Caro Pd, difendiamo il diritto dal giustizialismo di Valeria Valente Il Riformista, 31 marzo 2023 La Carta tutela i detenuti da trattamenti disumani e dalla violenza fisica e morale. Perché si nega la foto dei genitori all’anarchico? A che titolo si tiene in cella l’ex vicepresidente del Parlamento Ue? Il caso Cospito e il confronto sul 41 bis, la vicenda della ex vicepresidente del Parlamento europeo Eva Kaili, da più di 100 giorni in carcerazione preventiva: possiamo mai girare lo sguardo dall’altra parte e non osservare le contraddizioni che portano alla luce? Ammetterle rende lo Stato uno stato di diritto e una democrazia veramente tali. Uno stato autorevole e credibile è quello che tutela i diritti costituzionali e umani, che ripudia le inutili vessazioni di un detenuto o l’uso della carcerazione come strumento di pressione e che condanna qualsiasi forma di tortura. Serve coraggio in tempo di giustizialismo mediatico, me ne rendo conto. Ma dobbiamo averlo, soprattutto noi Democratici. Il caso Cospito e il confronto sul 41 bis che ne è scaturito, la vicenda della ex vicepresidente del Parlamento europeo Eva Kaili, da più di 100 giorni in carcerazione preventiva: possiamo mai girare lo sguardo dall’altra parte e non osservare le contraddizioni che portano alla luce? No, non possiamo. Si tratta del resto di un tema che riguarda tutti noi, cittadini di un’Europa che dovrebbe essere culla dello Sato di diritto e dei diritti umani. La Costituzione all’articolo 27 afferma: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. All’articolo 13 stabilisce: “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. E, infine, all’art. 32 sancisce: “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. È dunque responsabilità dello Stato che questi principi costituzionali siano rispettati nel caso di una persona privata della libertà. E si tratta di principi che strutturano anche la Dichiarazione universale dei diritti umani. Proprio questo è l’orizzonte di riferimento da tenere presente sempre, anche in queste vicende che, seppur diverse, pongono però lo stesso interrogativo sulla tenuta dello Stato di diritto e della democrazia. Chiarisco subito un punto. Il 41 bis è uno strumento eccezionale, volto ad evitare il passaggio di ordini e comunicazioni tra i detenuti in carcere e le loro organizzazioni criminali di riferimento sul territorio. Questo istituto e la sua finalità, dovuta alla salvaguardia della sicurezza pubblica, vanno mantenuti e difesi. E per questo la sua attuazione deve essere verificata con puntualità rispetto alle singole situazioni, che è la modalità più importante che abbiamo per proteggerne l’utilità e la funzione. Con questo scopo, come è loro diritto-dovere, alcuni parlamentari hanno svolto l’ispezione al carcere di Bancali, di cui tanto si è discusso. Un penitenziario dove un detenuto, in custodia dello Stato, era a rischio di vita a causa dello sciopero della fame intrapreso per denunciare i trattamenti disumani e degradanti di cui afferma di essere vittima. L’impossibilità, per esempio, di tenere in cella le foto dei genitori defunti a quale ratio di sicurezza pubblica risponde? A quale fine rieducativo della pena? L’impossibilità che una bambina di venti mesi veda la madre - Eva Kaili, sottoposta a regime di natura eccezionale da più di 100 giorni, cioè a una misura cautelare quando ancora non è stato celebrato il processo e quindi senza averne accertata la colpevolezza- a quale ratio risponde? È così garantito il primo interesse che è quello che afferisce la vita di un minore? Ammettere che siamo di fronte a evidenti contraddizioni rende lo Stato uno stato di diritto e una democrazia veramente tali. Uno stato autorevole e credibile è quello che tutela i diritti costituzionali e umani, che ripudia le inutili vessazioni di un detenuto o l’uso della carcerazione come strumento di pressione e che condanna qualsiasi forma di tortura. Un reato di tortura che, invece, una destra reazionaria al governo sta mettendo in discussione, dopo aver fatto naufragare la nostra proposta per evitare la permanenza in carcere dei figli delle detenute, avanzata per garantire il primario interesse dei bambini. La forza dello Stato sta dunque nell’osservare regole e leggi che si è dato, soprattutto di fronte a chi ha commesso crimini efferati oppure reati gravissimi. Sta, in sostanza, nell’evitare il cedimento di farsi “uguale” a chi condanna e punisce a fine rieducativo. Lo spiegano, da mesi, anche eminenti giuristi, le camere penali, esponenti del mondo delle associazioni per i diritti. Voglio ricordare fra tutti Gerardo Colombo che con competenza e pietas invita, da tempo, ad alzare lo sguardo, portando la riflessione sul carcere ad un livello più alto, tenendo conto anche delle condizioni che in esso si vivono. Questa riflessione va alimentata proprio oggi, quando cresce l’allarme per il terrorismo e l’indignazione per quanto accaduto al Parlamento europeo. Perché farlo non è un segno di debolezza, non è trattare o cedere. Al contrario è riaffermare la forza e la diversità dello Stato e della democrazia rispetto a chi li sta minacciando o ne compromette il valore. Serve coraggio nel sostenere “certe” posizioni in tempo di giustizialismo mediatico, me ne rendo conto. Ma dobbiamo averlo, soprattutto noi Democratici. Abbiamo infatti alle spalle una storia limpida di contrasto alla mafia e al terrorismo, di promozione della legalità e dei diritti umani. Una storia che non accetta insegnamenti e che vive ogni giorno nel ricordo di Pio La Torre, Piersanti Mattarella, Guido Rossa e di quanti e quante sono morti per la democrazia. *Senatrice Pd, componente della commissione Affari costituzionali “Pestati in cella”. Ma con la riforma non è più “tortura” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 marzo 2023 Violenze e umiliazioni. Accusati 28 agenti del carcere di Biella. Ma con la nuova legge... Atti di violenza fisica e psicologica, minaccia grave, senza pantaloni e abbassati gli slip per generare umiliazione, con tanto di manette ai polsi e nastro adesivo nelle gambe. Così avrebbero agito i 28 agenti della Polizia penitenziaria nei confronti di tre detenuti stranieri del carcere di Biella, e quindi accusati di tortura a partire da primo episodio avvenuto l’11 giugno del 2022. L’indagine è partita quando il vice Comandante pro tempore aveva redatto una comunicazione di notizia di reato nei confronti di un detenuto deferito in stato di libertà. Nella nota, il Comandante sottolineava una serie di violenze e minacce da parte del detenuto, asserendo di “aver dovuto utilizzare del nastro adesivo” per legarlo per qualche minuto nonostante quest’ultimo fosse già ammanettato. Una chiara violazione dell’art. 41 della Legge sull’Ordinamento Penitenziario. La comunicazione, invece di smorzare qualunque domanda sui soprusi, ha fatto dunque partire un’indagine da parte della Procura. Indagine che ha portato, con l’ordinanza del GIP depositata il 22 marzo scorso, all’applicazione di misure cautelari nei confronti dei 28 agenti della polizia penitenziaria del carcere di Biella dove appunto sarebbero avvenute le torture. Ma potrebbero essere anche di più, visto che ancora non sono stati identificati altri agenti che avrebbero partecipato alla violenza. Un episodio riguarda il detenuto Mehdi Hozal. Contenuto con manette ai polsi e nastro adesivo sulle gambe, avrebbe ricevuto - così si legge nell’ordinanza - acute sofferenze fisiche dovute ai colpi inferti, refertate come “arrossamento al costato sinistro e graffi in regione sternale” e un verificabile trauma psichico sfociato anche in atti di autolesionismo sottoponendolo tra l’altro ad un trattamento inumano e degradante per la dignità della sua persona. In particolare, su ordine del commissario, dopo aver condotto il detenuto Mehdi all’interno della cella situata presso la sezione nuovi giunti, lo avrebbero ammanettato con le braccia dietro la schiena e poi lo avrebbero accerchiato mentre uno di loro lo avrebbe colpito con degli schiaffi sul volto e, dopo averlo scaraventato per terra, ancora con dei calci sul fianco sinistro. Successivamente, sempre su ordine del commissario, lo avrebbero di nuovo accerchiato e legato con del nastro adesivo apposto sulle caviglie, sulle ginocchia e sulle spalle nonostante fosse stato già ammanettato e, per evitare che il detenuto si dimenasse, uno di loro gli avrebbe messo un piede sul petto. Non solo, dopodiché lo avrebbero trascinato dentro la cella tenendolo per le spalle mentre veniva preso per la gola e minacciato dicendo: “sei un uomo di merda io ti rovino, sei solo un delinquente” e infine lo avrebbero spinto dentro la cella scaraventandolo sulla panchina. Usiamo il condizionale, anche se alcune scene sono riprese dalle telecamere della videosorveglianza. E proprio in questi filmati si vede chiaramente che alcuni agenti penitenziari si sono resi conto delle violenze gratuite e hanno allontanato alcuni di loro. Complessivamente la persona offesa è stata tenuta ammanettata e legata con il nastro adesivo per tre ore, fino a quando non è stato trasferito nel carcere di Cuneo. Mentre si trovava all’interno della cella “nuovi giunti”, Mehdi era stato anche visitato da due medici, come riferito dal detenuto e come risulta dai referti. La dottoressa, nel suo referto, dà atto del fatto che Mehdi era legato con il nastro adesivo, ma non aveva riscontrato la presenza di lesioni in quel momento, difformemente da quanto certificato al momento dell’arrivo del detenuto nel carcere di Cuneo. Sentita a sommarie informazioni ha precisato che “la mancata certificazione della contusione al torace sta ne/fatto che le ecchimosi o l’ematoma possono insorgere a distanza di 416 ore rispetto all’evento contusivo pertanto non l’ho riscontrato nell’immediato anche perché il paziente è stato immediatamente tradotto verso altra casa circondariale. Dunque è verosimile che i segni siano comparsi in un momento successivo”. Stesse violenze sarebbero avvenute nei confronti di un altro detenuto, Katcharava lraklia, tanto che i violenti colpi ricevuti gli hanno causato una “algia emicostato sx e mandibolare” e un verificabile trauma psichico sfociato in disturbo post-traumatico. Su ordine del commissario, un gruppo di agenti lo avrebbero trascinato fuori dalla cella d’isolamento scaraventandolo a terra. Lo avrebbero umiliato togliendogli i pantaloni e poi con un piede in testa per tenerlo fermo, gli sarebbe stata rivolta la seguente frase “qua noi facciamo così sono le nostre regole, merda”. Lo avrebbero ammanettato con le braccia dietro la schiena, legato anche le caviglie e colpito su tutto il corpo dandogli anche degli schiaffi sul viso. Stessa sorte nei confronti del detenuto Bourzaik Ossama. Lo avrebbero dapprima minacciato con i manganelli e, dopo averlo condotto nella cella sita nel corridoio della sezione nuovi giunti, lo avrebbero umiliavano facendogli abbassare i pantaloni e gli slip e facendogli alzare la maglia fino al collo appoggiandogli il manganello sotto il mento e sul corpo rivolgendogli la seguente frase “avanti forza parla cosa hai da dire ora”. E lo avrebbero ancora minacciato dicendo “se reagisci ti lego con il nastro adesivo e ti porto via come un salame”, dopodiché lo avrebbero messo con il volto contro il muro e colpito su tutto il corpo con manganelli, gomitate, calci, schiaffi e gli avrebbero tirato i capelli insultandolo con le seguenti frasi “marocchino di merda, tu non comandi qui” e ammonendolo dicendo “ti è bastato? con me non si scherza”. Si configura il reato di tortura? Come ben argomenta il GIP, in tutti e tre gli episodi contestati le condotte sono state ripetute, sebbene nel medesimo contesto cronologico. Quanto al dolo, viene sottolineato che non vi è nessun dubbio che vi fosse la consapevolezza di infierire sui detenuti. Si osserva che la componente psicologica è particolarmente evidente con riferimento ai fatti occorsi l’11 giugno del 2022. L’arrivo del detenuto Bourzaik Ossama, infatti, è stato preceduto da una attenta pianificazione e - come scrive il GIP nell’ordinanza, senza che vi fosse stata alcuna forma di resistenza da parte del detenuto, gli agenti lo hanno comunque circondato di sorpresa, armati di manganello, sopraffacendolo in maniera totale e immotivata. Anche con riferimento ai fatti occorsi il 321 luglio e 3 agosto 2022, per il Gip è evidente il dolo, trattandosi di condotte gratuite e finalizzate a terrorizzare e sottomettere i detenuti. Risultano, quindi, sussistenti i gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di tortura. Ma se dovesse passare la proposta di legge presentata da Fratelli d’Italia, questa condotta che avrebbero commesso gli agenti del carcere di Biella, sarebbe derubricata in reato di percosse o lesioni personali. Quindi, anche se formalmente il ministro Nordio dice che il reato di tortura non viene abrogato, nei casi in esame, di fatto, viene tolto eccome. Cospito resta al 41 bis, la bizzarra motivazione della Cassazione: “Non si è dissociato” di Carmine Di Niro Il Riformista, 31 marzo 2023 Alfredo Cospito resta al 41 bis perché resta considerato ancora pericoloso e perché non si è dissociato. È la motivazione del verdetto 13258 depositato dalla Prima sezione penale della Corte di Cassazione con cui è stato respinto il ricorso presentato agli Ermellini dai legali dell’anarchico detenuto al 41 bis e in sciopero della fame da oltre cinque mesi. Il 24 febbraio scorso arrivò il ‘niet’ all’istanza presentata dall’avvocato Flavio Rossi Albertini, convalidando così l’ordinanza con la quale il Tribunale di Sorveglianza di Roma il primo dicembre scorso aveva respinto il ricorso della difesa contro il 41 bis applicato a Cospito, attualmente detenuto nel reparto penitenziario dell’ospedale San Paolo di Milano. Il 41 bis resta confermato perché Cospito, scrivono i giudici di Cassazione nelle motivazioni, “non ha in alcun modo manifestato segni di dissociazione e, anzi, ha continuato con i suoi scritti fino ad epoca recente a propugnare il metodo di lotta armata”, esaltando un anarchismo “diverso da quello ‘classico’ e connotato da azioni che mettono in pericolo la vita degli uomini e donne del potere”. Una motivazione quantomeno bizzarra: il 41 bis infatti non nasce per far dissociare i detenuti sottoposti al regime speciale. Per la Cassazione Cospito, che ha alle spalle già una condanna a 20 anni di reclusione pronunciata in primo grado dalla Corte di Assise di Torino il 24 aprile 2019 per una serie di attentati rivendicati tra il 2003 e il 2016, tra i quali l’aver sparato alle gambe il manager di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi a Genova, e in corso in Appello il processo per la bomba piazzata fuori la scuola carabinieri di Fossano, paga la sua attuale e “perdurante pericolosità”. I giudici ritengono inoltre che Cospito, “se sottoposto a regime ordinario” può continuare ad essere “punto di riferimento e fonte di indicazione delle linee programmatiche criminose e degli obiettivi da colpire” da parte dei suoi “accoliti” della Fai, la Federazione anarchica informale. Nei giorni scorsi, il 27 marzo, il Tribunale di Sorveglianza di Milano e quello di Sassari avevano respinto la richiesta di differimento pena di Cospito, che chiedeva di poter andare ai domiciliari casa di sua sorella. Al momento i fari sono puntati sulla decisione che prenderà la Consulta il prossimo 18 aprile, quando verrà deciso se è legittima la norma che, per il reato di strage politica, impedisce certi sconti di pena in casi, come quello di Cospito, di recidiva aggravata. Cospito ha diritto a non subire trattamenti sanitari contrari alla sua volontà di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 31 marzo 2023 La maggioranza del Cnb ha ritenuto che nel caso di pericolo di vita, il medico debba porre in essere tutti quegli interventi atti a salvargli la vita. La libertà di autodeterminazione di un detenuto in materia sanitaria prevale o può, nei casi di imminente pericolo di vita, essere compressa dalle Istituzioni che hanno in custodia il soggetto? Questo il lodo della recente evoluzione sul cd. caso Cospito, sul quale lo scrivente ha già espresso in precedenza le proprie posizioni. Tema che - ad onor del vero - non si pone (né si è posto nel tempo) come questione meramente domestica ma, anzi, è stato attenzionato e approfondito già dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. In particolare, è notizia di pochi giorni fa, resa nota dal legale di Cospito, che lo stesso avrebbe avanzato - per il tramite del suo difensore - istanza al Tribunale di Sorveglianza di Milano per richiedere il differimento della pena (cioè del 41bis) agli arresti domiciliari, per motivi sanitari. Tale richiesta, spiega il legale di Cospito, sarebbe giustificata da una ragione ben precisa: dal timore che, qualora le condizioni di Cospito si aggravassero ulteriormente ed irreparabilmente in carcere, i medici dell’Istituto di pena e - in generale - l’Amministrazione Penitenziaria, interverrebbero mediante un trattamento salvavita che il detenuto ha espressamente e categoricamente rifiutato in sede di formulazione di Disposizioni Anticipate di Trattamento (così come previsto e disciplinato dalla legge 219/ 17). Si tratta, dunque, di comprendere se le DAT sottoscritte e manifestate da un detenuto possano, in casi eccezionali e di imminente pericolo di vita, essere violate dall’Istituto di pena che ha in custodia il detenuto. In altri termini, forse più brutali, se è consentito per le autorità penitenziarie, o per i medici, limitarsi a contemplare passivamente la morte del detenuto che digiuna. Una questione, come intuibile, particolarmente delicata sulla quale, anzitempo, lo stesso Guardasigilli aveva richiesto un parere al Comitato Nazionale di Bioetica. Il Ministro Nordio, in particolare, ha interrogato il Comitato per sapere se le volontà contenute nelle DAT di rifiutare le cure/ trattamenti salvavita, espressione del libero consenso informato, possano subire limitazioni (o persino essere infrante) da parte delle Istituzioni quando il fine per cui sono state assunte e disposte non è tanto espressione dell’autodeterminazione del singolo mediante l’esercizio della libertà di cura quanto piuttosto quello ad una modifica di una condizione personale in relazione ad un contesto estraneo a quello sanitario (nel caso di specie, il cd. regime di carcere duro, ex art. 41 bis o. p.). Ci si domanda, “avrebbe espresso (ndr il detenuto) la medesima rinuncia in presenza del bene desiderato?”