Quei sucidi in carcere dei nuovi giunti e dei detenuti prossimi alla libertà di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 marzo 2023 Cosmin Tebuie, 26 anni, di origine romena ma residente a Latina. Lo hanno trovato senza vita domenica mattina scorsa alle 8, pensavano che stesse ancora dormendo e invece era morto. Il giovane stava scontando una condanna per una rapina e un incendio, i fatti erano avvenuti a Borgo Grappa nel 2021. Il ragazzo che a quanto pare godeva di buona salute, sarebbe morto nel sonno e sul corpo non sono stati trovati segni di violenza. Poche ore prima aveva parlato al telefono con i familiari e aveva detto che stava bene. Sarà l’autopsia a chiarire se si tratta di morte “naturale”, oppure altro. Ma un mese prima, questa volta al carcere Gazzi di Messina, un detenuto tunisino di nome Aymen Dahech, di appena 24 anni, si è tolto la vita dopo l’interrogatorio di garanzia. “Il trauma della carcerazione, mette a dura prova il sistema emotivo della persona che la subisce, soprattutto se si trova ad affrontare questa situazione per la prima volta e se è anche un soggetto fragile che non si è reso conto neanche del motivo per il quale si trova in carcere”, spiega a Messinatoday l’avvocato Mimma Di Santo che lo ha difeso nelle prime fasi e che ora assiste la sorella della vittima insieme all’avvocato Roberta Mauro. Aymen sarà solo un numero in più nei bollettini delle varie associazioni che hanno individuato il 2022 come l’anno record dei suicidi in cella con 85 persone che hanno deciso di farla finita. Mai così tanti. Anche il 2023 inizia però male: secondo i dati su Ristretti Orizzonti, già sono undici i suicidi dall’inizio dell’anno. Il caso di Aymen rientra nella macabra statistica rilevata dal Garante nazionale delle persone private della libertà quando ha analizzato i suicidi del 2022. È stata anche esaminata la durata della permanenza presso l’Istituto nel quale è avvenuto l’evento suicidario: risulta che 50 persone, pari al 59,5%, si sono suicidate nei primi sei mesi di detenzione; di queste, 21 nei primi tre mesi dall’ingresso in Istituto e 15 entro i primi 10 giorni, 10 delle quali addirittura entro le prime 24 ore dall’ingresso. Da qui il Garante osserva che gli interventi di prevenzione suicidaria che dovrebbero essere estesi, di fatto, a tutte le tipologie di persone detenute: non solo a chi entra per la prima volta in carcere, ma anche alle persone sottoposte a trasferimenti e a quelle prossime al fine pena. Analizzando le tipologie dei detenuti che hanno compiuto il suicidio, meritano una riflessione quelle relative a chi è “in attesa di primo giudizio” e coloro, invece, che condannati definitivamente erano prossimi al fine pena. Il Garante, analizzando i suicidi dell’ultimo decennio, osserva che i dati sulle persone in attesa di primo giudizio rappresenta indubbiamente un campanello d’allarme. “Difatti, esso indica come - soprattutto per chi è sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere - tale posizione sia correlata a un rischio maggiore di suicidio rispetto al condannato definivo”, sottolinea il Garante nel rapporto. E osserva che si tratta di persone accusate della commissione di un reato e non condannate. Persone ancora in attesa di un processo e sottoposte a privazione della libertà personale, magari per la prima volta e, quindi, maggiormente esposte all’impatto della vita in carcere. “Lo stato d’ansia vissuto in generale dalle persone giudicabili è certamente diverso e più pesante rispetto a quello provato da chi è già a conoscenza della propria condanna. Forse, da tale riflessione, si potrebbero escludere i nuovi giunti con precedenti esperienze detentive che, con molta probabilità, affrontano l’ingresso nell’istituto penitenziario con una minore inquietudine”, osserva sempre il Garante, spiegando che nel contempo “per i definitivi prossimi al fine pena la scarcerazione potrebbe essere fonte di notevole stress a causa dell’incertezza del futuro, della mancanza di punti di riferimento esterni che assicurino la soddisfazione delle esigenze primarie di vita”. I nuovi giunti e quelli prossimi all’uscita, sono quindi le persone più vulnerabili. Sessualità in carcere, la parola alla Consulta di Sarah Grieco Il Manifesto, 30 marzo 2023 Sono trascorsi oltre dieci anni da quando i giudici della Corte costituzionale furono chiamati ad affrontare il tema del diritto per i detenuti di svolgere colloqui riservati, su sollecitazione del Tribunale di sorveglianza di Firenze. La Consulta, con la sentenza n. 301 del 2012, aveva riconosciuto il tema come “una esigenza reale e fortemente avvertita…che merita ogni attenzione da parte del legislatore”. Una pronuncia conclusasi con un’inammissibilità per mancata indicazione della rilevanza della questione nell’ambito del procedimento, da un lato; per il pericolo che un intervento puramente demolitivo non fosse in grado di garantire il diritto in oggetto, dall’altro. L’eliminazione del solo controllo visivo non sarebbe stato sufficiente a garantire quell’intimità negata; serviva individuare presupposti, destinatari, spazi e tempi adeguati che solo il legislatore poteva determinare. La Corte, in quella circostanza, decise di “ritrarre la penna” anziché ricorrere ad uno degli interventi para-legislativi utilizzati successivamente. Tante cose sono accadute da quella pronuncia. Diverse sono le proposte di legge sul diritto all’affettività e alla sessualità, che si sono susseguite in questi anni. Particolarmente significativi i disegni di legge presentati da due consigli regionali, quelli della Toscana, nel 2021, e del Lazio, nel 2022. Due proposte volte ad introdurre il “diritto di visita”, stabilendone soggetti legittimati (tutti gli “autorizzati” all’accesso senza distinzioni tra familiari, conviventi e “terze persone”), modalità di tempo (dalle 6 alle 24 ore) e di spazio (locali preferibilmente in prossimità dell’istituto). Due iniziative promosse da La Società della Ragione e che per la redazione dell’articolato ha visto impegnati Stefano Anastasia e Franco Corleone. Nonostante questi richiami e l’esplicito monito della Corte del 2012, il nostro legislatore è rimasto fermo, schiacciato da quel populismo penale che soffia sul consueto fuoco delle paure e soffoca il decollo di riforme organiche nel nostro sistema. Nuovamente un Magistrato di Sorveglianza, stavolta quello di Spoleto, ha posto la questione. Con l’ordinanza n. 23 del 12 gennaio 2023, il giudice Fabio Gianfilippi ha sollevato l’illegittimità dell’art. 18 dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia. Un’ordinanza articolata, che menziona molti di quegli “elementi di novità” che forniscono ai giudici della Consulta un quadro indubbiamente diverso rispetto al 2012. Elementi che i giudici costituzionali non potranno ignorare; così come non potrà essere ignorata la latitanza di un legislatore che, sul tema della sessualità in carcere, ha reso il nostro Paese, oramai, quasi un unicum nel contesto europeo. Un “tempo specialmente lungo”, sottolinea l’ordinanza, “senza che sia giunto a maturazione un progetto legislativo idoneo a superare…una criticità concernente un diritto fondamentale della persona”. L’ordinanza Gianfilippi è coraggiosa. Sottolinea anche che, dietro l’escalation intollerabile di suicidi in carcere, si celi anche un sistema incapace di garantire spazi, tempi e luoghi adeguati per coltivare relazioni ed affetti. Una questione che, davanti ad un “mondo penitenziario… particolarmente in sofferenza” - sempre citando le parole del Magistrato di Spoleto - non appare più rinviabile; neppure nell’ottica di quella “collaborazione tra istituzioni” che ha segnato alcune recenti pronunce della Corte, lasciando al Parlamento ancora una chance per un intervento legislativo. Questa volta non c’è spazio per tergiversazioni o rinvii. Nordio ora accelera sulle leggi garantiste. È già crisi con l’Anm di Errico Novi Il Dubbio, 30 marzo 2023 Il ministro vede Caiazza e indica il cronoprogramma: entro giugno uno o più ddl su prescrizione, abuso d’ufficio, intercettazioni e altre riforme liberali. In arrivo pure i correttivi al testo Cartabia chiesti dall’avvocatura. Ma Santalucia attacca: “Noi toghe escluse dal tavolo tecnico”. Prima la stasi, poi un incedere persino “frenetico”. Nel giro di quarantott’ore la giustizia cambia volto. O almeno cambia lo stereotipo in cui Carlo Nordio rischiava di restare imprigionato: da guardasigilli assorbito dalle emergenze - il Pnrr, Cospito, il conseguente caso Donzelli - e inerte sul programma garantista annunciato in Parlamento, a ministro capace di un vigoroso colpo d’acceleratore. Al punto da incrociarsi con l’attività legislativa appena avviata in Parlamento. È una nota diffusa nel primo pomeriggio di ieri dall’Unione Camere penali a disegnare l’orizzonte di via Arenula: nell’incontro “lungo e cordiale” con Gian Domenico Caiazza, Nordio “ha voluto informare il presidente dei penalisti italiani che il governo ha definitivamente approvato il cronoprogramma delle più urgenti riforme della giustizia penale”. Con l’ok della premier Giorgia Meloni dunque, nel giro di un paio di mesi arriverà una raffica di riforme da introdurre “attraverso uno o più disegni di legge governativi”, riferisce il comunicato Ucpi: nell’ordine si metterà mano alla prescrizione, col ripristino del suo regime sostanziale, e ad abuso d’ufficio, traffico d’influenze, inappellabilità delle assoluzioni, norme sulle misure cautelari “con particolare riferimento alla collegialità delle decisioni” (come chiesto, fra gli altri, dal vicesegretario di Azione Enrico Costa). E ancora: revisione delle intercettazioni, “anche al fine di evitarne l’indebita pubblicazione”, e persino della giustizia minorile, materia sulla quale ora Nordio conta su un consigliere di rango come l’ex procuratore presso il Tribunale dei minori di Firenze Antonio Sangermano. Un colpo di reni tanto energico quanto improvviso, insomma. Al punto da sovrapporsi in parte ai lavori parlamentari avviati proprio in queste ore su alcune riforme garantiste. Innanzitutto sulla prescrizione: ieri il presidente della commissione Giustizia della Camera Ciro Maschio, figura di spicco di FdI, ha tracciato l’iter per il ritorno alla prescrizione sostanziale. Si parte dal ripristino della “normalità” rispetto “agli ultimi due interventi, di Bonafede e Cartabia”. Con il recupero, dunque, della riforma Orlando, che sarà integrata da “alcuni aggiustamenti”. Maschio sarà il primo firmatario della proposta di legge sulla prescrizione targata Fratelli d’Italia, testo condiviso innanzitutto con la capigruppo dei meloniani in commissione Giustizia Carolina Varchi e - come proprio Varchi ha spiegato ieri sul Dubbio - di fatto ascrivibile all’intero partito della premier. Ecco, ma anche sulla prescrizione Nordio presenterà un proprio schema, una proposta che andrà incrociata col lavoro che la commissione Giustizia della Camera avvierà in ogni caso a partire dal mese di maggio. Non è finita qui: come detto, il ministro indicherà un proprio modello di riforma anche sull’abuso d’ufficio, questione su cui pure è al lavoro, da ieri, la commissione presieduta da Maschio. Sul tavolo di Montecitorio ci sono tre diverse proposte di Forza Italia (una contempla l’abrogazione totale del reato) e una di Costa (che prevede la derubricazione da fattispecie penalmente perseguibile a illecito amministrativo, ipotesi che pure affrancherebbe i sindaci dalla mannaia della legge Severino). E poi come detto c’è il resto: norme più rigorose su carcere preventivo e diffusione delle intercettazioni, oltre al divieto d’appello per i pm. Un’attuazione del programma garantista di Nordio che sorprende persino per la debordante ampiezza, che in ogni caso è integralmente condivisa con il partito di Giorgia Meloni e che, insomma, disarma le accuse di scarsa concretezza sulla giustizia. Tutto bene? Quasi. Di sicuro gli avvocati non possono che raccogliere con soddisfazione le novità annunciate da Nordio. “Il presidente Caiazza”, si legge nella nota Ucpi, “ha espresso vivo apprezzamento per la concreta e fattiva attenzione che il ministro ha voluto mostrare nei confronti delle istanze dell’avvocatura, ribadendo la piena disponibilità delle Camere penali italiane al confronto e alla ricerca di soluzioni concrete, ragionevoli e condivise”. Il riferimento di Caiazza è sia al lancio di riforme sollecitate proprio dalla professione forense e dai penalisti - innanzitutto il ripristino della prescrizione - sia al tavolo convocato sempre ieri dal guardasigilli per il 4 aprile per valutare, insieme con l’Anm, il Cnf e appunto l’Ucpi, i possibili correttivi alla riforma Cartabia. Si tratta del confronto chiesto dalle Camere penali già a dicembre con l’obiettivo di rimediare ad alcune norme sulle impugnazioni (innanzitutto all’obbligo di conferire al difensore un mandato ex novo per il ricorso in appello e alla cosiddetta udienza predibattimetale). Ma qui emerge anche un attrito con l’Anm. Addirittura un caso politico-diplomatico. Perché è vero che al tavolo del 4 aprile Nordio ha invitato anche il “sindacato” dei giudici. Ma è vero pure che una commissione ministeriale più tecnica era stata già nominata dal guardasigilli addirittura la scorsa settimana, prima che l’Ucpi annunciasse i tre