Le contraddizioni che il caso Cospito ha fatto emergere di Franco Corleone L’Espresso, 5 marzo 2023 Va riconosciuto che Carlo Nordio ha iniziato la sua avventura di ministro della Giustizia sotto una cattiva stella. Appena nominato, ha subìto uno sgambetto dal ministro di polizia, Matteo Piantedosi, con il decreto Rave privo dei requisiti di necessità e urgenza e soprattutto contrario a un diritto equilibrato; poi si è trovato a fare i conti per l’assegnazione di Alfredo Cospito al regime del 41bis con il pasticcio compiuto dal suo sottosegretario Andrea Delmastro attraverso la divulgazione di documenti riservati; infine, ha subìto il colpo della evasione di un boss dalla prigione di Badu e Carros. L’umana comprensione non può però nascondere il dovere di mostrare, proprio nel fuoco delle difficoltà, il volto della politica e la capacità di scelte coraggiose, ancorate ai principi. Lo sciopero della fame di Cospito contro il 41bis ha fatto esplodere alcune gravi contraddizioni, sull’uso del carcere duro, sulle sue modalità, circa la titolarità del prigioniero sul proprio corpo. Su quest’ultima questione Nordio ha scelto una strada che contraddice il pensiero liberale, sottoponendo al Comitato nazionale di bioetica un quesito circa supposti limiti, per il detenuto in sciopero della fame, del diritto al rifiuto di trattamenti (in specie, l’alimentazione artificiale). Tale idea porta dritto alla violazione dell’articolo 32 della Costituzione, contro la parità dei diritti fondamentali fra chi è privato della libertà e chi non lo è, sulla china scivolosa della concezione del detenuto come “cosa” e “proprietà dello Stato”. Una discesa verso il totalitarismo utilizzando il diritto come morale e l’etica come obbligo di cura. Lo sciopero di Cospito obbliga anche ad alcune riflessioni sullo strumento classico della nonviolenza, il digiuno. È uno strumento di lotta e di testimonianza, soprattutto per i detenuti, ed è una scelta di rifiuto della violenza (come la rivolta, l’aggressione contro operatori penitenziari, la distruzione di arredi della cella), mettendo in gioco il proprio corpo come unica risorsa per denunciare una ingiustizia intollerabile. Lo scopo è di costringere al dialogo chi ha il potere di decidere, opponendo la ragionevolezza della richiesta all’intransigenza sorda. La nonviolenza vuole convincere, non vincere. Ovviamente un’iniziativa può avere successo o fallire e occorre intelligenza per valutare i risultati e decidere come proseguire, fermarsi e riprendere. Finora la politica è stata assente, incapace di iniziativa. È lampante che il 41bis rappresenta un problema costituzionale per come è gestito, dalla bulimia denunciata da Sebastiano Ardita (un magistrato sostenitore del carcere duro) alla stratificazione di norme che si concretizzano in vessazioni al limite della tortura. Ricondurre il regime speciale alla stretta eccezionalità - come richiesto da tanti costituzionalisti - con modifica di legge e con atti amministrativi, costituirebbe un segno di intelligenza e umanità. E che aspetta il ministro Nordio a dire, alto e forte, che è contrario allo stravolgimento dell’articolo 27 della Costituzione sul senso della pena? Le reazioni, talvolta condite con minacce, di frange dei sostenitori di Cospito potrebbero essere usate per rafforzare le spinte alla durezza e alla repressione. Sarebbe un segno di grave miopia; c’è molto da fare anche se il tempo è poco. “Mi sento solo, vorrei fare una carezza ai miei cari”. Il medico: sta peggiorando a vista d’occhio di Giuseppe Legato La Stampa, 5 marzo 2023 Le giornate in carcere di Alfredo Cospito raccontate attraverso la legale: “Non posso neanche leggere”. I giudici gli sbloccano la posta. Stanco, tirato in volto e dimagrito in corpo (ora pesa 70 kg), fiaccato dallo sciopero della fame (ha sospeso anche gli integratori e si alimenta tre volte al giorno con un cucchiaino di zucchero e poco sale), Alfredo Cospito, l’anarchico detenuto nel reparto assistenza intensiva del penitenziario di Opera a Milano, apre il fronte dell’umanità nel colloquio avuto ieri mattina con la sua legale Maria Teresa Pintus: “Tra le cose che mi mancano di più c’è il contatto coi miei familiari. Vorrei poter fare loro una carezza, ma anche questo non mi è concesso ed è inspiegabile, inaccettabile” ha raccontato dopo aver visto nei giorni scorsi i due fratelli. “Non vedo orizzonti, non un prato verde, ma solo un quadrato di cielo azzurro che si staglia oltre i muri: un cielo con le grate”. L’ideologo della Fai (Federazione anarchica informale), che sta già scontando la pena per strage politica in relazione all’attentato alla ex scuola allievi carabinieri di Fossano, decretata nel merito dalla Cassazione e sulla quale pende un appello ma solo per rideterminarne l’entità (rischia da 24 anni all’ergastolo), vive giorni tutti uguali nella sezione speciale del carcere milanese insieme a 11 altri “ospiti”. Quelli con cui ha diritto a trascorrere l’ora d’aria sono tre, due dei quali considerati affiliati alla ‘Ndrangheta e a Cosa Nostra con ruoli di vertici delle organizzazioni: entrambi sono sulla sedia a rotelle e non escono mai per vivere quei 60 minuti di socialità. Un altro è allettato: “Mi stanno togliendo tutto, anche il contatto umano con i detenuti”. La recente sentenza della Corte Suprema che ha confermato il regime penitenziario più duro per lui non lo ha sorpreso: “Non mi ero fatto illusioni sulla Cassazione - ha detto alla legale che lo ha seguito in tutta la trafila nel carcere Bancali di Sassari dove è stato detenuto prima di essere trasferito a Milano per motivi di salute - ma speravo che almeno ci potesse essere un’altra occasione (un eventuale rinvio al Tribunale di Sorveglianza avrebbe riaperto la questione ndr) per poter ridiscutere di questo regime disumano che toglie dignità ai detenuti e sfida qualsiasi rispetto della persona pur ristretta”. La pronuncia dell’Alto Commissariato per i diritti umani - che in attesa di esprimersi nel merito ha ricordato al governo di rispettare gli standard internazionali e gli articoli 7 e 10 del Patto Internazionale in relazione alle condizioni detentive dell’anarchico - non ha scalfito in misura rilevante il suo attendismo: “Resto prudente, - ha confidato al suo avvocato - mi aspetto che lo Stato, sulla scorta di questa pronuncia, agisca di conseguenza con provvedimenti concreti”. Una cosa è certa: “Non smetterò di fare lo sciopero della fame. Andrò avanti fino alle estreme conseguenze”. Motivo: “Vivo male tutte queste limitazioni, non posso nemmeno leggere quello che voglio per far trascorrere la giornata, nemmeno i fumetti. Non posso scrivere”. Nei giorni scorsi i giudici, accogliendo le numerose istanze dell’avvocatessa Pintus in attesa di essere discusse ormai da settimane, ha “sbloccato” tutta una serie di corrispondenza destinata all’anarchico che era stata stoppata dalla censura del carcere: “Non è materiale pericoloso” scrivono i giudici, E Cospito: “Questi messaggi mi incoraggeranno ad andare avanti in questa battaglia. Prendo atto almeno di questo, spero che me li recapitino presto”. “Si tratta perlopiù - racconta l’avvocatessa - di lettera e telegrammi inviati da suoi conoscenti che inspiegabilmente sono stati trattenuti a lungo”. Il 24 febbraio scorso, fatto raro, Cospito non ha partecipato a queste udienze perché essendo ricoverato al San Paolo avrebbe dovuto essere portato al carcere: “Il tragitto era lungo. E anche per i colloqui con voi (coi legali e coi familiari, ndr) devo sempre percorrere un tragitto in furgone e anche questo inizia a pesarmi”. Un segno di un ulteriore decadimento fisico? Di certo c’è ciò che rileva il suo medico personale che lo ha visitato poche ore fa decretando che “la situazione si sta deteriorando rapidamente, anche se il fatto che abbia ripreso a prendere almeno un po’ di zucchero la rende un po’ meno drammatica. Per la prima volta l’ho visto molto stanco e affaticato”: è “arrivato alla visita camminando sulle sue gambe ma si è subito seduto sul lettino”. Carceri, minori e giovani adulti. Se soffia il vento delle riforme di Fabrizio Giulimondi* L’Identità, 5 marzo 2023 Il tema carcerario è da parecchi anni al centro dell’attenzione della Politica e delle Istituzioni, nazionali ed europee. Prima di tutto per il sovraffollamento, specie dopo la sentenza Torregiani del 2013 che ha visto la Corte di Strasburgo condannare l’Italia per l’alto numero di detenuti nelle celle. In secondo luogo, a causa delle strutture, talora fatiscenti e lontane dall’essere luogo di rieducazione e riqualificazione umana e morale. Poco invece si parla degli spazi che accolgono i giovani reclusi, in attesa di sentenza o definitivamente condannati. I quotidiani, i talk show ed i social si sono da poco svegliati su questi temi, a seguito dei fatti del Beccaria di Milano, del Pratello di Bologna e di Casal del Marmo di Roma. Al 15 febbraio registriamo 375 ragazzi “ospiti” delle patrie galere per minori, ma non tutti minorenni: 190 sono maggiorenni, di cui 136 fra i 18 ed i 20 anni e 54 fra i 21 ed i 24 anni. La domanda va da sé: cosa ci fanno detenuti di età superiore ai 18 anni, che arrivano persino ai 24 anni, in edifici che dovrebbero essere destinati soltanto ai minori? Il decreto legislativo 121/2018 - che ha disciplinato in forma autonoma l’ordinamento penitenziario minorile - ha alzato la detenzione custodiate presso gli istituti minorili da 21 anni a 24 anni, qualora il reato sia stato compiuto durante la minore età. Gli stessi operatori che vivono con i ragazzi dentro quelle mura da tempo denunciano gli effetti disagevoli di questa decisione normativa. I ragazzi più grandi rischiano di porsi come “capetti” ostacolando gli sforzi educativi e formativi volti a far ripensare ai giovani reclusi le proprie gesta passate. Separare i due circuiti trattamentali tornando alla legislazione precedente al decreto legislativo 121/2018? I minori dai 14 anni in poi ed i maggiorenni rientranti nella fascia 18-20 anni da far “dimorare” negli Istituti penitenziari minorili, mentre per quelli di età ricompresa fra i 21 ed i 24 anni consentire il “ritorno” nelle Case circondariali o di reclusione per adulti? Magari con un percorso trattamentale differente in sezioni fisicamente separate? Il Ministero della Giustizia, nella persona del Sottosegretario delegato al settore minorile Andrea Ostellari, pare stia immaginando un percorso più celere e parimenti incisivo, senza passare per il Parlamento: procedere in seno ai penitenziari minorili, qualora abbastanza spaziosi, alla divisione, sia in termini logistici che educativi, fra la fascia 18-20 e quella 21-24, che rimangono, così, nel circuito minorile; se questa soluzione non risulti in parte o in tutto praticabile, occorre individuare Istituti, possibilmente vicini, ove trasferire i ragazzi della seconda area. Forse è la volta buona che un sentore di razionalità condito con un pizzico di saggezza e un tocco di lungimiranza conducano, in tempi presumibilmente accettabili, a decisioni