Nelle carceri italiane puniamo i crimini violando la Costituzione di Alessandra Ferrara frammentirivista.it, 3 marzo 2023 Nel 2022 in Italia si è registrato il record di suicidi in carcere. Sovraffollamento, servizi carenti e condizioni inadeguate sono solo alcuni dei problemi atavici delle carceri italiane. Nelle ultime settimane, il caso dell’anarchico Alfredo Cospito, detenuto in regime di 41 bis, ha riportato l’attenzione mediatica sia sulle pene detentive, sia sulla qualità della vita nelle carceri italiane. Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, nel rapporto di fine anno ha denunciato 87 suicidi negli istituti penitenziari italiani nel 2022. Tale dato, dice Gonnella, è il più alto dal 2009, anno in cui i suicidi in carcere sono stati 72. Ad oggi, nelle carceri italiane si perde la vita venti volte in più che nel mondo libero; si conta una media di un detenuto suicida su 670 in ogni struttura. I dati relativi alle carceri italiane - Ogni anno, l’Osservatorio di Antigone si impegna, fa sopralluoghi nelle varie strutture e redige report sulle condizioni strutturali, il clima detentivo e il rispetto del diritto penitenziario. Il lavoro di operatori ed operatrici dell’Osservatorio è orientato dalle norme del Comitato europeo per la Prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti del Consiglio d’ Europa. Ciò che emerge dai dati statistici condivisi dall’associazione è molto preoccupante. I dati riferiti all’anno 2022 riportano che, per quanto riguarda le condizioni delle celle, solo il 58,7% di esse garantisce uno spazio di 3 mq calpestabili per persona, solo il 45,7% ha acqua calda tutto l’anno e il 55,4% comprende una doccia. Per quanto riguarda la socialità, nell’8,7% delle strutture non c’è uno spazio comune, nel 66,3% dei casi ci sono spazi per le attività lavorative e il 37% degli istituti penitenziari ha un campo sportivo. Le percentuali, come possiamo notare, non sono alte, ad eccezione degli spazi per corsi scolastici e di formazione che sono presenti nel 95,7% delle strutture. Carceri sovraffollate - Uno dei problemi più importanti dei nostri istituti di pena è il sovraffollamento, il cui tasso a livello nazionale è del 107,7%: insomma, ci sono 57mila detenuti a fronte di una capienza regolamentare delle strutture detentive che potrebbe ospitare al massimo 51mila persone. Il sovraffollamento è prodotto anche dall’uso del carcere non solo come misura punitiva ma anche cautelare: molti detenuti sono persone in attesa di giudizio o di riesame che potrebbero stare ai domiciliari. Per di più la criminalizzazione di alcuni fenomeni sociali rende le celle gremite: persone affette da tossicodipendenza e problemi psichiatrici vengono incarcerate anziché essere indirizzate in strutture specializzate. L’articolo 27 della Costituzione afferma che la pena è personale, non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e mira alla rieducazione del condannato. In tal senso, la detenzione in carcere consiste in una misura punitiva che sanziona il reato commesso, alla quale però deve accompagnarsi sempre l’aspetto rieducativo. Nella condizione di sovraffollamento però diventa difficile rieducare: le cure mediche fornite, gli sforzi di prevenzione dei problemi legati alla salute mentale, la presenza di educatori e mediatori non sono abbastanza di fronte a questi numeri di detenuti da capogiro. Al 31 dicembre 2022 una panoramica totale delle carceri italiane stima la presenza di un agente penitenziario ogni 1,8% detenuti e un educatore ogni ottanta. Il caso del “detenuto che dorme” - A prova di ciò, ad ottobre 2022 fece scalpore il caso di un detenuto, di 28 anni e in attesa di giudizio, che trascorreva giornate e notti nel carcere a Regina Coeli soltanto dormendo. Grazie alla denuncia di Susanna Marietti di Antigone, il ragazzo, soprannominato “il detenuto che dorme” oppure “il simulatore”, è stato trasferito nel carcere di Secondigliano per eseguire accertamenti medici e ricevere cure adatte al fine di indagare il suo stato di salute. Prima della visita della coordinatrice di Antigone, il detenuto era in quelle condizioni da quattro mesi. Medici ed infermiere lo assistevano come un vegetale senza eseguire approfondimenti diagnostici. Discriminazione fuori e dentro il carcere - Esiste anche il tema della composizione della popolazione di detenuti: la percentuale dei detenuti stranieri in Italia è superiore alla media europea di 11 punti e, secondo il Dipartimento penitenziario, gli immigrati costituiscono ben il 32% del totale degli individui in carcere. Questo dato trova il suo fondamento nei pregiudizi e nel razzismo, che esasperano le barriere culturali, socioeconomiche, di classe e linguistiche, esponendo gli stranieri a un rischio maggiore sia di delinquenza che di detenzione. In carcere la situazione non migliora, bensì l’assenza di equità persiste: la carenza del personale autorizzato nelle case di pena riguarda anche mediatori e traduttori, i quali sono incaricati di costruire un ponte di equilibrio e inclusività per prevenire l’emarginazione. Minoranze e libertà di culto nelle carceri italiane - Tra diritti fondamentali vi è inoltre la libertà di culto, poiché coltivare la propria identità religiosa in modo corretto e non fuorviato è uno strumento importante di pentimento e riabilitazione. Eppure tale diritto spesso non viene garantito alle minoranze. Di norma i rappresentati religiosi di ogni culto devono incontrare i detenuti e garantire le funzioni religiose settimanalmente, in uno spazio consono e consacrato secondo la legge 354/1975 dell’ordinamento penitenziario. L’Islam è la seconda religione più diffusa tra i detenuti dopo quella cattolica, un indicatore significativo è rappresentato dalla grossa componente magrebina in regime di detenzione che supera le oltre 8 mila unità. Considerato anche la provenienza asiatica e africana, la percentuale arriverebbe a un detenuto su tre di fede musulmana. Durante la preghiera hanno bisogno di spazio, acqua per abluzioni, tappeto e della giusta direzione verso Mecca. Il problema del sovraffollamento rende impossibile svolgere le preghiere del venerdì in cella: se non c’è abbastanza spazio è impossibile pregare. Inoltre, le visite degli Imam ai detenuti sono molto limitate. Un altro punto critico è la messa a disposizione del cibo halal, che non è garantita in tutti gli istituti. Solo nel 2015, grazie ad un progetto pilota dell’UCOII, 8 prigioni in tutta Italia hanno garantito cibi halal, oltre a spazi e possibilità di momenti spirituali per i detenuti musulmani. La pandemia e l’orrore di Santa Maria Capua Vetere - La situazione nelle carceri italiane è peggiorata con la pandemia di Covid-19, che ha causato la diminuzione della frequenza dei colloqui, delle ulteriormente carenti assistenza medica e organizzazione delle attività. Per altro, con il D.L. 8 marzo 2020 n°11, si è applicato anche il regime di chiusura totale delle porte delle carceri per evitare di avere un paziente zero tra i detenuti. L’ondata pandemica ha lasciato delle grosse crepe che faticano a chiudersi. Il 2020 non è stato solo l’anno della pandemia, ma anche quello della mattanza di Santa Maria Capua Vetere. Il 6 aprile 2020, 283 poliziotti, provenienti anche da altri istituti, sono entrati in carcere e hanno massacrato di botte per circa quattro ore e mezza i detenuti del reparto Nilo, che ospita condannati per crimini minori. La spedizione punitiva degli agenti penitenziari si è scagliata sui detenuti in quanto rei di aver protestato per ottenere dispositivi di protezione individuale per evitare il contagio. Botte, sevizie, minacce sono state denunciate dai familiari dei detenuti e confermate attraverso i filmati delle telecamere. Ad oggi sono 200 le persone sotto indagine o condannate per il pestaggio. Nel 2013 l’Italia è già stata condannata dalla Corte europea per i diritti umani per le condizioni degradanti dei detenuti, venendo ritenuta responsabile della violazione dell’art. 3 della CEDU. Alla luce di quanto emerso, è ancora lunga ma necessaria la strada per garantire tutti i servizi necessari affinché le carceri italiane diventino davvero un luogo di rieducazione e preparazione ad una nuova vita. Caso Cospito, De Luca: “Il 41 bis non può diventare pena di morte mascherata” di Claudio Mazzone Corriere del Mezzogiorno, 3 marzo 2023 “È chiaro che lo Stato non accetta i ricatti, ma non si può trasformare questo detenuto in un simbolo di terrore e di pericolo per la sicurezza nazionale e mi pare che sarebbe sbagliato non far prevalere un elemento di umanità”. Con queste parole il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca ha risposto ad una domanda di Antonio Di Muro, uno studente del liceo scientifico Severi di Salerno. Il quesito era sulla costituzionalità del 41 bis e De Luca era ospite di quell’istituto per il progetto “W…è viva la Costituzione”. Pur senza nominare Alfredo Cospito, detenuto in regime di carcere duro in quanto capo della Federazione Anarchica Informale e in sciopero della fame, De Luca ha pronunciato parole chiare sull’anarchico. “Non mi piace - ha detto agli studenti - il dibattito che si è sviluppato sul 41 bis. Sono d’accordo con questa misura ma non la si può trasformare in una forma di pena di morte mascherata. La costituzione - ha continuato il governatore sancisce che la carcerazione deve recuperare anche dei peggiori delinquenti”. Una posizione che ha subito scatenato la polemica politica. Il commissario regionale di Fratelli d’Italia in Campania, Antonio Iannone, ha condannato l’intervento del governatore. “De Luca pacifista e permissivista - ha detto Iannone - sarebbe una barzelletta se non fosse grave il fatto di trasmettere agli studenti che Cospito è una vittima dello Stato. Un’irresponsabile rappresentazione di un delinquente che non riconosce lo Stato, che si è macchiato di gravi crimini di cui dovrebbe chiedere scusa alle vittime e ai familiari, che ha intrattenuto rapporti con le Brigate Rosse inneggiando alla violenza politica. De Luca è in confusione e trasmettere questi messaggi agli studenti è assolutamente diseducativo. Capiamo le sue origini comuniste ma avrebbe dovuto maturare un po’ di senso delle Istituzioni”. Attacco al 41 bis: è la linea Cospito di Aaron Pettinari antimafiaduemila.com, 3 marzo 2023 In una lettera si dice pronto a morire. E la difesa prepara ricorso alla Cedu. Pochi giorni dopo il suo ritorno nel padiglione del Servizio assistenza intensificata del carcere di Opera Alfredo Cospito, l’anarchico detenuto in regime di 41 bis, in sciopero della fame da 133 giorni torna a trasmettere il proprio messaggio. Lo ha fatto con una missiva letta ieri durante la conferenza stampa che si è tenuta nella sala Nassiria del Senato, in cui ha partecipato il suo legale, l’avvocato Flavio Rossi Albertini. Poche parole in cui è tornato ad esprimere i motivi della propria battaglia, ovvero cancellare il 41 bis, non solo per sé stesso, ma per tutti i detenuti sottoposti al regime carcerario speciale. Nella missiva l’anarchico si dice “pronto a morire per far capire al mondo cosa sia veramente il 41 bis”. Quindi aggiunge: “Sono convinto che la mia morte porrà un intoppo a questo regime - prosegue la lettera - e che i 750 che lo subiscono da decenni possano vivere una vita degna di essere vissuta, qualunque cosa abbiano fatto. Amo la vita, sono un uomo felice non vorrei cambiare la mia vita con quella di un altro e proprio perché l’amo non posso accettare questa non vita senza speranza”. Sul caso Cospito abbiamo già evidenziato i punti critici e il fatto che la battaglia viene espressamente condotta dall’anarchico anche per i boss mafiosi rende ancor più stringenti i parametri di valutazione. Perché se in principio di massima all’inizio sarebbe stata sufficiente la detenzione in alta sicurezza, oggi la questione è decisamente più delicata. La Cassazione ha stabilito che il provvedimento nei confronti di Cospito, a cui il ministro Nordio ha confermato il 41 bis, è stato ritenuto legittimo. Nei giorni scorsi l’ex consigliere togato del Csm, Sebastiano Ardita, ha evidenziato come sul 41 bis si stiano scatenando polemiche sterili. “In un tema così delicato lo Stato non può essere in balia della pubblica opinione: un giorno buonisti, un giorno inflessibili. In un Paese serio si stabilisce una linea e la si difende”. E ancora aggiungeva: “Dovremmo smetterla con questo dibattito da strada sul 41 bis, rimettendo le cose in ordine, distinguendo compiti e responsabilità tra politica e magistratura, e ragionando sulle conseguenze sistemiche delle scelte su singole vicende come il caso Cospito”. Ugualmente il magistrato evidenziava le problematiche del regime di alta sicurezza che “con le celle aperte e la riduzione dei controlli, di fatto è bassa sicurezza. Per cui i pm chiedono 41 bis anche a chi non ne avrebbe bisogno”. C’è dunque un problema carceri che il Governo dovrebbe risolvere in maniera seria, con il rischio concreto che il 41 bis salti, anche perché “vi si ricorre con troppa leggerezza, esponendolo a rischi di tenuta”. In mancanza di un dibattito serio proteste come quella di Cospito trovano un certo consenso da parte dell’opinione pubblica e nel Paese stanno aumentando le proteste. Oggi a Milano c’è una protesta davanti la sede di Fratelli d’Italia e sabato a Torino è attesa un’altra manifestazione. Dal Viminale fanno sapere di aver innalzato il livello di attenzione per prevenire profili di rischio connessi ad eventuali minacce alla pubblica sicurezza. Intanto il legale Albertini va avanti e annuncia di essere pronto a fare ricorso alla Cedu per un provvedimento d’urgenza. Certo è che sul 41 bis e l’ergastolo ostativo, che sarà oggetto di discussione in Cassazione il prossimo 8 marzo, la partita è apertissima. E come abbiamo già detto in passato, non riguarda solo l’anarchico Cospito, ma tutti quei boss che al momento stanno a guardare, incrociando le dita. Nordio: dal Marocco impegno per la ratifica dell’accordo sul trasferimento dei detenuti di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2023 Gli ospiti delle carceri italiane con cittadinanza marocchina sono 3500 i più numerosi tra gli stranieri. Il rientro dei detenuti al centro dell’incontro tra il ministro della Giustizia Nordio e il suo omologo del Marocco. I detenuti di nazionalità marocchina sono i più numerosi tra gli stranieri che scontano la pena detentiva in Italia. Attualmente, gli ospiti nei penitenziari nazionali sono 3500, di cui 2360 condannati in via definitiva. I reati più contestati sono quelli contro il patrimonio, seguiti dalla violazione delle norme sugli stupefacenti e, infine, i reati contro la persona. Per parlare del trasferimento dei detenuti con cittadinanza marocchina, il ministro della giustizia Carlo Nordio, ha incontrato questa mattina nel suo studio in via Arenula l’omologo del Marocco, Abdellatif Ouahbi. Al centro della visita il tema dell’ulteriore rafforzamento dei programmi di collaborazione giudiziaria tra i due Paesi. E, in particolare la finalizzazione di accordi per il trasferimento delle persone detenute e l’assistenza giudiziaria in materia penale. L’accordo del 2014 - Il Guardasigilli ha raccomandato una tempestiva ratifica della Convenzione tra Italia e Marocco sul