giorni di astensione per il 19, 20 e 21 aprile prossimi. Si tratta di un gruppo di saggi di cui faranno parte lo stesso Caiazza e altri rappresentanti dell’Ucpi, al fianco di diversi magistrati, ma che vede esclusa l’Anm. E la convocazione del tavolo più “politico” per il 4 aprile non è bastata a evitare che il “sindacato” presieduto da Giuseppe Santalucia diffondesse ieri pomeriggio un duro comunicato in cui esprime sorpresa per “la vistosa assenza” di propri rappresentanti dalla commissione “tecnica”. “Siamo di fronte”, contesta l’Anm, “a una manifestazione di unilateralità della visione ministeriale, che svilisce il contributo di idee e di proposte con cui sempre l’Associazione nazionale magistrati ha saputo arricchire il dibattito pubblico sui temi della giustizia, e del processo penale in particolare”. Sembrerebbe una contestazione dovuta solo all’incidente diplomatico. E lo stesso Nordio tende a respingere, nella propria replica, qualsiasi dietrologia: segnala che nella commissione “tecnica” sono “inseriti imprescindibilmente diversi magistrati”, ricorda l’incontro “concordato con il presidente Santalucia” del 4 aprile e si dice certo che “l’apporto sinergico delle diverse componenti del sistema giustizia condurrà alla individuazione di soluzioni efficaci, nel doveroso rispetto del pluralismo culturale”. Eppure già si scorgono tutti i possibili rischi di un’azione riformatrice destinata a non entusiasmare i magistrati: basti pensare al divieto d’appello per i pm. Tutto questo senza che Nordio abbia indicato dove intende collocare, nel cronoprogramma, la separazione delle carriere. Una cosa è certa: pensare che si possa attuare un piano come quello del guardasigilli senza entrare in conflitto con l’Anm sarebbe una pia illusione. Lo strappo di Nordio con l’Associazione nazionale magistrati di Ermes Antonucci Il Foglio, 30 marzo 2023 Il Guardasigilli esclude i rappresentanti del sindacato delle toghe dal tavolo tecnico sul processo penale. E ai penalisti promette: “Entro giugno le riforme su prescrizione, abuso d’ufficio e intercettazioni”. Il Guardasigilli, Carlo Nordio, porge la mano agli avvocati penalisti sulle riforme della giustizia, ma snobba l’Associazione nazionale magistrati, con uno strappo destinato a generare polemiche. Il ministro ha infatti escluso a sorpresa i rappresentanti del sindacato delle toghe dal tavolo tecnico, istituito il 23 marzo, dedicato a valutare le possibili misure migliorative della riforma Cartabia del processo penale. Una scelta “discriminatoria”, ha commentato l’Anm: “Siamo di fronte, e spiace davvero constatarlo, a una manifestazione di unilateralità della visione ministeriale che svilisce il contributo di idee e di proposte con cui sempre l’Associazione nazionale magistrati ha saputo arricchire il dibattito pubblico sui temi della giustizia, e del processo penale in particolare”. Immediata la replica di Nordio, che ha reagito con “stupore” alle parole dell’Anm, ricordando che al tavolo tecnico “sono inseriti imprescindibilmente diversi magistrati”. Del tavolo tecnico faranno parte anche alcuni esponenti dell’Unione delle camere penali, che lunedì ha proclamato uno sciopero di tre giorni (dal 19 al 21 aprile) contro l’inerzia del governo e del parlamento in tema di giustizia. Per ricucire con i penalisti, il Guardasigilli ha incontrato ieri mattina Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Ucpi, informandolo che il governo ha definitivamente approvato il cronoprogramma delle più urgenti riforme della giustizia penale da tempo annunciate al parlamento. “Entro il mese di giugno - si legge in una nota diffusa dall’Ucpi al termine dell’incontro - il governo emanerà uno o più disegni di legge inerenti alla revisione dei reati contro la pubblica amministrazione, con particolare riferimento alle fattispecie dell’abuso d’ufficio e del traffico di influenze illecite; della prescrizione; delle misure cautelari, con particolare riferimento alla collegialità delle decisioni; delle impugnazioni delle sentenze di assoluzione; delle intercettazioni, anche al fine di evitarne l’indebita pubblicazione; nonché interventi in materia di criminalità minorile”. Il ministro ha anche deciso di convocare una riunione per il prossimo 4 aprile per discutere l’adozione di possibili correttivi alla recente riforma del processo penale, alla quale dovrebbero partecipare l’Ucpi, l’Associazione nazionale magistrati (qui sì) e il Consiglio nazionale forense. Per il momento, in attesa dell’incontro del 4 aprile, resta confermata l’astensione dalle udienze proclamata dai penalisti per il 19-21 aprile, contro l’inerzia del governo in materia di giustizia. Per l’Ucpi non solo non si sono viste le tanto annunciate riforme liberali, ma “sono evidentissimi e convergenti i segnali di una politica della giustizia di nuovo prona ai diktat e ai desiderata della magistratura”: “Si fermano o si tenta di manomettere le riforme dell’ordinamento giudiziario appena varate e sgradite alla magistratura (porte girevoli, distacchi ministeriali, fascicolo per le valutazioni professionali); si fa abortire sul nascere la riforma costituzionale per la separazione delle carriere in magistratura, pur annunciata in campagna elettorale come il punto centrale della riforma della giustizia italiana (da attuarsi - come tutti ricordiamo - ‘nei primi sei mesi’)”, si legge nella delibera di proclamazione dell’astensione. Non solo, per i penalisti “la politica della giustizia in questi primi mesi si è puntualmente connotata, con prontezza e rapidità di azione degna di miglior causa, per la spasmodica sua attenzione alle parole d’ordine del peggiore giustizialismo populista”. Insomma, per l’Ucpi si assiste a “un eclatante quanto paradossale contrasto” tra le idee e i programmi di riforma liberale della giustizia annunciate dal ministro Nordio e “la quotidiana realtà di una politica giudiziaria, governativa e parlamentare, ispirata al più vieto populismo giustizialista e pronta, ancora più che nei precedenti governi, a dare ascolto e privilegiata priorità alle esigenze corporative e politiche della magistratura”. Resta da vedere ora, ancora una volta, se gli ultimi annunci del ministro Nordio saranno seguiti dai fatti. Nordio l’annunciatore: “Riforme entro giugno” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 30 marzo 2023 Nuovo impegno del ministro della giustizia con gli avvocati penalisti. Niente testi ma un “cronoprogramma”. E insedia un altro tavolo per la revisione del processo penale, escludendo i rappresentanti dell’Associazione magistrati. Che protesta. Gli avvocati penalisti indicono tre giorni di sciopero, dal 19 al 21 aprile (mercoledì-venerdì, poi c’è il ponte del 25 aprile), perché accusano il governo di scelte “ispirate al populismo giustizialista” e di ascoltare troppo le ragioni dei magistrati, e immediatamente il ministro della giustizia riceve il presidente della Camere penali. Rassicura che “entro giugno” il governo presenterà nuove riforme del processo penale nel senso che piace ai penalisti. I quali rispondono con “vivo apprezzamento” per la “concreta e fattiva attenzione”. Mettendo da parte il fatto che la motivazione dello sciopero, che confermano, era proprio la distanza tra i tanti annunci del ministro e l’inerzia dei fatti. Nel dubbio, il presidente dell’Unione camere penali, l’avvocato Gian Domenico Caiazza, durante l’incontro con il ministro Carlo Nordio si preoccupa di battere su un punto limitato, ma molto concreto. C’è una norma nella riforma del processo penale firmata dall’ex ministra Cartabia, quella che impone all’imputato che vuole impugnare una sentenza l’obbligo di eleggere domicilio - introdotta con l’evidente scopo di ridurre forzatamente le impugnazioni - che i penalisti contestano da tempo. Sul punto ottengono da Nordio l’impegno a metterci mano. O almeno a convocare, lì per lì, una riunione dedicata solo a questo argomento. Nordio la organizza su due piedi, facendo contattare il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia e la presidente del Consiglio nazionale forense Maria Masi. La riunione ci sarà martedì prossimo. Intanto all’Unione delle camere penali, che quasi contemporaneamente in audizione alla camera spinge per la separazione delle carriere, Nordio non è in condizione di annunciare nessuna riforma concreta. Può solo raffinare gli annunci. Parla di un “cronoprogramma delle più urgenti riforme della giustizia penale” che è stato “definitivamente approvato dal governo”. Il cronoprogramma. In base al quale a giugno dovrebbero arrivare “uno o più disegni di legge”. Riguarderanno i temi ampiamente dissodati nelle interviste: abuso d’ufficio, carcerazione preventiva, appellabilità delle assoluzioni, intercettazioni. La giornata però non finisce ancora. Nel pomeriggio viene diffuso il testo di un decreto del capo di gabinetto di Nordio, Alberto Rizzo, che istituisce un “Tavolo tecnico di consultazione per la riforma del processo penale”. Avrà una durata semestrale. Il che è in evidente contraddizione con la volontà di presentare il testo delle riforme, già pronte, a giugno, cioè tra tre mesi. Anche questo annuncio solleva polemiche. L’Anm infatti nota subito che su dodici chiamati al tavolo, quattro sono delle Camere penali (presidente, vicepresidente, segretario e componente dell’ufficio studi). Mentre non c’è un solo nome della magistratura associata. Immediata la protesta: le toghe denunciano la “unilateralità della visione ministeriale” e parlano di “sostanziale discriminazione”. Prima di sera, Nordio replica. Dicendosi “stupito” visto che al tavolo ha chiamato diversi magistrati, in effetti cinque più il capo di gabinetto. E aggiunge che “proprio questa mattina è stato concordato con il presidente dell’Anm Santalucia un incontro per il prossimo 4 aprile”. Un incontro che però, come già raccontato, ha per oggetto un problema limitato e specifico, cosa ben diversa da una consultazione prolungata sul complesso delle riforme. E poi, chiarisce Santalucia, “i magistrati convocati come singoli non rappresentano l’Anm. Se il ministro ritiene di coinvolgere un’associazione forense non può trascurare che esiste anche l’associazione dei magistrati”. Annunci e polemiche, Nordio oltre non va. Abolire il reato di tortura infanga l’immagine delle forze dell’ordine di Glauco Giostra Il Domani, 30 marzo 2023 Abbiamo impiegato più di trent’anni per introdurre nel nostro sistema il reato di tortura in attuazione della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata il 10 dicembre 1984 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e già se ne propone la soppressione. Scorrendo le ragioni che militerebbero a favore di questo dietrofront, ci si imbatte in un free climbing argomentativo che mette a dura prova le capacità di resistenza di chi intendesse seguire i proponenti in tale spericolata arrampicata (nonostante il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, abbia imposto una frenata - almeno parziale - al proposito). In primo luogo, la fattispecie di reato disciplinata dal nuovo art. 613-bis c.p. risulterebbe “essere prima facie profondamente divergente rispetto a quella adottata dalla citata Convenzione”. Problema di nessuna rilevanza: anche ad ammettere che la divergenza consista in un più ampio ambito applicativo della fattispecie nazionale rispetto a quella sovranazionale, è infatti espressamente previsto sin dall’esordio del testo convenzionale (art. 1 comma 2) - benché non fosse difficile desumerlo - che ogni Paese possa introdurre una legge di portata più ampia. Si lamenta poi il fatto che nella Convenzione di New York il reato di tortura è configurato come reato proprio del pubblico ufficiale (cioè che può essere commesso soltanto da un pubblico ufficiale), mentre in base al “nostro” art. 613-bis co. 2 c.p. è dubbio se siamo dinanzi ad un’autonoma figura di reato proprio o a una circostanza aggravante (esserne autore un pubblico ufficiale) del reato comune di tortura delineato dal comma precedente. Ergo, verrebbe da pensare, i proponenti vorranno connotare la condotta di tortura come reato proprio del pubblico ufficiale, più in linea con la formulazione convenzionale. No, si vuole addirittura eliminare il reato di tortura e “derubricare” la corrispondente condotta ad una delle diverse circostanze aggravanti che possono astrattamente collegarsi a qualsiasi reato. L’inerpicata si fa sempre più impraticabile per i nostri modesti mezzi. La polizia penitenziaria - Quando poi nella relazione accompagnatoria della proposta abrogativa si legge che a lasciare sopravvivere l’attuale disciplina legislativa del reato di tortura gli appartenenti alla polizia penitenziaria che debbono procedere alla “collocazione del detenuto in una cella sovraffollata (…) rischierebbero quotidianamente denunce per tale reato a causa delle condizioni di invivibilità delle carceri e della mancanza di spazi detentivi”, sopraggiungono le vertigini. Non riusciamo neppure a immaginare come si possa pensare di chiamare a rispondere del reato di tortura l’agente di polizia penitenziaria che, eseguendo un ordine legittimo dell’autorità giudiziaria, assegna il condannato ad una cella con la possibilità, diciamo pure con la probabilità, che l’esecuzione della pena per questo soggetto si riveli alla lunga degradante per le