utili per detenuti e sicurezza pubblica. *Camera di Scienze Giuridiche della Accademia copernicana di Torino Chi “deve” cambiare, loro o noi? di Francesco “Kento” Carlo* Specchio - La Stampa, 5 marzo 2023 “Devi cambiare”. È la frase che i ragazzi detenuti al minorile si sentono ripetere più spesso, e una delle più difficili da capire, prima ancora che da mettere in pratica. Il verbo “dovere” come un macigno di imposizione, il “cambiare” come un coltello che taglia netto, separando ciò che sei stato da ciò che, appunto, dovrai essere in futuro. “Puoi migliorare”, è invece quello che dico io ai ragazzi. Ed è una frase che, a volte, li fa respirare. Quasi sempre li fa riflettere e li apre al dialogo. Se gli chiedi cosa vorrebbero dalla vita, la maggior parte dà una risposta così semplice che è quasi banale. “Tra 10 anni vorrei stare insieme alla donna che amo, avere un lavoro, sposarci, magari avere dei figli”, ti dicono. Sì, è facile vedere in controluce la ricerca di una normalità che raramente, nella loro infanzia, hanno conosciuto. E il carcere, oltre a privarli della libertà, li priva anche dell’adolescenza, ed è una mancanza altrettanto grave ed incolmabile. Sono tanti anni che tengo laboratori di scrittura rap all’interno degli istituti di pena per minorenni, e mettere una penna in mano a un giovane che non l’ha mai avuta prima dà l’accesso a un universo in cui spesso le aspettative sono rovesciate o mischiate e l’oggetto del desiderio, che chiaramente è la libertà, finisce per essere la cosa più spaventosa. Lo è soprattutto per quelli che sono entrati in carcere presto, magari a 14 o 15 anni, e ci hanno già passato un po’ di tempo, finché è diventata quella la loro normalità: la cella, la mensa, le attività, gli appuntamenti con l’avvocato o gli educatori. Una routine non bella, non amata, ma sicuramente semplice, conosciuta e forse addirittura rassicurante. È il mondo esterno che fa paura, perché è infinito, perché non sai come muoverti, perché probabilmente non c’è nessun adulto in grado di darti una guida attendibile. E un discorso simile a volte vale anche per la sfera affettiva, il rapporto con le ragazze, il corteggiamento, l’amore. Ricordo che uno dei ragazzi che seguivo, uno di quelli che si dava più l’aria da malandrino esperto, si era perdutamente innamorato di una rapper. Ascoltava le sue canzoni, mi chiedeva di guardare sempre i suoi video e mi stressava continuamente perché la invitassi a venirci a trovare in prigione, giurandomi che con la sua parlantina e il suo fisico scolpito l’avrebbe fatta innamorare. Dopo mesi e mesi riuscii a farla venire davvero, e ci regalò una breve ma intensissima performance. Alla fine, fedele alla promessa, chiamai l’innamorato. Ma lui, giunto a cinque passi di distanza si fermò e inchiodò lo sguardo a terra, restando lì incapace di emettere una parola, anche soltanto il proprio nome. “Puoi migliorare” è la frase che vorrei dire anche a noi adulti, alla nostra Italia che ancora, nel 2023 chiude ragazzi (e ragazze) di 14 anni dentro una cella, anche se fortunatamente i detenuti sono un’esigua minoranza rispetto a chi accede alle misure alternative alla detenzione. Ma, se è indispensabile che la nostra responsabilità di adulti sia più forte, allora a noi stessi e alla nostra società possiamo, dobbiamo dirlo: “Devi cambiare”. *Rapper e scrittore. Il suo ultimo lavoro è raccolto nel podcast “Illegale” (Emons Record), disponibile dal 28 aprile Magistrati, il malessere di Md: “L’Anm trascura temi di attualità” di Paolo Lambruschi Avvenire, 5 marzo 2023 È polemica all’interno dell’Associazione nazionale magistrati. Magistratura democratica, la storica componente della sinistra togata, critica la scelta degli altri gruppi di aver rinunciato a trattare temi di attualità per occuparsi di questioni disciplinari interne, durante la riunione del Comitato direttivo centrale (Cdc) di ieri. Il “parlamentino” del sindacato dei giudici, si legge infatti in una nota dei componenti di Md, “avrebbe dovuto affrontare alcuni temi attuali e particolarmente delicati: la proposta di aumentare l’età pensionabile dei magistrati a 72 anni; la richiesta al Ministero della Giustizia di stabilizzare i funzionari dell’Ufficio per il processo e altre questioni rilevanti per la funzionalità degli uffici giudiziari e il servizio di giustizia ai cittadini; ma anche le valutazioni dell’Anm a seguito della tragedia di Cutro”. Invece, “a sorpresa” tutti gli altri gruppi “hanno votato per trattare questioni disciplinari interne all’Anm che tra l’altro, per questioni di tutela della riservatezza, neppure potranno essere rese pubbliche”. È una questione di merito, prima che di metodo, secondo Magistratura democratica, che definisce “un paradosso il comportamento dei gruppi che hanno così rinunciato a trattare le questioni rilevanti per ciascun magistrato e perla Magistratura nella sua posizione tra le istituzioni e nella società”. Nella riunione di ieri, è stato il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ha porre il problema dell’innalzamento dell’età pensionabile da 70 a 72 anni, ipotizzato dal governo: “Non vorrei che questo gioco del Legislatore sull’età pensionabile, che ancora una volta si prospetta episodico e frammentario, non valga la candela”, ha affermato Santalucia. Infatti, da una parte l’Assomagistrati ha ben presente la scopertura di circa 1.600 toghe in organico, così come il fatto che “si è alzata, e di molto, l’età media di ingresso in carriera”. Tuttavia - questa l’osservazione di Santalucia - è facile prevedere “che saranno veramente pochi i magistrati che sceglieranno di restare in servizio perdendo il posto direttivo o semidirettivo ricoperto”, come ventilato dal capo di gabinetto del ministro Carlo Nordio. In ogni caso, come lamentato da Md, il Cdc non ha preso posizione sul tema. Altra questione emersa con forza durante la riunione è stata la preoccupazione dell’Anm per alcune interrogazioni parlamentari presentate al ministro Nordio sulle parole espresse dal segretario di Area Eugenio Albamonte e dallo stesso presidente Santalucia in merito al caso Donzelli-Delmastro, ai fini dell’esercizio dell’azione disciplinare. Santalucia ha espresso in proposito l’auspicio “che il ministro della Giustizia, che giustamente si fa vanto della cultura liberal-democratica, saprà fugare anche solo la più pallida idea che l’attività associativa possa essere confinata in un recinto di timorosi ossequi all’Autorità”. Secco il commento di uno degli autori delle citate interrogazioni parlamentari, il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri, di Forza Italia: “Santalucia vorrebbe intimidirmi ignorando peraltro il principio della separazione dei poteri. Vuole mettere il bavaglio al Parlamento. Denuncerò la sua condotta nell’Aula di Palazzo Madama”. “Violenza sulle donne, le leggi ci sono ma non vengono applicate” di Chiara Currò Dossi Corriere dell’Alto Adige, 5 marzo 2023 Intervista a Julia Unterberger, senatrice Svp e avvocato, che si occupa di diritto di famiglia. In Senato è relatrice per riproporre il pacchetto di misure contro la violenza sulle donne concordato dalle ministre del governo Draghi. “Com’è possibile che una donna che ha presentato cinque denunce per maltrattamenti venga uccisa dal compagno?”. A dar voce allo sgomento per la morte di Sigrid Gröber, la cameriera di 39 anni massacrata di botte e morta all’ospedale di Merano all’alba di domenica 18 febbraio, e per la cui morte è indagato il compagno, Alexander Gruber, è la senatrice Svp Julia Unterberger. Meranese anche lei, avvocato, è specializzata in diritto di famiglia. “Non sono penalista - mette le mani avanti -, ma in tutta la mia carriera non ricordo di nessuna donna, che si sia rivolta a me per assistenza legale, che mi abbia detto di essere stata sentita in Procura, dopo aver sporto denuncia per maltrattamenti domestici. I femminicidi sono una piaga sociale, e devono essere presi sul serio da tutti, Procure comprese. È brutto che uno Stato non riesca a tutelare le donne, scandaloso che non ci provi nemmeno, come nel caso di Gröber”. Senatrice, qual è il problema? “Che le donne non vengono prese sul serio. Il Codice rosso è stato introdotto proprio per accelerare i tempi della giustizia davanti ai tipici reati della violenza domestica, e prevede che il pm debba sentire la donna che ha sporto denuncia entro tre giorni. Invece non succede, e anzi, spesso si archivia. È vero che c’è poco personale, ma credo che le procure debbano organizzarsi. Certo però che bisogna dire qualcosa anche a loro difesa”. Prego... “Di denunce per violenza domestica ce ne sono tantissime, e alcune, anche se in piccolissima parte, sono strumentali. Posso capire che si faccia fatica a capire quali siano “da prendere sul serio” e quali no, ma proprio per questo sarebbe utile che la donna venisse ascoltata dal pm, per farsi un’idea della situazione e capire se sia necessario applicare delle misure”. Di che tipo? “Le possibilità sono svariate. Si può chiedere al giudice il divieto di avvicinamento, per esempio, con la possibilità di ricorrere al braccialetto elettronico per controllare che la misura venga rispettata. Oppure si può fare una segnalazione a una casa delle donne della zona, che potrebbe intraprendere un percorso con la vittima e convincerla a stare lontana dal marito o dal compagno violento. Purtroppo però, come abbiamo visto, capita spesso che la donna denunci l’uomo violento, ma che poi torni da lui”. Un copione comune a tanti, troppi casi di femminicidio. Perché succede? “Perché questi uomini sono molto bravi, dopo che sono stati violenti. Si scusano, dicono di aver alzato le mani solo perché innamorati e gelosi, che non possono vivere senza di te. Il copione è sempre lo stesso, un susseguirsi di episodi violenti e poi di grandi manifestazioni d’amore. E le donne finiscono col non riuscire più a uscire da questa trappola, ad allontanarsi da questi uomini tossici”. Prima ha accennato al Codice rosso, introdotto nel 2019. Non dovrebbe servire proprio a intervenire in questi casi? “Sì, ma la verità è che da quando è stato introdotto non è cambiato nulla. Per lo meno, dalla mia esperienza professionale non ho notato alcun cambiamento. E se penso che in Alto Adige, mediamente, le cose funzionano meglio, non oso immaginare come sia nel resto d’Italia...”. Se il problema è nei tribunali, pensa che si potrebbe agire prima di entrarci? “È una domanda difficile. Certo, ci sono le campagne di sensibilizzazione per ribadire che ogni violenza è una di troppo, e l’obiettivo ultimo sarebbe sempre quello di un cambiamento radicale nella società, perché la parità di genere sia realizzata fino in fondo. In Parlamento stiamo cercando di depositare, di nuovo, il pacchetto di misure contro la violenza elaborato dalle ministre del governo Draghi, e del quale sono relatrice in Senato. L’obiettivo è quello di aumentare le forme di tutela per la donna dal momento in cui denuncia o da quando l’autorità viene a conoscenza della violenza. Tra le misure, per esempio, c’è l’estensione dell’ammonimento del Prefetto (al momento applicabile solo ai casi di stalking, ndr), e l’introduzione dell’arresto in flagranza. Il punto però è che quando una donna denuncia, il meccanismo di protezione dovrebbe funzionare. Possiamo anche introdurre nuove leggi, ma se non si applicano nemmeno quelle che già esistono, cosa possiamo sperare di ottenere?”