trasferimento delle persone condannate, siglata a Rabat il 1°aprile 2014, insieme all’accordo sull’estradizione. Intese finalizzate allo sviluppo della cooperazione bilaterale per trasferire nello Stato di cittadinanza i cittadini detenuti nel territorio dell’altro Stato contraente, consentendo ai condannati di scontare la pena nel loro paese di origine. Un impegno assunto da Abdellatif Ouahbi, che ha dato- si legge nella nota di Via Arenula - la massima assicurazione per giungere ad un celere completamento dell’iter. I due ministri hanno anche concordato di istituire un gruppo di lavoro congiunto, attuare concretamente i trattati una volta entrati in vigore. “Dalla parte di Antigone”, primo rapporto sulle donne detenute in Italia antigone.it, 3 marzo 2023 L’8 marzo 2023 Antigone presenta “Dalla parte di Antigone”, primo rapporto sulle donne detenute in Italia. Con esso si intende offrire uno sguardo completo su tutte le carceri e le sezioni femminili nel nostro Paese, comprese quelle minorili e i reparti che ospitano detenute trans collocate nelle sezioni femminili. Le donne in carcere in Italia sono una minoranza della popolazione detenuta, ma scontano il peso di un sistema detentivo plasmato sulle esigenze, i bisogni e la peculiarità maschili. All’interno del Rapporto ci saranno tutti i dati relativi alle presenze, alle tipologie di reato, alla criminalità femminile, alle misure alternative, alle nazionalità, alle età, ai bambini con le mamme. Ma anche analisi e approfondimenti sulla vita interna alle carceri femminili, i bisogni specifici, il personale dell’amministrazione e tanto altro. Verranno inoltre riportate alcune storie, anche attraverso contributi video e audio. La presentazione del rapporto si terrà a partire dalle ore 10.00 presso il Senato della Repubblica, Palazzo Giustiniani, Sala Zuccari, Via della Dogana Vecchia, 29 - Roma. Sarà possibile seguire l’incontro anche in diretta sulla Web Tv del Senato. Interverranno (elenco in ordine alfabetico): Stefano Anastasia - Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio; Stefania Ascari - Deputata; Lucia Castellano - Provveditrice regionale della Campania; Ilaria Cucchi - Senatrice; Cecilia D’Elia - Senatrice; Mauro Palma - Garante Nazionale delle persone private della libertà; Elisabetta Piccolotti - Deputata; Tamar Pitch - Componente del Comitato Scientifico di Antigone e Direttrice della rivista Studi sulla Questione Criminale; Anna Rossomando - Senatrice; Russo Giovanni - Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria; Stefanelli Cira - Dirigente dell’Ufficio I della Direzione del personale, delle risorse e per l’attuazione dei provvedimenti del giudice minorile del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità. Per partecipare è necessario accreditarsi entro il 6 marzo 2023 inviando una mail a segreteria@antigone.it e indicando il proprio nominativo. Si ricorda che per accedere alla sala è richiesto un abbigliamento consono e, in particolare, che per gli uomini è obbligatorio indossare giacca e cravatta. “L’abuso d’ufficio ha creato solo problemi. Un reato da cancellare” di Stefano Zurlo Il Giornale, 3 marzo 2023 Il legale ed ex parlamentare Paniz sposa la linea Nordio: “Certe norme peggio di un indovinello”. Prima di Natale, Carlo Nordio si era espresso per l’abolizione. Giorgia Meloni è stata più cauta e ha parlato di modifiche. Maurizio Paniz, avvocato e per 12 anni parlamentare di Forza Italia e del Pdl, è in linea con il Guardasigilli: “Io sono per toglierlo di mezzo”. Perché? “Perché l’abuso d’ufficio crea molti più problemi di quelli che risolve. È lo spauracchio dei pubblici amministratori, dai sindaci ai funzionari, che magari in perfetta buona fede interpretano male una delle mille norme bizantine che riempiono i nostri codici e subito dopo finiscono nel registro degli indagati. Ma poi, quando si scopre che al massimo sono scivolati su concetti oscuri e complicati, vengono prosciolti o assolti. Ecco, faccia conto che le condanne non arrivano all’1 per cento dei procedimenti avviati”. Quindi la macchina giudiziaria fa solo fumo? “Esatto, per questa ipotesi di reato. Io mi chiedo: con tutti i problemi che abbiamo, con la lentezza dei nostri procedimenti giudiziari e l’arretrato che ci portiamo dietro come una palla al piede, ha senso tenere un reato di questo tipo?”. Un attimo. Ai tempi di Mani pulite l’abuso d’ufficio era considerato l’anticamera di una probabile corruzione, un reato sentinella. Dobbiamo togliere questo presidio della legalità solo perché è un’arma imprecisa? “Ma trent’anni il reato copriva un’area molto più estesa, poi è intervenuta una serie di riforme e di interpretazioni e ne è stata radicalmente modificata la struttura”. E cosa è cambiato? “Si è allargato il perimetro della corruzione e si è stretto quello dell’abuso: quando l’interesse è legato ai soldi si slitta fatalmente, nove volte su dieci, nella corruzione. Ma, se non ci sono le banconote, l’abuso, per quanto abbia fatto la cura dimagrante, resta un reato indefinito e generico, vago, che non si riesce quasi mai a dimostrare”. Per Nordio su 5mila procedimenti aperti, solo 20 arrivano nell’arco di un anno alla condanna. Troppo poco? “Questi numeri sono briciole. Però migliaia di indagini per l’abuso d’ufficio vengono iniziate con costi importanti, dispendio di energie, avvisi di garanzia che atterrano sui giornali e sofferenze per gli indagati. Si crea un clima di sospetto e poi tutto, molto spesso, evapora o al momento della richiesta di rinvio a giudizio o in tribunale o nei gradi successivi. In Italia è facilissimo violare una norma, una fra le tante, ma è difficilissimo stabilire se chi l’ha fatto ha davvero avuto la coscienza e la volontà di commettere l’illecito. Devono esserci tanti paletti per concretizzare questo reato, tutti contemporaneamente, ma questo non avviene quasi mai”. Ma come si esce da questa situazione? “Se le leggi sono scritte male, non è che possiamo metterci a inquisire o peggio arrestare tutti quelli che cercano di applicarle e prima o poi sbagliano”. E allora? “Dovrebbe essere il legislatore a intervenire con testi chiari, semplici, di facile lettura. Non è che possiamo colpevolizzare e portare sul banco degli imputati tutto il ceto politico perché a volte le norme sono peggio di un indovinello. E, fra l’altro, questa situazione genera un altro grave problema”. La paura della firma? “Certo, un tema di cui si è discusso infinite volte. L’amministratore prima di firmare un atto è spesso costretto a interpellare il legale o uno specialista per sapere se rischia qualcosa mettendoci il suo nome. E comunque anche così va spesso incontro a possibili vicissitudini che rallentano l’iter amministrativo e in definitiva mettono in ginocchio tutto il Paese”. In conclusione, cosa propone? “Via l’abuso d’ufficio. Senza rimpianti. E avanti decisi invece, quando c’è, con la corruzione, che riguarda i soldi ma anche tante altre forme di malaffare da punire severamente”. Fare il processo alla pandemia: l’ultima frontiera del panpenalismo di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 3 marzo 2023 La procura di Bergamo chiude l’inchiesta sul Covid: “Il nostro dovere è soddisfare la sete di verità della popolazione”. Ma è sensato indagare Conte e Speranza per “omicidio plurimo” colposo? “Il nostro dovere è soddisfare la sete di verità della popolazione”, così, testuali parole, il capo della procura di Bergamo Antonio Chiappani presenta ai lettori della Repubblica l’inchiesta sulla presunta malagestione dell’emergenza Covid che vede indagate 19 persone tra cui l’ex premier Giuseppe Conte, l’ex ministro della sanità Roberto Speranza e il presidente della regione Lombardia Attilio Fontana. Sono accusati di reati che, solo a pronunciarli, evocano atti di inaudita gravità: epidemia colposa aggravata e omicidio colposo plurimo, oltre al più ordinario rifiuto di atti di ufficio, reato di omissione. La posizione dei deputati Conte e Speranza è stata comunque stralciata e trasmessa al tribunale dei ministri, l’unico organismo competente per giudicarli. “Le vite nel bergamasco cadevano come birilli, c’è stata una catena di errori. Senza quegli errori, non avremmo avuto tutti questi morti”, sostiene il procuratore. Tre i filoni dell’indagine condotta dalla procuratrice aggiunta di Bergamo Cristina Rota assieme alla Guardia di finanza: le anomalie nella gestione dell’ospedale di Alzano, il mancato allestimento della zona rossa in Val Seriana e l’assenza di un piano pandemico aggiornato per contrastare la pandemia come raccomandato dall’Oms. Ci sono voluti tre lunghi anni, migliaia di documenti ufficiali, chat telefoniche, mail e cartelle cliniche passate al setaccio, per formulare le accuse: “È un tempo lungo, lo ammetto, ma sempre meno della politica”, graffia Chiappani che con la “politica” sembra avere il dente avvelenato. Già lo scorso anno, a indagini ancora in corso, rilasciò un’intervista al quotidiano Domani dando del bugiardo al ministro speranza: “Non ha raccontato cose veritiere, anche questo è un aspetto che dovremo valutare”. Al di là delle uscite inconsuete sui giornali, è l’impianto stesso dell’inchiesta bergamasca che lascia perplessi. L’idea di processare una pandemia che ha colto di sorpresa il mondo intero, mettendo in ginocchio governi e sistemi sanitari, dividendo e stressando la stessa comunità scientifica, sembra andare contro il semplice buon senso. Qualcuno ricorda il caos che regnava in Italia e poi in Europa e nell’intero pianeta all’inizio del 2020? Proveniente dalla Cina, il Covid 19 sembrava un morbo inarrestabile e il nostro paese è stato il primo a dover fronteggiare il virus, a vivere la situazione apocalittica negli ospedali con i reparti di terapia intensiva giunti allo stremo, con il macabro bollettino dei morti, le code davanti i supermercati, il confinamento e il coprifuoco che non si vedevano dai tempi della Seconda guerra mondiale. Mentre in tv virologi ed epidemiologi diventavano i nuovi sacerdoti, lanciandosi in ipotesi e scenari spesso contraddittori, a volte litigando tra di loro. Il governo Conte ha in tal senso preso le misure più dure e tempestive di tutti i paesi europei, a volte con effetti grotteschi come gli elicotteri che inseguivano i bagnanti nelle spiagge o i poliziotti a caccia nei parchi pubblici di appassionati di jogging. Ad esempio in Francia, Germania, Spagna, Olanda, Inghilterra e altre nazioni le autorità hanno avuto complessivamente un approccio più blando, limitando i lockdown e le varie restrizioni, specialmente i paesi protestanti, per i quali il rispetto della libertà individuale prevale persino sul diritto alla salute pubblica. E alla fine il bilancio delle vittime è stato più o meno simile per tutti perché ben poco si poteva fare per arrestare le prime terribili ondate. Sono stati commessi degli errori da parte del governo e dei dirigenti sanitari locali? Senz’altro ma sarebbe assurdo pretendere una reazione infallibile di fronte a un’emergenza così oscura e inedita. Il Covid 19 era una malattia sconosciuta contro la quale non esistevano difese e inizialmente fu sottovalutata da tutti. Questo lo sa anche il procuratore di Bergamo, cosciente dei limiti della sua inchiesta e sui tratti sfuggenti del reato di epidemia colposa: “Stando alla Cassazione, c’è un problema di configurabilità, ne siamo consapevoli, magari qualcuno sarà prosciolto, qualche posizione sarà archiviata, o i giudici riterranno che non si debba procedere”. L’indagine sul Covid affidiamola ai sociologi. I Pm che fanno tutto fuorché i Pm di Tiziana Maiolo Il Riformista, 3 marzo 2023 La procura lombarda s’improvvisa sociologa, storica, politica. Assume quasi una veste religiosa. Ma il punto è solo giuridico: davvero qualcuno pensa che Conte, Speranza e tutta la cabina di regia abbiano, sia pure involontariamente, diffuso “germi patogeni”? Nella lombarda Bergamo la Procura della Repubblica che indaga sull’epidemia da Covid del 2020 assume la veste dello storico, del sociologo e soprattutto del politico. Quasi in veste religiosa. Ora però, se non crediamo di abitare in luoghi dove l’unica legge è quella religiosa della sharia, ma crediamo nella laicità dello Stato, dobbiamo porci alcune questioni semplici di diritto. Quando un comportamento umano ha la forza di rompere il patto con lo Stato fino a diventare reato? Certe decisioni politiche, come dichiarare una zona rossa o programmare un lockdown, sono compito di chi ci governa o della magistratura? Riscrivere la storia. Ci risiamo, non più solo in Calabria e in Sicilia, anche nella lombarda Bergamo la procura della repubblica che indaga sull’epidemia da Covid del 2020, assume la veste dello storico, del sociologo e soprattutto del politico. Quasi in veste religiosa. Così, in controtendenza con quanto accaduto in tutta Italia e nel mondo, decide di non archiviare le centinaia di esposti presentati da parenti mal consigliati di persone decedute a causa del virus e chiede il rinvio a giudizio di mezzo mondo. L’ex premier Giuseppe Conte e l’ex ministro Roberto Speranza, prima di tutto. E al riguardo non è chiaro dal punto di vista procedurale (occorre sempre ricordare che la forma è sostanza) per quale motivo i pm abbiano interrogato a Roma gli esponenti del governo come persone informate sui fatti. Sono accaduti fatti nuovi da quel giorno? Diversamente avrebbero dovuto spogliarsi immediatamente di quella parte dell’inchiesta e inviare gli atti al tribunale dei ministri di Brescia. Ci sono poi i governanti regionali, il presidente lombardo Attilio Fontana e l’ex assessore Giulio Gallera. E anche i dirigenti dell’Istituto superiore di sanità e della Protezione civile. Diciannove persone in tutto, l’intera cabina di regia che si trovò d’improvviso sotto le macerie di un terremoto repentino, tremendo e sconosciuto per natura e virulenza. Aveva questa cabina di regia le conoscenze sanitarie e gli strumenti per reagire immediatamente e in modo proficuo per evitare i contagi e le morti? La risposta è una sola: no. Eravamo a mani nude, ha detto e ripetuto Giulio Gallera, che ha anche pagato sul piano elettorale la gogna costante giocata fino all’ultimo giorno dal cinismo petulante dei travaglini. Ora però, se non crediamo di abitare in luoghi dove l’unica legge è quella religiosa della sharia, ma crediamo nella laicità dello Stato, dobbiamo porci alcune questioni semplici di diritto. Il nodo centrale è: quando un comportamento umano ha la forza di rompere il patto con lo Stato fino a diventare reato? E ancora: certe decisioni politiche, come quella di dichiarare zona rossa un certo quartiere o aggregato di paesi, piuttosto che programmare un lockdown è compito di chi ci governa o della magistratura? Se ne facciano una ragione anche i cittadini riuniti in molto rumorosi comitati, ma le decisioni politiche non sono compito neppure delle aggregazioni di parenti e amici. Se ne faccia una ragione anche l’onorevole senatore Andrea Crisanti, che, come dice oggi anche nella sua nuova veste politica, avrebbe avuto il compito, come consulente della procura di Bergamo, di “restituire la verità” sul quel che è accaduto nel bergamasco all’inizio del 2020. No, onorevole senatore, lei sarà sicuramente il migliore scienziato del