“Sono pronto a morire per far sapere al mondo cos’è il 41 bis” di Valentina Stella Il Dubbio, 2 marzo 2023 Cospito, la lettera dal carcere: “Il più grande insulto per un anarchico è essere accusato di dare o ricevere ordini”. La difesa pronta a presentare ricorso alla Cedu. Un possibile ricorso d’urgenza alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) e l’interessamento delle gerarchie della Chiesa: per la questione Alfredo Cospito si aprono due nuove strade, hanno spiegato ieri pomeriggio in una conferenza stampa al Senato il suo avvocato Flavio Rossi Albertini e il presidente di A buon diritto, Luigi Manconi. Tutto per scongiurare la morte dell’anarchico al suo 134esimo giorno di sciopero della fame. “Ha perso 50 chili”, ha detto il suo legale in apertura. “Dopo la pronuncia della Cassazione ha voluto sospendere gli integratori ma il morale è fiero, determinato e convinto delle proprie ragioni e speranzoso di vincere la sua battaglia - ha proseguito - che è una battaglia per la vita, non per la morte, perché non ritiene il 41 bis vita. Non ha aspirazioni suicide”. Ma, comunque, “è determinato ad andare avanti”. Per questo il difensore insieme all’avvocato Antonella Mascia sta valutando, considerati i tempi incompatibili con il digiuno di Cospito, “la possibilità di richiedere un provvedimento di urgenza. Riteniamo che esistono diversi profili da portare davanti” alla Cedu. Contemporaneamente Manconi ha fatto sapere che “dal mondo della Chiesa cattolica c’è interesse per il caso Cospito. So per certo che le gerarchie lavorano per perseguire una modalità riservata per poter positivamente intervenire portando mitezza e saggezza”. Durante la conferenza stampa è stato letto anche l’estratto di una lettera scritta in carcere, prima del trasferimento dal penitenziario di Sassari a quello di Opera: “Il più grande insulto per un anarchico o anarchica è quello di essere accusato di dare o ricevere ordini. Quando ero al regime di Alta Sorveglianza avevo comunque la censura e non ho mai spedito ‘pizzini’, ma articoli per giornali e riviste anarchiche. E soprattutto ero libero di ricevere libri e riviste e scrivere libri e leggere quello che volevo. Insomma, mi era permesso di evolvere, vivere. Oggi sono pronto a morire per far conoscere al mondo cosa è veramente il 41- bis, 750 persone lo subiscono senza fiatare”. Un documento che ha superato la censura, e nel quale l’anarchico al carcere duro si dice “convinto che la mia morte porrà un intoppo a questo regime e che i 750 che subiscono da decenni il 41bis possano vivere una vita degna di essere vissuta, qualunque cosa abbiano fatto. Amo la vita, sono un uomo felice, non vorrei scambiare la mia vita con quella di un altro. È proprio perché la amo non posso accettare questa non vita senza speranza”. “Non comunicando con l’esterno da nove mesi non può essere istigatore di proteste e azioni violente”, ha aggiunto Rossi Albertini. Abbiamo chiesto sia a Manconi sia al difensore cosa pensassero del fatto che i consiglieri al Csm di Magistratura indipendente abbiano utilizzato anche delle loro espressioni per giustificare la richiesta di una pratica a tutela al Consiglio superiore della magistratura per tutti i magistrati che si stanno occupando del caso Cospito. “Quello che posso affermare con forza e determinazione - ci ha risposto Albertini - è che alcune di quelle frasi non le ho mai pronunciate, quantomeno non in occasione della decisione di Cassazione”. Mentre per Manconi “questa iniziativa di Mi a dir poco la si può definire bizzarra, se si pensa che viene contestata la più completa indipendente autonomia del legale dell’imputato a poter esprimere un proprio parere su un verdetto negativo per il proprio assistito. Si scivola pericolosamente nel campo del ridicolo. Ma c’è di più: l’avvocato sottolineava che a lui vengono imputate frasi che egli non ha mai pronunciato. Il che non è così strano, perché il testo di questo gruppo di magistrati è davvero inaudito: mette insieme le reazioni di piazza, le minacce gridate, qualcosa di intimidatorio che può essere il prodotto dei manifestanti con le dichiarazioni del legale o di un osservatore come me. Dal punto di vista scientifico e metodologico si tratta di un guazzabuglio indigeribile”. Manconi aveva definito la sentenza della Cassazione un “verdetto iniquo”: “Iniquo come noto è il contrario di equo - ha spiegato Manconi - Se è censurabile una valutazione di questo tipo siamo dinanzi alla eccentricità di un gruppo di persone che non ha ben riflettuto sulle proprie parole”. Intanto gli anarchici annunciano una mobilitazione nazionale per sabato 4 marzo a Torino in solidarietà alla battaglia di Cospito. A Milano, per giovedì 2 marzo è annunciato un presidio sotto la sede di Fratelli d’Italia in corso Buenos Aires a Milano. Cospito ha perso 50 chili: “Insulto pensare che io dia ordini. Pronto a morire contro il 41 bis” di Simone Alliva L’Espresso, 2 marzo 2023 Una lettera dell’anarchico, che annuncia l’intenzione di continuare lo sciopero della fame, è stata letta in Senato dal suo avvocato. Nei prossimi giorni previste altre manifestazioni a suo supporto. “Il più grande insulto per un anarchico è quello di essere accusato di dare o ricevere ordini. Quando ero al regime di alta sorveglianza avevo comunque la censura e non ho mai spedito pizzini ma articoli per riviste anarchiche: mi era permesso di leggere quello che volevo, di evolvere. Oggi sono pronto a morire per far conoscere al mondo cosa è veramente il 41 bis. Settecentocinquanta persone lo subiscono senza fiatare”. La voce di Alfredo Cospito attraversa le mura del Sai dell’istituto penitenziario di Opera e irrompe nel Parlamento. Lo fa grazie a un passaggio di una lettera scritta mentre era detenuto a Sassari e letta in Senato durante una conferenza stampa sullo stato di salute dell’anarchico dopo 133 giorni di sciopero della fame. È l’avvocato Flavio Rossi Albertini a precisare: “Questo è uno scritto passato per la censura, la difesa ritiene di poterne dare lettura proprio perché il detenuto al 41 bis non può fornire indicazioni ai sodali all’esterno ma non è un soggetto a cui è stata tagliata la lingua o la mano. Stiamo parlando di una battaglia di civiltà - prosegue il legale di Cospito - bisogna salvaguardare il diritto del detenuto di poter parlare, anche al 41-bis. In queste righe non dà alcuna indicazione o ordine ai sodali ma spiega perché dal suo punto di vista non è possibile passare anni, una vita al 41 bis”. Per Rossi Albertini: “Ritenere che un anarchico possa dare ordini fa vivere ad Alfredo Cospito questa detenzione come un evidente violenza. Un anarchico che dà ordini è un ossimoro”. Sulla presunta vicinanza alla criminalità organizzata, l’avvocato precisa: “Cospito non aveva alcuna intenzione di unirsi ai mafiosi per alcun progetto, se non quello condiviso di detenuti al 41 bis”. Durante la conferenza stampa è sempre l’avvocato a informare sulle condizioni di salute dell’anarchico, non promettenti: “Fisico estremamente provato, ha perso oltre 50 chili, ma è tenace, è determinato ad andare avanti e infatti ha deciso di sospendere integratori potassio e zucchero. Il morale è fiero ed è convinto che possa vincere questa battaglia che è per la vita: non ha aspirazioni di suicidio”. In Sala Nassirya presenti oltre ai parlamentari Peppe De Cristofaro (SI), Ilaria Cucchi (SI), Gianni Cuperlo (PD) Luigi Manconi, ex senatore del Pd e già presidente della Commissione Straordinaria per la promozione e la tutela dei diritti umani: “La nostra Carta Costituzionale prevede la certezza della pena ma anche la clemenza - ha sottolineato. Questo è il momento proprio dello Stato di dimostrare la sua corsa attraverso un atto di saggezza non fondato sul nulla ma sull’opinione della Procura Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, sul parere della direzione distrettuale Antimafia di Torino, parere del capo del DAP sull’opinione argomentatissimo del procuratore generale presso la Cassazione e ultimo la Relazione annuale 2022 dell’intelligence” (Proprio ieri il direttore dell’Aisi, Mario Parente, alla presentazione ha smentito “saldature” tra gli anarco-insurrezionalisti ed altre realtà criminali ndr) L’appello è rivolto ancora una volta al ministro della Giustizia Nordio ma non solo: “Nordio può, in questa prova di forza e con la sua saggezza, revocare ora quel 41 bis che tutte queste magistrature giudicano superflue. E mi auguro che ci sia un’autorità morale laica o religiosa che possa esercitare una moral suasion per indurre questa decisione di revoca che sarebbe saggia equilibrata e mi auguro capace di evitare non solo la morte di Alfredo Cospito ma anche altre morti”. Intanto le piazze si riempiono di presidi di solidarietà nei confronti di Cospito. come quella indetta per giovedì 2 marzo sotto la sede di Fratelli d’Italia in corso Buenos Aires a Milano. Prevista anche un’altra protesta sabato 4 marzo a Torino. Ma non è solo la società civile a prendere posizione: sul finale della conferenza stampa è Manconi a rivelare: “La Chiesa segue la vicenda, so per certo che c’è un’attenzione molto vigile da parte di alte gerarchie della Chiesa cattolica per perseguire una modalità riservata per poter positivamente intervenire portando mitezza e saggezza”. “Pronto a morire contro il 41 bis”, Cospito sta male ma non si piega di Frank Cimini Il Riformista, 2 marzo 2023 L’anarchico denuncia in una lettera le barbare condizioni di detenzione: “750 persone lo subiscono senza fiatare”. Poi aggiunge: “Mai spedito pizzini, ho solo scritto articoli per riviste”. “Sono pronto a morire per far conoscere al mondo cosa è veramente il 41bis, 750 persone lo subiscono senza fiatare”. È il passaggio più drammatico della lettera di Alfredo Cospito l’anarchico in sciopero della fame dal 20 ottobre scorso diffusa al Senato nel corso della conferenza stampa dell’avvocato difensore Flavio Rossi Albertini e di Luigi Manconi presidente di A buon diritto. “Il più grande insulto per un anarchico o anarchica è quello di essere accusato di dare o ricevere ordini. Quando ero al regime di alta sorveglianza avevo comunque la censura e non ho mai spedito ‘pizzini’, ma articoli e per giornali e riviste anarchiche. E soprattutto ero libero di ricevere libri e riviste e scrivere libri e leggere quello che volevo. Insomma mi era permesso di evolvere - scrive Cospito - di vivere”. Cospito, dice il suo difensore, “non è istigatore di azioni violente, non si vuole suicidare ma il suo fisico è estremamente provato. Ha perso 50 chili, ritenere che possa dare ordini è un evidente ossimoro per un anarchico, vive questa condizione al 41 bis come una violenza ed è determinato ad andare avanti. Cospito ha sospeso gli integratori ma il suo morale è fiero, determinato e convinto delle proprie ragioni e speranzoso di vincere la sua battaglia per la vita. Non ha aspirazioni suicide”. La strategia difensiva prevede il ricorso con procedura di urgenza alla Corte Europea dei diritti dell’uomo ma l’iniziativa è ancora in fase di gestazione. Sia l’avvocato sia Luigi Manconi hanno spiegato di essersi limitati a esercitare il diritto di critica sulla decisione della Cassazione di rigettare il ricorso confermando l’applicazione del 41bis. Entrambi non sono sembrati scossi dall’iniziativa della corrente di Magistratura Indipendente che ha chiesto al Csm di aprire una pratica a tutela dei giudici della Suprema Corte che avrebbero subito un tentativo di delegittimazione. Manconi ha polemizzato con il ministro Nordio “che non ha risposto al nostro interrogativo sul perché il 22 dicembre scorso erano stati cambiati i detenuti della socialità passando da un gruppo di persone ritenute inoffensive a tre boss mafiosi con inizio delle intercettazioni. Nordio ha solo precisato che il cambio avvenne il 24 dicembre e non il giorno 22”, ha concluso Manconi. Per oggi gli anarchici in solidarietà con Cospito hanno organizzato un presidio di solidarietà davanti alla sede di Fratelli d’Italia in corso Buenos Aires a Milano. Gli anarchici accusano Fdi di essere responsabile non solo della “condanna a morte di Cospito” ma delle centinaia di morti che lo Stato provoca ogni giorno nelle guerre imperialiste, sui luoghi di lavoro e nel mar Mediterraneo. “No alla separazione delle carriere, chi è stato giudice cerca anche le prove favorevoli all’accusato” di Liana Milella La Repubblica, 2 marzo 2023 Intervista a Margherita Cassano, prima presidente donna della Cassazione, che ricorda il padre magistrato antiterrorismo e i colleghi Vigna e Chelazzi. I femminicidi, “le leggi necessarie già ci sono”. Il calo di consensi della magistratura? “La giustizia non vive di applausi, ma della corretta applicazione delle regole proprie di uno stato di diritto”. La separazione delle carriere? “La sensibilità sulla formazione della prova è fondamentale per impostare indagini complete anche con la ricerca di elementi favorevoli alla persona accusata”. Eccola, Margherita Cassano, ancora nella sua stanza di presidente aggiunto della Corte di Cassazione. La lascerà tra quattro giorni per quella di prima presidente. C’è un via vai di colleghi che le fanno gli auguri. E il telefono squilla di continuo. Questa con Repubblica è la sua prima intervista che rilascia dal momento - erano le 11 in punto - della sua elezione all’unanimità da parte del Csm, con gli auguri di Sergio Mattarella “Avverto tutta la grande responsabilità che deriva da questo incarico. Non lo considero un traguardo individuale, ma collettivo, reso possibile dall’impegno di quanti, da tempo, si battono per l’effettiva parità di donne e uomini in tutti gli ambiti. In questo momento il mio pensiero va alle otto colleghe che nel 1965 vinsero per la prima volta il concorso in magistratura dopo che nel 1963 il Parlamento aveva approvato la legge che consentiva loro l’accesso. Intervenuta a distanza di tre anni dalla dichiarazione di incostituzionalità da parte della Consulta nel 1960, della legge che non consentiva l’accesso delle donne alla magistratura e ad altri uffici pubblici”. Marta Cartabia, nel 2019, ha rotto quello che lei chiamò “il tetto di cristallo” che fino a quel momento aveva impedito a una donna di diventare presidente della Consulta. Adesso anche lei raggiunge una vetta importante. Giusto mentre una donna, Giorgia Meloni, è la premier italiana e un’altra donna, Elly Schlein, diventa segretaria del Pd. È finita per sempre la “seconda fila” per le donne? “In questo momento innanzitutto vorrei ricordare che abbiamo donne presenti anche in altri ambiti, Silvana Sciarra presidente della Corte costituzionale, l’avvocata Maria Masi al vertice del Consiglio nazionale forense, l’avvocata Gabriella Palmieri Sandulli a capo dell’Avvocatura dello Stato. Tutte presenze importanti al pari di tante altre, espressione di un mutamento culturale in atto nella nostra società che si arricchisce del contributo di uomini e di donne le cui diverse sensibilità possono favorire una più efficace dialettica, il fondamento di ogni democrazia” Però i femminicidi e le violenze vanno avanti. Ben 125 omicidi l’anno scorso. Quindi sul fronte della violenza dei maschi contro le donne non è cambiato nulla... “Il