condizioni in cui lo Stato costringe molti dei ristretti a espiarla. Tanto più, se si considera che l’art. 613-bis c.p. esclude espressamente che il pubblico ufficiale possa rispondere di tortura “nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti”. Preferiamo “scendere”, sarebbe da irresponsabili continuare l’ascesa tenuto conto dell’inconsistenza di qualsiasi appiglio. Al primo contatto con il suolo della realtà, ci nasce un dubbio: se, per giustificare l’abolizione del delitto di tortura, si è costretti a dar fondo alla più spericolata fantasia argomentativa, le vere ragioni dell’iniziativa debbono essere altre. Le vere ragioni - E infatti le troviamo onestamente esplicitate in uno dei passaggi conclusivi della relazione illustrativa. L’abrogazione del delitto di tortura servirebbe “per tutelare adeguatamente l’onorabilità e l’immagine delle Forze di polizia”. Questo, in verità, dovrebbe costituire un forte argomento per mantenere, non per abrogare il reato di tortura. I rappresentanti delle Forze di polizia, che con impegno e rischio assolvono quotidianamente compiti delicati e gravosi per garantirci una convivenza civile e sicura, non potrebbero infatti che vedere infangata “la loro onorabilità e la loro immagine” dalla indegna condotta di alcuni di loro, se lo Stato rinunciasse a punirla severamente, quasi la considerasse una prerogativa che rientra nella funzione svolta. Considerazione persino avvalorata proprio dal riferimento dei proponenti alla polizia penitenziaria, i cui uomini devono sapere non meno degli appartenenti alle altre forze di sicurezza fronteggiare pericoli, spesso persino più insidiosi; devono affrontare gravosi sacrifici quotidiani in un contesto doloroso e mortificante; devono essere garanti della sicurezza degli operatori e dei detenuti, usando nei confronti di questi metodi rispettosi, ma non imbelli; devono svolgere una così delicata funzione all’ombra di fatiscenti strutture, mai rischiarata dai riflettori e dalle gratificazioni dei media. Si vuole davvero che questi onesti servitori del Paese siano percepiti dall’opinione pubblica come quelli ai quali lo Stato strizza l’occhio di una complice tolleranza anche rispetto a ripugnanti comportamenti criminali? Subirebbero un’immeritata, gravissima degradazione nella percezione sociale: da responsabili custodi di uomini a irresponsabili depositari di corpi. “Il governo non vuole abolire il reato di tortura”. Parola di Nordio di Errico Novi Il Dubbio, 30 marzo 2023 Il guardasigilli sulle proposte di legge targata Fratelli d’Italia: “Vi è soltanto un aspetto tecnico che deve essere rimodulato”. “Posso dire senza se e senza ma che il governo non ha nessuna intenzione di abrogare il reato di tortura”. Parola del ministro della Giustizia Carlo Nordio, che risponde così a una interrogazione sulle modifiche normative relative ai reati di tortura e di istigazione alla tortura. “Vi è soltanto un aspetto tecnico che deve essere rimodulato: il reato di tortura, così come è strutturato, ha delle carenze tecniche che devono connotare la struttura della norma penale - spiega il guardasigilli -. L’impossibilità di modificare e la volontà del governo di tener fermo il reato di tortura è determinata da una ragion pura e da una ragion pratica. La ragion pura è l’ottemperanza di quanto è stato stabilito dalle norme internazionali. La ragion pratica è una ragione di coerenza, è un reato odioso e abbiamo tutte le intenzioni di mantenerlo. Lo ha chi vi parla e lo ha il nostro governo”. “A gennaio dissi che vi erano delle carenze tecniche e che mi sarei riservato di chiarirle. Il primo riguarda l’atteggiamento soggettivo del reato, in quanto la convenzione di New York circoscrive le condotte costituenti tortura a quelle caratterizzate da dolo specifico attuate per raggiungere le finalità di ottenere informazioni o confessioni, punire intimidire o discriminare. In altre parole, come tutti sanno, il dolo specifico, quando una condotta viene tenuta al fine di ottenere un risultato ulteriore, in questo caso è quello di ottenere la confessione. Il nostro legislatore invece optando per una figura criminosa contrassegnata dal dolo generico ha eliminato quello che è il tratto distintivo della tortura rispetto agli altri maltrattamenti, con il rischio di vedere applicata la disposizioni nei casi di sofferenze provocate durante operazioni lecite di ordine pubblico e polizia”, prosegue Nordio sottolineando come un “ulteriore rilievo critico è rappresentato dalla inopportuna fusione in un’unica fattispecie del reato delle figure criminose di tortura e di trattamenti inumani e degradanti. Ricondurre due illeciti aventi una offensività diversa allo stesso trattamento sanzionatorio appare una scelta non ragionevole e non imposta dai vincoli internazionali”. Nordio finge di difendere il reato di tortura, ma dice le stesse cose di FdI che vuole abolirlo di Giulia Merlo Il Domani, 30 marzo 2023 Il ministro ha detto che “il governo non ha intenzione di abrogare il reato”, apparentemente contraddicendo l’iniziativa del partito che lo ha eletto. Ha aggiunto che però andranno fatte correzioni tecniche: renderlo a dolo specifico e separarlo da quello di “trattamenti inumani”. Gli stessi argomenti usati da FdI nella sua proposta di abrogazione Fratelli d’Italia e il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, fanno il gioco delle tre carte con il reato di tortura. Apparentemente, il guardasigilli e il partito che lo ha eletto sono in aperto contrasto. FdI, infatti, ha presentato un disegno di legge per abrogare gli articoli 613 bis e ter del codice penale, ovvero il reato di tortura e di istigazione alla tortura, trasformandole in una semplice aggravante, che prevede l’aumento fino a un terzo della pena. Il ministro, invece, ha risposto al question time del Pd dicendo che “senza se e senza ma, il governo non ha intenzione di abrogare il reato di tortura”, sia per ragioni di “ottemperanza a norme internazionali” che di “coerenza”. Tuttavia, ha aggiunto, “vi sono aspetti tecnici da rimodulare”, perchè l’attuale formulazione del reato “ha delle carenze tecniche di specificità e tipicità”. Proprio in questo corollario solo apparentemente secondario si nasconde invece l’elemento determinante. Nordio dice le stesse cose di FdI - Il ministro, infatti, ha detto che, per ottemperare alla previsione della convenzione di New York, il reato di tortura dovrebbe essere “circoscritto al dolo specifico” e quindi prevedere che un comportamento sia tortura solo se ha “finalità di ottenere confessioni, punire o intimidire”. Invece, nella sua formulazione attuale, il reato è a cosiddetto dolo generico, perché punisce chiunque provochi acute sofferenze fisiche o un trauma psichico a chi è privato della libertà personale o è affidato alla sua custodia. Secondo Nordio, l’assenza di dolo specifico “ha eliminato il tratto distintivo della tortura, rendendo concreto il rischio di vedere applicata questa disposizione in caso di casi leciti di tutela dell’ordine pubblico”. Ha aggiunto poi che bisognerebbe separare i reati di tortura e di trattamenti inumani e degradanti, che sono distinti sul piano del diritto internazionale e hanno una offensività diversa. Nordio ha concluso minimizzando, dicendo che si tratta di “questioni tecniche, ma il reato rimarrà”. Peccato che esattamente queste stesse argomentazioni siano usate anche dai depositari del progetto di legge di Fratelli d’Italia che punta ad abrogarlo. Nel progetto di legge, infatti, si legge che la Convenzione contro la tortura prevede che si tratti di “un reato proprio”, circoscrivendo le condotte a quelle “per raggiungere le finalità di ottenere informazioni o confessioni, punire, intimidire, discriminare”. Quindi, “il nostro legislatore ha eliminato il tratto distintivo della tortura rispetto agli altri maltrattamenti rendendo concreto il rischio di vedere applicata la disposizione nei casi di sofferenze provocate durante operazioni lecite di ordine pubblico e di polizia”. Anche la seconda argomentazione utilizzata da Nordio - l’unione del reato di tortura e di trattamenti inumani e degradanti - viene ripresa in modo identico dai firmatari, che parlano di “inopportuna fusione in un’unica fattispecie”. Le argomentazioni sono sostanzialmente le stesse utilizzate da Nordio per rispondere al question time. A cambiare è solo la conclusione del ragionamento. Il ministro la lascia sospesa limitandosi a un proclama generico di intoccabilità del reato. FdI ha invece esplicitato l’obiettivo: abrogare i due reati autonomi, che secondo loro hanno una pena “chiaramente sproporzionata. Duque, “per tutelare adeguatamente l’onorabilità e l’immagine delle Forze di polizia”, è sufficiente introdurre una nuova aggravante comune, da sommare ai reati di percosse, lesioni personali, sequestro di persona e tutte le norme repressive simili. L’ambiguità della posizione di Nordio viene usata in chiave politica da entrambi i lati dell’emiciclo. Le opposizioni hanno fatto leva soprattutto le prime parole di Nordio, che ha assicurato che il reato non verrà abrogato. “Chiarisca con FdI che il reato rimane”, è la richiesta della dem Debora Serracchiani, e anche Ivan Scalfarotto del terzo polo ha chiesto che il progetto di legge “venga ritirato”. Il capogruppo di FdI, Tommaso Foti, invece, ha fatto valere l’inciso successivo sui correttivi, dicendo che “quanto dichiarato dal ministro Nordio è esattamente in linea con quanto sostenuto da FdI”. Il rischio - Se il progetto di legge venisse approvato, dunque, il risultato sarebbe quello di ridurre in modo sostanziale le pene per le forze dell’ordine. Il reato di tortura, nel suo caso meno grave, è punito con una pena che va dai 4 ai 10 anni. Nel caso in cui la stessa condotta si tramutasse nel reato di percosse (reclusione fino a 6 mesi) o lesioni personali (da 6 mesi a 3 anni), anche con l’aggravante la pena quasi certamente non supererebbe l’anno. Inoltre, l’aggravante generica può venire compensata con una attenuante e quindi non produrre aumenti di pena. Non solo. Abrogare il reato significa anche inficiare l’esito di processi in corso, uno su tutti quello contro i pestaggi ai danni dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, per cui a quasi metà dei 105 agenti imputati viene contestato proprio il reato di tortura. Il dibattito sull’abolizione del reato di tortura è un alibi per un sistema fallimentare di Leo Beneduci* Il Fatto Quotidiano, 30 marzo 2023 Dalla tortura alla gogna mediatica. Può essere vero, come descritto nella relazione illustrativa della proposta di legge per l’abolizione, che le fattispecie introdotte dal Legislatore nel luglio 2017 mediante gli artt. 613 bis e 613 ter del codice penale e recanti nel titolo, rispettivamente, “Tortura” e “Istigazione del pubblico ufficiale a commettere torture” presentino caratteri di contraddittorietà e di genericità, ad esempio, rispetto alla Convenzione contro la tortura ed altre pene e trattamenti crudeli, inumani e degradanti (CAT) adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984. Altrettanto, potrebbe condividersi che la figura di reato introdotta dall’art.613 bis c.p., contrasti con gli inderogabili principi, propri della norma penale, di tipicità, tassatività e determinatezza tanto da rendere passibili gli appartenenti alle Forze di Polizia di “denunce pretestuose” e di discrezionali ipotesi accusatorie nell’interpretazione di determinati comportamenti. Ciò nonostante, è quanto mai semplicistico affermare che il reato di tortura, come detto introdotto nel 2017, sia la spada di Damocle che grava sulla testa degli appartenenti alle Forze di Polizia criminalizzandone l’azione a favore dei delinquenti o che, al contrario, rappresenti il deterrente “principe” per particolari e gravi abusi, stante l’esistenza nell’ordinamento anche di altre rilevanti condizioni di reato, come risulta evidente se si rammenta quanto accaduto per gli episodi nella scuola di via Diaz a Genova in occasione del G8 del 2001, ovvero e più specificamente per il carcere e la Polizia penitenziaria per le vicende giudiziarie a Sassari nel 2000 o per quelle risalenti al 2012 e conclusesi di recente con 4 assoluzioni della cosiddetta “cella zero” di Napoli?Poggioreale, a significare che l’abolizione, nei fatti, cambierebbe ben poco. Peraltro, se le particolari e persino risentite affermazioni di questi giorni, pro o contro l’abolizione del reato di tortura quale al momento previsto dal codice, in termini generali possono essere una ben conosciuta caratteristica del dibattito tra opposte opinioni in tema di sicurezza e giustizia, ben peggiori stanno risultandone gli effetti rispetto alle irrisolte criticità del sistema penitenziario, qualora si consideri che, oramai da anni, il silenzio e soprattutto le facili strumentalizzazioni ne impediscono qualsivoglia soluzione. Circa 300, pari allo 0,7% dell’organico nazionale, sono attualmente i poliziotti penitenziari indagati e/o rinviati a giudizio per presunte torture in danno di detenuti e la descrizione che assai spesso ne risulta dalla cronaca è quella di pubblici dipendenti dello Stato a ciò dediti per prassi consolidata, se non per innata crudeltà. Per converso, nessuno sembra preoccuparsi che nelle carceri e nell’ordine di migliaia siano ogni anno le