mondo, il migliore esperto in parassitologia, ma sulla giustizia penale le mancano i principi fondamentali. Il rappresentante dell’accusa non è un sacerdote. Deve semplicemente, di fronte a una notizia di reato, accertare se vi siano responsabilità e di chi. Ma occorre prima di tutto che ci sia il reato. E questo, se permette, non lo decide lei. Così arriviamo al punto giuridico centrale, il reato di epidemia colposa, che viene contestato dalla procura di Bergamo, unica al mondo, ripetiamo, a tutti i soggetti, politici e sanitari, che composero la famosa cabina di regia che, “a mani nude”, dovette affrontare qualcosa di grave e conosciuto, al momento, solo in un luogo del mondo, la Cina, i cui responsabili furono come sempre per abitudini e cultura, reticenti più che riservati. Sicuramente il procuratore capo di Bergamo Antonio Chiappani e il suo pool di investigatori conoscono la giurisprudenza di legittimità sull’articolo 452 del codice penale, quello che riguarda i “delitti colposi contro la salute pubblica” e punisce chiunque commetta per colpa il reato di cui all’articolo 438 cp, cioè il reato di epidemia “mediante la diffusione di germi patogeni”. La cassazione a sezioni riunite si è espressa più volte e in modo inequivocabile: perché esista il reato occorre un comportamento attivo. Ora, qualcuno può sostenere che Conte, Speranza e tutti gli altri indagati abbiano in qualche modo, sia pure involontariamente, diffuso “germi patogeni”? Chi sta illudendo tutte queste persone che sono state trascinate in comitati vari, del fatto che avranno “verità” e “giustizia” per via giudiziaria sulla morte dei propri parenti, sta giocando col fuoco. E anche con le vite degli indagati. È bene sappia anche chi non conosce i codici, che il reato di epidemia colposa prevede la reclusione da uno a cinque anni e, se dal fatto deriva la morte di qualcuno, da tre a dodici anni. Ma qualcuno crede davvero che ci sarà mai un tribunale ad assumersi la responsabilità di considerare come “untori” quegli uomini, sia sanitari che politici di opposti schieramenti, che davanti a un fenomeno grave e sconosciuto fecero l’umanamente possibile per affrontarlo nel modo migliore? Bisogna considerare anche il fatto che, come ci ricordano le ripetute sentenze della cassazione a sezioni riunite (per esempio la sentenza n. 756 dell’11 gennaio 2008), il concetto di epidemia rilevante dal punto di vista penale non coincide con la qualificazione in ambito sanitario, ma è più ristretto. Va infatti rilevato quanto il fenomeno sia dimensionato dal punto di vista quantitativo e anche quanto sia rilevante l’intervallo di tempo entro il quale si verifica il contagio. Non sono questioni di lana caprina. E non è un caso se le inchieste aperte in tutta Italia siano ormai archiviate, mentre nel resto del mondo probabilmente ci si domanda perché l’Italia sia diventata, più che un Paese di poeti e navigatori, ormai la patria dei pubblici ministeri, che aprono fascicoli su tutto. Per completare il ragionamento, occorre esaminare anche i casi di “condotte omissive”, cioè i comportamenti per esempio del medico o del dirigente di un ospedale o casa di riposo, fino ai soggetti politici, locali o regionali e nazionali, che trascurano di compiere il proprio dovere con la diligenza del buon padre di famiglia. Anche in questo caso la cassazione è tassativa, proprio perché l’articolo 438 del codice penale, con l’espressione “mediante la diffusione di germi patogeni” indica esplicitamente che occorra un comportamento attivo, “commissivo” perché esista il reato (per esempio, sentenza n. 9133 del 2018). Occorre inoltre anche il nesso di causalità tra le eventuali imprudenze e omissioni e le morti. E qui siamo alle famose prove diaboliche. Perché sarà necessario, per dimostrare che un determinato comportamento ha determinato la morte del malato, ricostruire ogni singolo caso, studiare ogni cartella sanitaria e valutare la situazione preesistente di ogni soggetto e ogni altra patologia, a prescindere dal contagio per Covid. Come se esistesse la possibilità di monitorare giorno per giorno lo stato di salute di tutti i cittadini. Un girone infernale, ecco che cosa è questa inchiesta. Che dovrebbe servire, secondo il procuratore di Bergamo, “non solo a valutazioni di carattere giudiziario, ma anche per valutazioni scientifiche, epidemiologiche, di sanità pubbliche, sociologiche e amministrative”. Ecco la sharia che prevale sullo Stato di diritto. Laico. 41 bis, limiti ai colloqui telefonici con il familiare sottoposto allo stesso regime di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2023 Al detenuto al 41-bis non può essere riconosciuto un diritto incondizionato ai colloqui telefonici e visivi a distanza, con il familiare sottoposto allo stesso regime speciale. L’esigenza di assicurare il diritto a coltivare la relazione con il parente non può, infatti, andare a discapito della sicurezza interna dell’istituto o pubblica. Il punto di equilibrio, nel contemperare i diversi interessi in gioco, sta nel valutare volta per volta tutti gli elementi che potrebbero impedire l’accesso al beneficio. Dando un peso anche al parere, non vincolante, contenuto della Direzione distrettuale antimafia. Partendo da questo principio la Cassazione, ha accolto il ricorso della casa circondariale e del ministero della Giustizia, contro l’ordinanza con la quale il Tribunale di sorveglianza aveva dato assecondato la richiesta di detenuto al 41-bis di recuperare i colloqui telefonici con la sorella, sottoposta anche lei al regime differenziato, che erano stati negati dall’amministrazione penitenziaria. La difesa del detenuto, in quell’occasione, aveva invocato proprio un precedente della Suprema corte (sentenza 7453/2015) con il quale i giudici di legittimità avevano affermato che il diritto al colloquio visivo con i congiunti, o alla telefonata sostitutiva, del sottoposto al 41 bis ha natura soggettiva. E va garantito anche se il familiare sconta la pena con lo stesso regime. Questo senza ulteriori valutazioni discrezionali dell’autorità amministrativa e senza previo parere obbligatorio della Dda. Previsione quest’ultima contenuta in una circolare del Dap del 2017, considerata eccentrica rispetto allo scopo del trattamento. Frosinone. Detenuto morì in carcere, i parenti: “Vogliamo la verità” livesicilia.it, 3 marzo 2023 “Non ci fermeremo finché non saranno individuati i responsabili. Nostro figlio era affidato allo Stato che aveva il dovere di giudicarlo ma anche e soprattutto di proteggerlo. Troppi episodi oscuri intorno al decesso di nostro figlio. Non ci fermeremo, finché venga fatta giustizia e individuati i responsabili della morte di nostro figlio avvenuta in una cella del carcere di Frosinone”. Questa mattina i genitori Domenico e Rita e le sorelle Teresa e Maria, di Salvatore Lupo, morto il 16 dicembre 2019 mentre si trovava in attesa di giudizio presso la casa circondariale di Frosinone, si sono presentati in caserma ai carabinieri di Monreale, in provincia di Palermo, per presentare la denuncia affinché vengano effettuate indagini per fare luce sulla morte del loro congiunto di 31 anni. È stato presentato un esposto contro la direttrice della casa circondariale, il dirigente medico di turno la sera del decesso, il dirigente dell’ospedale Spaziani dove è stata effettuata l’autopsia sulla salma sul giovane detenuto, il consulente medico nominato dalla procura di Frosinone e il magistrato della procura di Frosinone titolare delle indagini. Ad assistere la famiglia del detenuto gli avvocati Salvino e Giada Caputo, Valentina Castellucci, Mauro Torti e Francesca Fucaloro. Napoli. L’Inferno di Dante? No, è Poggioreale di Elio Palombi e Alessandro Gargiulo Il Riformista, 3 marzo 2023 Nella mattinata del 28 febbraio, in compagnia di cari amici, tutti “familiari” di Nessuno tocchi Caino, siamo stati in visita al carcere di Poggioreale. Non è stata una visita di piacere, ovviamente, ma una visita di dolore, un’ispezione dello stato del luogo e dello stato d’animo di detenuti e detenenti. Ci sentivamo forti all’ingresso, sereni grazie anche alle nostre personali esperienze, non solo professionali. La forza la traevamo anche dal nostro gruppo, circa dieci, oltre gli scriventi, tra cui c’erano Argia di Donato, Vincenzo Improta, Marco Spena, Marcello Lala, Elena Cimmino, Amedeo Laboccetta, Elena Lepre e poi Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti (mancava tanto Rita Bernardini). Un caffè al bar di fronte, l’Angolo della libertà, mai nome più azzeccato, e poi dentro al luogo di privazione - non solo - della libertà. Dopo un briefing con i vertici, la direzione, la polizia penitenziaria, l’area educativa, una attenta discussione intorno ai numeri, alle condizioni di vita e ai copiosi programmi di trattamento. All’apertura immediata delle menti seguiva anche l’apertura dei cuori e allora tutto si trasformava in incontro, dialogo con amministratori del carcere straordinari, sinceri, seri e impegnati a ridurre il danno che la fatiscente, anacronistica struttura arreca. Siamo stati accompagnati a visitare le celle e i carcerati, a toccar con mano - nelle due sezioni più sconfortanti dell’istituto - il disastro, il disagio, i metri quadri di vita negata; mai bastevoli, perché gli applicativi informatici e le sentenze di Supreme Corti non sono riusciti a rendere umano ciò che, nello scrivere i padri costituenti la Carta fondamentale, appare ancora oggi tanto rivoluzionario, quanto fallimentare nella mancata realizzazione. Se la pena deve essere anche e soprattutto certezza del diritto del condannato, ebbene questo diritto deve essere declinato proprio nei termini descritti e imposti dalla Costituzione: non può esserci carcere senza rieducazione del detenuto. A Poggioreale la rieducazione è un’opera difficile o inesistente, non tanto per mancanza di educatori, ma perché otto e anche dieci uomini sono costretti a vivere in ventiquattro metri quadrati o poco più e, alle volte, anche meno. Ore d’aria? A volte solo due su ventiquattro, poi, sempre in quei pochi, sporchi, ammuffiti metri quadri arricchiti da un piccolo lavandino, un cesso e non sempre la doccia e non sempre l’acqua calda. Poggioreale ha più di cento anni, li porta malissimo, andrebbe abbattuto, ma è sotto l’egida della soprintendenza ai beni artistici? culturali? chissà? Tant’è che anche eventuali lavori di ristrutturazione e rifacimento - in presenza di fondi che pure esistono in cifra con molti zeri - soggiacciono alle medesime tragiche lungaggini burocratiche che caratterizzano in Italia, famosa anche per questo, il mondo di mezzo degli appalti e delle opere pubbliche. Poggioreale - ma più in generale il mondo delle carceri italiane - girone infernale dantesco reale, costringe gli agenti di Polizia Penitenziaria a respirare il male, la sofferenza, sottopagati, vecchi, età media 53 anni. Allora sovviene il dato (nazionale) sconcertante dei suicidi in carcere nel corso del 2022: 84 detenuti, 5 agenti; ma occorre ricordare anche, sempre in Italia, i circa mille tentati suicidi, sventati proprio grazie all’intervento di agenti e detenuti, in comunione contro la morte. A Poggioreale su duemila ventiquattro detenuti al 28 febbraio, ci sono (soltanto) ventitré addetti all’area educativa; qui la gioventù caratterizza felicemente l’età media, ma i numeri, nel rapporto detenuti/addetti, dimostrano severi, ancora una volta, che la matematica non è mai un’opinione. A Poggioreale, oltre alla sofferenza legata al luogo, forse il peggiore nel panorama delle cosiddette democrazie liberali occidentali, ove lo Stato di Diritto anima la Legge, altro diritto, importante, quello alla salute, viene quasi del tutto negato, e ciò in maniera esponenziale al crescere della gravità della patologia. Il farmaco di base, lo psicofarmaco leggero, non si nega a nessuno, ma per le gravi patologie genetiche, cardiache, tumorali… perdete ogni speranza. Poggioreale però è pieno di esseri umani, belli già solo per questo, che, insieme, quasi sempre senza contrasti e violenza, anzi, in pace, al di là e al di qua delle sbarre, al tintinnio antico delle chiavi, si sforzano, tanto, per portare avanti quella che di fatto è soltanto una baracca. All’uscita portiamo con noi un grande dolore, addolcito solo dalla nostra fede. Sono sette le opere di misericordia: con coscienza ne abbiamo portata a termine, per un giorno, una soltanto: visitare i carcerati. Torino. “Per Cospito una manifestazione molto decisa e arrabbiata” di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 3 marzo 2023 Sale la tensione in vista del corteo in solidarietà a Cospito annunciato dagli anarchici domani in città. Cresce l’attesa e la tensione per la manifestazione nazionale convocata domani a Torino dagli ambienti antagonisti in segno di solidarietà ad Alfredo Cospito, l’anarchico in sciopero della fame per protesta contro il 41 bis. Il corteo, che partirà alle 16.30 da piazza Solferino (senza attraversare il centro), potrebbe richiamare un migliaio di anarchici. Cresce l’attesa e la tensione per la manifestazione nazionale convocata domani a Torino dagli ambienti antagonisti in segno di solidarietà ad Alfredo Cospito, l’anarchico in sciopero della fame per protesta contro il 41 bis. Il corteo, che partirà alle 16.30 da piazza Solferino (senza attraversare il centro), potrebbe richiamare da tutta Italia - e anche dall’estero - un migliaio di anarchici e una delle organizzatrici ha già annunciato che la manifestazione sarà “decisa e molto arrabbiata”. Il timore è che si possano ripetere le scene di guerriglia urbana vissute dopo lo sgombero dell’ex Asilo di via Alessandria. Il 9 febbraio 2019 le strade di Vanchiglia furono infatti teatro di scontri con le forze dell’ordine, incendi e atti vandalici. Quasi due mesi dopo, il 30 marzo, la strategia approntata da Digos e Questura riuscì a bloccare la frangia più violenta dei manifestanti nell’”imbuto” di via Aosta e a sequestrare un arsenale di biglie di ferro, spranghe, caschi e maschere antigas. Da allora in città non si sono più ripetute altre manifestazioni di quella portata e, da quando sono iniziate in tutta Italia le proteste contro il regime del “carcere duro”, a Torino non si sono mai verificati incidenti. La decisione di riportare un corteo nazionale sotto la Mole non sembra quindi improvvisa, ma ponderata a fondo e studiata nei dettagli. Ed è possibile che sia stata presa ben prima della riunione di lunedì scorso a Palazzo Nuovo. Torino del resto è una città simbolo per la galassia anarchica, dove Cospito ha fondato la Fai e dove è ancora in corso il processo d’appello che dovrà pronunciarsi sulla sua condanna all’ergastolo. I movimenti antagonisti hanno equiparato la recente decisione della Cassazione, che ha confermato il 41 bis per Cospito, a una condanna a morte: “Una cosa la possiamo affermare fin da ora: esisterà un prima e un dopo la morte di Alfredo Cospito. La speranza è che questo sussulto dei movimenti si riesca a legare con le istanze sociali della popolazione”. Nel volantino di “chiamata” al corteo nazionale di domani viene anche annunciato un “cambio di passo nel modo di fare fronte alla repressione” e si parla anche di opposizione a carceri e Cpr. “La nostra intenzione di quella di fare il giro della città - hanno ribadito gli organizzatori -. Per quanto sarà una manifestazione decisa e molto arrabbiata, visto il clima che si respira, speriamo che non ci si metta nessuno a rovinarla. Per i compagni che venissero da fuori c’è la disponibilità di essere alloggiati”. I primi arrivi sono attesi già questa sera e c’è massima allerta per evitare possibili occupazioni di stabili abbandonati. Milano. 