. E, ancora, “è eticamente accettabile che esse (ndr le istituzioni statali) consentano a chi mette in atto questi comportamenti di lasciarsi morire”?. Nel comunicato dello scorso 6 marzo, il Comitato ha reso il suo parere. La maggioranza dei componenti del CNB, ha ritenuto che, nel caso di imminente pericolo di vita, quando, per via delle condizioni di salute, non si è in grado di accertare la volontà attuale del detenuto, il medico non sia esonerato dal porre in essere tutti quegli interventi atti a salvargli la vita. Le DAT sarebbero incongrue, e dunque inapplicabili, ove siano subordinate all’ottenimento di beni o alla realizzazione di comportamenti altrui, in quanto utilizzate al di fuori della ratio della L. 219/ 2017. Altri componenti del CNB hanno ritenuto, invece, che non vi siano motivi giuridicamente e bioeticamente fondati che consentano la disapplicazione della L. 219/ 2017 nei confronti della persona detenuta in sciopero della fame, anche in pericolo di vita. Anche in questo caso la nutrizione e l’idratazione artificiali possono essere rifiutate, anche mediante le DAT e la pianificazione condivisa delle cure. Appare condivisibile, in via di prima istanza, che per non vanificare il diritto inviolabile di vivere tutte le fasi della propria esistenza senza subire trattamenti sanitari contro la propria volontà - derivazione logica del diritto alla intangibilità della sfera corporea di ogni essere umano - uno Stato debba riconoscere, salvo diverse e nuove indicazioni del Legislatore, che attualmente la disciplina in commento possa in astratto essere strumentalmente impiegata per altri fini, diversi da quelli specificamente delineati e per i quali la legge fu promulgata. Accettazione che, tuttavia, non può voler dire acquiescenza alle istanze che con l’utilizzo strumentale della L. 219/ 2017 siano avanzate, come nel caso Cospito. L’Ordinamento, infatti, prevede e già disciplina autonomamente i rimedi necessariamente - di carattere giurisdizionale per poter chiedere la revisione del regime del 41 bis i quali non possono, a parere di chi scrive, per la solidità stessa di uno Stato di diritto, essere pretermessi o sostituiti con rifiuti di trattamenti salvavita. *Avvocato, Direttore Ispeg Sono tempi bui se Cospito al 41 bis non può leggere neanche la Bibbia di Massimo Cacciari La Stampa, 31 marzo 2023 Tempi bui per la nostra Patria. Tanto precario il suo stato di salute, tanto minacciata la sua sicurezza, da essere costretta a tenere in isolamento assoluto, in carceri inviolabili non solo mafiosi stragisti (i terroristi “in grande” degli anni di piombo - tra collaborazioni e pentimenti - se la sono quasi tutti cavata), ma anche un anarchico colpevole di reati che mai in passato avremmo immaginato capaci di ledere le fondamenta del nostro ordinamento. Ma non basta. A questo micidiale sovversivo, vicino per il lungo digiuno ormai alla agonia, è stata recentemente proibita anche la lettura della Bibbia. I miei connazionali devono sapere che un detenuto col 41 bis non può ricevere libri, ma solo ordinarli tramite la direzione del carcere che si riserva di decidere quali letture siano atte alla rieducazione del criminale e al suo reinserimento nel generoso grembo della comunità. Attenzione però, i libri non possono essere più di tre (incerta rimane l’interpretazione della norma, se i tre si riferiscano ai titoli o ai tomi). Ora poiché Bibbia è plurale, ta biblia, i libri, è evidente la ragione per cui la direzione del carcere, ben addentro alla grammatica greca, ha ritenuto di non poter concederne al Cospito la lettura. Se i giuristi sembrano tacere da tempo su questa e altre vicende, bisognerebbe chiedere questa volta ai teologi di dire la loro. Siamo un Paese che per mezzo secolo è stato governato da una forza politica che aveva l’audacia di chiamarsi cristiana. Altrettanto audaci mi sembrano ora tanti suoi eredi a non gridare allo scandalo di fronte a comportamenti delle autorità politiche così radicalmente privi di ogni senso minimo di umanità. Profonde davvero le nostre radici cristiane, blasfemamente blaterate da schiere di politici nostrani. Altro che legge dell’amore, nomos tes agapes (lo dico nel greco del Vangelo in ossequio alla direzione del carcere-bara di Cospito). La legge da noi proibisce la lettura della Bibbia, impedisce di abbracciare per un minuto parenti e amici, rifiuta gli arresti domiciliari a un moribondo dichiarato. Se i giuristi tacciono, che gridino i teologi. E se tacciono anche loro grideranno le pietre (si diceva in uno di quei libri che a Cospito sono stati rifiutati - perché se ne sospetta il carattere rivoluzionario? Se sì, bene, per una volta i suoi così intelligenti e zelanti custodi hanno ragione). Ai giuristi avanzo un sospetto: che la lotta di Cospito contro il 41 bis (ripeto ciò che ho già detto in tante occasioni: non discuto ora questa norma, ma la sua aberrante applicazione in questo specifico caso) abbia avuto un ispiratore neanche troppo segreto. Leggo: “Il nostro ordinamento ha introdotto quella figura di isolamento mortuario che è il 41 bis e che per certi aspetti è più incivile anche di una mutilazione farmacologica. Questo per dire che il nostro sistema non brilla per civiltà”. Firmato: Carlo Nordio, 28 marzo 2019. L’inciviltà di un ordinamento, applicato per di più con la durezza del rigor mortis, è davvero il segno di una profonda crisi dello Stato, di una sua estrema debolezza. È allora che un governo avverte ovunque minacce e pericoli, è allora che cade in una ossessione auto-sicuritaria e auto-conservatrice, che immiserisce, soffoca, degrada e produce permanente stato di eccezione. Forse in terra mai si è visto e mai si vedrà la legge dell’amore, ma che almeno le nostre leggi siano ragionevoli e civile la loro applicazione. Credo sia giunto il momento di pretenderlo da tutti noi, animali sì, ma dotati di logos. Panpenalismo al governo di Ermes Antonucci Il Foglio, 31 marzo 2023 Dai rave party agli scafisti, dalla maternità surrogata alle occupazioni e all’anoressia: la maggioranza meloniana sembra in grado solo di creare nuovi reati e alzare le pene. L’opposto del pensiero di Nordio. Nuovi reati e pene più alte. Insomma: carcere, carcere, carcere. Sembra essere questa la soluzione individuata dal governo Meloni, e dalla maggioranza che lo sostiene, per risolvere tutti i mali del paese. Il populismo giustizialista come metodo di governo. Si è partiti a ottobre con l’approvazione del decreto legge contro i rave party, per rispondere alle polemiche provocate da un mega raduno organizzato in un capannone a Modena. Il governo stabilì l’introduzione di un nuovo reato per punire l’”invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica o la salute pubblica”. Prevista una pena da tre a sei anni di carcere e la multa da mille a dieci mila euro. Dopo le critiche sulla scarsa chiarezza del decreto, il testo è stato modificato in Parlamento, ma solo con una più precisa definizione della condotta illecita. Si è stabilita comunque la creazione di un nuovo reato (articolo 633-bis) e le pene sono rimaste invariate. Lo scorso 9 marzo il governo ha deciso di introdurre un altro reato, questa volta per inasprire il contrasto all’immigrazione clandestina, sull’onda della tragedia di Cutro, nelle cui acque sono morti almeno 91 migranti in un naufragio. Il Consiglio dei ministri si è riunito proprio a Cutro e ha adottato un decreto legge che prevede un aumento delle pene per il traffico di migranti e l’introduzione del nuovo reato di “morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina”, che prevede una pena fino a trent’anni di reclusione. Il reato verrà perseguito anche se commesso all’estero. Come dichiarato da Meloni, le autorità italiane cercheranno gli scafisti in tutto il “globo terracqueo”. Nel frattempo, la logica del populismo penale domina anche l’attività della maggioranza in Parlamento. È notizia di ieri che alla Camera dei deputati è stata depositata una proposta di legge di Fratelli d’Italia, a prima firma del capogruppo meloniano Tommaso Foti, che prevede la creazione di un nuovo reato per punire le occupazioni abusive. Questo perché, si legge nella premessa del testo, le pene attualmente previste “non fungono da effetto deterrente”. Così ecco la soluzione: un nuovo reato con una pena che può arrivare fino a nove anni di reclusione. Sempre negli scorsi giorni, Fratelli d’Italia ha depositato un disegno di legge che punta a far diventare la maternità surrogata un “reato universale”, punibile anche se commesso all’estero dai cittadini italiani. Le pene previste vanno dalla reclusione dai tre mesi ai due anni, con la multa da 600 mila a un milione di euro. Un’altra condotta che il governo vuole perseguire in tutto il “globo terracqueo”, anche se diversi giuristi hanno espresso forti dubbi sulla reale applicabilità della norma. Al Senato, invece, FdI ha presentato un disegno di legge che propone di introdurre nel codice penale il nuovo reato di “istigazione all’anoressia”, con l’obiettivo di punire influencer, siti e piattaforme online che inneggiano al dimagrimento, soprattutto degli adolescenti. Previste multe fino a 150 mila euro e una reclusione fino a quattro anni. Anche la Lega si muove. Seguendo gli annunci della premier, il partito guidato da Salvini ha presentato un disegno di legge, a prima firma di Claudio Borghi, che prevede arresto in flagranza, multa da 1.500 euro e un anno di reclusione per chi imbratta e danneggia opere d’arte, quadri, musei e monumenti storici. Non è tutto. A febbraio, nel corso di una diretta su TikTok, Salvini ha annunciato la presentazione di un disegno di legge per aumentare la pena da due a sei anni di carcere per chi maltratta gli animali e per introdurre anche il reato di “strage di animali” per chi posiziona polpette e bocconi avvelenati. Insomma, la formula “panpenalismo” rischia addirittura di apparire riduttiva per descrivere l’azione del governo Meloni. E chissà cosa ne penserà il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che nell’intervista a questo giornale dello scorso 15 marzo aveva ribadito la sua visione: “Io resto della mia idea. Aumentare le pene non credo abbia un effetto deterrente. Penso, per esempio, a casi come l’omicidio stradale. Avevo detto già in passato che aumentare le pene per avere un effetto deterrente sarebbe stato sbagliato. Molto semplicemente, perché quel modello non funziona. E resto dell’idea che la giustizia deve dare un segnale non di maggiore severità, ma di maggiore efficienza”. “Coi trojan a rischio la democrazia”. Ecco l’audizione contestata in Senato di Simona Musco Il Dubbio, 31 marzo 2023 Luigi Panella, avvocato di Cosimo Ferri, spiega le manipolazioni dei file del caso Palamara. E l’ex consigliere del Csm Lepre ipotizza un depistaggio. I dati registrati dal trojan possono essere tecnicamente accessibili, copiati e modificati “da parte di soggetti privati su server da loro gestiti”. Tanto da poter arrivare ad ipotizzare un depistaggio nel caso Palamara, che dovrebbe far saltare tutti sulla sedia perché a rischio ci sarebbe “la democrazia”. A dirlo, in Commissione Giustizia al Senato, è stato Luigi Antonio Paolo Panella, difensore di Cosimo Maria Ferri davanti alla sezione disciplinare del Csm e ascoltato nell’ambito dell’indagine conoscitiva sul tema delle intercettazioni. Un’audizione, la sua, contestata dal Pd, convinto dell’inutilità del suo contributo, in quanto “difensore di una parte in un processo” e dunque espressione di un punto di vista che meriterebbe quanto meno un contraddittorio. Ma a replicare sono stati i senatori di Fratelli d’Italia, che hanno invece cercato di ricavare dalle contorte vicende del trojan inoculato nel telefono dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara i rischi legati all’utilizzo di tale strumento. La vicenda dell’Hotel Champagne è, da questo punto di vista, esemplare. La relazione di Panella, infatti, ha ribadito quanto emerso dalle indagini difensive, grazie alle quali è stata scoperta l’esistenza di server non autorizzati e mantenuti fino ad oggi “occulti”, “i quali “ricostruivano” i dati originali captati e poi li cancellavano, senza alcuna possibilità di successiva verifica e controllo”. Serie “anomalie” che contrastano con le norme: l’articolo 268, comma 3, del codice di procedura penale, infatti, prescrive che “le operazioni di intercettazione debbano essere compiute - a pena di inutilizzabilità - esclusivamente attraverso gli impianti installati nella procura della Repubblica” che indaga e dispone le intercettazioni. Ma nel caso Palamara, i consulenti della difesa di Ferri - l’ingegnere elettronico Paolo Reale e il perito Fabio Milana - hanno scoperto che i dati captati dal trojan nel telefono dell’ex zar delle nomine finivano in due server della società privata fornitrice dello stesso trojan, la Rcs Spa; non a Roma, ma a Napoli. Server il cui utilizzo non era mai stato autorizzato dall’autorità giudiziaria che indagava sull’ex magistrato di Roma. “I server di Napoli - ha evidenziato Panella - non possono essere in alcun modo considerati meri server “di transito”, ma sono i server principali che hanno gestito le captazioni effettuate dal trojan inoculato nel telefono del dottor Palamara”. Dunque, elaboravano i dati prima di inoltrarli alla procura incaricata di raccoglierli e ciò non solo nel caso dell’ex presidente dell’Anm, ma per tutti i trojan forniti da Rcs alle procure italiane. Tali macchine, insomma, “ricevevano e registravano le comunicazioni (anche di parlamentari, come nel procedimento Palamara)” al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dell’autorità giudiziaria, circostanza che “rappresenta una grave minaccia alla democrazia e non può essere trascurata o considerata “irrilevante”, come incredibilmente vorrebbero alcune recenti decisioni giurisdizionali, tese a utilizzare comunque le captazioni effettuate”. Tale vicenda cristallizza infatti un dato: è possibile, per soggetti privati, manipolare le intercettazioni effettuate con i trojan, senza alcuna possibilità di successiva verifica e controllo. Sulla base di questa consapevolezza, lo scorso 5 ottobre la difesa dell’ex consigliere del Csm Antonio Lepre (tra i magistrati presenti all’Hotel Champagne e perciò sottoposto a procedimento disciplinare) ha depositato una consulenza tecnica redatta dall’ingegnere Lelio Della Pietra, informatico forense, che spiega come i files di log (cioè i files che rappresentano la registrazione sequenziale e cronologica delle operazioni effettuate da un sistema informatico) relativi alle intercettazioni fornite da Rcs alla procura di Perugia nel caso Palamara siano stati “verosimilmente alterati da interventi umani, tra l’altro, proprio con riferimento alle captazioni dei giorni 8, 9 e 10 maggio 2019”. Date non casuali: il 9 maggio è infatti il giorno del fatidico incontro all’Hotel Champagne e già nelle prime ore di quel giorno “sono state captate dal trojan anche le conversazioni di due parlamentari”, la cui partecipazione a quella riunione era stata anticipata da altre conversazioni intercettate nei giorni precedenti, cosa che avrebbe dovuto spingere la polizia giudiziaria a spegnere il trojan, in virtù dell’articolo 68 della Costituzione. Ma non solo: quattro captazioni ricevute dai server napoletani e trasmesse a quello romano non sono presenti tra quelle poste a disposizione delle varie autorità giudiziarie. Per Della Pietra “sono state semplicemente “fatte sparire”, impedendo di conoscerne il contenuto”. E non è escluso che i file spariti siano più numerosi. Ancora, ci sono ore intere di blocco del trojan, con conseguente mancata effettuazione delle registrazioni programmate, cinque casi di registrazioni senza programmazione e 22 programmazioni che non avrebbero generato registrazioni, “ulteriore conferma della inattendibilità