Cospito, ci pensa l’Onu: “L’Italia viola la dignità umana” di Valentina Stella Il Dubbio, 4 marzo 2023 Dopo la denuncia del difensore, l’Alto Commissariato per i Diritti Umani chiede l’applicazione di misure temporanee cautelative per l’anarchico al 41bis nel rispetto degli standard internazionali di detenzione. La vicenda di Alfredo Cospito esce dai confini nazionali e arriva fino all’Organizzazione delle Nazioni Unite. L’Alto commissariato Onu per i diritti umani ha chiesto all’Italia di assicurare il rispetto in carcere della dignità e dell’umanità dell’anarchico, in regime di 41 bis e in sciopero della fame da ormai 136 giorni. Lo hanno reso noto il suo legale Flavio Rossi Albertini e Luigi Manconi, presidente di “A buon diritto”. “Il primo marzo, l’Alto Commissariato Onu per i Diritti umani”, si legge nella nota, “ha inviato allo Stato italiano la richiesta di applicazione di misure temporanee cautelative relative alla detenzione al 41 bis di Alfredo Cospito. Il documento è stato notificato alla rappresentanza del governo italiano a Ginevra e all’avvocato Flavio Rossi Albertini, che subito dopo il rigetto del ricorso per Cospito in Cassazione aveva inoltrato una comunicazione individuale al Comitato Diritti umani denunciando le condizioni di detenzione del proprio assistito”. In attesa della decisione sul merito della petizione individuale presentata per Alfredo Cospito, il Comitato ha dunque deciso di applicare una misura provvisoria che consiste nel richiedere all’Italia di assicurare il rispetto degli standard internazionali, e in particolare dell’articolo 7 (divieto di tortura e trattamenti o punizioni disumane o degradanti e divieto di sottoposizione, senza libero consenso, a sperimentazioni mediche o scientifiche) e dell’articolo 10 (umanità di trattamento e rispetto della dignità umana di ogni persona privata della libertà personale, riabilitazione sociale del detenuto) del Patto internazionale sui Diritti civili e politici “in relazione alle condizioni detentive di Alfredo Cospito”. Lo Stato italiano ha 6 mesi per rispondere. Dal ministero della Giustizia arriva una breve nota in cui, in pratica, si sottolinea che non viene mossa nei confronti dell’Italia alcuna contestazione: “L’Italia fornirà all’Onu le informazioni richieste, dopo la petizione della difesa di Alfredo Cospito. Una richiesta trattata dalle Nazioni Unite secondo la procedura ordinaria applicabile a ogni petizione ricevuta: l’Onu chiede all’Italia informazioni sul caso e domanda di assicurare che le condizioni di detenzione siano conformi al Patto internazionale sui Diritti civili dell’uomo, e rispettino gli articoli 7-10”. Diverso il parere di Sofia Ciuffoletti, docente di Filosofa del diritto all’Università di Firenze, secondo cui “l’applicazione di una misura provvisoria nei confronti dell’Italia da parte del Comitato per i Diritti umani delle Nazioni Unite in relazione al caso di Alfredo Cospito costituisce una notizia di grande rilievo dentro e fuori dai confini del nostro Paese”. Infatti, “da un lato il Comitato sta dicendo all’Italia che le condizioni di detenzione cui è sottoposto Cospito, all’interno del regime del ‘carcere duro’, sono sottoposte alla stretta vigilanza internazionale proprio in relazione a un fumus di violazione degli standard internazionali, del divieto di tortura o trattamenti e pene disumane e degradanti, del divieto di sottoposizione coatta a sperimentazioni mediche, del principio di umanità del trattamento e del rispetto della dignità personale”. Dall’altro, “nella prassi di questo importantissimo organo per la tutela dei diritti a livello internazionale, la irrogazione di una misura provvisoria viene normalmente decisa nei più gravi casi di necessità e urgenza in relazione a rischi per la vita e l’incolumità fisica delle persone, solitamente in casi di sentenze capitali o rischi di espulsione verso Paesi che praticano la tortura. La valutazione di urgenza e rischio imminente in un caso relativo a un regime speciale di detenzione costituisce un precedente importantissimo. La misura in cui l’Italia darà, da oggi in poi, attuazione alla richiesta provvisoria determinerà l’adesione del nostro Paese al nucleo fondante della civiltà giuridica occidentale e del principio di habeas corpus”. Secondo il Comitato, “l’indicazione di interim measures è effettivamente vincolante per lo Stato membro”, e “ignorarla volontariamente corrisponde a una violazione del Protocollo opzionale. Ci si aspetta pertanto dagli Stati che essi rispettino le decisioni del Comitato”. Tuttavia, fanno sapere Rossi Albertini e Manconi, “nonostante la richiesta dell’Onu di adottare misure urgenti a protezione del detenuto, trascorsi quasi due giorni dalla notifica del provvedimento, nessuna iniziativa è stata assunta dal ministro della Giustizia per revocare o quantomeno migliorare la condizione detentiva di Cospito”. Le misure urgenti vengono adottate dal Comitato quando sussiste il rischio imminente per la tutela dei diritti essenziali della persona e al fine di evitare danni irreparabili al ricorrente nelle more della decisione finale del Comitato stesso. “Il danno irreparabile sarebbe la morte di Alfredo Cospito durante la detenzione”, concludono il legale dell’anarchico e il presidente di “A buon diritto”. “È chiaro che con questa azione il Comitato sta per la prima volta mettendo in dubbio la legittimità del 41 bis rispetto alle Convenzioni internazionali. È molto difficile che l’Italia possa dimostrare che una detenzione a vita e in un regime di estremo isolamento stia garantendo il fine essenziale di ravvedimento e riabilitazione sociale”. Soddisfazione da parte di Massimiliano Iervolino, segretario di Radicali italiani: “Non possiamo che condividere quanto scritto dal Comitato Onu sul cosiddetto caso Cospito. Le violazioni degli articoli 7 e 10 sono lampanti. Tuttavia bisogna nuovamente sottolineare come il 41 bis sia una forma di tortura non solo per Cospito ma per tutti i detenuti oggetto del cosiddetto carcere duro”. L’Onu contro l’Italia: garantire a Cospito dignità della pena di Mario Di Vito Il Manifesto, 4 marzo 2023 L’avvocato Albertini: “Lo Stato deve dare esecuzione a tale misura provvisoria”. Il guardasigilli Carlo Nordio: “Forniremo le informazioni richieste”. L’Alto Commissariato Onu per i diritti umani chiede all’Italia di “garantire che le condizioni di detenzione del signor Cospito siano in accordo con gli standard internazionali” e in particolare con due articoli del Patto internazionale sui diritti civili e politici: il 7 (divieto di tortura e trattamenti o punizioni disumane e degradanti e divieto di sottoposizione, senza libero consenso, a sperimentazioni mediche o scientifiche) e il 10 (umanità di trattamento e rispetto della dignità umana in ogni persona privata della libertà personale). Questo in attesa di un pronunciamento nel merito della vicenda di Alfredo Cospito, detenuto al 41bis da 303 giorni e in sciopero della fame da 135. La lettera è di mercoledì, ma, hanno detto ieri l’avvocato Flavio Rossi Albertini e Luigi Manconi dell’associazione A buon diritto: “Lo Stato italiano deve, nel rispetto dei propri obblighi internazionali, dare esecuzione a tale misura provvisoria. Rappresenterebbe un grave precedente se la decisione adottata dal Comitato rimanesse lettera morta, se l’Italia emulasse l’indifferenza dimostrata per l’Onu dai regimi autocratici”. La risposta del ministro della Giustizia Carlo Nordio non si è fatta attendere: “L’Italia fornirà all’Onu le informazioni richieste”. Oggi a Torino gli anarchici torneranno in piazza in sostegno di Cospito: l’allerta è alta e ci si attende un imponente dispiegamento di polizia ad accompagnare il corteo. Sempre sul fronte investigativo, nella giornata di ieri sono state effettuate delle perquisizioni sia a Roma sia a Foligno, in Umbria, per le manifestazioni non autorizzate dello scorso novembre nei pressi del teatro Argentina e alla sede Rai di via Romagnoli. A Barcellona, invece, è stato rimesso in libertà il 32enne accusato di aver imbrattato il consolato italiano lo scorso gennaio. Cospito, intanto, è tornato a far sentire la sua voce attraverso una lettera dello scorso gennaio, poi consegnata al suo legale. Si tratta di parole scritte prima del ricovero in ospedale (dal quale ha già fatto ritorno in carcere) e degli ultimi sviluppi giudiziari della sua vicenda. “Sono pronto a morire per far conoscere al mondo cosa è veramente il 41bis - scrive -. Ora tocca a me, prima mi avete mostrificato come il terrorista sanguinario, poi mi avete santificato come l’anarchico martire che si sacrifica per gli altri, adesso mostrificato di nuovo. Quando tutto sarà finito, non ho dubbi, sarò portato all’altare del martirio. Grazie, non ci sto. Ai vostri sporchi giochi politici non mi presto”. Per Cospito, in ogni caso, la sua morte sarebbe “un intoppo a questo regime” e auspica che “i 750 che subiscono il 41bis da decenni possano vivere una vita degna di essere vissuta, qualunque cosa abbiano fatto”. Questa lettera è stata portata in Senato da Rossi Albertini, che ne ha sottolineato il passaggio in cui si respinge l’accusa di essere a capo di una qualche organizzazione: “Il più grande insulto per un anarchico è di essere accusato di dare o ricevere ordini. Quando ero al regime di alta sorveglianza avevo comunque la censura e non ho mai spedito pizzini ma articoli per riviste”. Nei suoi libri, nei suoi articoli e nelle sue lettere - tutto materiale di facile reperibilità - Cospito ha sempre mostrato una profonda avversione verso le pratiche assembleari e collettive, una posizione, sempre rivendicata negli anni, di individualismo quasi ottocentesco. Sulle sue azioni, infine, l’anarchico tira dritto: nessun rimorso. “Le ho sempre rivendicate con orgoglio (anche nei tribunali, per questo mi trovo qui) e mai ho criticato quelle degli altri compagni, tantomeno in una situazione come quella in cui mi trovo. Non mi sono mai associato ad alcuno, e quindi non posso dissociarmi da alcuno. L’affinità è un’altra cosa”. Già condannato per la gambizzazione dell’Ad di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi, avvenuta nel 2012, attualmente Cospito aspetta il verdetto della Corte costituzionale sull’altra condanna, quella per gli ordigni piazzati una notte di giugno del 2006 davanti a una caserma in provincia di Cuneo, evento che non ha causato morti né feriti. In base alla decisione della Consulta, la condanna sarà compresa tra i vent’anni e l’ergastolo. Cospito, l’Onu: “L’Italia rispetti la dignità e l’umanità della pena” di Viola Giannoli La Repubblica, 4 marzo 2023 L’alto commissariato per i diritti umani, in attesa di esprimersi nel merito, ricorda al governo di rispettare gli standard internazionali e gli articoli 7 e 10 del Patto Internazionale in relazione alle condizioni detentive dell’anarchico. L’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani chiede all’Italia di assicurare il rispetto in carcere della dignità e dell’umanità di Alfredo Cospito, in regime di 41 bis e in sciopero della fame da 134 giorni. La richiesta è arrivata il primo marzo ed è stata notificata alla rappresentanza del governo italiano a Ginevra e al legale difensore Flavio Rossi Albertini, che il 25 febbraio, subito dopo il rigetto del ricorso per Cospito in Cassazione, aveva inoltrato una comunicazione individuale alla Commissione Diritti Umani denunciando le condizioni di detenzione del proprio assistito. Una replica che richiama genericamente al rispetto dei principi internazionali sulla pena. Il richiamo dell’Onu - “In attesa della decisione sul merito della petizione individuale presentata per Alfredo Cospito - fanno sapere in un comunicato il legale e il presidente di A buon diritto Luigi Manconi - il Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha deciso di applicare una misura provvisoria che consiste nel richiedere all’Italia di assicurare il rispetto degli standard internazionali e degli articoli 7 (divieto di tortura e trattamenti o punizioni disumane o degradanti e divieto di sottoposizione, senza libero consenso, a sperimentazioni mediche o scientifiche) e 10 (umanità di trattamento e rispetto della dignità umana di ogni persona privata della libertà personale) del Patto internazionale sui diritti civili e politici in relazione alle condizioni detentive di Alfredo Cospito”. Nonostante la richiesta dell’Onu, accusano Manconi e Rossi Albertini, “nessuna iniziativa è stata assunta dal ministro della Giustizia per revocare o quantomeno migliorare la condizione detentiva di Cospito. Rappresenterebbe un grave precedente se la decisione adottata dal Comitato rimanesse lettera morta, se l’Italia emulasse l’indifferenza dimostrata per l’Onu dai regimi autocratici”. “Le misure urgenti - ricordano - vengono adottate dal Comitato quando sussiste il rischio imminente per la tutela dei diritti essenziali della persona e al fine di evitare danni irreparabili al ricorrente nelle more della decisione finale del Comitato. Il danno irreparabile sarebbe ad esempio la morte di Alfredo Cospito durante la detenzione”. Quel che si legge nella risposta dell’Onu però al momento è solamente un richiamo ai principi internazionali di una detenzione rispettosa. Diversa l’interpretazione di Rossi Albertini e Manconi che nella nota sostengono come sia “chiaro che con questa azione la Commissione sta per la prima volta mettendo in dubbio la legittimità del regime 41 bis rispetto alle convenzioni internazionali. È molto difficile che l’Italia possa dimostrare che una detenzione a vita e in un regime di estremo isolamento stia garantendo il fine essenziale di ravvedimento e riabilitazione sociale”. La lettera di Cospito dal carcere - Proprio attorno al suo regime detentivo, cioè al 41 bis, ruota la lettera, divenuta pubblica nella versione integrale, che Cospito ha scritto dal carcere di Opera, Milano, a gennaio. E che, in alcuni passaggi, era stata già diffusa dal suo legale. “Oggi sono pronto a morire per far conoscere al mondo cosa è veramente il 41 bis. La mia morte - affermava - porrà un intoppo a questo regime”, convinto che “i 750 che lo subiscono da decenni possano vivere una vita degna di essere vissuta, qualunque cosa abbiano fatto”. “Porterò avanti la mia linea fino alle estreme conseguenze - annunciava - non per un ricatto ma perché questa non è vita. Se l’obbiettivo dello Stato italiano è quello di farmi dissociare dalle azioni degli anarchici fuori, sappia che io ricatti non ne subisco da buon anarchico. Non mi sono mai associato ad alcuno - rivendicava - e quindi non posso dissociarmi da alcuno, l’affinità è un’altra cosa. Ho sempre rivendicato con orgoglio le mie azioni (anche nei Tribunali, per questo mi trovo qui) - aggiungeva, riferendosi ad esempio alla gambizzazione, nel 2012, dell’allora ad di Ansaldo nucleare Roberto