quinto: Italia (75.845). In sostanza: in tanti arrivano in Italia, in pochi ci vogliono rimanere. Visto tutto questo, dunque, direte: ok, ma per dire cosa? Per dire che la strategia del governo, o meglio, la strategia della vecchia destra nazionalista, volta non a governare l’immigrazione ma a fermarla, individuando di volta in volta dei capri espiatori su cui concentrare il proprio populismo, non è solo disumana ma è anche controproducente, perché spinge l’Italia a concentrarsi, quando si parla di immigrazione, molto sulla propaganda e poco sui fatti, dimostrando che il populismo, fra i tanti difetti che ha, ha anche quello di essere contro l’interesse nazionale. Anche se i migranti non scappano da una guerra, hanno diritto alla protezione di Vitalba Azzollini* Il Domani, 6 marzo 2023 «Non scappano da una guerra», usa dire chi vuole connotare negativamente, e forse anche dispregiativamente, una parte dei migranti che giungono sul suolo italiano. Migranti di serie B, in altre parole, secondo un’indegna graduatoria negli arrivi. Persone per le quali non può attivarsi alcuna forma di protezione, si dice ancora, aggiungendo che vanno rimandate nei paesi di provenienza. Come se esse non fossero meritevoli di tutela per le condizioni a cui provano a sottrarsi, aspirando a una vita migliore. Ma davvero non esiste possibilità di salvaguardare chi, pur non fuggendo dalla guerra, fugga comunque da situazioni di estrema difficoltà che gli impediscono una vita dignitosa nel proprio paese, cioè il “minimo sindacale” di diritti umani e civili? Le cose stanno diversamente. Chi fugge dai cambiamenti climatici - Come ha riconosciuto nel dicembre 2018 il Global Compact per le migrazioni, i movimenti delle persone hanno origine complessa e i cambiamenti climatici possono essere un fattore fondamentale. Una parte dei migranti lasciano il proprio paese a causa degli effetti di tali cambiamenti, vale a dire siccità, inondazioni, desertificazione, contaminazione del suolo e condizioni meteorologiche estreme in diverse aree del mondo. Situazioni che amplificano le vulnerabilità esistenti in quelle aree, quali povertà, scarsità d’acqua, insicurezza alimentare, diffusione di malattie e conflitti interni, finendo con l’esacerbare le già difficili condizioni di vita degli abitanti. Tali vulnerabilità, create o aggravate dai fenomeni naturali, tendono a far coincidere la figura del migrante economico, cioè di chi parte per migliorare le proprie condizioni di vita, con quella del migrante ambientale, e ne determinano gli spostamenti sia all’interno del proprio paese sia oltre confine. I trasferimenti all'interno del proprio paese trovano riconoscimento nei Principi Guida sullo sfollamento interno delle Nazioni Unite del 1998. Tali Principi qualificano come sfollati interni (internal displaced people) le «persone che sono state costrette a fuggire o a lasciare le loro case o luoghi di residenza abituale, in particolare a seguito o al fine di evitare (…) disastri naturali o causati dall'uomo e che non hanno attraversato il confine di Stato», restando quindi nel paese di origine. I Principi non hanno valore vincolante, tuttavia forniscono una guida ai Governi e alle organizzazioni intergovernative circa i diritti degli sfollati interni. Secondo il Global Report on Internal Displacement, pubblicato nel maggio 2022 dall’Internal Displacement Monitoring Center (IDMC), il 2021 ha fatto segnare il record di 59,1 milioni di persone sfollate internamente, 4 milioni in più rispetto al 2020. «Negli ultimi 15 anni, i disastri naturali hanno provocato la maggior parte degli sfollamenti interni, con cifre annuali significativamente superiori a quelli legati a conflitti e violenze» (nel 2021, 23,7 milioni di sfollati interni per eventi ambientali). «Con gli impatti attesi del cambiamento climatico e senza un’azione climatica ambiziosa, è probabile che i numeri aumenteranno nei prossimi anni». È ragionevole attendersi che aumenteranno pure i migranti transfrontalieri: secondo lo studio Ecological Threat Register, redatto nel 2020 dall’Institute for Economics & Peace (IEP), entro il 2050 oltre un miliardo di persone potrebbero spostarsi dai propri Paesi d’origine a causa dell'impatto di eventi climatici. Anche per questo è necessario valutare se i migranti ambientali che oltrepassano i confini possano godere di protezione internazionale. Una base giuridica cui rifarsi per l’eventuale tutela dei migranti ambientali può essere la direttiva riguardante lo status di rifugiato o di persona avente titolo a beneficiare della protezione sussidiaria (n. 2011/95/UE, cosiddetta