dei files di log, alterati da un intervento umano secondo gli accertamenti dell’ingegnere Della Pietra”. Aspetti “ignoti a tutte le autorità giudiziarie che si sono finora pronunciate sul tema e che hanno indotto il difensore del dottor Lepre a ipotizzare nella sua nota di deposito della consulenza tecnica il reato di depistaggio, oltre a quello di accesso abusivo a sistema informatico, chiedendo che vengano individuati i “mandanti” delle gravi condotte riscontrate”. Carcere per chi “istiga” all’anoressia: serve davvero un nuovo reato contro i disturbi alimentari? di Elisa Messina Corriere della Sera, 31 marzo 2023 Un nuovo reato, il 580 bis, che punisca chi “istiga a provocare o rafforzare” disturbi del comportamento alimentare, soprattutto online, e il riconoscimento degli stessi dca come “malattia sociale” che richiede cura e prevenzione da parte dello Stato. Questi i pilastri di un disegno di legge presentato nei giorni scorsi al Senato dal senatore di FdI Alberto Balboni, presidente della Commissione Affari costituzionali. Cinque articoli con i quali si torna (c’erano stati altre proposte di legge in questo senso, tutte “archiviate”) ad affrontare l’emergenza sociale dei disturbi del comportamento alimentare partendo dal Codice Penale. Perché i numeri di questa malattia sono effettivamente quelli di un’emergenza, o più precisamente, di un’epidemia sociale: secondo i dati forniti dal ministero della Salute, si stima che in Italia circa 5 milioni di persone abbiano una qualche forma di dca e si tratta in prevalenza di adolescenti e giovani nella fascia tra i 14 e 25 anni. Ma l’età dell’insorgenza dei primi sintomi si abbassa sempre di più (anche a 10, 11 anni), dalla pandemia in poi il numero dei malati è lievitato e non è corretto credere che si tratti solo di femmine. Di anoressia e bulimia si muore (c’è una stima approssimativa di 3600 vittime all’anno) ma l’accesso alle cure continua ad essere insufficiente nel nostro Paese. E non è più accettabile che la possibilità di essere curati dipenda dalla fortuna di nascere in una regione dove le strutture ci sono. Il primo passo previsto dal ddl è il riconoscimento dei disturbi del comportamento alimentare nelle loro principali declinazioni (anoressia nervosa, bulimia nervosa, disturbo da alimentazione incontrollata o binge eating disorder e il disturbo evitante/restrittivo) come malattia sociale. “Le nostre strutture sanitarie sono ancora inadeguate ad accogliere e a curare” dice il senatore Balboni che nel redigere la nuova proposta si è avvalso dell’esperienza e degli studi della Fondazione DiciAlice, startup di informazione e consulenza sui dca. Per cui la nuova legge nell’articolo 4 si occupa di “Istituire un piano di interventi ad opera dello Stato che si avvale del Ssn, delle regioni e delle provincie autonome allo scopo di prevenire e curare i disturbi alimentari”. Prevenire, curare ma anche reprimere. Ecco il secondo pilastro. Va punito chi incoraggia questi comportamenti soprattutto via social. L’articolo 2 infatti introduce un nuovo reato, il 580 bis, e prevede multe e sanzioni per chi, “con qualunque mezzo, determina o rafforza l’altrui proposito di ricorrere a condotte alimentare idonee a provocare o rafforzare i disturbi del comportamento alimentare”: reclusione fino a due anni e multe da 20 a 60mila euro. A chi ci si riferisce? A una galassia di siti, community e gruppi social (soprattutto via Telegram) così detti pro-ana ovvero in cui ci si offrono consigli sul controllo della fame e sul dimagrimento estremo come scelta di vita: nonostante la policy di Google e dei social network stia facendo pulizia, esistono ancora in rete chat e piattaforme dove si può leggere la descrizione di una “dieta Ana” per imparare a mangiare “molto meno di quanto dovresti”. O chat in cui si offrono e si scambiano consigli sul controllo estremo del peso in rapporto all’ingestione di cibo. Nel ddl questi comportamenti - anche virtualì - diventano un reato assimilabile a quello di istigazione al suicidio (art 580 del Codice penale): “Spetta alla polizia postale monitorare siti e canali che diffondano questi messaggi sbagliati e si approfittano della fragilità dei ragazzi” spiega Balboni. ““Ovviamente il reato penale punisce il fatto estremo. Sui comportamenti prodromici bisogna fare un lavoro culturale di informazione e prevenzione. Ma credo fortemente che le norme penali abbiano anche una funzione preventiva: la norma penale oggi diventa la coscienza sociale di domani”. Va detto che di proposte legislative analoghe a questa, negli ultimi 12, 13 anni ne sono state presentate almeno quatto o cinque, quasi sempre da parlamentari del centrodestra: tre al Senato (nel 2010, nel 2013 e nel 2018) e una alla Camera (nell’ottobre 2022). Tutte si muovevano sul duplice binario della repressione e della prevenzione. Sarà la volta buona? Ne è sicuro il senatore Balboni: “Siamo a inizio legislatura. E poi con questa maggioranza parlamentare abbiamo la forza d’urto necessaria, ma confido che questo tema sia abbracciato da tutti. E comunque, l’iter della nuova legge prevede che vengano sentiti esperti, associazioni per arrivare a una formulazione condivisa”. In verità, le prime repliche politiche non sono andate in questa direzione. Ilenia Malavasi, deputata Pd e componete della commissione affari sociali non condivide la scelta di puntare sul penale: “Con il reato di istigazione all’anoressia la maggioranza di governo decide di affrontare con il codice penale una questione che andrebbe trattata con la prevenzione, l’educazione e il sostegno psicologico. L’obiettivo non è aiutare chi ha bisogno ma far tintinnare le manette, continuando sulla strada dell’introduzione di nuovi reati e in questo caso mi pare molto difficile identificare il colpevole”. Aldilà delle posizioni politiche, forse la valutazione migliore di questa proposta di legge va fatta nel merito. Se da una parte finalmente si parla di una formalizzazione dei dca come “malattia sociale” che, almeno in linea teorica, apre la via a investimenti per percorsi di cura e prevenzione a carico del Ssn in maniera strutturata, dall’altra la centralità dell’aspetto penale solleva molti dubbi. Soprattutto tra esperti e operatori. In primis perché molte chat e profili che esaltano comportamenti pericolosi in senso alimentare sono create a loro volta da ragazze o ragazzi malati. Osserva Stefano Erzegovesi, psichiatra e nutrizionista, ex direttore del centro per i disturbi alimentari del San Raffaele di Milano: “Lo Stato pensa che la punizione possa essere un metodo valido per arginare una malattia. Non è valido in generale ed è ancor meno valido per un adolescente che, quando sente aria di “sfida”, si butta con ancora più forza nel comportamento malato. Quindi: la punizione aiuta, forse, a ridurre l’incidenza delle cattive abitudini, non delle malattie. Le malattie cerchiamo di curarle, non di punirle”. Dello stesso parere Aurora Caporossi, presidente e fondatrice di “Animenta”, associazione no profit che si occupa di sensibilizzare sui dca, fare corretta informazione e offrire aiuto nell’accesso alle cure: “Si corre il rischio di far passare il messaggio che l’unico vero fattore di rischio siano i social media. E vero che i social hanno delle responsabilità, ma qui siamo di fronte a malattie complesse e multifattoriali. Queste chat esistono ma sono un fenomeno emarginale e combatterle non è il focus dell’emergenza”. La vera emergenza sanitaria e sociale, insomma, non è far partire la caccia a chat e profili social sospetti, ma migliorare l’accesso alle cure dei giovani malati. Questa nuova legge, ammesso che si arrivi ad averla, servirà nei fatti a migliorare l’accesso alle cure? Non ne è convinto Stefano Tavullia, fondatore della associazione “Mi nutro di vita” creata dopo la scomparsa della figlia Giulia e fondatore, quest’anno, della Fondazione Fiocco Lilla. Grazie a lui dal 2018 il 15 marzo è stata istituita una giornata nazionale dedicata ai dca e nel 2021 è stato nominato Ufficiale al merito dal presidente Mattarella: “Non serve una nuova legge, tanto meno una legge penale. La strada da intraprendere è semplice: inserire i disturbi alimentari nei Lea, ovvero i Livelli essenziali di assistenza, che il Ssn è tenuto a fornire a tutti i cittadini senza discrimine di regione. E per fare questo basta un procedimento amministrativo al ministero della Salute. Procedimento che era stato già preso in considerazione dall’ex viceministro Sileri. Si tratta dellala stessa procedura che è stata applicata per i disturbi dello spettro autistico due anni fa. Un’epidemia sociale si combatte così. Solo in questo modo si faranno stanziamenti uniformi in tutte le regioni. Oggi ci sono regioni “virtuose” che innescano un mercato della cura che va ad esclusivo vantaggio del privato. Per il Covid, nella fascia 12-25 abbiamo fatto milioni di vaccinazioni, giustamente, spendendo molto. Adesso, per la stessa fascia di età, vittima di una reale emergenza sociale, sono stati stanziati solo 25 milioni in due anni. Niente per l’effettiva esigenza sanitaria a livello nazionale”. Ma è la stessa visione culturale entro la quale si muove il disegno di legge che presta il fianco alle critiche. Per esempio si vuole riconoscere tra i fattori di rischio socioculturali dei dca la “messa in dubbio dei tradizionali ruoli di genere” si legge nel testo di introduzione. Messa in dubbio che, in questa visione, genererebbe instabilità nei più giovani. Altre variabili di rischio sono individuate negli “ideali di bellezza che esalta la magrezza” e nello “stile di vita sedentario”. “Vedo di nuovo stereotipi nel trattare queste malattie” osserva Tavullia. “Da 30 anni ci si affanna a trovare un colpevole dietro un fenomeno complesso e multiforme come quelli dei disturbi alimentari: prima gli psichiatri davano la colpa alle madri, poi si è passato a colpevolizzare il mondo della moda, i modelli pubblicitari, i social network, l’agonismo sportivo... Lo Stato pensi al supporto concreto di questo malati che fanno mesi di liste di attesa. E sul fronte della prevenzione, oltre allo psicologo nelle scuole superiori, serve un lavoro profondo nelle scuole primarie basato sulla relazione tra le emozioni e il cibo se non vogliamo che molti bambini di oggi diventino adolescenti malati domani”. Un punto fermo valido da cui partire, nonostante le diverse visioni comunque c’è: il riconoscimento dei dca come “malattia sociale” che dovrebbe poter facilitare un effettivo e urgente “farsi carico” da parte dello Stato. Almeno in via teorica. Ma tutto dipenderà dall’onestà del lavoro politico che sarà fatto da oggi in poi. Dalla Francia sentenza giusta: ha prevalso il senso d’umanità di Ezio Menzione* Il Dubbio, 31 marzo 2023 La Corte di Cassazione parigina è stata corretta: quelli ai brigatisti furono processi iniqui, quasi tutti in contumacia. La decisione della Cassazione francese, che ricalca gli argomenti della prima istanza di giudizio, deve essere accolta come ineccepibile dal punto di vista giuridico. Essa si basa su due argomenti: innanzitutto i processi che hanno condotto alle pesanti pene non sono stati processi equi, soprattutto perché si sono svolti in contumacia degli imputati e quindi senza sentire dalla loro viva voce dell’imputato gli argomenti difensivi. Poi perché dopo tanti anni i condannati si sono “rifatti una vita” in Francia sulla base della dottrina Mitterrand (dunque in una posizione legittima) e non si può andare a sconvolgere l’equilibrio loro e della famiglia che eventualmente abbiano messo in piedi in Francia con l’estradizione. Vengono in gioco gli articoli 3 e 8 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo. Sabino Cassese è intervenuto su queste motivazioni, riconoscendo una sia pur parziale ragionevolezza del primo argomento: vexata quaestio e punto di maggiore differenza fra il nostro ordinamento (almeno pre-Cartabia) e quelli su questo punto più avanzati. Non sembra invece riconoscere alcuna validità al secondo argomento. La penso in maniera diametralmente opposta. E muovo dall’esperienza del processo Calabresi in cui era imputato Pietrostefani e in cui ho difeso la posizione degli imputati per tutte le sette fasi di giudizio, che occuparono dodici anni. In quel processo gli imputati, Pietrostefani compreso, non furono affatto contumaci, ma anzi svilupparono ampiamente le proprie difese anche in maniera efficace, ancorché il Tribunale non abbia annesso loro alcuna consistenza. Dunque l’argomento sostenuto dai giudici francesi almeno per quel caso non vale. Per gli altri nove condannati non posso dire con certezza, ma a ricordo delle cronache, mi sembra difficile sostenere che se gli imputati si sottrassero al processo lo fecero perché non sapevano che questo fosse in corso contro di loro, ma non vollero presentarsi. Dunque su questo punto do ragione ai francesi in linea di principio, ma non mi pare che il pregevolissimo ragionamento si attagli ai casi concreti: forse è più un pregiudizio che non un argomento valido. Ben altre sono state le violazioni di diritto che hanno minato il caso Calabresi: tutte enormi e tutte documentate. Quindi, anche se Pietrostefani non fu contumace, è vero che ha subìto un processo iniquo e distorto per raggiungere il fine prestabilito della condanna. Peraltro, non fu nemmeno un processo per terrorismo: la relativa aggravante non fu mai contestata, certo perché nel bilanciamento fra aggravanti e attenuanti non si sarebbe potuto garantire l’impunità (tramite prescrizione) al pentito. Dunque un punto abbastanza discutibile, quello del processo non equo che portò alla condanna di quelli di cui ieri si chiedeva l’estradizione. La novità sta invece nell’avere giustamente invocato l’art.8 della CEDU (Diritto al rispetto della vita privata e familiare). Questi uomini e queste donne nel corso dei molti anni in cui sono stati latitanti in Francia hanno non solo tenuto un comportamento ineccepibile, senza commettere altri crimini e privo di jattanza, ma soprattutto si sono ricostruiti una vita, che spesso coinvolge anche nuovi congiunti, che inevitabilmente verrebbe travolta dall’estradizione e dalla conseguente lunga detenzione. Conosco l’obiezione: riservare loro tutto questo riguardo significa non riconoscere alcun diritto delle vittime a vedere eseguita una sentenza di condanna. Ma proprio qui sta il punto, del tutto nuovo, elaborato dai giudici francesi, che non è quello di non riconoscere valore alla posizione delle vittime di tante tragedie, ma quello di riconoscere dei diritti anche in capo ad un condannato, ove ve ne siano i presupposti, e qui siamo in casi estremi per il lungo tempo trascorso dai fatti. I giudici francesi hanno immesso nella loro valutazione un elemento che per noi italiani ormai sembra insussistente o quanto meno, desueto: l’umanità nel giudizio. Quella umanità che tanto spesso giustamente muove giudici e pubblico quando si valuta la posizione delle vittime, deve essere recuperata anche nel valutare la posizione degli imputati condannati. E hanno avuto la vista lunga, i giudici francesi, nell’individuare la fonte normativa di un simile elemento valoriale, andando ad attingere a quella normativa CEDU che, anche per noi, è legge equiparabile alla norma costituzionale e dunque che sta sopra e deve informare di se’ anche le norme, ordinarie, sull’estradizione. *Osservatore Ucpi Ma i brigatisti non subirono processi speciali di Guido Salvini* Il Dubbio, 31 marzo 2023 La non estradizione dei dieci ex terroristi era scontata: i giudici francesi non conoscono gli anni di piombo. Basterebbe leggere gli atti per rendersi conto che anche a quegli imputati, come a tutti, erano garantiti pienamente il diritto di difesa e una corretta valutazione delle prove. Chiedere alla Francia l’estradizione dai latitanti era per lo Stato un diritto e forse un dovere politico. Chiamarlo atto di vendetta è puro, obsoleto linguaggio ideologico. Era un atto dovuto ma, alla luce dei precedenti, il rigetto dei giudici francesi era abbastanza scontato. Le autorità francesi vedono quello che è successo in quegli anni in Italia ed in particolare nelle aule di giustizia molto da lontano, come attraverso un binocolo rovesciato. Dire ad esempio che l’estradizione avrebbe creato problemi familiari a coloro che sono latitanti, per scelta, anche da quarant’anni significa svilire completamente i ben più gravi, chiamiamoli con un eufemismo “problemi”, che hanno vissuto i familiari delle vittime. Quello che si legge in quelle sentenze è frutto di un atteggiamento davvero ipocrita e tartufesco, per usare un termine francese. Solo su questa base minima si può cominciare una discussione seria. Purtroppo, in questi giorni, come in passato, il dibattito si è fermato a livello politico- ideologico, è rimasto a livello del tutto astratto e nessuno ha avuto voglia di andare a vedere come quei processi siano stati celebrati. Vale la pena di rievocarli. Delle 10 persone di cui si chiedeva l’estradizione 5 sono lombarde, giudicate a Milano. E conosco bene quei processi celebrati a Milano negli anni ‘80. Presiedevano i cd maxiprocessi nelle aule bunker delle Corti di assise magistrati assolutamente