Adinolfi - e mai criticato quelle degli altri compagni, tanto meno in una situazione come quella in cui mi trovo”. Caro Cospito, hai già vinto la tua battaglia: ora interrompi il digiuno di Ezio Menzione* Il Dubbio, 4 marzo 2023 Mai era successo che una questione così squisitamente giuridico-politica, come quella del 41bis, venisse alla ribalta. Noi ti promettiamo di continuare con te la battaglia anche se tu decidessi di allontanare da te lo spettro della morte Caro Cospito, ho seguito il tuo caso leggendo gli atti del processo per il quale sei attualmente detenuto e tenendomi in contatto con alcuni degli avvocati che vi hanno svolto la difesa, che conosco da tanti anni. Un mese fa circa, dalle colonne di questo giornale avevo inviato una lettera aperta al Ministro Nordio perché, usando dei suoi poteri, ti revocasse o almeno ti sospendesse il 41 bis. Nordio non mi rispose, anzi rispose confermandolo. Poi abbiamo aspettato la Cassazione che, contrariamente a quanto si poteva immaginare, date le conclusioni del Pg, ha anch’essa confermato la legittimità nel tuo caso del “carcere duro”, come ormai tutti conoscono il 41 bis. Non sono ancora state pubblicate le motivazioni di tale decisione, ma non è difficile immaginarsele, avendo letto la precedente decisione del supremo collegio (si dice così, ancorché impropriamente) nel caso che ti riguarda: la sentenza che, ribaltando l’appello, faceva rientrare la tua condotta nella previsione dell’art.285 (strage politica per sovvertire lo stato) anziché l’art.422 (strage comune). Una sentenza lunga ed apparentemente motivata, in realtà debolissima, che andava a ripescare uno degli articoli frutto di una concezione autoritaria dello stato, che si colloca nella parte più fascista del codice penale, che proprio in quella parte è ancora quello del guardasigilli fascista Rocco, salvo alcuni ritocchi apportati a seguito di pronunce della Corte Costituzionale. Debole soprattutto nella parte in cui intenderebbe motivare sul carattere antistatuale dell’attentato perché rivolto alla scuola dei carabinieri. E se fosse stato un liceo classico? Oppure una piscina comunale? Sono anche questi espressione dello stato, ma tant’è. Si badi che, allora, anche l’attentato alla piscina comunale magari chiusa in ore notturne, meriterebbe la sanzione dell’ergastolo (e fino a qualche decade fa la morte). Assurdità che sono state avvertite anche dal giudice del rinvio (Corte d’Assise di Torino) che infatti ha rimesso il problema alla Corte Costituzionale per non dover sottostare all’incoerenza delineata dalla Cassazione. Ora mi rivolgo a te, caro Cospito, per chiederti di prendere in considerazione l’idea di non proseguire a mettere in pericolo la tua vita con questo sciopero della fame. Tu hai già dato una risposta negativa a questa possibilità, sottolineando come una vita al 41 bis non è vita, ed è vero. Dunque è argomento forte, ma, come diciamo noi operatori del diritto, “prova troppo” e mi sembra che sia una scorciatoia, una specie di corto circuito che non prende in considerazione altri elementi, secondo me importanti. Primo fra tutti, il fatto che, attraverso la tua protesta, volta ad eliminare quel regime inumano che è il 41 bis non solo per te, ma per tutti i 750 detenuti che lo patiscono, spazzandolo via dal nostro ordinamento. C’era bisogno di mettere all’ordine del giorno dell’opinione pubblica (almeno di quella più avvertita e sensibile) il riconoscimento della inumanità di questo regime. Ecco, su questo fronte la tua protesta ha già vinto: in queste settimane sono cresciute di numero e di intensità le prese di posizione che condividono questo giudizio. Non era affatto detto che ciò avvenisse, ma grazie a te è accaduto. Certamente vi era anche la sottolineatura dell’assurdità di applicare a te, che da bravo anarchico non hai mai preteso di dare ordini e dritte a nessuno: anche sotto questo particolare profilo la consapevolezza collettiva è cresciuta. Anzi, molti di coloro che pure sono favorevoli alla permanenza del regime del “carcere duro” riconoscono che esso è ingiustificato nel tuo caso. Dunque una doppia vittoria, altamente significativa, di cui si può andare fieri. Certo, non è ancora la cancellazione dal nostro ordinamento del 41 bis né del “tuo” 41 bis, questo è vero, ed il trattamento a te riservato permane inumano e incomprensibile. Ma si può prendere le mosse dalle vittorie raggiunte di cui ho detto per ottenere che almeno il “tuo” 41 bis venga cancellato, salvaguardando il tuo rimanere in vita. Noi ti promettiamo di continuare con te la battaglia anche se tu decidessi di allontanare da te lo spettro della morte. Ormai la questione è sul tavolo ed è ineludibile. Certo, si può andare alla CEDU: tutti vi abbiamo pensato il giorno stesso dell’ultima decisione della Cassazione. Ma i tempi della CEDU, anche quando è adìta in via d’urgenza, sono assai dilatati e l’esito assai incerto. Ricordo che per la avvocata turca Ebru Timtik la CEDU, adìta appunto in via d’urgenza, si pronunciò dopo più di un mese dal ricorso, rigettandolo perché la avvocata detenuta tutto sommato poteva continuare a vivere ed in carcere era ben accudita. Ebru morì il giorno dopo: una decisione tardiva e incomprensibile. Mi pare che saggezza e razionalità chiedano che tu ripensi alla tua decisione di continuare lo sciopero della fame fino alla morte: tu non vuoi morire, questo mi pare sicuro, e quindi bisogna che tu interrompa (o attenui) la tua protesta ed il tuo digiuno totale, e noi (tutti quelli che hanno a cuore la democrazia, anche in carcere, e quindi odiano da sempre il 41 bis) sosterremo la tua protesta con una protesta nostra. In tutta Italia si stanno facendo assemblee e convegni sul 41 bis e sulla tua vicenda. Mai era successo che una questione così squisitamente giuridico-politica venisse alla ribalta. Bisogna continuare su questa strada. Ma per continuare questa battaglia tu devi continuare a vivere. E’ un passo indietro? Un arretramento? Non più di quanto si possa parlare di passo indietro per quegli anarchici che nell’800 sceglievano di rifugiarsi in Svizzera per continuare da lì la loro lotta. Non so se nel tuo caso si attagliano gli auguri, ma io te li faccio col cuore. *Osservatorio internazionale Ucpi Ilaria Cucchi su Cospito: “Nordio fa burocrazia e un uomo sta morendo in carcere” huffingtonpost.it, 4 marzo 2023 La senatrice dell’Alleanza Verdi e Sinistra interviene dopo la risposta scritta del ministro della Giustizia all’interrogazione presentata sul caso dell’anarchico in sciopero della fame da oltre quattro mesi contro il 41bis. “Mentre il ministro Nordio fa burocrazia un uomo sta morendo in carcere ed io questo non posso accettarlo. Proprio oggi che l’Onu ricorda al governo di rispettare gli standard internazionali e gli articoli 7 e 10 del Patto Internazionale in relazione alle condizioni detentive”. Così Ilaria Cucchi, senatrice dell’Alleanza Verdi e Sinistra, dopo la risposta scritta del ministro della Giustizia all’interrogazione presentata sul caso di Alfredo Cospito, l’anarchico in sciopero della fame da oltre quattro mesi contro il 41bis. “Dovremmo vergognarci per quanto sta accadendo - sottolinea la senatrice Cucchi - Il fallimento dello Stato che per la sua inefficienza si sente legittimato a compromettere i diritti fondamentali di un uomo”. “Il mondo antagonista si muove ispirandosi ad Alfredo Cospito e a sostegno di costui, mediante azioni violente e di grave intimidazione, ossia proprio ciò che il detenuto propugna e che viene immediatamente raccolto e tradotto in pratica e in atti concreti”, ha scritto il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Nella risposta all’interrogazione di Cucchi, il Guardasigilli riporta tra gli altri i pareri del Procuratore nazionale antimafia antiterrorismo e del Procuratore generale di Torino. “Permane la capacità di Cospito di orientare le iniziative di lotta della galassia insurrezionalista verso strategie e obiettivi sempre più rilevanti - prosegue il ministro - Gli appelli del detenuto non solo non vengono ignorati ma si sono trasformati in un’onda d’urto propagatasi sul territorio nazionale e all’estero”. “Infine merita osservare che il detenuto non è affetto da una patologia cronica invalidante ma si sta volontariamente procurando uno stato di salute precario, perseverando nel suo comportamento nonostante i reiterati inviti da parte dell’autorità sanitaria di desistere dal mantenere siffatta condotta”. Di cosa ci parla lo sciopero della fame di Alfredo Cospito di Valentina Calderone* maremosso.lafeltrinelli.it, 4 marzo 2023 Il tema della privazione della libertà e di alcuni suoi aspetti molto specifici è diventato cronaca quasi quotidiana da quando Alfredo Cospito ha iniziato, il 20 ottobre 2022, uno sciopero della fame per protestare contro l’ergastolo ostativo e il 41-bis, due regimi detentivi diversi tra loro cui è sottoposto. Alfredo Cospito, appartenente alla Federazione anarchica informale - Fronte rivoluzionario internazionale (Fai-Fri), è in carcere dal 2012 a seguito di due condanne per aver sparato alle gambe del manager di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, e per aver fatto esplodere alcuni ordigni, che non provocarono feriti, davanti alla scuola allievi dei carabinieri di Fossano. Il 24 febbraio la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dei legali di Cospito, condannandolo alla permanenza al 41-bis, nonostante i pareri favorevoli della Procura Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, della Direzione distrettuale Antimafia di Torino, del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e della richiesta di revisione del Procuratore presso la Corte di Cassazione, Piero Gaeta. Leggeremo le motivazioni, ma già da adesso possiamo definirla una scelta ingiusta, esito di una battaglia politica che ha elevato Cospito a nemico pubblico contro cui mostrarsi severi e implacabili. Cospito non è l’unico detenuto in Italia che, negli ultimi anni, ha utilizzato il proprio corpo come strumento di protesta. Lo sciopero della fame è abbastanza frequente nei penitenziari, così come lo sono molti altri gesti autolesionistici. Dalla pratica di tagliarsi a quella di ingerire batterie, dal cucirsi le labbra al provocarsi overdose con i farmaci, il corpo è uno strumento potente da utilizzare come megafono, quando la tua voce è ridotta a un soffio. Il fatto che alcune di queste proteste abbiano avuto l’esito estremo della morte per complicazioni derivanti dalla prolungata rinuncia al cibo, è quasi totalmente sconosciuto all’opinione pubblica. Gabriele Milito, Sami Mbarka Ben Gargi, Carmelo Caminiti, Salvatore “Doddore” Meloni, sono alcune delle persone morte in carcere in anni recenti dopo aver intrapreso uno sciopero della fame. In questo caso, la protesta di Alfredo Cospito va oltre la rivendicazione personale e la sua azione è volta a contestare i regimi del 41-bis e dell’ergastolo ostativo nella loro generalità, non solo per chiedere che gli vengano revocati. La materia è quasi sconosciuta, e spesso si tende a far confluire nell’espressione “carcere duro” entrambe le misure in realtà molto diverse, sia nelle motivazioni della loro applicazione sia negli esiti che queste hanno per le condizioni di vita delle persone cui sono destinate. Il 41-bis è stato introdotto come norma temporanea nel 1992 per contrastare la criminalità organizzata dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, ed è diventata definitiva nel 2002. La creazione di sezioni separate destinate a questa tipologia di detenuti, con regole molto più restrittive rispetto alle sezioni “comuni”, aveva lo scopo dichiarato di impedire la comunicazione tra interno ed esterno, in modo che nessuno potesse, dal carcere, continuare a dirigere le proprie organizzazioni criminali. Nel corso degli anni questa misura ha assunto sempre più una dimensione punitiva, le cui molte privazioni aggiuntive sembrano congegnate più per fiaccare la volontà di chi è sottoposto al regime, piuttosto che rappresentare un effettivo strumento di prevenzione dei collegamenti con l’esterno. I detenuti in 41-bis non possono, solo per fare degli esempi: tenere in cella più di qualche fotografia, avere con sé più di quattro libri, avere un computer, possedere più di 12 colori se vogliono dipingere. Inoltre, è consentito un solo colloquio al mese con i familiari o, in sostituzione, una telefonata di 10 minuti. Solo due le ore d’aria concesse, passate in piccoli cortili spesso con grate a schermare il cielo, condivise con un massimo di altri tre detenuti scelti dalla direzione dell’Istituto in modo che appartenenti allo stesso gruppo criminale non comunichino tra loro. Queste sezioni si trovano spesso sotto il livello degli altri edifici del carcere, luoghi in cui la luce naturale non entra mai. E, nonostante ogni persona al 41-bis dovrebbe vedere la propria posizione rivalutata ogni due anni, è molto frequente incontrare storie di chi, al 41-bis, c’è stato fino al giorno stesso della scarcerazione. Chi contesta la maniera in cui è stato interpretato questo regime negli ultimi anni si chiede: davvero queste misure hanno lo scopo esclusivo di impedire collegamenti con l’organizzazione criminale di appartenenza? Non si tratta piuttosto di un accanimento, che somiglia a un’afflizione gratuita e aggiuntiva? Il 41-bis, in queste sue derive, è stato censurato da numerosi organismi internazionali, e anche la Corte Costituzionale è stata chiamata più volte a pronunciarsi sulla legittimità di alcune specifiche disposizioni. Da qui la definizione di “carcere duro” la cui immagine, anche culturale, richiama inflessibilità e rigore. Ecco perché, spesso, si confonde il 41-bis con l’ergastolo ostativo, disciplinato invece dall’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario. Per ergastolo ostativo si intende quel regime in cui non sono previsti benefici penitenziari - permessi premio, libertà condizionale, lavoro all’esterno - fino a quando la persona non “collabori con la giustizia”. La previsione di una detenzione senza speranza, in cui il principio costituzionale dell’articolo 27 secondo cui le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato” viene di fatto disattesa, è stata recentemente censurata dalla Corte Costituzionale. La pretesa di collaborazione, quand’anche fosse possibile, non può essere l’unico parametro con cui valutare la riuscita del percorso di rieducazione intrapreso e la revisione delle proprie azioni. Nessuno sconto, nessun cedimento all’umanità, come se di questa parola dovessimo vergognarci quando è associata a qualcuno che ha commesso dei reati, anche spregevoli. È la cultura della vendetta che ha soppiantato la funzione pedagogica in carico a chiunque si trovi ad amministrare la giustizia. Arriva poi ogni tanto qualcuno, come Alfredo Cospito, che ci ricorda quanto invece