L’emergenza ignorata dei suicidi in carcere di Valter Vecellio huffingtonpost.it, 29 marzo 2023 Qualcuno, in quelle stanze dove si dice vi sia il “potere”, presta attenzione all’accorato appello/denuncia del segretario generale della UIL Polizia Penitenziaria Gennarino De Fazio? Mette il dito su una piaga che continua a sanguinare: “La spirale di morte che investe le carceri italiane non accenna a placarsi. Dopo gli 84 suicidi fra i detenuti e i 5 fra gli appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria dell’anno scorso, un poliziotto in servizio al carcere napoletano di Secondigliano e originario di Aversa, quarantatreenne, dopo aver espletato il turno notturno, si è tolto la vita sparandosi con l’arma d’ordinanza. Ammontano già a 11, invece, i detenuti che hanno volontariamente messo fine alla propria esistenza nel corso del 2023”. Quello dei suicidi nelle forze dell’ordine, in particolare nel Corpo di polizia penitenziaria, la cui incidenza è notevolmente superiore che nella restante popolazione, è un fenomeno che, ricorda De Fazio “necessita di essere investigato compiutamente e affrontato concretamente. Peraltro, non riteniamo affatto sufficienti le iniziative e i supporti, anche di natura psicologica, finalizzati a intercettare a valle il disagio, ma reputiamo necessari e non più rinviabili interventi a monte che lo prevengano. Ciò si può realizzare, in primis, ‘umanizzando’ le condizioni di lavoro anche attraverso il rispetto dei diritti e delle prerogative contrattuali, che rappresentano una vera e propria chimera per la gran parte degli appartenenti alla Polizia penitenziaria”. Imperscrutabili, le ragioni che spingono una persona a togliersi la vita; di sicuro a un gesto estremo come il suicidio possono concorrere una serie di concause. Nel caso specifico non è azzardato e neppure strumentale, sostenere che il servizio espletato nelle modalità in cui viene eseguito e la ‘violenza’ delle esperienze spesso vissute e subite, siano fra esse. Per inciso: che fine ha fatto, e che tipo di lavoro ha effettuato, l’Osservatorio permanente interforze sui suicidi tra gli appartenenti alle forze di polizia costituito dall’allora Capo della Polizia Gabrielli nel febbraio 2019? Altra drammatica storia: è in carcere da pochi giorni; deve rispondere insieme ad altri due di aggressione e sottrazione di un telefonino ai danni di una donna. Si chiamava Aymen Dahech, 24 anni; dopo l’interrogatorio di garanzia. Fenomeno in crescita quello dei suicidi in carcere, dove spesso finisce chi si è reso colpevole di reati minori oppure chi non ha ancora affrontato il processo ed è in preventiva carcerazione. A questo punto, l’invito agli inquilini delle suddette stanze del potere è di meditare per un attimo al brano che segue. Di un senatore, alla fine rivelerò chi e quando queste parole sono state pronunciate: “Con tutto il da fare che ho avuto non ho trascurato di occuparmi dell’istituto Gaetano Filangieri di Napoli e dei ragazzi che spesso, a causa di carenze sociali, hanno dovuto deviare dalla retta via… si tratta di migliaia di giovani e del loro futuro ed è essenziale che un’Assemblea come il Senato prenda a cuore la riparazione delle carenze dannose, posso dire catastrofiche, che da secoli coinvolgono quasi l’intero territorio dal Sud al Nord dell’Italia…Invitato dai ragazzi e dal loro direttore, ho visitato il Filangieri e come l’ho trovato ve lo posso dire in due parole. Camere da letto tutte con docce e servizi igienici per due o tre ragazzi; cucina enorme e pulitissima; ogni gruppo di 15 ragazzi ha un televisore e un accogliente ambiente per il tempo libero; per l’aria, un cortile molto vasto e un piccolo gruppo di ragazzi sotto controllo della magistratura va a lavorare fuori presso artigiani. In genere sono 60 ragazzi, ma durante l’anno ne passano oltre 1.500 che poi vanno smistati in altri istituti. C’è perfino un teatrino…un complesso veramente degno, dove i ragazzi vengono curati, assistiti secondo princìpi umani e civili, non solo, ma vengono istruiti e perfezionati ognuno nel mestiere da lui scelto. Naturalmente - c’è da aspettarselo - le finanze non sono adeguate alle necessità di un istituto del genere. Ma non è questo il punto nevralgico della situazione. I ragazzi di 11-12-13 anni, che sono poi le vere vittime di una società carente come la nostra nei riguardi della gioventù, entrano nell’istituto in attesa di giudizio e vi restano spesso per anni e anni in quanto, o per la mole di lavoro o per l’asmatico meccanismo burocratico, i processi subiscono sempre lunghissimi ritardi e rinvii. Compiuti i diciotto anni, poi, ancora in attesa di giudizio, i ragazzi vengono trasferiti nelle carceri di Poggioreale. Finalmente, celebrato il processo, mettiamo che l’imputato venga assolto, dove si presenta una volta messo in libertà? Chi è disposto a dare fiducia e lavoro