aggressioni subite dal personale, persino condite da quotidiani insulti anche di carattere familiare o sull’inutilità/inconsistenza del ruolo e delle funzioni svolte, al pari delle risse e delle aggressioni tra ristretti e dei tentativi di suicidio su cui è d’obbligo intervenire immediatamente anche vincendo dure resistenze. Ovviamente, nulla può giustificare eccessi e sopraffazioni illecite da parte di chi rappresenta lo Stato nel carcere, ma il clima, le condizioni di lavoro e le tipologie della popolazione detenuta nei penitenziari italiani, spesso condizionate dalle criminalità all’esterno come all’interno, in questo momento contano più che mai se chi vi opera è in assoluto difetto di organici, di formazione professionale, di strumenti anche normativi, oltre che di organizzazione e di tutela. Per questo, per ciò che riguarda il carcere, le polemiche ed i gradimenti persino entusiastici sulla possibile abolizione del reato di tortura possono costituire non solo un falso problema ma anche una sorta di alibi per chi, oggi, nella gestione politica e amministrativa di un sistema fallimentare sotto molti aspetti, avrebbe l’obbligo di agire ed è invece caratterizzato dall’inazione e dall’assenza di progetti in quanto principalmente occupato nel mantenimento dello status quo. *Segretario sindacato di Polizia penitenziaria Caselli, Spataro e il disprezzo per il diritto di Tiziana Maiolo Il Riformista, 30 marzo 2023 No francese all’estradizione e le polemiche italiane. Non è garantismo. Non è dottrina Mitterrand. È il rispetto delle leggi quello che ha indotto i giudici francesi a respingere la richiesta di estradizione del governo italiano nei confronti di dieci persone condannate molti anni fa per gravi fatti di sangue e di terrorismo. Nulla ha a che fare la decisione della Corte d’appello di Parigi, poi confermata dalla cassazione, con la “richiesta di giustizia” dei parenti delle vittime. I quali hanno tutto il diritto non solo al dolore, ma anche alla rabbia e persino al desiderio di vendetta che chiunque di noi, o almeno alcuni, proverebbe davanti a un grave lutto prodotto per mano di altri. Ma non sono loro, non siamo noi, quelli chiamati a giudicare. Sono state le corti d’assise che hanno emesso le sentenze di condanna in Italia, prima di tutto. Quei processi, ci dicono oggi le più alte toghe di Francia, non sono stati perfettamente allineati con quel che prescrive l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Che ha nel principio dell’habeas corpus il suo punto fondamentale. E stupisce il fatto che siano proprio alcuni magistrati italiani, non solo gli ex procuratore Armando Spataro e Giancarlo Caselli, ma l’intera categoria nella sua rappresentanza sindacale, l’Anm, a lanciarsi nella difesa corporativa di quei processi con argomenti più vicini al populismo giudiziario che non allo Stato di diritto. Il processo in contumacia, ci dicono i giudici parigini, non è “giusto processo”, pur se siano stati gli stessi imputati a sottrarsi con la latitanza. È un principio del diritto. Oltre a questo, per chi ha memoria di quei processi, non si può dimenticare il fatto che l’Italia vive, a partire proprio dagli anni Settanta e dal terrorismo, una situazione di perenne emergenza. Leggi speciali e inchieste fondate solo su testimonianze, ovviamente interessate, di collaboratori di giustizia, sono nate allora e persistono ancora oggi con i reati ostativi. La Francia, con il presidente Mitterrand e tutti quelli che seguirono, Chirac, Sarkozy, Hollande e fino a un certo punto lo stesso Macron, ha dato asilo a centinaia di cittadini italiani. Erano innocenti e colpevoli, inseguiti da ordini di cattura per reati gravi o gravissimi o anche lievi. Ma tutti accomunati da una distorsione giudiziaria che non ha consentito una vera applicazione delle leggi con rapidità e ragionevolezza. Una persona che conoscevo, un bravo tecnico che in Italia aveva un importante ruolo in una multinazionale, è morto esule in Francia senza aver trovato un adeguato ruolo professionale. In Italia era accusato di aver partecipato a una riunione con Marco Barbone in cui si era parlato di armi e attentati. A Barbone, l’assassino del giornalista Walter Tobagi, bastò fare il “pentito” per ottenere dal pm Armando Spataro l’imprimatur che lo porterà presto alla libertà. Non a tutti fu concesso quel privilegio e alcuni ne sono morti. Il patto tra i rifugiati e i governi francesi, quello chiamato “dottrina Mitterrand”, era fondato su un solo presupposto, l’osservazione delle leggi e la non commissione di reati sul suolo francese. A prescindere dai comportamenti tenuti da ciascuno nei luoghi di provenienza. Nulla altro è stato richiesto nei successivi quarant’anni. Nessuna discriminazione è stata mai fatta tra persone né tra reati. Il lavoro chirurgico, quello che ha estrapolato e selezionato i dieci, nove condannati per reati di terrorismo più Pietrostefani cui non è stata mai contestata quell’aggravante, è stato effettuato solo due anni fa, dopo la richiesta al governo francese della ministra Cartabia e la risposta positiva del Presidente Macron. Sono partiti così gli arresti. E abbiamo potuto vedere le manette ai polsi di un gruppo di anziani tra i settanta e gli ottanta anni, definiti “terroristi”. Come se il tempo si fosse fermato, i capelli non fossero diventati bianchi e le armi fossero ancora in pugno. Davanti a quelle immagini ha senso il riferimento dei giudici francesi all’articolo 8 della Cedu, quello sul “rispetto della vita privata e familiare”. Che non è qualcosa di generico e banale. È il simbolo del tic-tac del tempo che passa. È la base del nostro articolo 27 della Costituzione. Il cambiamento non è solo nel colore dei capelli, è modo di vivere, è ricucitura dello strappo di un tempo, è il ritrovarsi all’interno di una comunità. I percorsi possono essere diversi. Il carcere è solo il più estremo, ammesso che lo si possa e sappia usare per emanciparsi e ammesso che te lo si consenta. Ma certi ritorni sono senza senso, come quello, per esempio, di Salvatore Buzzi, che si era perfettamente “rieducato” con le proprie forze e poi reinserito nella società con l’apertura a Roma di un pub ben avviato. Aveva scontato ingiustamente cinque anni di carcere speciale a causa degli errori di un gruppo di eroici magistrati che avevano creato quella “Mafia Capitale” che non esisteva. Aveva ammesso reati di tipo economico in complicità con esponenti politici della sinistra laziale, non era accusato di reati contro la persona. Non meritava il “rispetto per la vita privata e familiare”? Lo Stato e la stessa magistratura dovrebbero considerare propri successi tutte le volte che un ex detenuto “riga diritto”, non commette più reati, ma studia, magari si laurea, ha la capacità di creare lavoro e sostentamento per sé e per la propria famiglia senza chiedere reddito di cittadinanza. È un’altra persona, insomma, diversa da quella che un giorno era stata condannata. Ma non c’è ragionevolezza. Non c’è stata nei confronti di Buzzi (e di tanti altri), ancora parcheggiato in un carcere mentre il suo pub è chiuso, a causa di uno stupido e sballato calcolo matematico della pena, per cui un’associazione per delinquere semplice è diventata più grave di quella mafiosa. Ma c’è stata ragionevolezza, per fortuna, quanto meno in Francia, Paese in cui, evidentemente, le regole europee del diritto hanno più peso di quanto ne abbiano in Italia. E rispetto a una pena “giusta” e tardiva, si è preferito far ricorso alla pena “utile”, che può consistere anche solo nel cambiamento dello stile di vita. L'ex terrorista Cavallina: "Io la mia pena l’ho scontata, a Parigi rispettino le vittime” di Concetto Vecchio La Repubblica, 30 marzo 2023 Già espontente dei Pac, ha passato 12 anni in prigione. E a di quelli riparati in Francia dice: "Non mi sento di condannarli". Ma anche: "Capisco le vittime che cercano vendetta, eppure la strada è il dialogo". E sul carcere: "Meglio pene alternative come i servizi sociali" Arrigo Cavallina, 77 anni, ex terrorista dei Pac, quanti anni di carcere ha scontato? "Dodici". Per quali reati? "Diversi, tra cui banda armata e concorso nell'omicidio del maresciallo Santoro". Ha materialmente sparato? "Quello mai, per fortuna. Ma non per questo mi sento meno responsabile di Cesare Battisti". Perché? "Ero membro della banda, e come tale responsabile in solido dei reati commessi". E poi si è dissociato dalla lotta armata? "Sì, fui uno dei promotori della dissociazione e mi sono avvicinato alla chiesa. Ho terminato di scontare ogni pena nel 1993 e ho ottenuto la riabilitazione.Sono impegnato nel volontariato con La Fraternità". Cosa pensa di chi invece ha cercato riparo in Francia? "Non mi sento di giudicarli. Chi volutamente si riconsegna sapendo che rischia l'ergastolo? Questo spiega perché molti di loro abbiano continuato a proclamarsi innocenti". Era giusta la dottrina Mitterrand? "Ho qualche riserva. I processi in Italia furono sostanzialmente regolari". Si contestava il fatto che i terroristi fossero condannati in contumacia. Ma non c'erano perché latitanti. "Appunto, e poi c'erano i loro avvocati. Ma va anche detto che questo è quel che prevede l'ordinamento francese". Cosa pensa della sentenza della Cassazione francese? "Credo sia giusta. Dopo quarant'anni non ha senso spedire in carcere delle persone che non sono più quelle degli anni di piombo. Non hanno commesso altri reati, si sono integrati". Non hanno espiato la pena, come lei. "Io già in carcere ho avuto modo di ripensare la mia vita in profondità". Per i familiari delle vittime questo verdetto è un pugno in faccia. "Questo lo capisco. Per loro qualsiasi misura della pena sarà sempre troppo poco rispetto al danno irreparabile che hanno subito, al dolore ricevuto". Ma se il carcere non la convince cosa proporrebbe? "Si può immaginare un intervento diverso da quello carcerario, sul modello sempre più diffuso della giustizia riparativa? Un supplemento di fatica, nel volontariato, al servizio sociale. Costringendoli così ad aiutare altre persone, ora in difficoltà. Non sarebbe più utile?" Il terrorista Galmozzi ha scritto di godere per la sentenza. "Servirebbe più rispetto verso le vittime". Nessuno ha mai espresso una parola per loro. "Ho appena rivisto il video dell'ultimo incontro tra la figlia di Aldo Moro, Agnese, e uno dei brigatisti che lo sequestrò, Franco Bonisoli. Da tempo s'incontrano per trovare forme di pacificazione. Sembrerebbero opposti invece dialogano". Non sempre l'incontro riesce. "Capisco le vittime che cercano vendetta, ma in questo modo si precludono la possibilità di un'ulteriore crescita. Agnese Moro e Bonisoli sono riusciti a riconoscere la reciproca sofferenza, ovviamente quella di Moro è massima, ma in questo modo provano a cercare una verità comune". Quale sarebbe? "Il male non cambia, ma così acquista un senso diverso. E forse può essere perfino utile a chi ascolta". La pena accessoria è cancellata dall’esito positivo del periodo di affidamento in prova ai servizi sociali di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 30 marzo 2023 L’estinzione della pena principale, attraverso la misura alternativa, si estende infatti anche a tutti gli effetti penali della condanna. L’esito positivo dell’affidamento in prova cancella non solo la pena principale, ma anche quelle accessorie. Non commette quindi il reato di inosservanza delle pene accessorie previsto dall’articolo 389 del Codice penale chi non rispetta la prescrizione impostagli dopo che ha scontato la pena principale attraverso una misura alternativa conclusasi positivamente. Quindi non sussiste il reato per chi, interdetto dallo svolgere attività d’impresa, iscriva la propria ditta individuale dopo l’esito favorevole dell’affidamento in prova. Nel caso concreto il ricorrente si era primo visto condonare gli anni di detenzione comminati e per i residui 8 mesi aveva avuto accesso, con esito positivo, alla giustizia riparativa dell’affidamento. La Cassazione nell’annullare la condanna per l’inosservanza di pena accessoria dell’interdizione ha ribadito - con la sentenza n. 12985/2023 - che va prescelto l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale la cancellazione della pena principale, che consegue all’esito positivo del periodo di affidamento in prova, travolge tutti gli altri effetti della condanna. E, tra gli effetti penali, rientrano sicuramente le pene accessorie, quale l’interdizione. Inoltre, chiarisce la Suprema Corte, che in qualsiasi caso fosse rimasta in piedi la pena accessoria essa andava rideterminata a seconda del caso concreto e non in misura fissa come era stata comminata. Questo perché va tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale che ha appunto ritenuto illegittima la previsione di una pena accessoria non modulabile dal giudice ma prevista in forma fissa dal Legislatore. Per cui in tal caso la pena accessoria dell’interdizione decennale andava rivista davanti al giudice dell’esecuzione. La decisione di legittimità costituzionale richiamata nella sentenza è la 222/2018. Oristano. Il caso di Stefano Dal Corso, morto nel carcere. La famiglia: non è suicidio di Giansandro Merli Il Manifesto, 30 marzo 2023 Sulla vicenda del 42enne romano deceduto lo scorso 12 ottobre a Oristano restano troppi punti oscuri. La