di questi argomenti non dovremmo mai smettere di occuparci. *Direttrice di A Buon Diritto Commissione Antimafia: rito inutile da oltre mezzo secolo di Aldo Varano Il Dubbio, 4 marzo 2023 I giornali lo hanno quasi nascosto, ritenendo correttamente l’avvenimento privo d’importanza, ma la notizia è ufficiale: il Senato ha varato la Commissione antimafia per alzata di mano. Un mese fa ne avevano approvato l’istituzione anche 288 deputati, insieme a un astenuto. Nessun voto contro. Anche allora il fatto fu privo di rilevanza mediatica. La Commissione non fa parte di quelle istituzionali del Parlamento. Venne eletta per la prima volta nel 1963, sessanta anni fa, ma da allora, chissà perché, viene rieletta su proposta di qualcuno ad ogni inizio legislatura. Non esistono prove che la Commissione sia mai servita a qualcosa contro i fenomeni mafiosi. Se si esclude l’esperienza dell’Antimafia presieduta da Luciano Violante, sulla quale i giudizi peraltro non sono univoci, l’unica cosa chiara è che il suo contributo alla lotta reale contro il fenomeno risulta irrilevante e vago. Talvolta, perfino equivoco. Già nel 1992, cioè 31 anni fa, Diego Gambetta, uno dei più autorevoli studiosi del fenomeno, teorico della mafia come “industria della protezione privata”, nell’introduzione al suo “La mafia siciliana” (Einaudi), firmata da Oxford, da dove Gambetta scriveva e lavorava, annotava: “In passato l’apporto della Commissione non fu privo di ambiguità”. Il sociologo polemizzava col fatto che il confronto “tra la ricchezza del materiale” raccolto dalla Commissione era in contrasto “con la povertà delle relazioni parlamentari”. Insomma, i parlamentari dell’antimafia non capivano o nascondevano carte e documenti che illuminavano il fenomeno. E aggiungeva: “Si ha l’impressione che questo istituto - di cui pure fecero parte Cesare Terranova e Pio La Torre, che hanno pagato con la vita la loro lotta alla mafia - sia servito come una palestra in cui le forze del governo permettevano all’opposizione di sinistra (di quel tempo, ndr) di menare pugni antimafia purché rigorosamente nel vuoto”. Ma da allora le cose sono peggiorate se si tiene conto dei diffusi e ripetuti giudizi, nei suoi scritti e nelle sue dichiarazioni, di Giovanni Falcone, che sull’argomento sapeva con precisione di cosa parlava. Del resto, ormai da anni, se si escludono gli interventi di qualche presidente pro tempore dell’Antimafia, nessuno più si occupa più di quella Commissione. La verità è che col tempo l’Antimafia ha radicalmente impoverito la sua funzione fino a diventare una specie di ricovero per notabili parlamentari decaduti o inadatti, pur potenti, a qualsiasi altro ruolo. Il ministro dell’Interno Pisanu (Fi) cadde in bassa fortuna dopo il voto del 2013? Gli rifilarono la presidenza dell’antimafia. Rosy Bindi ebbe uno scontro feroce con Renzi diventato potente e fu esclusa da qualsiasi avvicinamento al Governo? Diventò presidente della Commissione antimafia. In passato, non se ne ricorda più nessuno, perfino Rifondazione comunista quando iniziò a essere ridimensionata nei consensi, ma aveva ancora voti in Parlamento si vide rifilare la Presidenza dell’Antimafia. Nella passata legislatura il pentastellato Morra, proveniente dall’insegnamento in un liceo, avrebbe voluto saltare direttamente sulla poltrona di ministro dell’Istruzione? Anche lui presidente dell’Antimafia. Il Dubbio, da quando esiste, a ogni inizio legislatura pubblica questo articolo cambiando le date e qualche nome. La verità è che la Commissione serve per dare una medaglietta a 25 deputati e 25 senatori. In più c’è un posto da Presidente e due da vice. Ci sono le auto, uffici, collaboratori e tutto il resto. Perché mai una politica e un ceto politico in crisi dovrebbe rinunciare a uno strumento che accontenta e tiene buoni un po’ di parlamentari? Commissione Antimafia: ora tocca ai partiti riempirla di persone perbene di Davide Mattiello* Il Fatto Quotidiano, 4 marzo 2023 Il Parlamento approva: è nata la nuova Commissione parlamentare Antimafia, ora tocca ai partiti riempirla di persone perbene. Ne va della credibilità della Istituzione e in questo momento nessuno può permettersi di correre questo rischio. E’ prevedibile che l’individuazione del o della presidente risponda alla logica dei numeri e che quindi, come anticipato da Il Fatto, la scelta cada su un rappresentante di Fratelli d’Italia, anche se il profilo specifico di alcuni parlamentari, non appartenenti al partito di maggioranza relativa, potrebbe ispirare scelte diverse, che darebbero il senso di una convergenza alta e trasversale, coerente al condiviso auspicio: sulla mafia non ci si deve dividere, bisogna fare soltanto gli interessi del Paese. E invece sulla mafia, purtroppo (!), ci si dividerà eccome, ma resta comunque ragionevole aspettarsi che queste figure possano trovare spazio all’interno dell’Ufficio di Presidenza, magari come vicepresidenti. Ammesso che lo considerino opportuno e non è per nulla scontato. E’ una buona notizia quella del voto unanime del Senato, che come ci eravamo augurati non ha più modificato il testo della Camera: della Commissione Antimafia infatti c’è bisogno e ora spero che venga costituita e resa operativa entro il 21 marzo, Giornata nazionale della Memoria e dell’Impegno dedicata alle vittime innocenti delle mafie (la manifestazione promossa da Libera e Avviso Pubblico è prevista a Milano). Alcune questioni scottanti attendono la Commissione Antimafia, faccio alcuni esempi. La incredibile fuga dal carcere di massima sicurezza di Nuoro di uno dei boss più sanguinari della mafia garganica, Marco Raduano, è soltanto l’ultimo gravissimo episodio che dovrebbe indurre la Commissione riprendere il lavoro sulle carceri a 360 gradi. Non soltanto quindi la aratissima questione del 41 bis, ma anche altre questioni che vanno dalle condizioni strutturali al personale impiegato, dalla funzione della pena in chiave riabilitativa ai rischi sul piano della saldatura di nuove alleanze criminali. L’arresto dopo trent’anni di latitanza di Matteo Messina Denaro è l’occasione per ricapitolare nella sede istituzionale più alta proprio questi tre decenni di indagini, che hanno prodotto risultati straordinari (lo Stato ha fatto terra bruciata attorno al latitante, arrestando centinaia di presunti fiancheggiatori e confiscando beni per centinaia di milioni di euro), ma che hanno anche subito clamorose battute d’arresto. I quarant’anni dal terribile 1983 nel quale vennero assassinati i giudici Ciaccio Montalto, Chinnici e Caccia e i trent’anni dalle bombe del 1993 con la loro scia di morti e di ombre è l’occasione per indagare ancora su quanto di quel periodo sia rimasto ad intossicare la vita democratica del Paese. Ma la Commissione Antimafia credo che dovrà decidere se dare e come una risposta a due grandi questioni, la cui definizione dipenderà dalla capacità di inchiesta che la Commissione avrà sul presente delle organizzazioni mafiose, operanti in Italia e in Europa. La prima potrebbe essere così riassunta: la mafia oggi rappresenta ancora una sfida tale all’ordinamento democratico e alla coesione sociale da legittimare il cosiddetto “doppio binario”? Molte forze in senso lato politiche operanti nel nostro Paese propendono per il no e questa posizione ha precise conseguenze sulla valutazione dell’intero armamentario anti mafia, che andrebbe se non abolito quanto meno fortemente ridimensionato; a cominciare dalle misure di prevenzione personali e soprattutto patrimoniali disposte dall’autorità amministrativa (per intenderci, le informative prefettizie che fondano le interdittive). La seconda questione punta dritta al cuore delle organizzazioni mafiose e riguarda l’intensità con la quale lo Stato deciderà di sostenere le scelte di rottura che maturano all’interno delle famiglie inserite in quei contesti mafiosi, scelte che per lo più riguardano donne, spesso madri, che intendono liberarsi e liberare i propri figli da un destino che altrimenti è segnato quasi inevitabilmente dalla violenza. Una questione questa che riguarda anche il tema della potestà genitoriale e il dovere dello Stato di intervenire a favore dei minori. Chissà che, tra le tante storie dure che le vicende mafiose ci restituiscono, non faccia riflettere i futuri commissari quella di Vittorio Maglione, che non ancora tredicenne, già profondamente segnato dalla violenza del contesto criminale al quale apparteneva e che gli aveva già strappato un fratello quindicenne assassinato, pensò di ribellarsi a quella che gli dovette sembrare una ineluttabile condanna ad una vita insopportabile, suicidandosi. *Attivista antimafia ed ex deputato Nordio vuole abolire l’abuso d’ufficio, una scelta lontana dall’Europa e dalla società civile di Saverio Regasto* Il Fatto Quotidiano, 4 marzo 2023 Ora che la polemica politica parrebbe essersi parzialmente sopita, val la pena di tornare sul tentativo, tutto italiano, di darsi, o ridarsi, una sorta di “diritto autarchico”, un ordinamento, cioè, del tutto scollegato dal quadro normativo tanto europeo quanto internazionale. Il ministro della Giustizia, che nelle ultime settimane si segnala per un iperattivismo a mio giudizio eccessivo, ha più volte dichiarato e parrebbe si sia impegnato ad abrogare la norma sull’abuso d’ufficio, persino nell’attuale depotenziato testo, perché disposizione che ingenererebbe, nei pubblici ufficiali e negli incaricati di pubblico servizio, una presunta “paura della firma” che, a sua volta, sarebbe foriera di tremendi ritardi nell’attuazione e realizzazione dei progetti del Pnrr. Comprendo che talora abbiamo assistito a una interpretazione davvero zelante, quando non grottesca, dell’abuso d’ufficio, da parte di solerti pubblici ministeri che sono giunti a contestare a un sindaco tale reato dopo che era crollato lo stipite di una porta di un edificio scolastico, saltando piè pari il ruolo di culpa in vigilando di bidelli, impiegati, docenti, dirigenti scolastici, ecc., ma la ragione addotta per favorire l’abrogazione della norma non appare minimamente apprezzabile, se solo si pensa alle migliaia di procedimenti amministrativi che quotidianamente i pubblici funzionari processano e concludono nella più assoluta normalità e correttezza. Evidentemente ciò che si teme, a torto o a ragione, è l’intervento del magistrato nei casi in cui si ha il più che fondato sospetto che il procedimento amministrativo, che sia un appalto o un concorso pubblico, presenta, per così dire, zone d’ombra tali da integrare più di una ipotesi delittuosa. Che siano, poi, i sindaci, attraverso la loro associazione maggiormente rappresentativa, l’Anci, a invocare tale riforma, appare quanto meno sospetto, se solo si leggono le cronache quotidiane che molto spesso li vedono coinvolti in procedimenti giudiziari decisamente preoccupanti. Ciò che il ministro non dice, tuttavia, è l’esistenza della Convenzione di Merida, che il nostro Paese ha proceduto a ratificare con la legge 116 del 2009 che ci obbliga, in maniera chiara e incontrovertibile, a introdurre, o a mantenere, adeguate disposizioni normative volte a perseguire proprio quell’abuso d’ufficio che si vorrebbe del tutto depenalizzare. Anzi, la norma attualmente in vigore, di recente modificata per ridurre la capacità di intervento della magistratura requirente non senza aspetti problematici come quello riguardante ad esempio l’Università, settore nel quale il reato non è contestabile perché talvolta a essere violati sono i Regolamenti, fonti escluse dalla novella alla disposizione, non appare per nulla conforme agli impegni assunti dal nostro Paese nella suddetta Convenzione, perché eccessivamente tollerante rispetto a quanto accade troppo spesso nella nostra pubblica amministrazione. “Ciascuno Stato Parte esamina l’adozione delle misure legislative e delle altre misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando l’atto è stato commesso intenzionalmente, al fatto per un pubblico ufficiale di abusare delle proprie funzioni o della sua posizione, ossia di compiere o di astenersi dal compiere, nell’esercizio delle proprie funzioni, un atto in violazione delle leggi al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un’altra persona o entità”, questo il testo dell’art. 19 della Convenzione di Merida che appare tanto chiaro da non meritare ulteriori considerazioni. Ciò che sorprende, al contrario, è l’atteggiamento davvero imbarazzante del legislatore, talora purtroppo senza distinzioni di appartenenza politica, che non coglie, o piuttosto fa finta di non cogliere, il diffuso senso di impunità che viene percepito rispetto ai reati contro la pubblica amministrazione, aggravato, ovviamente, dalla difficoltà di svolgere indagini efficaci ed efficienti (per molti reati non sono ammesse le intercettazioni e men che meno la custodia cautelare), nonché dalle nuove norme che prevedono l’improcedibilità decorso un certo lasso di tempo. Insomma, la classe politica attuale è molto distante dalla cosiddetta società civile: mentre quest’ultima invoca giustizia e certezza della pena, quella immagina di depenalizzare taluni gravi reati o di depotenziare l’attività dei pubblici ministeri o della polizia giudiziaria. Con buona pace degli impegni presi in Europa e altrove. *Docente di Diritto pubblico a Brescia Con l’inchiesta di Bergamo sulla gestione della pandemia inizia una metamorfosi giudiziaria di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 4 marzo 2023 Ecco il “processo riparatorio”, dove il dolore conta più dei reati e dove il potere dei pm non ha limiti. Cosa può succedere se il lavoro della giustizia diventa uno strumento “riparatorio”. L’indagine giudiziaria bergamasca sulle migliaia di morti da Covid va facilmente incontro a giustificate critiche per un insieme di ragioni che sono state ben messe in evidenza su questo giornale da Claudio Cerasa ed Ermes Antonucci. Dal canto suo, Cerasa ammoniva che la giustizia penale non può prescindere dalla verifica di reati in senso stretto, perché altrimenti si tradiscono i princìpi dello stato di diritto, sovrapponendo un improprio processo politico-mediatico al processo penale canonico. Mentre Antonucci metteva, più in particolare, in evidenza il groviglio di contraddizioni rinvenibile nell’iniziativa penale dei pm bergamaschi. In linea di principio, si tratta di critiche ineccepibili se si assume a modello di riferimento una concezione della giurisdizione penale conforme ai princìpi tradizionalmente consolidati. Da questo punto di vista, è forte la tentazione di sospettare che anche in questo caso a motivare l’iniziativa penale siano soprattutto la brama di protagonismo mediatico e la tentazione dei magistrati inquirenti di ergersi a censori anche etico-politici delle decisioni assunte (o non assunte) dai competenti organi politico-istituzionali lombardi nella tragica