ad un avanzo di galera? Questa non è una domanda che mi sono posto io, che non conoscevo il Filangieri. È una domanda angosciosa che si pongono gli stessi ragazzi dell’istituto che, durante la mia visita di quel giorno, chiesi di avvicinare da solo a solo. I ragazzi mi dissero: “Non usciamo da qui con il cuore sereno, in pace e pieno di gioia, perché se quando siamo fuori non troviamo lavoro né un minimo di fiducia per forza dobbiamo finire di nuovo in mezzo alla strada! La solita vita sbandata, gli stessi mezzi illeciti, illegali per mantenere la famiglia: scippi, furti, la rivoltella, la ribellione alla forza pubblica. Insomma siamo sempre punto e daccapo”. Ora bisogna tener conto del fatto che i napoletani, e in specie quelli di 18 anni, sono pieni di fantasia, pieni di spontanee iniziative in caso di emergenza, sempre vogliosi e mai appagati di un minimo di riconoscimento sincero per la loro vera identità. Ci voleva una guerra perché gli spaghetti, la pizza con la pommarola, le canzoni, le chitarre e i mandolini invadessero l’Europa e l’America, e mettessero fine finalmente ai luoghi comuni: mandolinisti, mangia maccheroni, sfaticati, terroni eccetera. Adesso le canzoni le cantano pure loro, su al Nord. Illustri senatori e amici, ho girato il mondo e ho constatato con questi occhi qual è il rendimento del lavoratore italiano e qual è il suo vivere civile quando si trova all’estero. Ne ho conosciuti a centinaia, sia in America che a Londra, specialmente a Londra dove non c’è differenza, nessuna differenza, tra una tazza di tè e un bicchiere di vino del Vesuvio, dove l’emigrante, per dirla alla Troisi, trova quel riconoscimento che nel proprio paese di origine gli viene negato. Ecco che il napoletano, quello appartenente alla categoria di cui ci stiamo occupando, se vuole vivere e trovare lavoro nella città che gli ha dato i natali, come sarebbe poi suo diritto, deve ricorrere a trovate pulcinellesche o a mezzi equivoci e illegali che gli possono dare la certezza di tornare la sera a casa sua, solo che riesca a non farsi beccare dalla polizia. E sarebbe una vita questa?...Propongo di sollecitare il governo affinché dia il via all’assegnazione al Filangieri di uno spazio in una località ridente su cui costruire un villaggio con abitazioni e botteghe dove i giovani, già avviati a mestieri e all’artigianato antico, possano abitare e lavorare ognuno per conto proprio, assaggiando in tal modo il sapore del frutto sulla loro sacrosanta fatica, recuperando la speranza e la fiducia di una vita nuova che restituisca loro quella dignità cui hanno diritto e che giustamente reclamano. Le infinite specializzazioni di arti e mestieri (pellettieri, fabbri, restauratori, ebanisti, pittori, sarti, cuochi, pasticcieri eccetera) renderebbero il villaggio un centro operoso di qualificati prodotti artigianali, di cui tanto si auspica il ritorno, e ciò sarebbe non solo un richiamo di ordine turistico su scala internazionale ma anche e insieme fonte di guadagno e di indipendenza economica per questi giovani…”. Nel corso dell’ultimo festival della canzone di Sanremo ha molto commosso e colpito l’intenso e bell’intervento di Francesca Fagnani sul problema dei ragazzi in carcere, proprio a partire dal Filangeri. Ebbene, il brano parlamentare citato è parte di un discorso, il suo primo intervento al Senato, di Eduardo De Filippo, nominato senatore a vita dal presidente Sandro Pertini. L’integrale è pubblicato nel resoconto stenografico della seduta del 23 marzo 1982. Sembra scritto oggi, per l’oggi. Purtroppo. Perché il silenzio istituzionale su Cospito? di Marco Perduca huffingtonpost.it, 29 marzo 2023 Sono oltre quattro mesi che quest’uomo è praticamente a digiuno e, a più riprese, i giudici hanno riconosciuto “l’elevato rischio di conseguenze, anche gravi e imprevedibili, di natura cardio-circolatoria”. Il loro “dovere” lo hanno fatto, chi invece continua a non assumersi le proprie responsabilità sono le istituzioni: Parlamento, Governo e Capo dello Stato. Nei giorni in cui si ha notizia della presentazione di un disegno di legge di Fratelli d’Italia che mira a cancellare dal codice penale il reato di tortura, arrivano due decisioni negative alle richieste di domiciliari presentate dai legali di Alfredo Cospito per le sue condizioni fisiche. L’anarco-insurrezionalista resterà all’ospedale San Paolo di Milano in regime di 41 bis. Sia il tribunale di sorveglianza di Milano sia quello di Sassari hanno infatti rigettato la sua proposta di differire la pena “per gravi ragioni di salute” perché lo stato di salute in bilico tra la vita e la morte di Cospito è dovuto esclusivamente al suo sciopero della fame. I giudici scrivono che “Cospito è lucido, collaborante, non emergono alterazioni della percezione né acuzie psichiatriche in atto, appare consapevole dei rischi connessi alla prosecuzione