. Emilia-Romagna. Le carceri della Regione sono le più affollate d’Italia. “E manca personale” Corriere di Bologna, 5 marzo 2023 L’Emilia-Romagna è tra le regioni con più persone detenute. Lo attesta il report diffuso in questi giorni dall’associazione Antigone in seguito alle tante visite svolte nel 2022 nelle carceri del territorio. I membri dell’associazione durante l’attività di monitoraggio hanno visitato gli istituti penitenziari di Bologna, Ferrara, Modena, Piacenza, Reggio Emilia, Forlì, Ravenna e Rimini, la casa di reclusione di Parma, la casa di lavoro di Castelfranco Emilia (in provincia di Modena) e l’Istituto penale minorile (Ipm) di via del Pratello, a Bologna. Secondo il documento di Antigone, al 31 dicembre le persone detenute in Emilia Romagna erano 3.407, 153 delle quali sono donne. I condannati in via definitiva, invece, sono 2.561. Tra i principali problemi riscontrati dall’associazione durante le visite c’è senz’altro il sovraffollamento delle strutture, ma sono presenti “diversi profili di criticità dovuti anche ai diversi circuiti presenti all’interno dei singoli istituti”. Per l’associazione c’è inoltre una carenza del personale giuridico-pedagogico che complica l’accesso alle attività trattamentali, considerato anche il numero dei condannati in via definitiva. I principali problemi secondo Antigone si trovano tuttavia nelle sezioni di media sicurezza, dove sono detenute la maggior parte delle persone. Alcune strutture - riporta il documento - sono datate e le celle sono arredate senza mobilio vecchio, alcune non le docce né l’acqua calda. A Parma, ad esempio, durante la visita Antigone ha registrato l’assenza di riscaldamento. Preoccupa anche la carenza di personale sanitario in varie strutture. Per quanto riguarda l’istituto minorile di Bologna, Antigone ha rilevato che, nonostante l’aumento dei minori da 22 a 40, non c’è stato “un parallelo adeguamento dell’organico, in particolar modo con riferimento al personale educativo, e tenuto conto dell’elevato tasso di presenze, anche a causa dell’invio di minori da altri territori, che ha determinato situazioni di vero e proprio sovraffollamento”. Un problema molto sentito e già denunciato dalle organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria. Torino. Manifestazione degli anarchici per Cospito: guerriglia urbana, bombe carta e feriti di Carlotta Rocci La Repubblica, 5 marzo 2023 34 persone sono state portate in questura e denunciate e sono stati emessi 11 fogli di via su 160 identificati. Nella città in cui Alfredo Cospito si è trasferito e in cui ha progettato gli attentati per cui è finito in galera, il corteo di solidarietà con il suo sciopero della fame si è manifestato in tutta la sua violenza. Era prevedibile e così è stato. Vetrine distrutte, auto vandalizzate, cassonetti incendiati per sostenere la scelta dell’anarchico, in sciopero della fame da oltre 130 giorni per protestare contro il regime carcerario del 41 bis a cui è sottoposto. E scritte ovunque: “Cospito libero” ma anche “Morte al ricco” e, contro il ministro della Giustizia, “Nordio boia”. Il bilancio provvisorio è di due agenti feriti e di cinque persone fermate durante gli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine sotto le bandiere della pace, davanti al Sermig. A tarda sera si stava valutando la loro posizione. Altre 34 persone sono state portate in questura e denunciate e sono stati emessi 11 fogli di via su 160 identificati. Dicevano che sarebbero stati “decisi e arrabbiati” e così è stato. Il dispositivo di sicurezza è stato imponente, da giorni la Digos di Torino, guidata da Carlo Ambra, ha iniziato a monitorare gli arrivi di anarchici da tutt’Italia e anche dall’estero. Duecento persone sono state intercettate prima della partenza per Torino. E sono state sequestrati caschi, spranghe, petardi, bastoni e maschere antigas anche a gruppi bloccati poco prima che arrivassero al punto di ritrovo nella centralissima piazza Solferino: li scaricavano da un furgone per portarli alla manifestazione sui carrelli della spesa. “Dobbiamo difendere Alfredo. Dobbiamo rispondere combattendo, ne va della nostra sopravvivenza politica - dice Lello Valitutti, figura dell’anarchia torinese - Quel che accadrà, se Cospito morirà, è che i responsabili saranno giustiziati dagli anarchici, non da me e non ora ma succederà”. Cartelli stradali divelti e usati come arieti, pietre, martelli: è stato usato di tutto per devastare la sede della Reale Mutua in corso Siccardi, il primo degli obiettivi che ha fatto capire chiaramente che rotta avrebbe preso la manifestazione. Poi è successo alla filiale di Intesa San Paolo di Porta Palazzo. Poi sono saltate le vetrine di negozi di borse, arredamento, scarpe e pure una gallerie d’arte. E anche i lunotti delle macchine, una dietro l’altra. La manifestazione era stata preparata nel pieno rispetto delle garanzie costituzionali e per rendere il corteo degli anarchici meno impattante possibile - dice Vincenzo Ciarambino, questore di Torino - Quando si muovono queste realtà i danneggiamenti sono all’ordine del giorno, ma non riesco a comprendere i danni ai privati, proprio non li capisco. Siamo sicuri di identificare gran parte dei responsabili”. Una lunga scia di reazioni ha accompagnato la giornata. “Ferma condanna per la violenza e gli inaccettabili atti di vandalismo e piena vicinanza a chi ha subito danni” arriva dal sindaco Stefano Lo Russo. “Questa non è la manifestazione di un pensiero, è una guerriglia intollerabile e incivile”, ha ribadito l’ex sindaca, ora deputata 5 Stelle Chiara Appendino. “La risposta dello Stato sarà ferma”, dichiara il ministro per la Pa Paolo Zangrillo. E il presidente della Camera Lorenzo Fontana esprime “Ferma condanna”. Già si pensa a quale sarà la prossima mossa degli anarchici, che al grido di “Ve la faremo pagare” hanno organizzato cortei ma anche rivendicato bombe. Torino. Il ricatto della violenza che rafforza il partito del 41 bis di Luigi La Spina La Stampa, 5 marzo 2023 Un corteo iniziato in modo civile, ma finito nel peggiore dei modi. Le devastazioni senza senso avranno un effetto controproducente. Manifestare è un diritto sancito dalla nostra Costituzione e scendere in piazza contro il 41 bis è del tutto legittimo. Sia la Corte costituzionale, sia quella europea hanno criticato quella speciale carcerazione, nata in situazioni d’assoluta emergenza e giustificabile solamente in particolarissimi e comprovati casi. Quando, cioè, ci siano prove sicure di collegamenti tra il carcerato e gruppi malavitosi o pericolosi nemici della nostra democrazia. Ma le devastazioni della città che hanno caratterizzato il corteo di ieri a Torino avranno un effetto sicuramente controproducente per la sorte di Alfredo Cospito, perché sembrano costringere lo Stato a non subire il ricatto della violenza, mantenendo l’anarchico al 41 bis. Sarà probabilmente proprio Cospito, perciò, il primo a rammaricarsi per l’epilogo inaccettabile di una manifestazione che era cominciata in modo civile ed è finita nel peggiore dei modi. I timori della vigilia per l’appello a gruppi anarchici e insurrezionali di tutt’Europa a partecipare al corteo di Torino non erano purtroppo infondati, come qualcuno aveva affermato nei giorni scorsi. L’impressione era che l’occasione si prestasse non tanto a esprimere solidarietà all’anarchico in sciopero della fame, né a protestare contro il 41 bis, ma allo sfogo di una violenza incontrollata lungo le strade della città. Così, i peggiori pronostici si sono avverati, con un premeditato piano di battaglia cittadina che non ha avuto nemmeno l’ipocrita giustificazione di provocazioni repressive da parte delle forze dell’ordine. Anzi, l’imponente presenza della polizia e dei carabinieri è riuscita a controllare la manifestazione in modo tale che non si è arrivati a scontri con gravi feriti, come è avvento in tempi passati. La furia dei partecipanti si è così abbattuta su obiettivi assolutamente non giustificati da alcuna motivazione: vetrine sfasciate, auto distrutte, facciate di palazzi imbrattati, sedi di banche assaltate. Una rincorsa tra le strade del centro cittadino tra manifestanti e chi cercava di fermarli senza senso, se non quello di danneggiare Torino. Non si capisce davvero come tali atteggiamenti possano indurre un’opinione pubblica, comprensibilmente divisa sull’opportunità di mantenere il 41 bis, ma disposta a riflettere seriamente sulla questione, a propendere per quella soluzione che gli anarchici dichiarano di voler sostenere. La protesta contro un sistema di carcerazione che si ritiene anticostituzionale e non motivato da condizioni politiche e sociali di vera emergenza pare perciò la vera vittima di tali manifestazioni, perché non solo non viene aiutata a trovare consensi, ma provoca una comprensibile reazione di rigetto che accomuna sia le violenze, sia l’argomento sul quale si è esercitata una presunta e inaccettabile difesa. Salerno. “Inclusione sociale e lotta alla recidiva”, tavola rotonda al San Demetrio di Marilia Parente salernotoday.it, 5 marzo 2023 “Un detenuto si è tolto la vita 4 anni fa, presso la Domus Misericordiae di Brignano, dove stava scontando la sua pena alternativa al carcere - ha ricordato Don Rosario Petrone - Per i detenuti stranieri, in particolare, i documenti rappresentano tutto, eppure ci troviamo dinanzi a muri che non ci consentono di aiutare chi ha bisogno. In particolare, un detenuto che lavorò in carcere si trovò nella condizione di non poter ritirare i soldi guadagnati una volta uscito dalla cella, in quanto privo di documento: non ci si meravigli se, poi, chi non vede via d’uscita, ricorra all’illegalità”, ha concluso il cappellano. Notevole partecipazione, venerdì sera, presso il cinema-teatro San Demetrio, in occasione di “Inclusione sociale e lotta alla recidiva”, tavola rotonda organizzata dall’Odv “Migranti senza Frontiere”, nell’ambito del progetto “La Pena Liberata”. A porgere i saluti iniziali, l’Arcivescovo di Salerno-Campagna-Acerno, Sua Eccellenza monsignor Andrea Bellandi che ha lodato e incoraggiato l’operato del delegato dei Cappellani delle Carceri della Campania, nonchè presidente di “Migranti Senza Frontiere”, don Rosario Petrone, moderatore dell’incontro. A prendere parte al dibattito, sottolineando la necessità di considerare “persone” e non “numeri” i detenuti, numerose personalità del settore, come l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio, presidente della Commissione per le Migrazioni, sua eccellenza Gian Carlo Perego e la direttrice del carcere di Salerno, Rita Romano. Interessante, in