primavera del 2020. In effetti, come rilevato da Cerasa, un tale sospetto sembrerebbe avvalorato dalle stesse dichiarazioni del procuratore Chiappani riportate in un trafiletto pubblicato sul Corriere. In sintesi, il capo della procura bergamasca ha affermato che il principale obiettivo dell’inchiesta - al di là delle specifiche ipotesi di reato che potranno essere accertate - consiste nel dare “ai cittadini di Bergamo una ricostruzione della risposta fornita dalle autorità sanitarie e civili contro la propagazione della pandemia”, col connesso intento di poter utilizzare tutto il materiale raccolto “non solo per valutazioni di carattere giudiziario, ma anche scientifiche, epidemiologiche, di sanità pubblica, sociologiche, amministrative”. Insomma, una indagine ad amplissimo spettro, trasversale alle competenze settoriali e finalizzata a fare luce su come effettivamente sono andate le cose sotto ogni angolazione visuale possibile. D’altra parte, non è dissimile il senso attribuito all’inchiesta da parte dei componenti dell’Associazione dei familiari delle vittime, e lo comprovano alcune dichiarazioni dell’avvocato Consuelo Locati (legale dell’associazione) rilasciate a Repubblica: “Siamo andati avanti nonostante l’omertà che ha sempre contraddistinto questa storia (…) senza mai scoraggiarci nel percorso di memoria e di giustizia. (…) Ci sono stati momenti in cui abbiamo temuto che la ricerca della verità potesse fermarsi, ma i magistrati bergamaschi sono stati esemplari (…) pretendiamo la verità fino in fondo per chi non c’è più”. Orbene, la richiesta dei famigliari delle vittime, l’aspettativa che loro nutrono e che rivolgono alla magistratura è - appunto - innanzitutto quella di fare verità a tutto campo, di far luce su come in realtà si sono sviluppati gli eventi ponendo sotto i riflettori investigativi tutti gli anelli (politici, sanitari, ecc.) della complessissima catena causale coinvolta nella produzione dei numerosissimi esiti letali: come se procure e tribunali fossero nella sostanza, più o prima ancora che organi giudiziari, “commissioni giustizia e verità” nella accezione più generale e lata. La domanda, a questo punto, è questa: perché i magistrati si prestano - non soltanto in questo, ma anche in altri casi in tutto o in parte simili - a (tentare di) esercitare questa funzione veritativa potenzialmente senza limiti, raccogliendo così una richiesta e facendosi carico di un bisogno (emotivo prima che razionale) che provengono da quanti hanno sofferto e continuano a soffrire la perdita di persone care? A ben vedere, c’è forse una possibile spiegazione che porta il discorso su un terreno complementare ma diverso, e - volendo - più profondo e sottile di quello che chiama in causa - spesso, giustificatamente - la ricorrente tentazione magistratuale di straripamenti impropri. Prospetto cioè l’ipotesi che la crescente avanzata del paradigma vittimario cui abbiamo assistito, peraltro non solo nel nostro paese (per un insieme di fattori causali complessi che non è possibile qui neppure accennare), con tutte le conseguenti implicazioni che ne derivano in chiave di accresciute esigenze di riparazione dei dolori e soddisfazione dei bisogni delle vittime, abbia non soltanto dato impulso a una progressiva valorizzazione della cosiddetta “giustizia riparativa”, quale modello di giustizia alternativo o integrativo rispetto a quello punitivo tradizionale (ne è riprova la recente riforma Cartabia che ha introdotto per la prima volta, nel nostro ordinamento, una esplicita disciplina normativa organica in materia), ma abbia prodotto un effetto ulteriore: quello cioè di contribuire indirettamente a determinare - e neppure troppo sotto traccia, troppo sotterraneamente - una sorta di metamorfosi sostanziale, di trasformazione nei fatti dello stesso processo penale in uno strumento latamente “riparatorio”, vale a dire in un dispositivo che serve a dare qualche forma di soddisfazione alle vittime oltre che ad accertare eventuali reati. Ciò non a caso. Come spiegano non da ora gli studiosi di psicologia della vittima, per chi ha patito i dolori e i traumi di eventi drammatici acquisire la verità o una maggiore verità sulle dinamiche causali, e le forme di corresponsabilità che stanno dietro a quanto accaduto, può già di per sé assolvere una importante funzione di risarcimento morale e sortire nel contempo benefici effetti psicologici (mentre può risultare comparativamente meno soddisfacente, sul piano moral-psicologico, la effettiva punizione di eventuali soggetti responsabili). Ammesso che la suddetta ipotesi esplicativa abbia qualche fondamento, rimane ovviamente aperto l’interrogativo se l’ipotizzata torsione in chiave riparativa dello stesso processo penale sia o meno da assecondare alla stregua dei princìpi complessivi dello stato di diritto (tanto più che persistono dubbi più che legittimi sulla capacità “veritativa” ad ampissimo spettro di procure e tribunali). Forse, sarebbe opportuno approfondire il discorso. Condannato per mafia, dopo 20 anni i giudici ammettono: era innocente di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 marzo 2023 Accusato di associazione con un soggetto che otteneva appalti pubblici con metodi mafiosi. L’istanza di revisione accolta dalla corte d’Appello di Caltanissetta venute meno le principali fonti di prova. La sua condanna, a quattro anni di reclusione scontati nel regime di Alta Sicurezza, era stata confermata dalla Cassazione nel 2004. Il reato per il quale è stato condannato è associazione a delinquere di stampo mafioso, sull’assunto che - per il tramite dell’impresa edilizia di cui era titolare - egli si fosse avvalso del vincolo associativo per acquisire il controllo di attività economiche e, in particolare, di appalti pubblici. Dopo vent’anni, ma non senza difficoltà tra Appello e Cassazione, alla fine la corte d’Appello di Caltanissetta ha accolto l’istanza di revisione presentato dalla difesa composta dagli avvocati Stefano Giordano e Valerio Vianello. Sono venute meno le principali fonti di prova. Parliamo di Antonino Giordano (omonimo, ma non parente del difensore), classe 1959, reo - secondo i giudicanti - di essersi associato con le proprie imprese edili a Luigi Bonanno, soggetto ritenuto dagli inquirenti pienamente organico della banda criminale operante nel comune di Misilmeri in provincia di Palermo, per consentirgli l’esecuzione di appalti per lavori pubblici che lo stesso Bonanno acquisiva con metodi mafiosi. Giordano, inoltre, sempre secondo la tesi che l’ha portato alla condanna definitiva, offriva ulteriori utilità alla associazione mafiosa quali la disponibilità di luoghi sicuri per lo svolgimento di riunioni degli associati. Lo svolgimento di tali attività integrava il suo concorso nel reato associativo in quanto aveva dato piena e incondizionata adesione agli scopi della organizzazione. Ma grazie al lavoro degli avvocati, soprattutto tramite una scrupolosa indagine difensiva, sono stati individuati sia gli elementi di prova già esistenti ma non considerati dal tribunale, sia quelli nuovi che provano, di fatto, l’estraneità del loro assistito al contesto mafioso. Per comprende meglio il quadro, partiamo dal fatto che Angelo Bonanno (nel frattempo deceduto prima dell’esito del processo a suo carico), proprietario della Sicer, un’azienda che produce materiali da costruzione, viene indicato dal pentito Cosimo Lo Forte come uno dei personaggi di spicco della famiglia mafiosa di Misilmeri. I giudici avevano ritenuto che Antonino Giordano abbia associato i propri mezzi di impresa con quelli di Bonanno per ottenere appalti di opere pubbliche attraverso la forza dell’intimidazione. I giudici avevano anche affermato che Giordano abbia presieduto o partecipato alle operazioni di collaudo dell’impianto elettrico per la costruzione di una scuola a Misilmeri, con la documentazione fornita da Bonanno. Tuttavia, la difesa ha sostenuto che la gestione degli appalti è sempre stata curata dai fratelli Giordano, che hanno vinto l’appalto, e che l’intervento di Bonanno è stato solo come fornitore di materiali. Inoltre, la difesa ha affermato che l’elettricista Gaspare Di Vita ha dichiarato di avere rapporti solo con i fratelli Giordano, fatta eccezione per i materiali, e che Bonanno non aveva alcun coinvolgimento nella gestione degli appalti. “Quando si trattava di materiali avevo rapporti con il sig. Angelo Bonanno. Per tutto il resto ho avuto sempre rapporti con il Giusto e Antonino Giordano che ricordo venivano in cantiere per sorvegliare i lavori”, ha riferito Di Vita. Ma questo non era bastato per i giudici che hanno emesso comunque la condanna. Non solo. Altro punto fondamentale è l’intercettazione ambientale che per i giudici, senza ombra di dubbio, riguardava un colloquio tra Bonanno e Antonino Giordano. La Corte l’ha ritenuto un elemento fondamentale che ha consentito di ritenere Giordano un associato all’organizzazione mafiosa. Nei fatti sono emersi due prove che smentiscono categoricamente ciò. Una era già stata presentata all’epoca del processo, ma non presa in considerazione. Secondo gli inquirenti dell’epoca, Bonanno - nell’ascoltare le preoccupazioni espresse da Giordano (ma poi vedremo che non era nemmeno lui) - avrebbe concluso “Eh... l’importante e che abbiamo il lavoro”. Tale colloquio, secondo i giudici che hanno emesso la condanna definitiva, sarebbe valso a dimostrare la “dipendenza del Giordano dal Bonanno”, la “sovraordinazione del secondo sul primo”. In realtà, in un distinto processo (Giordano scelse l’abbreviato all’epoca) che riguarda comunque la stessa causa, emerse che ci fu un errore di perizia fonica: in realtà la frase esatta era: “Eh, l’importante che hai un lavoro!”. Come emerge chiaramente, Bonanno non ha manifestato alcuna cointeressenza, alcuna compartecipazione nell’attività imprenditoriale del Giordano; ma - come ha scritto l’avvocato Stefano Giordano nella richiesta di revisione del processo - “unicamente una forma di auspicio e solidarietà, del tutto normale e comprensibile tra soggetti che intrattenevano buoni rapporti”. Ma grazie alle indagini difensive è emersa anche una prova che ha chiuso definitivamente la questione. La difesa ha dimostrato che l’interlocutore del presunto boss mafioso Bonanno, nel corso di quella conversazione, era un soggetto diverso da Antonino Giordano. Chi? L’avvocato Stefano Giordano ha raccolto la testimonianza di Giuseppe Di Corrado che all’epoca lavorava presso il cantiere, il quale non solo ha escluso che Antonino abbia mai partecipato ai lavori di realizzazione del Palazzetto dello Sport di Cefalù (una delle due attività imprenditoriali che hanno consentito di ritenere Giordano associato alla mafia), ma non ha escluso che potesse essere stato proprio lui a conversare quel giorno con Bonanno. D’altronde, la difesa ha fatto emergere che le sue condizioni personali riferite nella telefonata, nome, età, presenza di più figli, corrispondevano esattamente a quelle di Di Corrado. Quindi era lui il soggetto che parlava e non Giordano. E infatti, che non sia la voce di quest’ultimo, sarà poi confermato da una perizia fonica disposta dalla Corte nissena nell’àmbito del giudizio di revisione; la quale ha escluso che la voce dell’interlocutore del boss mafioso potesse essere riconducibile a Giordano. Da tutte le prove raccolte, vecchie (ma mai prese in considerazione) e nuove, non emerge alcun profilo di illiceità delle attività svolte da Giordano; mentre emerge - scrive l’avvocato Stefano Giordano nell’istanza di revisione - “l’esistenza di un mero, usuale rapporto di collaborazione commerciale tra questi e il Bonanno, che normalmente (uno quale appaltatore, l’altro come fornitore dei materiali) s’interfacciavano con i vari interlocutori (artigiani, operai etc.), che discutevano dei rispettivi rapporti di dare/avere, che trattavano dei tempi e dei modi di esecuzione dei lavori, che si scambiavano consigli e opinioni, senza che appaia mai prospettabile una società di fatto fra i due soggetti”. E i nuovi elementi di prova corroborano e consolidano questa conclusione, “depurandolo anzi - sottolinea la difesa - di quei profili di ambiguità (le intercettazioni ambientali) che hanno sinora potuto in qualche modo “contaminare” la posizione del Giordano”. Non è stata una passeggiata, anche perché la corte d’Appello ha inizialmente rigettato l’istanza di revisione, ma solo grazie alla Cassazione, i giudici sono stati “costretti” a valutare gli elementi di prova nel suo insieme e non visti in chiave “frammentata”. Da ciò, la pronuncia di assoluzione di Antonino Giordano da parte della Corte di Caltanissetta, che pone termine a un’ingiustizia protrattasi per oltre vent’anni. Ora il prossimo passo sarà la battaglia per il risarcimento a causa dell’evidente errore giudiziario. Fazzalari al 41 bis, può andare ai domiciliari per gravi motivi di salute di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 marzo 2023 Il difensore di Ernesto Fazzalari, l’avvocato Antonino Napoli, aveva presentato ricorso in Cassazione contestando un precedente giudizio negativo del Tribunale del Riesame. La Corte di Cassazione ha accolto la richiesta di sospensione della pena, con contestuale detenzione domiciliare o ospedaliera, per Ernesto Fazzalari, ritenuto il boss della ‘ndrangheta di Taurianova - nella Piana di Gioia Tauro. Detenuto al 41 bis nel carcere di Parma per scontare una condanna a trent’anni di reclusione, Fazzalari risulta affetto da adenocarcinoma del pancreas. Il difensore di Ernesto Fazzalari, l’avvocato Antonino Napoli, aveva presentato ricorso in Cassazione contestando un precedente giudizio negativo del Tribunale del Riesame, secondo cui “il condannato non avrebbe potuto ricevere cure diverse e migliori di quelle praticate in regime di detenzione”. Ernesto Fazzalari fu tra i protagonisti della sanguinosa “faida di Taurianova” scoppiata nei primi anni ‘90, tra i Fazzalari- Zagari-Viola, da un lato, e i Grimaldi-Asciutto, dall’altro. Di particolare ferocia, il 3 maggio del 1991, il duplice omicidio dei fratelli Giovanni e Giuseppe Grimaldi, all’epoca dei fatti, rispettivamente, di 59 e 54 anni, come risposta all’omicidio del giorno precedente del boss Rocco Zagari, mentre si trovava in una sala da barba. I killer sorpresero i fratelli Grimaldi nei pressi di un ufficio postale, uccidendoli a colpi di fucile. Il corpo di Giovanni Grimaldi venne orrendamente mutilato dai pallettoni, che ne staccarono la testa dal tronco. Fazzalari era stato arrestato dai carabinieri di Reggio Calabria nel giugno del 2016. Al 41 bis al bando i neomelodici: incompatibili con la rieducazione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2023 I detenuti al carcere duro non possono ascoltare i Cd dei neomelodici, alcuni dei quali raccontano di contesti malavitosi e in contrapposizione aperta