del regime dietetico [...] da nessun elemento in atto, neppure da alcuna deduzione difensiva, si trae che la scelta di Cospito di intraprendere e, attualmente, proseguire nello sciopero della fame, possa essere ricondotta a tratti disfunzionali di personalità (sui quali sarebbe altrimenti doveroso indagare) [...] appare determinato nel rifiuto delle terapie proposte, esprimendo così il suo spazio di autodeterminazione, al fine di provocare gli effetti di cambiamento a livello giudiziario, politico e legislativo dallo stesso auspicati”. Niente da eccepire sulle motivazioni ma la causa del “suo mal” non è la salute deteriorata a seguito della privazione di cibo scelta come strumento per una lotta politica, ma il regime di carcere duro a cui in Italia da quasi 40 anni vengono sottoposte persone ritenute pericolosissime. Poderose minacce alla sicurezza dello Stato da dover essere punite severissimamente e isolate dal resto del mondo, famigliari compresi. L’avvocato di Cospito Flavio Rossi Albertini non confidava in alcun modo in questa iniziativa, che rappresentava però un passaggio obbligato per adire alle giurisdizioni internazionali”. Il caso Cospito è “paradigmatico sotto molti profili dello stato di civiltà giuridica del nostro Paese, chissà cosa ne direbbe Voltaire se fosse ancora vivo”. Certe affermazioni potrebbero far organizzare delle sedute spiritiche, non sarebbe la prima volta, in attesa che qualcuno interroghi Voltaire abbiamo pronunce della Corte costituzionale contrarie agli eccessi del 41 bis e della Corte europea dei diritti umani che ritengono quel regime di carcere duro una “trattamento disumano e degradante” cioè tortura. Il Tribunale di Sassari ha scritto che “le condizioni di salute di Cospito sono oggettivamente incompatibili con la carcerazione, in regime di 41 bis o meno ma siccome questo “stato di malattia è esclusiva conseguenza delle determinazioni dello stesso detenuto sopra riassunte, nessun differimento, sotto alcuna forma, può essere disposto”. Se il Comitato nazionale di bioetica si era spaccato sulla necessità di passare (eventualmente) all’alimentazione forzata perché Cospito non stava male ma si era fatto male (semplifico le due sentenze di Milano e Sassari non prendono in considerazione gli effetti ma le cause dello stato di salute dell’anarco-insurrezionalista. Sono oltre quattro mesi che Cospito è praticamente a digiuno e, a più riprese, i giudici hanno riconosciuto “l’elevato rischio di conseguenze, anche gravi e imprevedibili, di natura cardio-circolatoria”, il loro “dovere” lo hanno fatto, chi invece continua a non assumersi le proprie responsabilità sono le istituzioni: Parlamento, Governo e Capo dello Stato. E non è che non dichiarino quotidianamente su tutto lo scibile umano. Quindi perché questo silenzio su un patente caso di tortura di Stato? Cospito, ora i giudici parlano per slogan politici di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi Il Riformista, 29 marzo 2023 Le ragioni del no ai domiciliari. Due Tribunali di Sorveglianza, quello di Sassari e quello di Milano, hanno rigettato l’istanza di differimento della pena nella forma della detenzione domiciliare, presentata dai legali di Alfredo Cospito. Secondo i giudici il detenuto anarchico è perfettamente monitorato in ospedale e - questo è un punto essenziale - “la strumentalità della condotta che ha dato corso alle patologie oggi presenti è assolutamente certa”. Queste parole sorprendono perché sembrano prese in prestito dal linguaggio politico più ordinario e presentate surrettiziamente come argomenti giuridici. Lo sciopero della fame è, per definizione, una condotta strumentale al raggiungimento di un obiettivo. Nel caso di chi si trova ristretto in carcere è praticamente l’unico mezzo, non violento, per ottenere il miglioramento delle condizioni detentive. D’altra parte, come ha scritto Gianfranco Pellegrino sul Domani, se la tesi di quei giudici venisse assunta come orientamento generale, “ne deriverebbe che un cittadino che si espone volontariamente a pericoli (per esempio, un cittadino che si espone al contagio di un virus) non merita le cure dello Stato”. “E - continua Pellegrino - ne deriverebbe pure che un cittadino che, impegnato per esempio in una dimostrazione per ideali politici, si procuri danni fisici, non dovrebbe essere curato, perché l’azione che ha portato alla sua condizione era volta a ottenere fini politici”. In ogni caso, lo sciopero di Cospito ha conseguito una serie di obiettivi: A) per la prima volta in Italia si è discusso sul regime di 41 bis in una forma meno superficiale di quanto mai sia stato fatto prima; B) per molti mesi sulle prime pagine dei quotidiani le condizioni di un detenuto sono state oggetto di dibattito, di analisi critiche e di aspettative fiduciose; C) la politica si è dovuta confrontare con quanto avviene al di là