richiesta: “Fate l’autopsia”. C’è qualcosa che non torna nella morte di Stefano Dal Corso. Ne è convinta la famiglia del detenuto scomparso nel carcere di Oristano il 12 ottobre scorso. Per le autorità si è trattato di un suicidio, ma restano diversi punti controversi. Per dissiparli basterebbe un’autopsia, finora però è stata negata. “Appena ho visto che non era stata fatta ho presentato istanza. Era venerdì 21 ottobre, la mattina seguente avevo già la risposta negativa dalla procura”, dice l’avvocata dei parenti Armida Decina nella conferenza stampa organizzata ieri al Senato dalla senatrice Ilaria Cucchi (Alleanza verdi e sinistra). Dopo il rifiuto dell’esame autoptico la legale ha chiesto copia di atti e fotografie. “Ne arrivano tredici, ma ci sono delle stranezze: manca la foto del ritrovamento di Stefano e non ci sono immagini del suo corpo nudo”, continua Decina. Intorno al collo del 42enne del Tufello, quartiere popolare di Roma, si nota un segno rosso. Si sarebbe impiccato con un lenzuolo alla finestra della cella e sarebbe morto per la rottura dell’osso del collo. “Nelle foto però il letto è intatto. Nessuno ci ha detto dove avrebbe preso il lenzuolo usato per stringere il cappio”, aggiunge l’avvocata. Alla quale diversi medici hanno riferito che è impossibile certificare la rottura dell’osso del collo a occhio nudo. Si può fare solo con due esami: autopsia o Tac. “Non ci credo che mio fratello si sia suicidato. Nelle ultime lettere parlava dell’amore per la figlia di sette anni, della volontà di rifarsi una vita dopo il carcere”, dice la sorella Marisa Dal Corso. Trattiene a stento le lacrime. “Avendo lavoro e soldi intorno a me difficilmente cadrò in basso come altre volte”, scriveva suo fratello raccontandole la possibilità di ottenere un impiego in semilibertà. Ipotesi che avrebbe preferito a quella della comunità di recupero di Villa Maraini. La lettera è datata 6 ottobre 2022, lo stesso giorno dell’ultima udienza a Oristano. Dal Corso aveva ricevuto una condanna inferiore ai due anni che stava scontando ai domiciliari a casa della sorella, a Roma. Ad agosto 2022 è stato trovato fuori, mentre portava a passeggio i cani, e rinchiuso a Rebibbia. Nel carcere sardo è finito per un’udienza di un secondo processo. Aveva accettato il trasferimento, invece di partecipare da remoto, per poter incontrare in un colloquio la figlia che vive sull’isola. “13 anni fa in questa stessa sala parlamentare un’altra famiglia mostrava le foto di un ragazzo morto in carcere. Sono qui in veste istituzionale ma anche come sorella di Stefano”, dice la senatrice Cucchi. Che chiede una legge per rendere obbligatoria l’autopsia per chiunque perda la vita dietro le sbarre. L’Italia è uno dei pochi paesi europei a non averla. Se la procura rifiutasse anche la seconda richiesta dell’avvocata dei parenti resterebbe solo una strada per l’esame: pagare. Ben ottomila euro. “Quella dei Dal Corso è una famiglia umile che non ha una simile disponibilità economica. Non è giusto che solo chi ha i soldi può cercare la verità. Abbiamo attivato un crowdfunding per raccogliere i fondi necessari”, dice Luca Blasi, assessore alla Cultura del III municipio di Roma (dove si trova il Tufello). Un ultimo mistero sulla vicenda è quello di un libro. Fateci uscire da qui, testo sulla mistica austriaca Maria Simma arrivato alcuni giorni dopo la morte di Dal Corso nella casa dove scontava i domiciliari. Un pacco anonimo spedito con Amazon, da cui la famiglia non è riuscita a ottenere il mittente. Nell’indice sono cerchiati due capitoli: la confessione; la morte. Potrebbero essere ulteriori elementi su cui indagare. Oristano. Stefano Dal Corso morto in carcere, Ilaria Cucchi: “Non cali il silenzio” di Silvia Pinti La Repubblica, 30 marzo 2023 Il quarantaduenne romano è deceduto al carcere di Oristano il 12 ottobre del 2022. La sorella Marisa ha avviato una raccolta fondi per effettuare l’autopsia: “Non si è suicidato”. I lividi sul braccio destro, il lenzuolo intonso e il letto rifatto. Le immagini fornite a Repubblica dai familiari di Stefano Dal Corso evidenziano i tanti punti oscuri sulla morte del 42enne originario del Tufello scomparso nel carcere Casa Massima di Oristano il 12 ottobre del 2022. Dal Corso ufficialmente si sarebbe impiccato alle sbarre della cella singola in infermeria, ma per la sorella Marisa, assistita dall’avvocato Armida Decima, non è così. “Anche un’altra famiglia 13 anni fa - dice la senatrice Ilaria Cucchi - era stata costretta a mostrare delle foto per obbligare lo Stato a dare delle risposte”. I Dal Corso, sostenuti dall’assessore alla Cultura del municipio III Luca Blasi, hanno lanciato una raccolta fondi su GoFundme (“Verità per Stefano Dal Corso) per finanziare l’utopsia “che la procura - dice Marisa - ci ha riufiutato per due volte”. “È passato tanto tempo - aggiunge Cucchi - ma la nostra battaglia è stata portata avanti anche e soprattutto per sensibilizzare le persone su storie come questa. Queste vicende non devono restare nel silenzio e le famiglie vanno aiutate.” Le immagini del corpo di Stefano sollevando molti sull’ipotesi di suicidio. La famiglia non crede che il 42enne si morto impiccato con il lembo di un lenzuolo alle sbarre della finestra. “Fin dal 13 ottobre la documentazione sul caso era scarna - rileva Decima - Sono abituata a trovare un album fotografico diverso.”, racconta l’avvocato. Decima decide così di rivolgersi al medico legale incaricato di visionare la documentazione, secondo la quale l’immagine di un solco al collo come unico elemento non può bastare per dire che si tratta di un suicidio. Molte cose non tornano. Stefano sarebbe dovuto rimanere all’interno del carcere di Oristano solo nove giorni. Il processo del 6 ottobre era andato bene e il rientro a Roma era previsto per il 13 ottobre. Ventiquattro ore prima è stato trovato morto. “Non credo che mio fratello abbia potuto uccidersi - prosegue Marisa - aveva un figlia. E le lettere che ha spedito pochi giorni prima che morisse lasciano intendere tutt’altro. Parlava di ricominciare. Raccontava alla sua compagna di aver fatto dei colloqui e di aver sentito delle persone che avrebbero potuto aiutarlo lavorativamente. Tra settembre e ottobre del 2023 sarebbe stato scagionato. Non aveva motivo di suicidarsi”. Le fotografie mostrano il letto integro, senza impronte, e Stefano avrebbe dovuto salirci sopra per riuscire a impiccarsi alle sbarre della finestra. Eppure dormiva in una cella singola, dove ha preso il lembo di lenzuolo per togliersi la vita, se il letto era perfettamente in ordine? Per la procura il 42enne si sarebbe impiccato e sarebbe morto a causa della frattura dell’osso del collo, ma non è stato ancora eseguito nessun esame diagnostico in grado di certificarlo. Allora la sorella e le persone vicine a Stefano si sono messi in moto. L’obiettivo è raccogliere 8 mila euro il prima possibile per effettuare l’autopsia privatamente. I soldi vengono donati su GoFundMe, direttamente sulla pagina di Marisa Dal Corso. L’onorevole Giuseppe De Cristofaro alla conferenza di stamattina ha garantito il totale sostegno del gruppo Alleanza Verdi e Sinistra e ha promesso di lavorare sul piano legislativo per rendere l’autopsia obbligatoria in circostanze come queste. Anche l’assessore alla cultura del III Municipio di Roma, Luca Blasi, esprime solidarietà: “Stefano è morto per un motivo che non può essere provato se non con autopsia e tac. Vogliamo sapere la verità. E lo vogliono anche i cittadini del quartiere dove è cresciuto Stefano, il Tufello. Sono già stati fatti degli striscioni e a breve si terrà una manifestazione per avere giustizia sul caso”. Milano. Il direttore di San Vittore: “Questo carcere scoppia di giovani” di Manuela D’Alessandro agi.it, 30 marzo 2023 La vita di frontiera di Giacinto Siciliano che abita in una casa sopra alle celle: i 250 ragazzi sotto i 25 anni, il telefono sempre acceso con la paura dei suicidi, gli incontri con detenuti “che ti chiedi perché sono qui” ma anche la speranza che ogni mattina lo motiva a provare a costruire un futuro per chi è dentro. Nell’ufficio di Giacinto Siciliano c’è una grande clessidra e poi altre più piccole che evocano le attese di chi, a pochi metri da qui, sta in cella. L’altro particolare che colpisce nella stanza affacciata sul campo da calcio degli agenti è l’immagine di un’impronta appesa al muro. “E’ quella che mi piacerebbe lasciare. So che in un carcere così complesso andrebbe già bene limitare i danni ma io lavoro per costruire”. E adesso il direttore del carcere di San Vittore ha in mente sopra ogni cosa l’impegno di tracciare un orizzonte possibile per i giovani reclusi, mai così tanti. È un pensiero che, racconta all’AGI, “genera una sofferenza” in lui e in chi lavora o regala il proprio tempo libero dentro a queste mura erette nel 1872. “Abbiamo oltre 250 ragazzi sotto i 25 anni su 850 detenuti, è un numero che sta crescendo tantissimo. Il disagio giovanile sta diventando talmente grande che il sistema non è più in grado di reggerlo e tocca al carcere farsene carico. La maggior parte sono stranieri ma ci sono anche italiani, a volte di seconda generazione”. Il vero nodo è come far scattare una scintilla in loro. “Le abbiamo provate tutte negli ultimi due anni, senza risultati. Li tieni in cella e litigano, li fai uscire e continuano a litigare. Provi delle attività di intrattenimento o con la scuola ma non bastano. Il carcere potenzia situazioni che già esistono. Stiamo cercando di agganciarli con altri progetti perché il problema non è ricondurli a un ordine solo imposto ma che venga vissuto come tale. Se non costruiamo il loro futuro tutto quello che facciamo qui dentro è inutile”. Il pensiero di Siciliano è che in questa fase storica il carcere debba rimediare a un’incapacità del mondo fuori di affrontare il disagio. “San Vittore rappresenta uno spaccato allarmante di ciò che accade nella città, di tutte quelle situazioni che non si riescono a gestire e sfociano in reati perché non si è riusciti ad agganciare o a prevenire il malessere. E l’unico posto dove paradossalmente possono essere gestite è il carcere che sta diventando la risposta automatica alla marginalità. Le persone che arrivano hanno per lo più problemi di tossicodipendenza o dipendenza dai farmaci. Alcuni sniffano l’intonaco, altri si fumano qualsiasi cosa o si bevono il gel igienizzante perché contiene alcol”. Anche i percorsi migratori sono cambiati: “Qualche anno fa i percorsi erano quelli dei campi libici, oggi sono soprattutto le rotte balcaniche per certi versi ancora più faticose perché sono lunghe e queste persone, per attraversarle, sono imbottite di psicofarmaci”. Nei giorni scorsi il sottosegretario alla Giustizia Andrea Del Mastro ha auspicato che i tossicomani vadano nelle comunità con l’obbiettivo di svuotare le carceri. A San Vittore i tossici ‘certificati’ sono 450. “Il carcere non è il posto idoneo alla loro gestione. Può essere una delle risposte al disagio ma noi oggi ci stiamo occupando di tanti detenuti che avrebbero bisogno di altro, di cure e interventi specialistici che non sempre le singole strutture sono in grado di assicurare”. Il ragionamento riguarda “per esempio i pazienti psichiatrici che restano in carcere perché il sistema delle Rems (residenza sanitarie per autori di reato incapaci di intendere e volere, ndr) non funziona e le comunità senza documenti o residenza non li prendono per problemi legati al rimborso delle rette. I pochi psichiatri che ci sono si dividono tra qui, Opera e Bollate e fanno miracoli. Il carcere è l’unico posto dove sei obbligato a prendere le persone e a gestirle col grande limite che dentro non è scontato che ci sia una struttura adeguata alla cura. Io non credo che sia il posto giusto per questi detenuti ma se lo deve essere ci vorrebbe un investimento serio”. Il direttore di San Vittore che ci abita proprio sopra tiene sempre il telefono acceso. Nell’ultimo anno per tre volte lo hanno chiamato per dei suicidi. Traccia a penna un foglio di carta con lo schema delle celle e i possibili movimenti dei reclusi. “Le persone che si sono tolte vita erano tutte seguite da diversi operatori. Ti poni tante domande. C’è tanta attenzione e impegno ma evidentemente non basta. Avremmo potuto o dovuto controllare di più? Non è solo un problema di controllo. Una considerazione è che non puoi in ogni caso limitarti a controllare una persona a tutte le ore per un lungo periodo perché farla stare bene significa anche darle libertà e costruire con lei un progetto di vita che non sempre è facile da ipotizzare e realizzare. Spesso ci sono situazioni di sofferenza e carenza pregresse che in carcere non è facile affrontare e che presuppongono un progetto sull’esterno”. Ci sono alcuni detenuti che lo colpiscono più di altri, oltre ai giovani. “A volte cammini e vedi persone che ti chiedi perché stiano qui. Mi è capitato di pensarlo con un ragazzo con la sindrome di down, poi per fortuna scarcerato dopo un giorno, oppure quando vedo persone con un vissuto di grande povertà e marginalità. A volte il reato non è il problema”. Un direttore di carcere si sveglia sempre con la speranza? “Tante mattine mi alzo con la stanchezza che non incide però sulla speranza. La cosa che mi stanca è che vorrei cambiare molto