con i poteri dello Stato. È legittimo negare ad un detenuto al 41-bis la possibilità di acquistare Cd neomelodici che veicolano messaggi di violenza. Alcuni brani di questo genere musicale, ad avviso dei giudici sono in contrasto con il principio rieducativo della pena teso alla risocializzazione, perché raccontano “di contesti malavitosi e di contrapposizione anche aperta ai poteri dello Stato”. Con questa motivazione il Tribunale del riesame, aveva negato ad un detenuto al regime differenziato la possibilità di acquistare e tenere nella cella i Cd di musica neomelodica. Per la Cassazione un no giustificato. La Suprema corte dichiara, infatti, inammissibile il ricorso di un detenuto per reati di camorra campano, che aveva chiesto l’autorizzazione ad ascoltare questa musica. La musica tradizionale napoletana - Senza successo il diretto interessato aveva cercato di convincere i giudici che la musica neomelodica si ispira alla canzone tradizione napoletana, rivendicando anche il suo diritto a scegliere il percorso rieducativo da intraprendere senza essere limitato nella sua autodeterminazione. La Suprema corte però non è d’accordo. Il Tribunale del riesame, dando un giusto rilievo al contenuto dei testi dei Cd, precisano i giudici, “ha rilevato che alcuni brani musicali del genere neomelodico veicolano messaggi di violenza ed esaltano l’adesione a stili di vita criminali sicchè il loro ascolto si presenta del tutto incompatibile con il trattamento penitenziario che, tendendo alla risocializzazione del condannato, promuove valori e modelli di comportamento diametralmente opposti”. Per i giudici i Cd di musica neomelodica di interesse del detenuto “non erano estranei a quelli contenenti i citati messaggi negativi”. Canzone neomelodica e camorra - Sentenza di oggi a parte, non è la prima volta che i giudici si occupano di un possibile fil rouge che può legare sceneggiate e canzoni neomelodiche alla camorra e al mondo dei boss. Lo aveva fatto Giovanni Falcone nel 1981 chiamando come testimone in un’inchiesta Mario Merola che, in quell’occasione, raccontò di aver cantato anche per Michele Greco, il Papa di Cosa nostra. Molto più recente la cronaca ha dato conto delle dichiarazioni dei pentiti secondo i quali la compagna di un boss si sarebbe sostituita a lui dopo il suo arresto e avrebbe fatto incidere una canzone contro i collaboratori di giustizia, affidandola ad un cantante neomelodico piuttosto noto. Al tema è stato dedicato anche un convegno, al quale hanno partecipato cantanti e magistrati, che hanno provato ad interrogarsi sulla possibile esistenza di un rapporto tra il fenomeno della musica neomelodica e la camorra. Nel corso dell’incontro dal titolo “Note di camorra, universo neomelodico e vite stonate” il procuratore aggiunto di Napoli, Pierpaolo Filippelli ha spiegato che nella sua esperienza alla Dda ha avuto modo di incrociare espressioni “artistiche” a opera di capoclan che utilizzavano questi mezzi per fare proselitismo. La cantante Ida Rendano ha invece messo l’accento sull’importanza di fare una netta distinzione tra gli artisti della musica popolare napoletana e quelli che utilizzano la canzone per veicolare valori criminali. Viterbo. Morto a 20 anni nel carcere di Viterbo: 6 indagati tra ex direttore, poliziotti e medici di Alessia Rabbai fanpage.it, 4 marzo 2023 Ci sono sei indagati per la morte nel carcere Mammagialla di Viterbo di Hassan Sharaf. Il 20enne si è impiccato e ha chiesto aiuto. Per il pg non è stato soccorso in tempo. Ci sono sei indagati per la morte di Hassan Sharaf, il ventenne di nazionalità egiziana, che si è suicidato nel carcere di Mammagialla ed è morto all’ospedale Belcolle di Viterbo. La procura generale ha chiuso le indagini e ha iscritto i nomi di sei persone nel registro degli indagati, che sono accusati a vario titolo dei reati di omicidio colposo e omissione di atti d’ufficio. Per il procuratore avrebbero provocato per imprudenza, negligenza e imperizia la morte di Hassan. Il giovane sarebbe arrivato a togliersi la vita per le tremende condizioni di detenzione alle quali era sottoposto. Ora il pg potrebbe richiedere il rinvio a giudizio sul quale poi dovrà esprimersi il giudice dell’udienza preliminare. Decisive le immagini delle telecamere - Dopo la denuncia dei famigliari Giacomo Barelli e Michele Andreano sostenuti dal garante dei detenuti la Procura di Viterbo aveva chiesto l’archiviazione sulla vicenda, perché non aveva riscontrato alcun reato. Successivamente la procura generale ha preso in carico il caso ed è stato riaperto. A risultare decisive nelle indagini sarebbero dei filmati ripresi dalle telecamere di sorveglianza. I fatti risalgono a cinque anni fa quando Hassan Sharaf aveva vent’anni ed era ristretto nel carcere dell’Alto Lazio. Condannato per un furto e per essere stato sorpreso in possesso di dieci grammi di hashish, doveva scontare ancora un mese. Era il 23 luglio del 2018 quando il giovane si è suicidato con una corda al collo, mentre si trovava ristretto in isolamento. Secondo quanto emerso in sede d’indagine avrebbe chiesto più volte aiuto, ma in cambio avrebbe ricevuto degli schiaffi dagli agenti della polizia penitenziaria che erano di turno, talmente forte da fargli sbattere la testa al muro. Il giovane è stato poi trasportato all’ospedale Belcolle e una settimana dopo il suo arrivo è sopraggiunto il decesso. Brescia. Nuovo carcere, interrogazione parlamentare al ministro di Lilina Golia Corriere della Sera, 4 marzo 2023 A firmarla è il deputato bresciano del Pd Gianantonio Girelli, la soddisfazione del coordinatore regionale della Fp Cgil Calogero Lo Presti. I numerosi appelli sindacali rivolti agli organi istituzionali e ai politici locali, regionali e nazionali, sulle prospettive per la realizzazione del nuovo carcere nella città di Brescia non sono rimasti inascoltati. Infatti la questione del nuovo carcere approda in Parlamento tramite una interrogazione parlamentare presentata dal deputato del Pd Gianantonio Girelli direttamente al ministro della Giustizia Carlo Nordio il quale dovrà rispondere in merito alle “numerose problematiche legate alla vetustà della struttura risalente a fine ‘800, al sovraffollamento detentivo, alle condizioni lavorative del personale tutto ma con particolare riferimento alla Polizia penitenziaria e alle precarie condizioni di sicurezza e di tutela della propria incolumità personale, alla ormai cronica carenza di personale”. “Non possiamo che esprimere grande soddisfazione per la sensibilità dimostrata dall’Onorevole Girelli per aver ascoltato il grido di allarme lanciato dalla Fp CGIL - commenta il coordinatore regionale della Fp Cgil Calogero Lo Presti - Brescia aspetta l’edificazione di un nuovo carcere ormai da oltre trent’anni al fine di dare la giusta dignità a tutti quei lavoratori, in primis della Polizia Penitenziaria, che prestano servizio in quella struttura ma anche per assicurare una corretta funzione della pena per coloro che si trovano nella restrizione della libertà personale. Il sindacalista Calogero Lo Presti sostiene che il carcere, quale istituzione totale, “molto spesso viene collocato ai margini della società, quella stessa società che dovrebbe essere inclusiva, nonostante all’interno vi siano persone, oltre ai detenuti, che a vario titolo prestano la loro opera professionale come: Polizia Penitenziaria, Educatori, personale del Comparto funzioni centrali, Dirigenti, Assistenti sociali, Medici, Infermieri, Psicologi, Psichiatri, volontari, ministri di culto, docenti. Le condizioni lavorative delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria all’interno della struttura del “ Nerio Fischione” sono drammatiche ed insicure derivate dalla molteplicità degli eventi critici provocati da soggetti psichiatrici, tossicodipendenti e comunque non avvezzi al rispetto delle regole penitenziarie dove vede i poliziotti costretti ad intervenire in occasione di disordini, rivolte, risse, aggressioni, senza mezzi di protezione individuali mettendo a rischio la propria incolumità personale”. La situazione è drammatica - continua - anche per quanto riguarda la dotazione organica che consta di 60 unità tra Agenti e Assistenti in meno rispetto alla previsione ministeriale; ancora più grave la carenza dei sottufficiali che sfiora il 95% della pianta organica; su 25 ispettori ne sono presenti 2; su 32 sovrintendenti ne è presente appena 1. Non trascurabile neanche l’aspetto che riguarda la funzione della pena che se da un lato è afflittiva, perché priva della libertà personale, dall’altro lato dovrebbe essere rieducativa al fine del reinserimento nel tessuto sociale da parte dei detenuti ma con le attuali condizioni detentive - afferma il sindacalista Lo Presti - difficilmente sarà rispettato il precetto Costituzionale dove le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. “Auspichiamo che anche il Ministro della Giustizia Carlo Nordio abbia le giuste risposte che meritano le lavoratrici e i lavoratori della Polizia Penitenziaria e comunque tutte quelle figure professionali che a qualsiasi titolo accedono all’interno di quella vecchia struttura”. Napoli. Dal carcere di Poggioreale al teatro San Carlo: “Così salviamo i detenuti” di Giuliana Covella Il Mattino, 4 marzo 2023 Arrivano i diplomi per 13 detenuti di Poggioreale oggi specializzati elettricista, macchinista, attrezzista, sarto teatrale e addetto alle attività amministrative. “Questo percorso ha inciso in maniera determinante sul mio processo di cambiamento e di questo voglio ringraziare tutti, a partire dal direttore del carcere ai vertici del San Carlo che mi hanno fatto capire che il reinserimento sociale è possibile, accogliendomi senza pregiudizi e facendomi sentire un uomo libero”. Vincenzo Nave, 26 anni, si commuove mentre legge la lettera che ha scritto a mano nella saletta del Cafè del Teatro San Carlo, dove si è svolta la cerimonia di consegna dei diplomi ai 13 detenuti di Poggioreale che hanno partecipato ai corsi di formazione specialistica sui mestieri dello spettacolo, che si sono svolti da ottobre a dicembre scorso. Una mattinata ricca di emozioni dove sono intervenuti il sindaco e presidente della Fondazione San Carlo Gaetano Manfredi, il sovrintendente Stéphane Lissner, il direttore generale del San Carlo Emmanuela Spedaliere, il direttore della casa circondariale Giuseppe Salvia Carlo Berdini, il capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Russo e il provveditore per la Campania Lucia Castellano. Nel corso della presentazione è stato rinnovato il protocollo d’intesa tra la Fondazione San Carlo e il carcere di Poggioreale per un nuovo ciclo di attività e laboratori destinati ai reclusi il prossimo anno. Elettricista, macchinista, attrezzista, sarto teatrale, addetto alle attività amministrative: sono i profili professionali per i quali si sono specializzati 13 detenuti di Poggioreale guidati dal personale del Massimo partenopeo, di cui quattro hanno già ottenuto un contratto a tempo determinato che partirà ad aprile. Un progetto che dimostra come il San Carlo, da sempre attivo nel sociale, si impegni concretamente a favore delle persone recluse, utilizzando la cultura come strumento di inclusione sociale e reinserimento lavorativo. “Come sovrintendente di un Teatro pubblico - ha spiegato Lissner - è nostro dovere collaborare con le istituzioni per fornire a tutti opportunità per una vita migliore. La cultura può svolgere un ruolo fondamentale nel recupero dei detenuti e sviluppare nuove competenze professionali che li aiutino a costruire un futuro diverso”. Sulla stessa lunghezza d’onda è Spedaliere: “Importante offrire una possibilità di recupero attraverso l’apprendimento di abilità professionali legate al mondo dello spettacolo dal vivo. Oltre a fornire una nuova prospettiva lavorativa, infatti, questi corsi possono sviluppare nuove passioni e interessi che aiutano a guardare al futuro con più fiducia”. “La cultura è una straordinaria leva di sviluppo sociale e questa collaborazione tra la Fondazione e il carcere ne è una testimonianza concreta - rimarca Manfredi - Una grande istituzione culturale di livello nazionale e internazionale come il San Carlo assolve in questo modo alla sua funzione di diffusore e alimentatore di bellezza non solo artistica, ma prima di tutto umana”. In carcere da sei anni per rapina Vincenzo, originario di Giugliano, ha una moglie e una figlia di 8 anni, “più una in arrivo che nascerà a luglio”, racconta a margine della mattinata al San Carlo. “Sono molto emozionato per questo traguardo, ma fiero del mio cambiamento radicale. Mi mancano altri quattro anni per scontare la pena, ma al San Carlo mi hanno fatto un contratto come amministrativo e avrò la possibilità di uscire a breve per un percorso di avviamento al lavoro. Così vedo il mio futuro, con la mia famiglia e un lavoro. Voglio far capire - attraverso la mia storia - ai minori a rischio che si può cambiare. Sono figlio di genitori separati, ho commesso la mia prima rapina quando ero un ragazzino e ho vissuto in casa famiglia. Però ho capito che nella vita ci si può riscattare”. Come Vincenzo emozionati sono anche gli altri dodici compagni: “Per noi è stata una cosa bellissima, ancora non ci crediamo - ammette sorridendo Battista Di Costanzo - da detenuti siamo entrati al San Carlo. Io nell’attrezzeria, un mestiere che nemmeno sapevo esistesse e ora resterò qui a lavorare per un periodo, per me questa è una speranza, una salvezza”. “Fino a qualche tempo fa non sapevamo che cosa avremmo potuto fare una volta fuori - sottolinea Nicola Baldi, impiegato in sartoria - invece abbiamo imparato un mestiere, per di più al San Carlo ed è fantastico”. Nella seconda edizione del progetto che prenderà il via nei prossimi mesi l’auspicio del direttore Berdini è che i partecipanti possano aumentare: “Di certo rispetto alla platea di Poggioreale il numero degli utenti è ridotto, ma anche iniziative non di largo respiro sono importanti e ancor di più se è un ente culturale di livello internazionale come il San Carlo ad aprire loro le porte”. Milano. Profugo ed ex detenuto diventa un liutaio: “Il mio violino per Battiato” di Rosella Redaelli Corriere della Sera - Buone Notizie, 4 marzo 2023 La metafora di Erjugen Meta: “Nasciamo come pezzi di legno informi, ma con la cura possiamo portare gioia”. Dal carcere di Opera ai violini e ora al lavoro in bottega. Quando va nelle scuole a raccontare la sua storia Erjugen Meta usa una metafora: “Noi nasciamo come pezzi di legno informi che attraverso il lavoro, la cura, la dedizione e la passione possono diventare uno strumento in grado di portare gioia agli altri”. Il legno, del resto, è l’elemento con cui Erjugen, maestro liutaio, lavora ogni giorno. Il diploma di liutaio arriva per lui nei lunghi anni trascorsi da detenuto nel carcere milanese di