problema della violenza contro le donne è innanzitutto culturale e richiede l’impegno di tutte le formazioni intermedie, di cui parla proprio l’articolo 2 della nostra Costituzione, a partire dalla famiglia, dalla scuola, dai circoli culturali, e da tutti quei luoghi in cui si esprime la nostra socialità. Di fronte a manifestazioni così gravi e odiose di violenza a danno delle donne l’azione della magistratura interviene nelle situazioni patologiche in cui non hanno funzionato tutti gli strumenti di prevenzione, in primo luogo culturale, che devono doverosamente operare”. Quindi non è solo una questione di leggi più restrittive? “Il nostro ordinamento può già contare su un impianto normativo molto ricco, che recepisce le varie convenzioni e le direttive emanate. Si tratta di dare piena effettività alle leggi che già esistono, attraverso gli strumenti in atto, la specializzazione dei magistrati requirenti e delle forze dell’ordine, l’adozione di protocolli per assicurare la tempestività dell’intervento, il rispetto dei criteri di priorità per celebrare in dibattimento questi processi, secondo le regole dello Stato di diritto. Magistratura e forze dell’ordine non possono farcela da sole. Il loro intervento dev’essere preceduto da un’efficace azione di prevenzione”. In Italia il consenso verso la magistratura cala di anno in anno. Siamo molto lontani dagli applausi di Mani pulite. C’è una via per interrompere questa caduta ormai verticale seguendo i moniti di Mattarella? “Nella mia esperienza, la stragrande maggioranza dei magistrati italiani fa il loro lavoro con assoluta dedizione e serietà. I rapporti tra cittadini e istituzioni, quella giudiziaria compresa, vivono dell’impegno quotidiano nelle aule di giustizia, dove i giudici devono non solo applicare le norme, ma ascoltare le persone, rispettandole in una dialettica proficua con l’avvocatura, altro protagonista ineliminabile della giurisdizione. La giustizia non vive di applausi, ma si alimenta della razionalità e della corretta applicazione delle regole proprie di uno stato di diritto”. A Piacenza il quotidiano “la Libertà” ha pubblicato in prima pagina la foto di otto pensionati che sono tornati a palazzo di giustizia perché manca il personale. È mai possibile che la giustizia funzioni così, con i tribunali che cadono a pezzi? “Quella testimonianza è bellissima perché dimostra l’attaccamento alle istituzioni ed è proprio quello che io stessa ho sperimentato a Firenze quando, in Corte di Appello, potevo contare su un gruppo di 20 volontari provenienti da forze dell’ordine in congedo e dalla polizia municipale. La loro presenza era il segno della continuità e della collaborazione che dev’esserci tra i magistrati, il personale amministrativo, i tirocinanti, gli addetti all’ufficio per il processo”. I tempi della giustizia purtroppo sono sempre lunghi. Cosa chiederebbe al ministro Carlo Nordio come massima urgenza da risolvere? “Innanzitutto penso che al ministro si debbano rivolgere le istituzioni attraverso i loro rappresentanti all’esito di un confronto anche con tutti gli uffici. Non credo in istanze formulate singolarmente, ma in richieste fatte dopo un’attenta verifica, prima di tutto all’interno della magistratura. Al Guardasigilli spetta, per espressa previsione costituzionale, assicurare l’organizzazione del servizio e quindi un reclutamento costante dei magistrati e del personale amministrativo, l’attenzione alla riqualificazione professionale, l’innovazione e la transizione digitale della giustizia e la vigilanza affinché gli edifici giudiziari rispettino gli standard di sicurezza richiesti dalle leggi vigenti”. Lei è stata pm ma anche giudice, cosa pensa della separazione delle carriere? “Per la formazione di un magistrato, secondo me, è fondamentale la poliedricità delle esperienze professionali sia requirenti che giudicanti. La sensibilità sulla formazione della prova è fondamentale per impostare indagini complete anche con la ricerca di elementi favorevoli alla persona accusata, in grado di rispettare la prognosi di colpevolezza richiesta dalla riforma Cartabia”. Lei è figlia di un magistrato famoso, Piero Cassano, per i suoi processi contro il terrorismo a Firenze, è stato il primo a condannare Curcio. In una situazione difficile come quella di oggi quella figura che strada le consiglia? “Mio padre ha incarnato, dal mio punto di vista di figlia, la figura del magistrato ideale per rigore morale e indipendenza di giudizio e riservatezza della sua vita. Mio padre e mia madre mi hanno sempre sollecitato ad aprirmi al mondo e ad avere una costante attenzione verso gli altri. E hanno sempre stimolato me e mia sorella Alessandra alla conoscenza e soprattutto a una grande attenzione verso gli altri nella consapevolezza che ciascuno di noi cresce e matura grazie al proprio prossimo”. Lei cita sempre una frase che era solito ripeterle suo padre. Ce la ricorda? “Era questa: “Lascia che siano le cose a venire incontro a te, non essere tu a cercarle”. L’insegnamento che ho tratto da qui è l’attenzione ai segni dell’esistenza per capire qual è il cammino da seguire. Come diceva Machado “la strada si fa camminando”“. Quando ha deciso che voleva seguire le orme professionali di suo padre e fare la magistrata? “In realtà, l’ho scelto per caso, perché all’università avrei voluto studiare filologia classica, ma poi come tanti giovani mi sono iscritta a giurisprudenza. Grazie a un bravissimo assistente di diritto privato, Giorgio Collura, poi divenuto professore ordinario, e alle letture di ampio respiro che lui suggeriva, ho compreso il significato più profondo del diritto e ho poi seguito questa strada con convinzione” Firenze, gli anni di Vigna e Chelazzi. Come hanno segnato la sua vita personale e professionale? “Sono stati due maestri ineguagliabili per la loro razionalità, la passione per il proprio lavoro, la grande cultura. Vigna era laureato in filosofia prima che in legge, e Chelazzi è stato l’antesignano del tema della prova scientifica nel processo penale”. Gli anni duri delle indagini di mafia. Lei era a Firenze nel 1993 quando esplose la bomba a via dei Georgofili? “Sì, c’ero. Ricordo benissimo quella notte perché sentii perfettamente l’esplosione e il giorno dopo ci rendemmo conto, andando sul luogo, del disastro e della tragedia. Non possiamo dimenticare che Chelazzi ha dato la sua vita per riuscire a ricostruire la dinamica dell’attentato spendendo tutte le sue forze fino al sacrifico personale”. Cosa fa quando non lavora? “Ho molti interessi e sono convinta che un bravo magistrato sia quello che coltiva la conoscenza del mondo anche in altre forme. Amo la lettura, vado molto al cinema e ho una grande passione per la musica classica. Finché è stato possibile ho viaggiato in varie parti del mondo e questo mi è servito per capirlo meglio”. Ha visto come alcune donne stiano lasciando incarichi di prestigio per rivalutare il tempo per sé e per gli affetti? Ha mai pensato di farlo? “Sì, ci ho pensato durante il periodo in cui ho assistito mia madre che è mancata nel dicembre scorso, perché in quei momenti ci si rende conto di quanto possa essere difficile conciliare il lavoro con gli affetti”. Addio alla legge Severino? Forza Italia ci prova di Tiziana Maiolo Il Riformista, 2 marzo 2023 Sono risorti sotto forma di proposte di legge due quesiti del referendum 2022, il secondo sulla custodia cautelare in carcere. Sono indigesti a FdI, ma potrebbero trovare un’altra maggioranza. Non servirà più a Silvio Berlusconi, come continuano a pensare quelli del Fatto, ma la “legge Severino” sarà modificata, se non del tutto abrogata, come prevedeva il quesito referendario di un anno fa. Ci prova Forza Italia, con una prima proposta su cui non sarà difficile trovare una maggioranza in Parlamento. Così, per iniziativa del deputato Pietro Pittalis, avvocato penalista sardo, sono risorti sotto forma di proposte di legge alcuni quesiti del giugno 2022 come quello sulla Legge Severino e l’altro sulla custodia cautelare in carcere. Non facili da far deglutire all’intera compagine di governo e della maggioranza di destra-centro, perché erano proprio i due punti più indigesti a Fratelli d’Italia e alla stessa premier Giorgia Meloni. Ma la perseveranza unita a una certa capacità del procedere un passo dopo l’altro, la politica del “gutta cavat lapidem”, potrebbero portare il Parlamento un passo avanti rispetto alle iniziative del governo. E ricordare al ministro Nordio di esser stato a capo del comitato referendario del 2022. Ed ecco la prima iniziativa del deputato Pittalis, la goccia che si candida a scavare la pietra dura della “Legge Severino”, quella norma del 2012 che unita alla “spazza-corrotti” entrata in vigore nel 2020, è una sorta di tenaglia soffocante sulla politica e la prima nemica dello Stato di diritto. La proposta ha un’unica finalità, quella di riequilibrare la sorte degli amministratori locali rispetto a quella di parlamentari nazionali o europei. Non interviene sull’altro punto ostico, la retroattività, quello che ha reso questa legge come la più odiata dall’intero mondo della politica, di qualunque orientamento. Del resto basta guardare ai risultati dei processi svoltisi nei dieci anni che stanno alle nostre spalle. Il 97%, ricorda Pittalis, è finito con assoluzioni. E vogliamo considerare anche i tanti processi ad amministratori pubblici messi su un binario morto perché il pubblico ministero si sentirebbe sminuito nella propria virilità nel certificare il fallimento dell’ipotesi accusatoria? Dovrebbero essere sufficienti questi due dati per dichiarare fallito il decreto legislativo del 31 dicembre 2012 numero 235 che ha introdotto in funzione “anticorruzione” queste norme dalla cui applicazione non è sortito certo un brillante risultato. In particolare gli articoli 8 e 11 della norma che prevedono la sospensione automatica dall’incarico gli amministratori regionali e locali condannati con sentenze non definitive. Innocenti quindi, come dice la Costituzione. La proposta di Forza Italia prevede l’equiparazione tra la sorte dei parlamentari e quella di sindaci, assessori e presidenti regionali, che potranno in questo modo continuare la propria attività fino alla sentenza definitiva, proprio come succede a senatori e deputati. Si è discusso a lungo, in questi dieci anni, anche sull’aderenza della norma all’articolo 27 della Costituzione sulla presunzione di innocenza. Ma in due diverse occasioni, la Consulta ha respinto il ricorso, confermando l’aderenza della norma alla legge delle leggi. Il primo caso è stato quello dell’ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris, condannato in primo grado nel 2014 a un anno e tre mesi per abuso d’ufficio. L’ex magistrato contestava in particolare l’applicazione retroattiva della norma sulla base del principio che nessuno possa essere perseguito sulla base di una regola introdotta successivamente alla commissione del fatto. Argomento che era stato avanzato da diversi costituzionalisti anche nel caso clamoroso dell’espulsione di Silvio Berlusconi dal Senato nel 2013 in seguito alla condanna definitiva per frode fiscale. I giudici dell’Alta Corte avevano obiettato che la sospensione degli amministratori locali prevista dalla Legge Severino non era una sanzione penale (quindi irretroattiva) ma di tipo civile, a tutela dell’ordine pubblico. A proposito del quale occorre però osservare che privare provvisoriamente una comunità dl proprio sindaco o assessore o presidente regionale non è proprio un bel modo per tutelare i cittadini. Senza contare il vero supplizio personale e politico cui viene sottoposto colui che sarà in seguito quasi sicuramente prosciolto, come dicono le statistiche. Soprattutto quando il reato contestato sia quell’abuso d’ufficio su cui il ministro Nordio ha spergiurato il proprio intervento come primo di ogni altro. Il caso De Magistris fu chiuso dalla stessa magistratura, che assolse l’ex sindaco proprio il giorno successivo a quello del rigetto del ricorso da parte della Corte Costituzionale. Uno dei tanti casi. Era poi partito alla carica il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, condannato in primo grado per il consueto abuso d’ufficio, che era entrato con decisione nell’altro punto contestato, quello sulla disparità di trattamento tra legislatori nazionali e regionali. In questo caso la decisione della Consulta era arrivata addirittura dopo l’assoluzione di De Luca, ma la risposta era stata comunque negativa. E anche poco soddisfacente nella motivazione. I giudici si erano infatti limitati a constatare da diversità di status e di funzioni tra i differenti ruoli. E non avevano considerato l’inutilità vessatoria di una norma che si è mostrata da una parte dannosa in quanto fallimentare, e nell’altra, quella sui parlamentari, inutile in quanto fotocopia dell’interdizione, e allo stesso tempo vessatoria con l’automatismo della sua applicazione che toglie potere discrezionale al giudice. La proposta di legge del deputato Petro Pittalis, se approvata, sanerà almeno il primo vulnus di una legge che porta anche le stimmate di essere stata prodotto di un governo tecnico, quello presieduto da Mario Monti, nato e morto tra le polemiche e le ingiustizie. Niente carcere per i giornalisti: la proposta di Fratelli d’Italia di Giacomo Puletti Il Dubbio, 2 marzo 2023 Alberto Balboni presenta in Senato il disegno di legge che punta a riformare la diffamazione a mezzo stampa. Il reato di diffamazione a mezzo stampa non sarà più punibile con pena detentiva, ma esclusivamente con pena pecuniaria. È l’obiettivo a cui puntano i firmatari del disegno di legge presentato in Senato che punta a riformare la diffamazione a mezzo stampa attraverso alcune modifiche alla legge stampa 47 del 1948. Primo firmatario è Alberto Balboni, senatore di Fratelli d’Italia e presidente della commissione Affari costituzionali di palazzo Madama, ma il disegno di legge è lo stesso già presentato nella scorsa legislatura dall’allora senatore Giacomo Caliendo, di Forza Italia. Il ddl oltre alla carta stampata (libri compresi) prende in considerazione radio e tv, Internet e pubblicazioni on line. Chi scrive non rischierà più il carcere, ma viene assicurata “una celere tutela” delle persone che si ritengono offese da qualsiasi “mezzo di diffusione”, fermo restando il diritto di cronaca e il segreto professionale dei giornalisti sulla fonte delle notizie. Viene quindi prevista la riscrittura dell’articolo 8 - nella parte che riguardava rettifiche e smentite - per consentire a chiunque, senza lungaggini processuali, di ripristinare la propria dignità violata da immagini o attribuzioni di “atti, pensieri o affermazioni” che si ritengono ingiuriose o diffamatorie. Ci saranno nuove procedure sui tempi e i meccanismi della “Rettifica dell’interessato”, sulle sanzioni in caso di inadempienza (da 5.165 euro a dieci volte tanto, che passa da un minimo di 10mila euro a 50mila se con fatto determinato) e sulle procedure di conciliazione. Altri elementi riguardano i siti internet e i motori di ricerca, i diritti degli eredi a proseguire le vertenze in caso di morte dell’interessato, la condanna del querelante - se ha torto - a pagare una somma da 2mila a 10mila euro. Per la diffamazione sarà competente “il giudice del luogo di residenza della persona offesa”. Il disegno di legge consta di sette articoli e contiene le linee guida per innovare, integrare e abolire la precedente normativa. Per Balboni la norma incide “su un principio fondamentale come la libertà di stampa” mentre per Lucio Malan, capogruppo di Fdi in Senato e secondo firmatario del ddl, si tratta di “un’iniziativa appropriata” visto che “l’Italia è al 58esimo posto nella classifica sulla libertà di stampa proprio perché in teoria la legge vigente prevede ancora la possibilità del carcere per i giornalisti”. Ora si attendono le audizioni, che coinvolgeranno l’Ordine dei giornalisti, la Federazione nazionale della stampa italiana e i sindacati, ed eventuali emendamenti. “L’obiettivo è approvarla con una maggioranza trasversale”, ha dichiarato Balboni. Incarcerato e assolto dopo cinque anni. Il calvario dell’ex giudice Perillo di Ermes Antonucci Il Foglio, 2 marzo 2023 L’ex magistrato Gerardo Perillo racconta il caso di malagiustizia di cui è stato vittima. Otto mesi di custodia cautelare, quattro anni di processo, poi l’assoluzione. “Necessaria una riflessione sullo stato della giustizia italiana”, dice. “È finito un incubo, ma questa mia vicenda dovrebbe portare a quale riflessione su come funziona la giustizia italiana. Per cinque anni sono stato trattato come un pericoloso criminale”. Così, intervistato dal Foglio, l’ex giudice Gerardo Perillo, commenta l’assoluzione ottenuta la scorsa settimana dal tribunale di Monza dalle accuse di associazione a delinquere finalizzata a reati tributari e bancarotta fraudolenta. Perillo, originario della Campania, è stato magistrato per 33 anni, di cui 28 trascorsi proprio al tribunale di Monza, in particolare nella sezione fallimentare. Nel corso della sua lunga e prestigiosa carriera, si è ritrovato a lavorare con toghe del calibro di Vittorio Occorsio e Giovanni Falcone. Mai avrebbe immaginato che, una volta andato in pensione nel 2007, ben presto si sarebbe ritrovato vittima di un incredibile caso di malagiustizia. “La mattina del 21 maggio 2018 sono arrestato da quattro sottufficiali della Guardia di Finanza, neanche fossi Totò Riina”, racconta Perillo, che dopo la pensione aveva svolto l’attività di avvocato, entrando in contatto con colui che lo avrebbe trascinato nell’”incubo”: il costruttore Giuseppe Malaspina, a capo di un impero immobiliare dal valore di centinaia di milioni, poi fallito. “Nel 2014 Malaspina mi chiese di analizzare la situazione finanziaria delle sue società - spiega Perillo - Elaborai una relazione in cui elencavo tutte le possibilità di risoluzione dei problemi. Soltanto in una riunione successiva, venni informato che alcune società del gruppo avevano ceduto dei crediti a un corrispettivo inferiore al loro reale valore. Appena lo appresi commentai che così si rischiava anche il penale”. Nonostante le intercettazioni dimostrassero l’estraneità di Perillo, l’ex magistrato venne arrestato con l’accusa di aver istigato e avallato la cessione dei crediti. “Mi sono ritrovato nella posizione di una persona che viene informata di circostanze già avvenute, ma che viene accusata di aver ‘istigato’ e ‘avallato’. Tra l’altro due concetti che anche in termini giuridici sono tra loro in contraddizione”. A causa dell’inchiesta, Perillo subì l’onta di trascorrere 50 giorni in carcere e altri sei mesi agli arresti domiciliari. “Può immaginare come si può sentire uno che per tutta la vita ha fatto il magistrato a stare in carcere. È stata una situazione abnorme, folle”, confida l’ex giudice. C’è un episodio particolare, però, che ha segnato la detenzione di Perillo: “Mentre gli altri soggetti coimputati nello stesso procedimento vennero ascoltati per l’interrogatorio di garanzia dal gip in carcere, io venni portato in manette nel tribunale dove avevo esercitato per ventotto anni. Fu un’umiliazione”. A tutto ciò si è aggiunto un processo di primo grado durato la bellezza di quattro anni. “Avevo chiesto di essere giudicato con rito immediato, ma ciò, pur essendomi stato formalmente concesso, mi è stato in concreto impedito perché il mio giudizio immediato è stato fissato per lo stesso giorno e innanzi allo stesso collegio degli altri coimputati, comportando la riunione dei due processi. Così, io mi sono dovuto sorbire quattro anni di dibattimento, nonostante la mia posizione avrebbe potuto essere chiarita nell’arco di qualche mese”, dice Perillo. Pochi giorni fa per Perillo, difeso dagli avvocati Giovanni Santi Alessandrello e Maurizio Bono, è arrivata l’assoluzione piena (la procura di Monza aveva chiesto una condanna a 5 anni e 4 mesi di reclusione). Inevitabile per l’ex magistrato una riflessione sui mali della giustizia italiana: “Mi risulta che ogni giorno in Italia tre persone vengono arrestate e poi assolte. Parliamo di più di mille persone all’anno. Mi risulta anche che oltre la metà dei processi si conclude con l’assoluzione. Tutto ciò dovrebbe indurre a porci qualche domanda sullo stato della giustizia. E parlo da cittadino, non da arrestato, imputato e assolto”. Testate online, la richiesta inevasa di aggiornare la notizia fa scattare il risarcimento di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2023 La Cassazione, sentenza n. 6116 depositata ieri, detta le regole per il risarcimento del danno in caso di mancata rimozione, da un giornale online, di una notizia non aggiornata relativa ad un procedimento penale. Una notizia, in ipotesi, causa di possibili danni reputazionali per la persona citata. Per la Terza sezione civile, che su questo afferma un principio di diritto, deve ritenersi che “la persistenza nel sito web di una testata giornalistica della risalente notizia del coinvolgimento di un soggetto in un procedimento penale - pubblicata nell’esercizio legittimo del diritto di cronaca, ma non aggiornata con i dati relativi all’esito di tale procedimento - non integra, di per sé, un illecito idoneo a generare una pretesa risarcitoria”. “Tuttavia - prosegue l’arresto della suprema Corte -, il soggetto cui la notizia si riferisce ha diritto ad attivarsi per chiederne l’aggiornamento o la rimozione, con la conseguenza che l’ingiustificato rifiuto o ritardo da parte del titolare del sito è idoneo a comportare il risarcimento del danno patito successivamente alla richiesta (fermo l’onere di allegazione e prova del pregiudizio da parte dell’interessato)”. Il caso era quello di un uomo oggetto di un articolo da parte di una testata locale di un grande gruppo editoriale in cui si riportava il suo coinvolgimento in un procedimento penale senza però poi aggiungere che egli ne era uscito “per non aver commesso il fatto”. Proposto ricorso per la rimozione della notizia e per il risarcimento i giudici di merito lo avevano respinto dichiarando la cessata materia del contendere in quanto l’articolo, a seguito della richiesta dell’interessato, era sto rimosso. Per la Corte di appello di Trieste, la testata giornalistica si era “attivata velocemente per assicurare l’eliminazione dell’articolo, oltreché per pubblicare un ulteriore articolo avente ad oggetto le sentenze assolutorie”. Contro questa decisione, il ricorrente in Cassazione ha lamentato che la decisione non aveva statuito nulla circa il risarcimento richiesto per la pubblica esposizione sul web durata un decennio di una notizia non aggiornata. Per la Cassazione la questione è quella della configurabilità o meno di una lesione della reputazione e di una correlata pretesa risarcitoria a seguito della permanenza nel sito web di una testata giornalistica di una notizia vera, ma ‘datata’ e non aggiornata. Ebbene, per il Collegio, da una parte, non si può affermare tout court e in termini generali un obbligo di costante aggiornamento della notizia o di rimozione della stessa una volta che sia trascorso un determinato lasso di tempo (di cui non sarebbe neppure agevole una predeterminazione generalizzata), dato che ciò imporrebbe un onere estremamente gravoso e pressoché impossibile da rispettare a carico delle testate giornalistiche titolari dei siti web, al quale potrebbe non corrispondere un concreto interesse dei soggetti cui si riferiscono le notizie. Dall’altra, però, “deve riconoscersi alla persona interessata dalla persistenza di una pubblicazione che reputi a sé pregiudizievole il diritto di tutelare la propria reputazione e di richiedere l’aggiornamento del sito o la rimozione della notizia, con la conseguenza che, una volta che sia stata formulata una siffatta richiesta, il rifiuto ingiustificato di aggiornamento o rimozione risulta idoneo a integrare una condotta illecita tale da giustificare il risarcimento del danno prodottosi a partire dalla richiesta di aggiornamento/rimozione (danno che ovviamente va allegato e provato, anche in via presuntiva)”. Del resto, una soluzione del genere, prosegue il ragionamento, “realizza un ragionevole bilanciamento dei contrapposti interessi” e si pone in linea di continuità con quanto già stabilito (Cass. n. 5505/2012) circa la possibilità/necessità di “compartecipazione dell’interessato nell’utilizzazione dei propri dati personali ... ovvero di ingerirsi al riguardo, chiedendone la cancellazione, la trasformazione, il blocco, ovvero la rettificazione, l’aggiornamento, l’integrazione”. In tal senso, ricostruisce la Corte, orientano anche l’articolo 7 Dlgs 152/2006 (secondo cui l’interessato “ha diritto di ottenere” l’aggiornamento o la cancellazione) e l’articolo 17 Regolamento UE 679/2016 (che fa parimenti riferimento al diritto dell’interessato a ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati che lo riguardano, cui si correla il dovere del secondo di provvedervi senza ingiustificato ritardo). Entrambe le norme, dunque, “fanno dipendere dall’iniziativa dell’interessato il dovere del titolare del trattamento di attivarsi per la modifica del dato e mal si prestano a sostenere l’affermazione di un dovere dell’anzidetto titolare (sanzionato a livello risarcitorio) di procedere alla modifica di propria iniziativa”. Trentino Alto Adige. Giustizia, al via il tavolo tecnico tra Governo, Provincia e Regione iltquotidiano.it, 2 marzo 2023 Primo nodo i numeri del carcere di Spini di Gardolo. Nel penitenziario di Trento Nord ci sono troppi reclusi, mentre mancano agenti penitenziari. Affrontato anche il tema della delega del personale della giustizia amministrativa. È stato inaugurato oggi al dicastero di via Arenula il tavolo tecnico tra il Ministero della Giustizia e i rappresentanti della Provincia autonoma di Trento e della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol. Al centro del confronto, nella prima riunione del Tavolo, la questione relativa al personale e al numero dei reclusi presso la Casa Circondariale Spini di Gardolo e la delega di funzioni riguardanti l’attività amministrativa e organizzativa di supporto agli uffici giudiziari. “È stato un incontro positivo - ha commentato al termine il presidente Maurizio Fugatti - Ci auguriamo che il lavoro del tavolo tecnico porti al rispetto degli accordi da parte del ministero di Grazia e Giustizia sul numero di detenuti e di guardie carcerarie che devono essere presenti al carcere Spini di Gardolo. Inoltre contiamo di trovare un accordo anche sulla delega alla giustizia in capo alla Regione, un ambito per il quale ogni anno si registra una maggiore spesa rispetto a quanto previsto dagli accordi intrapresi con lo Stato. Già la prossima settimana ci sarà un nuovo colloquio tra le parti. L’obiettivo è dare risposte quanto prima”. Alla prima riunione del tavolo tecnico erano presenti, oltre al presidente Fugatti, il sottosegretario Andrea Ostellari, il capo di gabinetto del Ministero Alberto Rizzo, il direttore generale dei detenuti del Dap Gianfranco De Gesu, il segretario generale della Regione Michael Mayr, il capo di gabinetto della Regione Marcello Torregrossa e la dirigente del dipartimento affari costituzionali della Provincia Valeria Placidi. Lazio. “Salute mentale e carcere”, se ne parla all’Istituto regionale di studi giuridici Jemolo consiglio.regione.lazio.it, 2 marzo 2023 Il Garante dei detenuti della Regione Lazio, Anastasìa, coordina i lavori dell’evento che si svolge oggi a Roma. “La sacrosanta chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari ha evidenziato i problemi del rapporto tra giustizia penale e malattia mentale. Problemi che non si risolvono facendo delle Rems dei piccoli Opg, ma ripensando l’intero sistema dei servizi di salute mentale, in carcere e sul territorio. Di questo discuteremo domani con autorevoli interlocutori della giustizia e della sanità in un incontro pubblico a cui parteciperanno garanti dei detenuti giunti a Roma da tutt’Italia, in vista dell’assemblea della Conferenza dei Garanti territoriali che si terrà venerdì a Palazzo Valentini”. Così Stefano Anastasìa, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio e Portavoce della Conferenza dei garanti territoriali, nell’annunciare l’incontro che si svolgerà domani, giovedì 2 marzo, alle ore 17,30 all’Istituto regionale di studi giuridici del Lazio A. C. Jemolo, in viale Giulio Cesare 31 a Roma. La discussione inizierà con la presentazione del volume “Salute mentale e carcere” (Aracne 2022), a cura di Alberto Sbardella, dirigente dell’Unità operativa di Salute mentale presso il Polo penitenziario di Rebibbia, che raccoglie i contributi di 29 esperti - psichiatri, psicologi, dirigenti sanitari e dell’amministrazione penitenziaria, docenti universitari. Prenderanno parte all’incontro: Giuseppe Belcastro, vicepresidente della Camera penale di Roma; Massimo Cozza, direttore del Dipartimento di salute mentale della Asl Rm2; Pierpaolo D’Andria, Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per il Lazio, l’Abruzzo, il Molise, la Toscana e l’Umbria; Franco Maisto, Garante delle persone private della libertà del Comune di Milano; Marcella Trovato, magistrata presso il Tribunale di sorveglianza di Roma. Il Garante Anastasìa coordinerà i lavori. Padova. Musica e palloncini: un addio di speranza di Nicola Benvenuti Il Gazzettino, 2 marzo 2023 Si sono celebrati i funerali di Francesco Tortorelli, deceduto a 9 anni a causa della malattia: i genitori hanno chiesto fosse una giornata di festa. La celebrazione è stata trasmessa in streaming nel carcere Due Palazzi di Padova, dove il papà Giuseppe lavora, alle dipendenze della cooperativa sociale Giotto. Silenzio ed emozione, ma anche canti di gioia, lacrime e sorrisi, dolore, speranza e solidarietà: tutto per ricordare Francesco ed accompagnarlo all’ultimo incontro con il mondo terreno, pensandolo già beato in quello celeste, in un clima di festa. Così sono stati celebrati i funerali di Francesco Tortorelli, il piccolo di 9 anni deceduto a causa di una malattia oncologica. In tanti ieri si sono fatti vicini ai genitori Giuseppe e Sonia Negrisolo, che nei quattro anni nei quali si è manifestato il male sono sempre stati accanto al loro piccolo supportati da molte persone, tutti con la segreta speranza che potesse essere debellato. All’arrivo della piccola bara bianca, in un pomeriggio