particolare, l’intervento dell’assessore alle Politiche Sociali, Paola De Roberto che, dinanzi ai delicati interrogativi posti da Don Petrone, ha confermato il suo impegno nel sollecitare una maggiore efficienza da parte dell’ufficio Anagrafe circa il rilascio dei documenti utili ai detenuti o agli stranieri. “Un detenuto si è tolto la vita 4 anni fa, presso la Domus Misericordiae di Brignano, dove stava scontando la sua pena alternativa al carcere - ha ricordato Don Rosario Petrone - Per i detenuti stranieri, in particolare, i documenti rappresentano tutto, eppure ci troviamo dinanzi a muri che non ci consentono di aiutare chi ha bisogno. In particolare, un detenuto che lavorò in carcere si trovò nella condizione di non poter ritirare i soldi guadagnati una volta uscito dalla cella, in quanto privo di documento: non ci si meravigli se, poi, chi non vede via d’uscita, ricorra all’illegalità”, ha concluso il cappellano del carcere di Salerno. Intanto, dai dati raccolti dalla Domus Misericordiae, di particolare rilievo quello relativo al reinserimento sociale dei detenuti ospiti, pari al 53%: da qui, è emersa anche la necessità di incentivare progetti per offrire seconde possibilità lavorative a chi ha scontato la pena. “Abbiamo una emergenza informativa che nasce dall’incapacità di fare rete: lo Stato, le Regioni, le Politiche Sociali devono sedersi insieme ad un tavolo per accompagnare le persone e poter superare gli ostacoli. Occorrono progetti personalizzati”, ha osservato l’assessore De Roberto. Riflettori puntati, quindi, anche sul problema della residenza per i senza fissa dimora che impedisce a questi ultimi di usufruire di servizi importanti: “Abbiamo approvato con una delibera un domicilio fiscale per i senza fissa dimora- ha annunciato l’assessore - E stiamo studiando delle linee guida da applicare: l’impegno da parte mia è massimo, occorre fare rete e ripristinare la fiducia dei cittadini”, ha concluso. Latina. Una giustizia penale a misura di minore, il convegno cittanuova.it, 5 marzo 2023 Il 10 marzo 2023, dalle 15:00 alle 18:30, si terrà il convegno “Cura e giustizia, giustizia e cura. Per una giustizia penale a misura di minore” presso la Fondazione “Gregorio Antonelli”, via Gregorio Antonelli 152, Terracina (Lt). Il convegno si aprirà alle ore 15:00 con la presentazione dello Spazio Neutro, il servizio pubblico attivato dal distretto socio-sanitario Lt4 e gestito dalla Fondazione per gli incontri protetti tra minori e genitori disposti dall’autorità giudiziaria. Alle ore 15.15 seguiranno i saluti delle autorità: s.e. mons. Mariano Crociata, vescovo della Diocesi di Latina-Terracina-Sezze-Priverno, Monica Sansoni, garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza della Regione Lazio, Sonia Notarberardino, assessora alle Politiche sociali del Comune di Fondi, Vincenzo Serra, presidente del Consultorio Diocesano “Crescere Insieme”, Igino Pernarella, presidente del Rotary Club di Terracina - Fondi, Saia Saccucci, presidente della Fondazione “Gregorio Antonelli”. Dalle 15:30 alle 18:30, Marco Cusumano, giornalista de Il Messaggero, condurrà i seguenti interventi: Il minore e la devianza: ambienti di crescita e profili psicologici, a cura della prof.ssa Susanna Bianchini; II progetto educativo all’interno della giustizia minorile, tra esigenze educative e opportunità riparative, a cura della dott.ssa Valentina Zuliani, funzionario del ministero della Giustizia - ufficio di Servizio sociale per i Minorenni di Roma; I principi e gli istituti del processo penale minorile, a cura dell’avv. Roberto Paolo De Vito; La messa alla prova e la giustizia riparativa nel processo penale minorile, a cura dell’avv. Pasquale Lattari. L’evento si svolgerà con il patrocinio del garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza della Regione Lazio e varrà per i crediti formativi dell’Ordine degli avvocati di Latina e dell’Ordine degli assistenti sociali del Lazio. Il numero dei posti è limitato a 80 partecipanti, per partecipare è obbligatoria la prenotazione a questo indirizzo email: cameraminorilelatina@gmail.com Bari. Incontro in carcere tra i detenuti e il viceministro Francesco Paolo Sisto Gazzetta del Mezzogiorno, 5 marzo 2023 Per un progetto rieducativo di cultura musicale. Un dibattito con i detenuti, un concerto con artisti della Fondazione European Arts Academy “Aldo Ciccolini” di Trani e una mostra di pittori pugliesi organizzata dall’associazione “FPS arte e cultura”. È l’iniziativa “Proviamoci”, che si è conclusa questa mattina nella Casa Circondariale di Bari. Presente all’incontro il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, ideatore dell’evento, che ha preso posto tra i detenuti confrontandosi con loro sullo stato della sanità in carcere, sulle opportunità di lavoro all’interno dei penitenziari, sullo stato dell’edilizia carceraria. “Con questo momento di incontro - spiega Sisto - abbiamo voluto rompere le barriere che dividono i detenuti da chi ha responsabilità decisionali nell’amministrazione della giustizia. Calarsi tra loro, fisicamente, aiuta a comprendere meglio come dare piena attuazione a quel principio rieducativo della pena che è scritto a chiare lettere nella nostra Costituzione. Una rieducazione che passa anche da strumenti non ordinari ma estremamente potenti, come l’arte e la musica classica, tutto rigorosamente dal vivo”. Il Rotary Club di Bari Castello ha, nell’occasione, donato all’istituto penitenziario barese degli strumenti per allestire una stanza della musica “perenne”. Cremona. Carcere aperto: i cani al fianco dei detenuti di Mauro Cabrini laprovinciacr.it, 5 marzo 2023 Intesa fra la dirigenza della locale casa circondariale, Ats e veterinari: ecco il progetto pilota per migliorare condizioni fisiche e psichiche dei reclusi attraverso la relazione con gli animali. Migliorare le condizioni psichiche, emotive e fisiche dei detenuti attraverso la cura e la relazione con gli animali: è uno degli obiettivi del progetto di pet therapy ‘Sotto i ciliegi’, nato dalla collaborazione tra il Dipartimento Veterinario di Ats Val Padana, la locale casa circondariale e l’equipe formata da Giuliana Caronna, veterinaria esperta in interventi assistiti con animali, e quattro coadiutori. Si tratta di una delle primissime esperienze di questo tipo organizzata oltre le mura di un carcere in Lombardia. Il progetto, della durata di 24 mesi, coinvolge una quindicina di carcerati in incontri a cadenza settimanale - per un totale di 60 appuntamenti teorici e pratici - con animali e istruttori. Gli obiettivi del progetto sono molteplici e tendono alla riduzione di episodi di violenza e suicidio, di ansia e depressione, allentando il senso di isolamento e migliorando anche i legami sociali tra la popolazione carceraria. “L’idea mi è stata proposta, mesi fa dalla dottoressa Sara Bresciani, da anni esperta criminologa presso la casa circondariale di Cremona - spiega la dottoressa Rossella Padula, direttrice del penitenziario cremonese -. Si tratta di un percorso di efficace valenza nel trattamento di detenuti, molti dei quali durante la permanenza in carcere chiedono di poter incontrare i loro animali d’affezione. Questo mette in evidenza quanto questa relazione possa essere di aiuto anche in situazioni estreme. Ringrazio per la collaborazione il Dipartimento Veterinario di Ats Val Padana e l’equipe della dottoressa Caronna, e spero che questo sia solo l’inizio di altre iniziative simili”. Ats, dal canto suo, ha accolto con entusiasmo l’iniziativa promossa dal penitenziario di Cà del Ferro: “Esperienze simili - afferma Maurilio Giorgi, direttore del Dipartimento Veterinario e Sicurezza Alimenti di Origine Animale di Ats - in Italia hanno già dimostrato il loro valore. Si pongono come finalità quella di restituire ad un luogo come il carcere occasioni di relazioni sane e di rieducazione. Il rapporto uomo-animale, e nello specifico uomo-cane, permette di sviluppare sensibilità orientate al prendersi cura ed instaurare una relazione di fiducia reciproca”. Un primo passo verso un progetto che potrebbe crescere e prendere nuove forme: “Siamo partiti con una serie di incontri formativi che servono ai detenuti per comprendere l’universo animale, interpretarne le richieste e i bisogni - spiega Caronna -. Sul lungo periodo, questi momenti relazionali permetteranno di acquisire, migliorare e potenziare competenze sociali come l’assegnazione di ruoli, compiti e cooperazione. Inoltre, auspichiamo che il percorso possa contribuire al reinserimento sociale e occupazionale dei detenuti, aiutandoli ad avere una prospettiva e a pensare ad un futuro oltre le mura carcerarie”. Da Firenze arriva l’urlo dei giovani contro l’indifferenza di Corrado Augias La Repubblica, 5 marzo 2023 L’annuncio è stato “Siamo quarantamila!”, forse è vero probabilmente no, ma non ha tutta questa importanza. Dopo mesi di silenzio delle piazze conta più il clima dei numeri che di necessità sono sempre approssimativi. Il clima a Firenze è stato quello giusto e non parlo dell’abbraccio tra Schlein e Conte, forse ne scaturirà un accordo politico, vedremo. Parlo proprio della piazza che si riscuote da un lungo letargo in nome di quell’antifascismo che, dopo il 1° gennaio 1948, è alla base della nostra civile, pacifica convivenza. Giorni fa su questo giornale Luigi Manconi constatava con rammarico il silenzio, l’apatia, un po’ di tutti su una situazione politica degradata e incerta. Aveva ragione Manconi ma non poteva chiedere una risposta, come invece faceva, ai Grandi Vecchi. La risposta è arrivata sabato da Firenze ed è una risposta che ha la voce della scuola, cioè dei giovani, potrebbero essere loro il segnale di quel piccolo clic che rimette in moto il meccanismo inceppato della democrazia. Durante la campagna elettorale il tema dell’antifascismo è stato più volte dichiarato eccessivo o pleonastico, un inutile richiamo ad un lontano passato. È successo invece che il comportamento di alcuni ministri ha reso evidente la giustezza di quelle preoccupazioni. Il ministro Giuseppe Valditara, con ogni dovuto rispetto, non ha capito che il suo richiamo alla preside Annalisa Savino per la lettera da lei scritta era profondamente ingiusto. Quella lettera avrebbe meritato l’elogio, non il biasimo, di un ministro che assumendo l’incarico ha giurato fedeltà alla Costituzione. Lo spirito di quella lettera rispecchiava la Costituzione, il richiamo del ministro la negava. Di fronte alle critiche, il ministro è sembrato cadere dalle nuvole, mi è parso di vedere sincero stupore nelle sue reazioni, era evidente la sua buona fede ed è proprio questo l’aspetto più inquietante. La stessa buona fede, la stessa sorpresa, l’ho letta nella reazione del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi quando ha detto, con candore, che i migranti non dovrebbero partire col brutto tempo. Uguale stupore di fronte alle critiche ha dimostrato il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano che, con perfetta innocenza, aveva proclamato Dante