direttiva Qualifiche, recepita in Italia con d.lgs. n. 18/2014). I migranti climatici potrebbero essere ricompresi tra gli aventi diritto alla protezione sussidiaria, vale a dire coloro i quali, se tornassero nel paese di origine, rischierebbero di subire un “grave danno”. È vero che, ai sensi dell’articolo 15 della direttiva, tale danno ricorre in caso di condanna a morte o esecuzione, tortura o altra forma di trattamento inumano, minaccia grave e individuale alla vita derivante dalla violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato interno o internazionale. Ma la giurisprudenza potrebbe consentire di andare oltre i limiti di tale definizione. La Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte Edu), avvalendosi dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) - «nessuno può essere sottoposto a tortura ne? a pene o trattamenti inumani o degradanti», norma che corrisponde, in sostanza, all’articolo 15 della direttiva Qualifiche - ha già riconosciuto protezione per danni derivanti da cause naturali. Ad esempio, l’aggravamento della malattia di un migrante, per mancanza non solo di cure adeguate, ma anche di prospettive di reddito o di una rete sociale in caso di rientro nel proprio paese. Pertanto, la Corte esclude il rimpatrio non solo per chi possa subire torture o trattamenti disumani a opera dell’uomo, ma anche per chi corra rischi per la propria incolumità derivanti da minacce naturali. A questo tipo di minacce potrebbero anche essere ricondotti gli eventi ambientali. Il principio generale che si evince dall’interpretazione data dalla Corte Edu potrebbe aprire la strada alla protezione sussidiaria per i migranti climatici transfrontalieri. Infatti questi ultimi, se rimpatriati, rischiano di incorrere in danni gravi, in termini di privazione di diritti socio-economici, trovandosi privi di cibo, acqua e casa: danni che potrebbero costituire situazioni disumane o degradanti ai sensi della direttiva Qualifiche. Per riconoscere effettivamente questo tipo di tutela - in mancanza della volontà degli Stati membri di ricomprendere espressamente i migranti ambientali tra i destinatari di protezione internazionale, attraverso una modifica della direttiva Qualifiche - sarebbe comunque necessaria una pronuncia della Corte di Giustizia europea. La normativa italiana - L’Italia, tra gli Stati europei, ha oggi una delle normative che meglio consentirebbero la tutela dei migranti climatici. Il primo decreto Sicurezza di Matteo Salvini (d.l. 113/2018) permetteva una protezione speciale in caso di calamità «eccezionale e contingente», escludendo così tutti gli eventi naturali a lenta insorgenza o prevedibili e continui, come la siccità o le sempre più frequenti esondazioni, causate dalla mutazione della frequenza e dell’intensità delle precipitazioni, che mettono a rischio la sopravvivenza delle persone in molte aree del pianeta. La norma è stata poi modificata nell’ottobre 2020: le parole «eccezionale e contingente» sono state eliminate, sostituendole con la previsione di una calamità «grave». La norma attuale, più ampia di quella precedente, consente pertanto di fornire protezione speciale ai migranti che fuggono non solo da situazioni transitorie di calamita? naturali (ad esempio, un terremoto), ma anche da condizioni climatiche stabili (ad esempio, la siccità) che determinano l’impossibilità di soddisfare diritti essenziali. È vero che questori e giudici, chiamati all’applicazione della norma, valutano discrezionalmente la ricorrenza delle situazioni che legittimano la concessione del permesso di soggiorno per motivi ambientali, secondo criteri più o meno stringenti. Ma la possibilità di ottenere protezione per tali motivi, se si fugge alla ricerca di condizioni di vita migliori, in Italia è già prevista dall’ordinamento. È solo nella narrazione della politica che i migranti climatici/economici continuano a essere considerati persone prive di qualunque forma di tutela. Ci si chiede se ciò sia solo frutto di ignoranza o se vi sia il deliberato disegno di privare anche di dignità, oltre che di tutela, chi provi ad arrivare nel nostro paese. Qualunque risposta sarebbe comunque sconfortante. *Giurista Francia. Italiana 32enne morta nel carcere Fleury-Mèrogis, sospetti di violenze di Giuseppe Letizia cronachedi.it, 6 marzo 2023 Svolta nelle indagini sulla morte di Gilda Ammendola nel carcere di Parigi: la Procura ha deciso di rinviare l’autopsia prevista oggi. È emerso un presunto caso di violenza nell’istituto di pena. Probabilmente raccontato dalla ragazza al telefono con i familiari, subito dopo