di più e diventa frustrante se non lo posso fare per limitazione e vincoli che il sistema comporta. Però forse qualcosa, grazie anche a Milano che è sempre disponibile ad aiutare il suo carcere, lo stiamo costruendo”. Sulla parete oltre all’impronta ci sono due ritratti di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone firmati da ex detenuti di lungo corso per reati di mafia in un altro carcere di cui è stato direttore. Far scorrere la clessidra, lasciare un’impronta, vederla in un disegno. Ivrea (To). Presunti pestaggi in carcere, gli agenti indagati tornano in servizio di Andrea Bucci La Stampa, 30 marzo 2023 Il tribunale del Riesame ha annullato le otto misure interdittive applicate dal gip lo scorso dicembre: i giudici non negano la violenza, ma “mancano i riscontri specifici”. Erano stati sospesi per le presunte botte e torture ai detenuti nel carcere di Ivrea. Da ieri gli agenti di polizia penitenziaria potranno tornare in servizio. Restano indagati, ma il tribunale del Riesame ha annullato la misura interdittiva applicata a dicembre dalla gip del tribunale di Ivrea Ombretta Vanini nei confronti di otto agenti. Tutti accusati, secondo la procura di Ivrea, di presunte torture e lesioni commesse nei confronti dei detenuti Vincenzo Calcagnile e Oulaid Ainine. Ma nel caso denunciato da Ainine, il Riesame non rileva il reato di tortura commesso da alcuni agenti e scrive che “così contestualizzata l’azione, anche laddove il racconto di Ainine venisse ritenuto complessivamente attendibile, questo Collegio ritiene che non sarebbe ravvisabile il reato di tortura, ma semmai quello di lesioni aggravate”. Perché “per quanto concerne il reato di tortura, la norma distingue se si sia in presenza di più condotte o di un’unica condotta che abbia comportato un trattamento inumano e degradante”. Per i giudici, dunque, tali caratteristiche non sono ravvisabili nella condotta degli agenti. Nel caso di Ainine si tratta di un episodio e quindi non continuativo come prevede la Legge. Nell’ordinanza di venti pagine il Riesame non nega che nella casa circondariale ci siano stati episodi violenti. Ma parla di assenza di riscontri specifici per quanto riguarda i due casi che hanno determinato la sospensione degli agenti. I giudici sottolineano le difficoltà di trovare questo tipo di riscontri in un ambiente chiuso come quello del carcere. Infatti uno degli agenti, Giovanni Atzori, è riuscito a dimostrare come fosse in congedo il 24 luglio 2022, ovvero il giorno successivo il tentato suicidio e le violenze subite dal detenuto Vincenzo Calcagnile, in cui l’indagato lo avrebbe minacciato. Di Calcagnile i giudici scrivono ancora che “va anche tenuto presente che si evince dalla cartella sanitaria tenuta dalla struttura carceraria che è soggetto bipolare”. Per i legali dei sette agenti è stato un lavoro di ricerca di controprove. Come quelle presentate dall’avvocato Enrico Scolari, che insieme al collega Mario Benni difende tre degli agenti. A loro favore il legale ha portato le testimonianze dei medici del carcere di Ivrea e di Novara che avevano visitato Ainine. Scolari non fa mistero della soddisfazione per l’esito raggiunto e a fronte del provvedimento del Riesame ha una richiesta: “Mi auguro un immediato reintegro in servizio degli agenti”. Parla di amarezza provata per i mesi in cui hanno dovuto essere sospesi dal servizio l’avvocato Celere Spaziante che assiste altri agenti. La procura d’Ivrea non esclude un eventuale ricorso in Cassazione. Le indagini sulle presunte botte nel carcere di Ivrea proseguono. Nell’inchiesta condotta dalla pm Valentina Bossi sono indagate 45 persone tra appartenenti alla polizia penitenziaria, medici, funzionari e direttori Firenze. Carcere di Sollicciano, parte il progetto “I Care” firenzetoday.it, 30 marzo 2023 “Per un carcere non più ghetto ma luogo di inclusione”. Nel Giardino degli Inconti giornata di dibattito aperta ai cittadini, la direttrice: “Basta marginalizzare, sovvertire l’approccio culturale al carcere” Ricostruire le periferie nel segno dell’inclusione, partendo dagli ultimi, dai detenuti, nel segno di una rigenerazione urbana che ridisegni i confini della città. E’ l’ambizioso sogno del progetto “I Care, carcere in città”, presentato ieri a Palazzo Vecchio per creare uno spazio di dialogo sulla casa circondariale di Sollicciano, il Quartiere 4 e i suoi abitanti. Sabato 1° aprile si terrà il primo Open Day nazionale sul tema “carcere e città”, proprio nei pressi di Sollicciano, all’interno del Giardino degli Incontri, uno spazio disegnato dall’architetto Giovanni Michelucci per far incontrare i detenuti con i loro familiari. “Il progetto mette al centro dell’attenzione urbana un nuovo rapporto tra carcere e città - spiega Camilla Perrone, coordinatrice scientifica di “I CARE” -. Ci confronteremo con i detenuti provando a costruire con loro una visione dello spazio in cui abitano. Lavoreremo anche con i residenti del quartiere per rompere lo stigma del carcere e ripensare insieme a una periferia diversa, che diventi opportunità e nuovo centro per l’area metropolitana di Firenze. Il Giardino degli Incontri, realizzato da Michelucci, oggi rappresenta uno dei lavori più belli dell’architettura carceraria e simbolicamente riconnette ciò che sta dentro con il mondo fuori. È un modo che abbiamo per rompere il muro”. I CARE rappresenta l’acronimo che tiene insieme Inclusione, un’idea di Carcere, Architettura, Rigenerazione ed Ecologia. “Sarà il primo open day nazionale sul tema carcere e città. Ci permetterà di raccontare le esperienze che stiamo portando avanti - prosegue la dottoressa Perrone del dipartimento di Architettura all’Università di Firenze -. Sarà portato al centro dell’attenzione il carcere come oggetto di questione urbana. Ci confronteremo su esperienze analoghe fatte in altre città italiane. Vogliamo trasformare quest’area periferica di Firenze con valori come l’inclusione, il benessere territoriale, l’idea di una città aperta e accessibile”. La giornata del primo aprile sarà interamente dedicata al carcere di Sollicciano, alle esperienze vissute dentro l’istituto penitenziario, al racconto dei progetti nati negli ultimi anni per ridare vita alle periferie. “Ho parlato del sovvertimento dell’approccio culturale al carcere e rivendico questa necessità - chiarisce la direttrice della casa circondariale di Sollicciano, Antonella Tuoni -. E’ stato ghettizzato, marginalizzato e troppo spesso viene relegato ai margini del tessuto urbano. Si pensi a Sollicciano, come sia nell’estrema periferia di Firenze, al confine col Comune di Scandicci. Invece il progetto I CARE ha consentito finalmente di inserire il carcere nello strumento urbanistico. Si riconosce una sua dignità nella prospettiva dell’inclusione, di una rigenerazione urbanistica e anche in una prospettiva ecologica, che tenga conto anche degli spazi. Nel nostro carcere abbiamo persone svantaggiate sotto tutti i punti di vista: la maggior parte ha forti handicap sociali, culturali e anche sanitari. Dobbiamo quindi pensare al concetto di rieducazione. Provare a immaginare un carcere che si apre alla città e viceversa”. Il progetto vuole far conoscere la realtà di Sollicciano, mettere a nudo le sue problematiche, ma ricordare anche che c’è un’intera area della città che spesso viene dimenticata. “È partito un nuovo percorso di partecipazione - sottolinea il presidente del Quartiere 4, Mirko Dormentoni - per costruire tutti insieme una nuova parte della città, non una marginalità periferica e separata. A livello urbanistico, abbiamo ottenuto nel nuovo piano operativo una scheda di trasformazione che permetterà la riqualificazione di tutta l’area circostante al carcere, per creare nuovi polmoni verdi, servizi pubblici e magari anche sportivi, sociali, opportunità di lavoro e formazione per i detenuti e per le famiglie del quartiere”. Laureana di Borrello (Rc). Padri detenuti protagonisti del progetto del centro “Nati per la musica” di Giuseppe Currà ilvibonese.it, 30 marzo 2023 Ha prodotto i primi frutti la recente adesione dell’Istituto detentivo a custodia attenuata “Luigi Daga” di Laureana di Borrello, al programma nazionale portato avanti in Calabria dal presidio “Nati per la musica”, sorto a Mileto su input del Cantiere musicale internazionale. Obiettivo dichiarato del progetto, promosso dalla scuola di alta formazione in sinergia con decine di realtà territoriali, è di incentivare l’esperienza musicale in famiglia come strumento di relazione, già a partire dalla gravidanza. In tale contesto, nei giorni scorsi all’interno della struttura detentiva è stato organizzato l’evento dal titolo “Che colore hanno le emozioni?”. L’interessante iniziativa ha coinvolto, nello specifico, cinque padri detenuti (già inseriti nel percorso rieducativo) e i loro rispettivi nuclei familiari. Il tutto è stato realizzato in un apposito spazio all’aperto, attrezzato in modo ottimale. In tale luogo, i padri hanno potuto sperimentare con mogli e figli come, grazie alla pratica strumentale, la musica riesca a favorire l’incontro e la relazione tra i componenti del nucleo familiare, anche quando ci si trova dentro le mura di una struttura carceraria. Ad attestare il successo di “Che colore hanno le emozioni?”, la toccante lettera inviata da uno dei padri coinvolti agli organizzatori. “A mio parere - ha scritto con palpabile emozione il detenuto del “Luigi Daga” - queste sono le iniziative di cui Istituti come questo di Laureana, e non solo, hanno bisogno per avviare un giusto percorso di recupero. Infatti, non sono le restrizioni carcerarie a rappresentare la vera condanna, a quelle ci si abitua subito, ma la lontananza dai nostri cari e dai nostri figli, ed è proprio grazie a iniziative come questa che ci rendiamo conto di quello che ci stiamo perdendo. Quello che per molti potrebbe sembrare un semplice momento di vita quotidiana, a noi fa assaporare la felicità di vedere i nostri figli giocare liberamente lontani da quei “tavoli di colloquio”. Scintilla che innesca in noi la voglia di riabilitazione e di riscatto”. Dal detenuto anche il plauso speciale agli organizzatori e ai volontari “per essere riusciti a far partecipare anche noi genitori, con canti e giochi, facendoci vincere la timidezza iniziale” e, soprattutto, “per essere riusciti, anche solo per poco tempo, ad abbattere le mura di cinta, facendoci tornare liberi e vivendo la gioia di vedere i nostri figli felici e spensierati”. Soddisfazione per il successo dell’evento, da parte della responsabile del presidio di Npm, Rita Emanuela Galvagno, e della direzione dell’Istituto a custodia attenuata di Laureana, pronte a ripetere tali iniziative anche in futuro, magari dopo averle inserite in un percorso ad hoc calendarizzato. Migranti. Il caso dei ragazzi fantasma che spariscono da comunità e parrocchie di Anna Campaniello e Andrea Galli Corriere della Sera, 30 marzo 2023 Hizbullah K., corporatura media, 15 anni: sparito e denuncia di scomparsa. Zakaria H., occhi neri, capelli scuri, 16 anni da compiere a novembre: sparito e denuncia di scomparsa. Moumen A., altezza 170 centimetri, corporatura media, 17 anni; a ottobre se n’era andato dalla parrocchia di San Martino, a Como, lo avevano trovato alla frontiera e riaccompagnato in parrocchia: ma di nuovo, sparito e denuncia di scomparsa. A livello ufficiale nessuno s’azzarda ad ammettere non tanto i numeri, per di più in significativo aumento, dei minorenni d’improvviso in fuga dalle parrocchie e dalle comunità, divenuti invisibili e per i quali viene sporta denuncia in caserme e commissariati, bensì il generale quadro dei migranti che dall’Italia vengono in Svizzera soprattutto per proseguire il viaggio, o almeno provarci, verso Germania, Belgio, Olanda, Danimarca e Norvegia. Ebbene a Como, che rappresenta l’ultimo lembo nostrano di sosta e insieme di ripartenza, piccoli o grandi che siano, da soli oppure con le famiglie, questi migranti, e i passeur/protettori/mediatori insieme a loro, hanno modulato la strategia. Primo comandamento: non apparire prima di lasciare l’Italia. Venti, venticinque stranieri in media salgono ogni giorno sui treni della stazione di San Giovanni e scendono in quest’altra stazione di Chiasso, e vengono agganciati dalla polizia che procede all’identificazione e alle successive azioni. Ovvero trasferire indietro i migranti, a Como, oppure, qualora i centri d’accoglienza italiani siano pieni, cosa che avviene, consegnare un foglio che garantisca una permanenza temporanea in Svizzera finalizzata però all’organizzazione di spostamenti verso le nazioni sopra elencate. Insomma, volendo raccontare le cose reali senza enfatizzazioni politiche e mediatiche: purché gli stranieri siano soltanto di passaggio... A proposito di realtà, non si può non rilevare come al momento la situazione a questo confine sia perfino pacifica. Poi domani magari lo scenario si ribalta, ma per intanto s’assiste perfino a una certa organizzazione da parte dei migranti, pur se stremati e ormai senza soldi. A Como non si fanno appunto vedere, azzerando dunque al principio eventuali proteste dei residenti contro bivacchi e vagabondi, proteste che per forza innescano operazioni delle forze dell’ordine; mentre in Svizzera si comportano sui treni come passeggeri qualsiasi, non