fondatore della cultura di destra. Perché dico che proprio l’innocenza è l’aspetto più inquietante? Perché le loro reazioni rivelano di quale cultura questi uomini, oggi rappresentanti dello Stato, si siano nutriti, con quanta superficialità abbiano letto davanti al presidente della Repubblica la formula della loro investitura. Parole semplici, un solo stringato periodo: “Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi, di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione”. Per osservare lealmente la Costituzione bisognerebbe in primo luogo sapere che cosa c’è scritto in quel sudatissimo pezzo di carta, al prezzo di quali lotte il famoso popolo italiano sia finalmente riuscito ad avere, con ritardo su altri paesi, la sua carta fondamentale dei diritti. Qui torna il discorso sulla manifestazione di Firenze e sull’antifascismo richiamato con insistenza durante la campagna elettorale di settembre. Nessuno pensa che Giorgia Meloni si affaccerà un giorno dal balcone di palazzo Venezia osannata dalla folla. Il fascismo che si deve temere non sono le camicie nere, l’olio di ricino per gli oppositori, gli scalmanati che gridano Duce, a noi! L’eterno fascismo, come scriveva Umberto Eco, è quello inconsapevole di chi s’è nutrito d’indifferenza, di vecchi pregiudizi, di chi non si rende conto che accusare o deridere Elly Schlein per la sua ebraicità è un atteggiamento orribile anzi, dopo quello che è successo nel XX secolo, intollerabile. Credo che anche solo per queste ragioni la manifestazione di Firenze partita dalle scuole vada salutata come un evento finalmente incoraggiante dopo cento delusioni. I giovani neofascisti che ieri inalberavano lo striscione “La scuola non è antifascista, è libera” non si rendevano conto della grottesca contraddizione del loro slogan. La scuola fascista, quella che implicitamente evocavano, era appunto quella che la libertà l’aveva negata, che avrebbe cacciato Elly Schlein, riempito di botte gli oppositori. È da tutto questo che ci siamo liberati, dopo Firenze forse il messaggio tornerà ad essere più chiaro, qualche piccola speranza tornerà ad affacciarsi. Droghe. Piazza Armerina, il culmine dell’abuso di potere di Marco Perduca Il Manifesto, 5 marzo 2023 Al Canapa Mundi di Roma decine di agenti in divisa hanno perquisito gli stand, in Sicilia l’intrusione è avvenuta in borghese per identificare i presenti. Se il fascismo sia nato dall’indifferenza nei confronti della violenza ideologizzata e organizzata è questione da riprendere con più ampio supporto storiografico, ma che gli stati di polizia prevedano una presenza pervasiva delle forze dell’ordine è un dato di fatto. Mentre il fiume carsico della condanna dei rigurgiti del primo ogni tanto si affaccia, la documentazione del consolidamento del secondo, come la critica alla pervasività penale o alla militarizzazione del controllo del territorio continua a non far parte del dibattito pubblico o politico. Qualche settimana fa, nell’inaugurare l’anno giudiziario, il Primo Presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio aveva sottolineato con particolare enfasi che, salvo che per i 102 femminicidi, un terzo degli omicidi volontari in Italia, e le morti sul lavoro, 1090 di cui 790 in situ e 300 in itinere (altro che Qatar!) in Italia il crimine è ai minimi storici. Un contesto socio-culturale invidiabile che sarebbe da cogliere per avviare depenalizzazioni e decarcerizzazioni. E invece… E invece, piuttosto che interrogarsi sul perché di questa decrescita (potenzialmente felice), si torna a riaffermare la imprescindibile necessità dell’approccio “legge e ordine” insistendo coi soliti allarmi. Il rientro in pista in grande stile della tolleranza zero è avvenuto a metà febbraio al Canapa Mundi di Roma ma il culmine è stato toccato il 1 marzo in provincia di Enna in occasione di un dibattito in una scuola superiore. In entrambi i casi il pericolo pubblico numero uno contro cui mobilitarsi era la cannabis. A Roma decine di agenti in divisa hanno perquisito gli stand, in Sicilia l’intrusione è avvenuta in borghese per identificare i presenti - l’incontro organizzato dall’associazione Meglio Legale era online. Se nel primo caso si voleva porre in cattiva luce un appuntamento economico, nel secondo si è lanciata una chiara minaccia di attenzionamento nei confronti di chi vuole documentarsi su un tema tanto popolare quanto escluso dal dibattito mediatico o dagli approfondimenti politico-istituzionali. In un’ipotetica scala di gravità della presenza di personale in divisa in momenti debitamente autorizzati dagli enti competenti, l’assemblea scolastica di Piazza Armerina rappresenta il culmine di un abuso di potere, una volontà di potenza messa in campo per controllare adolescenti che vogliono terminare la scuola dell’obbligo con qualche informazione in più rispetto ai programmi scolastici. Organizzare un dibattito per valutare l’impatto di una legge che in 30 anni ha dimostrato di non governare il fenomeno per cui era stata adottata dovrebbe essere un obbligo didattico piuttosto che un’occasione da contrastare con l’identificazione di chi partecipa in silenziosa attenzione. L’intimidazione è la peggiore nemica dell’educazione. In Italia ci sono quattro corpi di polizia, un paio ancora militari, che occupano circa 310.000 persone. Con 453 unità ogni 100.000 abitanti abbiamo uno tra i più alti rapporti forze dell’ordine popolazione d’Europa: ottavo su 35. Da anni è attivo un progetto del Ministero dell’Interno che si chiama “Scuole Sicure”, per il biennio 2022/23 sono stati stanziati 5,5 milioni di euro per aumentare i controlli ambientali dei plessi scolastici e scongiurare la detenzione di stupefacenti con i “cani-antidroga”. Annualmente l’operazione impiega oltre 26.000 agenti per controllare circa 600 istituti. Poche decine gli arresti, mentre i sequestri di “droghe” sono pari allo 0,005% del totale. Una distrazione di fondi al limite del danno erariale che, non portando risultati, adesso attenziona la libertà di parola. Droghe. Polizia nel liceo, gli studenti convocano il ministro Valditara di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 marzo 2023 La Federazione nazionale chiede chiarimenti sull’irruzione di agenti nella scuola di Piazza Armerina, Enna. Da Cremona a Palermo, da Torino a Messina, l’associazione Meglio Legale ha tenuto oltre un centinaio di incontri nelle scuole superiori e nelle università negli ultimi due anni e mezzo. Dibattiti di informazione, con contraddittorio, perché è così che si formano le libere coscienze, e spesso alla presenza di scienziati e ricercatori. “Non c’è mai stato alcun problema”, conferma Antonella Soldo, coordinatrice nazionale della campagna referendaria a favore della legalizzazione (che è il contrario di liberalizzazione) della cannabis. Tutto liscio fino a due giorni fa quando nel liceo Majorana Cascino di Piazza Armerina, in provincia di Enna, ha fatto irruzione la polizia per identificare gli studenti che erano riuniti in un’assemblea, autorizzata dalla preside Lidia Di Gangi, per ascoltare e discutere i pro e i contro di una legge che normi e controlli la vendita di marijuana e derivati. Non si trattava di un incontro con spacciatori e non era neppure uno dei tanto odiati rave. Nessuno stava consumando droghe (e infatti non c’è stato alcun sequestro), non c’era pericolo imminente per alcuno e nessun reato da contrastare in flagranza. Il blitz è stato richiesto dalla questura di Enna e sono stati identificati i rappresentati d’istituto. Ieri, dopo due interrogazioni parlamentari presentate da Avs e Italia vita ai ministri Piantedosi e Valditara, il coordinatore nazionale della Federazione degli studenti, Marco Greco, ha inviato “al Ministero dell’Istruzione e del Merito una richiesta formale di convocazione straordinaria e urgente rivolta al ministro Valditara”. “Nessuna polemica nessun intento speculativo - puntualizza Greco - al ministro chiederò soltanto di chiarire pubblicamente, una volta per tutte, che scuole e università sono inviolabili luoghi di democrazia e libero esercizio del pensiero in cui tutti devono sentirsi al sicuro, liberi di poter dibattere e discutere su tutto ciò che ha a che fare con la società che viviamo. Una presa di posizione chiara del ministro sicuramente contribuirebbe a far sì che spiacevoli episodi come quello del Majorana non si verifichino nuovamente. Adesso non resta che attendere di sapere se il ministro accetterà di incontrarci”. Ci sono almeno due temi importanti in questa storia: la demonizzazione della cannabis (che favorisce lo spaccio della cocaina e delle droghe pesanti) e “il clima generale di repressione” come lo ha definito ieri il segretario di +Europa Riccardo Magi dalla piazza di Firenze. “La scuola - fa notare Magi - deve essere un luogo di libertà, di dibattito e di democrazia, che deve aiutare i giovani ad avere fiducia e non timore delle istituzioni”. Soprattutto laddove allo Stato e alla istituzioni si è sostituita la mafia, che con la cannabis illegale ha costruito imperi. E invece, come ricorda Antonella Soldo, il progetto “Scuole sicure”, quello delle operazioni antidroga della polizia nelle aree circostanti gli istituti, “interessa ogni anno le scuole di circa 140 comuni italiani e impiega in media 4,5 milioni di euro. Secondo i dati del Viminale, durante l’anno scolastico 2018/19, sono stati impiegati più di 26 mila agenti di polizia nei controlli di 600 istituti per un totale di 31 arresti e 14,7 chili di droghe sequestrati, corrispondenti allo 0,004% del totale dei sequestri di quell’anno. Ogni grammo requisito è costato allo Stato 500 euro”. Migranti. I Cpr sono galere mascherate in cui si istituzionalizza il razzismo di Stato di Diletta Bellotti L’Espresso, 5 marzo 2023 I centri di permanenza per il rimpatrio sono luoghi di abusi e violenza. Dove si sconta una pena amministrativa per il proprio status di migranti. Ma nessun uomo e nessuna donna possono essere considerati illegali nella loro essenza. Sul Web da un po’ di tempo gira un meme che mi fa sempre molto ridere: inscena la conversazione tra una scimmia e un uomo in cui quest’ultimo deride la scimmia dicendole che è una creatura stupida. La scimmia, dal canto suo, risponde: “Sei l’unico essere vivente che paga per abitare sulla Terra”, e così conclude. In realtà, tantissime creature pagano con la vita il prezzo di essere nate nel momento e nel posto sbagliato. La differenza è che gli esseri umani, di solito, pagano anche l’affitto. Sono varie, e spesso teologiche, le discussioni che cercano di giustificare perché esiste chi nasce sotto una buona stella e chi invece in veri e propri inferni terreni. La democrazia, o comunque un sistema giusto, deve riuscire a spostare le stelle, a de-sistematizzare la nuvola di Fantozzi: non solo “il più forte” deve poter sopravvivere, ma tutti coloro che spuntano su questa Terra. De-sistematizzare significa dunque non rendere sistemiche le diseguaglianze e le ingiustizie che ci portiamo dietro da quando