di sole, nonostante un vento di bora freddo sferzasse i volti, un arco di palloncini bianchi e verdi, il colore amato da Francesco, i disegni e i manifesti con i coriandoli lanciati dai suoi compagni di classe hanno quasi dato l’idea che non ci fosse un funerale, ma una festa, e nel presbiterio sembrava davvero di essere in un giardino, un piccolo paradiso terrestre, con tanti fiori bianchi, rose e margherite. Presenti in forma ufficiale anche i sindaci di Albignasego Filippo Giacinti, il bimbo infatti frequentava la quarta classe della primaria di San Giacomo, con il collega di Casalserugo Matteo Cecchinato, che nella mattinata era stato a far visita ai genitori. Anche il vescovo Claudio Cipolla, che aveva conosciuto il piccolo, ha voluto essere presente con una lettera che don Federico Fortin, il parroco di Casalserugo, ha letto all’inizio della sua omelia. “La notizia della morte del piccolo Francesco è sconvolgente per tutti. Rivedere la fotografia dell’inaugurazione del patronato, con Francesco che con me taglia il nastro, ricordare che ero informato della lotta che stava vivendo e adesso vedere che non siamo stati esauditi nelle nostre preghiere, soprattutto quelle dei genitori e tue caro don Federico, è motivo di grande dolore come se noi stessi non fossimo stati ascoltati” scrive il vescovo. E prosegue la missiva di monsignor Cipolla: “Non so cosa dire, non è tempo di insegnamenti, ma di silenzio virgola di vicinanza discreta virgola di umiltà di fronte ai misteri della vita punto nonostante tutto, con il cuore sulla croce come Gesù, ci affidiamo al padre l’unico di cui aver fiducia in questa circostanza anche se non capiamo prego con voi per la famiglia perché abbiano forza”. Le parole del vescovo sono state ascoltate in un silenzio profondo, all’interno e all’esterno della chiesa, dove era assiepata molta gente, oltre ovviamente a tanti bambini, compagni di scuola e amici di Francesco. Il parroco don Federico Fortin ha ripreso il ricordo dell’inaugurazione del centro parrocchiale con il piccolo a tagliare il nastro: “Oggi posso dire che siamo stati onorati noi della tua presenza e un grazie a mamma Sonia e papà Beppe, che chiedendo che oggi fosse una giornata di festa, ci aiutate ad intravvedere un barlume di speranza”. E ha toccato le corde dei presenti quando ha ricordato che “Arriva in Paradiso un esperto di draghi, di Pokemon e mostri da combattere, di costruzioni in lego spaventose. È stato sconfitto il drago più malefico?” si è chiesto don Federico, riprendendo la prima lettura tratta dall’Apocalisse. “Ai nostri occhi umani Francesco ha perso la battaglia contro il male, come Gesù sulla croce, ma proprio inghiottendo Cristo, la morte è stata distrutta da dentro, con una esplosione che ora fa gridare di gioia il nostro Francesco”, ha aggiunto don Fortin. E la gioia che aveva accompagnato l’entrata del feretro in chiesa accompagnata dalle note di Mr Rain con la canzone sanremese Supereroe, ne ha accolto, tra gli applausi anche l’uscita, mentre i palloncini venivano lanciati in cielo e i compagni ed amici di Francesco si stringevano in un grande abbraccio ai genitori Sonia e Beppe, quasi a non volerli lasciare andare. “Lascia a tutti coloro che lo hanno conosciuto un dono grandissimo” Tanti i ricordi, parla la preside Silvoni: “Ha fatto dei veri miracoli per tutti perché ha creato grande aggregazione”. Tanti i saluti di commiato e le testimonianze portate al termine della celebrazione: la terapista che ha seguito Francesco del lungo calvario della malattia, i colleghi della cooperativa Giotto, dove lavora papà Beppe, che opera nel carcere Due Palazzi, dove il bimbo era conosciuto perché i detenuti da tempo pregavano per la sua salute. Anche i due monaci del santuario di Nostra Signora del Pilastrello di Lendinara, padre Luca e Giovanni, amici di famiglia, che hanno concelebrato la messa, insieme all’ex parroco di Casalserugo don Piero Cervaro. I genitori Sonia e Giuseppe hanno affidato ad un amico un ringraziamento per quanti, medici, personale sanitario, volontari, si sono adoperati per le cure, l’assistenza e l’aiuto a Francesco nei lunghi anni della malattia, tra remissioni e recidive del male. A tutti hanno dato appuntamento per il prossimo 8 marzo, giorno del compleanno di Francesco, che avrebbe compiuto 10 anni. In quell’occasione ancora una volta la chiesa e il patronato, la comunità parrocchiale di Casalserugo faranno sentire a mamma e papà, che hanno perso l’unico figlio, calore, affetto e vicinanza. La celebrazione trasmessa in carcere e 1.000 copie del libro di poesie di classe La celebrazione del funerale di Francesco è stata trasmessa in streaming nel carcere Due Palazzi di Padova, dove il papà Giuseppe lavora, alle dipendenze della cooperativa sociale Giotto. La stessa, ha deciso di stampare mille copie del libretto “Una frase gentile tira l’altra”, raccolta di poesie della classe quarta, frequentata dal bambino che ne aveva scritta una: “Questa classe è un sole che splende e arde, ma ci sono cose che fanno sprofondare il sole in un baratro profondo. Se tutti siam felici però, il sole esce dalla nuvola e ritorna al suo lavoro da sovrano del cielo. La felicità deve regnare in questa classe, la rabbia è da buttare”. L’amministrazione di Casalserugo ha intenzione di dedicare alla memoria di Francesco una borsa di studio e un torneo di calcio. Al termine delle esequie sono state offerte per l’associazione “Il giardino della ricerca”. Sicuramente un ruolo speciale lo hanno avuto i compagni di scuola, con le insegnanti e la dirigente scolastica Federica Silvoni che hanno seguito la famiglia Tortorelli in questi anni non facili. L’appuntamento se lo erano dati, insegnanti e genitori davanti alla scuola primaria Aldo Moro di San Giacomo di Albignasego, frequentata da Francesco: un grande lenzuolo bianco era stato appeso all’ingresso. “Camminerò a un passo da te e fermeremo il vento come dentro gli uragani, supereroi come io e te se avrai paura allora stringimi le mani, siamo invincibili vicini e ovunque andrò sarai con me, due gocce di pioggia che salvano il mondo”. Sono una parte del testo della canzone Supereroi di Mr. Rain, che è poi risuonata prima e dopo il rito funebre a Casalserugo, dove i compagni di quarta classe con i genitori e le docenti sono arrivati, portando con sé un fiore bianco e i coriandoli per dare concretezza al senso di festa chiesto da mamma e papà per l’ultimo saluto. In chiesa erano stati riservati alcuni banchi proprio per i compagni di classe, perché i piccoli volevano stare vicini fino all’ultimo al loro amico. Accanto alla bara due palloncini dei Pokemon, personaggi amatissimi da Francesco, così come il berretto di Pikachu, indossato da un amico. A supportare le insegnanti e i bambini, la psicopedagogista, ma anche la stessa dirigente scolastica dell’Istituto Comprensivo di Albignasego Federica Silvoni. “I bambini in questi giorni stanno esprimendo con le loro maestre e le famiglie il dolore in vario modo, ma c’è molta coesione in quella classe e sono consapevoli della fortuna che hanno avuto a conoscere Francesco”, spiega la dirigente. “Posso dire che Francesco in questo tempo ha fatto davvero dei miracoli, in famiglia, in parrocchia e anche a scuola facendo aggregazione: il dono che ci lascia è davvero grandissimo per chi ci ha vissuto insieme. La scuola promuoverà una raccolta fondi per la ricerca, come indicato dalla famiglia e mercoledì 8, giorno del compleanno, faremo un momento di commemorazione e festa a scuola” conclude commossa la preside, ricordando che al termine del funerale un pacchetto di carte dei Pokemon è stato appoggiato dai compagni sulla bara, quasi a dire “Dai Francesco continua a giocare con noi dal Paradiso”. Alba (Cn). “Anche in carcere la formazione è indispensabile” di Luca Borioni ideawebtv.it, 2 marzo 2023 Paola Ferlauto, Garante dei detenuti per il comune di Alba: “Comunicare con le competenze giuste”. Appena nominata dal sindaco Carlo Bo, la nuova Garante comunale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale di Alba è Paola Ferlauto. In questi giorni ha avviato i primi colloqui con i detenuti. Dottoressa, può spiegarci qual è il compito di un Garante? “È un compito istituzionale. Nel mio caso sono stata nominata dal Comune, ma c’è enorme collaborazione con le figure del garante regionale e nazionale. Il garante comunale agisce sul territorio, incontra detenuti più di quanto possa fare un regionale che segue tutte le carceri. Dal punto di vista normativo, il garante è quella persona che rileva se ci sono criticità o diritti lesi, di qualsiasi natura. È una figura che fa da tramite con l’esterno”. Accoglie le segnalazioni dei detenuti? Di quale genere? “Di ogni tipo. Spesso il detenuto vive in una cella due metri per tre in cui ogni problema risulta amplificato, e magari la condivide con un compagno che sconta una pena più lunga. Teniamo conto poi che spesso la scolarità è ridotta. Per il detenuto sapere che all’esterno c’è il garante che non è nemico, è qualcuno a cui esporre le problematiche, è una prospettiva importante”. Che cosa ha capito svolgendo questo incarico? “Che quella dimensione va compresa. Ricordo un detenuto che era uscito in permesso dopo una lunghissima pena, mi colpì il fatto che non riuscisse a camminare in strada, il marciapiede per lui era troppo grande. Noi andiamo di corsa e diamo tutto per scontato, ma questa persona procedeva a tentoni contro i muri. Del resto, era entrato in carcere che si usavano le macchine da scrivere e ne era uscito trovando i computer”. Qual è oggi la condizione di chi vive in carcere? “Sono stata infermiera per 12 anni al carcere di Alba, quando fu chiuso passai in ospedale prima di fare domanda come garante. Per un recluso anche un prelievo del sangue è difficile. Noi telefoniamo al medico di famiglia per farci prescrivere un emocromo, lì devi rivolgerti al medico ma magari non lo trovi subito, la richiesta poi deve essere autorizzata dal magistrato - a parte le urgenze, ovvio - e il percorso è articolato. Per dire le difficoltà. La cosa positiva è che molti detenuti, “grazie” proprio alla permanenza in carcere, hanno imparato a leggere e scrivere. Negli istituti di pena la scolarità è fattibile. Ricordo che ad Asti due anni fa si sono diplomati dodici detenuti. Uscire con un po’ di cultura in più è importante. Negli istituti si cerca quindi di dare spazio all’area cultura e si praticano corsi. Ad Alba era rinomato quello sulla coltivazione della vite”. Com’è la situazione all’interno del “Giuseppe Montalto”? “Ho avviato i colloqui in questi giorni. Qui ci sono gli internati: hanno scontato la pena ma vista la pericolosità sociale, il giudice ha aggiunto un periodo di detenzione in più. Ad Alba ce ne sono circa 40, non tantissimi ma comunque da seguire, puntando sulla rieducazione e sulla possibilità di imparare un mestiere. La presenza di detenuti con diverse problematiche psichiatriche e personali richiede che gli agenti di polizia giudiziaria siano maggiormente formati. Primo, perché la formazione in tutti i campi è importante, poi perché nessuno nasce tuttologo: la questione della comunicazione con un detenuto che presenta problematiche è complessa”. Cosa ha imparato dalla sua esperienza come garante ad Asti? “Che la cosa più importante, per svolgere questa attività, è essere formati. Lo dico da professionista del settore e mi rendo conto che se non si è all’altezza del compito si deve fare un passo indietro, per onestà intellettuale”. È un problema diffuso? “A volte si pensa: vorrei diventare garante. Poi, lavorando, scopri che è difficile. In carcere, anche per un’infermiera, non è come lavorare fuori: serve una certa predisposizione. Io mi sono laureata in Infermieristica nel 2004, specializzata in criminologia e sono laureanda in Psicologia clinica. Mi sento formata, ci ho lavorato, quindi voglio dare il mio contributo. Farlo dall’esterno mi rende maggiormente libera di affrontare ogni questione. Mi gratifica l’idea di poter dare un contributo in questo contesto carcerario a volte complesso”. Qual è la principale urgenza nelle carceri? “Ora è il lavoro. Ma c’è una doppia carenza di personale nell’area trattamentale e nella polizia penitenziaria. Se mancano queste due figure, i progetti lavorativi saltano. Se io domani organizzassi corsi scolastici o professionali, se insegnassi ai detenuti come diventare pizzaioli o panificatori, avendo ottenuto un finanziamento, e venissero a mancare gli agenti che devono coordinare e sorvegliare, dovrei rinunciare a tutto. Questa carenza riguarda un po’ tutti gli istituti penitenziari. Spero che i concorsi diventino più fluidi. Perché ci sono tante persone volenterose, che vengono gratuitamente a insegnare mestieri e se una persona impara a fare le pizze, può venderle anche fuori e una volta uscito potrà esercitare quel mestiere. Ricordo l’esempio di un detenuto, nell’Albese, che aveva aperto una pizzeria ed era bravissimo”. Larino (Cb). “Noi privati di tutto, la vita dietro le sbarre così è insostenibile” primonumero.it, 2 marzo 2023 Parlano i detenuti della Sezione Z. Falegnameria, caseificio e pasticceria chiusi, possibilità di ricorrere all’art. 21 previsto dalla legge ridotta a zero, assistenza pressoché inesistente, servizi inadeguati. Undici detenuti della sezione media e alta sicurezza della Casa circondariale di Larino sottoscrivono una lettera-testimonianza nella quale spiegano che le condizioni cui sono sottoposti - questo anche dopo il trasferimento della storica direttrice Rosa La Ginestra - sono diventate insostenibili, replicando in parte anche al bilancio della garante Paola Matteo. “Noi sottoscritti detenuti, appartenenti al circuito “Z” (sezione detentiva per congiunti collaboratori media e alta sicurezza), attualmente ristretti presso la casa circondariale e reclusione di Larino, in riferimento al comunicato stampa dopo la visita della garante regionale dei diritti della persona dott. Paola Matteo teniamo a far presente che il modo in cui siamo messi in condizioni di trascorrere la nostra vita detentiva all’interno dell’Istituto non è proprio come è stata illustrata. All’interno della Casa circondariale e reclusione di Larino in generale sono presenti le seguenti problematiche, che attraverso un approfondito sopralluogo si possono riscontrare: - non c’è più la possibilità di poter lavorare presso la falegnameria, presente all’interno del carcere, perché si mantiene chiusa; - non c’è più la possibilità di poter lavorare al caseificio, nonostante sia completo di macchinari e strumenti vari, perché si mantiene chiuso; - non c’è più la possibilità di poter lavorare nella pasticceria, che si trova all’interno della struttura detentiva, perché si mantiene chiusa; - non c’è la possibilità di un lavoro che dia reinserimento ed una reale alternativa alla delinquenza una volta fuori le mura, perché gli unici posti di lavoro disponibili sono il portapacchi, l’addetto alle pulizie, il portavitto, l’addetto alla distribuzione dei generi alimentari che si acquistano nel penitenziario, e i posti di lavoro, in cucina, accessibili, come tanti dei lavori che sono stati prima elencati, solo a una cerchia molto