30 anarchici in presidio davanti alla sede di Fratelli d’Italia in corso Buenos Aires di Pierpaolo Lio Corriere della Sera, 3 marzo 2023 Il sit-in dei manifestanti in solidarietà ad Alfredo Cospito, l’anarchico detenuto al 41 bis a Opera. Accuse al governo anche per la strage di Crotone. La “tortura di Stato” inflitta all’anarchico Alfredo Cospito, da dieci mesi al 41bis, ma anche la strage di migranti domenica a Crotone. Sono le “accuse” di una trentina di anarchici che risuonano dalle casse posizionate in corso Buenos Aires, a Milano. Dall’altra parte della strada, la sede di Fratelli d’Italia, presidiata da un imponente schieramento delle forze dell’ordine. I manifestanti anarchici si sono dati appuntamento in solidarietà all’esponente della Federazione anarchica informale, detenuto a Opera e da oltre quattro mesi in sciopero della fame contro il regime di carcere duro. Di fronte agli uffici milanesi del partito del premier Giorgia Meloni hanno esposto alcuni striscioni dedicati alla lotta di Cospito. La scena ha catturato l’attenzione dei tanti passanti che affollano una delle vie dello shopping milanese. Caltanissetta. Quattro anni al 41bis, ma era innocente di Aldo Torchiaro Il Riformista, 3 marzo 2023 Quattro anni in carcere per associazione mafiosa al 41bis. Carcere duro. Isolamento. Poi grazie all’intervento del difensore, avvocato Stefano Giordano e l’avvocato Valerio Vianello, arriva l’assoluzione. Proprio oggi la Corte d’Appello di Caltanissetta ha accolto oggi l’istanza di revisione presentata dall’Avv. Stefano Giordano nell’interesse del Sig. Antonino Giordano (omonimo, ma non parente del difensore). Antonino Giordano, imprenditore edile di Misilmeri, era stato condannato in via definitiva nel 2003 dalla Corte d’Appello di Palermo alla pena di quattro anni di reclusione per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, sull’assunto che - per il tramite dell’impresa edilizia di cui era titolare - Antonino Giordano si fosse avvalso del vincolo associativo per acquisire il controllo di attività economiche e, in particolare, di appalti pubblici. La principale fonte di prova a carico di Antonino Giordano era stata ravvisata, dai Giudicanti, nell’intercettazione ambientale di una conversazione che si sarebbe svolta nel marzo 1999 fra un noto esponente di Cosa Nostra e, appunto, Antonino Giordano, da cui si sarebbe evinto lo stretto collegamento fra l’interlocutore del boss e la consorteria mafiosa. A seguito di indagini difensive svolte nei mesi scorsi dall’Avv. Stefano Giordano, è tuttavia emerso che l’interlocutore del boss mafioso, nel corso della citata conversazione, non era lui. “Si è rivelato essere soggetto diverso da Antonino Giordano. Diversità che è stata confermata da una perizia fonica disposta dalla Corte nissena nell’àmbito del giudizio di revisione”, ci specifica l’avvocato Giordano. Il Tribunale ha escluso che la voce dell’interlocutore del boss mafioso potesse essere riconducibile ad Antonino Giordano. Da ciò, la pronuncia odierna di assoluzione da parte della Corte di Caltanissetta, che pone termine a un’ingiustizia protrattasi per oltre vent’anni. Milano. “41 bus”, la start-up per far incontrare detenuti e famiglie di Roberta Barbi vaticannews.va, 3 marzo 2023 L’idea di Bruno Palamara, ex detenuto, oggi titolare della impresa interamente dedicata ai familiari che hanno un parente recluso, spesso lontano da casa. Un modo per agevolare il trasporto per i colloqui e un’offerta di sostegno psicologico a distanza: “In carcere si vive colloquio dopo colloquio”. Qualcuno che di carcere ci capisce, una volta ha detto che quello che scandisce il tempo spesso vuoto della detenzione è l’attesa. Quando si è detenuti si aspetta tutto: i pasti, l’ora d’aria, qualche attività per svagarsi, ma, soprattutto, si attende il colloquio con i propri familiari. A caratterizzarlo è un insieme incontenibile di emozioni che nell’arco di minuti dalla nostalgia vira alla gioia del ritrovarsi fino al dolore per il nuovo imminente distacco. “Quando ero dentro la mia vita non la portavo avanti come si fa fuori, cioè giorno dopo giorno, bensì colloquio dopo colloquio, spesso separati da un intervallo di tempo che sembra interminabile”, ricorda Bruno Palamara. Il colloquio come occasione di riscatto - È dai quei colloqui che Bruno trae la forza per andare avanti; le difficoltà e la sofferenza che patiscono sua moglie e sua figlia sono per lui l’innesco al cambiamento, quel clac che ti porta a cercare e scegliere una vita diversa. Bruno lo fa mentre è ancora detenuto: sfrutta il tempo per studiare economia, finanza, marketing e gli viene un’idea: “Mi rendevo conto che in carcere i problemi sono tanti, ma sentivo che dovevo concentrarmi sul risolverne uno per volta; se solo ne avessi risolto uno, sarei stato utile e la mia vita sarebbe cambiata”, racconta a Vatican News. E così, una volta fuori, darà vita a “41 bus”, startup che ha visto la luce nell’estate scorsa e che offre a prezzi calmierati pacchetti di trasporto attraverso bus navetta dalle stazioni ferroviarie e dagli aeroporti ai principali istituti di pena della Lombardia. “Andare in carcere non è mai stato così facile” - Un nome e uno slogan simpatici, un sito chiaro che consente di prenotare contemporaneamente anche treno o aereo per sincronizzare il viaggio: è così che l’idea di Bruno prende la forma di un pullman e viaggia su quattro ruote: “Non ce la facevo più a vedere le famiglie che spendevano tanti soldi per prendere a noleggio auto con conducenti, e soprattutto i bambini costretti a viaggi estenuanti solo per incontrare il papà o la mamma. Non era giusto”. Così il servizio ha iniziato a collegare la casa di reclusione di Milano Opera e la casa circondariale di Voghera, ma il progetto è quello di espandersi in tutta Italia. Sogna in grande, Bruno, come tutti coloro che hanno avuto il coraggio di ricominciare e ce l’ha fatta: “Quando è partito il primo autobus mi sono emozionato. Mi sentivo soddisfatto, certo di aver fatto una cosa importante e l’affetto dei parenti dei detenuti ne è stato la conferma”. Dalla parte dei bambini - Ma Bruno non si ferma. La sua esperienza di papà detenuto gli insegna che bisogna pensare sempre prima di tutto ai bambini, costretti ad andare in un luogo come il carcere che è quanto di più lontano dai loro colori e dalla loro gioia. Così ora “41 bus” offre anche sostegno psicologico a distanza alle famiglie per prepararle al colloquio, nella forma di un incontro mensile di gruppo oppure, per chi ne fa richiesta esplicita, organizza percorsi personalizzati. A gestire il servizio, battezzato “Lo psicologo risponde”, ci sono due dottoresse, una delle quali è un’esperta dell’età evolutiva: “Nessun bambino dovrebbe mai doversi recare in un luogo brutto come quello, vedere i miei figli in carcere mi ha fatto riflette”, sospira Bruno, e lui è la dimostrazione vivente che, se lo si desidera, si può cambiare davvero. Verona. “Maratona virtuale in nome di Donatella, per tutti i detenuti” di Laura Tedesco Corriere Veneto, 3 marzo 2023 Al via da Verona la challenge per la 27enne suicida in cella. Le amiche di Sbarre: “2 mila km, lei amava il ciclismo”. “Urla in bicicletta”, una maratona virtuale di quasi 2 mila km che partirà da Verona e unirà simbolicamente i detenuti di tutte le carceri italiane. Un evento senza precedenti, che durerà per l’intero mese di aprile nel nome di Donatella Hodo, suicida a soli 26 anni la notte del 2 agosto 2022 in cella a Montorio. Una iniziativa inedita, la prima nel suo genere, che si chiamerà “Virtual Challenge - Primo Memorial Donatella” ed è organizzata da Sbarre di Zucchero, l’attize, associazione nata a Verona 48 ore dopo il tragico gesto di Donatella, un movimento che si batte per i diritti dei detenuti e soprattutto delle detenute, per arginare l’escalation-suicidi, per rendere più umana la condizione di chi è recluso. Donatella amava lo sport e il ciclismo, così è sorta l’idea “Virtual Challenge” come spiegano Micaela e Monica a nome di Sbarre di Zucchero: “Invitiamo tutti i cittadini italiana, di ogni sesso ed età, a regalare chilometri reali, tramite qualsiasi tipo di attività sportiva che preveda movimento. Alla Virtual Challenge potranno partecipare atleti, dilettanti e paratleti, di sport indoor e outdoor di ogni disciplina. L’evento è gratuito. Ci impegniamo a percorrere un totale di 1980 km. La gara avrà durata dal 1° al 30 aprile 2023. A fine mese, andranno sommati tutti i km percorsi dai partecipanti. Il percorso virtuale abbraccia, andata e ritorno, Verona, Milano, Bologna, Ravenna, Firenper Roma, Napoli. Al termine del percorso, verrà consegnato attestato digitale di partecipazione alla Challenge a tutti i partecipanti e Sbarre di Zucchero si impegna alla raccolta ed alla consegna delle missive che i detenuti che parteciperanno, entro le mura, vorranno indirizzare alla Presidenza della Repubblica ed al Signor Presidente Mattarella”. Il via sarà sabato 1 aprile alle 15 da Piazza Bra, ci sarà anche il sindaco Damiano Tomasi: per ogni tappa è previsto un vero e proprio “pit stop” per una breve commemorazione storica davanti ogni monumento veronese. “In memoria di Donatella, per tutti i detenuti”. Messina. “Cambio… aria”, da Gazzi un ponte verso il mondo del lavoro per i detenuti tempostretto.it, 3 marzo 2023 Un incontro per orientare al lavoro e dare speranza e fiducia ai detenuti. Trovare lavoro con la fedina penale macchiata, magari dopo anni di carcere? È difficile, ma possibile. Ed è forse meno difficile se il carcere dove stai scontando la tua pena è quello messinese di Gazzi. Perché qui, tra le mura della casa circondariale affidata alla direttrice Angela Sciavicco, da anni si lavora per assicurare un futuro diverso a chi passa per le celle. Qui tanti detenuti hanno seguito corsi di formazione professionale, hanno conseguito il diploma e oggi alcuni di loro si preparano alla laurea, grazie alla collaborazione con l’Università di Messina. Qualcuno ha già cominciato a lavorare, nei momenti di semi libertà, grazie alla convezione con Messina Servizi Bene Comune. Per questo il momento organizzato per i detenuti uomini dalla direzione e dal Cpia, il centro di formazione per adulti di Messina, diretto da Giovanni Galvagno, è stato seguito da tutti loro con molta attenzione. “Cambio… aria” il titolo significativo dato all’incontro. Accanto al formatore c’erano la professoressa Santa Pio, da tempo impegnata nella formazione in carcere, la consulente del lavoro Ketty Fisichella, il presidente della cooperativa sociale Verde Speranza Onlus Lino Arena e la presidente di Messina Servizi Mariagrazia Interdonato. Presente in sala, nell’area del Piccolo Shakespeare che solitamente ospita le attività teatrali, la responsabile dell’area trattamentale Letizia Vezzosi. I detenuti hanno quindi appreso come si compila un curriculum, come ci si deve rapportare ai colloqui di lavoro, quali sono le principali opportunità di inserimento attuali, come si può arricchire il proprio curriculum sia in carcere che una volta fuori, grazie ai tirocini di inclusione sociale. Come quello effettuato da alcuni a Messina Servizi, appunto. Una esperienza che è stata illustrata per spiegare la cosa più importante dell’incontro, accanto all’aspetto legato agli strumenti di orientamento veri e propri. Ovvero ridare fiducia a chi sta finendo di scontare la propria pena, spiegando che vincere i pregiudizi nei confronti di un detenuto o ex detenuto è possibile. Non è stato facile per chi ha praticato i tirocini nella municipalizzata inserirsi, infatti, e all’inizio il rapporto coi colleghi non era semplice. Quando il tirocinio è terminato, però, anche chi aveva guardato a loro con diffidenza, inizialmente, si è rivelato molto dispiaciuto di vedere il “collega” andare via. Perché “costruire ponti verso il futuro” si può, come ha detto la direttrice Sciavicco. Padova. Carcere, lunedì la presentazione del progetto Kutub Hurra/Un ponte per venetonews.it, 3 marzo 2023 Il progetto Kutub Hurra/Un ponte per è indirizzato ai detenuti arabofoni. Si tratta di un’attività già sperimentata da un anno in altre carceri italiane e promossa a Padova dalla Biblioteca, dalle cooperative AltraCittà e Orizzonti e dal Garante dei detenuti, in stretto rapporto con l’associazione “Un ponte per”, che si occupa di programmi di cooperazione e solidarietà internazionale, e l’Association Lina Ben Mhenni, con sede in Tunisia, che rifornirà gratuitamente la biblioteca del Carcere Due Palazzi di libri di autori e autrici arabofoni, scritti nella lingua madre. La presentazione ufficiale dell’iniziativa, con la consegna dei primi 50 libri di letteratura laica araba in lingua originale, cui seguirà la lettura di alcuni brani fatta sia in italiano sia in lingua araba, si terrà in conferenza stampa lunedì 6 marzo 2023, ore 13:30 presso l’Auditorium della Casa di Reclusione di Padova. I brani saranno letti in arabo dalla mediatrice culturale Camilia Farah e da alcuni rappresentanti di TeatroCarcere. Per il Comune di Padova saranno presenti le assessore Francesca Benciolini e Margherita Colonnello insieme con il Garante dei detenuti Antonio Bincoletto. NB: per partecipare è necessario accreditarsi con nome e testata di appartenenza entro venerdì 3 marzo tramite email a claudio.mazzeo@giustizia.it. Como. Cucinare al Fresco: i fornelli per “evadere” dal carcere Bassone quicomo.it, 3 marzo 2023 Passione, solidarietà, energia: gli ingredienti delle nuove ricette preparate dai detenuti. C’è senza dubbio aria di evasione, almeno con il pensiero, di voglia di bontà, di profumi, di piaceri per il palato, di ricordi e di abbracci nel Gruppo di lavoro che ha realizzato il percorso formativo all’interno del carcere del Bassone di Corno. Si sta per concludere infatti il progetto “Lavoro di squadra” che ha come capofila il Centro Servizi per il Volontariato di Como e con il quale ha collaborato il Centro di Formazione Professionale di Monte Olimpino che si è occupato della didattica proponendo i propri docenti per formare i ragazzi. Con loro hanno anche partecipato i giornalisti del progetto Cucinare al Fresco, la redazione dell’omonimo periodico aperta all’interno del carcere del Bassone. Lavoro di squadra - Proprio di fronte a queste esperienze fatte dietro le sbarre, si apre un nuovo mondo e, sfogliando il ricettario, ci si interroga se esistono cuochi marocchini, tunisini, sud americani, italiani, inglesi, bulgari, perché di fronte a un lavoro di gruppo, il colore della pelle e la provenienza diventa un fattore secondario, soprattutto quando si è stati privati della libertà. È quello che è accaduto nelle cucine del carcere del Sassone nelle quali, per settimane, si sono incontrati dieci ragazzi che, armati di tanta voglia di scoprire qualcosa di nuovo, spendibile in futuro, si sono affidati alle mani dello chef