nasciamo; al contrario si richiede moralmente di creare una realtà che fornisca gli strumenti per emanciparsi, che garantisca una vita dignitosa, in ogni caso. Uno degli slogan, se non il principale, dei movimenti contro i confini mortiferi ed invalicabili della Fortezza Europa è: “Nessuno è illegale”. Un’affermazione che esplicita che un essere umano può compiere azioni illegali, ma non può in nessun modo essere illegale nella sua essenza, perché l’intrinseca dignità del vivere abita un regno superiore a quello del diritto, nazionale o internazionale che sia. Per comprendere le recenti rivolte nel Cpr (Centro di permanenza per il rimpatrio) di Torino, bisogna capire cosa rappresentano questi luoghi e come rinforzano delle diseguaglianze di un sistema globale di sfruttamento e marginalizzazione dei corpi non-bianchi. In Italia i Cpr esistono in maniera informale dal 1995, a seguito di un decreto che non è mai stato convertito in legge; la pratica è stata poi normalizzata nel corso degli anni successivi. La durata massima di detenzione era fissata inizialmente a 30 giorni, per poi aumentare progressivamente. Con l’entrata in vigore nel 2002 della legge Bossi-Fini, il periodo è stato esteso a 60 giorni. Con il decreto legge 89/2011 poi è arrivato fino a 18 mesi. Dopo una riduzione a 3 mesi stabilita dalla legge europea 2013 bis, il periodo è stato poi nuovamente esteso fino a 180 giorni, con l’entrata in vigore del decreto sicurezza nel 2018. Mentre il decreto 130/2020, voluto dalla ministra dell’interno Lamorgese, ha riportato il periodo di detenzione a 90 giorni, con la possibilità di estenderlo fino ad un massimo di 120. I Cpr sono delle galere dove si sconta una pena amministrativa per il proprio status giuridico, si paga senza aver commesso un delitto; in questi luoghi non vige la legge ma solo una prassi arbitraria. Sono in realtà non-luoghi, buchi neri di tortura, violenza e abusi, veri e propri lager, peraltro totalmente inefficienti e fraudolenti per natura. Questi centri di detenzione per l’espulsione di persone migranti, dieci in totale sul territorio italiano, sistematizzano e istituzionalizzano un razzismo di Stato perché non giudicano lo straniero nella sua individualità ma solo in una presunta colpa collettiva. Nei Cpr l’ingiustizia si fa sistema e, intorno a questa violenza di Stato, tutto tace. Migranti. Naufragio Crotone, Frontex non vuole lo scontro, “ma il soccorso spettava all’Italia” di Leonard Berberi Corriere della Sera, 5 marzo 2023 L’Agenzia conferma la segnalazione la sera prima dell’incidente, ma ricorda che l’avvio della ricerca e soccorso è competenza dei singoli Stati. Med5: “Più sorveglianza”. L’ordine al quartier generale dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, a Varsavia, è evitare lo scontro con l’Italia. Anche quando la premier Giorgia Meloni spiega che Roma “non ha ricevuto indicazioni di emergenza da Frontex”. Secondo il nuovo direttore esecutivo Hans Leijtens - insediatosi il 1° marzo - l’agenzia deve essere il più apolitica possibile. Per questo quando si chiede una risposta ufficiale alle frasi della presidente del Consiglio italiano, il portavoce di Frontex Piotr Switalski non commenta. Ma ricorda che le regole d’ingaggio sono chiare. Subito dopo il naufragio al largo delle coste calabresi sono scoppiate le polemiche sul mancato salvataggio quando l’imbarcazione con 180 migranti era a 40 miglia dall’Italia. La posizione ufficiale di Frontex è che l’agenzia ha fatto quello che le spettava: segnalare la presenza dell’imbarcazione che navigava “senza mostrare segni di pericolo” ma con a bordo diverse persone come stabilito dalle telecamere termiche installate sul velivolo in perlustrazione sul Mar Ionio. Ma chi doveva lanciare le procedure per il recupero in sicurezza dei migranti? Secondo Katarzyna Volkmann, dell’ufficio stampa dell’agenzia, “la classificazione di un evento come “ricerca e soccorso”, secondo le norme internazionali, spetta alle autorità nazionali”. “Gli aerei e i droni di Frontex pattugliano aree selezionate oltre le frontiere esterne dell’Ue nell’ambito della sorveglianza aerea multiuso”, spiega l’agenzia. “Se qualcuno nota una barca che necessita di assistenza l’agenzia informa l’autorità nazionale responsabile delle attività di soccorso nell’area e segue le sue istruzioni in linea con il diritto marittimo internazionale”. “Individuare una piccola imbarcazione in mezzo al mare è un compito arduo - chiarisce l’agenzia sul sito -, motivo per cui una volta che un aereo di Frontex ne incontra una, rimane vigile e continua a monitorare l’area fino all’arrivo dei soccorsi o fino a quando l’aereo è costretto a partire a causa del carburante scarso”. La sera del 25 febbraio il Beechcraft 200 Super King Air noleggiato da Frontex, che per primo ha individuato il barcone, è dovuto rientrare dopo quasi quattro ore di volo perché ormai a secco. A Frontex si rivolge “Med5”, l’organizzizazione che riunisce cinque Paesi del Mediterraneo (tra i quali l’Italia). “Il rafforzamento della sorveglianza delle frontiere sia marittime che terrestri è una componente essenziale della lotta contro il traffico di migranti”, scrive “Med5” nel documento conclusivo del vertice di ieri a Malta dove per l’Italia c’era il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. “Frontex deve destinare maggiori risorse a questo compito, compresa la sorveglianza delle acque internazionali” - si legge ancora - anche mettendo a disposizione “ingenti fondi e mezzi dell’Ue per sostenere gli Stati membri nel rafforzamento delle capacità e delle infrastrutture di protezione delle frontiere, dei mezzi di sorveglianza”. Migranti. Milano chiede giustizia: “Ora basta morti nel Mediterraneo” di Roberto Maggioni Il Manifesto, 5 marzo 2023 La manifestazione. L’indignazione e il lutto dopo la strage di Cutro. Da piazza Oberdan alla Stazione Centrale in corteo per chiedere di cambiare le leggi sull’immigrazione. Sullo striscione principale hanno scritto: “Verità e Giustizia per il naufragio di Crotone. Basta morti nel Mediterraneo”. Quello che doveva essere un presidio con interventi da un palchetto montato sopra al cassone di un camion è diventato un corteo da piazza Oberdan alla stazione Centrale di Milano. Troppo piccola la piazza scelta per questa iniziativa, nata in pochi giorni e cresciuta col passaparola e l’adesione di oltre cento associazioni. Lanciata dopo l’ennesima strage del mare, questa volta sulle coste italiane. “Le responsabilità di quanto accaduto sono chiare. Non si è trattato di un evento inevitabile” hanno detto dalla piazza. Il ministro più citato è stato quello dell’Interno, Matteo Piantedosi, e le sue ignobili parole: “Non dovevano partire”. È stata una manifestazione di movimento e gente comune, nata da quelle Ong che il governo non vorrebbe più vedere in mare. Qualche politico milanese di centro sinistra si è visto, ma nessuno ci ha messo il cappello sopra. Età media 40-50 anni, con qualche giovane. “Noi abbiamo 23 e 24 anni, studiamo relazioni internazionali” raccontano un ragazzo e una ragazza. “All’università non ci sono corsi sull’accoglienza, sul soccorso, sulle politiche migratorie. Forse dovrebbero esserci almeno in un corso di laurea come il nostro” dicono. “Siamo venuti qui senza far parte di alcuna associazione, le immagini arrivate da Cutro e la reazione del governo italiano dovrebbero indignare tutti a prescindere dal proprio attivismo”. Una signora, insegnante in un doposcuola per stranieri, dice che “è ora di costruire corridoi umanitari. 25 mila morti nel Mediterraneo in dieci anni non sono bastati?”. Si rammarica di vedere in piazza pochi stranieri. “Anche oggi sono pochissimi qui, non sono abituati a fare manifestazioni in Italia e credo che alcuni abbiano anche paura ad esporsi. Forse con le seconde generazioni più giovani cambierà qualcosa” dice. Leon Blanchard della Ong Mediterranea è stato tra i più attivi organizzatori di questo appuntamento. “Quella di Crotone è stata una strage con responsabilità chiare, non dobbiamo dimenticarcelo. Questa mobilitazione deve servire a dare un impulso per cambiare le leggi che regolano le migrazioni, l’accoglienza, il soccorso in mare. Non è stata la prima manifestazione su questi temi, non sarà l’ultima”. C’è già un altro appuntamento in calendario, l’11 marzo prossimo a Crotone “per rispondere all’appello della Calabria Solidale”. In piazza c’era anche lo scrittore Antonio Scurati, premio strega con il libro M. Il Figlio del Secolo: “Al di là di quelle che possono essere le convinzioni politiche di ciascuno di noi siamo qui per un impulso umano. Quello che accade nei nostri mari ci interroga e ci mette in discussione nel profondo. Ha a che fare con la nostra appartenenza all’umanità”. Ha partecipato alla manifestazione anche l’ex magistrato di Mani Pulite Gherardo Colombo, tra i fondatori della Ong ResQ: “Sappiamo che ne Mediterraneo muoiono tante persone, questa volta è stato più visibile perché è accaduto sulle nostre coste. Dobbiamo farci vedere anche noi affinché queste cose non accadano più”. Aprendo la manifestazione Cecilia Strada, anche lei di ResQ, ha detto che in questi giorni abbiamo visto il peggio e il meglio dell’Italia. Da un lato i politici della maggioranza di destra come Piantedosi, Salvini e Feltri, dall’altro i pescatori di Crotone, le associazioni, le persone che si sono mobilitate per dare soccorso ai vivi e una degna sepoltura ai morti. “O si sta di qua, o si sta di là” ha detto Strada. Le persone che hanno manifestato a Milano lo hanno detto chiaro da che parte stanno. Migranti. Quel decreto Piantedosi che impedisce i soccorsi in mare di Vittorio Alessandro* La Stampa, 5 marzo 2023 La magistratura stabilirà se l’ennesima fila di bare di migranti chiami in causa responsabilità individuali, ma fin d’ora è possibile ricostruire il contesto in cui è maturata la tragedia di Cutro, quella neutra applicazione di norme, decreti interministeriali e prassi operative che ha condotto i responsabili e gli operatori del soccorso in Italia ad una rassegnata assuefazione. Le esternazioni social sui porti chiusi del 2018 già incrinarono la certezza, prima scolpita nelle leggi e nella consuetudine, che ogni salvataggio - per definizione senza limiti operativi se non la sicurezza di chi soccorre - dovesse concludersi con il rapido sbarco dei naufraghi. La nave militare US Trenton e svariate unità mercantili, perfino le motovedette Diciotti e Gregoretti, colpevoli di aver salvato persone, furono infatti lasciate fuori dal porto in attesa delle decisioni sulla redistribuzione dei naufraghi. Per la prima volta si sovrappose al soccorso in mare l’obiettivo di contenere l’arrivo dei migranti sancito poi dal decreto “sicurezza” di Salvini (n.113 del 2019) che chiuse i porti e previde gravi sanzioni nei confronti delle navi soccorritrici non coordinate dalle autorità italiane. Si spostava così in mare, e proprio nella fase delicata dei salvataggi, il controllo dei flussi migratori che andrebbe invece dispiegato