tentando, beninteso nella maggioranza dei casi, di scappare ma quasi consegnandosi agli agenti per le procedure di rito. Non viene esclusa la via alternativa dell’attraversamento dei varchi svizzeri in luoghi di montagna, nelle valli laterali rispetto al lago, non sempre presidiati. Dopodiché neanche le autorità svizzere sanno spiegare il contemporaneo mistero delle presenze di cittadini cinesi in mezzo ad africani, nordafricani, curdi, pachistani, afghani. Non ci sono cinesi fra i ragazzini spariti (africani), e anche preda della micro-criminalità o di degenerazioni umane: uno degli ultimi scomparsi in ordine di tempo è Ahmed M.; capelli castani, addosso un giubbino dell’Atalanta e pantaloni della tuta neri; è sparito il 13 scorso. Nella stazione di Chiasso, oggetto di un’ampia ristrutturazione, la polizia di frontiera presidia le banchine; nella fase di attesa e gestione dei migranti, la logistica è al solito efficiente e chiara, con uffici che già all’interno dello scalo permettono verifiche immediate. Le informazioni annunciano imminenti massicci arrivi, lungo la rotta balcanica, di profughi che sostavano in Turchia e che in conseguenza del terremoto hanno anticipato la partenza. A Como, nella stazione di San Giovanni, con i suoi giardini pubblici che degradano, non esiste traccia degli accampamenti negli anni passati allestiti sui prati dai profughi. Alla dogana, fonti della Finanza confermano la tranquillità dell’attuale periodo in termini di ingressi illegali: diminuiti i passaggi di automobilisti che nascondevano gli immigrati. Negli ultimi giorni il passaparola dei profughi consiglia d’evitare i boschi tra Ventimiglia e la Francia, dove la gendarmeria obbedisce di nuovo all’ordine di cacciare lo straniero, ovunque sia, chiunque sia. E allora meglio Como, finché dura. Migranti. Il “cattivismo” e la Guardia Costiera di Vittorio Alessandro* La Stampa, 30 marzo 2023 Non stupisce che il centralino della Guardia costiera sia sovraffollato in un momento drammatico di traversate dalla Tunisia (6.500 persone giunte a Lampedusa in soli tre giorni). È singolare piuttosto che, in questa emergenza, la centrale operativa di Roma abbia avvertito il bisogno di denunciare pubblicamente l’eccesso di chiamate che avrebbe “sovraccaricato i sistemi di comunicazione, sovrapponendosi e duplicando le segnalazioni”. Trattandosi di invocazioni provenienti da unità Ong che operano nel canale di Sicilia, una delle quali poi fermata nel porto di Lampedusa per aver compiuto più di un soccorso, siamo indotti a credere che si possono e si devono mandare messaggi di allarme all’autorità marittima, ma le Ong un po’ meno, così come tutti possono - se necessario - eseguire più di un salvataggio, ma non le navi umanitarie. Eppure la Guardia costiera - preposta al coordinamento dei soccorsi in mare - avrebbe tutti gli strumenti certamente più adatti che un comunicato stampa a indirizzare e coordinare ogni risorsa verso la risoluzione delle situazioni di pericolo, ciò che del resto succede in ogni emergenza (alluvioni, terremoti, pandemie) in cui l’attività dei volontari, strettamente coordinata dallo Stato, risulta infine determinante. Nessuno deve intralciare le funzioni istituzionali del soccorso, tanto più se da iniziative solitarie possono derivare ulteriori pericoli, ma per questo c’è il codice della navigazione: nessuno dimentica, per esempio, l’ordine impartito dalla Capitaneria di Livorno al comandante della Costa Concordia e le gravi sanzioni che, anche per questo, lo raggiunsero. Il comunicato stampa appare invece un sorprendente contributo all’agone ideologico che, con protervia, certa politica ha aperto sul soccorso in mare, uno scontro estenuante il cui prezzo pagano non le Ong, ma le persone in pericolo e gli equipaggi delle motovedette che in questi giorni battono l’onda col timore di essere, prima o poi, di nuovo additate come “taxi del mare”, colpite anch’esse con il marchio di “pull factor”, così come le navi dei volontari e perfino una opinione pubblica ritenuta troppo compiacente. Il comunicato ha considerato fuori luogo perfino la denuncia degli spari subiti dalla Ocean Viking da una delle motovedette da noi fornite alle milizie libiche che, dalla firma del memorandum Italia-Libia del 2017 a oggi, hanno riportato quasi 185 mila persone nei luoghi dei crimini contro l’umanità denunciati da un rapporto Onu pubblicato proprio in questi giorni. L’annuncio della Guardia costiera, dopo i lunghi mesi in cui ogni comunicazione sui soccorsi dei migranti era assunta dal Viminale, è un tassello del “cattivismo” di cui ha parlato su queste colonne Franco Gabrielli, strategia che non porta a nessun utile risultato nella gestione dei flussi migratori e degli stessi soccorsi, ma si traduce piuttosto nella restrizione degli spazi di impegno civico e nella lesione di quel senso di giustizia che è sale della nostra convivenza. Non ci resta che sperare in un coordinamento del soccorso in mare finalmente esente da vincoli e condizionamenti. *Ammiraglio, già portavoce della Guardia costiera Bielorussia. Continuano repressione e condanne per i dissidenti di Maria Cristina Origlia Il Sole 24 Ore, 30 marzo 2023 La testimonianza che segue è stata raccolta assieme alla videomaker di origine bielorussa Tatsiana Khamliuk. Non possiamo dire i loro i nomi, nè possiamo sapere da dove ci rispondono esattamente. Ne va della sicurezza dei loro familiari rimasti in Bielorussia. Di certo, possiamo dire che in esilio, sparpagliati tra Lituania, Polonia e Georgia, continuano a lavorare senza sosta. Sono gli attivisti di Viasna Human Rights Centre, organizzazione nata in Bielorussia nel 1996 per offrire assistenza finanziaria e legale ai prigionieri politici del Paese. A poche settimane dalle condanne pluriennali dei vertici di Viasna - compreso il suo fondatore, Ales Bialiatski, Premio Nobel per la Pace 2022 - siamo riuscite a metterci in contatto con loro. Se lo aspettavano, era solo questione di tempo. Dopo la crisi socio-economica scatenata dalle elezioni presidenziali del 2020 che hanno confermato Alexander Lukashenko alla guida del Paese e i cui risultati non sono stati riconosciuti validi dall’Unione Europea, il regime ha inasprito la repressione, ha ampliato l’uso della pena di morte e introdotto nuovi strumenti come l’inclusione indiscriminata dei bielorussi nei cosiddetti “elenco degli estremisti” ed “elenco dei terroristi”. E Viasna - come tutta la società civile e i media - è finita nel mirino. La recente condanna di Ales Bialiatsky a 10 anni di detezione - e dei vertici di Viasna - è un segnale di forza o di debolezza del regime? Non v’è dubbio che le continue repressioni degli ultimi anni testimoniano la profonda paura del regime di Lukashenko. Il 2020 è stato l’inizio di repressioni senza precedenti nei confronti dei cittadini per l’esercizio del loro diritto alla libertà di riunione, di espressione e di protesta contro la falsificazione delle elezioni. La raccolta e la divulgazione di informazioni sulle detenzioni arbitrarie, le torture e gli omicidi dei manifestanti pacifici e la fornitura di assistenza legale e altra assistenza ai bielorussi hanno causato la persecuzione dei difensori dei diritti umani. È evidente che l’attività professionale di Ales Bialiatski, Valentin Stefanovich, Vladimir Labkovich, Leonid Sudalenko, Marfa Rabkova e Andrey Chapyuk è molto scomoda per il regime esistente sia a livello nazionale che internazionale. Proprio per questo motivo, i leader di “Viasna” hanno visto le accuse originarie di evasione fiscale trasformarsi in accuse più gravi di contrabbando e finanziamento delle proteste, il che ha permesso al regime di aumentare la massima pena detentiva da 7 a 12 anni. Il potere cerca di impedire ai difensori dei diritti umani di parlare e di svolgere le loro funzioni per la protezione dei diritti dei cittadini comuni. Ma oggi, “Viasna” - nonostante sia in esilio - continua a lavorare e a fornire assistenza alle vittime delle repressioni. Vi aspettavate una condanna così elevata? La decisione del tribunale non è stata una sorpresa. I segnali che la punizione sarebbe stata estremamente severa erano già chiari quando più di un anno fa (a settembre 2022) è stato archiviato il caso penale contro Beljatskij, Stefanovi?, Labkovi? e alcuni altri membri di “Viasna” per evasione fiscale, ma non sono stati rilasciati. Invece, sono stati accusati di contrabbando come gruppo organizzato e di finanziamento delle proteste a favore dei manifestanti. Se inizialmente la massima pena per uno degli articoli del codice penale era fino a 7 anni di reclusione, dopo le nuove accuse è stata aumentata a 7-12 anni. Quindi, quando il procuratore Aleksandr Korol’ ha richiesto 12 anni di prigione per il premio Nobel Ales’ Bjaljackij, non c’è stata alcuna sorpresa. E il fatto che il giudice Marina Zapasnìk abbia condannato il leader di “Viasna” a 10 anni di carcere non significa affatto che abbia preso la decisione da sola. Da molto tempo le decisioni in casi simili sono prese ai più alti livelli e il cosiddetto processo giudiziario è solo una copertura per dare una qualche legittimità all’illegalità dei comportamenti del governo. Quale effetto ha avuto in Bielorussia l’invasione della Russia in Ucraina? Il fatto che le autorità bielorusse abbiano fornito il territorio e l’infrastruttura della Bielorussia per l’invasione dell’Ucraina ha posto il nostro Paese nella posizione di complice dell’aggressione militare. La Bielorussia è caduta in una dipendenza politica ed economica ancora più grande dalla Russia e subisce una significativa parte delle sanzioni adottate a seguito della guerra. Questo comporta il rischio di perdita di sovranità e una maggiore subordinazione del paese a Putin. Nonostante i grandi rischi, i bielorussi hanno espresso la loro protesta contro la guerra, cercando anche di rallentare lo spostamento delle truppe russe lungo la ferrovia bielorussa. Ciò ha comportato arresti nelle città in cui si sono verificati atti di sabotaggio, compreso l’uso di armi, e i “partigiani delle rotaie” sono stati accusati di “atti terroristici” e condannati a lunghe pene detentive fino a 22 anni di reclusione. Come ha reagito il regime alle proteste del popolo bielorusso contro la guerra? Questa reazione delle autorità ha aggravato ulteriormente la situazione dei diritti umani e ampliato le basi per la pressione sui bielorussi: ora le persone possono essere perseguite penalmente non solo per avere criticato lo Stato. La nazione continua ad essere immersa in un nichilismo giuridico e la complicità del regime di Lukashenko nella guerra è diventata un catalizzatore di questo processo. Ricordiamo che gli arresti e i processi, le perquisizioni e le convocazioni nelle strutture di potere per motivi politici, la liquidazione delle organizzazioni della società civile, la dichiarazione di libri e materiali informativi dei media indipendenti come materiali estremisti sono la realtà quotidiana della Bielorussia. Essere immersi in questo clima acuisce la condizione di paura e di diffusa illegalità in cui vive la popolazione. Viasna oggi denuncia la presenza di 1.458 prigionieri politici in Bielorussia. C’è ancora qualcuno in grado di fare opposizione o ormai Lukashenko ha represso qualsiasi voce dissidente nel Paese? Attualmente, qualsiasi manifestazione di dissenso in Bielorussia comporta enormi rischi. I partecipanti alle proteste pacifiche del 2020 e coloro che non sono d’accordo con l’aggressione russa contro l’Ucraina continuano a essere condannati a restrizioni e privazione della libertà. Le persone sono accusate e punite con la detenzione per “offese” a Lukashenko, giudici, rappresentanti del governo, e per “oltraggio ai simboli dello Stato”. I partecipanti ai sindacati indipendenti, avvocati, medici, scienziati, blogger e lavoratori sono tutti perseguitati, praticamente non rimane indenne nessun settore della società. Recentemente, una serie di arresti ha colpito psicologi e psichiatri. L’attività di media indipendenti viene definita “estremista” e recentemente l’Associazione dei giornalisti bielorussi è stata riconosciuta come una “formazione estremista”. Non c’è più alcuna organizzazione per la difesa dei diritti umani o un grande media indipendente nel paese, praticamente tutto il settore civile è stato costretto a lasciare la Bielorussia per continuare la propria attività senza la minaccia di persecuzione penale. Durante i periodi di detenzione sono rispettati i diritti umani? È importante sottolineare che nei luoghi di detenzione i prigionieri politici subiscono ulteriori violazioni: sono tenuti in condizioni vietate dagli obblighi internazionali della Bielorussia, sono soggetti a sanzioni disciplinari per motivi inventati, vengono registrati per scopi preventivi, vengono posti in isolamento punitivo, il regime di detenzione viene aggravato e il loro periodo di detenzione viene prolungato arbitrariamente. Il diritto alla corrispondenza viene violato e i prigionieri politici vengono privati di visite dai loro cari con pretesti inventati. Purtroppo sono frequenti i casi di suicidio e di omicidi, come successo a Vitold Ashurak, ucciso di botte in cella. La Bielorussia continua ad essere l’unica nazione in Europa e Asia centrale in cui viene applicata la pena di morte e nell’ultimo anno