Simone Pisu, docente del Centro di Formazione Professionale di Como. Un progetto del e per il territorio - “L’idea di sviluppare il progetto con più realtà del territorio ha permesso di creare un percorso formativo per le persone recluse - spiega il direttore della Casa circondariale di Como, Fabrizio Rinaldi - Un’azione che ha offerto loro di acquisire delle conoscenze professionali da spendere all’esterno. L’interazione poi di diverse realtà che operano all’interno dell’Istituto ha fatto sì che il progetto potesse essere conosciuto all’esterno con una modalità vivace e decisamente curiosa: un ricettario, Cucinare al fresco. In questi anni ci siamo attivati e le opportunità sono sempre più numerose e hanno come obiettivo quello di formare delle persone che, al termine del periodo di reclusione, potrebbero essere reinserite con maggiore facilità nella società”. La cucina occasione per socializzare - Dalla trota in carpione, al tonno di coniglio, fino ai cavatelli al pesto genovese, agli spaghetti alla chitarra con gamberi e porri divagando con le ricette della nonna con le preparazioni di pasta fresca e di dolci che ricordano loro i bei tempi trascorsi in famiglia. Ecco che, ancora una volta, la cucina diventa un collante fortissimo, una condivisione di idee e di ricordi pronti a riemergere quando le mani iniziano a lavorare la farina o sentendo il profumo di olio che frigge oppure quando le torte iniziano a lievitare e, come bambini, spiando il forno, non si vede l’ora di poter assaggiare la fetta più grande possibile. “CSV Insubria ha sostenuto questa speciale edizione del ricettario Cucinare al fresco per dare basi concrete al reinserimento lavorativo e alla formazione dei detenuti, in vista di un ritorno o un primo accesso al mondo dell’occupazione - commentano il vicedirettore di CSV Insubria Martino Villani e il coordinatore del progetto Stefano Martinelli - La Casa Circondariale di Como è una piccola comunità che è entrata a pieno titolo nella vita del territorio e della progettazione dei servizi di CSV Insubria, ente no profit che ha quale missione principale il sostegno e lo sviluppo culturale del volontariato, una funzione di servizio alla comunità e dei suoi percorsi di solidarietà e accoglienza”. Storie vere - Ma il lavoro in cucina e poi la trascrizione delle ricette non è tutto in quanto, dietro a ogni testo, si nascondono storie e racconti, come quella di M.B. che vuole parlare di prodotti da forno, di cibi sani e naturali, di prodotti senza conservanti, di calorie e di combinazioni di alimenti per rimanere in forma. Poi troviamo anche R.D. che, per sottolineare la sua capacità di realizzare dolci, si presenta in redazione, durante la rilettura dei testi con un salame al cioccolato cercando di esplicitare il suo concetto di dolce fatto con un attento bilanciamento delle calorie. Per non parlare di B.O. che, nonostante abbia un corso in parallelo, si infila nella stanza per raccontare che cos’è riuscito a preparare in settimana. Storie di tutti i giorni, di narrazioni apparentemente senza un senso reale, ma che nascondo di per sé un grandissimo valore umano che, solo chi vive queste realtà, riesce a comprendere. Non solo Bassone - L’iniziativa Cucinare al Fresco ha come obiettivo quello di realizzare una serie di ricettari di cucina i cui autori sono i detenuti che devono preparare le proposte da portare in tavola con ingredienti e strumenti a loro disposizione. Al momento sono una dozzina le carceri coinvolte da nord a sud. I detenuti del Bassone, dove ha sede la redazione, lavorano nello spazio a loro riservato tutti i giorni e il venerdì è programmata la riunione durante la quale si organizza il lavoro della settimana in base a un piano editoriale. Le singole uscite e la ricerca di idee è gestita in autonomia dai ragazzi. Al momento sono 15 le pubblicazioni in circolazione, sono un centinaio di redattori coinvolti e la consegna delle ricette avviene via posta ordinaria, oppure per il tramite delle loro educatrici. Oltre ai ricettari sono stati aperti i profili social, FB e Instagram, quotidianamente vengono pubblicate due ricette per invitare i followers a sperimentare e a condividere le proprie idee e scambiarsi opinioni, per ora solo positive. Busto Arsizio. Il presepe dei detenuti è arrivato a Roma varesenews.it, 3 marzo 2023 È stato consegnato a Giovanni Russo, capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il Presepe vincitore del concorso indetto dall’Ispettore nazionale dei cappellani delle carceri, don Raffaele Grimaldi. Ieri, giovedì, una delegazione della Casa Circondariale di Busto Arsizio si è recata a Roma, per consegnare a Giovanni Russo, capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il Presepe vincitore del concorso indetto dall’Ispettore nazionale dei cappellani delle carceri, don Raffaele Grimaldi. La delegazione era composta dal direttore Orazio Sorrentini, dal vice comandante della Polizia Penitenziaria Giuseppe De Girolamo, dall’assistente capo coordinatore Pierpaolo Giacovazzo e dal cappellano don David Maria Riboldi. Il Presepe è stato realizzato da mani galeotte, sapientemente guidate dai volontari del Gruppo Presepi Marnate, che hanno gratuitamente guidato il corso di presepistica, organizzato d’intesa con l’area trattamentale del carcere nei mesi autunnali. Il presepe venne poi esposto all’ingresso della sala colloqui dell’istituto, per dare un senso di Natale ai bimbi, che venivano a trovare i papà in carcere. L’Ispettore nazionale dei cappellani ha indetto un concorso, cui hanno partecipato 70 carceri sulle 200 dello stivale. Il presepe di Busto Arsizio è risultato uno dei vincitori ed è stato omaggiato al responsabile delle carceri di tutt’Italia, recentemente nominato dal ministro della Giustizia Nordio. Giovanni Russo ha molto apprezzato la qualità dell’opera e l’attenzione ai particolari, manifestando il desiderio di farne un’esposizione permanente nel Dipartimento. Il 2023 sarà l’anno del Presepe: 800 anni fa il primo, nato dall’estro spirituale di San Francesco. Seguiranno tante manifestazioni a livello internazionale e da via per Cassano si è dato un contributo per l’avvio delle celebrazioni. “Carcere e covid-19. Diario di una pandemia”, di Pietro Buffa recensione di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 3 marzo 2023 “Lavati le mani e non stropicciarti gli occhi. Sono le raccomandazioni che mi ripeteva la mia nonna da bambino ricordando l’epidemia di Spagnola che tra il 1918 e il 1920 uccise milioni di morti: lei l’aveva vissuta e non si liberò mai dalla paura del contagio. Queste parole mi sono tornate alla mente il 21 febbraio 2020 - e poi durante tutta la pandemia - quando ricevetti una telefonata che mi informava che un medico del carcere di Piacenza era appena stato isolato perché venuto in contatto con uno dei primi pazienti Covid positivi”. Inizia così il “Diario di una pandemia”, resoconto puntuale dal 22 febbraio 2020 al 31 marzo 2021, di 404 giorni di lotta contro il virus che ha cambiato la vita di tutti noi ma per chi, come l’autore, Pietro Buffa, oggi Direttore generale della formazione presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, con una lunga carriera nel Dap, e come direttore nelle carceri piemontesi tra cui quello di Torino l’ha vissuta gestendo l’emergenza “dietro le sbarre”. Un’esperienza - Buffa ogni sera al termine di giornate faticosissime ha messo nero su bianco sensazioni, decisioni spesso impopolari e problematiche inedite da affrontare - che farà scuola per chi in futuro dovrà affrontare infezioni in ambienti chiusi come il carcere. Per questo, come ha sottolineato Pietro Mellano, garante dei detenuti della Regione Piemonte che ha organizzato la presentazione del volume (copertina in alto) venerdì scorso al Circolo dei Lettori di Torino, il diario, per la grande esperienza di Buffa, è stato inserito nell’autorevole collana di Diritto penitenziario e costituzione dell’Editoriale scientifica, pubblicato con il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi “Roma tre”. L’esemplarità del testo è stata evidenziata, nella affollata serata, da Claudio Sarzotti, docente di Filosofia del Diritto del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino, che ne ha curato la prefazione mettendo in luce le difficoltà dell’organizzazione carceraria “alle prese con la reazione dell’istituzione totale (i luoghi di residenza e di lavoro di gruppi di persone che parte della loro vita in un regime chiuso come ad esempio Rsa, ospedali, ndr). Tra le criticità di quei mesi, hanno sottolineato Sarzotti e Buffa, certi media (tv e quotidiani nazionali) che, sull’onda del sensazionalismo, hanno la deleteria abitudine di pubblicare solo notizie negative riguardo i ristretti. La realtà invece, come documenta il diario, è stata ben diversa: i contagi si sono diffusi fuori dalle carceri e gestiti “dentro” contenendo l’emergenza grazie alla professionalità di tutti gli operatori penitenziari. Per questo il volume - nonostante la scientificità e i molti dati - è ricco di riflessioni personali, sfoghi e i timori espressi, direttamente o indirettamente, da colleghi e collaboratori che avevano la responsabilità della salute di migliaia di detenuti e personale, commenti sulle norme e le direttive ricevute ed emanate. L’obiettivo è di documentare come si è “affrontata amministrativamente la diffusione pandemica di un virus, largamente sconosciuto, all’interno dei 18 istituti di pena lombardi di cui è responsabile Pietro Buffa, cercando di placare le proteste dei ristretti improvvisamente privati dei colloqui con i parenti e avvocati. Per ovviare all’isolamento sono state autorizzate le videochiamate, una prassi che, dopo il Covid è stata introdotta per quei reclusi le cui famiglie risiedono lontane dal luogo di detenzione. Nel diario riecheggia spesso il capolavoro di Albert Camus, che scriveva che “La peste non si può predire, ma di sicuro ritornerà”. E il diario di Pietro Buffa se nuovi morbi infetteranno le nostre vite, contribuirà a tenerli a bada, anche dietro le sbarre. Pietro Buffa, “Carcere e covid-19 Diario di una pandemia”, Editoriale scientifica, Napoli, 2022, pag. 318, 22 euro. “La giustizia non è guerriglia”, Barbano e il velo squarciato sull’antimafia di Valentina Stella Il Dubbio, 3 marzo 2023 A Roma la presentazione del libro del giornalista a 160 anni dalla prima legge sulle misure di prevenzione. L’autore: “Basta con la psicosi della pericolosità”. “L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”, l’ultimo libro del giornalista Alessandro Barbano, è stato al centro di un interessante dibattito organizzato ieri dalla Camera Penale di Roma presso l’Aula Occorsio del Tribunale. A moderare i lavori Antonella Marandola, ordinaria di diritto processuale penale Università del Sannio. A inaugurare il dibattito il presidente dei penalisti romani, Gaetano Scalise: “Le misure di prevenzione compiono quest’anno 160 anni. Nascevano nel 1863 come misura eccezionale ma col tempo hanno assunto una pervasività incredibile, tanto che oggi l’Accademia parla di vera e propria pena patrimoniale”. Poi ci sono stati i saluti del presidente del Tribunale Roberto Reali che ha ringraziato la Camera Penale per aver organizzato “questo convegno importante” e ha ricordato “l’intervento della stessa Camera all’inaugurazione dell’anno giudiziario in relazione allo specifico tema del carcere e dell’esecuzione della pena”. Il primo vero intervento è stato quello di Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Ucpi, che ha dovuto lasciare subito il convegno per andare alla prima riunione del nuovo “Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale e gli effetti sul Pnrr” in cui è stato nominato da poco: “Il libro di Barbano è straordinario, testimonianza di coraggio civile su un tema delicato come questo. Lo ha affrontato dando voce alle tante “storie di dolore” di chi subisce l’uso distorto degli strumenti di prevenzione per la lotta alla criminalità organizzata. Il volume andrebbe letto da chi applica le misure di prevenzione, divenute strumento di perseguimento degli illeciti quando la strada maestra del processo penale ha portato ad una assoluzione”. A seguire il sociologo Giuseppe De Rita: “Le cose che dice Barbano nel suo libro sono incredibili ma provocano una ondata di opinione? Questa è la domanda che dobbiamo porci. Se tratti in pubblico queste questioni come fa l’autore allora vieni trattato come un traditore di Pio La Torre o di Giovanni Falcone. E allora bisogna trovare il modo di creare una onda di opinione su questo volume. La mia speranza è che questo sia solo l’inizio di una lunga serie di racconti di persone che non potevano parlare. Va rotto questo mutismo”. Per il Governo ha parlato il vice ministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto: “Barbano con questo suo libro ci consegna una radio cronaca delle misure di prevenzione. Il suo racconto riafferma valori costituzionali imprescindibili, quali il diritto di difesa, rimarcando la difficoltà per molti di difendersi in particolari contesti, in cui la prevenzione spesso si trasforma in repressione. Il sospetto - chiediamoci - può essere tale da incidere sui diritti dei cittadini?”. Però, dice il senatore di Forza Italia, “attenzione a non scambiare la lotta alla mafia con le responsabilità personali di amministratori e pubblici ministeri troppo zelanti”. In sintesi, “non mi sento di condannare il sistema ma sicuramente ci sono delle patologie che vanno sanate”. L’unica voce assolutamente dissonante all’interno del panel è stata quella del pubblico ministero della Dda di Roma, Mario Palazzi: “Il mio non può che essere un giudizio negativo per quello che c’è e non c’è nel libro”. Secondo Palazzi è la comparazione con le altre giurisdizioni, come quella statunitense “dove il 98% delle confische avviene per via amministrativa tramite la Dea o l’Fbi e solo il 20% viene contestato perché il ricorso è troppo costoso”, a doverci spingere a dire “di tenerci stretto il nostro sistema. Certo, è passibile di alcune censure, la giustizia è umana per cui ci possono essere degli errori, ma si è evoluto nel tempo grazie ad un fecondo dialogo tra le Corti nazionali ed europee”. Secondo il magistrato, l’autore del libro compie un errore metodologico: “Dalle storie seppur dolorose che racconta trae la conseguenza che tutto il sistema è sbagliato. Questa sineddoche è un approccio ermeneutico sbagliato che, tra l’altro, non sente neanche l’altra campana”. Per concludere, Palazzi si dice “orgoglioso della risposta italiana. Qui non siamo a Guantánamo, non abbiamo tradito i valori costituzionali ma abbiamo la forza di affermare la giustizia seguendo le regole”. È stato poi il momento dell’ex magistrato Gherardo Colombo che, ammettendo che “altrove succede di peggio”, si è chiesto tuttavia: “La prevenzione affidata direttamente al giudice diminuisce le garanzie nei confronti delle persone coinvolte?”