ristretta di detenuti. All’interno del carcere sono presenti molte situazioni di detenuti che vivono in uno stato di povertà assoluta e lo si può riscontrare visualizzando i conti correnti dei singoli detenuti; non c’è la possibilità di essere seguiti in maniera efficiente dall’area educativa, perché sono presenti due soli educatori per l’intero Istituto. La struttura presenta in effetti un regime aperto (cioè che i detenuti vengono aperti dalle celle e possono stare all’interno sempre delle sezioni di appartenenza e muoversi) ma in tutto il penitenziario ci sono in effetti meno di cinque detenuti su quasi 150 che usufruiscono dell’articolo 21 e non viene data la possibilità di lavoro, ad esempio per la cura del verde ossia giardinaggio, ecc. Non in tutte le sezioni ci sono le stesse opportunità e non tutti detenuti hanno le stesse opportunità anche se esenti da rapporti disciplinari e con comportamenti esemplari. Sono presenti, d’accordo con il comunicato stampa pubblicato sul giornale, all’interno del carcere di Larino la scuola alberghiera, la scuola agraria e l’università ma sono dei residui di alcune delle opportunità che proponeva la vecchia direzione e oltretutto questi percorsi di studio non sono accessibili a tutti i reparti detentivi; c’è una situazione riguardante l’area sanitaria a dir poco disastrosa: per una visita specialistica ci sono tempi lunghissimi, per una semplice visita di controllo si aspettano giorni. Sono presenti due soli medici per l’intera popolazione detenuta e senza prescrizione medica è impossibile acquistare anche una sola scatola di integratore vitaminico, che invece in altri istituti si acquista con domandina semplice; fatta eccezione per una sezione, nelle celle detentive manca l’erogazione dell’acqua calda anche d’inverno. All’interno della sezione “Z”, nello specifico, sono presenti le seguenti problematiche: i detenuti vivono le proprie giornate potendosi spostare solo nella sezione cioè nel corridoio davanti alla cella e uscendo due ore al mattino e due ore il pomeriggio all’aria, in un cortiletto recintato con spazio molto limitato; l’unico percorso di studi accessibile a questo reparto è la scuola alberghiera ma non per tutti i detenuti, e chi ha completato il corso non ha possibilità di fare altro, ci sono due soli posti di lavoro accessibili come portavitto o come addetto alle pulizie, non ci sono possibilità come gli altri reparti di accedere all’articolo 21, anche per chi rientra nel beneficio, non ci sono le stesse possibilità di lavoro come per il resto dei detenuti, non ci sono proposte per frequentare i corsi formativi e non c’è un piano rieducativo efficace, non c’è la possibilità, anche per chi mantiene un comportamento esemplare ed esente da rapporti disciplinari, di autosostenersi economicamente attraverso un lavoro continuativo. Per chi viene raggiunto da rapporto disciplinare non esiste un piano di rieducazione attraverso un lavoro, la scuola o altro, anzi viene escluso anche dopo la punizione da tutte le attività lavorative e scolastiche e dai piani trattamentali già minimi presenti nella struttura. Le celle detentive sono sprovviste di doccia, acqua calda, giusta illuminazione ecc. È presente una sola doccia in sezione per tutti i detenuti presenti nel reparto in questione, non c’è un locale idoneo come nelle altre sezioni per poter fare attività sportiva, non ci sono adeguate attrezzature e la struttura presenta in generale delle condizioni precarie”. Catanzaro. La detenzione femminile, questa misconosciuta di Raffaele Nisticò calabriainforma.it, 2 marzo 2023 Il convegno di Fidapa con Laura Antonini presidente del tribunale di sorveglianza di Catanzaro e Rita Bernardini presidente di “Nessuno tocchi Caino”. Di cosa parliamo quando parliamo di detenzione femminile in Calabria? Di numeri ridotti, innanzitutto. Al 31 gennaio 2023 sono 25 le detenute a Castrovillari e 38 a Reggio Calabria, due delle cinquantacinque sezioni femminili distribuite nei quasi duecento istituti penitenziari italiani, essendo le carceri esclusivamente femminili solo quattro (Trani, Pozzuoli, Roma-Rebibbia e Venezia-Giudecca). Sono, le detenute in Calabria, in una percentuale, il 2,5 per cento, ancora più piccola della pur ridotta percentuale del totale della popolazione carceraria femminile, che oscilla tra i 4 e il 5 per cento. Parliamo di condannate per pene tra i tre e i cinque anni, corrispondenti nella gran parte dei casi a reati contro il patrimonio e legati alla tossicodipendenza con sostanziali venature di disagio psichiatrico, talvolta confluenti nello stesso soggetto. In sintesi provenienti dal larghissimo bacino del disagio sociale. Altro discorso per le detenute calabresi attinte da reati afferenti al 416 bis. Per loro la destinazione è direttamente fuori regione, più che altro in istituti del centro-nord, se va loro bene a Messina. In ogni modo, tutte devono scontare in partenza l’evenienza di vivere la loro detenzione in istituti pensati e gestiti al maschile. Per esigenze quantitative, essendo la popolazione carceraria maschile (oltre 50mila i detenuti a dicembre 2021) preponderante, ma anche per retaggio culturale che fino all’ottocento relegava le donne delinquenti nella minorità anche intellettuale e passibili pertanto di correzione più che di punizione. Di tutto questo, dei dati ma anche di quanto ruota intorno alla detenzione femminile, si è occupato il convengo della sezione Fidapa di Catanzaro svolto ieri sera nella Sala Concerti del Comune, introdotto dalla presidente della sezione Laura Gualtieri, con larga partecipazione della camera penale di Catanzaro, rappresentata in varie funzionalità, rispettivamente saluti, relazione e conduzione del dibattito, dal presidente Valerio Murgano, dal direttore dell’Osservatorio camerale sulle carceri Orlando Sapia e dal segretario Francesco Iacopino. Il fatto è che “le carceri occorre vederle”, diceva Piero Calamandrei, vedere e conoscere chi ci vive, chi ci lavora, e come ci si vive. Curioso che due tra gli intervenuti per porgere i saluti - ma più che salutare, tutti, compreso il nuovo presidente dell’ordine degli avvocati Vincenzo Agosto, hanno apportato veri e propri contributi al convegno - abbiano confessato di non essere mai entrati in un carcere femminile, pur avendo visitato più volte, per studio e lavoro, quelle maschili: il sindaco Nicola Fiorita e il presidente di Città Solidale padre Piero Puglisi, esponente della chiesa locale e del terzo settore. Due realtà, queste ultime, che svolgono meritorie attività in ambito territoriale che contribuiscono ad alleviare concretamente la sensazione di solitudine confessata da Laura Antonini, presidente del tribunale di sorveglianza di Catanzaro, che la prende ogni qualvolta si trova a dovere e volere applicare le pur presenti misure alternative alla detenzione che il legislatore ha introdotto, in modalità e tempi successivi, soprattutto riguardo al rapporto genitoriale delle detenute, in carcere e fuori. Attualmente nelle carceri italiane ci sono solo 17 minori a condividere l’esperienza con le mamme detenute, con tutto quanto ciò possa voler dire in termini di benessere fisico e mentale del minore. Antonini ha esplorato il bagaglio normativo di cui può servirsi il giudice dell’esecuzione nei due aspetti della vita in carcere delle detenute e degli strumenti a questo alternativi. Per il primo aspetto il giudice può fare ricorso al regolamento carcerario generale redatto dal Dipartimento ministeriale, così come al regolamento interno di cui ogni istituto è dotato, frutto di una Commissione paritetica, e anche risalire alle direttive europee in tema. Per il secondo aspetto, le misure alternative, pur presenti nei diversi dispositivi degli articoli 146 e 147 del codice penale e nei successivi ampliamenti delle possibilità offerte dal 47 ter della legge penitenziaria e dal 47 quinquies della 62/2011 e rafforzate da recenti sentenze della Corte costituzionale, di detenzione attenuata e dei domiciliari, si scontrano con la realtà oggettiva delle strutture disponibili, della prassi operativa e del tessuto sociale esistente. Ci sarebbero gli Icam, gli Istituti a custodia attenuata, ma sono cinque o sei in tutta Italia, per non parlare delle Case famiglia protette, ma son solo due, una a Roma e una a Milano. Per non dire che l’applicazione dei domiciliari, nel contesto di deprivazione materiale e sociale in cui si attua, nella maggior parte dei casi espone alla recidiva. Per questo è apparsa come salutare boccata d’ossigeno la previsione esternata da padre Puglisi dell’impegno di Città solidale nell’apertura di una o più strutture di accoglienza delle destinatarie di misure alternative, accanto a quanto già la Fondazione sta facendo nella sola Catanzaro per togliere dal circuito criminogeno una cinquantina di donne, non italiane in maggior parte. La citazione di Calamandrei è stata offerta da Rita Bernardini, presidente di “Nessuno tocchi Caino”, accompagnata nel convegno dal segretario Sergio D’Elia e dalla tesoriera Elisabetta Zamparutti. Nessuno tocchi Caino è una lega internazionale per l’abolizione della pena di morte nel mondo, ma si occupa in permanenza anche di diritti civili e delle carceri in particolare. Bernardini, già segretaria del partito radicale, considerata l’erede politica di Marco Pannella, deputata Pd nella XV legislatura, ha al suo attivo numerosi scioperi della fame e innumerevoli visite in carcere. Assomma in sé, per dirla con l’avvocato Iacopino, un vero e proprio “tesoro esponenziale”. Al numeroso e partecipe pubblico della Fidapa ha offerto episodi di vita, suoi e di donne costrette dietro le sbarre. L’ultimo posto in cui molte di esse dovrebbero stare, espressione finale e corporea di disagio sociale, disagio psichiatrico e tossicodipendenza. È in piena sintonia con il titolo del libro di Gherardo Colombo suggeritole da Iacopino: “Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla”, dedicato alla funzione criminogena che assolve in chiave di pulsione alla recidiva qualora, come avviene, non rientra nei dettami dell’articolo 27 della Costituzione nella parte in cui recita “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Difficile nell’attuale tendenza iperdetentiva segnalata da Orlando Sapia come terapia d’urto al disagio sociale montante. Difficile che la pena abbia funzione rieducativa in un clima culturale in cui prevale il desiderio di gettare le chiavi delle celle nella previsione miope che il condannato non ne esca più. Miope e fallace poiché il detenuto, prima o poi, esce. Anzi, “viene sbattuto” fuori dalla cella. Sarebbe interesse della società che il periodo di detenzione coincida con la riammissione a pieno titolo del condannato nella società. “Lo Stato di diritto - ha detto con citazione Domenico Bilotti docente di diritto ecclesiastico all’Umg, che ha tirato le conclusioni - è veramente tale se la condanna penale sostituisce la morte civile, non quando alla condanna penale segue anche la morte civile” (cit. Sergio D’Elia). Brescia. “Vai via, negretto”, offese razziste al legale in Questura di Lilina Golia Corriere della Sera, 2 marzo 2023 A insultare verbalmente l’avvocato Sall Babacar, un addetto all’accoglienza. Quel “vai via, negretto”, che brucia come una sigaretta spenta su una mano. Un’offesa a sfondo razziale uscita dalla bocca di un addetto all’accoglienza della Questura di Brescia. “Non un poliziotto - precisa l’avvocato Sall Babacar, destinatario del barbaro invito rivoltogli in via Botticelli - ma un volontario che si dovrebbe occupare di assistere chi arriva all’Ufficio Immigrazione per sbrigare pratiche e ricevere informazioni”. La vicenda ha fatto scalpore proprio per i modi a dir poco ruvidi con cui si è consumata, in un luogo che rappresenta uno dei primi contatti per chi, per i motivi più diversi, arriva da lontano nel nostro Paese. Modi che non rendono onore all’alacrità con cui chi, indossando la divisa, si adopera quotidianamente per rispondere alle decine e decine di istanze che arrivano ogni giorno. L’avvocato Babacar qualche giorno fa, come spesso gli capita per lavoro, aveva varcato i cancelli della Questura. Avrebbe dovuto dare comunicazione dell’impossibilità di un suo assistito di rispondere alla convocazione per la registrazione delle impronte digitali perché costretto agli arresti domiciliari. Non aveva ancora raggiunto la porta dell’Ufficio Immigrazione, quando è stato aggredito verbalmente dall’addetto all’accoglienza. “Gli ho chiesto di abbassare la voce”, racconta l’avvocato che cercava di spiegare il motivo della sua presenza in Questura. E la risposta è stata quell’agghiacciante “vai via, negretto”, pronunciato davanti a diverse persone, rimaste di sasso, davanti alla scena. “Purtroppo c’è da dire che la situazione non è nuova - precisa Sall Babacar - perché è capitato anche a molti miei colleghi di ricevere un trattamento a dir poco sgradevole negli spazi dell’accoglienza, ma con me, in questa occasione, si è andati oltre con un insulto razzista. Una cosa troppo grave per non farla sapere. E così sono stato il primo a denunciare quello che spesso accade in Questura, ma non ad opera degli agenti della Polizia di Stato. Anzi. Negli uffici, a cominciare dalla dirigente, sono sempre tutti cordiali e disponibili per il disbrigo delle pratiche. Negli ultimi tempi è stato fatto un grande lavoro, soprattutto in tema di protezione speciale”. Uno sfogo, diventato pubblico, attraverso il quale si spera di “addolcire” l’accoglienza in via Botticelli, da dove qualcuno ha già inviato delle scuse all’avvocato Babacar. Milano. Musica scelta dai detenuti per la filodiffusione: “Trasformare la tristezza in serenità è possibile” di Francesca Del Vecchio La Stampa, 2 marzo 2023 Inaugurato l’impianto di sonorizzazione del penitenziario milanese di San Vittore. Il progetto di Co2 che educa all’ascolto emotivo. Cosa può aiutare a vivere meglio un luogo difficile come il carcere più della musica? Quale arte riesce - come raccontano gli stessi detenuti - a mutare la tristezza in serenità? E così, nella casa circondariale di San Vittore a Milano non ci sarà più solo “il rumore di cancelli, urla e chiavi”, ma quello delle melodie scelte dai detenuti stessi. L’Aria sulla quarta corda di Bach ha inaugurato oggi la sonorizzazione degli spazi di San Vittore, un’iniziativa, unica nel suo genere anche in Europa, pensata per diffondere in carcere musica strumentale. L’iniziativa è nata dal progetto Co2, che quest’anno compie dieci anni, presente in 11 carceri italiane, ideato e realizzato da Franco Mussida, che dirige l’Area di Ricerca e di supporto alle attività musicali ed educative a sostegno della persona del CPM Music Institute. Co2 propone ai detenuti, in gruppi di “Ascolto Emotivo Consapevole”, un’audioteca divisa per stati d’animo. Ciascuno, attraverso delle emoticon che troverà sul tablet, sceglierà la musica più adatta all’emozione del momento. A inaugurare l’impianto sono stati proprio i detenuti che hanno partecipato ai laboratori e che si sono esibiti con il coro del quale fanno parte, La Nave, che ospita chi ha problemi di dipendenza. “L’iniziativa di sonorizzazione degli spazi del carcere di San Vittore