Opera grazie ai maestri dell’Istituto Stradivari di Cremona che gli trasmettono passione e segreti e ad un progetto della Fondazione Casa dello Spirito e dell’arte, presieduta da Arnoldo Mosca Mondadori: “Mai avrei pensato di intraprendere questa strada- racconta Erjugen- ma quando mi hanno proposto di seguire un corso di liuteria, ho subito sentito che era un modo per far entrare la bellezza nella mia vita”. Nella sua carriera di liutaio ha già firmato quaranta strumenti: “Non c’è un violino uguale all’altro perché una venatura del legno, una fiammata li rende unici come gli esseri umani. Il momento della firma è pura poesia:lascio il mio nome in fondo alla cassa armonica, nell’anima del violino ed in fondo c’è un po’ la mia anima in ogni strumento che realizzo”. Battiato e Finardi - Alcuni dei violini che ha modellato insieme ad altri compagni di strada sono finiti in mani eccellenti: Franco Battiato ed Eugenio Finardi si sono esibiti con i violini del carcere così come i giovani talenti del conservatorio di Milano. Da pochi mesi Erjugen è fuori dal carcere, ha un lavoro a tempo pieno presso la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti ed è lui a tenere un corso di lavorazione del legno presso la falegnameria della Casa Circondariale di Monza a tre giovani detenuti, grazie al contributo della Fondazione Cariplo e della Fondazione della Comunità di Monza e Brianza. I legni che ha sul banco di lavoro sono però legni speciali: vengono dal mare, sono stati recuperati dai barconi dei migranti e sono destinati a diventare rosari. “A volte nei pezzi di legno trovo ancora sabbia e sale - racconta - e mentre li lavoro mi sorprendo a pensare che questi legni siano anche impregnati del sangue e del sudore di uomini e donne che cercavano una nuova vita altrove”. C’è emozione nel suo racconto perché lui sa cosa significa trovarsi su un barcone in balìa del mare, “so cosa vuol dire vedere le luci della costa dall’acqua”. La vita di questo giovane uomo di 40 anni non è stata facile: “Sono partito da Tirana da solo a 15 anni - racconta - la mia famiglia non mi ha mai fatto mancare nulla, ma sognavo l’Italia e sono venuto a raggiungere dei parenti. Purtroppo ho percorso strade sbagliate e ne ho pagato il prezzo, però gli anni in carcere mi hanno fatto incontrare persone che si sono prese cura di me. Ho imparato un mestiere, ho scoperto l’amore per la poesia (ha pubblicato la raccolta Ridare l’anima. Redenzione in carcere, ndr), adesso racconto la mia storia ai detenuti che seguono il mio corso, voglio dare loro fiducia, invitarli a studiare”. Quella di Erjugen è una storia di riscatto di cui parla anche Mosca Mondadori la cui Fondazione ha assunto finora 30 persone in sei carceri italiane e 70 all’estero: “Il nostro obiettivo è seguirli nel loro percorso lavorativo e abitativo fuori dal carcere - spiega - oggi Erjugen ha un lavoro a tempo pieno, insegna ad altri detenuti come trasformare i legni recuperati in mare in oggetti sacri come i rosari”. Genova. Università in carcere: aule multimediali e sezioni dedicate agli studenti di Antonella Barone gnewsonline.it, 4 marzo 2023 Le sale multimediali inaugurate ieri nella casa circondariale di Genova Pontedecimo saranno dei luoghi di cultura dove i detenuti potranno scrivere, studiare, guardare film, accedere ai computer e sostenere esami. “Le aule sono state allestite nelle sezioni maschile e femminile, con l’obiettivo - spiega la direttrice dell’Istituto Paola Penco - di creare uno spazio fisico accogliente, fruibile dai detenuti e capace di rendere il tempo della reclusione un tempo di qualità”. Ma il taglio del nastro a Genova Pontedecimo non esaurisce i contenuti dell’evento di ieri. Al centro dell’incontro nella struttura di via Coni Zugna, nuove iniziative riguardanti il complessivo progetto per la promozione degli studi universitari in carcere. Un programma avviato dalla convenzione istitutiva del Polo universitario penitenziario regionale, siglata nel 2016 e rinnovata nel 2021, tra l’Università degli Studi di Genova e il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta. Una delle aule multimediali inaugurate nel carcere di Genova Pontedecimo Una nuova lettera d’intenti è stata firmata ieri dal Rettore dell’Università degli studi di Genova, Franco Delfino, e dal Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria, Monica Russo, per creare all’interno della casa circondariale di Genova Marassi - che registra il maggior numero di detenuti iscritti ai corsi universitari del Polo regionale - una specifica sezione detentiva destinata a raggruppare gli studenti delle varie facoltà, appartenenti al circuito media sicurezza. Presenti all’evento, insieme ai firmatari della convenzione, il Presidente della Conferenza nazionale dei Poli universitari penitenziari, Franco Prina, i Garanti dei diritti delle persone detenute delle Regioni coinvolte e del comune di Genova, i direttori degli Istituti penitenziari liguri. In collegamento streaming, i detenuti studenti di Genova Marassi, La Spezia, Genova e Imperia. Siracusa. Detenuti al lavoro in due scuole: si occuperanno del verde siracusanews.it, 4 marzo 2023 Un’attività volontaria e gratuita in favore della collettività svolta da detenuti che si occuperanno di manutenzione ordinaria e delle aree verdi. “Un’iniziativa che dà una prospettiva di inserimento sociale per i detenuti: questa è la nostra mission, il nostro scopo ed il senso del nostro lavoro”. Lo ha detto il direttore della casa circondariale di Siracusa, Aldo Tiralongo, alla firma della convenzione tra la Casa Circondariale, la Caritas, l’associazione Padre Massimiliano Maria Kolbe Onlus, l’Ufficio locale di esecuzione penale esterna di Siracusa (Ulepe), gli istituti superiori “Tommaso Gargallo” e “Luigi Einaudi”, per permettere ad alcuni detenuti di svolgere le ore di lavoro esterno nelle scuole. Un’attività volontaria e gratuita in favore della collettività svolta da detenuti che si occuperanno di manutenzione ordinaria e delle aree verdi. “I due istituti scolastici di Siracusa hanno accolto con gioia la possibilità di avere due detenuti nei loro spazi per aiutarli nella cura dei giardini - ha detto don Marco Tarascio, direttore della Caritas diocesana -. Alcuni detenuti si occupavano già del giardino dell’arcivescovado e continueranno nella loro attività. Il nostro arcivescovo, mons. Francesco Lomanto, ci ha chiesto di accostare gli umili ed accostarli dando loro dignità. Ritengo che questo tipo di servizio ridona ai detenuti una dignità nel loro percorso di recupero”. A sottoscrivere la convenzione anche il direttore dell’Ulepe Stefano Papa: “Collaboriamo con le scuole e il carcere per dare una possibilità all’esterno ai detenuti e stringere con la comunità quel rapporto indispensabile per il reinserimento. Le scuole sono palestre di relazioni e quindi anche i nostri detenuti partono dalla scuola per rivedere una prospettiva di inserimento nella società”. Ed il mondo della scuola ha risposto in maniera entusiasta: “Il liceo Gargallo è contento di far parte di questa iniziativa ed aprirsi all’esigenza dell’inserimento dei detenuti in ambito lavorativo. Il consiglio di Istituto e la comunità scolastica hanno sposato questa iniziativa che porta al reinserimento nella società” ha commentato la dirigente Annalisa Stancanelli. Ed anche la dirigente dell’istituto “Luigi Einaudi”, Teresella Celesti, ha ribadito: “Il mondo della scuola è il mondo dell’educazione. Una grande opportunità per i detenuti per riaffacciarsi al mondo e restituire il maltolto. L’idea pedagogica è grande: avere sbagliato una volta non vuole dire una condanna per sempre. Altrimenti la società avrebbe smarrito la visione etica. L’idea per i ragazzi è comprendere come la giustizia sia cosa diversa da un principio di vendetta ed ostracismo nei confronti di chi ha sbagliato e ci consegna un’idea di società civile che accoglie”. Messina. Un laboratorio di fumetto per i detenuti nel carcere di Gazzi messinatoday.it, 4 marzo 2023 L’iniziativa del CePAS rivolta soprattutto ai giovani. I corsi dureranno un mese. Un laboratorio di fumetto nel carcere di Gazzi. Questa l’iniziativa organizzata dal CePAS (Centro Prima Accoglienza Savio) e tenuto dalle insegnanti Michela De Domenico e Giuliana La Malfa che fanno parte dell’Officina del Sole con Lelio Bonaccorso. Il laboratorio avrà la durata di un mese. Al primo incontro hanno partecipato dieci ospiti dell’Istituto. Le lezioni delle professoresse De Domenico e La Malfa sono riservate alla “sezione maschile protetti”. L’iniziativa del Cepas (presieduto da don Umberto Romeo) è seguita e coordinata dalla vicepresidente del Centro, Raffaella Lombardi e si avvale della collaborazione di volontarie. L’idea di un laboratorio sul fumetto è nata perché durante altri laboratori ci si è accorti della propensione dei giovani a raccontare le proprie emozioni attraverso il disegno. Gli allievi del corso saranno incentivati a creare un elaborato in chiave personale. Il programma, infatti, prevede: come si disegna una storia, i personaggi e il character design, il volto, la figura umana, cenni di storytelling e lo storyboard, dalla matita alla china e la colorazione di un fumetto. Il corso viene realizzato soprattutto grazie alla sensibilità di Lelio Bonaccorso e alla disponibilità e comprensione del direttore dell’Istituto Angela Sciavicco, del comandante della polizia penitenziaria, Antonella Machì, del responsabile dell’area trattamentale, Letizia Vezzosi e dell’educatrice Nicoletta Irrera. Il CePAS ormai da oltre 30 anni è presente nell’Istituto di Gazzi con iniziative formative e ha in corso laboratori che attualmente interessano, per il settore femminile, il ricamo e l’uncinetto. Vengono tenuti anche colloqui di orientamento e sostegno dei tossicodipendenti. “La nostra presenza continua e il lavoro fatto per gli ospiti - ha dichiarato Lalla Lombardi - è parte di un programma che è iniziato tanti anni fa e che ha sempre dato risultati apprezzabili, soprattutto nel sostegno di quanti sono ristretti a Gazzi. E’ chiaro - ha concluso - che queste sono alcune delle nostre attività e il programma è ben più vasto anche se di difficile realizzazione e tende a migliorare la qualità della vita di persone che si sentono sole ed emarginate”. Verbania. Carcere, una giornata da non dimenticare di Stefania Mussio* gnewsonline.it, 4 marzo 2023 È il 7 febbraio, l’ultimo giorno dell’ottava di San Giulio. La provincia di Verbania è baciata da due laghi: il più piccolo è Orta e nel suo cuore sorge l’isola di San Giulio dove il Convento di Monache claustrali Benedettine Mater Ecclesiae pulsa di bene e di preghiera. Il 31 di gennaio è stata la festa dell’isola e il monastero è in fermento. Decidiamo anche noi di far visita alle monache per trascorrere una giornata di lavoro e preghiera come San Benedetto predicava nel V secolo. La casa circondariale e le persone detenute, hanno stretto un legame con alcune “sorelle” che ricamano in uno dei laboratori claustrali dell’isola: la stretta corrispondenza epistolare, il legame con la garante dei detenuti, hanno costruito una relazione che ha stimolato la passione del ricamo di due persone detenute. È grazie a questa amicizia che nello scorso maggio, durante una delle udienze del mercoledì proprio in piazza a San Pietro, una delegazione dell’istituto ha donato al Santo Padre un bellissimo arazzo raffigurante lo stemma papale. L’amicizia si rinnova costantemente e così la comunità del carcere, nel ricordo della festa, esprime il desiderio di far visita al monastero, di condividere il lavoro, i doni, il silenzio, l’incontro. Madre Maria Grazia apre le braccia e ci permette di entrare, nell’ultimo giorno delle celebrazioni di San Giulio, nel solo giorno dell’anno- il 7 febbraio - in cui San Benedetto faceva visita a sua sorella, Scolastica, monaca benedettina claustrale. Una curiosa coincidenza di fraternità. La piccola barca ci attende alle 9 al molo di Orta: ci sono tredici persone detenute, tre sacerdoti tra cui il cappellano, l’educatrice, il comandante, la direttrice. Con loro anche un delizioso cagnolino. Si parte, con un dono di dolci e biscotti che “Banda Biscotti” produce nel laboratorio presso la scuola di formazione di Verbania e alcune borse che racchiudono abiti più comodi e adatti al lavoro che attende: due squadre, una per riporre e accatastare la legna; l’altra per lavori di pulizia nei corridoi del monastero aperti agli ospiti. Il magistrato di sorveglianza di Novara ha autorizzato e dunque, con fiducia inizia una giornata molto speciale, unica, che lascerà un segno indelebile, “un grande senso di pace interiore” come dirà poi proprio uno dei detenuti. La giornata è bellissima, piena di sole. L’accoglienza ci fa già intuire un senso dell’ospitalità non comune: Suor Maria Donata in portineria ci illustra i luoghi e i tempi a noi dedicati. Ci dirigiamo in silenzio verso uno spogliatoio dove sono pronti per tutti bevande calde e un piccolo ristoro. “Siamo stati accolti da persone ospitali e gentili” ci dirà O.A. e come lui molti altri, “giusto per iniziare la giornata in armonia e con forza” (D.M.). Inizia così il momento del lavoro fino a quando, poco dopo mezzogiorno, ci rechiamo in Chiesa per la preghiera di sesta. Tutte le persone detenute raccolgono l’invito con semplicità: anche le due persone musulmane del gruppo si lasciano coinvolgere, si fermano, riprendono fiato. “Nel momento della preghiera mi sono isolato da tutti i miei pensieri e problemi e ho ricevuto una carica e una forza che non avrei mai trovato in me”, ci racconterà poi P.D. Andiamo tutti poi a pranzo, un ricco buffet dove nulla è trascurato, lasciando tutti meravigliati. Proviamo a immedesimarci nella loro realtà fatta di silenzio “con la compagnia della preghiera” e “per un giorno si torna in una dimensione di reale umanità e uguaglianza” (I.E.). Poco dopo incontriamo con una certa curiosità Madre Maria Grazia. Mentre l’aspettiamo, nella sala dell’ascolto osserviamo la grata. Ci domandiamo se rimarrà chiusa, come la Madre si accosterà a noi, come potrà esprimere la sua compassione e la sua vicinanza. Con un bel sorriso si presenta a tutti noi, apre la grata e si siede insieme al gruppo: ci ha già con il cuore abbracciati tutti, ci ha già trasmesso la sua “pace e il suo equilibrio interiore” (A.R.) “Vi guardo per tenervi nella memoria del cuore”, così inizia la Madre. “Viviamo una esperienza simile: c’è una ricchezza che si può cogliere stando separati dagli altri, che può diventare un dono. C’è una ricchezza che si può avere rimanendo separati dagli altri: occorre sviluppare un senso di profondità, per fermarsi, per poter riuscire a cogliere le cose belle e positive della vita. Noi siamo libere perché con il cuore giriamo il mondo, con la preghiera raggiungiamo il mondo e il mondo viene a noi”. La