. Ha evidenziato poi che il “contrasto tra l’esito del processo e quello delle procedure di prevenzione rappresenta un qualcosa che non funziona”. Per lui “occorre fare un passo indietro e domandarsi se è possibile risolvere la questione, affrontando il problema prima che si arrivi nella sfera del penale. La questione maggiore è quella dell’educazione al sistema della nostra Costituzione”. Poi ha preso la parola l’avvocato del Foro di Roma Gianluca Tognozzi: “La misura di prevenzione è guerriglia. Ogni volta che una azione dei pubblici ministeri non è andata a buon fine, cinque giorni dopo è arrivata la guerriglia con l’applicazione della misura di prevenzione, senza le regole della guerra e del processo. La categoria del pericoloso generico non ha nulla a che fare con la legislazione antimafia”. Secondo il legale sono tre gli aspetti da stigmatizzare: “I beni del pericoloso generico vengono sottoposti a sequestro e poi confisca con violazione di tutte le regole del sistema. La misura di prevenzione è discrezionale. Il sequestro anticipato dei beni viene deciso dal giudice che poi fa tutta l’istruttoria e decide poi se applicare o meno la confisca. Ed è incredibile che quella istruttoria è totalmente nelle mani della polizia giudiziaria”. Dopo circa due ore ha parlato finalmente l’autore, Alessandro Barbano: “Non sono un giurista e rivendico il fatto di aver guardato dall’esterno questo fenomeno con l’occhio del giornalista. Il libro non riguarda solo le misure di prevenzione ma fa emergere una tendenza: ossia lo slittamento dalla colpevolezza alla pericolosità, che è diventata una vera e propria psicosi”. E replicando a Palazzi: “Non sono caduto nella sindrome della sineddoche. La confisca fuori da un giudicato non esiste in nessun Paese. Io contesto questo sistema, la cultura inquisitoria sottesa ad esso e la sua trasformazione in una guerriglia”. Infine ha chiuso i lavori il vice presidente della Camera Penale di Roma, Giuseppe Belcastro: “Questo libro ha un grandissimo pregio, ossia quello di raccontare finalmente i fatti che stanno dietro alle misure di prevenzione e al doppio binario, partendo dai dati reali e non dallo storytelling ufficiale. Delle cose è importante come vengono fatte, ma anche come vengono narrate. Per la prima volta Barbano offre una narrazione fedele”. Si è poi chiesto: “Come possiamo spiegare al cittadino lo iato tra le misure di prevenzione e il buon senso: in un’aula vieni assolto e nell’aula accanto ti confiscano i beni?”. Volontari, attori del cambiamento nel mondo La Repubblica, 3 marzo 2023 La banca dati che permette di visualizzare i 600 progetti messi in campo in 75 Paesi, Italia compresa. È stato presentato a Roma il sito volontarinelmondo.it, la prima piattaforma web dedicata interamente all’impegno nella Cooperazione internazionale e nello sviluppo sostenibile. In particolare, è un data base che permette di visualizzare i 600 progetti, programmi e interventi messi in campo in 75 Paesi del mondo e in Italia da Focsiv e dai suoi 94 Soci nei quali sono impegnati 6.378 persone tra operatori, volontari locali e ragazzi e ragazze del Servizio Civile Universale. La realizzazione del sito è stata possibile grazie alla collaborazione dell’Agenzia Kapusons e al contributo di Deutsche Post Stiftung. Una piattaforma in continuo aggiornamento. Dove è possibile conoscere tutti i progetti attivi nei diversi paesi nei quali sono presenti Focsiv ed i suoi associati e informarsi, grazie alle diverse schede corrispondenti ed esplicative, sia sul tipo di intervento che sull’Organismo proponente. Chiunque visiti il sito non solo può ottenere in tempi rapidi le notizie su chi sia presente in un determinato paese che sui diversi interventi in loco, ma può anche può mettersi in contatto direttamente con i singoli associati Focsiv. “Il sito volontarinelmondo.it - ha sottolineato Nino Santomartino, vicepresidente di Focsiv - è per la prima la piattaforma dedicata all’impegno nella Cooperazione internazionale, in particolare di quello compiuto dagli attuali 6.378 operatori, volontari locali e ragazzi e ragazze del Servizio Civile Universale di Focsiv e dei suoi Organismi soci. Un numero significativo di progetti, programmi e interventi in ben 75 paesi di 4 Continenti oltre che in Italia - ha aggiunto Santomartino - un impegno attuato da oltre 50 anni nel mondo, che esprime quel senso di essere costruttori di pace e attori di cambiamento per il bene comune. Le funzioni della piattaforma. La piattaforma, da un lato è uno strumento di informazione con la quale si intende testimoniare il prezioso lavoro dei volontari internazionali e favorire il coordinamento delle attività dei soci Focsiv e, dall’altro, un importante mezzo di comunicazione che contribuisce a promuovere la cultura della solidarietà e risponde alle esigenze di trasparenza, costruzione di relazioni e responsabilità. “Una vera e propria “casa di vetro” - ha detto ancora il vicepresidente di Focsiv - che permette costantemente di visualizzare e di mettere a disposizione delle cittadine e dei cittadini le informazioni e le notizie su quanto sia in atto per la costruzione del bene comune”. Il lavoro di 50 anni. Da 50 anni Focsiv pone come punto centrale il volontariato: donne e uomini che sperimentano in prima persona la complessità, le difficoltà e il dolore di un mondo che cambia, in una visione di democrazia partecipativa, grazie alla quale si possono ottenere risposte concrete in un percorso di giustizia sociale. In questi 5 decenni della Federazione sono i volontari che hanno offerto alle popolazioni povere il proprio supporto umano e professionale in tante aree del mondo oltre che in Italia, rendendo concreti progetti e partenariati che hanno l’obiettivo di trasformare la grammatica dei diritti in pratica quotidiana. La mappa che non fa sbagliare strada. “Una mappa che sembra una piccola cosa - ha messo in evidenza Ivana Borsotto, presidente Focsiv - ma che in realtà permette di tracciare un itinerario, di non sbagliare la strada e il proprio cammino. È questa la sua grandezza, il permettere di segnalare la presenza dei volontari e degli operatori che quotidianamente traducono in pratica la grammatica dei valori e dei diritti. Questi sono i nostri giacimenti di coraggio e di generosità - ha aggiunto Borsotto - è il conoscerci e il riconoscerci. Ma la mappa è un’assunzione di responsabilità e di trasparenza rispetto a chi ci sostiene, che ci consente di rispondere con precisione a coloro che ci chiedono cosa realizziamo in concreto e di valutare l’impatto che le nostre attività hanno sulle persone, le comunità e i territori. Questa mappa, in estrema sintesi - ha concluso - è uno strumento di intelligenza collettiva: un mezzo per confrontarsi con chi come ognuno di noi è artigiano di sviluppo e di giustizia ed un modo di connettere mille e mille associazioni ed organizzazioni con altre comunità, Istituzioni, scuole e mondo produttivo”. Il male di vivere dei più giovani, l’appello da ascoltare di famiglie e scuole di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 3 marzo 2023 Se i ragazzi non stanno bene, se non sono felici delle loro imperfezioni, è l’intero nostro viaggio a perdere ogni direzione. Alla fine degli anni Novanta un gruppo punk californiano, gli Offspring, prese uno storico brano degli inglesi Who, registrato per la prima volta nel 1965, e ne rovesciò il titolo. The Kids Are Alright divenne The Kids Aren’t Alright. I ragazzi non stavano (più) bene. Il pezzo racconta il ritorno nel quartiere dell’infanzia: le strade che promettevano futuro sembrano ora distorte, incrinate. Tutto appare logoro, spezzato tra vite che si sono spente o richiuse su sé stesse. Potremmo tentare lo stesso percorso. Tornare anche noi dove siamo cresciuti, magari alla periferia di Milano, e scoprire che la piazza si è svuotata di voci, biciclette, elastici e corde, dei palloni che sfidavano i divieti volando oltre le ringhiere. La sensazione è di un’interruzione. Dove sono finiti i bambini e le bambine delle piccole città nella città, i ragazzi e le ragazze che si incrociavano sciamando, fuori, insieme, fino all’ultima mezz’ora di luce? In questo inizio di 2023, due ricerche hanno provato a rispondere, scaricando numeri allarmanti in un unico tracciato di linee d’ombra che persistono e si allargano, fino a non venir più oltrepassate nel fluire della navigazione verso la maturità. La prima ricerca è l’indagine sui rischi connessi ai comportamenti giovanili, curata dai Centers for Disease Control and Prevention (qui il link al dossier), tra i più importanti organismi che monitorano la sanità pubblica negli Stati Uniti. Il 30 per cento delle intervistate, più colpite dei coetanei maschi, ammette di aver avuto “pensieri suicidi” nell’ultimo anno; il 60 dichiara di provare “sentimenti di tristezza e disperazione”. La seconda arriva dall’Olanda. Dalle conversazioni con 6.200 persone, tra i 18 e i 75 anni, il Trimbos-instituut ha calcolato una percentuale di disturbi nella fascia più giovane che tocca il 44%, in crescita dal 2019. Secondo questa rilevazione, la pandemia ha fatto sì da acceleratore delle curve ma non è l’origine del malessere diffuso. Alle radici dell’infelicità ci sarebbero tre cause principali, tra molte possibili e intrecciate. La prima è l’ansia da prestazione che mina la fiducia in sé di adolescenti stremati dalla chiamata collettiva a mostrarsi sempre allineati, aggiornati e popolari, visibili e riconosciuti. La seconda è l’”individualisation of society”: da qui deriva una grande solitudine proprio negli anni in cui il confronto con gli altri attiva le capacità di interazione e porta poi a un equilibrio adulto. C’è come una risacca: individui in formazione vengono sospinti verso relazioni virtuali che non superano mai il disagio/conforto della distanza, quell’area “remota” dove l’identità può essere semplicemente mimata. Una terza causa è l’acuirsi delle diseguaglianze, per cui si frantuma la convinzione - che salda alla base i gruppi di amici e amiche - di poter condividere sogni e traguardi. Le spiegazioni si inseguono, i numeri sono impressionanti. Per alcuni studiosi esiste il pericolo di considerare ormai “normale” il disordine psichico: le emozioni che scaturiscono da fallimenti, delusioni, depressioni vengono spostate quasi in automatico verso una patologia. Neutralizzando così un’elaborazione più lenta, togliendo spazio alla ricerca di parole - anche nuove - per comunicare e condividere il male di vivere. È un punto controverso, ma l’appello resta unico. Quello a fermarsi e riflettere. Cominciando ad aiutare le famiglie e le scuole, sovrastate da un’onda già alta come un muro, un’onda che ci separa e respinge. Se i ragazzi non stanno bene, se non sono felici delle loro perfezioni/imperfezioni, se non credono di potersi salvare e poter essere salvati, è l’intero nostro viaggio comune a perdere senso e direzione. Se sul fronte migranti la premier Meloni si smarca dal Capitano di Paolo Delgado Il Dubbio, 3 marzo 2023 La lettera inviata all’Unione Europea dalla presidente del Consiglio certifica una linea ben diversa da quella di Matteo Salvini. Il muro della maggioranza intorno al ministro Piantedosi, per respingere la richiesta di dimissioni avanzata per una volta dall’intera opposizione, era inevitabile. Lasciare aperto anche solo un piccolo varco avrebbe comportato l’esplosione di tensioni interne alla destra potenzialmente incontrollabili. La solidarietà, tuttavia, è stata espressa con diverse ed eloquenti gradazioni d’intensità. La Lega, che considera Piantedosi un proprio ministro, alter ego di Salvini, è stata ferrea, accusando l’opposizione di voler mettere sotto processo il ministro e la guardia costiera al posto dei trafficanti. FdI si è prodigata in elogi per il ministro confermando però la posizione assunta subito dal presidente della commissione Affari costituzionali Balboni e ripresa poi dal ministro Lollobrigida: Piantedosi non si tocca, è bravo, bravissimo, eccezionale. Però è bene che la dinamica dei fatti venga accertata. I Fratelli spiegano che l’insistenza sulla necessità di chiarire le cose è necessaria per impedire che le opposizioni strumentalizzino la tragedia ma sta di fatto che martellare sulla necessità di andare a fondo della vicenda, invece di limitasi come da manuale al classico “lasciamo lavorare la magistratura”, significa ammettere che qualcosa può non essere andato come doveva. Fi difende la posizione assunta dal governo, “la scelta del rigore”, ma sul caso specifico glissa. Giorgia Meloni sembra abbia preso malissimo il primo intervento di Elly Schlein da segretaria del Pd. Però più per l’accusa di reticenza rivolta a lei personalmente che non per la richiesta di decapitare il ministro. A palazzo Chigi quella richiesta corale delle opposizioni, in realtà politicamente obbligatoria, è criticata per diversi motivi: tra i quali non manca la segnalazione che così facendo l’opposizione costringe tutta la destra a blindare Piantedosi. Significa che senza l’incalzare dell’opposizione il ministro sarebbe stato a rischio? Ovviamente no. Significa piuttosto che senza la carica delle opposizioni, forse, sarebbe stato più facile per Meloni prendere le distanze dai toni adoperati, e poi rimangiati per finta, da Piantedosi. La realtà è che sul nodo cruciale e identitario delle politiche dell’immigrazione la destra al governo non parla affatto la stessa lingua, o meglio non la parla più, e lo scarto più clamoroso, pur se ancora sotto pelle, è proprio tra i due partiti che un tempo sembravano attestati su una linea identica: FdI e la Lega. Salvini, da ministro, aveva puntato su un’immagine ringhiosa e spietata messa teatralmente in scena con il blocco delle navi. Non è cambiato molto e quell’impostazione si riflette negli atteggiamenti e nelle formule comunicative di Piantedosi. All’epoca Meloni giocava a presentarsi come più dura del durissimo Matteo, parlava di navi da affondare e blocchi navali. Le cose sono cambiate, certamente sul piano del calcolo mediatico ma un po’, forse, anche nella sostanza. Ora l’immagine che la premier vuole proiettare non è feroce ma empatica, non più ostile ma pragmatica, comunque non gelida: “Questo non è un governo cinico”. La lettera che ha inviato ai vertici della Ue, e che dovrebbe portare alla messa all’odg del problema nella riunione del Consiglio europeo del 23- 24 marzo, è accorata e partecipe. I toni non sono solo diversi ma opposti rispetto a quelli abituali dell’alleato e padrino del ministro degli Interni. C’è di mezzo l’immagine in Europa, e certo la leader in corsa per una piena legittimazione non ci tiene a passare per feroce xenofoba. Ma c’è anche di più: l’esito della crisi del Pd, la segreteria Schlein, può riportare al mercato della politica milioni di elettori “moderati” e spaventati dal “radicalismo” della nuova segretaria. Non è detto che le cose vadano così ma di certo è possibile. Quella massa di elettori non può essere attratta dall’immagine truculenta che sfoggia il capo leghista: ne è anzi allontanata. Quegli elettori Giorgia Meloni li vuole per sé. Ma forse il discorso è anche più profondo: uscita dalla campagna elettorale, a differenza del Salvini del 2019, la leader di FdI è passata dal comiziaccio al pragmatismo. Spera in una soluzione che coinvolga l’intera Ue e quella che ha messo nero su bianco nella lettera alla Ue è meno ferrigna del previsto: corridoi umanitari per i profughi, quote di immigrati legali per tutti gli altri con gestione europea. É una strada che può portare, passo dopo passo, a superare una