l’arresto, avvenuto il giorno precedente. Tutto in 24 ore. Gli inquirenti cercano di fare luce su questo lasso temporale: dal fermo della 32enne di Ercolano incensurata, al decesso avvenuto il giorno dopo. Il condizionale è d’obbligo, perché le autorità francesi fanno filtrare le notizie col contagocce. Per ora si sa solo che è stata trovata impiccata. E i familiari hanno presentato una denuncia alla magistratura italiana. La Procura di Roma ha aperto una inchiesta e disposto l’esame medico legale. In attesa di avere riscontri degli accertamenti francesi. Il sospetto - Emerge il sospetto di violenze nel carcere parigino. Percosse? Maltrattamenti? Abusi? Saranno le due indagini parallele a stabilirlo (italiana e d’Oltralpe). Intanto una intera cittadina attende con apprensione l’esito degli accertamenti. Non semplici. Bisogna coordinarsi con le verifiche svolte dalla magistratura francese, che ha disposto anche l’autopsia. Al momento si procede a rilento. E la famiglia si è rivolta all’avvocato Domenico Scarpone, per far emergere la verità. Il timore di un depistaggio - Sì, perché ad oggi tutto è possibile. Pure l’ipotesi di un depistaggio. Qualcuno potrebbe non favorire le indagini (per non dire ostacolarle). Perché? Insomma c’è da lavorare e il pubblico ministero di Roma sta acquisendo informazioni di prima mano da Parigi, per capire come muoversi. Soprattutto dove indirizzare le verifiche: ovviamente coperte dal segreto istruttorio. Di certo c’è una inchiesta sulla morte di Gilda Ammendola nel carcere più grande d’Europa (accoglie oltre 4.100 detenuti). La Procura indaga senza sosta - La Procura vuole cristallizzare la vicenda in fretta, per formulare un quadro. E punta a capire con l’autopsia se la 32enne fosse già deceduta al momento dell’impiccagione. È una pista battuta dagli investigatori. Non l’unica. La magistratura francese ha ascoltato il personale dell’istituto penitenziario e sviluppi potrebbero arrivare a breve. Ma la verità la potrà dire solo l’autopsia. Ucraina. Bambini rapiti dai russi. Dramma delle mamme: «Portati via con l’inganno». di Marco Ventura Il Gazzettino, 6 marzo 2023 Le dimensioni precise della tragedia sono ancora sconosciute. I russi si vantano di aver evacuato 738mila bambini ucraini dalle zone di guerra. Ma la Commissaria per i diritti dei minori dell’Ucraina, Daria Herasymchuk, spiega che non è un’evacuazione umanitaria. «È una deportazione e un lavaggio del cervello, ed è un atto di genocidio», dice al giornalista del Sunday Times che la incontra nel suo ufficio di Kiev per un reportage su quello che secondo la Casa Bianca è forse il più abominevole crimine che sia stato pianificato e perseguito in un anno di occupazione russa. Giovedì il procuratore capo del Tribunale penale internazionale, Karim Khan, terrà una relazione a Ginevra. Il numero complessivo dei bambini «deportati» forse non è così alto. Un rapporto dell’Università di Yale riferisce di 6mila minori tra 4 mesi e 17 anni detenuti in 43 campi, un’operazione coordinata di Mosca. La Herasymchuk ha documentato 16.221 casi. «Saranno qualche centinaio di migliaia, fanno parte della campagna di russificazione». Tutto avviene semplicemente. Lilya, 11 anni, un giorno di settembre è tornata a casa a Kherson (ancora sotto il tallone russo) dicendo a sua madre Tatiana che la scuola l’avrebbe mandata per due settimane in un campo estivo in Crimea. «C’è una guerra, non sarà così facile farla tornare», si preoccupa Tatiana. Ma gli amici di Lilya vanno e per una ragazzina cosa c’è di più bello di una vacanza dalla guerra sulla costa coi compagni di classe? E poi non c’è tutta questa possibilità di scegliere. Alle famiglie viene chiesto di portare il certificato di nascita alle 6 del mattino al porto fluviale, per un bel viaggio in battello a vapore. «Ciao ciao» alle mamme. Si salpa. Le comunicazioni all’inizio funzionano. I ragazzi raccontano di incontri coi delfini, concerti, visite a «un sacco di posti». È l’inizio di un film horror. Sembra tutto normale, nulla lo è. Lylia racconta alla mamma dell’inno russo che sono tutti costretti a cantare, ogni giorno. E dopo due settimane, nessuno ritorna. Gli scolari vengono spostati in un altro campo. E poi in un altro. E un altro ancora. I genitori cominciano a telefonare all’insegnante. «Quando ce li riportate?» Presto gli interlocutori spariscono. Nessuno dà risposte. Le comunicazioni si fanno precarie, l’agitazione cresce. Alcune madri vedono alla televisione russa o sui social bambini ucraini a Mosca che parlano coi soldati russi. L’omologa della Commissaria ucraina, la russa Maria Lvova-Belova, sembra