Madre prosegue cercando di avvicinare le persone detenute e accogliendo le loro difficoltà. “La vita in comune è la massima penitenza o la cosa più bella. Non ci si sceglie e tuttavia può essere una occasione bella se si mettono insieme i talenti: bisogna disarmare il cuore. Occorre tramutare le occasioni disgraziate in occasioni di grazia. La capacità di perdonarsi reciprocamente toglie il rancore dal cuore e libera la coscienza”. C’è silenzio, sono parole che arrivano a tutti e tutti le lasciano entrare. Molti rimangono impressionati e ci racconteranno, poi, come forse per la prima volta si siano sentiti toccati nel cuore. Ci ricorda la Madre come San Benedetto predicasse che “l’ozio nuoce alla vita” e che “è possibile leggere la reclusione come una pausa della vita che può essere propizia. Il ricordo di ciò che si patisce ti dona il coraggio di resistere, di accettare la realtà trasformandola”. Con il sorriso e la voce flebile ricorda a tutti che è necessario coltivare il desiderio al cambiamento facendo sempre memoria che il “bene costruisce mentre il male demolisce”. Ci racconta poi della loro quotidianità, dei loro tempi, scanditi dal silenzio, dalle campane, dalla preghiera. Racconta dei laboratori e del lavoro di artigianato, tessitura, stamperia, che si tramandano da sorella in sorella. Si chiede alla Madre come si possa riuscire e sostenere quella quotidianità fatta di sacrificio e le parole sagge ancor arrivano a tutti “vivo con quello che c’è e quello che c’è va bene per me”. Suona l’ora di nona e tutti ritorniamo in chiesa. Ancora disorientati da quelle parole: perdono, cuore, pace, purificazione, un linguaggio inusuale, strano, tuttavia profondo, capace di lasciare serenità. Dopo la preghiera, delicata e armoniosa, ritorniamo nella sala dell’ascolto dove incontriamo un gruppo di sorelle. Non eravamo pronti a tanta gioia. Tutti un po’ eccitati come al primo giorno di scuola ci sediamo di fronte a loro: le guardiamo, sorridono, inchinano il capo, osservano e subito ci chiedono i nostri nomi. Sono tutte incantate dal piccolo cagnolino che è in viaggio con noi, un timido, buonissimo shitzu e lui, quasi ad aver capito il luogo, si dimostra silente, e accoccolato raccoglie felice tutte le attenzioni. È un continuo botta e risposta tra curiosità della loro vita quotidiana e domande sulla loro scelta di vita. “Le monache hanno avuto un atteggiamento molto aperto con noi nel raccontarsi ed insegnarci le loro esperienze di vita” (C.M.): Suor Maria Scolastica suona le prime note con la chitarra e tutte insieme intonano un canto che nel cuore torna come una melodia, soave e delicata. “È ammirevole la determinazione e la costanza che mettono in ciò che fanno” (M.O.). Suor Maria Giovanna, verso la fine, prende la parola e legge brani del discorso che Papa Paolo VI tenne nella sua visita a Regina Coeli del 1964. Ci permette di comprendere come quelle parole rivolte ad una comunità di detenuti siano adeguate anche al Monastero. Ci ricorda che ogni giorno vi sono difficoltà ma che c’è sempre una possibilità di bene. Legge diverse parti di quel discorso che è carico di fratellanza e di speranza. Le sventure, le ferite e l’umanità lacerata che abita il carcere sono il terreno per la consolazione, per comprendere il valore dell’esistenza, per cominciare ad essere veramente uomini. Come è difficile andare via. Ma sono le 16.25, dobbiamo salutarci e correre al piccolo battello che partirà dopo cinque minuti. Sorrisi, abbracci, lunghe strette di mano, coccole al cagnolino. A bordo non si parla, si sorride, si pensa, si fa memoria di una giornata “indimenticabile”, “gratificante”, una “esperienza che da libero non si sarebbe fatta” e che ha “arricchito gli animi di tutti”. Arriviamo ad Orta, ci aspettano due poliziotti penitenziari che ci riaccompagneranno: ci guardano e intuiscono subito che c’è qualcosa di particolare. Così, insieme, andiamo a bere un caffè e ripartiamo per l’istituto. Nessuno dimenticherà. Tanti proveranno a “disarmare gli animi” proprio come ci ha insegnato Madre Maria Grazia e le sorelle. *Direttrice della Casa circondariale di Verbania Una stagione di conflitti destinati a inasprirsi di Massimo Franco Corriere della Sera, 4 marzo 2023 Dopo la tragedia di Crotone aumenta la distanza tra i partiti di maggioranza e opposizione. La variabile Schlein alla guida del Pd. È difficile vedere un recupero di dialogo tra governo e opposizioni. I rapporti stanno peggiorando e si radicalizza lo scontro. E il cambio alla segreteria del Pd, con l’arrivo di Elly Schlein, promette di accentuare i toni polemici nei confronti di Palazzo Chigi, col rischio già visibile di risucchiare la maggioranza di destra in una spirale di ritorsioni; tanto più scivolosa nel momento in cui la coalizione al potere sente di avere il vento a proprio favore, e di poterlo sfruttare di qui a un anno, quando ci saranno le elezioni europee. I veleni e la confusione sulla tragedia dei 68 migranti annegati nel naufragio di un caicco in Calabria sono solo l’ultima occasione di conflitto. Anche se per l’enormità di quanto è accaduto e gli errori commessi dal governo, si può dire che rappresentano uno spartiacque. Di fatto, inaugurano una fase diversa. Ma sullo sfondo si staglia l’inchiesta della magistratura sui morti per Covid in Lombardia. E si inasprisce la spaccatura sulla riforma che riguarda l’”autonomia differenziata” delle regioni. Sono tutti elementi destinati a mostrare un P aese spaccato e rissoso: l’esatto contrario dell’unità invocata in una fase di passaggio decisiva. Quanto sta accadendo sulle questioni regionali diventa, su questo sfondo, il paradigma di una stagione convulsa e di muro contro muro. Adesioni e resistenze alla riforma voluta in particolare dal ministro leghista per gli Affari regionali e le Autonomie Roberto Calderoli, mescolano e saldano spaccature politiche e geografiche. Non solo mettono l’una contro l’altra le regioni guidate dal centrodestra e dalla sinistra: le prime a favore, le altre contro. Segnano anche una contrapposizione tra diverse realtà del Mezzogiorno. Con i partiti di governo che additano il “no” alla riforma di Campania, Puglia, Emilia-Romagna e Toscana come frutto di una scelta maturata “per motivi ideologici”. E queste ultime furiose con Calabria, Basilicata, Sicilia, accusate di avere “svenduto gli interessi del Mezzogiorno” per seguire le indicazioni del governo nazionale. Come si potranno accorciare queste distanze non è chiaro. Dopo il sì arrivato l’altro ieri dalla Conferenza delle Regioni, il presidente Massimiliano Fedriga, leghista, si è augurato “che si possa ricucire con le quattro che hanno votato contro”: una minoranza. Per ora, tuttavia, non si vedono spazi per trattare. L’accusa a Calderoli di avere compiuto una forzatura, e la pregiudiziale secondo la quale la riforma aumenta le sperequazioni tra Sud e resto d’Italia sembrano difficili da superare. Il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, del Pd, chiama in causa la stessa premier Giorgia Meloni, chiedendole di difendere “lo spirito di patria con i fatti”. I dati rivelano che la disuguaglianza in Italia è sottovalutata di Maurizio Franzini e Michele Raitano Il Domani, 4 marzo 2023 La disuguaglianza è un fenomeno complesso che spesso viene commentato con semplicità. I dati sul reddito disponibile equivalente degli italiani evidenziano una sostanziale costanza della disuguaglianza a partire dalla metà degli anni Novanta. Inoltre ci sono altri nodi che rischiano di far sottostimare la disugualianza come la difficoltà di osservare quanto accade nella ‘coda alta’ della distribuzione dei redditi. I molto ricchi tendono a esere sottositmati nelle indagini campionarie perché dispongono di fonti di reddito più difficilmente misurabili. I dati campionari pubblicati da Istat e Banca d’Italia mostrano che, anche durante la pandemia, la disuguaglianza nei redditi in Italia è rimasta sostanzialmente costante. Ciò ha spinto alcuni commentatori a sostenere che il problema non sia la disuguaglianza ma la povertà, che invece risulta in crescita. La disuguaglianza è un fenomeno troppo complesso per affidare a un solo indicatore la decisione se essa costituisca un problema. Di quella complessità cercheremo di dare conto in una serie di articoli che si focalizzeranno sulle difficoltà a cogliere il reale andamento della disuguaglianza, sulle sue determinanti e la loro rilevanza per decidere se e come contrastarla. In questo primo articolo vogliamo rispondere a una domanda: cosa si può fondatamente dire su tendenze e altezza della disuguaglianza dei redditi in Italia? Cosa dicono i dati - Partiamo dai dati - di fonte Istat e Banca d’Italia - sulla distribuzione del reddito disponibile equivalente cioè la somma di tutti i redditi di mercato e i trasferimenti in moneta percepiti dai membri di una famiglia, al netto di imposte personali e contributi a carico dei lavoratori, e reso equivalente per consentire il confronto fra individui che vivono in famiglie di diversa dimensione. Tale reddito viene infatti solitamente considerato il miglior indicatore del benessere economico individuale. Quei dati, come detto, evidenziano una sostanziale costanza della disuguaglianza (misurata con il coefficiente di Gini) a partire dalla metà degli anni Novanta. Quando dalla disuguaglianza - che guarda alle differenze di reddito fra tutti gli individui in una collettività - si passa alla povertà - attenta solo a coloro che si collocano nella parte più bassa della distribuzione - il quadro si fa più articolato. L’incidenza della povertà relativa - che registra la quota di individui con reddito disponibile equivalente inferiore al 60 per cento di quello mediano e risente principalmente della disuguaglianza nella “coda bassa” - è rimasta anch’essa sostanzialmente stabile, mentre l’incidenza della povertà assoluta - ovvero la quota di famiglie che spende meno del costo di un paniere di “beni necessari” - è praticamente raddoppiata fra il 2011 e il 2020. Ma basta la diversa dinamica di disuguaglianza e povertà relativa, da un lato, e povertà assoluta, dall’altro, per concludere che ci si dovrebbe preoccupare unicamente delle condizioni di vita dei meno abbienti, disinteressandosi, ad esempio, di quello che accade alle distanze fra classe media e classe ricca? La risposta non ci pare possa essere affermativa e per diverse ragioni, a iniziare dai dubbi sulla capacità dei dati utilizzati di cogliere l’effettivo andamento della disuguaglianza. Sempre in base al coefficiente di Gini, l’Italia ha una disuguaglianza molto elevata in rapporto ad altri paesi. Nel 2020 soltanto quattro paesi dell’Ue, Bulgaria, Lettonia, Lituania e Romania, presentavano un coefficiente di Gini più elevato di quello italiano. Fra i paesi dell’Ue con reddito pro capite simile, l’Italia è, dunque, sicuramente quello più diseguale. Questa nostra poco lusinghiera posizione non consente, almeno a nostro parere, di liberarsi del problema con il solo argomento che non vi sono segnali di un suo ulteriore peggioramento. Ma la solidità di quei segnali può, essa stessa, essere messa in discussione, perché i dati utilizzati possono non essere in grado di cogliere tutte le dinamiche in atto. Le misure abituali di reddito disponibile tralasciano una serie di elementi cruciali per il benessere economico - quali adeguati servizi di welfare o abitativi - la cui disponibilità può essere variata in modo diseguale nel corso del tempo. Emergono forti dubbi sulla capacità dei dati campionari di rappresentare con esattezza ciò che accade nelle parti estreme della distribuzione, fra i molto poveri e fra i molto ricchi. In particolare, la difficoltà di osservare quanto accade nella ‘coda alta’ - i molto ricchi tendono a non essere rilevati nelle indagini campionarie in misura proporzionale alla loro consistenza anche perché dispongono di fonti di reddito più difficilmente misurabili - può portare a sottostimare, anche fortemente, il livello della disuguaglianza. Tracciare i redditi alti - Se poi la concentrazione dei redditi nella parte alta della distribuzione si fosse di recente accentuata, si sottostimerebbe non solo il livello della disuguaglianza ma anche la sua crescita. Analogamente, una condizione di povertà sempre più accentuata che portasse a fenomeni gravi di esclusione sociale e disagio materiale sarebbe difficilmente colta da un’indagine basata su interviste a un campione di famiglie. Al riguardo viene in ausilio l’indagine 2020 sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia che ha proposto una nuova modalità per selezionare il campione utilizzando anche informazioni su reddito e indebitamento, migliorando così la capacità di rilevare i segmenti “estremi” della popolazione. Con i tradizionali pesi di riporto all’universo degli intervistati il coefficiente di Gini nel 2020 era pari a 0,333 ma con la nuova metodologia esso è considerevolmente più alto: 0,395. Essendo applicata soltanto al 2020, la nuova metodologia non consente di conoscere la tendenza del coefficiente di Gini, ma altri dati, di natura amministrativa, seppur distorti dalle possibili dinamiche di evasione e elusione fiscale, segnalano come in Italia nel corso degli ultimi decenni sia cresciuta la quota di reddito appropriata da chi si situa nella parte alta e altissima della distribuzione. Esprimersi sulle tendenze della disuguaglianza senza poter tenere conto con precisione di quello che accade nei segmenti estremi della distribuzione è, dunque, quanto meno rischioso e anche per questo l’argomento delle tendenze non dovrebbe essere decisivo per prendere posizione rispetto alla disuguaglianza. Altri argomenti, quali le determinanti della disuguaglianza di reddito e la capacità del reddito disponibile di cogliere appieno il benessere delle famiglie, per esempio con le spese dei beni essenziali, sono a nostro parere, più rilevanti e li illustreremo nei successivi articoli. Migranti. Il problema di Piantedosi è la linea politica, non la sua morale individuale di Gianluca Passarelli Il Domani, 4 marzo 2023 Rincorrere Piantedosi sulla sua a-moralità è un gioco perdente perché ciascuno può avere una idea e una morale individuale, e finanche una opinione su come “gestire” gli immigrati. Il fulcro della questione è che in Calabria è mancata la politica. O meglio c’è stata una politica che ha chiaro in mente uno schema: i migranti sono un pericolo, l’Europa un peso, la solidarietà un crimine. La politica va spiegata con la politica. L’azione del Governo Meloni nei confronti dei migranti trova spiegazione guardando alla catena di comando, e si innesta nella scia delle idee propalate per decenni dalla Lega nord, da Alleanza nazionale e anche da Forza Italia. La legge criminogena Bossi-Fini reca il nome di due capi delle principali forze della sedicente liberale coalizione dell’allora