indipendenti e lontani da qualsiasi forma di rancore. Ricordo il presidente Antonino Cusumano e mi permetto di ricordare tra gli altri anche mio padre, il presidente Angelo Salvini. Io intanto iniziavo a lavorare come Giudice istruttore e quindi avevo un altro punto di osservazione privilegiato di quella stagione giudiziaria. Non è affatto vero che quelli fossero processi speciali, è una vera menzogna che tra l’altro offende i magistrati che hanno presieduto le Corti e tutti i loro colleghi che hanno agito sempre secondo coscienza. E con una certa dose di coraggio perché le misure di protezione erano minime. Non vi è mai stato nessun atteggiamento di rancore anche se, ricordiamolo, appena prima di quei processi due magistrati milanesi conosciuti e stimati da tutti, Emilio Alessandrini e Guido Galli, erano stati vilmente assassinati colpiti alle spalle e contro altri magistrati inquirenti, ricordo fra tutti Armando Spataro, erano stati progettati attentati omicidiari che solo per un caso non erano andati a buon fine. Basterebbe leggere gli atti, ma ricordo bene anche le udienze cui ho assistito, per rendersi conto che anche a quegli imputati, come a tutti, erano garantiti pienamente il diritto di difesa e una corretta valutazione delle prove. Non erano processi di guerra. I difensori, sarebbe bello che qualcuno pubblicasse i verbali di qualcuna di quelle udienze, hanno sempre avuto in pienezza la facoltà di interrogare i testimoni, di contestare le prove a carico e di svolgere, anche in modo acceso, come è un diritto, le loro argomentazioni in contraddittorio. Tutti, anche quei difensori di “area” che erano molto vicini al mondo dei loro assistiti. E anche gli altri processi, quelli celebrati a Torino e a Roma ad esempio, si sono svolti nello stesso modo. Le sentenze, migliaia e migliaia di pagine, hanno sempre spiegato in modo motivato e preciso perché si era pervenuti a condanne. Del resto la grande maggioranza degli imputati prima o poi, con la dissociazione, hanno confessato. Certo il clima soprattutto nei processi di primo grado era molto teso. In aula dalle gabbie spesso risuonavano slogan, non dico che il clima fosse idilliaco e che ad esempio da parte dei magistrati dell’accusa non vi siano state durezze. Ma abbastanza presto era divenuto un po’ un gioco delle parti e già nei processi di appello lo scontro si era molto attenuato, man mano che la lotta armata andava esaurendosi con il fallimento dei suoi progetti. Credo che gli imputati si fossero resi benissimo conto, anche senza ammetterlo, che dinanzi a loro non avevano dei nemici o dei servi di un imprecisato sistema ma magistrati che svolgevano il loro lavoro cercando di capire e rispettando i diritti degli imputati. Anche quando questi non dimentichiamolo, oggi nessuno lo dice, rifiutavano gli avvocati e la difesa. Il Presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino Fulvio Croce che nel processo alle BR aveva assunto la difesa di ufficio perché per un avvocato quello era un dovere come per un medico curare un malato, fu per questo assassinato sotto casa. Voglio ricordare poi che nel carcere di Bergamo a metà degli anni ‘80, precisamente il 15 marzo 1986 vi fu un evento straordinario, era il carcere in cui era detenuta la maggior parte dei terroristi che si erano avviati, dopo una riflessione collettiva, sul percorso della dissociazione. C’erano ad esempio gli ex capi di Prima linea, tutti con molti omicidi alle spalle. Ebbene su questo tema si tenne un incontro comune tra magistrati e detenuti, presenti anche esponenti politici, il Direttore generale degli istituti di pena e i cappellani del carcere, che si trovarono a discutere insieme non in un’aula bunker ma nella palestra del carcere di via Gleno, ove tra l’altro operavano un magistrato di sorveglianza come il dr. Zappa e un direttore molto sensibile all’importanza dei percorsi di recupero e di uscita dalla violenza. Ero presente, allora molto giovane, fu un momento anche emozionante perché per la prima volta non eravamo divisi dalle sbarre e di fatto da quel convegno uscì la legge sulla dissociazione del febbraio 1987. Le autorità francesi dovrebbero sforzarsi di capire di più e usare meno spocchia nei loro provvedimenti. Non so con precisione come si siano svolti i processi politici all’epoca in Francia ma ho l’impressione che fossero assai meno garantiti dei nostri. In qualche modo “speciali” semmai in Italia all’epoca non erano i processi ma le pene che non dipendevano dalle Corti ma dalla volontà del legislatore perché l’art. 1 del Decreto-legge 62/1979, e cioè l’aggravante della finalità di terrorismo, le aveva notevolmente elevate. Tuttavia gli anni irrogati si sono stemperati abbastanza rapidamente, sia grazie all’attenuante della dissociazione sia grazie ai benefici penitenziari come i permessi, il lavoro esterno e la semilibertà concessi da Magistrati di sorveglianza illuminati a coloro che di fatto non erano più pericolosi. Alla fine dopo aver scontato un numero di anni di carcere non molto elevato, addirittura in proporzione inferiore a quello che scontavano talvolta i detenuti comuni per reati analoghi, tutti sono usciti e ritornati alla vita civile. Basterebbe fare i conti. Gli ex-terroristi in carcere, ad oggi sono pochissimi, vi è rimasto solo chi l’ha voluto Questa lettura politico-giudiziaria certo non esaurisce un problema che ciclicamente si ripresenta. C’è un piano etico, umano e psicologico da non dimenticare e che può farci intravvedere, siamo nel campo della simulazione, altri scenari. Proviamo ad immaginare che la Francia conceda l’estradizione, forse che qualcuno degli anziani latitanti anche la accetti, forse prima di morire vuole anche rivedere il suo paese. Scendono dalla scaletta dell’aereo tra due Carabinieri. Questo è il momento simbolico, che rappresenta una catarsi psicologica. La fuga è finita, la partita è persa, devono sottomettersi alle sentenze emesse in nome del popolo italiano. E’ il kairos, l’attimo speciale dei greci che cambia ogni cosa. Poi sarebbero davanti al Magistrato di sorveglianza. Chi non lo ha mai fatto potrebbe confessare le proprie responsabilità, anche solo le proprie, per offrire alla fine una verità riparatoria alle famiglie delle vittime e alla storia. Sarebbe poi facile avere conferma che nessuna di queste persone è più pericolosa, che non potrebbe comunque tornare ad uccidere. A questo punto non ci sarebbe più nemmeno bisogno del carcere. Potrebbero uscire grazie a benefici, ragionando sempre per immagini, anche dopo solo un pezzetto di pena e tornare alla loro vita, alla famiglia, al lavoro, più probabilmente alla pensione. Non credo nemmeno che tutti i parenti delle vittime, avuta soddisfazione sul piano di principio e simbolico, abbiano il desiderio e l’interesse a vedere persone di 70 anni finire i loro giorni in carcere. Viene in mente, con le debite differenze, quella fotografia apparsa su molti giornali in cui, mentre in un paese mediorientale un condannato sta per essere impiccato, si avvicina la madre della vittima e gli dà uno schiaffo sul viso. Non per un gesto di disprezzo negli ultimi momenti di vita ma perché ciò simbolicamente significa che lo ha perdonato. E all’ultimo momento, infatti il condannato è stato graziato. Questa è stata una scena reale. Quella che abbiamo descritto forse è solo una simulazione letteraria. Ma se accadesse questa storia immaginata allora la partita sarebbe veramente chiusa. E si potrebbe voltare davvero l’ultima pagina e chiudere il libro. *Magistrato Annientato dal carcere e dal 41bis, sono salvo grazie allo studio di Angelo Caruso* Il Riformista, 31 marzo 2023 All’ergastolo ostativo da 20 anni, ne ho trascorsi sei in isolamento. Per mesi non ho parlato con nessuno. Il mio sogno oggi è raccontare ai giovani la mia esperienza con il crimine. E come sono riuscito a cambiare. Mi chiamo Angelo Caruso, sono ininterrottamente detenuto da quasi vent’anni con l’ergastolo ostativo, il 4 bis. Sono stato per quattro anni al 41 bis e complessivamente sono stato isolato per sei anni, a volte per mesi e mesi senza parlare con nessuno. Il 41 bis spegne i rapporti con le persone che ami, crea una distanza incolmabile. La mia famiglia ha vissuto quegli anni con un profondo struggimento, soprattutto mia figlia che ho lasciata con la prospettiva di restare per sempre senza un padre. In carcere ho lavorato molto su me stesso e ho trovato un grande aiuto nello studio che ha dato spazio e nuovi orizzonti alla mia mente. Mi sono laureato in sociologia con una tesi che ha per titolo “Le problematiche dell’infanzia”. Vorrei poter riparare al danno che ho prodotto alla società. Scrivo sperando di raggiungere i giovani, gli studenti, con la testimonianza del mio vissuto deviante che mi ha portato al carcere a vita sperando che la mia storia sia da monito e da esempio di un fallimento, quello del crimine, che comporta oltre alla perdita di coscienza, la rinuncia alla vita. Il male che ho fatto non è scomparso, fa parte del mio essere stato, ancora un tarlo, uno strappo indelebile. Ho inviato il racconto della mia vita ad alcune università, mi sono rivolto a coloro che saranno i tutori della società di domani, cui sarà affidato il compito di debellare il crimine per salvare i ragazzi che si scontrano con la subcultura delle mafie e a volte - per le cattive compagnie, il bisogno di dimostrare a tutti di essere qualcuno, la paura di dire ‘no’ a chi, forte di una malsana autorevolezza, ti induce ad azioni criminose in assenza di esempi solidi e positivi - si perdono. Purtroppo, anche il carcere difficilmente ti salva da te stesso e anche i pochi che riescono a uscirne con una progettualità sana avranno la vita segnata per sempre. La conoscenza, la partecipazione, il dialogo, la comprensione, l’istruzione, il racconto di esempi di tragedia come la mia, sono strumenti di cambiamento. Dopo tanti anni in carcere e le ferite che ho inferto alla mia famiglia sento che la mia faticosa strada verso la pienezza del recupero è finalmente giunta a destinazione. Il carcere è sofferenza, il tuo corpo patisce continuamente ogni tipo di privazione, la fame, il freddo, il caldo. Ogni momento del vivere è una rinuncia a te stesso, umiliazioni, solitudine, smetti di essere ciò che sei, senti di perdere la tua identità, di essere diventato un numero su cui pesa lo stigma di ciò che hai fatto e il disprezzo della società. Oggi ho la piena consapevolezza delle ferite prodotte dai miei errori, non solo alle vittime dei miei reati e alle loro famiglie ma anche ai miei cari e, soprattutto, a mia figlia alla quale so di avere fatto molto male. La mia presa di coscienza si è costruita nel tempo insieme alla comprensione sofferta di ciò che sono stato, attraverso la fede e lo studio. Mi rivolgo ai giovani, agli studenti ma anche ai docenti che sappiano infondere nell’educare i ragazzi una piena consapevolezza e un lucido senso di responsabilità presentando loro l’orrore della devianza e le conseguenze drammatiche che essa comporta perché nessun figlio debba più vivere le conseguenze tragiche delle scelte criminali di un genitore. Mi piace pensare a una società in cui quando qualcuno cade rovinosamente si provi ad aiutarlo a rialzarsi. Chiedo perdono dal profondo dell’anima per il male che ho fatto allo Stato, alla società tutta, alla terra siciliana e al mio paese, Lentini - Carlentini, alle Istituzioni che ho tradito con i miei crimini. Rinnego con tutta la forza che posso il mio passato da appartenente a un sodalizio mafioso e prendo le distanze da ogni forma di agito criminale. L’unico orgoglio che oggi posso esprimere è la certezza di essere uscito per sempre da quella logica deturpante, di aver trovato la bellezza del diritto, dei buoni sentimenti, del rispetto di ogni persona maturando un senso di gratitudine nei confronti delle Istituzioni, dell’Università Bicocca e anche del carcere di Opera che ha reso possibile il mio cambiamento e mi ha permesso di testimoniare all’esterno lo scempio della mia vita sperando almeno in questo di essere risorsa per una società sana e migliore. Grazie di vero cuore. *Ergastolano detenuto a Opera Torino. Detenuto si tolse la vita, chiesta condanna per tre agenti della polizia penitenziaria di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 31 marzo 2023 L’uomo si suicidò nel carcere delle Vallette il 10 novembre 2019: se ne accorsero sette minuti dopo la fine di Juventus-Milan. Due condanne a un anno di reclusione per omicidio colposo, una a 14 mesi, anche per la contestazione di falso: sono le pene chieste oggi (30 marzo) dal pubblico ministero Giulia Marchetti nei confronti di tre agenti della polizia penitenziaria per il suicidio di Roberto Del Gaudio, detenuto nel carcere Lorusso e Cutugno. L’uomo si trovava in una cella del “Sestante”, il reparto di osservazione psichiatrica (e che da tempo è al centro di una seconda inchiesta per le condizioni delle strutture), e il 10 novembre 2019 si tolse la vita, impiccandosi con i pantaloni del pigiama. Gli uomini della penitenziaria sono sotto accusa per omessa vigilanza. L’avvocato Davide Mosso, che tutela il Garante nazionale dei detenuti, costituitosi parte civile, ha chiesto un risarcimento di cinquemila euro ciascuno da destinare al Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) per progetti di formazione del personale di polizia penitenziaria. Ma non c’è la prova che i tre stessero guardando la partita - I familiari del detenuto sono invece rappresentati dall’avvocato Riccardo Magarelli, che ha chiesto un risarcimento. Del Gaudio, considerato “a rischio suicidario”, era sottoposto a cure psichiatriche ed era soggetto a regime di stretta sorveglianza. La cella era costantemente monitorata da una telecamera: le cui immagini - è l’ipotesi dell’accusa - i tre non guardarono. In una memoria depositata dall’avvocato Magarelli, c’è la precisa ricostruzione di quella sera, da cui emerge che gli agenti corsero dall’uomo alle 22.41, sette minuti dopo la fine di Juventus-Milan: ma che, durante quegli istanti drammatici, stessero guardando proprio la sfida di calcio, invece del monitor di servizio, non vi è la prova. L’inchiesta sul reparto “Sestante” - La seconda inchiesta sul “Sestante” è stata aperta dopo la pubblicazione di un report dell’associazione Antigone. Si procede per il reato di maltrattamenti. Il fascicolo è a carico di ignoti. I carabinieri del Nas, su incarico della Procura, hanno acquisito una serie di documenti. Il reparto è stato chiuso nel novembre del 2021 per lavori di adeguamento. Palermo. Cura delle malattie mentali tra i detenuti, istituita una nuova sezione al Pagliarelli palermotoday.it L’assessore regionale alla Salute Giovanna Volo e il provveditore regionale per l’amministrazione penitenziaria hanno siglato un protocollo. Lo scopo è agevolare l’accesso alle terapie per i reclusi. Due nuove sezioni per la salute mentale al carcere Pagliarelli e in quello di Siracusa. Il protocollo d’intesa è stato firmato tra l’assessorato regionale alla Salute e il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. “Si tratta - afferma l’assessore Giovanna Volo - di un’azione doverosa di intensificazione dei servizi sanitari di natura psichiatrica sul territorio regionale. In questo caso, l’obiettivo è quello di conciliare le specifiche esigenze di diagnosi e cura dei detenuti affetti da gravi patologie psichiatriche con le modalità gestionali e organizzative tipicamente penitenziarie”. Le sezioni previste dal protocollo si aggiungono a quella già presente nella casa circondariale di Barcellona Pozzo di Gotto. Per ognuna è previsto il coinvolgimento delle aziende sanitarie territoriali di competenza. Nelle strutture intramurarie potranno ricevere assistenza sanitaria persone affette da disturbi dello spettro della schizofrenia e da disturbo bipolare. Attraverso attività di tipo sociosanitario, di diagnosi e di cura, integrate con attività proprie della realtà penitenziaria, sarà assicurato il raggiungimento degli obiettivi di salute e di riabilitazione degli assistiti tramite l’adozione di programmi terapeutico-riabilitativi e di inclusione sociale. “Il nuovo impianto organizzativo - afferma Cinzia Calandrino, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria - determinerà un’implementazione dei livelli di assistenza sanitaria di carattere psichiatrico nei vari istituti penitenziari della regione, al fine di favorire l’accesso dei detenuti a forme di assistenza socio-sanitarie integrate, sia nel contesto penitenziario sia sociale e territoriale”. L’assessore inoltre, con un decreto, ha riattivato anche l’Osservatorio regionale permanente sulla sanità penitenziaria che ha già ripreso a lavorare dopo l’interruzione causata dalla pandemia. Milano. Prevenzione senza barriere, nel carcere di Bollate check-oncologico per le detenute di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 31 marzo 2023 Il progetto pilota rivolto anche al personale femminile del penitenziario. La storia di Susanna: è un modo per prendermi cura di me stessa”. Un camper entra nelle mura, proprio davanti al reparto femminile del carcere di Bollate - è un ambulatorio di 10 metri con a bordo ecografo