del muro di cinta, nel luogo di chi vive il sottosuolo e che, in genere, viene dimenticato. D’altra parte, questi sono gli obiettivi “collaterali” di un’azione che aveva al centro il superamento del 41 bis. Una battaglia individuale perché personale è la pena cui Cospito è sottoposto, ma dalla valenza dichiaratamente generale. È possibile che gli stessi legali non nutrissero grandi speranze rispetto alla decisione sul differimento pena ma, come è stato ricordato anche su questo giornale, l’istanza era necessaria al fine di poter procedere presso gli organismi internazionali. Ora, quante possibilità ci sono che l’Europa intervenga? Non lo sappiamo, ma abbiamo fiducia che gli autorevoli pareri espressi da organismi come la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo e la Procura Generale presso la Cassazione siano riconosciuti e accolti. Entrambi hanno sostenuto che, ai fini della sicurezza, non sia indispensabile perpetuare il regime di 41 bis a carico di Cospito; e che un regime di minor rigore basterebbe a garantire le finalità affidate oggi alla detenzione in 41 bis. Queste e altre considerazioni, unitamente alla tradizionale giurisprudenza della Cedu in materia di condizioni detentive, induce in noi qualche speranza. Carmelo Musumeci, ex ergastolano, oggi scrittore, ha pubblicato una riflessione in cui spiega perché non ha voluto sottoscrivere l’appello che è girato in questi giorni per chiedere a Cospito di interrompere lo sciopero. “Ho pensato - scrive Musumeci - che non ho nessun diritto di chiedere ad Alfredo Cospito di smettere lo sciopero della fame, perché lui sta morendo per continuare a vivere, perché ama così tanto la vita che non la vuole vedere appassire fra le mura di un carcere”. Anche noi, in questi mesi, abbiamo riflettuto sull’opportunità di rivolgerci direttamente a Cospito, di chiedergli di interrompere questa dolorosa agonia. Oggi ci troviamo al 29 marzo, con un’opinione pubblica stanca, un trafiletto sul giornale, un Ministro della Giustizia silente e un uomo arrivato a 159 giorni di sciopero della fame, con danni probabilmente irreversibili. Più che un appello a Cospito, dunque, il nostro è un richiamo a tutti gli uomini e a tutte le donne di buona volontà. Se hanno qualcosa da dire la dicano: se hanno qualcosa da fare la facciano. Dov’è finito Nordio, il ministro liberale? di Stefano Folli La Repubblica, 29 marzo 2023 Meloni ha voluto il Guardasigilli e adesso gli chiede di restare, ma di non smuovere le acque del rapporto tra politica e giustizia. Il che crea una situazione paradossale. Fino a pochi giorni fa il ministro della Giustizia Carlo Nordio, uomo di salda cultura liberale, era visto con sospetto da chi temeva una riforma della giustizia votata a ridurre il potere della magistratura. Per quanto accorate fossero le rassicurazioni del diretto interessato (“Nessuno più di me rispetta l’autonomia dei magistrati”), la diffidenza nei suoi confronti appariva inscalfibile. Al tempo stesso si prendeva atto del punto chiave: il riformismo liberale di Nordio voleva essere il fiore all’occhiello del governo Meloni. La via attraverso la quale la presidente del Consiglio chiudeva con il “giustizialismo” trasversale che aveva segnato una lunga stagione italiana e che a destra era ben rappresentato proprio da Fratelli d’Italia. La scelta di Nordio, voluto fortemente dalla vincitrice del 25 settembre, acquistava quindi un valore simbolico ed era il tentativo di avere il consenso di un’opinione pubblica liberal-democratica, “garantista” nel senso più chiaro del termine. Così sembrava. E in effetti nelle sue prime settimane il neo ministro si era esposto a polemiche aspre che lo vedevano, magari con qualche errore di troppo dovuto all’inesperienza, schierato dalla parte dei principi giuridici difesi in centinaia di articoli e interventi pubblici. I suoi sostenitori attendevano il passo più importante: l’avvio sia pur prudente della “separazione delle carriere” tra giudici e pubblici ministeri. La riforma-cardine da un punto di vista “garantista”: un intervento di natura costituzionale inviso alla magistratura e a gran parte della sinistra (salvo eccezioni) come pure a quei settori della destra rimasti fedeli alla linea tradizionale. Riforma controversa, quindi, e non poco. Tuttavia molto significativa per stabilire quale fosse la rotta del governo Meloni, fino a che punto intendesse spingersi per correggere gli assetti del potere giudiziario. L’attesa si è prolungata per mesi senza novità apprezzabili. E veniamo all’oggi. Le Camere Penali, ossia gli avvocati penalisti, hanno indetto uno sciopero di inusuale lunghezza, ben tre giorni, in cui esprimono la loro delusione verso il ministro che aveva lasciato intravedere un orizzonte liberale presto sparito nelle nebbie. Non solo la separazione delle carriere, ma altri provvedimenti per restituire