a terra, dove può senza pericolo distinguersi tra aventi e non aventi titolo all’asilo e provvedere alle politiche di accoglienza. Anche il titolo del decreto Piantedosi n.1 del 2023, ora trasformato in legge, “Disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori” si risolve, in realtà, nella restrizione dei salvataggi delle navi Ong e in nuove sanzioni a loro carico, cui il Ministero unisce, ora in ogni occasione, l’ordine di sbarco lontano dai luoghi del soccorso. Con le nuove norme e prassi, molti eventi meritevoli di soccorso sono stati nel tempo derubricati a “evento migratorio”; i naufraghi ridotti a incauti passeggeri e il porto sicuro, la cui assegnazione è prevista dalle convenzioni sul soccorso (PoS, Place of Safety) è stato trasformato in PoD (Port of Destination), l’acronimo dell’approdo per le navi commerciali. Questo il processo che ha portato all’affondamento del caicco di Cutro, molto doloroso per la Guardia Costiera, abituata a esercitare il soccorso in ogni tempo e nei confronti di chiunque, “indipendentemente dallo status di tali persone e dalle circostanze in cui esse si sono trovate”, come statuisce la convenzione Solas (Capitolo V, regola 33). Oggi il principio di precauzione non si applica più alle rotte dei migranti, e si considera non in pericolo la barca che sia ancora in grado di navigare e galleggiare. È significativo che nel processo di Palermo al ministro Salvini la difesa abbia esibito la foto del barcone da cui, nell’agosto del 2019, Open Arms aveva tratto in salvo 164 richiedenti asilo: poiché il barcone appare a galla, il soccorso sarebbe stato indebito. Ma un natante ormai vuoto riacquista la spinta di galleggiamento e vanno comunque considerati tutti i rischi che i suoi occupanti sopportano nella precaria navigazione. Il caicco rovesciatosi sulle dune sabbiose di Cutro, per esempio, pur navigando speditamente, mostrava una bassa linea di galleggiamento e procedeva, su un mare in peggioramento, verso costa, dove avrebbe certamente trovato onde ancora più alte e violente. Su quella improbabile imbarcazione, i migranti erano esposti non soltanto alle insidie del mare, ma anche alla spregiudicatezza criminale degli scafisti. La tragedia di Cutro avrebbe potuto accadere prima, colpendo una delle tante barche che arrivano “autonomamente” a Lampedusa senza che si apra un evento SAR. Perché altre vicende simili non si verifichino è necessario correggere le storture istituzionali che hanno reso il soccorso più difficile e lontano, riportando la Guardia Costiera all’originale autonomia di coordinamento e alla sua preziosa agilità organizzativa. *Ammiraglio in congedo, già capo ufficio stampa della Guardia Costiera Caso Regeni, Meloni e Tajani evitano i giudici: “Segreti i colloqui con al-Sisi” La Repubblica, 5 marzo 2023 La premier e il ministro degli Esteri avrebbero dovuto testimoniare al processo sulla morte del giovane ricercatore torturato e ucciso in Egitto. Il premier Giorgia Meloni e il ministro degli Esteri Antonio Tajani non testimonieranno al processo sulla morte di Giulio Regeni. Dovranno declinare l’invito del tribunale di Roma perché non possono raccontare il contenuto dei colloqui intercorsi con il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi. O almeno è questo che dice l’avvocatura generale dello Stato, in una nota inviata al giudice Roberto Ranazzi, il magistrato che aveva convocato Meloni e Tajani su richiesta dell’avvocato che assiste la famiglia Regeni, Alessandra Ballerini. Secondo il giudice i due rappresentanti italiani dovrebbero spiegare in aula la disponibilità a collaborare con le autorità italiane che avrebbe espresso il presidente egiziano durante alcuni incontri istituzionali. Una collaborazione necessaria per proseguire il processo, visto che gli agenti dei servizi segreti egiziani che nel 2016, al Cairo, hanno torturato e ucciso il ricercatore italiano sembrano scomparsi. L’appuntamento in aula per Meloni e Tajani era fissato dunque per il prossimo 3 aprile, ma il primo giorno di marzo è arrivata una comunicazione dall’avvocatura generale dello Stato: “La divulgazione dei medesimi contenuti senza il consenso dello stato estero interessato potrebbe incidere sulla credibilità nella comunità internazionale”, si legge nel documento riportato su Il Fatto Quotidiano. Quindi il “contenuto dei colloqui non divulgabile”, “c’è un segreto che non può essere violato”, e l’audizione disposta lo scorso 13 febbraio deve essere ritirata. Perché “il contenuto dei colloqui si inscrive nell’abito delle relazioni di politica internazionale e riguarda quindi attività svolta nell’esercizio di uno delle più rilevanti prerogative dell’azione di governo, nella sua più specifica accezione di politica estera”. “Secondo la prassi internazionale costantemente applicata dagli Stati - continua la nota - i contenuti dei colloqui, bilaterali o plurilaterali, fra i rappresentanti di governo non possono essere divulgati se non attraverso comunicati congiunti e condivisi”. L’ultimo segreto che riguarda il processo su Giulio Regeni dunque non è custodito in Egitto ma tra i vertici di palazzo Chigi, che secondo l’avvocatura dello Stato devono tacere. “Sostenete i regimi perché fermino le partenze. Ma è da loro che le persone fuggono” di Paolo Valenti Il Domani, 5 marzo 2023 Siria, Libia, Yemen, Egitto e infine Tunisia. A più di dieci anni dalle primavere arabe, i paesi dove le proteste pro democrazia hanno avuto maggior impatto si ritrovano in guerra o governati da regimi autoritari. L’ex presidente tunisino Moncef Marzouki vive questo paradosso: medico e attivista per i diritti umani, tra il 1994 e il 2011 è stato più volte arrestato in quanto oppositore del presidente-dittatore Ben Ali e costretto a rifugiarsi in Francia. Rientrato in Tunisia all’indomani della caduta del regime, è stato eletto capo dello stato e ha promosso la stesura della nuova costituzione democratica, approvata nel 2014. Oggi si trova di nuovo in esilio a Parigi: a dicembre 2021 la giustizia tunisina l’ha condannato a quattro anni di carcere per le sue dichiarazioni contro l’attuale presidente Kaïs Saïed, che l’anno scorso ha sciolto il parlamento e fatto approvare una nuova costituzione iperpresidenziale. L’ex presidente non è il solo: nelle scorse settimane, almeno dodici tra membri dell’opposizione e giornalisti critici di Saïed sono stati arrestati, suscitando le reazioni di Onu, Commissione europea e Stati Uniti. Nessuna parola di condanna da parte del governo Meloni, che anzi cerca in Tunisi una sponda nella lotta all’immigrazione. Secondo la Relazione annuale sulla politica dell’informazione per la sicurezza 2022, presentata martedì, l’anno scorso il flusso dalla Tunisia è aumentato del 60 per cento. Presidente Marzouki, cosa sta accadendo in Tunisia? La Tunisia è bloccata in una situazione di stallo totale. La rivoluzione democratica iniziata nel 2011 ha fallito, come ha fallito la controrivoluzione promossa dalle forze reazionarie che hanno vinto le elezioni prima nel 2014 e poi nel 2019. A questo si aggiunge una crisi economica, sociale e morale durissima, aggravata dalle conseguenze della guerra in Ucraina. Intanto, a regnare nel caos è un presidente putschista, un Gheddafi senza petrolio, che ha stracciato la costituzione, chiuso il parlamento con i blindati e sospeso le libertà. Fino a qualche tempo fa la Tunisia era considerata l’unico esperimento riuscito delle primavere arabe: cosa non ha funzionato? Due fattori sono stati determinanti in Tunisia, come negli altri paesi toccati dall’ondata rivoluzionaria. In primo luogo, il sabotaggio da parte delle potenze regionali che temevano il contagio democratico. Penso soprattutto all’Iran, che in Siria ha dato man forte ad Assad per reprimere la resistenza, ma anche all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti, che sono intervenuti sia in Yemen che in Libia, con le conseguenze che vediamo oggi. In Tunisia, alle bombe hanno preferito i soldi: poco prima di essere eletto, ad esempio, il mio successore Essebsi, figura del regime pre rivoluzione, ha ricevuto in dono dagli Emirati Arabi due Mercedes blindate. L’altro fattore ha a che fare con l’islam politico: dove la rivoluzione è riuscita a portare libere elezioni, queste hanno spesso premiato forze islamiste. La classe media occidentalizzata, spaventata, ha quindi preferito tornare indietro e aderire alla controrivoluzione. Possiamo dichiarare chiusa l’esperienza delle primavere arabe? Niente affatto. La democratizzazione è un processo lungo, che può arrestarsi e riprendere, rallentare e accelerare. All’immagine della primavera preferisco quella del vulcano: anche quando sembra inattivo, sotto la superficie, continua ad agitarsi, pronto a esplodere da un momento all’altro. E la rivoluzione esploderà di nuovo perché il carburante che l’ha alimentata nell’ondata del 2011-2012 non si è esaurito: la disoccupazione giovanile, l’impoverimento della classe media, la corruzione, gli ingredienti ci sono tutti. Ne abbiamo avuto la prova con le proteste in Algeria, Libano e Sudan degli ultimi quattro anni. L’impressione, però, è che le proteste oggi siano meno partecipate e sentite che nel 2011-2012. Perché? Sono convinto che i popoli arabi vogliano ancora la libertà e la democrazia, ma sono più timidi nei confronti della rivoluzione perché temono di piombare nel caos della Siria. A lungo andare però, vista la situazione economica, non avranno scelta: rivoltarsi o crepare. Allora starà a noi, uomini politici di sensibilità democratica, indirizzare le proteste perché non siano solo rivolte del pane, ma il punto di partenza di un percorso di trasformazione profonda dello stato e della società. In questa lotta tra rivoluzione e controrivoluzione da che parte sta l’occidente? Gli stati occidentali hanno perso una grande occasione dieci anni fa. Perché se le dittature mediorientali hanno fatto di tutto per sabotare la rivoluzione, loro non hanno fatto nulla per sostenerle. Ricordo di aver mandato ai tempi una lettera all’allora presidente Barack Obama, chiedendo di fare pressione sugli Emirati perché smettessero di interferire: nessuna risposta. Ma non mi stupisce. Del resto gli Stati Uniti hanno come migliori alleati nella regione i regimi dell’Arabia Saudita, degli Emirati e dell’Egitto. Poco male, vorrà dire che la democrazia ce la costruiremo da soli. Il 18 gennaio scorso, i ministri italiani Antonio Tajani e Matteo Piantedosi hanno incontrato il presidente Saied a Tunisi per discutere di lotta all’immigrazione irregolare. Ieri, Meloni ha sentito l’omologa Bouden ribadendo il sostegno italiano. Che effetto le fa? È la perfetta illustrazione dell’approccio miope con cui l’Europa si relaziona con il nordafrica e il medio oriente: si appoggiano i regimi pensando che garantiscano stabilità, ma è una stabilità illusoria, basata sulla violenza e la corruzione. Finché non si risolve il problema alla radice, supportando la nascita di democrazie forti capaci di portare vera stabilità, sviluppo