volta per tutte la Bossi- Fini. Gli ufficiali FdI si uniformerebbero senza alcun dubbio: devono troppo alla premier anche solo per sussurrare dubbi. Fi non punterebbe i piedi: con Salvini significherebbe invece un salto nel buio. Migranti. Crotone, adesso la procura indaga sui mancati soccorsi di Giansandro Merli Il Manifesto, 3 marzo 2023 A Guardia Costiera e di Finanza chiesti gli atti sulle attività precedenti alla strage. Per ora il fascicolo è contro ignoti. Il deputato di Alleanza verdi sinistra Angelo Bonelli: “Abbiamo presentato un esposto alla procura di Roma affinché accerti eventuali responsabilità ministeriali sul naufragio di Steccato di Cutro”. Cinque giorni dopo il naufragio di Steccato di Cutro, il cui bilancio di morti accertati è salito a 68, la procura di Crotone ha aperto un nuovo fascicolo. Dopo le indagini sui presunti scafisti - per due è stato confermato il fermo, un terzo sarà interrogato quando guarirà dal covid e di un quarto si sono perse le tracce - la lente degli inquirenti si rivolge anche alla catena dei soccorsi. I pm hanno chiesto a guardia costiera e guardia di finanza gli atti sulle rispettive attività nelle ore precedenti alla strage. Sulla base di questi documenti valuteranno eventuali ipotesi di reato e relativi indagati. È una svolta attesa quella che arriva dal capoluogo calabrese. Le inchieste giornalistiche di questi giorni e lo scambio di accuse tra le autorità coinvolte nel caso del caicco naufragato a pochi metri dalla riva - per il momento guardia costiera, guardia di finanza e Frontex - lasciavano presagire che il lavoro dei pm non si sarebbe limitato agli scafisti. Sono troppe le ambiguità sulla catena decisionale che ha portato prima a classificare l’evento come “immigrazione irregolare” e non “ricerca e soccorso” (Sar) e poi a non riqualificarlo neanche dopo che due motovedette delle fiamme gialle erano state costrette a rientrare a causa delle condizioni meteomarine. Anche perché le normative sul soccorso in mare prevedono che in simili circostanze valgano dei principi precauzionali che danno priorità alla tutela della vita umana. Lo stabilisce il piano Sar marittimo nazionale, aggiornato nel 2021 sotto il ministero delle Infrastrutture guidato da Paola De Micheli (Pd). “Quando si presume che sussista una reale situazione di pericolo per le persone, si deve adottare un criterio non restrittivo, nel senso che una notizia con un minimo di attendibilità deve essere considerata veritiera a tutti gli effetti”, si legge al punto 310. “Gli elementi di cui eravamo in possesso noi e i colleghi della guardia di finanza non facevano presupporre che vi fosse una situazione di pericolo per gli occupanti”, ha ribadito mercoledì il portavoce dalla guardia costiera Cosimo Nicastro, ospite di Cinque Minuti. Qui però bisogna chiarire il significato tecnico che la parola “pericolo” assume nel contesto delle attività di ricerca e soccorso. Il piano Sar definisce “fase di pericolo”, abbreviata Detresfa, la situazione in cui “si può ritenere che una nave o una persona è minacciata da un grave e imminente pericolo e ha bisogno di soccorso immediato”. Questo però è solo il terzo momento, il più rischioso, di un evento Sar. È preceduto da altri due: incertezza (Incerfa) e allertamento (Alerfa). La stessa distinzione è presente nel regolamento Frontex del 2014. A ognuno di questi momenti corrispondono procedure specifiche che hanno l’obiettivo di monitorare la situazione e preparare - da subito, cioè dall’arrivo di una notizia di un pericolo anche solo potenziale - l’eventuale intervento. La recente sentenza del tribunale di Roma sul “naufragio dei bambini”, avvenuto l’11 ottobre 2013 pochi giorni dopo l’altra strage di migranti davanti a Lampedusa, ha ribadito che il soccorso in mare è da intendere come un unico momento composto dalle tre fasi. Per il caicco naufragato nel crotonese, però, nessuno ha aperto un caso di ricerca e soccorso. Neanche in “fase di incertezza”, che lo stesso piano Sar definisce quella in cui “si può sospettare della sicurezza di una nave e delle persone che vi sono a bordo, o di singole persone”. Eppure nella segnalazione di Frontex c’erano tutti gli elementi per, quantomeno, “sospettare” dei rischi per le persone a bordo. Anche perché è pacifico che i barconi su cui viaggiano i migranti non rispettano le norme di sicurezza della navigazione. Intanto ieri dieci parlamentari di “Alleanza verdi e sinistra” hanno depositato un esposto affinché si chiariscano tutte le circostanze e le eventuali responsabilità che potrebbero aver causato la strage al largo delle coste calabresi. “Abbiamo appena presentato al posto di polizia del Senato un esposto con cui chiediamo alla procura di Roma, non di Crotone, di aprire un’indagine sulle responsabilità ministeriali riguardo alla tragica sventura avvenuta a Crotone - afferma il co-portavoce di Europa Verde Angelo Bonelli - perché vogliamo sapere se ci sono responsabilità sui soccorsi non di tipo locale ma ministeriale”. Dove i ministeri coinvolti sono l’Interno, cioè Matteo Piantedosi, e le Infrastrutture, guidato da Matteo Salvini. “Vogliamo sapere se ci sono state direttive sottintese che avevano l’obiettivo di non fare uscire le navi della guardia costiera”, continua Bonelli. Migranti. Per i “carichi residuali” operazioni di polizia di Ascanio Celestini Il Manifesto, 3 marzo 2023 Domenica 26 febbraio 2023, prima dell’alba, a pochi metri dalla costa calabrese, si muovono i finanzieri, non i soccorritori. Per il governo non hanno bisogno di aiuto, ma di controllo. Come trafficanti di sigarette, come oggetti in un container. In fondo Piantedosi è quello che faceva scendere i migranti a singhiozzo da una nave che li aveva salvati. E definiva i naufraghi che stavano ancora a bordo con una parola tecnica, ricordate? Carico residuale. Al netto delle dichiarazioni che dimenticheremo, al netto delle responsabilità che saranno verificate, c’è un problema centrale. Perché il primo a occuparsi dei naufraghi è il ministro dell’interno? Il capo di Gabinetto fa carriera. Piantedosi è chiamato da Salvini al ministero dell’interno e ci resta con Lamorgese. Garantisce la continuità di un comportamento istituzionale che non è mutato nella sostanza almeno dai tempi di Minniti. Cambia la punteggiatura, ma non il contenuto. Gli accordi con la Libia li votano (quasi) tutti. Quelli che prevedono il sostegno alla cosiddetta guardia costiera libica. E conosciamo (o dovremmo conoscere) le storie dei migranti che in Libia vengono carcerati e torturati. Gli uomini venduti come schiavi e le donne stuprate. Non sempre, ma spesso. Ma perché il ministro dell’interno sta in prima linea quando si parla di migranti? Perché non quello degli esteri visto che provengono da terre oltre i confini? Persino il ministro della Sanità potrebbe interessarsene. In un paese civile dovrebbe essere lui a prendere la parola. Proprio un medico, Orlando Amodeo, lo dice poche ore dopo il naufragio che si poteva intervenire e provare a salvare i naufraghi. Un’imbarcazione con circa 200 persone stipate è partita dalla Turchia. Donne, uomini e soprattutto tanti ragazzi e bambini che scappano dall’inferno dell’Iraq, Iran, Afghanistan e Siria. Non si fermano in Grecia dove rischiano il primo respingimento. Se passassero quello ne rischierebbero altri lungo i Balcani. Così puntano all’Italia. E dovrebbe essere una gioia che qualcuno ci consideri un paese democratico. Un aereo di Frontex li avvista e sostiene di aver subito avvisato le autorità italiane. L’imbarcazione è precaria, viene colpita da un’onda o sbatte contro qualcosa. Si rovescia, si spezza e finiscono tutti in acqua. Stanno a poche decine di metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro, interviene la Guardia di Finanza che fa subito dietrofront. Per le sue imbarcazioni il mare è troppo grosso. Infatti la prima notizia è che non si poteva operare un salvataggio perché la tempesta lo impediva. Ma il medico Amodeo, che per anni ha salvato naufraghi in mare, lo dice subito in diretta televisiva che la Guardia Costiera può uscire anche in quelle condizioni. Anche peggiori. Il ministro questurino Piantedosi lo redarguisce, quasi lo minaccia. Ma la dichiarazione è smentita pochi giorni dopo dal comandante della capitaneria di porto di Crotone, Vittorio Aloi. “A noi risulta che domenica il mare fosse forza 4, ma motovedette più grandi avrebbero potuto navigare anche con mare forza 8”. E allora perché s’è mossa la Finanza e non la Guardia Costiera? Il ministro competente è l’ex capo di Piantedosi. È Salvini e si occupa di infrastrutture e trasporti. Viene chiamato in causa mercoledì 1 marzo dalla neo segretaria del Pd Elly Schlein che menziona anche Giorgetti, ministro di economia e finanze, quello competente in merito alla Guardia di Finanza. Schlein chiede le dimissioni di Piantedosi anche solo per le dichiarazioni che appaiono subito scandalose. Prima dice che i migranti non dovrebbero partire, che è da irresponsabili soprattutto per i genitori che portano i bambini. Poi si corregge e dice che andrà lui a prenderli direttamente nei loro paesi. Poi ne dice una più grossa. “Io non partirei se fossi disperato perché sono stato educato alla responsabilità”. Lui resterebbe a battersi per il suo paese! E lo dice a Cutro, a pochi metri dalle decine di bare in fila dentro un palasport. Al netto delle dichiarazioni che dimenticheremo, al netto delle responsabilità che saranno verificate, c’è un problema centrale. Perché il primo a occuparsi dei naufraghi è il ministro dell’interno? Cerco una definizione ufficiale per capire il suo ruolo. La trovo nel primo articolo della legge 121/81. Leggo che “è responsabile della tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica”. Questo è il problema centrale. Tranne la breve esperienza dell’operazione Mare Nostrum, dai tempi di Maroni fino a i nostri governi la migrazione è un problema di ordine pubblico. Gli stranieri sono potenziali criminali che vengono a rubare e stuprare, altre volte sono indecorosi nullafacenti che campeggiano nelle piazze col telefono in mano. Insomma sono nemici, invasori. I migranti? Esuli due volte. Se ritornano in Africa hanno il marchio di falliti di Jacopo Storni Corriere della Sera, 3 marzo 2023 Chi rientra al Paese dopo anni di Europa è trattato come un reietto. Kayla, Assane e gli altri: “Per la famiglia siamo un disonore”. I progetti delle ong per il reinserimento nelle comunità di origine. Quando Kayla è tornata in Senegal, suo zio l’ha accusata di essere pazza. Poi ha smesso di parlarle. I suoi vicini di casa la guardavano male. E anche i suoi cugini sono rimasti profondamente delusi. Kayla è tornata in Senegal dopo alcuni anni difficili in Europa: “Al lavoro ci schiavizzavano, non potevo riposarmi, non avevo il diritto di alzarmi in piedi, dovevo rimanere sempre con la schiena piegata a raccogliere la frutta, senza sosta”. Così ha scelto di tornare indietro, ha fatto il grande viaggio però al contrario, dall’Europa alla sua Africa. Ma quando è tornata in patria, ha trovato soltanto sguardi attoniti, quasi increduli, adirati. “Mi hanno detto che avevo fallito”. In tanti, nella sua famiglia, speravano di raggiungere l’Europa attraverso un ricongiungimento familiare con lei. “La mia famiglia e perfino i miei figli mi hanno rimproverata. Volevano che rimanessi in Europa per avere i documenti, portarli tutti in Europa, sistemarli”. Ma così non è stato e oggi Kayla lotta per integrarsi nella sua città di origine. Quasi un paradosso. Una storia come tante, quella di Kayla, migrante africana che sceglie di tornare nel suo Paese dopo aver scoperto che l’Europa e l’Italia non sono quell’Eldorado che immaginavano. Va peggio ai migranti che provengono dai piccoli villaggi. Quando tornano nei loro luoghi, succede spesso che vengano giudicati, stigmatizzati, talvolta addirittura emarginati. A raccontare le loro storie è il progetto Migra, portato avanti dalla ong Cospe assieme alle ong Lvia e Cisv attraverso una serie di interviste realizzate negli ultimi due anni nella regione senegalese Casamance. Un progetto che ha lavorato principalmente al reinserimento sociale e lavorativo dei migranti di ritorno. Tra loro c’è anche Assane: “La gente della mia comunità Manjack adesso mi considera come una persona che è emigrata ed è tornata senza avere successo, che ha fallito. E non è facile sentirsi ogni giorno giudicati”. E poi Mohamed: “Quando sono rientrato mia sorella mi ha accolto piangendo perché sapeva quanto fosse grande il mio desiderio di aiutare la famiglia dall’Europa. Quando cammino per le strade del mio villaggio mi sento osservato, per le persone sono quello che è partito e poi è tornato”. E ancora Halima: “Al mio ritorno mio padre e mia madre non mi guardavano neppure negli occhi, l’unico con cui avevo un dialogo era mio fratello, mi ha incoraggiata molto. Gli amici e i parenti mormorano sempre alle mie spalle”. E infine Pape: “I senegalesi del mio villaggio pensano che i migranti che rimpatriano debbano tornare con i milioni in tasca, mentre io tornavo praticamente a mani vuote”. È la storia di tanti ragazzi e ragazze che non trovano in Europa quello che si aspettavano. E che si ritrovano sfruttati, emarginati, spesso soli e senza una rete familiare. E che allora scelgono di tornare, andando però incontro a un destino non felice. Certo non tutti vengono stigmatizzati quando fanno rientro a casa, ma sono tanti quelli che hanno problemi. “Nei confronti di chi lascia l’Africa - ha spiegato Anna Meli del Cospe - c’è una grande aspettativa familiare rispetto al successo. Quando il grande viaggio torna al punto di partenza, nella comunità si respira un senso di fallimento collettivo che però viene imputato all’individuo, provocando in lui un profondo senso di disagio e inadeguatezza. Succede perfino che la persona che è rimpatriata non venga ammessa alla vita comunitaria del villaggio, come se dovesse espiare una colpa che in realtà non ha commesso. Il dramma di queste persone è duplice: da una parte il trauma della migrazione, dall’altra gli effetti psicologici e sociali dell’emarginazione al ritorno”. Proprio per questo nella regione Casamance è nato uno sportello di sostegno psicologico all’interno di un centro di salute, un progetto supportato dalla sanità locale e avviato grazie alla sensibilizzazione delle Ong che hanno portato avanti le decine di interviste ai migranti di ritorno. E proprio su questo tema il Cospe ha promosso un ulteriore progetto, Nouvelles Perspectives, che intende migliorare la conoscenza da parte dei giovani senegalesi, potenziali migranti, delle alternative alla migrazione irregolare. Un progetto grazie al quale il giornalista senegalese Mohamed Sagna è volato in Italia per intervistare alcuni migranti suoi compatrioti e trasmettere i loro racconti nelle radio del proprio Paese. Droghe. A scuola si parla di cannabis, irrompe la polizia di Leonardo Fiorentini* Il Manifesto, 3 marzo 2023 Il segretario nazionale di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, e Davide Faraone, deputato di Azione-Italia Viva, annunciano un’interrogazione parlamentare ai ministri dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, e degli Interni, Matteo Piantedosi. Tutto avviene