commuoversi in tv raccontando del ragazzo che ha «adottato» a Mariupol, la città dell’eroica resistenza nella acciaieria Azovstal. Scrive il Sunday Times che vedendo queste scene Lyudmila, 44 anni, pensa con terrore alla figlia 15enne, Anastasia, partita anche lei per la Crimea. «Voleva assolutamente vedere il mare». Quando l’ha accompagnata c’erano un centinaio di bus. «Come volessero portare via tutti i bambini di Kherson». Le parole di Anastasia riecheggiano quelle di Lylia. Si parla solo russo, allo scadere del periodo il trasferimento da un campo all’altro. Un’insegnante ucraina, collaboratrice, l’ha schiaffeggiata quando ha provato a uscire. C’è il cinema, ma i film sono solo propaganda russa. Alcuni genitori sono stati invitati a scendere da Kherson, i bambini vengono istruiti a dire che avranno un appartamento gratis e un lavoro. Chi va non torna. Lylia e Anastasia alla fine sono fortunate. Le loro mamme si mettono in marcia con l’organizzazione “Save Ukraine”, percorrono 8.100 km in 15 giorni per coprirne 500 in linea d’aria, passano per Bielorussia e Russia. Ma gli altri? Yanna, 33 anni, non può abbracciare il figlio 13enne, Dmitro, da sei mesi. Inessa, 43, ha visto l’ultima volta il suo Vitality, 15, quattro mesi fa. I campi di destinazione sono molto meno accoglienti dei primi. Brande senza coperte, indumenti da adulti. C’è chi parla di abusi sessuali sulle ragazze. La deportazione ha le sue tecniche. Cinque, secondo la Herasymchuk: uccidere i genitori e prenderne i figli, strappare i figli ai genitori, l’inganno dei campi, rapirli, e metterli in un orfanotrofio. Più di 460 minori sono stati uccisi e circa mille feriti nella guerra, mediamente ogni bambino ucraino ha trascorso 900 ore nei rifugi anti-aerei (40 giorni in tutto). E 1538 scuole sono state distrutte. Arabia Saudita. Il 2022 è stato un anno nero per la libertà d’espressione online di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2023 In Arabia Saudita, nel corso del 2022, quindici persone sono state condannate a pene da 10 a 45 anni di carcere solo per aver espresso le loro opinioni sui social media. Quella a 45 anni è la più dura condanna mai imposta in Arabia Saudita per l’espressione online delle opinioni: è stata inflitta a Noura al-Qahtani, 50 anni, madre di due figli. Qualora dovesse essere ancora viva, a fine pena avrà un divieto di viaggio della durata analoga alla pena: non potrà lasciare l’Arabia Saudita fino al compimento di 140 anni. Una condanna poco più lieve l’ha presa Salma al-Shebab, dottoranda all’università di Leeds, nel Regno Unito: 34 anni per aver twittato a sostegno delle attiviste per i diritti delle donne. La condanna a 15 anni di Mahdia al-Marzougui, infermiera tunisina, ha dell’incredibile: è stata incriminata per aver pubblicato dei tweet sulle vicende del suo paese. Al termine della pena sarà espulsa. Tutte le condanne sono state emesse dal Tribunale penale speciale: originariamente avrebbe dovuto occuparsi di reati di terrorismo, ma la sua giurisdizione si è ampliata, nel corso degli anni, di pari passo con l’applicazione delle norme anti terrorismo nei confronti di semplici utenti di Twitter, “colpevoli” di aver pubblicato contenuti riguardanti i diritti umani. Va sottolineato che, nei confronti di al-Qahtani, al-Shebab e al-Marzougui, in appello le condanne sono state aumentate, rispettivamente, da 13 a 45 anni, da sei a 34 anni e da tre anni e mezzo a 15. Il motivo? A presiedere il Tribunale è, dal giugno scorso, un signore che faceva parte della delegazione inviata a Istanbul nell’ottobre 2018 per insabbiare le prove dell’assassinio e dello smembramento del giornalista e dissidente Jamal Khashoggi presso il consolato saudita della città turca. Se questa nomina spiega l’inasprimento delle pene, un’altra vicenda fa capire com’è partita la caccia alle streghe su Twitter. A dicembre un tribunale statunitense ha condannato un ex dirigente di Twitter, Ahmad Abouammo, per spionaggio in favore dell’Arabia Saudita. Secondo il verdetto, Abouammo ha ottenuto l’accesso a informazioni sensibili idonee a identificare e localizzare utenti di Twitter a vantaggio della famiglia reale saudita. Abouammo ha fornito alle autorità saudite i nomi degli utenti di Twitter che pubblicavano contenuti critici o imbarazzanti nei loro confronti. Nel verdetto del tribunale statunitense si legge anche che un funzionario del governo saudita aveva chiesto ad Abouammo di rimuovere un account che produceva post critici nei confronti della famiglia reale e di fornirgli tutti i dati dell’utente. *Portavoce di Amnesty International Italia