rappresenta un esempio tangibile di come la cultura possa costituire un motore di cambiamento sociale”, ha dichiarato l’assessore alla Cultura del Comune di Milano, Tommaso Sacchi. “Questa iniziativa, che va ben oltre i confini della città, non solo promuove attività culturali all’interno del carcere, ma favorisce anche momenti di riflessione e divertimento, contribuendo a creare un’atmosfera diversa, più umana e vivibile, all’interno degli istituti di detenzione”, ha aggiunto. “Sono felice di aver portato a termine questo progetto. Una gioia che condivido con decine di persone che hanno partecipato a questa avventura pluridecennale che continua. Si realizza un sogno che coltivo da oltre 35 anni. Ci tengo a ringraziare gli educatori, la Polizia Penitenzia e i direttori di questo carcere, da Luigi Pagano (ex direttore, ndr) a Giacinto Siciliano (attuale direttore del carcere, ndr)”, ha commentato Mussida. “Considero questa un’attività sociale e umanistica fondamentale, al pari di quelle che mirano al sostegno della persona e favoriscono i processi di cambiamento profondo, che luoghi come questo possono indurre. Questa attività permette ai detenuti di sperimentare l’ascolto di se stessi grazie ad un particolare modo di sentire la musica che rende osservabile il filtro musicale emotivo”. Palermo. Progetto di recupero nelle carceri e nelle case-famiglia del Movimento per la Gentilezza palermotoday.it, 2 marzo 2023 La presentazione il 2 marzo prossimo, alle 21, nel Teatro Atlante alla presenza del magistrato Russo, della giudice Gagliardotto, e della presidente del movimento Natalia Re. Infondere la cultura della gentilezza tra i detenuti e i ragazzi della case famiglia che hanno avuto traumi infantili e subito violenze attraverso incontri con operatori esperti del settore. È l’obiettivo del progetto promosso da Natalia Re, presidente Nazionale del “Movimento Italiano per la Gentilezza”, nato a Parma nel 2001 sulla scia del World Kindness Movement di Tokyo. Il progetto sarà presentato il prossimo 2 marzo, alle 21, a Palermo, nel teatro Atlante (via Vetreria 23), nel corso di una manifestazione in cui verrà illustrata anche la campagna #abbiamobisognodiriconoscimento per sensibilizzare sull’importanza dei valori del merito, delle qualità e delle attitudini delle persone in tutte le loro peculiarità, alla presenza, tra gli altri, della giudice Vincenza Gagliardotto, del magistrato Massimo Russo, del vicepresidente del Movimento, Marcello Vitaliti e del consigliere Salvo Cocina. Il progetto contiene cinque Linee Direttive all’interno del Programma “Il Valore della Gentilezza”, che si inspira al Global Goal 11 di Agenda 2030: Sanità, Giustizia, Urbanità Sostenibile, Educazione e Uguaglianza Globale. “La mission primaria - spiega Natalia Re- è quella di far interiorizzare e comprendere quanto l’attuare comportamenti gentili possa produrre una riduzione della spesa pubblica, aumentando il PIL nazionale. Grande attenzione è rivolta al tema della giustizia, in ogni suo assetto. Si intraprenderanno, da subito, incontri nelle carceri, sia minorili sia adulti. La convivenza civile, i processi democratici e il rispetto delle regole, se trasmessi attraverso un linguaggio gentile possono contribuire notevolmente a un cambiamento migliore della società. Il Movimento promuove e diffonde l’arte in tutte le sue espressioni: letteratura, coreutica, performance teatrali, pubblicazioni editoriali, e quant’altro possa condurre alla bellezza dell’anima e dell’intelletto. E’ in via di progettazione un testo che racchiuda l’analisi dei reati di natura penale, dunque contro la persona, con uno studio che evidenzi, grazie ai report di tre Corti di Appello (Palermo, Napoli e Milano) quelli in cui si evidenzia un potenziale intervento “contenitivo” grazie all’ utilizzo di comportamenti gentili. Molte fattispecie di reati e contenziosi in vari ambiti potrebbero diminuire. Vedi in Sanità (pronto soccorso), amministrativi (contenzioni condominiale) e soprattutto penali, sui reati contro la persona”. La serata si aprirà con la performance musicale ‘In Ascolto”, che vedrà protagonisti Preziosa Salatino (voce); Benedetto Basile (fiati) e Soad Ibrahim (danza). Migranti, duello su Piantedosi. Schlein: lasci. Meloni: un dovere evitare tragedie di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 2 marzo 2023 Il ministro: una nostra debolezza? Mi assumerei la responsabilità. FdI: giusto chiarire. Calenda: “Dal decreto contro i rave alle parole sul carico residuale Il ministro è inadatto” Migranti, duello su Piantedosi. Schlein: lasci. Meloni: un dovere evitare tragedie. L’opposizione va all’attacco del governo e chiede le dimissioni del ministro Matteo Piantedosi, la maggioranza fa quadrato e difende il titolare dell’Interno. “Rifiuto l’idea che non si possa fare nulla” a livello europeo per evitare queste tragedie, dice la premier Giorgia Meloni. Di fronte alla neosegretaria dem Elly Schlein che chiede a Piantedosi di lasciare lui, si dice pronto ad “assumermi responsabilità” e il ministro FdI Francesco Lollobrigida auspica “giusti chiarimenti”. Meloni, nella lettera indirizzata tre giorni fa ai vertici europei, torna a chiedere di “non lasciare sola l’Italia in una battaglia di civiltà”. È un “dovere morale prima che politico che tragedie come questa non si ripetano”, evidenzia. E invita a mettersi al lavoro per “soluzioni innovative, concrete, per disincentivare le partenze illegali anche con fondi straordinari”. Se ne discuterà il 23-24 al Consiglio d’Europa. Oggi a rendere onore alle vittime del naufragio di Crotone - 67 bare, 15 bianche - arriverà il presidente Sergio Mattarella. Seguito da una delegazione dem guidata da Schlein. In silenzio. Per rispetto. Le parole, anche dure, sono volate ieri, in Commissione Affari costituzionali alla Camera, nei confronti del ministro dell’Interno. Gli si chiede conto dei soccorsi. Ma anche di aver inizialmente detto che “in queste condizioni non bisogna partire, la disperazione non giustifica viaggi che mettono in pericolo i figli” e che nei panni di un migrante disperato lui non lo avrebbe fatto: “Sono abituato a chiedermi non cosa posso aspettarmi da un Paese ma cosa posso dare io per il suo riscatto”. “Parole indegne, disumane, inadatte”, le ha definite Schlein, invitando Meloni “a una profonda riflessione”. “Ma cosa può fare un ragazzino afghano per il proprio Paese?”, rincara Riccardo Magi di +Europa appoggiando la richiesta di dimissioni con Avs, M5S e Carlo Calenda: “Dal dl Rave al carico residuale. È inadatto”. Piantedosi replica: “Se la tragedia si fosse verificata per una debolezza del ministero dell’Interno mi assumerei, come sempre, le mie responsabilità”. Il ministro non risponde ai dubbi sul perché, malgrado i due tentativi a vuoto della Guardia di Finanza, non sia stata attivata la Guardia costiera. Rinvia a un’informativa che il vicepresidente della Camera Giorgio Mulè (FI), annuncia per la prossima settimana. Forse con il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini. Nel frattempo Piantedosi precisa che “l’aereo Frontex, che per primo ha individuato l’imbarcazione dopo le 22 del 25 febbraio, a 40 miglia, non aveva segnalato una situazione di pericolo a bordo. Ma evidenziava una persona sopra coperta e altre sotto coperta e una buona galleggiabilità dell’imbarcazione”. E che “c’è stato un peggioramento meteomarino”. Spiega che tra le operazioni di polizia e di soccorso a volte “c’è sovrapposizione, ma questo non significa non farsene carico”. Invita al “rispetto e alla riconoscenza” per gli apparati che dal 22 ottobre al 27 febbraio hanno salvato 27.457 mila persone, con l’obbligo di rispettare regole: inclusa “la tutela di chi è a bordo”. Ma quindi di chi è stata la colpa? Per il ministro bisogna attendere l’esito dell’inchiesta che vede già i 4 scafisti indagati. Poi si difende dall’accusa di parlare come “un questurino”: “Sono orgoglioso di essere stato un funzionario dello Stato”. Per le sue dichiarazioni ammette che “ognuno deve avere la postura giusta”. Ma poi rimarca: “Il governo parla con i fatti. E della disperazione che c’è dietro un evento come questo ha avuto considerazione da prima che avvenisse. Con 617 persone accolte con corridoi umanitari, e un decreto flussi da 83 mila posti”. Migranti. Noi prigionieri dei nostri confini: soccorrere chi soffre è legge universale di Concita De Gregorio La Stampa, 2 marzo 2023 Pensare di fermare le partenze è un esercizio ipocrita: non si può trattare con chi tortura e uccide. Domande di semplicità estrema, perché di fronte alle enormità questo succede: l’essenziale torna per incanto a essere tutto quello che serve e che basta. Dunque per esempio. È vero che un modo sicuro per non rischiare la vita è non partire, come saremmo certissimi di non divorziare se evitassimo di sposarci e di avere figli se non facessimo l’amore. È anche vero che l’essere umano tende a fare quel che gli sembra più propizio in quel momento e che è istintivamente propenso a correre il pericolo minore. Sempre secondo la sua percezione che, si sa, è spesso fallace specie col senno di poi: quindi ostinatamente l’umanità da secoli si unisce in matrimonio o quel che è, si riproduce talvolta sbadatamente e se la casa è in fiamme si butta dalla finestra, poiché la certezza di morire bruciati è un terrore superiore all’eventualità di schiantarsi. Darei per certo che nessuno tra i padri e le madri che si imbarcano coi figli bambini voglia uccidersi e ucciderli, è una certezza che nasce dalla capacità che volendo abbiamo di metterci nei panni altrui: lascereste voi stasera la vostra tiepida casa con una borsa e i bambini in braccio per imbarcarvi al buio in mare ad Anzio, a Marina di Ragusa se non fosse meglio, quel mare nero, della casa e della vita che lasciate? Nessuno lo farebbe. Quindi la questione non è fermare le partenze, perché le partenze non si possono fermare: si stanno buttando dalla casa in fiamme, lo faranno comunque. Pensare di trattare coi piromani che incendiano quelle case e quelle vite è un esercizio retorico, ipocrita e fasullo: non esiste nessuna possibilità di convincere a non farlo chi per metodo tortura, uccide, imprigiona, toglie libertà e diritti al suo popolo quando il popolo non obbedisce al capriccio del tiranno. Trattare con chi lucra sul traffico di vite e ricatta con la chimera di chiudere i confini non serve, non raggiunge lo scopo. Dunque non esiste la possibilità di “non farli partire”. Chi lo dice inganna consapevolmente. Eliminiamo questa favola. Eliminiamo anche la fandonia che soccorrere chi sta morendo sia di sinistra e non farlo sia di destra, non vorremmo certo offendere l’elettorato di destra. Se toccasse a un elettore della Lega o di Fratelli d’Italia avere un figlio naufrago (poniamo, per disgrazia) siamo certissimi che pretenderebbe, con ragione, che fosse salvato dalla più vicina Guardia costiera o, come è nella legge del mare, da qualunque imbarcazione privata lì vicina. Soccorrere chi sta morendo è una legge universale dell’uomo. Non farlo è vile, un tormento perpetuo, è un reato. Non è ideologia, è essere persone o essere bestie. Ma nemmeno le bestie, in verità: le bestie insegnano. Quindi oggi che contiamo diciotto bambini morti e sessantasette cadaveri - vittime di soccorsi che non sono arrivati, di decreti che sono stati emanati, di burocrazie delle responsabilità e di inerzie relative, chi deve andare? Sono io? No sei tu. Parliamone, mentre quelli annegano - la vera domanda da farsi è una. Sarebbero partite su una barca che poteva contenere la metà dei passeggeri, quelle persone, se avessero potuto pagare gli stessi denari che hanno dato agli scafisti per comprarsi un biglietto aereo, un posto sul traghetto? Certamente no. Lo fanno perché abbiamo deciso che sono i nostri nemici: ci invadono, non possono entrare. Lo fanno, illegalmente, perché non possono scappare dal fuoco legalmente. Abbiamo stabilito noi Europa, noi Occidente, che essere nati in un posto diverso da questo - per caso, non scegli dove nascere - sia un problema loro. Vi ammazzano, vi stuprano, vi affamano? Pazienza per voi. Non sono affari nostri. Ma lo sono, invece. Pensare che siano i confini a disegnare i destini è contrario all’evidenza, e non c’è niente di più stupido che discutere con la realtà. Viviamo, abbiamo insegnato ai nostri figli a vivere in un mondo senza confini: il mondo che hanno in mano, sullo schermo del telefono. Indossiamo le stesse sneakers dei ragazzi impiccati a Teheran, ascoltiamo la stessa musica in ogni angolo del globo. Solo che poi all’improvviso torniamo padroni a casa nostra, quando chi ha meno o non ha nulla immagina per sé e per i suoi figli una vita migliore. Come se non fosse successa a noi la stessa cosa, solo pochi decenni fa, quando i nostri bisnonni sono sbarcati a Ellis Island e hanno cambiato nome, si sono sottoposti a esami e umiliazioni pur di darsi e dare ai loro eredi una possibilità di essere felici, più felici, o anche solo di vivere. È retorica? Mah. Chiedete ai vostri vecchi, se avete a chi chiedere: è un privilegio che dimentichiamo spesso quello di domandare e ascoltare le storie di chi abbiamo a casa. I confini esistono, tuttavia. Sui confini si combattono guerre identiche oggi a quelle che studiamo, quando per buona sorte possiamo studiare, sui libri di storia. Per un metro di terra si battono russi e ucraini, proprio ora. Ma i confini nel mondo globale non ci sono più, invece. Siamo tutti connessi, tutti abbiamo in mano un mondo diverso dal nostro e accessibile, no?, se migliore. Allora i confini ci sono o non ci sono? È una questione culturale prima che politica, destra e sinistra non c’entrano. È avere presente il tempo in cui viviamo o negarlo a intermittenza, se e quando conviene. Non c’è molto da dire, sull’Europa, se l’Europa non è in grado di essere mondo. E il mondo è questo, non si ferma dicendo non mi piace. È questo. Sedersi a un tavolo, prendere atto della realtà e dare una risposta sensata, umana e politica insieme, a quel che con evidenza accade e non si ferma per decreto, per ideologia, per piccola e privata convenienza: sarà possibile? Esiste qualcuno, alla guida di questi nostri governi opulenti e occidentali, in grado di vedere la foto più grande? Di pensarsi al posto di? Di capire che chi si imbarca a rischio di morire (e sono la minoranza, non dimentichiamolo mai, di coloro che migrano per terra e si incamminano per monti) lo fa perché non vede alternativa a quel rischio? Se no, se nessuno tra i ministri d’Europa è in grado di pensare a uno di quei diciotto bambini come a suo figlio, allora è morta la politica. È morta la democrazia e la presunta supremazia dell’Occidente. Siamo morti, anche se sembriamo vivi, tutti noi. Migranti. La strage di Cutro è solo l’ultimo caso in cui al salvataggio si preferisce l’intervento di polizia di Luca Gambardella Il Foglio, 2 marzo 2023 La procura di Crotone indaga per capire cosa è successo fra la segnalazione di Frontex e il naufragio del barcone. Il nodo sta in due parole, “principio di precauzione”. Una storia che va avanti dal 2018, da quando al Viminale era ministro Salvini. Il nodo della questione sta in due