e mammografo, un invito alla prevenzione e alla cura di sé che in Lombardia non si era mai visto. Lilt (Lega italiana per la lotta contro i tumori) in collaborazione con la Asst Santi Paolo e Carlo e con il sostegno di Europe Assistance porta per la prima volta in una casa di reclusione una iniziativa di questo tipo: “Prevenzione senza barriere” offre alle donne che vivono recluse un check-up oncologico completo e seminari informativi importanti. “Ci sensibilizzano sul bisogno di controllare la nostra salute come gesto di rispetto verso noi stesse e verso le persone che fuori dal carcere ci aspettano”, spiega Susanna, 54 anni, tra le promotrici e le prime a rendersi conto di quanto preziosa sia questa occasione. Il mezzo ha sostato per una intera settimana, all’interno della struttura, e l’adesione ha superato le attese: hanno accettato i controlli con domande e racconti intimi dentro al camper l’80 per cento delle detenute tra i 20 e i 70 anni e il 90 per cento del personale femminile del penitenziario. “All’inizio, quando abbiamo cominciato a parlare dell’iniziativa tra le celle, molte ospiti erano prevenute e timorose. Nessuno aveva mai chiesto loro di prendersi cura della salute in modo attivo. Avendo confidenza con loro nel reparto mi sono fatto promotore dell’iniziativa, pian piano abbiamo trovato consensi e fiducia e alla fine, quando abbiamo chiesto chi tra tutte volesse fare da testimonial per parlare ai giornalisti, nessuna si è tirata indietro, anzi”, racconta il sovrintendente Roberto Capras. “Ci sono luoghi dove la prevenzione fa molta fatica ad arrivare, il carcere è uno di questi - riflette Marco Alloisio, presidente di Lilt Milano Monza Brianza -. L’ambulatorio mobile attrezzato con apparecchiature di ultima generazione ci consente di abbattere barriere e resistenze soprattutto psicologiche”. Il direttore di Bollate Giorgio Leggieri auspica che la collaborazione sia duratura: “Può essere un progetto pilota da replicare anche in altri contesti dove si incontrano fragilità umane e sociali - dice -. È anche con progetti come questi che si lavora sull’inclusione e non a caso abbiamo coinvolto sia donne che vivono in libertà ristretta, sia operatrici e agenti che vivono la loro quotidianità qui dentro, esattamente come le altre”. Non è solo prevenzione ma anche sensibilizzazione, fa notare Matteo Stocco, direttore dell’Asst Santi Paolo e Carlo: “Prima dell’emergenza Covid c’era maggiore mobilità e le detenute prendevano parte ai programmi di screening oncologici regionali, con le complicazioni della pandemia c’è stata una battuta d’arresto ma non si devono perdere le buone abitudini. La finalità rieducativa della pena consiste anche nel promuovere welfare e tutela dei diritti umani e sociali” Nella Casa circondariale sono detenute circa 100 donne (a fronte di circa 1.250 uomini), in un unico reparto ove sono impiegate circa trenta unità di Polizia Penitenziaria femminili per assolvere ai servizi istituzionali. Un dato che rispecchia le percentuali a livello nazionale dove le donne rappresentano il 5% dell’intera popolazione carceraria. Sono relativamente poche ma necessitano della massima attenzione, come dicono anche i dati. Negli ultimi anni, complice la pandemia, i Italia le nuove diagnosi di tumore sono passate da 376.600 nel 2020 a una stima di 390.700 per il 2022. In questi casi la prevenzione precoce è cruciale: come dice Susanna, “il torpore sul letto non aiuta nessuno. Gli anni in carcere possono essere “Kayros”, tempo opportuno per imparare nuove cose. Ad esempio, a prendersi cura degli altri e in parallelo, di sé”. Roma. In carcere con la mamma, la surreale condizione di bambini e bambine senza colpe di Matteo Torrioli romatoday.it, 31 marzo 2023 L’assessora Claudia Pratelli ha visitato il carcere femminile di Rebibbia, il più grande d’Europa. Bambini senza colpa alcuna che vivono in carcere. Quando escono, per motivi diversi, dalle case circondariali, devono farlo attraverso i cancelli di sicurezza, come detenuti qualsiasi. La loro colpa? Avere delle madri condannate e costrette dentro una casa circondariale. Una situazione che, almeno per il momento, non cambierà. Di recente, infatti, è stata ritirata la “legge Serracchiani” che puntava ad un nuovo modello di gestione di queste situazioni. Il futuro, adesso, è più incerto che mai come ha potuto constatare anche l’assessora alla scuola, formazione e lavoro di Roma capitale, Claudia Pratelli, dopo una visita al carcere femminile di Rebibbia. La legge Serracchiani - È stata ritirata, dopo la presentazione di diversi emendamenti da parte della maggioranza la “legge Serracchiani”, presentata dalla deputata del Pd. La norma puntava a superare alcuni limiti ed ostacoli che, di fatto, alimentano la carcerazione anche dei bambini insieme alle loro madri. Tra le novità, sottolineate anche da Cittadinanza Attiva e da Aroma Insieme, onlus che si occupano di persone in condizione di fragilità, “le disposizioni rivolte a sostenere e promuovere il sistema delle case famiglia protette come modello alternativo alle soluzioni detentive di madri e bambini, comprese quelle della detenzione negli Istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri (Icam)”. Un “regime carcerario” più leggero, quindi, per le madri ma soprattutto per i loro figli, fermo restando il controllo delle autorità preposte. Icam - Gli Icam sono, in sintesi, le case per mamme detenute. Sono degli spazi che dovrebbero, condizionale d’obbligo, essere distinti dal carcere per tutelare, in particolare, i bambini che vivono con le madri all’interno di queste strutture. In Italia ce ne sono 4 e, salvo Milano, queste aree si trovano “all’interno del perimetro del carcere seppur distaccate - spiegava, in un’intervista a La Repubblica, il garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa - gli agenti sono in borghese, le sbarre camuffate, ma a gestirli è sempre l’amministrazione penitenziaria, si entra e si esce fino ai sei anni dal portone del carcere passando dai controlli della vigilanza”. Bambini - Figli e figlie di mamme carcerate passano negli istituti carcerari i primissimi anni di vita. Anche se c’è un occhio di riguardo per bambini e bambini, con nidi attrezzati, questi ambienti si trovano pur sempre all’interno di un carcere. Poi, compiuti i tre anni, escono per andare in case famiglie e strutture ad hoc. Rebibbia - L’assessora Pratelli ha visitato, insieme alla neo garante dei detenuti di Roma, Valentina Calderone, il carcere femminile di Rebibbia. “Il tema - ha detto la Pratelli in una nota parlando del ritiro della legge Serracchiani - resta centrale per scongiurare che anche solo un bambino o bambina finisca per vivere uno stato di detenzione, passando i primissimi anni in un ambiente limitato e con pochissime occasioni di socialità tra pari. Per questo credo sia fondamentale promuovere i luoghi protetti fuori dal carcere dove le madri possono condividere il tempo di vita con i propri figli e prevedere, come abbiamo fatto a Roma, priorità di accesso ai nidi e alle scuole d’infanzia comunale, con il riconoscimento di un punteggio dedicato proprio per i bambini con uno o entrambe i genitori in condizione di detenzione”. Milano. Graziano Mesina rifiuta le cure mediche in carcere, non può avere i domiciliari Il Giorno, 31 marzo 2023 De Corato: “Fa come Cospito, mi auguro che la Magistratura prosegua in questa direzione, non cedendo a continui ricatti di detenuti al 41bis”. Graziano Mesina, l’ex primula rossa del Supramonte, 80 anni detenuto ad Opera, “rifiuta” le cure e ogni accertamento diagnostico e quindi non è possibile arrivare ad una “diagnosi certa” sulle sue condizioni di salute. Lo scrive il Tribunale di Sorveglianza di Milano, presieduto da Giovanna Di Rosa, in un provvedimento con cui nelle scorse settimane ha deciso, in un procedimento aperto d’ufficio, che non si possa concedere a Mesina il differimento pena con detenzione domiciliare. Il principio espresso (giudice estensore Giovanni Gerosa) è che l’opposizione a cure e diagnosi da parte del detenuto non consente il differimento pena. Nel provvedimento della Sorveglianza (con giudice a latere Laura De Gregorio), depositato ai primi di marzo, viene spiegato che Mesina, detenuto nel carcere milanese dallo scorso giugno, si pone “in maniera oppositiva” di fronte alle cure e ai tentativi da parte del personale medico, a cui non offre alcuna collaborazione, di arrivare ad una diagnosi certa. E le sue condizioni, per quanto possibile, vengono valutate come “apparentemente” discrete. Impossibile un “quadro diagnostico” - Con questa decisione, presa in un procedimento aperto d’ufficio da parte dei giudici e senza un’istanza difensiva, i magistrati milanesi, sulla base della giurisprudenza, esprimono un principio, ossia che, poiché non si può approfondire il “quadro diagnostico” di fronte al rifiuto del detenuto, non si può concedere a quel punto il differimento pena. Come Alfredo Cospito - Un principio, tra l’altro, simile e in linea con quello che nei giorni scorsi ha portato la Sorveglianza milanese a respingere la richiesta di differimento pena con detenzione domiciliare avanzata dall’anarchico Alfredo Cospito e in questo caso sul punto della “autoinduzione” in uno stato critico, attraverso un consapevole sciopero della fame. Mesina, ex esponente del banditismo, evaso più volte (l’ultima nel 2020) e con fine pena previsto nel dicembre 2045, stando agli atti, ha deciso di “autodimettersi” dalle cure ai primi di dicembre scorso. “No” ai domiciliari - Per lui, tra l’altro, nei giorni scorsi il Tribunale di Sorveglianza di Sassari (prima era detenuto in Sardegna) ha rigettato l’istanza di detenzione domiciliare per motivi di salute avanzata dalla sua difesa, secondo la quale l’ex latitante sta male a causa dell’avanzare dell’età e della vita troppo sedentaria. De Corato: “Tutto ciò assurdo” - “Trovo tutto ciò assurdo perché, lo ricordo, stiamo parlando di criminali e mafiosi che hanno compiuto tutta una serie di gravissimi reati. Mesina, in particolare, è colui che è stato anche mediatore nel sequestro di Farouk Kassam ed ha provato ad evadere, dal carcere, 22 volte e, 10 di queste, ci è riuscito. Spero e mi auguro che la Magistratura prosegua con questa linea ed in questa direzione, non cedendo a continui ricatti di detenuti al 41bis”, ha affermato il vicepresidente della Commissione Affari Costituzionali della Camera, Riccardo De Corato, sulla mancata concessione, da parte del Tribunale di Sorveglianza di Milano, dei domiciliari nei confronti di Graziano Mesina. Pesaro. “Devi andare in carcere”, ma cinque ore dopo finisce sotto al treno di Elisabetta Rossi Il Resto del Carlino, 31 marzo 2023 Aveva saputo dal suo avvocato che sarebbe finito in carcere per scontare una condanna definitiva. Tre mesi di cella. E a giugno sarebbe stato di nuovo un uomo libero. Qualche ora dopo, alle 20.30 di mercoledì sera, è morto sui binari tra Pesaro e Fano, travolto dal treno in corsa, il regionale 4252 in arrivo da Ancona. Sulla pista ciclabile, a due passi dalla rete di plastica che ha scavalcato per raggiungere le rotaie, gli uomini della Scientifica hanno trovato una boccetta di Delorazepam, un ansiolitico, e una tessera con il codice fiscale. Quello che corrispondeva al suo nome. Si chiamava Andrea Cipolloni, avrebbe compiuto 60 anni il prossimo novembre, abitava a Trebbiantico, ed era un noto igienista dentale di Pesaro. E alcune delle sue grane giudiziarie, erano legate proprio al suo lavoro. Era finito a processo per esercizio abusivo della professione, accusato di mettere le mani in bocca ai pazienti come fosse un dentista, ma senza averne titolo. Condannato, la sentenza, a tre mesi di reclusione, era diventata definitiva. Si era bruciato il beneficio della sospensione condizionale della pena. Aveva infatti altri conti con la giustizia, sia chiusi che aperti. In passato era finito a processo per diffamazione, molestie, stalking, vicende nate anche sullo sfondo di un rapporto conflittuale con la ex moglie sudamericana, che si era trasferita ai Caraibi con i loro figli. Il fronte aperto, invece, lo vedeva di nuovo a processo per stalking nei confronti di una ex amica, la quale era tornata a denunciarlo anche poco fa, a febbraio scorso, e sempre per atti persecutori. E quando il difensore di Cipolloni, l’avvocato Gianluca Sanchini, ha provato a chiedere una pena alternativa a quella condanna di 3 mesi, come un affidamento in prova ai servizi sociali o la detenzione domiciliare, il Tribunale ha detto di no. La stessa procura ha dato parere negativo e soprattutto per quelle recenti condotte di stalking. No ai lavori socialmente utili che lo avrebbero lasciato libero di muoversi di giorno e quindi, secondo i magistrati, di continuare a perseguitare la vittima, ma anche no alla detenzione domiciliare perché aveva usato il telefonino come altro mezzo per molestare la denunciante. E dunque carcere, il verdetto del Tribunale. Alle 15.30 circa dell’altro giorno, l’avvocato Sanchini lo ha chiamato per dargli la notizia che contro di lui c’era un ordine di carcerazione. I carabinieri lo sarebbero andati a prendere nel giro di qualche giorno per portarlo a Villa Fastiggi. Lui, d’accordo con il legale, avrebbe deciso di mettersi subito alla ricerca di un lavoro per poter fare istanza di sospensione dal carcere. Nell’arco del pomeriggio di mercoledì, Cipolloni e Sanchini si sono sentiti più volte. Ma a un certo punto, l’avvocato non ha più ricevuto risposta. Lo ha chiamato altre 5 volte, l’ultima alle 21.30. Ma, a quell’ora, era già troppo tardi. Milano. L’umanità dello sport nel carcere di San Vittore di Simone Gioia* vita.it, 31 marzo 2023 “Liberi di giocare” è il progetto del Csi di Milano che porta lo sport nel carcere di San Vittore per garantire ai detenuti allenamenti e partite di calcio, basket e pallavolo. E i valori dello sport vengono portati fuori, una volta scontata la pena. La testimonianza di un educatore del Csi. Tra i numerosi progetti che il Csi, il Comitato di Milano svolge sull’hinterland e, nello specifico presso le carceri, ce n’e? uno che riguarda la “Casa Circondariale Francesco Di Cataldo”, conosciuta come il carcere di San Vittore: “Liberi di giocare”, all’insegna dello sport, per garantire ai detenuti allenamenti e partite di calcio, basket e pallavolo. Proprio nell’ambito del progetto calcio, nelle scorse settimane e? avvenuto un episodio degno di nota: durante uno dei tanti e soliti allenamenti svolti all’interno della struttura penitenziaria, tra i detenuti che partecipano con costanza si nota subito l’assenza di chi e? sempre presente, ovvero Paolo. La sua assenza non passa inosservata, ma nessuno decide di dargli troppo peso, anche perche? spesso capita che al sabato i detenuti si ritrovino impegnati nei colloqui con i familiari. Dopo quasi mezz’ora dall’inizio dell’allenamento, pero?, accade qualcosa di inaspettato: Paolo e? assente per un motivo ben preciso, perche? ha ricevuto la notizia che attendeva da tempo, ovvero e? libero e puo? finalmente uscire. Si sente il rumore inconfondibile del giro di chiave da parte dell’agente, entra Paolo in campo - indossa jeans e un maglioncino, non la solita divisa sportiva - e scatta un applauso: in campo, dalle finestre, nei corridoi. Applaudono tutti, partono anche i cori in suo onore: “Paolino, Paolino, Paolino”. Paolo e? quasi un uomo di mezza eta? e, dopo due anni e otto mesi, torna a rivedere la luce del sole. Tanto affetto e? giustificato proprio dalla sua eta? e perche? dentro il Carcere di San Vittore nel corso del tempo e? diventato un punto di riferimento, voluto bene e rispettato. Abbracci interminabili da parte di tutti, con Paolo che si ritrova spaesato, in una situazione in cui probabilmente non e? abituato a fronteggiare, non sapendo da che parte voltarsi prima, inondato da cosi? tanta umanita? dai suoi “compagni di cella” da farlo sentire quasi in imbarazzo. Travolto dall’affetto della sua famiglia, si? perché? dopo anni che condividi ogni minuto della tua vita con le stesse persone, quelle stesse persone diventano la tua famiglia, lascia - quasi come se fosse una superstar dopo l’omaggio ricevuto - il campo e si dirige verso l’uscita: li? dove sa che c’e? una nuova e seconda vita che lo aspetta. Spesso, verso le carceri e i detenuti, si ha un atteggiamento pregiudiziale, bollando come “carcerato a vita” - e quindi non un essere umano al nostro pari - una persona solo perché? ha varcato, meritatamente o meno, i cancelli di un carcere. Ci si dimentica che ogni persona che finisce dentro, porta con se? una storia, gioie, dolori, sofferenza, rabbia e anche - soprattutto - tanti errori. Ma la storia di Paolo ci restituisce tanta umanità? e fa capire quanto noi umani siamo persone fragili. Basta un secondo per compromettere la nostra vita. Ma anche un secondo per tornare a essere umani. Al di la? tutto e al netto di tutti gli errori che possiamo commettere, chiunque merita una seconda chance. E la merita anche Paolo, che e? tornato a vivere e a svegliarsi con una nuova luce: quella della liberta?. *Csi Messina. Donne dietro le sbarre che si riscattano sul palcoscenico di Letizia Barbera Gazzetta