efficienza al sistema giudiziario. Viceversa, si è creata - ad avviso dei penalisti - una deriva riassunta in tre parole: “carcere, carcere, carcere”. Ossia una tendenza all’introduzione di nuovi reati, magari destinati a restare sulla carta, ma tutti in grado di appesantire la macchina giudiziaria. Alcuni poi sembrano un tributo allo spirito dei tempi, cioè al politicamente corretto: ad esempio il reato di anoressia. In sostanza Nordio ha perso l’appoggio del fronte “garantista” che gli rimprovera di essersi piegato alla magistratura e di aver presto rinunciato all’idea di scuotere l’albero dei poteri consolidati. Né si può dire che il ministro abbia trovato nuovi amici tra i vecchi avversari che gli contestavano le opinioni eterodosse. Ad esempio il Pd (Serracchiani) gli rinfaccia di essere indifferente ai figli delle detenute, anch’essi costretti in prigione. Altri gli fanno carico di aver abbandonato nel caso Cospito le sue antiche riserve verso il regime del 41-bis. S’intende che l’appannamento del ministro non è casuale né si deve a una sua mancanza di coraggio. È la premier che gli ha chiesto di fermarsi. Giorgia Meloni lo ha voluto a via Arenula e adesso gli chiede di restare, ma di non smuovere le acque del rapporto tra politica e giustizia. Il che crea una situazione abbastanza paradossale. E vien da domandarsi che senso ha avuto volere un liberale alla Giustizia per poi frenarlo. Era da mettere nel conto che la sua nomina avrebbe suscitato polemiche a non finire. Ma ora l’immobilismo può ritorcersi contro il governo. Il reato di tortura e quella tentazione (da destra) di abolirlo di Luigi Manconi La Repubblica, 29 marzo 2023 La presenza di quel reato nel nostro codice non è piaciuta ad alcuni e, in particolare, ai sindacati delle forze di polizia. Nel 2015 il dibattito sulla tortura nel nostro paese ebbe una accelerazione a seguito della condanna da parte della Corte europea dei diritti umani nei confronti dell’Italia per le violenze degli apparati di polizia messe in atto durante i giorni del G8 di Genova (2001), in particolare per il comportamento tenuto in occasione dell’irruzione notturna nella scuola Diaz. La Corte stabilì che l’Italia doveva adeguare il proprio ordinamento, sul piano “strutturale”, con una legge penale e dotarsi di strumenti utili a prevenire il ripetersi di abusi simili. Nel 2017, dopo quattro anni di discussioni, emendamenti e modifiche, la Camera approvò il disegno di legge che introduceva il reato di tortura nell’ordinamento italiano. E ciò a ventotto anni dalla ratifica da parte dell’Italia della Convenzione delle Nazioni Unite in materia. Si tratta di un testo diverso da quello originario, che riproduceva esattamente la normativa proposta dall’Onu. Le differenze cruciali che hanno fatto della proposta iniziale una legge parziale sono essenzialmente tre. La prima. Il reato è comune e non proprio: ovvero attribuibile a chiunque e non imputabile solo ai pubblici ufficiali e a chi esercita un pubblico servizio. Un reato, dunque, che non deriva dall’abuso di potere di un funzionario dello Stato ma da una qualunque forma di violenza tra individui. La seconda. La necessità che vi sia una pluralità di violenze e di minacce e il ripetersi di più condotte perché si verifichi la tortura. Il rischio è che una violenza esercitata da un singolo ufficiale su una persona oppure una violenza non reiterata e non protratta nel tempo non rientri nella fattispecie di tortura. La terza. La pretesa che vi sia una verificabilità oggettiva - tramite tac? - del trauma psichico derivante da tortura. Nonostante tutti questi limiti l’introduzione nel nostro ordinamento di quel reato ha rappresentato una svolta importante per quanto così tardiva. Ne è conferma il fatto che, dal 2017 a oggi, il reato di tortura è stato contestato a numerosi imputati in diversi procedimenti giudiziari: da Ferrara a San Gimignano, da Torino a Firenze Sollicciano, fino a Santa Maria Capua Vetere, in genere a carico di appartenenti alla polizia penitenziaria. Come prevedibile, la presenza di quel reato nel nostro codice non è piaciuta ad alcuni e, in particolare, ai sindacati delle forze di polizia. Presumibilmente, è a seguito delle pressioni provenienti da quelle organizzazioni che, in certi settori della destra italiana, si è parlato, da subito, di radicali modifiche, se non di una vera e propria abolizione della normativa in questione. Nel luglio del 2018, se ne fece interprete Giorgia Meloni con un tweet: “Abbiamo presentato due proposte di legge per aumentare le pene a chi aggredisce un pubblico ufficiale e per abolire il reato di tortura che impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro”. Successivamente, il tweet è stato cancellato dal suo profilo. Intanto, la discussione prosegue tra ipocrite rassicurazioni e reali minacce. Il presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, Ciro Maschio (FdI), tranquillizza: la proposta di legge risale a novembre e non è “ipotizzata la calendarizzazione”. Ma il Presidente dei deputati del medesimo partito, precisa: “Non si tratta di abolire il reato di tortura ma tipizzarlo come nelle convenzioni internazionali”. Frasi senza senso. Verrebbe da dire: all’erta. FdI scavalca Nordio e s’allea con Azione per cancellare la prescrizione di Bonafede e Cartabia di Liana Milella La Repubblica, 29 marzo 2023 Ciro Maschio, il presidente meloniano della commissione Giustizia della Camera, presenta la proposta di legge e sfrutta quella di Costa che è già in calendario per tornare alla riforma Orlando. In commissione parte la battaglia sull’abuso d’ufficio. Fratelli d’Italia oramai vuole intestarsi la battaglia per cambiare completamente la giustizia in Italia cancellando il passato. E s’allea con Azione. Anticipando in Parlamento le mosse del Guardasigilli Carlo Nordio. Stavolta - contro la prescrizione di Alfonso Bonafede e Marta Cartabia - si muove il presidente della commissione Giustizia della Camera, il meloniano Ciro Maschio. Che presenta una proposta per cancellare del tutto sia la prescrizione dell’ex Guardasigilli di M5S, sia quella di Cartabia. Una mossa furba perché in commissione sta per essere incardinata la proposta di Enrico Costa di Azione che vuole cancellare la legge Bonafede per tornare invece a quella di Andrea Orlando, l’ex ministro della Giustizia del Pd. Un guazzabuglio di leggi approvate e “stroncate” prim’ancora che se ne potessero vedere gli effetti, soprattutto nel caso della Bonafede che bloccava la prescrizione dopo il primo grado per chi è condannato, ma solo a partire dai reati commessi dopo il primo gennaio 2020. Che prima di fruire della legge Bonafede dovevano essere arrivati al processo di primo grado. Ma ecco arrivare la legge Cartabia, l’improcedibilità in Appello per i processi che superano il tempo stabilito, con varie e complesse previsioni. Legge che di fatto non elimina la Bonafede, ma ne modula gli effetti. Digerita con infiniti mal di pancia dal M5S. E adesso eccoci a Costa e a Ciro Maschio che ribaltano di nuovo il tavolo. Costa ha un’idea precisa, si torni alla legge Orlando, per cui la prescrizione va avanti fino alla Cassazione, ma dopo la sentenza di primo grado, per chi è stato condannato, scatta una sospensione di 18 mesi e di altri 18 in Cassazione, in tutto 36 mesi per evitare la prescrizione e chiudere il processo. Ovviamente Costa, come scrive nella sua proposta di legge, insiste sul fatto che già oggi la maggior parte dei processi “muore” nella fase delle indagini preliminari, con una percentuale oscillante tra il 70 e il 75 per cento. È evidente che con la proposta di Costa sparisce anche l’improcedibilità di Cartabia. Quanto a Ciro Maschio l’idea sarebbe semplicemente quella di ripristinare la prescrizione tout court dei singoli reati, per ognuno dei quali esiste un tempo stabilito commisurato alla pena. Scaduto quello il processo finisce. Insomma, torniamo alla ex Cirielli di Silvio Berlusconi del 2005. Ma con il correttivo della legge Orlando. Per cui, come dice lo stesso Maschio, “si ritorna sostanzialmente alla fase antecedente, e quindi a quella riforma”. Proprio come chiede Costa. La maggioranza si allarga in Parlamento e sulla giustizia si allea col partito di Calenda e Renzi. E Nordio? Le proposte che ha lanciato nei discorsi in Parlamento e nelle interviste camminano con le gambe di altri. Come nel caso dell’abuso d’ufficio. Lui vuole abolire il reato. E da domani in commissione Giustizia, sempre alla Camera, ecco le quattro proposte sul tappeto. Costa, che vuole cancellarlo del tutto con un tratto di penna, mentre Forza Italia cavalca due strade, la cancellazione totale con Rossella e Pittalis, mentre Pella ne vuole mantenere una parte, ma rendendolo innocuo e accontentando Fratelli d’Italia che con Giorgia Meloni ha promesso ai sindaci di eliminare dal loro cammino lo spauracchio dell’abuso d’ufficio. Eliminarlo del tutto come vuole Nordio sarebbe troppo e allora teniamolo lì nel codice penale ma rendendolo di fatto innocuo. “Torna la prescrizione”, Fratelli d’Italia scongela la riforma della giustizia di Errico Novi Il Dubbio, 29 marzo 2023 I meloniani depositano alla Camera la proposta per il ripristino della legge Orlando: sarà abbinata al testo di Costa. Varchi, prima firmataria: “È una priorità del partito”.La prima vera accelerazione garantista della coalizione di governo: la presentazione di una proposta di legge targata Fratelli d’Italia, appunto, che ha l’obiettivo di ripristinare la prescrizione “ante Bonafede”. Il ritorno alla disciplina sostanziale sui tempi massimi del processo che la prima linea di Giorgia Meloni sulla giustizia, Andrea Delmastro, aveva annunciato alla vigilia delle Politiche. Già in un