duraturo e pace sociale, migliaia di persone continueranno a mettersi sui barconi per andarsene, chiunque sia il presidente del consiglio o il ministro di turno. Giorgia Meloni ha promesso un cambio di passo nelle relazioni tra Africa e Italia e invocato un “piano Mattei” basato sulla “cooperazione non predatoria”. Che ne pensa? Finché questi paesi sono governati da regimi autoritari, sono loro e solo loro a beneficiare di questi accordi, mentre la popolazione locale rimane povera e oppressa. In ogni caso, fatico a vedere in questa promessa altro che parole: l’estrema destra è sempre anti terzo mondo. Che Meloni inizi ad accogliere degnamente quelli che cercano di arrivare in Italia, dopo potremo parlare di cooperazione. Come dovremmo comportarci nei confronti di questi regimi? Innanzitutto smettere di fare affari con loro come se nulla fosse. Non dico stracciare gli accordi, ma quantomeno vincolare gli investimenti al rispetto delle libertà fondamentali e dello stato di diritto. Però non mi faccio illusioni: chi governa in Europa è vittima del calcolo elettorale e quindi guarda solo agli interessi sul breve termine, che spesso coincidono con quelli delle dittature. Non si accorgono che così facendo non fanno altro che rifilare la patata bollente a chi verrà dopo di loro. Quando la situazione esploderà in modo violento, anche l’Europa ne pagherà le conseguenze. Durante i Mondiali in Qatar abbiamo visto tutto il mondo arabo festeggiare per l’impresa del Marocco. Perché quest’unità sembra non esistere a livello politico? Perché i regimi che governano la maggior parte degli stati arabi non sono l’immagine dei rispettivi popoli. Devono la propria sopravvivenza alla forza militare o al sostegno di potenze straniere, non al consenso democratico, e gli autoritarismi sono per propria natura inclini al conflitto. Pensi all’Europa: l’Unione ha potuto vedere la luce solo quando la democrazia ha prevalso dappertutto sulle dittature. Con Mussolini, Hitler e Franco non sarebbe stato possibile. Ecco, qui è lo stesso: ci sono ventidue stati arabi, la maggior parte governati da regimi autoritari, ciascuno dei quali pensa solo a tenersi stretto il potere. Solo con la democrazia potremo iniziare a costruire uno spazio economico e politico condiviso. Cosa significa essere costretti a vivere di nuovo in esilio? Mi sento come uno che, seduto sulla sponda, guarda la nave affondare e sa che su quella nave ci sono i suoi familiari, la sua gente. Ma anche da qui, nel limite dei mezzi che ho a disposizione, cerco di fare di tutto per evitare il naufragio. Non posso vedere il paese che ho servito per 50 anni tornare ai suoi tempi più bui, alla persecuzione degli oppositori politici, a una costituzione degli anni Cinquanta. Ma ne sono convinto: Saïed verrà cacciato come Ben Ali, Mubarak e Gheddafi prima di lui. È solo una questione di tempo. Kosovo, la storia in trappola di Irene Soave La Lettura - Corriere della Sera, 5 marzo 2023 Coronata da 99 cupole bianche, avvolta da una gabbia metallica, la Biblioteca nazionale è un simbolo del Kosovo: nelle intenzioni dell’architetto doveva fare convivere elementi ottomani e ortodossi, cioè albanesi e serbi. Era il 1944. Per i visitatori - perlopiù millennial nel circuito del turismo alternativo - è un gioiello brutalista da instagrammare; per gli abitanti di Pristina, capitale dal 2008 dell’ex provincia serba ora repubblica, dove “convivenza” vale “tensioni”, un ambizioso pasticcio. Contiene mezzo milione di libri; una stanza al piano terra con due bandiere a stelle e strisce è la “sezione Usa” e odora già di polvere. Tra le “novità” una guida ai migliori college americani, datata 2014; una pila di manuali insegnano a scegliersi un percorso di studi, progettare una carriera, avere successo. Arduo, nel Paese più inoccupato d’Europa, dove il Pil procapite sfiora i 5 mila dollari l’anno: il passaporto dei kosovari - 1,8 milioni, metà dei quali sotto i 25 anni - non permette di uscire dai Balcani. La liberalizzazione dei visti almeno per l’area Schengen è stata posticipata già tre volte: burocrazia europea. La gabbia attorno all’edificio sembra più che metaforica. Il viaggio in Kosovo de “la Lettura” si è svolto quest’estate, quando Pristina ha ospitato per cento giorni la “biennale nomade” di arti visive e interventi urbanistici Manifesta, organizzata tra gli altri dall’architetto torinese Carlo Ratti. Solo un treno al giorno, da Belgrado a Skopje, passa per l’unico binario della stazione di Pristina; ci si arriva in corriera, da Zurigo o da Prizren o da Tirana, o in aereo; dal 2021 è meglio evitare i valichi al confine - che Belgrado chiama “linea amministrativa” - con la Serbia, perché la “crisi delle targhe” tra i due Paesi provoca lunghe code quando non blocchi stradali, quando non sparatorie. Da settembre 2021 il governo kosovaro vieta di circolare alle auto con targa serba. Belgrado continua a emettere targhe serbe con sigle di città del Kosovo: la Serbia non riconosce come Stato la sua ex provincia, e sostiene le proteste dei serbi del Kosovo, che periodicamente bloccano le strade o sparano alle forze Nato. I serbi chiedono anche che le dieci enclave kosovare a maggioranza serba, 120 mila abitanti, possano unirsi in una Comunità come sancito a Bruxelles (2013). Il governo di Pristina nicchia: sono già abbastanza autonome, hanno allacci abusivi di luce e acqua, sono protette da 3.700 soldati Nato, che vogliono ancora? Dall’estate la crisi si è aggravata: 600 impiegati dei comuni a maggioranza serba si sono dimessi per protesta. Negli scontri che ne sono seguiti, uno è stato ucciso. L’auto de “la Lettura” attraversa nel diluvio il confine montano dal Montenegro, 4 ore e 44 minuti di curve sulla R5R106 da Rozaje a Pec tra pini neri, latifoglie secolari, baratri senza guard-rail. Tra i tornanti potrebbe benissimo spuntare l’insegna di Sumor, villaggio immaginario dove la scrittrice Elvira Mujcic, 40 anni, ha ambientato il suo romanzo La buona condotta, appena uscito per Crocetti. A Sumor, 1.362 abitanti albanesi e 1.177 serbi, un sindaco serbo “che detesta il conflitto” amministra cercando la concordia. Non è abbastanza. Il governo di Belgrado manda un agitatore a soffiare sul nazionalismo dei paesani. Bosniaca, “mi piacerebbe dire jugoslava ma è anacronistico”, fuggita ragazzina da Srebrenica, dove il genocidio ha ucciso suo padre, Mujcic racconta cercando, nonostante tutto, “equidistanza”. “La buona condotta si ispira a una storia vera di convivenza. La racconta un documentario italiano di qualche anno fa, Kosovo vs. Kosovo. Ho scelto una storia kosovara perché la situazione è vicina a quella che ho vissuto in Bosnia. Ma spostarla mi permetteva di indagare con più distacco i meccanismi del nazionalismo che hanno investito la mia vita, i modi in cui questo odio appare all’improvviso nella vita delle persone. Come se non ci fosse più responsabilità individuale”. La crisi tra Kosovo e Serbia è anche una crisi di burocrazie. “La burocrazia è un’arma. Sulla viabilità di un Paese minuscolo di cui non importa niente a nessuno ci si incaglia a Bruxelles da mesi: questo dice che gli attori in campo sono ben più grandi”. L’auto attraversa Novo Selo, 1.500 abitanti. Nel 1485 qui vivevano, sotto gli ottomani, trenta famiglie cristiane e un pope. Oggi solo albanesi. Sosta per un burek (sfoglia tipica dei Balcani) a Pec, 95 mila abitanti, che fu la prima sede della Chiesa ortodossa in terra slava. A dicembre 2022, poche settimane dopo il nostro passaggio, il patriarca metropolita serbo Porfirije tenterà di raggiungere l’ex sede storica della sua chiesa, Pec, e sarà respinto. Questo basterà a Belgrado per minacciare di inviare l’esercito. Le ostilità però non esplodono, vengono rinviate a febbraio; il 17 si è celebrato il 15° anniversario dell’indipendenza. Lunedì 27 a Bruxelles il più alto diplomatico della Ue, Josep Borrell, ha annunciato un nuovo accordo per la “normalizzazione” dei rapporti. Di fronte a lui Aleksandar Vucic, presidente serbo (e in gioventù portavoce di Slobodan Milosevic) e Albin Kurti, premier del Kosovo (e in gioventù detenuto a lungo come nazionalista), hanno firmato. Non si sa come sarà messo in pratica. L’Unione Europea, a cui la Serbia è candidata ad aderire dal 2009, preme di fatto perché Belgrado riconosca il Kosovo. Ma nella stessa Ue sono cinque gli Stati a non riconoscerlo: Spagna, Romania, Slovacchia, Cipro e Grecia. D’altra parte il Cremlino non riconosce il Kosovo, come non lo riconosce Pechino. E sostiene Belgrado a gran voce sin dall’insediamento, nel 2021, dell’attuale governo di Pristina, di sinistra e antiserbo. “Destabilizzano i Balcani per destabilizzare l’Europa”, ha detto la presidente kosovara Vjosa Osmani, che a dicembre ha chiesto che il Paese potesse candidarsi a entrare nella Ue. La Ue però, continua Mujcic, “manca di coraggio. Stalli nelle procedure d’ammissione, procedure kafkiane per i visti, ipocrisia sulla rotta dei migranti. I Balcani sono così secondari per la comunità internazionale che quando è scoppiata la guerra in Ucraina si diceva: è la prima in Europa da 70 anni. Non è un lapsus, è una posizione”. Ancora un’immagine dal viaggio di quest’estate. Si arriva a Pristina nel buio, è ora di cena. Una gigantografia di Bill Clinton su un palazzo apre uno dei bulvar, i viali della capitale. La città brulica di visitatori ma i ristoranti sono semivuoti. Lo struscio sui viali, gratuito, si chiama korza. È il gioco di società nazionale. La mattina, visita al Grand Hotel Pristina, costruito nel 1978 e ora infestato di scarafaggi: è il cuore della biennale, 13 piani allestiti con opere di artisti kosovari. Un’installazione sugli Stati autoproclamati: oltre al Kosovo, l’Ossezia del Sud, la Transnistria, l’Abkhazia, il Nagorno-Karabakh. Cinque focolai legati a Mosca, tutti in recrudescenza (per gli analisti: riflesso del conflitto russo-ucraino). Al quarto piano la suite di Tito con moquette rossa, coperte di ciniglia, sofà in pelle. Prima della guerra del 1999, ci dormiva Arkan. Ibrahim Sadiku è uno dei “mediatori” che guidano il pubblico, spiegando il contesto storico, culturale, emotivo dietro le opere. “Tito ci aveva colonizzati”, dice, e il plurale è improprio: ha 25 anni, il dittatore è morto nel 1980. Così è la nostalgia. “Ma ci ha dato università, strade, industrie. Il passaporto jugoslavo ti portava ovunque; il mio”, e la voce gli si incrina per la rabbia, “quasi da nessuna parte”. Un’installazione video dura 62 minuti, si finisce per guardarli tutti: l’artista Marta Popivoda ha montato decine di filmati di grandi folle dal 1945 al 2000. Cortei jugoslavi contro il re, giochi sovietici, parate militari, curve di ultrà serbi. “In quest’epoca di nazionalismi e individualismo”, recita il libretto in tre lingue che accompagna la visione, “non c’è qualcosa da salvare del collettivismo? Come abbiamo potuto abbandonare così in fretta quel tipo di società?”. E una domanda implicita, che suona retorica: “Quindici anni dopo, l’indipendenza com’è andata?”.