sono state ampliate le basi per la sua applicazione: ora la massima punizione può essere inflitta per “tentato attacco terroristico”, che le autorità interpretano in modo estremamente ampio, così come per “tradimento dello Stato”. Tutto questo è importante per capire il contesto generale in cui si trova la società civile. Le opportunità per esprimere una posizione contraria al regime senza rischi per la libertà, la salute e la vita, sono attualmente estremamente limitate. La condanna dei vertici di Viasna ha sollevato dichiarazioni indignate da tutta Europa, ma l’Unione europea potrebbe fare di più? La responsabilità per le repressioni contro il popolo, compresa la condanna dei membri di “Viasna”, ricade interamente sulle autorità bielorusse. Attualmente, il regime di Lukashenko è isolato dal mondo democratico, trovandosi in una dipendenza economica e politica dalla Russia, e al momento non è incline ad ascoltare le voci provenienti dall’Occidente. Tuttavia, il sostegno al popolo bielorusso e alla società civile da parte dei politici e della società europea è estremamente importante. La diffusione di informazioni e la solidarietà sono le nostre armi principali nella lotta contro l’illegalità che regna nel paese. Ad esempio, l’organizzazione tedesco-svizzera per i diritti umani Libereco - Partnership for Human Rights sta facendo un lavoro enorme con il lancio della campagna #WeStandBYyou, in cui i parlamentari europei diventano simbolici “padrini” dei prigionieri politici in Bielorussia e ne chiedono il rilascio. Qual è la cosa piu’ importante che puo fare l’Europa per sostenervi? È estremamente importante che le repressioni, le torture e le sentenze ingiuste non avvengano in silenzio. E siamo grati ai politici europei per la loro reazione univoca alla condanna di Vladimir Labkovich, Valentin Stefanovich e Ales Belyatsky a lunghe pene detentive solo perché stavano svolgendo attività pacifiche per la difesa dei diritti umani. Molti attivisti e vittime di repressioni politiche hanno trovato un rifugio sicuro nei Paesi dell’UE, molte iniziative possono continuare a funzionare grazie al sostegno europeo. Questo è di enorme importanza e ci aspettiamo ulteriore sostegno da coloro che lottano per la democrazia in Bielorussia. La nostra sfida ora è mantenere l’attenzione sui prigionieri politici. Le persone in Bielorussia sono private della libertà e della possibilità di esprimersi, quindi le voci al di fuori del paese acquisiscono un’importanza enorme. Invitiamo tutti coloro che hanno una tribuna e una voce libera a denunciare la situazione e non accettare in silenzio la violazione dei diritti umani proprio al confine dell’Unione Europea. Qual è oggi l’appoggio della Bielorussia alla guerra di Putin? Le numerose voci sul fatto che le truppe bielorusse si uniscano anche alle operazioni militari e che inizierà la mobilitazione rimangono - per ora - solo timori. In generale, il livello di coinvolgimento della Bielorussia nella guerra non è cambiato quest’anno. Per quanto riguarda il coinvolgimento nel sostegno alla guerra da parte dei cittadini, è molto difficile da definire. Ottenere dati affidabili sull’atteggiamento della società in condizioni di forisssima pressione e repressione è praticamente impossibile. Ma possiamo dire che, nonostante i rischi enormi, nel febbraio 2022 le persone sono uscite per protestare per le strade delle città. I cosiddetti “partigiani ferroviari” hanno organizzato sabotaggi sulla ferrovia, cercando di impedire il movimento di attrezzature russe. I bielorussi stanno combattendo dalla parte dell’Ucraina (compreso il reggimento di Kastus Kalinowski, che fa parte delle Forze Armate Ucraine). All’inizio di marzo 2023, un aereo russo di allarme e controllo a lungo raggio A-50 è stato danneggiato mentre si trovava in Bielorussia. Nonostante sia impossibile fare dei sondaggi rilevanti in condizioni di controllo totale e totalitarismo, i dati delle ricerche sociologiche disponibili indicano l’assenza di un sostegno incondizionato alla guerra. Il popolo bielorusso vorrebbe avvicinarsi al modello democratico, come ha fatto l’Ucraina, o manca ancora una coscienza politica del genere? Si tratta di due storie molto doverse. Se guardiamo alla “rivoluzione arancione” del 2004 e alla “rivoluzione della dignità” del 2013, la società ucraina difendeva i propri interessi in un paese con elezioni libere e un cambio di potere; con media liberi e diversificati, anche se influenzati da diverse gruppi politici; con la rappresentanza di diversi interessi e forze politiche nel parlamento. In altre parole, la lotta degli ucraini non avveniva solo sotto forma di attività di protesta, ma trovava anche il sostegno dei maggiori imprenditori, nell’ambito della diffusione dell’informazione e della rappresentanza politica. In Bielorussia, invece, Lukashenko, vincendo le elezioni nel 1994, si è subito occupato della monopolizzazione del potere: sono fatti scomparire gli oppositori politici; il presidente ha avuto enormi poteri, mentre il parlamento è diventato presto una marionetta; attraverso modifiche alla Costituzione, è stata cancellata la limitazione del numero di mandati presidenziali. Durante tutto questo tempo, praticamente in ogni elezione, i candidati alla presidenza sono finiti dietro le sbarre. Lukashenko, arrivato al potere, ha subito combattuto contro i media indipendenti, molti dei quali hanno ora uno status ufficiale di “estremisti”. Inoltre, non ha esitato a mettere spotto pressione le imprese private. Dunque, non è un tema di coscienza politica... Esatto. Il punto è che si è sviluppato un modello di gestione piuttosto rigido, che tende alla nazionalizzazione di tutto e non accetta l’iniziativa privata e il dissenso. Pertanto, nel 2020, il popolo bielorusso si è trovato praticamente da solo di fronte ai poteri illimitati di Lukashenko e dei suoi agenti di forza. La ragione per cui è ancora al potere non è dovuta alla “mancanza di consapevolezza politica” dei bielorussi. Il nostro popolo ha dimostrato di avere una coscienza politica molto chiara - ma alla distruzione dei meccanismi politici esistenti per cambiare la situazione nel Paese. Dopo la condanna di Bialiatsky, sarà possibile per Viasna continuare la sua missione di difesa dei diritti umani in Bielorussia? Senza dubbio, le condanne inflitte ai nostri colleghi sono state un grande colpo e una grande prova non solo per loro stessi e per i loro cari, ma anche per l’organizzazione. Tuttavia, dopo l’arresto di Ales Belyatsky, Valentina Stefanovich e Vladimir Labkovich, è già passato più di un anno e mezzo e l’attività di “Viasna” non si è mai fermata per un istante. Continuiamo a promuovere i valori dei diritti umani, a registrare i fatti di repressione contro il popolo bielorusso, a diffondere informazioni a riguardo, a fornire assistenza alle vittime di violazioni dei diritti umani e ai detenuti politici, a preparare rassegne analitiche sulla situazione dei diritti umani in Bielorussia e così via. Inoltre, abbiamo lanciato la campagna #FreeViasna per sostenere i nostri colleghi detenuti, al fine di informare la comunità internazionale sulla situazione dei difensori dei diritti umani bielorussi condannati a lunghe pene detentive e di chiedere alle persone di compiere azioni di solidarietà per loro. Negli ultimi due anni le condizioni in cui siamo costretti a lavorare sono cambiate notevolmente, ma gli obiettivi non sono cambiati: eravamo e saremo a sostegno delle persone nella difesa dei loro diritti. E facciamo l’impossibile per continuare il lavoro dei nostri colleghi detenuti politici, nonostante tutto. Messico. Migranti arsi vivi in un centro di detenzione di Loredana Lipperini La Stampa, 30 marzo 2023 L’orrore in un centro di detenzione a Ciudad Juárez le guardie hanno lasciato morire 38 reclusi intrappolati. Gridavano “aprite” ma loro si sono girati e sono fuggiti. “Faceva caldo, la notte che bruciammo Chrome”. Ma no, ma qui la citazione letteraria che scivola dalla punta delle dita sulla tastiera è poca cosa, è solo il fievole, inutile, riflesso della realtà. E poi allora, il 1982, quando William Gibson raccontò in quella storia cyberpunk delle falene sbattevano fino a morire contro le luci al neon, non pensava che avremmo potuto vedere le fiamme, non pensavamo che ci saremmo potuti assuefare alle fiamme stesse. Siamo davanti al video, che avverte che le immagini potrebbero urtare la nostra suscettibilità (eccome, eccome). Sulla sinistra il primo rosseggiare del fuoco, sulla destra, dietro le sbarre, e sempre dietro le sbarre intravediamo persone. Dall’altra parte, liberi, due uomini, uno immobile, l’altro smanetta sul telefonino, esce. Le fiamme si alzano. C’è una figura prigioniera che si avvicina. Fumo. Non altro. Dietro le sbarre, muoiono bruciati in 39. Siamo al centro di detenzione per migranti di Ciudad Juárez. I 39 sono arsi vivi perché, a quanto pare, era stato loro detto che sarebbero stati rimpatriati e avevano dato vita a una protesta finita malissimo. Ma gli agenti se ne sono andati, semplicemente. Non sappiamo perché. Quello che sappiamo è che persone che cercavano una vita migliore sono morte, come ne muoiono continuamente. Come sono morti gli uomini, le donne e i bambini sulla spiaggia di Cutro. Davanti all’indifferenza, all’insipienza, al vuoto cosmico che alberga evidentemente in tantissime anime di questo mondo. E per un perverso disegno è avvenuto a Ciudad Juárez. La città dei femminicidi. La città delle cinquemila (pare) ragazze che lavoravano nelle fabbriche e che vennero uccise negli anni Novanta da non si sa chi. La città dannata di cui parlò Roberto Bolaño in 2666, ne “La parte dei delitti”. La città dove arrivò un giornalista, Sergio Gonzalez, per scrivere la cronaca di quelle morti. Ne nacque un reportage, Ossa nel deserto, a cui 2666 si ispirò. Roberto Bolaño, alla domanda su come si immaginasse l’inferno, rispose: “Come Ciudad Juàrez, che è la nostra maledizione e il nostro specchio, lo specchio inquieto delle nostre frustrazioni e della nostra infame interpretazione della libertà e dei nostri desideri”. Noi guardiamo, dagli schermi dei nostri computer e dei nostri telefoni, sapendo che, sì, è la nostra maledizione e il nostro specchio che stiamo guardando. Non sentiamo le urla, perché nel video che facciamo ripassare non c’è l’audio. Così come non abbiamo ascoltato gli Help, Help, Help che venivano dai morenti di Cutro. E che, anche in questo caso, sono stati ignorati da chi poteva salvare. Come è avvenuto, non più tardi di due settimane fa, in area libica, trenta morti nel mare forza sei, davanti a un mercantile che ha, di nuovo, esitato. Ci chiediamo perché, ci chiediamo, sgomenti, come sia possibile. Ci diciamo che tutte le vite sono uguali e sappiamo, perché a questo punto dovremmo aver capito, che per molti non è così, che ci sono vite che valgono poco, vite davanti alle quali si può esitare. Non restare a guardare e basta, magari ridendo, quello no, quello è troppo. Ma già quell’esitazione è troppo, perché fa capire che in certi casi, casi di persone che sono considerate di minor valore, esitare va bene, esitare, addirittura, assolve. Non possiamo salvare tutti, noi. Ma qualcuno poteva, e non lo ha fatto. Qualcuno, magari, anche in questo caso si spingerà anzi a insinuare che quei morti se la sono cercata, perché insomma chi ve lo fa fare a mettere a rischio la vita. Il problema è che a pensarlo, magari silenziosamente o magari no, sono in tanti, e tante, dal calore delle proprie case, le mani sulla tastiera del computer. Non salvano, non salviamo neanche noi, che ci chiediamo come sia possibile. E che magari dimentichiamo coloro che valevano poco e sono stati ugualmente bruciati. Penso a qualcosa che è perduto nelle nebbie dell’oblio, come i quattro ragazzini che per gioco, in una notte di maggio del 1979, gettarono benzina e bruciarono vivo Ahmed Ali Giama, 35 anni, in quel vicolo della Pace in Roma che sarebbe divenuto il simbolo dei fragorosi anni Ottanta. Vennero accusati quattro bravi ragazzi, condannati prima a 61 anni di carcere e poi assolti in appello e in Cassazione, e poi sono stati dimenticati anche loro, perché loro erano figli ben educati e Ahmed era solo un somalo che alzava il gomito, un invisibile, un senzatetto che dormiva in strada, mangiava alla Caritas, e quella notte era sdraiato su un pezzo di cartone. Non ci sono colpevoli, non c’è nulla. C’è il fuoco, c’è il dolore. Quattro arbitri di calcio escono da una trattoria, lui è avvolto dalle fiamme e urla, non possono fare niente. Vedono anche tre ragazzi e una ragazza che scappano su due moto, sono intorno ai vent’anni. Che c’entra, si dirà? Quello è un episodio di cronaca, lontanissimo, questa è una strage, altrettanto lontana. Ma, semplicemente, ci sono ieri come oggi vite che hanno pesi diversi e in quella notte di maggio non sapevamo quanto quella differenza sarebbe diventata più netta, e quanto avremmo dovuto, invece, serbare nella memoria quel gioco feroce, per affrontare quelli di oggi. Perché ogni storia che viene ritenuta marginale ci chiama in causa, perché quelle storie si sono sommate negli anni fino a farci diventare quel che siamo. Quelli di Gibson. Quelli che fanno in fretta ad appiccare le fiamme. “Ci avevamo messo meno di otto minuti per bruciare Chrome”.