dibattito organizzato a metà settembre dal Consiglio nazionale forense, proprio Delmastro indicò nel ripristino della prescrizione sostanziale “un’esigenza di civiltà giuridica, necessaria per scongiurare l’abnormità della condizione di imputato a vita”. Ora ci siamo, come anticipa l’agenzia Agi. Nei prossimi giorni potrebbe essere fissato un calendario ancora più dettagliato, ma il presidente della commissione Giustizia di Montecitorio Ciro Maschio, anche lui di FdI, aveva già dato rassicurazioni chiare a Enrico Costa, responsabile Giustizia e vicesegretario di Azione, autore del primo testo sulla prescrizione depositata nell’attuale legislatura: l’organismo della Camera se ne occuperà a maggio. Giusto il tempo di guadagnare un po’ d’andatura sull’abuso d’ufficio, che (come si riferisce con ampiezza in altro servizio, ndr) fa il proprio esordio in commissione proprio oggi. “Ripristinare la prescrizione sostanziale è una proposta dell’intero partito, anzi è la proposta del partito”, dice al Dubbio la capogruppo di Fratelli d’Italia in commissione Giustizia Carolina Varchi. “Sono la prima firmataria dell’iniziativa sulla prescrizione, ma lo potremmo definire un dato meramente formale perché si tratta appunto di una scelta politica di tutta Fratelli d’Italia. Noi abbiamo una priorità, sul penale: fare in modo che la domanda di giustizia trovi risposta. Siamo anche pronti a comprendere le difficoltà in cui si dibattono gli uffici giudiziari: ma quella risposta di giustizia non è compatibile con l’idea che si resti imputato a vita. Ecco perché la prescrizione sostanziale, nella forma già codificata con la legge Orlando, è necessaria”. C’è una differenza con il progetto di Costa. Fratelli d’Italia propone di sopprimere sia il blocca- prescrizione di Bonafede sia le norme sull’improcedibilità introdotte, come surrogato della prescrizione, dalla riforma Cartabia. Il responsabile Giustizia di Azione spiega che nel proprio schema invece c’è “l’addio alla Bonafede e il ritorno alla prescrizione sostanziale di Orlando con il contestuale mantenimento delle norme sull’improcedibilità. Si crea così un sistema complementare che può essere un argine in casi abnormi. Ad esempio, quando in primo grado si va per direttissima e di fatto restano a disposizione dell’appello gran parte degli anni previsti per il decorso della prescrizione sostanziale: un margine”, dice Costa, “che può lasciare il processo e l’imputato a mollo per un tempo lunghissimo, appunto”. Varchi non considera al momento l’ipotesi del “mix” anche perché, ricorda, “noi di Fratelli d’Italia ci siamo battuti con energia, nella precedente legislatura, contro l’improcedibilità, che definimmo un Frankenstein giuridico”. A questo punto si tratta di dettagli, sui quali peseranno anche i pareri raccolti nelle audizioni. Al momento conta il dato politico: l’addio definitivo alla legge Bonafede è un obiettivo sui cui Fratelli d’Italia, come conferma Varchi, punta con convinzione, nella strategia sulla giustizia. Ed è di fatto la mossa che rompe la paralisi. Nelle ultime settimane Nordio era apparso disarmato, nel contrasto fra gli annunci (suoi e del Parlamento) e la pochezza dell’azione legislativa. Con la discesa in campo del partito di Giorgia Meloni il quadro cambia nettamente. Ma perché FdI sceglie proprio la prescrizione? Varchi spiega che in realtà “sulla giustizia sono avviati anche altri percorsi: l’abuso d’ufficio”, appunto, “su impulso di FI, l’occupazione abusiva di immobili sollecitata dalla Lega e l’omicidio nautico in arrivo dal Senato, dove ha ottenuto l’approvazione all’unanimità”. Nell’iniziativa di FdI si può cogliere una mossa calibrata. I 5 Stelle proveranno a opporsi e a difendere quel che resta del blocca-prescrizione targato Bonafede, ma a parte l’eccezione grillina nessun altro potrà speculare con l’elettorato più intransigente ai danni dei meloniani. Né la magistratura, che non ha mai digerito l’improcedibilità, né il Pd. Che certo, come ricorda Costa, ha votato contro un ordine del giorno, presentato a inizio anno dallo stesso deputato di Azione, con cui si impegnava l’esecutivo a promuovere il ripristino della legge Orlando. Ma alla resa dei conti difficilmente i dem potranno girarsi dall’altra parte. Due giorni fa l’Unione Camere penali ha proclamato uno sciopero contro “l’inerzia sulla giustizia” della maggioranza. Verrebbe da dire che allo scossone è seguito un riscontro tangibile. Nordio di certo è un po’ meno isolato. E con lo scatto di FdI, l’intera maggioranza può ritrovare un po’ di equilibrio su un fronte destinato altrimenti a corroderne la stabilità. “Intercettazioni selvagge? Falso”. Spataro contesta la linea del ministro Nordio di Valentina Stella Il Dubbio, 29 marzo 2023 L’ex procuratore di Torino audito in Senato: “I dati forniti dal Guardasigilli sono sbagliati”. Sono proseguite ieri in