del Sud, 31 marzo 2023 Un gruppo di donne decide di cambiare la legge per prendere le redini del governo. Fingendosi uomini entrano in Parlamento facendo approvare un provvedimento che dà loro il potere. Provano a gestirlo al grido di “tutto in comune” in un crescendo di equivoci, colpi di scena e capovolgimenti di fronte. Prende spunto dalla nota commedia di Aristofane “Le donne al Parlamento” lo spettacolo in scena al teatro Piccolo Shakespeare, struttura nata all’interno del carcere di Gazzi, che nel titolo reca adesso anche “ieri, oggi e domani” come una sorta di aggiornamento temporale. Sul palco ci sono le studentesse del progetto “Liberi di essere Liberi” e le detenute di alta sicurezza del laboratorio teatrale diretto dal regista Tindaro Granata che insieme a Daniela Ursino, direttrice artistica, ha ideato lo spettacolo che si ispira ad un lavoro della regista Serena Sinigaglia. Una rappresentazione nata per parlare di donne in senso ampio che, nella trasposizione di Granata porta in scena anche una ricerca sulle Madri costituenti ed è un invito a credere sempre nei sogni. Dopo una rappresentazione a dicembre, si alza il sipario del Piccolo Shakespeare per un pubblico composto da studenti degli istituti Minutoli, Ainis, Bisazza che aderiscono al “Tavolo permanente della legalità” e da tanti emozionati genitori delle studentesse. Ancora una volta il palco è stato l’incontro speciale tra due realtà: quella del carcere che si apre all’esterno nell’ambito di un progetto educativo e quella delle studentesse delle facoltà giuridiche che hanno aderito al progetto “Liberi di essere Liberi” nato da un protocollo tra la casa circondariale e l’università per conoscere la realtà del carcere attraverso l’arte e che adesso vede la partecipazione attiva degli studenti ai laboratori teatrali. Due realtà distanti che sulla scena si avvicinano. Gli studenti chiedono la presenza di uno psicologo a scuola. Allarme per la crescita del disagio giovanile di Orsola Riva Corriere della Sera, 31 marzo 2023 Il 91% dei ragazzi ritiene opportuna la presenza di un terapeuta all’interno dei loro istituti superiori o universitari. Si sentono inadeguati e soli, in una società sempre più competitiva. E i genitori sono i primi a non saper accettare gli insuccessi dei figli. “Siate realisti, chiedete l’impossibile”, gridavano i nonni quando avevano la loro età sull’onda del Maggio francese. “Più aule, meno tasse”, si accontentavano di chiedere i genitori cresciuti in pieno edonismo reaganiano. “Ci meritiamo di stare bene”, hanno scritto loro - i nostri figli e nipoti - sullo striscione con cui un paio di settimane fa sono scesi in piazza per protestare contro una società che predica il merito ma pratica una competizione sfrenata che li fa sentire perennemente inadeguati, sbagliati e soprattutto soli. Nelle foto della manifestazione somigliano ai ragazzi del ‘68 e a quelli dell’85: forse solo meno arrabbiati, sicuramente più tristi. Ma come si è arrivati in poco più di cinquant’anni dalla “fantasia al potere” a “uno psicologo in ogni scuola”, come recitava il secondo striscione srotolato davanti al ministero della Salute in occasione della giornata nazionale contro i disturbi del comportamento alimentare? E siamo proprio sicuri che quelli fragili siano solo loro e non anche noi adulti? Disturbi alimentari e autolesionismo - I numeri parlano chiaro: il 28 per cento dei giovani ha sperimentato una qualche forma di disturbo alimentare (senza arrivare all’anoressia o alla bulimia, uno dei fenomeni più diffusi è quello del binge eating: abbuffarsi fino a stare male), il 14,5% dice di aver compiuto atti autolesionistici, come per esempio farsi dei tagli sulle braccia, il 10,3% ha fatto esperienza di sostanze psicotrope, il 12 ha abusato di alcol. Non sempre ci va di mezzo la salute mentale ma il benessere, quello sì. Forse anzi è questo il dato più sconcertante dell’indagine Chiedimi come sto, condotta dall’Istituto di Ricerche Economiche e Sociali dell’Emilia-Romagna su quasi 30 mila studenti medi e universitari di tutta Italia: la fatica di “avere vent’anni” oggi (oggi e sempre, se solo qualcuno a scuola gli avesse mai fatto leggere Paul Nizan: “Avevo vent’anni, non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”). Poco felici, molto insicuri - È vero che lo studio in questione risale all’anno scorso e quindi risente dell’effetto moltiplicatore della pandemia. Ma le risposte degli intervistati parlano di un disagio profondo e diffuso che il Covid ha solo accentuato e forse in parte sdoganato, nel senso che “con la scusa” dell’emergenza sanitaria i ragazzi si sono sentiti più liberi di parlare dei loro problemi. Tre quarti degli studenti si definiscono poco felici o infelici del tutto; più di uno su quattro ha pensato di lasciare gli studi; quando immaginano il futuro si sentono insicuri se non addirittura impauriti; quanto al loro rapporto con gli adulti, li giudicano responsabili ma poco determinati e per nulla sinceri. Risultato: il 91 per cento degli intervistati ritiene utile la presenza di uno psicologo a scuola e più di un terzo di loro vorrebbe usufruirne. Sportello psicologico, aperto e richiuso - Nell’autunno del 2020 il ministero dell’Istruzione aveva sottoscritto un protocollo d’intesa con l’Ordine degli Psicologi per far fronte alle situazioni di crisi scatenate dalla pandemia. Nel giro di pochi mesi il 70 per cento delle scuole (5.662 su 8.183, dati Miur) aveva attivato uno sportello psicologico: alcune lo avevano già prima, ma più della metà (3.178) lo hanno istituito ex novo grazie ai fondi a disposizione. Peccato che il governo non abbia ritenuto utile rifinanziare questo servizio nell’ultima legge di Bilancio, preferendo puntare sulla nuova figura del docente tutor, che grazie a un corso sprint di 20 ore dovrebbe riuscire nell’impresa di far recuperare ai ragazzi delle ultime tre classi delle superiori i loro ritardi di apprendimento. Costo totale dell’iniziativa: 150 milioni di euro. “Ma l’apprendimento va di pari passo col fatto di stare bene. Quando c’è malessere, si impara anche male”, dice David Lazzari, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi (Cnop). “Visto il successo dello sportello psicologico durante il Covid, poteva essere l’occasione buona per scrivere una legge quadro che istituisse una volta per tutte la figura dello psicologo scolastico, inteso non come un servizio a gettone ma come una presenza fissa, parte del personale di ciascun istituto. Nel resto d’Europa è già così. E invece, dopo aver investito circa 60 milioni in due anni, hanno chiuso i rubinetti”. Serve un aiuto contestualizzato - Il ministero continua naturalmente a portare avanti tantissime iniziative per la promozione del benessere psicofisico, la prevenzione delle dipendenze, la lotta al bullismo e al cyberbullismo. “Ma quello che manca è un approccio sistemico”, nota Lazzari. In Parlamento giacciono almeno quattro disegni di legge che andrebbero in questa direzione: il primo, firmato tra gli altri anche dall’onorevole Giorgia Meloni, risale al 2018 e prevede d i garantire a tutte le scuole la presenza di almeno uno psicologo (due o tre in quelle più numerose) per un minimo di 36 ore settimanali. Costo stimato: la bellezza di 1,2 miliardi di euro l’anno. Gli studenti si accontenterebbero di molto meno: cento milioni, questo il costo della proposta di legge che hanno presentato la settimana scorsa alla Camera. “L’importante è garantire a tutti un servizio minimo”, continua Lazzari. “Non possiamo continuare a perpetuare la discriminazione fra ricchi e poveri, con le scuole delle aree più benestanti che si pagano il servizio con il contributo delle famiglie e le altre che restano a secco”. Le insicurezze degli insegnanti - È vero che l’emergenza sanitaria è finita ma - come nota Cristina Costarelli, preside del liceo scientifico Newton di Roma e presidente dell’Anp Lazio, il sindacato dei dirigenti scolastici - “per riassorbire l’ematoma ci vorrà tempo”. Nel suo liceo il servizio era attivo già prima: sei ore alla settimana, quattro di sportello più due in classe. “Sullo psicologo scolastico c’è un dibattito aperto”, continua Costarelli. “Alcuni ci vedono il rischio di una medicalizzazione della scuola, io più pragmaticamente ritengo utile avere una figura di riferimento competente con cui i docenti possano confrontarsi quando si accorgono che uno studente tende a isolarsi o fa fatica a tornare a scuola - e sono tanti i ragazzi e le ragazze in questa situazione, soprattutto dopo il Covid - o anche solo per costruire un gruppo classe affiatato”. Sono gli insegnanti stessi a dire che a fronte di una buona preparazione disciplinare si sentono invece molto insicuri dal punto di vista psicopedagogico e didattico. Nell’ultimo rapporto Talis sui docenti di 48 Paesi dell’Ocse, l’80 per cento dei professori italiani si dichiara forte nella propria materia ma quando si passa alla pratica d’aula sei su dieci denunciano un senso di inadeguatezza. Il problema è noto: mentre per fare la maestra d’asilo o delle elementari da almeno vent’anni è richiesta una laurea specifica, per insegnare alle medie e alle superiori non esiste un percorso ad hoc. Fino all’autunno scorso bastava aggiungere alla laurea 24 crediti universitari presi anche per corrispondenza. Una prima classe preoccupante - A giugno la Camera ha approvato in via definitiva una riforma che prevede un percorso più strutturato, corrispondente a 60 crediti formativi di cui almeno 20 di tirocinio. Sono passati dieci mesi e dei decreti attuativi che permetterebbero alle università di attivare i nuovi corsi non c’è l’ombra: tutto fermo. Mentre chi è già di ruolo, continua a stare in trincea. Anna Rosa Besana insegna da più di 35 anni nella stessa scuola, l’istituto Greppi di Monticello (Monza e Brianza) che comprende un liceo scientifico, un liceo delle scienze umane, un istituto tecnico-chimico e un tecnico-informatico: “Mai visti tanti ragazzi così deprivati, immaturi e turbolenti come quelli che sono entrati in prima quest’anno. Fare lezione non è mai stato così faticoso: non è solo che non riescono a stare attenti, faticano anche a relazionarsi fra loro. Io ho già organizzato due incontri con la psicologa scolastica”. Non è solo colpa del Covid. Sono anni ormai che la professoressa e i suoi colleghi sperimentano una crescente fragilità dei ragazzi. Gli errori, gravi, dei genitori - “Sono incapaci di accettare le frustrazioni: un brutto voto diventa una tragedia”. E non solo per loro, anche per i genitori che spesso sono i primi a non riuscire ad accettare gli insuccessi dei figli. “Piuttosto che guardare in faccia la realtà, preferiscono farsi fare delle diagnosi che certifichino un qualche disturbo specifico di apprendimento, anche quando non c’è. O all’opposto ci spiegano che se il figlio va male a scuola è perché ha un quoziente di intelligenza altissimo e in classe si annoia”. Il fenomeno sta dilagando anche in Francia tanto che il settimanale L’Obs qualche settimana fa ha dedicato la sua copertina all’ossessione HPI, che sta per haut potentiel intellectuel (alto potenziale intellettuale). Conclusione: “Siamo stanchissimi e frustrati. Spesso mi chiedo: ma io cosa sto facendo? Non riesco ad aiutare chi è in difficoltà, fatico a portare avanti gli altri. E intanto dal ministero arrivano sempre più richieste. Lo so anch’io che ci vorrebbe un approccio personalizzato: ma con prime da trenta alunni come si fa?”. La paura di deludere i genitori - Lo psicologo e psicoterapeuta Matteo Lancini è presidente della Fondazione Minotauro, che da quasi quarant’anni fa ricerca sugli adolescenti e promuove progetti di prevenzione e intervento nelle scuole. “La pandemia ha solo esacerbato disagi che già c’erano. Disturbi alimentari, autolesionismo, abuso di psicofarmaci, tentati suicidi: il corpo è diventato il megafono di una sofferenza che non trova altre forme di espressione”. In termini clinici si chiama acting out: è una specie di cortocircuito in cui l’azione, per esempio farsi un taglio, sostituisce le parole che non riescono a uscire. Lancini non fa sconti al mondo degli adulti: genitori e insegnanti. “Se i ragazzi faticano a esprimere il dolore è perché non vogliono farci sentire in colpa o deluderci”, spiega. “In un certo senso sono loro che si fanno carico di noi, delle nostre fragilità, non il contrario. Una volta, se ti andava male un esame all’università, temevi la reazione furibonda di tuo padre. Oggi i ragazzi mentono (secondo un recente sondaggio di Skuola.net lo fa un ragazzo su tre; ndr) per non dover gestire l’angoscia dei genitori”. Che ci sia un problema di comunicazione lo dicono un po’ tutti. “La mia sensazione è che soprattutto dopo il Covid si sia creata una distanza assoluta fra noi e loro”, dice Patrizia Cocchi, preside del liceo scientifico Vittorio Veneto di Milano. “Ci considerano responsabili di quanto è accaduto, di non aver saputo gestire l’emergenza e di averli chiusi in casa. Sono cortesi, ma non ci ritengono degli interlocutori credibili. Quando l’anno scorso hanno deciso di occupare la scuola, non c’è stato nessun confronto: lo hanno fatto e basta. Potevo usare la leva dell’autorità, ma sarebbe stato controproducente. Ho preferito dormire qui a scuola. Vedendoli ballare tutta la notte mi sono resa conto che avevano solo voglia di stare insieme, era quello che gli era mancato di più”. La responsabilità può aiutare - Cocchi è fresca reduce da due giorni di autogestione che non esita a definire splendidi: “Noi li abbiamo supportati, ma devo riconoscere che loro sono riusciti a gestire una comunità di 1.500 studenti in modo egregio, organizzando una serie di collettivi sull’omosessualità e sull’aborto, temi che sentono molto vicini, come l’ambiente e più in generale l’ansia per il futuro. E su cui ritengono noi adulti, docenti, genitori, decisori politici, totalmente impreparati”. Forse proprio da qui si dovrebbe ripartire: cercare un nuovo canale di ascolto incentrato invece che sul controllo sulla responsabilizzazione. “In fondo”, dice Lancini, “tutti i ragazzi chiedono una sola cosa: di essere amati da mamma e papà e dai loro insegnanti per quello che sono”. Sarebbe imperdonabile dover dare ancora ragione a quel tale che diceva: “Durante i miei nove anni di scuole superiori non sono mai riuscito a insegnare niente ai miei professori”. Era Bertolt Brecht, un secolo fa. Migranti. La Cedu condanna l’Italia: a Lampedusa detenzioni arbitrarie di Giansandro Merli Il Manifesto, 31 marzo 2023 Mediterraneo. La sentenza è netta: condizioni inumane e respingimenti collettivi. “I fatti risalgono al 2017 ma ancora oggi nell’hotspot dell’isola si registrano trattenimenti informali e sovraffollamento sistematico”, dice l’avvocata Lucia Gennari (Asgi). Intanto il governo prepara il piano contro l’aumento degli sbarchi. Il Comitato anti-tortura del Consiglio d’Europa ai paesi membri: basta respingimenti. Amnesty: chi ha sbagliato paghi. L’impennata degli sbarchi spinge il governo ad adottare contromisure in vista della stagione estiva. Dal Viminale fanno sapere che i provvedimenti concreti sul tavolo, per ora, sono soprattutto due: rafforzamento del sistema di accoglienza, che al momento ospita 115mila migranti, e apertura di nuovi Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), “almeno uno per regione”. Occhi puntati su Lampedusa da dove i trasferimenti saranno velocizzati, grazie all’aiuto della marina militare. A proposito degli arrivi sulla maggiore delle Pelagie, però, ieri è arrivata una nuova tegola sui piani dell’esecutivo. La Corte europea per i diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per il caso di quattro cittadini tunisini trattenuti nell’hotspot dell’isola tra il 15 e il 26 ottobre 2017, poi trasferiti in Sicilia e da lì rimpatriati lo stesso giorno. In quel periodo al governo c’era Paolo Gentiloni, ma le prassi sono rimaste uguali e sono dunque illegittime. Lo Stato dovrà pagare a ogni ricorrente 8.500 euro. La condanna è pesante perché tocca tre punti: condizioni di trattenimento inumane e degradanti, detenzioni arbitrarie e respingimento collettivo. Cioè violazioni degli articoli 3, 4 e 5 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata nel 1950 dal Consiglio d’Europa. È il trattato che tutela i diritti inviolabili nei 47 paesi firmatari (di cui 27 formano l’Ue). “La decisione del giudice parla di situazioni del tutto attuali. Ancora oggi nell’hotspot di Lampedusa si registra un sovraffollamento sistematico e le persone sono trattenute in modo informale senza una convalida giudiziaria, né un termine chiaro. Inoltre non hanno accesso sufficiente alle informazioni sul loro status e la procedura d’asilo”, spiega l’avvocata Lucia Gennari che ha firmato il ricorso in sede europea insieme alla collega Loredana Leo. Entrambe fanno parte dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). “La Corte dice anche che le procedure di rimpatrio accelerato cui da anni sono sottoposti i cittadini tunisini non sono valide: le modalità adottate non permettono di garantire il diritto di difesa e l’accertamento delle situazioni individuali”, continua. Si tratta di una sentenza di primo grado