parole, “principio di precauzione”. È sulla base di questo che si dovrà capire se davvero domenica scorsa è stato fatto tutto il possibile per impedire che il barcone stracarico di migranti si incagliasse a un centinaio di metri dalla costa di Steccato di Cutro, facendo annegare 67 persone, fra cui 15 minori, e lasciando fra le onde un’ottantina di dispersi. Mercoledì, prima ancora che il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi rispondesse alle domande dei deputati in commissione Affari costituzionali alla Camera, il comandante della Capitaneria di porto di Crotone, Vittorio Aloi, ha aggiunto elementi che mettono in ulteriore difficoltà il Viminale. Il comandante ha dichiarato ai cronisti che, sulla base della prima segnalazione del barcone inviata dal velivolo Frontex, “spettava alla Guardia di Finanza intervenire per prima”. Secondo Aloi, la Guardia costiera sarebbe rimasta defilata per l’intera successione degli eventi fino a domenica mattina alle 4.30, quando ormai il barcone si era spezzato in due. Cosa sia successo fra l’avvistamento di Frontex, avvenuto la sera precedente alla strage, e la mattina successiva sarà appurato dall’inchiesta condotta da Giuseppe Capoccia, procuratore di Crotone. Il reato di omissione di soccorso ancora non è ipotizzato, ma per il pm un dato è certo: “Nessuno ha mai dichiarato un evento Sar e quindi non è mai partita un’operazione di ricerca e soccorso”. L’intero intervento, sin dall’invio delle due unità della Guardia di Finanza, poi rientrate in porto a causa del maltempo senza raggiungere il target, è stato gestito come un’attività di polizia (law enforcement) e non di salvataggio (Sar, ovvero search and rescue). Ed è qui che entra in gioco il “principio di precauzione”. A spiegare in cosa consista è stata la stessa Guardia costiera nel 2017, nel suo rapporto sulle attività Sar compiute in quell’anno. “Ogni imbarcazione sovraffollata è un caso Sar di per sé ed è una possibile situazione di pericolo anche in assenza di un segnale di emergenza in base al principio di precauzione”. Se quindi, come è stato acclarato nel caso del disastro di domenica scorsa, Frontex ha segnalato la presenza in mare di un barcone “pesantemente sovraccarico” - lo ha confermato due giorni fa un portavoce dell’agenzia europea - il successivo intervento di polizia invece che di soccorso lanciato dal Centro di coordinamento di Roma, sotto l’autorità del ministero dell’Interno, sarebbe stato inadeguato. E così, mentre la Vedetta V5006 e il Pattugliatore veloce PV6 Barbarisi della Guardia di Finanza rientravano in porto, le motovedette della Guardia costiera non sono mai intervenute. Il perché lo ha chiarito alla stampa lo stesso comandante Aloi: “Io non ho ricevuto alcuna comunicazione”. Niente evento Sar, niente Guardia costiera, almeno fino alla mattina del disastro, quando ormai era troppo tardi. Il caso di Cutro è solo l’ultimo di una lunga serie in cui un evento di salvataggio viene classificato e gestito come uno di polizia. Questa tendenza è iniziata nel 2018, sotto la gestione dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. E’ a partire da quel momento che nei rapporti della Guardia costiera, oltre alle persone “soccorse”, cioè i naufraghi, si cominciano ad annoverare quelle “intercettate nel corso di operazioni di polizia di sicurezza”, cioè operazioni di law enforcement. I dati forniti nel Rapporto del 2019 sui salvataggi parlano per la prima volta di un aumento esponenziale delle operazioni di law enforcement a scapito di quelle Sar. Sebbene in commissione Piantedosi abbia detto che “spesso attività Sar e di law enforcement finiscano per intrecciarsi fra loro”, la differenza è tutt’altro che teorica. Nel 2015, il contrammiraglio della Guardia costiera Nicola Carlone, intervenuto al Comitato parlamentare di controllo sull’attuazione dell’Accordo di Schengen, aveva spiegato perché invece la questione fosse rilevante. “Se un’imbarcazione carica di migranti localizzata al di fuori delle acque territoriali di uno stato costiero è ritenuta versare in una situazione di potenziale pericolo (caso Sar), scatta l’obbligo di immediato intervento e, quindi, del successivo trasporto a terra delle persone soccorse”. Se invece un’imbarcazione “non è ritenuta versare in situazione di pericolo, l’attività di polizia delle autorità dello stato costiero normalmente si limita al monitoraggio della situazione, allo scopo di verificare se la destinazione appaia essere quella di detto stato costiero”. La strage di Cutro sembra ricadere tragicamente in questo secondo caso. Le verifiche della procura di Crotone potrebbero arrivare a capire cosa abbia impedito di applicare il “principio di precauzione” e chi abbia deciso che un barcone carico di 200 persone con mare mosso non fosse in pericolo. Migranti. Trapani, a processo tre Ong. Il comandante della Juventa: “Le stragi sono colpa del governo” di Rino Giacalone La Stampa, 2 marzo 2023 L’udienza scaturita dalla richiesta di rinvio a giudizio per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e che riguarda i team leader e gli equipaggi di tre organizzazioni, la Jugend Rettet, Medici senza Frontiere e Save the Children. Il comandante Martin Troeder ha reso dichiarazioni spontanee. “L’aver allontanato le Ong dal Mediterraneo, è questa la vera causa del tragico naufragio di Cutro”. L’accusa è stata indirizzata da un’aula del Tribunale di Trapani al Governo italiano. Ad essere contestate ancora una volta, ma stavolta davanti al centinaio di migranti turchi morti o dispersi per il tragico affondamento di una malmessa imbarcazione davanti alle coste calabresi, sono state le misure adottate dal nostro Governo a novembre scorso, all’interno del Decreto Sicurezza, norme risultate essere una vera e propria stretta contro le Ong e la loro attività di soccorso in mare. Davanti al gup del Tribunale di Trapani si sta svolgendo, e già da qualche mese, una lunga fase preliminare che va avanti da quasi un anno, l’udienza scaturita dalla richiesta di rinvio a giudizio per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e che riguarda i team leader e gli equipaggi di tre Ong. Jugend Rettet, Medici senza Frontiere e Save the Children. Salvataggi davanti le coste libiche che secondo l’accusa veri e propri soccorsi in mare non erano. In totale ci sono 24 indagati. Stamane uno degli indagati, Lutz Ulrich Martin Troeder, comandante della Juventa, nave della Ong Jugend Rettet sotto sequestro nel porto di Trapani dal 2017, ha chiesto al giudice di poter rendere dichiarazioni spontanee, e nella sua madre lingua, in tedesco, ha fatto un intervento certamente fuori dal tema processuale. Con l’ausilio del traduttore, messo a disposizione dal Tribunale per il procedimento in corso, ha colto l’occasione per passare dalle espressioni di cordoglio per le vittime del naufragio avvenuto giorni or sono davanti alle coste calabresi di Cutro, ad un intervento di condanna e contestazione delle misure introdotte dal Governo contro le immigrazioni clandestine. “I migranti turchi, i bambini, che hanno perduto le loro vite - ha detto - potevano avere ben altro destino se non fosse stata impedita la presenza delle navi delle Ong nel mare Mediterraneo. Quei morti - ha detto il comandante Troeder - sono la conseguenza della criminalizzazione delle Ong decisa dal Governo italiano”. Ha poi chiesto al gup, giudice Samuele Corso, di far osservare ai presenti un minuto di silenzio in memoria dei migranti morti nel naufragio. Minuto di silenzio che il giudice ha permesso dopo l’intervento del procuratore aggiunto Maurizio Agnello che si è limitato a esprimere il cordoglio della Procura per le vittime del naufragio avvenuto nel mare di Calabria. L’udienza scaturisce dall’inchiesta condotta dalla Squadra Mobile di Trapani e dal Servizio Centrale Operativo (Sco) che ha messo in evidenza come gli equipaggi delle Ong in un determinato periodo tra il 2016 e il 2017, davanti alle coste libiche non avrebbero compiuto salvataggi, ma avrebbero preso a bordo migranti che con imbarcazioni e gommoni, venivano portati sotto bordo dai trafficanti di essere umani. L’inchiesta sui cosiddetti “taxi del mare”. Secondo le indagini della Polizia, e i racconti di “infiltrati” dello Sco a bordo delle navi delle Ong, i migranti partivano dalla costa libica secondo “appuntamenti in mare” che venivano concordati tra trafficanti ed equipaggi delle Ong, attraverso contatti telefonici e via whatsapp. Nella precedente udienza di sabato scorso il gup ha ammesso come parte civile il ministero dell’Interno ed ha invece respinto la costituzione di parte civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Contro le due costituzioni si erano pronunciati i difensori degli indagati che avevano ritenuto le richieste fuori dall’ambito penale, ma il risultato di una azione politica. La prossima udienza fissata per il 15 marzo, il giudice dovrà decidere invece sulle eccezioni di competenza territoriale sollevate sempre dai difensori degli indagati, secondo le difese il procedimento non avrebbe Trapani come esclusiva competenza. Migranti. A Roma la piazza antirazzista. “Basta stragi, governo responsabile” di Giuliano Santoro Il Manifesto, 2 marzo 2023 La manifestazione che chiede le dimissioni di Matteo Piantedosi si ritrova a Roma, a piazzale Esquilino. Cioè esattamente a metà strada tra il Viminale, la sede del ministero dell’interno, e la stazione Termini, dove da poche ore sono stati sgomberati senza tanti complimenti diversi profughi accampati. La legge del decoro urbano e quella del sovranismo si sposano, e le centinaia di persone che si ritrovano in piazza, convocate appena il giorno prima, sono il segnale che per molti e molte la misura è davvero colma. “Siamo qui contro Piantedosi e contro il governo Meloni - spiegano - Siamo contro l’Europa che paga Erdogan per chiudere le frontiere invece di organizzare flussi regolari e dare protezione a chi scappa da guerre. Se non la fate voi l’Europa, la facciamo noi: in questo momento l’Unione europea è vittima di Visegrad, garantisce i sovranismi invece di garantire il diritto alla fuga dei migranti”. E ancora: “Quella calabrese era una strage prevedibile ed evitabile. Sono morti i nostri fratelli che scappavano dall’Afghanistan dei Talebani, dall’Iran del regime, dalla Siria di Assad che bombarda anche dopo il terremoto. Le destre si fanno forti dell’indifferenza per questo bisogna unire le lotte e parlare con le persone”. Ci sono anche il presidente dell’ottavo municipio Amedeo Ciaccheri, la consigliera regionale civica (appena rieletta) Marta Bonafoni, l’ex segretario del Pd romano e oggi sostenitore di Elly Schlein Marco Miccoli. C’è Enrico Calamai, il diplomatico che al tempo del golpe in Argentina fece letteralmente carte false per mettere al sicuro centinaia di dissidenti. “Il neoliberismo non accetta persone che non portano ricchezza ma solo umanità - dice Calamai - Possibile che con una guerra in corso non i mari non venissero controllati? Li hanno lasciati morire per dare una lezione agli altri. Dobbiamo portare i responsabili davanti alla Corte penale internazionale”. Calamai lancia un appuntamento fisso: ogni giovedì con le mani dipinte di rosso davanti al Viminale. Questo è uno degli elementi che fa be sperare: da questo luogo si connettono diverse lotte. Lo spiega bene Enrica Rigo, docente di filosofia del diritto e attivista. “Questa piazza ha a che fare con lo sciopero dei Fridays for future - dice Rigo - perché i migranti sono legati il modo in cui gestiscono le crisi energetiche. Ma ci sarà anche l’8 marzo di Non una di meno, contro la violenza che attraversa i confini, perché non esiste femminismo che non sia anche antirazzista. E poi gli studenti a Firenze sabato prossimo, perché è una lotta antifascista che ci appartiene”. “O iniziamo a disobbedire a questo governo o saremo condannati a manifestazioni inerti” dice Andrea Alzetta di SpinTime, che lunedì sera ha ospitato la grande assemblea che ha deciso di organizzare questa manifestazione. Tornano alla mente altre stragi in mare e le lotte fondative della Rete antirazzista di Dino Frisullo: quest’anno è il ventennale della sua scomparsa. “In un momento così anche lui avrebbe organizzato una manifestazione - fa notare Gianluca Peciola. Nei prossimi anni un miliardo di persone si sposeranno per il riscaldamento globale. È impossibile che i governi locali riescano a gestire questi processi: serve la connessione globale dei movimenti”. Le migranti in Italia: istruite più degli uomini, ma marginalizzate e penalizzate nel lavoro di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 marzo 2023 Sono accolte sotto un’ottica vittimistica e passivizzante. Non solo. Nonostante siano più istruite degli uomini, le immigrate hanno molte meno possibilità di trovare un lavoro coerente coi propri titoli: è infatti sovra-istruito ben il 42,5% delle occupate straniere, contro il 25,0% dei lavoratori italiani e il 32,8% degli stranieri in generale. Inoltre, esse sono più esposte al part- time involontario, che svolgono nel 30,6% dei casi, ossia in misura quasi tripla degli uomini stranieri (11,6%) e quasi doppia delle italiane (16,5%). Di riflesso, percepiscono una retribuzione media mensile che colloca la metà delle immigrate nel 20% più povero della popolazione. Questo e altro ancora emerge dal volume “Le migrazioni femminili in Italia. Percorsi di affermazione oltre le vulnerabilità”, il primo studio socio- statistico del Centro Studi e Ricerche Idos e dell’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” che rilegge l’immigrazione italiana dalla parte delle donne e che è stato presentato martedì scorso, 28 febbraio, all’Auditorium di via Rieti a Roma. La presenza e il protagonismo femminile caratterizzano da sempre l’immigrazione italiana. La condizione specifica della donna migrante è stata tuttavia a lungo trascurata. Assimilandone l’esperienza a quella degli uomini o riducendone la rappresentazione a ruoli marginali e passivi, le letture più diffuse hanno faticato a riconoscere la specificità dei percorsi delle donne della migrazione. Di riflesso - si apprende dallo studio condotto dal Centro Studi e Ricerche Idos-, in termini di policy si stenta a distinguere la varietà delle situazioni e a cogliere le molteplici e concrete ricadute che l’appartenenza di genere esercita (anche) sui processi migratori. I dati rassegnati nel libro “Le migrazioni femminili in Italia. Percorsi di affermazione oltre le vulnerabilità” partono dal fatto che con quasi 2,6 milioni di residenti a fine 2021, le donne sono poco più della metà degli stranieri in Italia (50,9%) e quasi il 9% dell’intera popolazione femminile. Il loro numero cresce soprattutto dalla metà degli anni 90, portandole all’inizio del nuovo millennio a superare per numerosità gli omologhi maschi. I dati mostrano l’estrema varietà delle provenienze geo- culturali e, allo stesso tempo, la preminenza di determinati gruppi: sono 192 le collettività rappresentate, con le prime 10 che raccolgono i due terzi del totale (65,6%). Le prime 5 contano più di 100mila residenti donne: Romania (617mila, 24,1%), Albania (204mila, 8,0%), Marocco (192mila, 7,5%), Ucraina (175mila, 6,8%) e Cina (148mila, 5,8%). Seguono Filippine (90mila, 3,5%), Moldavia (76mila, 3,0%), India (68mila, 2,6%), Polonia (56mila, 2,2%) e Perù (54mila, 2,1%), secondo una graduatoria che ricalca solo in parte quella delle presenze complessive. Sul piano continentale prevalgono le europee (54,9%, quasi un terzo comunitarie: 31,9%), seguite da asiatiche (19,5%), africane (16,9%) e americane (8,7%). Altra osservazione degna di nota è la visione vittimistisca e passiva della donna che richiede asilo. Il tentativo di ricondurre le richieste d’asilo delle donne all’appartenenza a un “gruppo sociale particolare” - osserva lo studio di Idos - ha finito col veicolare lo stereotipo delle donne in fuga come vittime, statiche e passive, dell’arretratezza (solo) di determinati Stati e culture. “Un approccio che - viene sottolineato dallo studio -, da un lato, ha portato a sottovalutare la valenza trasversale di logiche di genere che, seppure con diversi gradi di intensità, pongono di per sé le donne in una condizione di svantaggio e a sottovalutare tutte le altre forme di oppressione e persecuzione cui possono essere sottoposte; dall’altro, ha alimentato la tendenza a riconoscere come validi per l’accesso alla protezione solo i percorsi aderenti a tale profilo”. Di riflesso, restano penalizzate le donne che hanno difficoltà a raccontare le violenze e le persecuzioni subite ricostruendo narrazioni coerenti con questa visione. L’impostazione dei percorsi di accoglienza appare a sua volta improntata a una visione della donna richiedente asilo o rifugiata vittimistica e passivizzante, che ne disconosce l’autonomia e rischia di limitarne l’agency invece di alimentarla, a partire da percorsi individuali co- costruiti. Alla luce di tali considerazioni, anche la ridotta rappresentanza femminile tra i migranti forzati appare sotto una luce diversa. A livello comunitario, tra il 2008 e il 2021 sono state quasi 8 milioni le domande di asilo presentate, di cui circa 1 ogni 3 da parte di una donna, con un picco del 37% nel 2019. L’Italia, con 117.075 richieste, si distingue per una incidenza femminile nei flussi di protezione ancora più bassa: si va dal 14,6% del 2008 al 17,2% del 2021, con un aumento tra il 2018 e il 2020, quando si registrano percentuali superiori al 20%. Sul piano statistico, la prima evidenza che caratterizza oggi le donne straniere in Italia è il loro sottodimensionamento nel mercato del lavoro rispetto alla presenza sul territorio. L’Istat certifica che nel 2021 le donne, pur essendo oltre la metà dei residenti stranieri, scendono al 42% tra i lavoratori (949.000 su 2.257.000) per risalire al 52,5% tra i disoccupati. Se il tasso di occupazione femminile totale in Italia è già tra i più bassi d’Europa (49,9% a fronte del 64,5%), quello delle straniere è in assoluto il peggiore: 45,4% a fronte di 58,2% tra gli occupati complessivi, 71,7% tra i maschi stranieri e 49,9% tra le italiane. Mentre le italiane hanno un tasso di occupazione inferiore di 16,7 punti percentuali rispetto ai maschi, per le straniere il divario è di 26,3 punti rispetto agli uomini stranieri e di 4,5 rispetto alle italiane. Il tasso risulta, dunque, fortemente correlato al genere e alla cittadinanza e si abbassa passando dagli autoctoni ai cittadini stranieri e alle donne straniere. Se occupate, inoltre, le donne straniere restano concentrate in poche e specifiche occupazioni: per la metà lavorano in sole 3 professioni (collaboratrici domestiche, addette alla cura della persona e alle pulizie di uffici ed esercizi commerciali), a fronte di 12 professioni tra tutti gli stranieri e 45 tra gli italiani. Più in generale, le donne straniere lavorano per l’87,1% nei servizi (16,8% commercio, alberghi e ristoranti e 70,3% altre attività dei servizi), per il 9,7% nell’industria e per il 3,2% in agricoltura. Dagli archivi Inps risulta che sono il 42,1% tra i lavoratori stranieri, il 54,1% tra i pensionati (per il più antico radicamento in Italia) e il 62,0% tra i percettori di prestazioni di sostegno al reddito (disoccupazione e mobilità). Nel lavoro dipendente l’incidenza delle donne tra gli stranieri è del 44,0%, ma si differenzia fortemente per settore: 25,7% nel settore privato agricolo, 35,1% in quello privato non agricolo e 84,6% nel lavoro domestico (dove circa il 70% degli addetti è straniero). Insomma - emerge dal volume redatto da Idos e dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” - le immigrate hanno meno opportunità di occupazione degli uomini e sono perlopiù destinate a mansioni di bassa qualifica e alla cura e assistenza domestica, ambiti caratterizzati da una forte esposizione al sommerso e da basse retribuzioni (in media le dipendenti percepiscono 897 euro al mese, il 29% in meno delle italiane e il 27% in meno degli stranieri maschi). Ne discende che la metà delle immigrate rientra nel 20% più povero della popolazione. Nonostante le donne straniere siano mediamente più istruite degli uomini hanno, dunque, meno possibilità di trovare un lavoro (o di trovarne uno coerente con i propri titoli). Ed infatti, il 32,8% degli stranieri è sovra-istruito, ha cioè un titolo di studio superiore al lavoro che svolge, condizione che tra gli italiani riguarda il 25,0% e che, viceversa, tra le donne straniere è del 42,5%. In Tunisia è partita la caccia all’uomo nero di Francesco Battistini La Repubblica, 2 marzo 2023 Un’onda di razzismo contro i sub-sahariani sta cambiando la pelle del più progressista dei Paesi (ri)nati dalle Primavere arabe. I tassisti di Tunisi non caricano più l’uomo nero. E i proprietari non gli affittano casa. E i passeggeri di bus non lo vogliono di fianco. E i negozianti non gli vendono nulla. “Ci sono orde di subsahariani che minacciano la nostra identità!”, proclama il presidente Kais Saied, e servono misure urgenti: “Un complotto criminale di forze straniere ha l’oscuro obiettivo di favorire l’immigrazione illegale e di cambiare la nostra composizione demografica!”. Ci stanno trasformando in un mondo “puramente africano, senza legami con le nazioni arabe e islamiche”. E dunque, è ora che la Tunisia diventi come l’Alabama degli anni Trenta. Un’onda di razzismo sta cambiando la pelle del più progressista dei Paesi (ri)nati dalle Primavere arabe. Addio alla Costituzione che levava l’hijab alle donne e spingeva i sindacati al Nobel per la Pace. A Tunisi, comanda un populista cesarista: ha sciolto il Parlamento, ne ha fatto votare un altro dall’11% degli elettori e da qualche giorno - per distrarre i tunisini dalla fame e magari ingraziarsi un po’ d’ultradestra europea spaventata dai barconi (puntuale, è giunto l’elogio dello xenofobo Eric Zemmour) -, ha scatenato la caccia ai 50mila neri, lo 0,5% della popolazione, colpevoli sia della fame che dei barconi. Anche nel Maghreb, è sicuro Saied, i sub-sahariani sono lo strumento della Grande Sostituzione. E perciò, tutti a casa: le ambasciate di Costa d’Avorio, Guinea e Mali allestiscono dormitori d’emergenza e rimpatriano centinaia di sans-papier che hanno ormai paura di girare per le strade, d’essere malmenati, di ricevere multe da mille euro per l’irregolarità dei documenti. La paura dell’altro è una porta girevole, lo s’è visto già in Libia o in Egitto: c’è sempre qualcuno più meridionale di te da mettere alla porta. Anche i tunisini sono incitati a fare ai neri quel che non han mai voluto fosse fatto a loro. Pochi protestano, molti tacciono. E tanto per cambiare, noi fingiamo di non vedere. Iran. Avvelenate centinaia di studentesse di Francesca Luci Il Manifesto, 2 marzo 2023 Accuse di un docente al gruppo fondamentalista Hezaragara, che vorrebbe impedire alle donne di studiare. Dall’inizio di dicembre centinaia di studentesse di decine di scuole in almeno 6 città iraniane sono state portate in ospedale a causa di avvelenamento respiratorio. Younes Panahi, viceministro della Sanità, ha annunciato che l’avvelenamento è stato causato intenzionalmente. Alireza Manadi Sefidan, capo della Commissione Istruzione del parlamento, ha affermato che, sulla base dei risultati dei test effettuati, è emersa la presenza di azoto gassoso (N2) nel veleno rilasciato nelle scuole. Malgrado il rigido controllo dei servizi di sicurezza e la presenza di videocamere in molti istituti, gli autori rimangono ancora sconosciuti. Mohammad Taghi Fazel Meybodi, docente universitario, ha attribuito la responsabilità al gruppo Hezaragara, una corrente ultrareligiosa antimodernista: “Questo gruppo ritiene che le ragazze non dovrebbero studiare, o studiare solo fino alla terza elementare”. Tuttavia in seguito ha smentito la sua affermazione. La questione ha causato rabbia e sdegno in tutto il paese che già sta lottando con il peggioramento della situazione economica. La valuta locale è scesa a un nuovo minimo storico precipitando a 600.000 rial per dollaro per la prima volta nella storia. Il potere d’acquisto delle famiglie è stato decimato dall’inflazione, che ha raggiunto un tasso annuo del 53,4% a gennaio, secondo il centro statistico del Paese. La crisi economica ha spazzato via i risparmi di una vita di molti e ha indotto gli iraniani a formare lunghe file davanti agli uffici di cambio valuta negli ultimi giorni nel tentativo di acquistare dollari sempre più scarsi. Il Governo affronta una forte mancanza di disponibilità finanziaria per le spese correnti. I recenti accordi con la Cina hanno bisogno di tempi lunghi e non avranno un effetto immediato. Anche la privatizzazione della proprietà statale intrapresa per alleviare la pressione economica necessita di una lunga procedura e inoltre ha incontrato la resistenza di vari organi statali e dei sindacati. Le sanzioni imposte dall’occidente impediscono l’accesso ai depositi statali: 100-120 miliardi di dollari presso le banche estere. L’accordo sul nucleare che può aprire uno spiraglio economico è segnato da passi avanti e indietro continui, e non lascia molta speranza per una soluzione di breve termine. Tutti gli indicatori segnano un paese sulla via di un collasso economico. Il regime non fa nulla per abbassare la tensione a livello internazionale. La conferma dell’agenzia dell’energia atomica riguardo il ritrovamento dell’uranio arricchito all’86% è stata liquidata come una provocazione. Il comandante dei Guardiani della rivoluzione(Irgc) Hossein Salami ha detto che l’Iran sta mirando a sviluppare missili da crociera ad alta velocità che possono volare a bassa quota, e ha vantato la capacità di colpire navi a migliaia di chilometri di distanza attraverso il tracciamento satellitare e i radar. Amir-Ali Hajizadeh, comandante della divisione aerospaziale dell’Irgc, ha affermato che il Paese ha sviluppato un nuovo missile da crociera a lungo raggio chiamato Paveh che può percorrere una distanza fino a 1.650 km. Non è chiaro se tali affermazioni siano frutto di una propaganda ad uso e consumo dei sostenitori interni o corrispondono alla verità. Ma l’atteggiamento di sfida intrapreso dal governo e dall’Irgc preoccupa gli osservatori interni. Alcuni credono che in mancanza di una risposta concreta ai problemi interni, il regime cerchi di provocare uno scontro militare per coalizzare la popolazione e dirottare l’attenzione. Le critiche dilagano anche tra le varie personalità conservatrici dell’establishment. Sono state pubblicate molte lettere di avvertimento da parte di organizzazioni, istituzioni pubbliche e accademiche in merito al futuro del Paese. In una recente lettera al leader Khamenei, Mohsen Renani, economista e professore universitario, ha scritto: “Il governo non dovrebbe essere orgoglioso dell’attuale stabilità della situazione, anche perché è rimasto meno tempo di quanto si pensi. Questa generazione ha raggiunto il limite di pazienza e invece di sopprimerla e umiliarla, occorre comprenderla e rispettare le sue parole e parlare con essa”. Stati Uniti. Libertà negata all’assassino di Bob Kennedy, in carcere da 54 anni: è la 16esima volta La Stampa, 2 marzo 2023 Sirhan Sirhan, 78 anni, fu inizialmente condannato a morte. La pena fu poi commutata in ergastolo. Rimarrà in carcere Sirhan Sirhan, l’assassino di Bob Kennedy. La sua richiesta di libertà vigilata è stata respinta per la sedicesima volta. Sirhan ha 78 anni, oltre 50 dei quali passati in prigione. La sua legale, Angela Berry, ha tentato invano di convincere la commissione che il suo assistito ha mostrato di essere ormai consapevole di ciò che ha fatto e che gli psichiatri da decenni ritengono altamente improbabile che possa rappresentare un pericolo per la società. Due anni fa un altro organismo, chiamato a decidere sulla libertà condizionata, aveva votato sì, ma nel 2022 il governatore della California Gavin Newsom aveva respinto la richiesta. Berry è convinta che la decisione presa ora sia stata influenzata dalla posizione di Newsom e da quella dei legali che rappresentavano la vedova Kennedy e alcuni dei suoi figli, molti dei quali si sono opposti al rilascio di Sirhan. Nel respingere la richiesta l’anno scorso, il governatore aveva definito il detenuto una “minaccia per la società”, una persona che “non si era assunta la responsabilità di un crimine che aveva cambiato la storia americana”. La commissione ha invitato Sirhan a prendere maggiore coscienza di quello che ha fatto. In un messaggio registrato di tre minuti e mezzo, e mostrato durante la conferenza stampa dalla sua legale, l’uomo ha detto di provare rimorso ogni giorno. “Per trasformare il peso delle mie azioni - ha spiegato - in qualcosa di positivo, ho dedicato tutta la mia vita a migliorarmi e ad aiutare gli altri in prigione a capire come fare per vivere una vita pacificata e non violenta”. “Facendo questo - ha aggiunto - garantisco che nessun’altra persona sarà vittima delle mie azioni”. L’omicidio e la condanna - Il 5 giugno del 1968 Sirhan, immigrato giordano di origine palestinese, sparò al senatore Kennedy che da poco aveva proclamato la propria vittoria nelle primarie democratiche per le presidenziali. L’attentato avvenne all’interno dell’Ambassador Hotel di Los Angeles, dove Kennedy aveva appena finito di parlare ai suoi sostenitori. Arrestato, Sirhan dichiarò di aver agito per la causa palestinese. “L’ho fatto per il mio Paese”, disse aggiungendo di essersi sentito tradito dal sostegno di Kennedy a Israele nella Guerra dei Sei Giorni. Nell’appartamento di Sirhan venne trovato un quaderno-diario in cui aveva dato conto del suo odio verso il senatore democratico. Nella pagina datata 18 maggio ‘68, aveva scritto: “La mia determinazione di eliminare R.F.K. sta diventando sempre più un’ossessione che non posso allontanare. Kennedy deve morire prima del 5 giugno”. Come quello del fratello John, l’assassinio di Bob Kennedy ha generato nel corso degli anni una ridda di sospetti, ipotesi e teorie del complotto. Anche perché Sirhan ha sostenuto di non ricordare gli spari e di aver bevuto prima dell’omicidio. Nel 1972 Sirhan fu condannato a morte, pena commutata in ergastolo alcuni anni dopo. Da allora, per sedici volte, gli è stata negata la libertà vigilata. Stavolta la commissione ha stabilito che dovrà rimanere in carcere per tre anni, ma potrà presentare una nuova istanza anche prima di quel termine.