martedì mattina a Piazza Armerina, in provincia di Enna: durante un’assemblea di Istituto, regolarmente convocata, la Polizia della locale Questura - allertata da una “segnalazione anonima” - entra all’interno della Scuola superiore Majorana-Cascino e identifica gli organizzatori, ovvero i rappresentanti di Istituto della componente studentesca nel pieno delle loro funzioni. Cosa da lasciar sbalorditi, non fosse che il tema dell’assemblea era la legalizzazione della cannabis, e l’invitato esterno fosse Pierluigi Gagliardi, collaboratore di “Meglio Legale”. Non si conosce l’oggetto di questa “segnalazione anonima”: la Preside, in quel momento assente, ha dovuto confermare in videochiamata di aver autorizzato l’assemblea, cosa che non ha fatto desistere gli agenti dal chiedere le generalità agli studenti. I quali, stupiti della loro presenza, si sarebbero sentiti rispondere alle legittime richieste di spiegazione rispetto all’intromissione un eloquente “le domande le facciamo noi”. Che importa se studenti e studentesse avessero deciso di esercitare il proprio diritto di parlare di un argomento che li riguarda da vicino, consumino o non consumino, invitando un ospite in collegamento remoto. Che importa in fondo se le assemblee “costituiscono occasione di partecipazione democratica per l’approfondimento dei problemi della scuola e della società in funzione della formazione culturale e civile degli studenti” (Art. 13, DL n. 297/94). Un diritto degli studenti che, insieme a quello di libertà di espressione, di rango costituzionale, passa serenamente in secondo piano quando si parla di una pianta che accompagna l’uomo da millenni, ma che è diventata il nemico numero uno delle forze dell’ordine italiane. Basta nominare la cannabis per mettere in allarme le Questure. Sono i dati raccolti ogni anno sul Libro Bianco sulle droghe e sulla relazione del Dipartimento Centrale dei Servizi Antidroga che dimostrano come la cannabis sia al centro della repressione, non solo dello spaccio. Si tratta della sostanza che è stata usata nella vita da più di un terzo degli italiani e così oltre un milione sono le persone segnalate al prefetto per uso di cannabis dal 1990 ad oggi, oltre il 70% del totale. Quello di Piazza Armerina è un fatto di una gravità inaudita: talmente grave ed eccezionale che non può essere in alcun modo derubricato a “normale controllo”. Talmente grave che il segretario nazionale di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, e Davide Faraone, deputato di Azione-Italia Viva, annunciano un’interrogazione parlamentare ai ministri dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, e degli Interni, Matteo Piantedosi. Un fatto che non può non essere messo in collegamento con la perquisizione di un minore senza la presenza dei tutori avvenuta in questi giorni all’interno una scuola fiorentina, oppure con quanto successo due settimane fa alla Fiera di Roma, a Canapa Mundi. Oltre 500 campioni sequestrati, Polizia, Carabinieri, Forestali e Guardia di Finanza impegnate in 3 giorni di assillanti, costosi e assurdi controlli in mezzo agli stand di onesti imprenditori. Il tutto finito con una denuncia per spaccio, per un campione che avrebbe sforato il limite consentito, trovato nello stand delle associazioni dei pazienti. Le forze dell’ordine non dovrebbero entrare nelle Università o nelle Scuole. Ormai la prassi è il contrario. Non tanto per quel che è successo recentemente alla Sapienza, ma perché grazie a “Scuole Sicure” i cani antidroga sono di casa davanti alle nostre scuole - a volte anche dentro - magari pochi giorni dopo che i loro conduttori graduati sono intervenuti a una qualche assemblea sulla prevenzione delle dipendenze. Un cortocircuito letale per un rapporto educativo sano, che criminalizza i giovani proprio a Scuola e che troppo spesso - in assenza di un minimo buon senso pedagogico - attribuisce ai rappresentanti delle forze dell’ordine compiti che non sono loro. Tornando al caso di specie. Non sappiamo se esista un ordine esplicito del Ministro Piantedosi, una circolare o un passaparola che dal Viminale sia arrivato alle Questure italiane per “attenzionare” in modo particolare la cannabis. Forse non siamo ancora alla “guerra via per via, negozio per negozio, quartiere per quartiere, città per città” del mai rimpianto Ministro della Paura Matteo Salvini, e si tratta solo di una gara dei quadri intermedi per accreditarsi presso il Ministro “questurino”. Un meccanismo perverso di adeguamento preventivo della base alle politiche dei vertici. È però evidente che dagli urli degli anni scorsi, con il Governo Meloni siamo passati ai fatti. La Destra al potere dimostra la propria forza repressiva in silenzio, colpendo i singoli, uno per uno. Siano sequestri durante fiere internazionali o intimidatorie identificazioni all’interno di edifici scolastici. L’importante è che il resto del paese non rimanga in silenzio. *Direttore di Fuoriluogo Ucraina. “A Kherson torture premeditate” di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 3 marzo 2023 Inchiesta degli esperti forensi del “Mobile Justice Team” con la Procura di Kiev. “Quello dei russi era un piano calcolato per terrorizzare la popolazione ucraina”. “Un piano calcolato per terrorizzare” la popolazione locale. È questa la conclusione, resa nota ieri, alla quale sono arrivati gli investigatori del governo ucraino che indagano sulle cosiddette camere di tortura scoperte a Kherson, nel sud del paese, dopo la ritirata dei russi e l’ingresso in città dei soldati ucraini. L’inchiesta è stata resa possibile non solo dal lavoro degli esperti di Kiev ma anche e soprattutto grazie all’opera svolta dal Mobile Justice Team. Si tratta di un pool di legali, composto sia da veri e propri avvocati sia da esperti forensi, che si muovono rapidamente nelle zone di conflitto cercando di rintracciare le responsabilità di chi commette crimini di guerra. In questa maniera il “Mjt” è riuscito a raccogliere le prove che hanno mostrato come i centri di detenzione russi non fossero casuali, ma parte di un piano finanziato direttamente da Mosca. Il team di avvocati che ha portato alla luce il crimine era composto appunto sia da ucraini sia da esperti di altre nazioni guidati da un avvocato britannico. Le squadre di investigazione sono collegate al Global Rights Compliance, un’organizzazione internazionale che lavora insieme agli organismi giudiziari: in Ucraina il Grc è presente fin dal 2015, quando gli scontri in Donbass tra governativi e milizie separatiste, iniziati un anno prima, divennero molto cruenti. Le squadre mobili agiscono a stretto contatto con il procuratore generale (Opg), lo assistono in tutte le fasi e gli aspetti delle indagini, della ricostruzione dei casi e dell’azione penale. Grazie al loro modo di lavorare e all’agilità che li contraddistinguono, gli uomini e le donne del Mobile Justice Team sono riusciti ad indagare su almeno venti camere di tortura a Kherson. La città è rimasta sotto il controllo russo per otto mesi, dal 2 marzo dello scorso anno fino a quando, l’11 novembre successivo, le forze ucraine sono entrate in città. È su questo lasso di tempo che si è focalizzata l’attenzione del “Mjt”: dopo aver raccolto testimonianze e analizzato i siti allestiti dagli occupanti, gli avvocati sono arrivati ad argomentare, come esposto dal legale che ha guidato le squadre, Wayne Jordash, che i centri di sevizie erano indirizzati deliberatamente a “terrorizzare, soggiogare ed eliminare la resistenza ucraina e distruggerne l’identità”. L’inchiesta è stata resa possibile grazie alle denunce e alle prove raccolte attraverso l’intervista di almeno mille sopravvissuti. Dai racconti, serviti a portare avanti poi le risultanze delle indagini, è emerso che quattrocento persone, catturate dai russi, risultano attualmente scomparse da Kherson. Non si conosce la loro sorte ma si è appreso che i centri di detenzione erano gestiti dai servizi di sicurezza di Mosca, dall’Fsb, così come dal servizio carcerario russo e dai collaboratori locali. I prigionieri includevano chiunque avesse un legame con lo Stato ucraino o con la società civile: si trattava di attivisti, giornalisti, dipendenti pubblici e insegnanti. Altre vittime hanno affermato di essere state fermate casualmente per strada e poi detenute con l’accusa di avere semplicemente materiale pro- ucraino sui loro telefoni. In molti sono stati sottoposti a percosse fisiche, torture con scosse elettriche e waterboarding. Sono stati costretti a imparare e recitare slogan, poesie e canzoni filo-russe. Sebbene le indagini delle squadre di giustizia agiscano in piena autonomia, esse non sono completamente indipendenti. Come ha spiegato lo stesso avvocato Jordash, sono finanziate dal Foreign office del Regno Unito, dall’Ue e dal dipartimento di Stato Usa. L’intento è comunque quello di colmare un vuoto nel servizio di Procura nazionale dell’Ucraina attraverso la formazione e il tutoraggio. Già prima dell’invasione, l’Ucraina aveva ottomila pubblici ministeri, ma solo il dipartimento per i crimini di guerra e due unità avevano esperienza nelle indagini su casi di questa portata. Belgio. Condannata all’ergastolo ottiene di morire con l’eutanasia Il Dubbio, 3 marzo 2023 È una vicenda drammatica ai confini tra la follia e l’etica. Una donna di nazionalità belga, di 56 anni, condannata all’ergastolo nel 2008 per aver ucciso i suoi cinque figli (che avevano fra i 3 e i 14 anni), è morta ieri mattina tramite eutanasia in un ospedale della regione della Vallonia in Belgio. La notizia è stata riportata dai quotidiani locali. Si chiamava Geneviéve Lhermitte: è deceduta all’ospedale Leonardo da Vinci di Montigny- le-Tilleul dopo aver chiesto e ottenuto l’eutanasia “per sofferenza psicologica irreversibile”, come riporta l’edizione online del giornale Sudinfo. Questi i fatti: il 28 febbraio 2007, Lhermitte uccise a coltellate uno dopo l’altro i suoi cinque figli nelle rispettive stanze, approfittando dell’assenza del marito che era in viaggio all’estero. Al termine della mattanza tentò senza successo di togliersi la vita, lasciando un biglietto per la richiesta di soccorsi. Il Tribunale di Nivelles, a sud di Bruxelles, la condannò all’ergastolo nel dicembre 2008, dopo che la giuria la ritenne capace di intendere e di volere e colpevole di omicidio premeditato. Il caso sconvolse profondamente l’opinione pubblica belga, che seguì con attenzione lo sviluppo delle indagini e del processo. Fino al giorno stesso del giudizio, gli psichiatri che avevano esaminato le condizioni di Lhermitte la ritennero responsabile delle proprie azioni, nonostante fosse in uno stato di ansia acuta e di depressione. Ma durante le udienze, emerse una lettera che la donna aveva scritto al suo psicologo il giorno prima degli omicidi, lettera in cui rivelava i propri piani per suicidarsi e “prendere con sé” i figli. Una seconda analisi svolta dopo questa rivelazione indicò che la donna non poteva essere ritenuta responsabile delle sue azioni, raccomandando il suo ricovero in una clinica psichiatrica. Dopo l’incarcerazione, Lhermitte aveva beneficiato della libertà condizionale per essere sottoposta a cure psichiatriche. Poi la drammatica decisione sull’eutanasia avallata dalle autorità. Il Belgio è in assoluto il paese europeo che ha le leggi più liberali sulla possibilità di ricorrere al suicidio assistito. Medio Oriente. La pena di morte per puntellare l’apartheid israeliana di Riccardo Noury* Il Manifesto, 3 marzo 2023 Nonostante la procuratrice generale avesse avvisato che sarebbe stato meglio valutare prima se il provvedimento avrebbe potuto avere qualche effetto deterrente, domenica scorsa il comitato legislativo del governo israeliano ha dato via libera alla legge sulla pena di morte. Al di là dell’impressione suscitata dall’assistere a un passo del genere proprio nell’unico stato del Medio Oriente in cui la pena capitale non è applicata, il testo lascia sgomenti: per com’è scritto, è evidente che non riguarderà il caso, contrario, in cui l’omicida sarà un ebreo e l’ucciso un palestinese Secondo il testo proposto dal partito di destra Otzma Yehudit, che ieri ha passato il primo voto in parlamento, “chi intenzionalmente o meno causa la morte di un cittadino israeliano, se l’atto è portato a termine per motivi razzisti o di odio allo scopo di danneggiare lo stato di Israele e la rinascita del popolo ebraico nella sua patria”, è passibile di pena di morte. Se il crimine è commesso in Cisgiordania, la pena verrà inflitta da un tribunale militare anche in caso di non unanimità del verdetto. Il ministro per la Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha dichiarato che “si tratta di una legge morale, tanto più necessaria in uno stato in cui i cittadini israeliani vengono presi di mira da un’ondata di terrorismo, e che esiste nella più grande democrazia del mondo”, un chiaro riferimento agli Stati uniti. Che dunque non avranno motivo di protestare. Nella nota di accompagnamento alla legge, si fa riferimento al “grande effetto deterrente” della pena di morte, che peraltro proprio negli Stati uniti ha dimostrato di non esistere. Al di là dell’impressione suscitata dall’assistere a un passo del genere proprio nell’unico stato del Medio Oriente in cui la pena di morte non è applicata (il numero globale è di 144 stati, l’ampia maggioranza del pianeta) e del ritorno della mai dimostrata idea della “deterrenza”, il testo lascia sgomenti: per com’è scritto, è evidente che non riguarderà il caso, contrario, in cui l’omicida sarà un ebreo e l’ucciso un palestinese. Non a caso, Amnesty International Israele ha preso una posizione ferma: l’organizzazione per i diritti umani ha definito la legge “un altro tassello di un colpo di stato legale che intende aggirare se non eliminare gli ultimi contrappesi che, di tanto in tanto, hanno cercato di difendere i diritti umani delle minoranze: un colpo di stato legale nato dalla contorta idea della supremazia ebraica e che intende legittimarla”. Siamo di fronte a un altro tassello del sistema di apartheid israeliano: una legge che crea una distinzione su base nazionale ed etnica tra chi compie un omicidio e di cui si propone l’applicazione anche dove la legge della Knesset non ha competenza e dove regnano le ordinanze militari, ossia nei Territori occupati palestinesi. L’orrore è che il sistema dell’apartheid si rafforzi attraverso una legge sulla pena di morte. L’Europa, che ha una consolidata posizione abolizionista e che è da tempo promotrice delle risoluzioni contro la pena di morte all’Assemblea generale delle Nazioni unite, prenderà posizione? O prevarrà, come sempre quando si tratta di diritti umani, “l’eccezione Israele”? Anche di questo si parlerà il 14 marzo a Roma, in un convegno in programma alle 15.30 all’Università La Sapienza cui prenderanno parte, tra le altre, Francesca Albanese (relatrice speciale delle Nazioni unite sui diritti umani nei Territori palestinesi occupati dal 1967), Leila el Houssi (docente di Storia e istituzioni dell’Africa presso la facoltà di Scienze politiche, Sociologia e Comunicazione), la giornalista e scrittrice Paola Caridi e, per Amnesty International, la coordinatrice delle campagne Tina Marinari. *Portavoce Amnesty International - Italia