contro cui verosimilmente le autorità italiane faranno opposizione. A quel punto la palla passerà alla Grande camera della Corte per la decisione definitiva. Nel frattempo, però, ogni migrante che finisce nell’hotspot ed è trattenuto in modo illegittimo ha potenzialmente diritto a un risarcimento. Anche perché nel frattempo la situazione è peggiorata. Dal punto di vista quantitativo: nelle ultime settimane si sono registrati picchi di presenze nella struttura di Contrada Imbriacola superiori a 3mila. E questo ha inevitabilmente effetti deleteri sulle condizioni di permanenza, visto che la capienza è di circa 400 posti. Dal punto di vista qualitativo: nel 2017 dall’hotspot si poteva uscire attraverso un buco nella rete in modo informale. Per il giudice europeo non basta a negare che si sia trattato di una forma di detenzione e comunque oggi quel buco non c’è più. Secondo la legislazione nazionale non è possibile trattenere le persone negli hotspot, se non nel caso dei richiedenti asilo per un massimo di 30 giorni ma solo dopo un pronunciamento del tribunale. In ballo, insomma, è proprio il “modello Lampedusa” implementato da tutti gli ultimi governi, dal centro-sinistra alla destra-destra passando per populisti e tecnici. Il modello si basa su una rigida procedura: chi sbarca transita dal molo Favoloro direttamente all’hotspot nascosto nella pancia dell’isola. “Il prefetto ha spiegato che Lampedusa fa affidamento sulle entrate del turismo e la loro [dei migranti, ndr] presenza potrebbe creare dei problemi”, si legge nel report sulle visite ai centri di identificazione ed espulsione 2016-2017 del Garante nazionale dei detenuti. Questo tacito accordo tra Stato italiano e popolazione locale, però, secondo la Corte viola i diritti fondamentali dei cittadini stranieri. Sempre ieri un altro organo del Consiglio d’Europa ha richiamato gli Stati membri sulle politiche migratorie: basta respingimenti alle frontiere marittime e terrestri dell’Ue. Molti paesi affrontano sfide complesse, scrive il Comitato anti-tortura (Cpt), “ma questo non significa che possano ignorare i loro obblighi in materia di diritti umani”. I risultati delle ispezioni lungo le rotte percorse dai migranti hanno dato esiti terribili: aumentano detenzioni arbitrarie, maltrattamenti, violenze delle polizie, respingimenti illegali per terra e mare. Dall’Egeo alla rotta balcanica, fino ai paesi baltici e dell’Europa orientale. “C’è urgente bisogno che vengano avviate indagini immediate e indipendenti, che i responsabili siano chiamati a risponderne e che siano istituiti forti meccanismi indipendenti di monitoraggio alle frontiere”, attacca Eva Geddie, direttrice dell’Ufficio europeo di Amnesty International. Rocca Canavese, il pullman scarica e abbandona i migranti a 30 chilometri da Torino di Massimo Massenzio Corriere della Sera, 31 marzo 2023 Il sindaco: “Non potevo crederci”. Erano partiti da Siracusa a bordo di un pullman, senza documenti o accompagnatori, ed erano stati destinati a vari centri di accoglienza del Piemonte e invece sono stati abbandonati lì. “Ultima fermata, scendete tutti”. Ieri mattina, poco dopo mezzogiorno, a Rocca Canavese, 26 migranti sono stati “abbandonati” più o meno in questo modo sulla piazza principale del paesino di 1700 abitanti, a 30 chilometri da Torino. Erano partiti da Siracusa a bordo di un pullman, senza documenti o accompagnatori, ed erano stati destinati a vari centri di accoglienza del Piemonte. Cinque donne, provenienti dalla Costa d’Avorio, erano attese in una cooperativa femminile del piccolo centro del Canavese, ma gli autisti hanno fatto scendere anche gli altri passeggeri e sono ripartiti in tutta fretta. La reazione del sindaco - “Quando me lo hanno riferito non riuscivo a crederci - racconta il sindaco Alessandro Lajolo -. Poi sono sceso in piazza e ho visto questi poveri ragazzi, stanchi e spaesati, in strada. Siamo di fronte a un’emergenza umanitaria e qui a Rocca facciamo quello che è nelle nostre possibilità, ma l’accoglienza non può funzionare così”. Il primo cittadino ha immediatamente allertato la protezione civile per garantire cibo e acqua. Ed era pronto a portare le brandine nella palestra della scuola, ma fortunatamente non è stato necessario. I volontari della Croce Rossa di Susa sono venuti a prendere una famiglia ivoriana e l’autobus è tornato indietro dopo qualche telefonata infuocata: “Ovviamente ho informato subito la Prefettura, che devo ringraziare per la prontezza e l’efficacia dell’intervento - aggiunge Lajolo -. Ci hanno messo in contatto con gli autisti e dopo due ore la situazione è stata risolta. Mi spiace per queste persone che hanno dovuto affrontare pericoli e difficoltà e di certo non meritavano di essere trattate come pacchi. Ho chiesto spiegazioni ai conducenti del pullman, da quello che ho capito erano convinti che questo fosse un punto di smistamento. O forse erano semplicemente troppo stanchi”. Alla fine 3 profughi sono stati portati a Susa, altri 3 sono stati ospitati dal Cisv e Liberitutti a Torino, mentre gli ultimi 5 hanno terminato il loro lungo viaggio in una cooperativa di Vercelli. Da quanto si apprende facevano parte di un gruppo di 70 persone partite dalla Sicilia e giunte a Torino nel corso della giornata, prima di essere “smistate” nelle varie destinazioni. Nel frattempo, alle Vallette, 22 dei migranti arrivati in città lunedì sera hanno trascorso un’altra notte nella palestra della protezione civile e, contrariamente alle previsioni, difficilmente la loro situazione si sbloccherà prima dell’inizio della prossima settimana. I nuovi arrivi - E domani a Torino sono attesi nuovi arrivi: “In questo momento non abbiamo disponibilità nei Cas, ma ormai siamo abituati a lavorare in emergenza - ha commentato il prefetto Raffaele Ruberto -. Stiamo cercando di liberare posti nelle strutture, ma abbiamo bisogno di qualche giorno per andare a regime”. La prima soluzione è completare gli iter burocratici che finora hanno permesso a chi non ne avrebbe diritto di restare all’interno dei centri di accoglienza. Successivamente si rinnoverà l’appello ai sindaci del territorio, ma finora pochi si sono detti disponibili: alla base ci sono motivazioni politiche e opportunità elettorali che superano i confini degli schieramenti. La mossa finale sarà quella di rivolgersi a strutture private disposte a ospitare i migranti in arrivo. Si pensa soprattutto agli alberghi, magari quelli dei piccoli paesi di montagna, ma anche in questo caso le procedure di affidamento non sono certamente veloci. Le democrazie e l’illusione di aver già vinto di Federico Rampini Corriere della Sera, 31 marzo 2023 Biden è troppo ottimista, quando dice che i sistemi liberali si rafforzano nel mondo e quelli autoritari si indeboliscono: la tendenza non è così chiara, la Storia non è finita. “Abbiamo rovesciato la tendenza, possiamo dire con orgoglio che oggi le democrazie si rafforzano nel mondo, le autocrazie si indeboliscono”. Questo è stato il verdetto di Joe Biden al Summit for Democracy, il secondo di questi vertici che ha organizzato da quando è presidente. L’ottimismo del presidente americano è legato alla sorprendente resistenza dell’Ucraina contro l’aggressione russa, e alla coesione dell’Occidente anch’essa superiore alle aspettative. Le ragioni per celebrare però si fermano qui. Non tutti concordano con Biden sul fatto che il vento della storia stia di nuovo soffiando in favore delle democrazie, come all’inizio degli anni Novanta dopo la caduta del Muro di Berlino. Al Summit for Democracy due membri della Nato - Ungheria e Turchia - non erano invitati, per i dubbi che li circondano. Tra le maggiori democrazie che partecipavano al vertice (per lo più in remoto) alcune sono accusate di tendenze autoritarie, di destra o di sinistra: India e Messico sono casi importanti. In India un leader dell’opposizione, Rahul Gandhi, è stato condannato per aver diffamato il premier Narendra Modi dandogli del ladro, ed è stato espulso dal Parlamento. In Messico il presidente socialista cerca di manomettere i controlli sulla regolarità delle elezioni. Una culla storica della democrazia, la Francia, ha un presidente che usa i suoi poteri costituzionali per riformare le pensioni senza una maggioranza parlamentare, e una parte dell’opinione pubblica si sente autorizzata a usare la violenza contro quello che considera un colpo di mano. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha mandato un videomessaggio al Summit for Democracy. Israele è un altro Stato di diritto descritto come sull’orlo di una involuzione autoritaria. Il summit è stato l’occasione per un duro scambio - a distanza - tra Biden e Netanyahu. Qualche volta la situazione ci sembra drammatica perché enfatizziamo gli agguati alla democrazia, e non esultiamo abbastanza quando i pericoli vengono sventati. Il fatto che Netanyahu abbia dovuto piegarsi di fronte alle proteste contro la sua riforma giudiziaria, è un segnale di vitalità della società civile israeliana e della sua democrazia. Nel terribile 6 gennaio 2021 a Washington, gran parte dell’establishment repubblicano fece quadrato attorno alle istituzioni, convalidando la vittoria di un presidente democratico. Il goffo tentativo dei bolsonaristi di fare il bis in Brasile non è andato meglio. Fa notizia l’assalto contro la democrazia ma quando viene respinto vuol dire che i suoi anticorpi sono più forti. La più antica di tutte, quella americana, resiste dal 1787 nonostante una guerra civile, una Grande Depressione, due conflitti mondiali, la questione razziale. In quell’arco di tempo sono crollati regimi autoritari in Russia, Cina, Giappone, Germania, Italia, Spagna e altrove. Resta che il verdetto ottimista di Biden è controverso. Il Democracy Index stilato ogni anno dall’Economist Intelligence Unit dava i sistemi politici liberali in “precipitoso declino” nel 2021 e in “stagnazione” nel 2022. Un’altra misurazione della Freedom House, su libertà e diritti umani, è più severa: secondo questa ong le democrazie regrediscono da 17 anni consecutivi. Non aiuta il fatto che l’Africa è tornata ad essere il teatro di colpi di Stato militari. Sullo stato della democrazia nel mondo pesa l’anomalia cinese. Sotto la guida di Xi Jinping la Repubblica Popolare ha chiuso quei pur limitatissimi spazi di libertà del dissenso che sembravano tollerati da alcuni suoi predecessori. La gestione della pandemia è stata all’insegna dell’autoritarismo. Però quando la popolazione ha dimostrato che non ne poteva più, il regime ha mollato la presa senza che questo provocasse un boom di contagi e un’ecatombe. La Cina continua a smentire le previsioni occidentali che la vedono sempre sull’orlo di qualche baratro. La nuova guerra fredda finora ha intaccato solo in parte la sua forza economica. Molti esperti occidentali prevedono lo scoppio della bolla immobiliare cinese ma a saltare per prime sono state due banche americane e una svizzera. Pechino sorprende perfino sul piano dell’innovazione: Biden e il Congresso di Washington discutono una messa al bando di TikTok, dietro c’è il fatto che 150 milioni di americani sono stati conquistati da una app “made in China”. L’appoggio di Xi all’aggressione russa in Ucraina è un grave errore, però è funzionale a dirottare risorse militari americane verso l’Europa, distogliendole dall’Indo-Pacifico e da Taiwan. Infine la Repubblica Popolare aumenta il suo ruolo di “banchiere dei poveri”, si avvia a diventare la prestatrice di ultima istanza per tante nazioni emergenti, sfidando il ruolo del Fondo monetario e della Banca mondiale. Non è una creditrice benevola, le condizioni dei suoi prestiti sono opache, esose; però ha il pregio di esserci. La diagnosi sulla democrazia deve fare i conti con la sua esportabilità nel Grande Sud globale. Lì la Cina continua ad avanzare anche perché riesce a interpretare con disinvoltura tanti ruoli contradditori. È una superpotenza conquistatrice che estrae risorse altrui. È anche capace di costruire infrastrutture e industrializza Paesi meno sviluppati. È la seconda economia mondiale ma continua a usare il linguaggio terzomondista presentandosi come l’amica dei poveri. Contro di noi maneggia la propaganda che ci descrive come gli unici portatori del Dna dell’imperialismo; tanti occidentali concordano, paralizzati dai sensi di colpa. In questo scenario ci sta pure un ruolo per la Divisione Wagner che continua a espandersi in Africa, dove vende sicurezza agli autocrati locali. Il continente nero a volte sembra rivivere la prima guerra fredda, quando una generazione di dittatori locali appresero a sfruttare le rivalità tra Usa e Urss. Bisogna augurarsi che il risultato non sia lo stesso di allora: le opportunità di sviluppo sprecate, i conti in Svizzera traboccanti per gli autocrati. Poiché il baricentro della crescita demografica mondiale si sposta verso l’Africa, è impossibile parlare di ripresa delle democrazie se quel continente non è coinvolto. La gara tra sistemi politici liberali e regimi autoritari assomiglia più a una maratona che ai cento metri. È possibile, forse probabile, che alla fine confermi la previsione di Francis Fukuyama sulla “fine della storia”: il sistema che fonde liberaldemocrazia ed economia di mercato è il più avanzato. Quei pochi cinesi che hanno potuto scegliere - i cittadini di Taiwan, quelli di Hong Kong nella breve stagione di semi-democrazia - non hanno avuto dubbi. In Europa e in America talvolta s’incontrano opinioni pubbliche più scettiche, élite che eccitano la faziosità, misurano il tasso di democrazia a seconda se vincono loro. Un limite della narrazione di Biden lo si percepisce nel suo Paese: per molti americani il pericolo per la democrazia non viene né da Putin né da Xi, ma dal vicino di casa che vota e la pensa diversamente. Avanzi di guerra, il cammino di un’umanità di serie “inferiore” di Andrea Bajani Il Manifesto, 31 marzo 2023 Crisi Ucraina. Con i corpi umani caricano i cannoni nel mondo: Putin non è il solo a farlo. Ci chiedono di guardare verso Kiev, giriamo però lo sguardo sulle “migrazioni” figlie di altri conflitti Avanzi di guerra, il cammino di un’umanità di serie “inferiore”. Mentre Putin ammassa armi nucleari a sigillare i confini dell’Europa da fuori, c’è una questione che, mi pare, si staglia come un’evidenza. Che la nostra paura ha bisogno di annunci novecenteschi (lo spettro nucleare) mentre le armi realmente usate in campo sono più e meno sofisticate al contempo. Sono i corpi umani dei cosiddetti migranti con cui si caricano i cannoni nel mondo. Sono quelli dei milioni di sfollati, dei fuggiti a piedi oltre i confini o portati via lungo i corridoi umanitari. Sono queste le munizioni più efficaci delle guerre del presente. Caricare i bus, mirare. Fuoco. Putin non è il primo e non sarà l’ultimo a usarle e a creare più scompiglio di quanto producano, a quanto sembra, le sanzioni dell’Occidente alla Russia. C’è una sottile reticenza tattica nel non pronunciare la frase: sono i vostri nemici, vi condanniamo a prendervene cura. Bombardare a tappeto per produrre munizioni in carne e ossa che si spostano poi, iniziando così un disperante peregrinare, verso un’Europa che non li vuole. Che farebbe di tutto per disfarsene, incluso lasciarli crepare nel mare. E la cui reticenza nel chiamarli, col loro nome, “nemici”, in realtà non funziona perché la verità si sente anche senza parole. Pullman incolonnati verso i confini europei, fotografie strazianti di famiglie separate al confine. L’occidente documenta così la breccia aperta dai conflitti di oggi. Siria, Ucraina, i massacri africani, le guerre degli altri, e le guerre nostre. Tramontata l’era degli scudi umani, ora sono gli ordigni umani a fare la differenza: è questa la guerra batteriologica in atto. Continente dell’umanesimo, vediamo di cosa sei capace. E il continente dell’umanesimo, in ginocchio, accoglie o respinge, ma nei fatti soccombe, manda carrarmati, firma trattati per la spartizione dei corpi. C’è un libro che oggi va letto perché dice quello che nessuno oggi vuole sentirsi dire, ed è La guerra invisibile, di Maurizio Pagliassotti (Einaudi). Di questo libro, che andrebbe letto prima che dalla classe politica - quasi tutta imbrigliata dentro un malcelato o esibito supporto alle guerre - dai ragazzi e dalle ragazze delle scuole italiane. “Non li chiamerò più migranti”, scrive questo reporter che in tre mesi di viaggio ha attraversato in solitudine, con uno zaino e un telefono la rotta balcanica dalla Turchia al Monginevro. “È necessario riconoscere a queste persone la dignità di quello che sono: i nostri nemici”. Perché è così importante, mentre scorriamo le immagini dei caccia sui cieli scandinavi, le strette di mano tra Putin e Xi Jinping, leggere questo libro, di cui il sottotitolo - Un viaggio sul fronte dell’odio contro i migranti - è quello che conta? Perché Pagliassotti compie un gesto politicamente fortissimo: percorre quel tragitto al contrario, partendo dal privilegio delle Alpi su cui si avvicendano di giorno gli sciatori e di notte i “migranti” e finendolo in Turchia. “Sono un bianco ricco europeo - scrive -, un euro che cammina a cui tutto è permesso”. Passare Trieste, varcare i confini degli ex Balcani, percorrere seimila chilometri, attraversare dieci paesi, sostare sotto le recinzioni europee, le uniche a mostrare in tutta evidenza tra la tolleranza e l’accoglienza, c’è appunto l’odio. Perché, mentre le bandierine ucraine sventolano in Europa e in America, mentre la guerra del testosterone dei “grandi” devasta il futuro del mondo, bisogna seguire questo reporter? Perché fare il percorso al contrario significa mettersi nella condizione di incontrare, e non solo di accogliere o salvare. Perché è questo il vero antidoto al paternalismo di tanta sinistra o al populismo di destra. E consente di incontrare esseri umani bloccati, a volte da anni, in mezzo al guado, in questa tragedia epocale, che ha travolto ogni angolo del pianeta: gli avanzi di guerre non di rado innescate da qui, dalla parte del mondo che si è auto-assegnata il “bollino” della democrazia. Che sono partiti dalla Siria, dall’Afghanistan e ancora non sono arrivati e forse non arriveranno mai, e che proprio per questo non possono essere chiamati migranti. “Il migrante è colui, o colei, che si muove, parte e va da qualche parte a fare qualcosa. Da qui non si muove nessuno se non per essere rimbalzato da qualche altra parte perché il trafficante di turno gli vende a poco prezzo uno scarto di passaggio o uno dei sentieri coperti di immondizia che inesorabilmente portano a una dose di botte e umiliazione”. Oppure brucia tra le fiamme di un incendio reale, come è successo lunedì notte ai migranti del centro di Ciudad Juárez, mentre dal Messico cercavano di passare il confine Usa. Mentre ci chiedono di guardare verso Kiev, e mentre lo facciamo ogni giorno, giriamo però lo sguardo anche lungo la rotta delle altre “migrazioni”, figlie di altri conflitti. E capiremo che cosa avverrà appena i riflettori si spegneranno. Guardiamo lì dove, finita l’attenzione mediatica, gli esseri umani (“I topi vivono meglio, i topi hanno più dignità”), sono stati dimenticati in un inferno perenne di baracche. Abbiamo, con Maurizio Pagliassotti, il coraggio di dire una verità scandalosa, mentre guardiamo Kiev: “Secondo le cifre ufficiali da questi corridoi sono passati in due settimane circa un milione e mezzo di profughi, quasi esclusivamente donne e bambini e uomini anziani. Le poche centinaia, o migliaia, che sono bloccate nei Balcani cosa sono? Umanità di una serie inferiore?”