governo che usò lo scalpo securitario per rafforzare l’identità e saldare un legame tra due leader mai troppo d’accordo. C’è un’Italia costernata, indignata, basita. Per la inumanità delle parole del ministro dell’Interno. Ma egli è umano nella banalità delle norme (non) applicate. Semplicemente, e terribilmente, esprime una linea politica. Al Viminale torni un politico - La conferenza stampa di Piantedosi è un compendio di progettualità politica, solo tangenzialmente costellato di divagazioni sul piano etico-morale. Non si tratta di rincorrere una “brava persona”, ma di spiegare la politica con la politica. Non con le lacrime, le emozioni o la rabbia. Il ministro dell’Interno è figlio e padre delle politiche connesse alla sicurezza di questo Paese, alla gestione dell’immigrazione e della sicurezza, anche quella davanti alle scuole e alle università. Nessuna sorpresa, alcun incidente, nessuna parola fuori luogo: la destra è così da venticinque anni. Le parole vanno lette con lenti politiche, pena ridurre a circostanza sfortunata, a tragedia, a malanno, a “fatto improvviso e sfortunato”, come ha detto il ministro, quanto invece è frutto di una politica pianificata di esclusione. Piantedosi è stato capo gabinetto anche dell’allora capo del Viminale, senatore Salvini, in una miscela ventriloqua in cui si fatica a capire chi parli e chi gesticoli. La politica ha abdicato al suo ruolo e ha appaltato a un burocrate la gestione degli affari interni che fu di Scelba, Taviani, Tambroni, Cossiga, Napolitano, per dire. È tutto qui il problema. Il corto circuito è derivato dalla ritirata della politica che da decenni si vergogna della propria ombra e delega a prestanomi tecnici pur di provare a riguadagnare credibilità che ormai langue. Lotta politica non morale - Rincorrere Piantedosi sulla sua a-moralità è un gioco perdente perché ciascuno può avere una idea e una morale individuale, e finanche una opinione su come “gestire” gli immigrati. Il fulcro della questione è che in Calabria è mancata la politica, o meglio c’è stata una politica che ha chiaro in mente uno schema: i migranti sono un pericolo, l’Europa un peso, la solidarietà un crimine. Lo dicono, lo scrivono, lo urlano, lo praticano con coerenza gli esponenti della destra estrema in Italia da due decadi almeno. Non è importante che Piantedosi abbia o dimostri di avere umana pietas; è cruciale che espliciti qual è la politica, il programma di governo dell’immigrazione, della sicurezza, di lotta alla criminalità, di contrasto al diffondersi di aggressioni di stampo squadrista. Il ministro Piantedosi ha una sua linea politica che lo rende complice e lo assolve perché egli è al contempo mandante, ma anche esecutore del suo mentore leghista, delle pressioni di Palazzo Chigi e delle tensioni della coalizione. Insomma, ha troppi padroni cui rendere conto; e in mezzo restano schiacciati i diritti dei più deboli, italiani o non che siano non rileva. E anche la professionalità dei lavoratori delle forze di polizia che pagano lo scotto. Il dibattito sugli errori, sulle debolezze umane, sulla morale di Tizio o Caio, rischia di esaurirsi in breve tempo, di sfociare nel disappunto e nell’imprecazione. La politica deve tornare al centro raccontando che la proposta di Piantedosi - alias Salvini/Meloni - è contro gli interessi dell’Italia e dell’Europa. Non può immolarsi solo e sempre il Quirinale. La spiaggia su cui sono giunti privi di vita i corpi di sessantasette tra bimbi e adulti si chiama “Steccato”, proprio come quello, politico, che esiste tra la percezione del Viminale e la realtà sociale del paese. Migranti. Strage di Cutro, per non annegare l’evidenza servirebbe un Icaronte di Alessandro Bergonzoni La Repubblica, 4 marzo 2023 Se non si capisce che per non farsi seppellire dalle macerie terremotate o battagliate, loro preferiscono rischiare naufragi a ondate, noi non solo non siamo persone vive ma nemmeno nate. Possibile che non si inventi un nuovo Icaronte che volando, preferibilmente non troppo vicino al sole, possa trasportare le anime, vive, da un inferno almeno a un purgatorio se non a un piccolo paradiso? Aerei, ne abbiamo (anche troppi di guerra, li costruiamo e li vendiamo) per fermare l’onta anomala, che offende e sommerge le vite perse. Usiamoli, facciamoli volare, son nati per portare. È la fine del mondo se non inizia la fine del modo, se non si cambia questo unico metodo di pensare, agire e organizzare. Per cambiare l’avversione dei fatti annegare. Cosa si sta aspettando? Che le acque di questa tragedia dell’ennesimo “caso” si calmino? Il mare si calmerà forse, e si ritirerà, ma per pensare cosa fare: penserà al cielo che è più sicuro, meno severo, meno oscuro, anche delle nostre ragioni e scuse che dovrebbero diventare le scuse dovute a questi caduti di pace e di guerre, per cambiare questa nostra disperata fase così come cambiano le fasi delle maree. Basta ben meno del due per cento di un altro Pil (prodotto interiore, lordo come non mai) per capire che investire è meglio di far perire a causa del soffiare impetuoso dei conniventi che spirano dall’Europa sulle nostre coste. La storia si può fare anche con i se: se si cambia. Ma se non si capisce che per non farsi seppellire dalle macerie terremotate o battagliate, loro preferiscono rischiare naufragi a ondate, noi non solo non siamo persone vive ma nemmeno nate. Se lo Stato italiano avesse ascoltato la loro preghiera prima di arrivare, a tanto, avremmo imparato a fare gli europei non di calcio ma dell’Intelligenza, del Buon Senso, e avrebbero vinto tutti i paesi (aprendo i corridoi, umanitari, parlando di diritto di “soggiorno”, tenendo chiuse le camere, ardenti), ma si preferisce chiacchierare nei salotti quotidiani accusando solo gli scafisti e sparlando delle Ong. Partire è un po’ morire ha scritto qualcuno... E se arrivare invece fosse un po’ rinascere o rivivere, che mare ci sarebbe? Qualunque fosse potremmo almeno non vergognarci più. Intanto cominciamo ad inginocchiarci tutti, sessantaquattro volte. Non solo per contare le vittime ma perché i gesti contino. Sulla guerra in Ucraina banco di prova a sinistra di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 4 marzo 2023 La nuova segretaria del Pd Elly Schlein si è detta più volte dubbiosa sull’invio di armi ma da deputata ha sempre votato a favore. Adesso come si comporterà? Stare nella Nato, sì, “ma in modo critico”. Sostenere gli ucraini, certo, “ma senza essere supini agli americani”. E dunque come? “Dialetticamente”. Con meno armi? “Con più diplomazia”. Insomma, diversi ma uguali, ancora una volta, come una volta, sotto il vessillo dell’ossimoro. Si nasconde in questo ginepraio di distinguo e bizantinismi di una parte della sinistra democratica il primo vero banco di prova per Elly Schlein. E, con uno dei paradossi ai quali ci ha abituato la politica in questi anni, se la nuova segretaria del Pd dovesse sciogliere i nodi che l’hanno accompagnata fin qui sullo spinoso tema abbandonando la linea atlantista del partito guidato da Enrico Letta o, come è più plausibile, annacquandola fino a renderla irriconoscibile, gli effetti si farebbero sentire anche nella coalizione di governo: perché, per la prima volta, la premier Meloni si troverebbe quasi sola nell’arco parlamentare (fatta eccezione per i terzopolisti e pochi altri) a sostenere con convinzione l’idea che a Zelensky ancora non servano in questa fase sorrisi e pacche sulle spalle ma sistemi di difesa antiaerea e carri armati con cui rintuzzare i nuovi attacchi dell’invasore russo. La tentazione per la giovane leader dev’essere molto forte e il sentiero per lei è assai stretto. Tornano a suonare con più energia le sirene culturali che hanno nutrito il pacifismo di gran parte della sinistra. A quasi cento anni dal libro fotografico con cui l’anarchico e obiettore tedesco Ernst Friedrich sconvolse le coscienze europee documentando gli effetti di quella che per papa Benedetto XV fu “l’inutile strage”, il primo conflitto mondiale (“Guerra alla guerra” ne era il titolo, riecheggiato ora da un volume edito da Laterza a firma di Matteo Pucciarelli). Quel suono si mescola agli slogan mai tramontati dell’antiamericanismo, che affonda le sue radici un po’ pelose fin nel pacifismo togliattiano anni Cinquanta dei Pionieri d’Italia, e s’è sposato nel tempo con l’avversione per la modernità liberale (e libertina) di una parte dell’opinione antilluminista di certo cattolicesimo di destra (un milieu non troppo distante dagli anatemi antioccidentali del patriarca Kirill). “Buttiamo a mare le basi americane”, cantavano i militanti della sinistra italiana durante la “sporca guerra” del Vietnam, avendo dimenticato, chissà perché, di indignarsi per l’invasione sovietica dell’Ungheria di pochi anni prima e preparandosi a stendere analogo velo d’oblio sulla repressione della Primavera di Praga. La postura in politica estera è uno di quei passaggi che gli anglosassoni chiamano “defining moment”, il bivio in cui si vede di che pasta sei fatto. Sicché, più dell’ecologismo d’assalto, più delle tasse di successione e del salario minimo, sarà questo il momento davvero discriminante per il Partito democratico del prossimo futuro. E la prima scadenza non è lontana, perché il 22 marzo Giorgia Meloni andrà in Parlamento alla vigilia della partecipazione al Consiglio europeo. Se per allora si trattasse di votare su qualche mozione, magari presentata da un Movimento Cinque Stelle che potrebbe essere rivale e alleato al tempo stesso, avere una linea non sarebbe del tutto inutile per Elly e i suoi collaboratori. Altro passaggio rivelatore, una volta formata la segreteria, sarà scoprire il nome del responsabile Esteri. Piuttosto accreditato appare Arturo Scotto, appena rientrato al Nazareno dopo essere stato coordinatore di Articolo Uno e dopo avere votato con convinzione contro il programmato sostegno militare all’Ucraina per il 2023. A Valerio Valentini del Foglio ha spiegato di non aver cambiato idea: come da mantra della sinistra radicale, si tratta di aiutare gli ucraini “senza sostenere l’escalation militare”. Va da sé che la soluzione, per questa parte della sinistra, sta in una “forte iniziativa diplomatica” che, un po’ come l’araba fenice, nessuno sa dove sia. Una certa ambiguità della leader dem dev’essersi percepita, se il suo punto di vista le viene rimproverato da posizioni opposte: da Carlo Calenda, secondo il quale Schlein è sempre stata contraria all’invio di armi all’Ucraina, e da Rosy Bindi, che ne critica invece le reticenze tattiche sul tema, “perché chi guida la sinistra dovrebbe dire parole chiare”. Gli analisti di Pagella Politica si sono presi la briga di radiografarne le dichiarazioni e i voti in aula, concludendo che la nuova segretaria del Pd si è detta più volte dubbiosa sull’invio di armi (“per chi come me viene dalla cultura del disarmo...”) ma da deputata ha sempre votato a favore. Se l’ha fatto per disciplina di partito, obbedendo alle indicazioni del suo predecessore Letta, ora potrebbe essere venuto per lei il momento di cambiare registro. Di sicuro questa eventualità desta qualche preoccupazione nelle cancellerie occidentali e soprattutto nelle ambasciate, in quella americana come in quella ucraina. Una defezione del Partito democratico riaccenderebbe nei russi la speranza di ritrovare in Italia il ventre molle dello schieramento atlantico. Certo, Giorgia Meloni per adesso tiene duro. E, con lei, deve farlo l’intero gabinetto. Ma un eventuale no alle armi che compattasse il Pd sui Cinque Stelle farebbe venire meno quel trasversalismo atlantista che ha caratterizzato il nostro Parlamento dai tempi di Draghi, aiutando non poco l’allora premier a tenere la barra dritta (i meriti di Letta in questo senso sono stati davvero notevoli). Meloni vedrebbe aumentare prima o poi le spinte centrifughe già presenti in una coalizione di centrodestra segnata dall’intramontabile amicizia di Berlusconi per il dittatore di Mosca e da simpatie filorusse così chiassose da esporre in passato Salvini a contestazioni e ironie persino all’estero (“cheerleader di Putin”, lo bollò l’ex primo ministro belga Guy Verhofstadt). Per fronteggiare un’opinione pubblica sempre più ripiegata sulle beghe di casa propria, la premier è stata costretta ad andare da Vespa a spiegare che le armi a Zelensky non sottraggono risorse agli italiani. Ma una guerra che si protrae erode fatalmente consenso. Il compiacimento nel vedere dilaniarsi il Pd (partito che peraltro conta ancora un alto numero di sostenitori degli aiuti militari all’Ucraina) potrebbe avere un costo molto elevato, sul lungo periodo. Anche per la premier e per la credibilità dell’Italia. Bielorussia. Stile Lukashenko: 10 anni in cella per il Nobel Bialatski Il Manifesto, 4 marzo 2023 Storico attivista pro-democrazia e fondatore dell’associazione Viasna, era stato arrestato a luglio 2021 dopo le proteste di massa contro la dittatura. La notizia del Nobel per la pace l’aveva ricevuta in carcere, lo scorso ottobre. Ora, cinque mesi dopo, l’attivista bielorusso Ales Bialiatski ne riceve un’altra: condanna a dieci anni di prigione per “contrabbando di ingenti somme di denaro e finanziamento di attività di gruppi che hanno gravemente violato l’ordine pubblico”. A monte del premio e della condanna, la stessa motivazione: il lungo attivismo pro-democrazia di Bialiatski, il 60enne fondatore e anima dell’associazione per i diritti umani Viasna (Primavera), nata nel 1996 e impegnata nel sostegno ai prigionieri politici del regime di Lukashenko, stretto alleato di Putin e da molti descritto come l’ultimo dittatore europeo. Quell’anno, nel 1996, con un emendamento costituzionale - e con l’arresto di massa di chi protestava - Lukashenko aveva sancito il proprio potere a vita. In prigione, l’ultima volta, Bialiatski era finito a luglio 2021, in un periodo particolare: l’anno precedente erano scoppiate proteste enormi contro Lukashenko e la sua contestata vittoria alle elezioni, durate un anno nonostante la brutale repressione. Un anno e mezzo dopo l’arresto è arrivato il Nobel, condiviso insieme alla storica associazione russa Memorial e quella ucraina Centro per le libertà civili. Aveva fatto infuriare tutti quel premio, Mosca, Kiev e Minsk. Intanto il processo contro Bialiatski è proseguito. Non era solo, alla sbarra anche il vice presidente di Viasna, Valiantsin Stefanovich, e Uladzimir Labkovich, avvocato dell’associazione. Il primo è stato condannato ieri a nove anni, il secondo a sette. Verdetto “crudele”, ha detto la moglie di Bialiatski, Natalya Pinchuk. Di tortura parla Viasna raccontando le condizioni di prigionia: “Sono confinati da mesi in un edificio del XIX secolo, celle buie senza aria fresca, con poco cibo e quasi nessuna cura”. Anche la Ue condanna: “Processi farsa”, dice il capo degli affari esteri Josep Borrell.