. No, sono i bossoli del caricatore sputati dalla canna dopo lo sparo. Stati Uniti. Per le prigioni della California arriva una riforma “norvegese” di Valerio Fioravanti Il Riformista, 31 marzo 2023 Lo ha annunciato il governatore Newsom con una conferenza stampa nel famoso carcere di San Quentin, che diventerà un “centro di riabilitazione”. Ma lo sa che in Norvegia non esiste l’ergastolo e le pene sono “ragionevoli”? Questa è la terza volta in poche settimane che da questa pagina vi parliamo del governatore “liberal” della California Gary Newsom. Prima vi abbiamo detto che sta trasferendo tutti i 671 detenuti dal più popoloso braccio della morte degli Stati Uniti a carceri “normali”, poi che ha posto il veto alla libertà condizionale per Sirhan Sirhan, l’uomo che nel 1968 uccise Kennedy Jr., e ora ne riparliamo perché ha annunciato una riforma penitenziaria “sul modello norvegese”. Newsom sembra finto, nel senso buono del termine. È un uomo bianco, alto, decisamente bello, socio in affari con la famiglia Getty, titolare di una serie di ristoranti, alberghi, wine bar et similia che nel complesso impiegano oltre 700 persone, una dichiarazione dei redditi a 6 zeri. È in politica apparentemente da sempre, visto che all’età di 55 anni è già stato per 7 anni consigliere comunale, per altri 7 sindaco di San Francisco, per 8 vicegovernatore, per 4 governatore, ed essendo appena stato rieletto, lo sarà anche per i prossimi 4. Sposato 2 volte, 4 figli, laurea in scienze politiche in una università dei gesuiti (Santa Clara University) grazie a una borsa di studio per meriti sportivi (baseball), e un semestre universitario trascorso come “visiting student” a Roma. Nella sua biografia c’è anche scritto che all’inizio del percorso scolastico aveva dovuto affrontare “gravi problemi di dislessia”. Secondo me non è vero, ce l’hanno messo solo per renderlo più umano. Comunque sia, il 17 marzo, all’interno del penitenziario di San Quintino (da non confondere con Alcatraz, che si trova su un’isola nella baia di San Francisco, prigione già chiusa dal 1963, oggi meta di turisti), ha tenuto una conferenza stampa in cui ha annunciato “una radicale riforma della politica carceraria californiana, ispirata al modello norvegese, che sarà fortemente improntata alla riabilitazione”. Ora, i giornalisti americani non hanno le idee molto chiare su cosa sia il “modello norvegese”. Noi sappiamo che in Norvegia l’ergastolo non esiste, e quel pazzo di Breivik, che nel 2011 uccise 77 giovani legati al partito laburista, è stato condannato alla pena massima prevista in quella nazione: 21 anni. Condanna confermata in Cassazione, e Breivik ha già depositato le sue prime istanze di scarcerazione anticipata, per il momento respinte perché, il giovane continuando a ritenersi “il salvatore del cristianesimo”, non sembra ancora pronto per essere reinserito nella società. Per i giornalisti americani invece il “modello norvegese” è caratterizzato da “carceri di massima sicurezza dove le celle sembrano stanze per studenti, con sedie, scrivanie, persino televisori, e i detenuti hanno accesso alla cucina e attività come il basket”. Questa descrizione un po’ superficiale sembra attribuire molta importanza al televisore, o forse alla cucina, non è chiaro. Newsom però sembra aver intuito qualcosa di più, visto che in conferenza stampa ha notato: “La Norvegia ha un bassissimo tasso di recidiva”. E con questo in mente ha riepilogato la sua idea: sto creando un Modello Californiano, un nuovo modello per la sicurezza e la giustizia che sarà di esempio per l’intera nazione. “Annuncio che la prigione statale di San Quentin - la prigione più antica e famosa della California e sede del più grande braccio della morte negli Stati Uniti - sarà trasformata da un carcere di massima sicurezza in una struttura unica nel suo genere incentrata sul miglioramento della sicurezza pubblica attraverso la riabilitazione e l’istruzione. Il carcere, che sarà ribattezzato ‘Centro di riabilitazione di San Quentin’, sarà trasformato sotto la direzione di un gruppo consultivo composto da esperti statali e di fama mondiale in riabilitazione e sicurezza pubblica, con la partecipazione di persone sopravvissute al crimine, ex detenuti, e funzionari penitenziari. Lo sforzo storico di San Quentin, mai portato avanti su questa scala negli Stati Uniti, servirà come modello nazionale per promuovere un sistema giudiziario più efficace che costruisca comunità più sicure. La California sta trasformando San Quentin - la prigione più famosa dello stato con un passato oscuro - nella struttura di riabilitazione più innovativa della nazione, focalizzata sulla costruzione di un futuro più luminoso e più sicuro”. Rimane l’enorme problema di migliaia di detenuti californiani condannati all’ergastolo: secondo un recente studio del Public Policy Institute, sarebbero circa 33.000. Speriamo che Newsom si ricordi che il “modello norvegese” prevede soprattutto pene “ragionevoli”. Russia. Arrestato per “spionaggio” giornalista Usa, rischia 20 anni di carcere di Rosalba Castelletti La Stampa, 31 marzo 2023 Evan Gershkovich, 31 anni, statunitense di origine russa, corrispondente del Wall Street Journal, stava preparando un reportage dagli Urali. Il Cremlino: “Colto in flagrante”. La Casa Bianca: “Inaccettabile”. Possibile uno scambio di prigionieri. Da ieri il giornalista trentunenne statunitense Evan Gershkovich non ha altro orizzonte che le quattro mura di una cella di otto metri quadri a Lefortovo, la famigerata prigione moscovita a forma di “K”. Non può ricevere visite, né telefonate. Il corrispondente del quotidiano newyorchese Wall Street Journal è stato arrestato con l’accusa di “spionaggio” dall’Fsb, l’erede del Kgb che in quel carcere confinava i “nemici dello Stato” prima di spedirli nei Gulag, e ora rischia fino a 20 anni di carcere ai sensi dell’articolo 276 del codice penale russo. Soltanto per aver fatto il suo lavoro. Un caso senza precedenti dai tempi dell’Urss che mette a rischio il lavoro già bersagliato della stampa straniera e inasprisce ulteriormente le già tese relazioni tra Usa e Russia. Chi è Gershkovich - Figlio di immigrati russi negli Stati Uniti, Gershkovich era stato corrispondente del sito web in lingua inglese Moscow Times e dell’agenzia di stampa francese Afp prima di approdare al Wall Street Journal. Era andato a Ekaterinburg per scrivere un reportage sui sentimenti locali verso la cosiddetta “operazione militare speciale” in Ucraina e in particolare verso la compagnia di mercenari Wagner. Voleva capire perché il governatore regionale Evgenij Kujvashiov avesse risposto per le rime a uno degli ennesimi attacchi agli amministratori locali del capo di Wagner e ristoratore Evgenij Prigozhin dicendogli: “Ognuno dovrebbe fare il proprio lavoro. Tu limitati a fare polpette e bollire gli spaghetti, tocca a noi prendere decisioni sulle nostre regioni”. Gershkovich aveva perciò preso contatto con politici ed esperti locali, la direzione del Centro Eltsin e l’azienda Sima-land che organizza azioni patriottiche. Voleva anche sondare gli umori dei dipendenti dell’industria della difesa e sperava di raccogliere qualche voce per strada davanti ai cancelli di Uralvagonzavod a Nizhnij Tagil o di Novator a Ekaterinburg. Non ha portato al termine il lavoro. Stando alla testimonianza pubblicata da Vechernie Vedomosti di Ekaterinburg, è stato arrestato alle 20 di mercoledì sera vicino al ristorante Bukowski Grill da “poliziotti o agenti di altre forze in borghese” che lo hanno caricato a bordo di un pullmino e gli hanno “tirato sulla testa il pullover che indossava, in modo da non far vedere la sua faccia ai passanti”. Gli appelli di colleghi e Casa Bianca - “Chissà se una spia si comporta così quando va in missione? Prende i telefoni degli addetti stampa, organizza incontri per interviste a personaggi pubblici?”, si chiede Dmitrij Koleziov, fondatore dei siti ura.ru e znak.com e direttore del portale locale itsmycity.ru, uno dei tanti colleghi che nelle ultime ore non hanno fatto altro che ribadire che “Evan è un bravo giornalista, non una spia”. Anche il Wall Street Journal ha “smentito con forza” le accuse di spionaggio chiedendo l’immediato rilascio del suo giornalista. La Casa Bianca ha condannato “con la massima fermezza” l’arresto definendo “inaccettabile che il governo russo prenda di mira cittadini americani” e invitando tutti i connazionali a lasciare subito la Russia, mentre il segretario di Stato Usa Antony Blinken si è detto “estremamente preoccupato” e ha definito “i tentativi del Cremlino di intimidire, reprimere e punire i giornalisti e le voci della società civile”. Le accuse della Russia - Lo stesso Gershkovich si è dichiarato non colpevole davanti alla Corte di Lefortovo che, al termine di un’udienza a porte chiuse in un caso “secretato”, ne ha disposto la detenzione cautelare almeno fino al 29 maggio in attesa del processo. Da lì, con la testa coperta dal cappuccio di un giaccone giallo, è stato fatto salire su un auto e portato in carcere. Le autorità russe però insistono. L’Fsb sostiene di avere “sventato l’attività illegale del corrispondente accreditato” accusandolo di aver raccolto “informazioni su una società del complesso militare-industriale russo che costituiscono segreto di Stato”. Un probabile riferimento alla sortita di Gershkovich a Nizhnij Tagil. Per il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov, il reporter è stato “colto in flagrante”, mentre la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova ha affermato che “quello che faceva a Ekaterinburg non aveva nulla a che fare con il giornalismo”. L’ipotesi dello scambio di prigionieri - Il sospetto di molti commentatori è che Gershkovich possa diventare un “ostaggio” per “fare pressioni” sul presidente statunitense Joe Biden in vista di un nuovo scambio di prigionieri tra Washington e Mosca. L’ultimo risale allo scorso dicembre quando la cestista Usa Brittney Griner fu rilasciata da Mosca in cambio della liberazione del trafficante d’armi Viktor But detenuto negli Stati Uniti. Secondo diversi media russi, l’arresto del reporter del Wsj seguirebbe la detenzione di due spie “illegali” in Slovenia, i coniugi Ludwig Gish e Maria Mayer fermati con passaporti argentini alla fine di gennaio. Mosca, suggeriscono diversi media russi, aveva urgente bisogno di “merce di scambio” di alto profilo oltre all’ex marine Paul Whelan, arrestato nel 2018, che sta scontando 16 anni di carcere in Mordovia per “spionaggio” in un caso che Washington e osservatori considerano costruito ad arte. L’altra ipotesi è che lo scambio possa invece coinvolgere Sergej Cherkasov, un russo accusato di aver vissuto nel Maryland dietro falsa identità brasiliana. “Non ho alcuna informazione, non ho nulla da dire in proposito”, ha detto Peskov in merito, mentre il vice ministro degli Esteri russo Sergej Rjabkov ha affermato che la questione di un possibile scambio “non è stata ancora discusso”. Il futuro di Gershkovich si gioca tutto su quell’“ancora”. Francia. Repressione violenta, sotto accusa la polizia di Filippo Ortona Il Manifesto, 31 marzo 2023 A una settimana di distanza dalle manifestazioni ecologiste contro il bacino idrico di Sainte-Soline in Francia, cominciano ad affiorare le ricostruzioni degli eventi di quel weekend. Ne emerge il quadro di una repressione sanguinosa, che inquieta organismi come il Consiglio d’Europa o Amnesty International. Sabato scorso, vari movimenti si erano dati appuntamento per marciare sull’enorme piscina artificiale nel sud-ovest del paese, rivendicando una più equa distribuzione dell’acqua nel mondo agricolo. La grande opera è divenuta un simbolo delle lotte ecologiste francesi. Più di trentamila persone si sono mobilitate, secondo gli organizzatori, tra i quali Les soulèvements de la Terre, la Confédération Paysanne e numerosi partiti e associazioni. Ad aspettarli, i manifestanti hanno trovato circa 3.200 gendarmi armati fino ai denti. Secondo le autorità, in meno di due ore sono state lanciate più di 5.000 granate esplosive sugli attivisti. Più di 40 granate al minuto, classificate come armi da guerra, esplose su arti, teste, visi dei manifestanti che cercavano di avvicinarsi a “un maledetto cratere vuoto”, come l’hanno poi definito gli organizzatori nei loro comunicati. In un comunicato, la Confédération Paysanne ha recensito più di 200 feriti tra i quali 40 gravi e due tuttora in coma, allegando alcune foto delle ferite subite dalle vittime. Buchi nel cuoio capelluto, occhi gonfi o mutilati, piaghe grandi decine di centimetri su gambe e braccia: “Una brutalità inaudita”, ha scritto la Confédération. Almeno due persone rischiano di perdere un occhio, mentre si aspettano le prognosi delle altre decine di vittime. In questi giorni, Mediapart e Le Monde hanno ricostruito le azioni dei gendarmi, rivelando come il comando di piazza abbia impedito ai soccorsi di evacuare un manifestante in fin di vita, Serge D., tuttora in bilico tra la vita e la morte. Secondo dei testimoni oculari, una granata lanciata dai gendarmi gli è “esplosa sulla testa” frantumando il casco che indossava, scrive Mediapart, riportando il panico dei presenti, terrorizzati “dai ‘tremori’ che agitavano il suo corpo. ‘Tutti urlavano: questo muore’”. I responsabili della Ligue des Droits de l’Homme e i loro avvocati hanno tentato di avvertire l’ospedale locale, chiedendo un’evacuazione immediata via elicottero. Nel frattempo, gli organizzatori mettevano fine alla manifestazione a causa dell’elevato numero di feriti, secondo alcuni testimoni sentiti dal manifesto. Nella registrazione telefonica della conversazione - pubblicata da Le Monde e Mediapart martedì sera - si sente il responsabile dei soccorsi dell’ospedale locale rifiutare l’invio di un mezzo aereo, “perché abbiamo un ordine in questo senso delle forze dell’ordine”. Serge D., sarà evacuato più di 3 ore dopo i fatti, in coma. I suoi parenti hanno sporto denuncia per tentato omicidio e ostacolo volontario ai soccorsi. Nelle scorse settimane, si sono moltiplicate le accuse di violenza nei confronti della polizia francese. Giovedì 23, un ferroviere è stato mutilato di un occhio a causa di una granata lanciata dalla polizia a Parigi, mentre un’insegnante ha perso il pollice per la stessa ragione a Rouen. Amnesty International ha intimato alla Francia di vietare queste “armi pericolose dalle conseguenze drammatiche”, e il Consiglio d’Europa ha denunciato “un uso eccessivo della forza” da parte della polizia. Con esasperante noncuranza, il ministro degli Interni Gérald Darmanin ha invece annunciato martedì la dissoluzione de Les Soulèvements de la Terre. “La dissoluzione è l’ultimo dei nostri problemi”, ha comunicato il movimento ambientalista, “prima vogliamo capire cosa è successo a Sainte-Soline”.