commissione Giustizia al Senato le audizioni in merito all’indagine conoscitiva sulle intercettazioni. Il primo ad intervenire è stato l’avvocato del Foro di Roma, Antonio Paolo Panella. Il legale che ha assistito Cosimo Ferri, magistrato ed ex deputato di Italia Viva, dinanzi alla disciplinare del Csm, ha tentato di ricostruire la faccenda che ha coinvolto anche l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Panella ha ricordato come i dati carpiti dal trojan instillato nel cellulare di Palamara siano finiti in due server della società Rcs a Napoli, in violazione della norma che prevede che vengano utilizzati solo impianti all’interno della Procura di Roma, in questo caso. La sua discussione è stata però interrotta dalla pattuglia dei senatori dem, in primis da Anna Rossomando, che hanno contestato l’utilità di ripercorrere un caso processuale specifico. È stata poi la volta dell’ex magistrato Armando Spataro. La sua relazione è consistita in pratica nel confutare le argomentazioni del ministro Nordio sul tema enunciate in Senato ma anche sul Foglio, non avendo ancora a disposizione un testo normativo. In pratica gli ha fatto le pulci. Il Guardasigilli - ma non solo lui - ha sostenuto che “in Italia il numero delle intercettazioni è di gran lunga superiore alla media europea e ancor più di quella dei Paesi anglosassoni”. Per Spataro si tratta di “un dato che non corrisponde affatto alla realtà”. Nel nostro Paese, ha proseguito l’ex pm, “il numero delle intercettazioni è facilmente leggibile, non così nella gran parte degli stati europei. Da noi è prevista l’autorizzazione da parte di un giudice e le intercettazioni segrete non hanno accesso nei fascicoli”. Peraltro, dice sempre Spataro, “vengono citati i Paesi anglosassoni che sono proprio l’esempio di un sistema che manca di diritti per l’interessato”. Spataro ricorda poi come il responsabile di Via Arenula abbia dichiarato che “il numero delle intercettazioni vada ridimensionato perché il costo è troppo alto”. “Ammesso pure che il costo sia elevatissimo - replica l’ex magistrato - trovo abbastanza sbagliato pensare che per contenerlo si possa mettere a disposizione delle singole procure un budget da utilizzare per le intercettazioni”. Tale previsione per Spataro è “ai limiti del logico”, in quanto “finirebbe per favorire soltanto le organizzazioni criminali che sarebbero attente all’utilizzo del budget”. Si dimentica poi - dice l’audito - che il ministero della Giustizia, con un bollettino ufficiale del 15 dicembre 2022, ha pubblicato un decreto ministeriale del 6 ottobre precedente in cui adotta una tabella dei costi massimo per ciascuna tipologia di interventi tecnici che le società private delegate possono porre in essere”. Per Spataro, “ragionare in termini di imprenditoria economica è sbagliato perché non ci sono Paesi come l’Italia in cui il tasso di criminalità è così alto”. Poi si è detto “meravigliato” nel leggere l’affermazione “secondo cui le intercettazioni si dissolverebbero in sede di contraddittorio dibattimentale e dovrebbero essere un mezzo di ricerca della prova mentre sono diventate uno strumento di prova. Questa distinzione mi lascia proprio indifferente come giurista pratico”, ha concluso Spataro, in quanto “se intercetto due che parlano di un omicidio commesso quella intercettazione è prova. Inoltre dire che le intercettazioni si sfaldano e non servono a nulla nel processo” è sbagliato, “perché hanno permesso anche la condanna di importanti imputati”. Se ci sono degli errori nelle trascrizioni, per Spataro, “va disciplinarmente perseguito chi ne è responsabile”, però “non è possibile affermare che questi errori o l’utilizzo delle intercettazioni costituiscono un pericolo per la riservatezza e l’onore delle persone”. Per Nordio le intercettazioni vengono anche selezione per una delegittimazione personale e politica. “Questa è una antica querelle - ha sostenuto Spataro - secondo cui soprattutto i pubblici ministeri sono quelli che esagerano. Questa tesi è al limite dell’offensivo, tenendo presente che la nostra disciplina prevede il rilascio di autorizzazione da parte del giudice, prevede una normativa dell’esecuzione delle intercettazioni molto rigorosa anche nella conservazione delle conversazioni, soprattutto a partire dalla fine del 2017”. No della Cassazione francese all’estradizione di 10 ex terroristi italiani di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 29 marzo 2023 Calabresi: “Da loro mai una parola di ravvedimento”. La Corte di Cassazione francese ha detto definitivamente no all’estradizione di dieci terroristi italiani che da anni si erano rifugiati nel Paese. La richiesta di estradizione era stata avanzata dal governo italiano e appoggiata da quello di Parigi. I 10 ex terroristi rifugiati in Francia e arrestati nel 2021 nell’ambito dell’operazione Ombre rosse non verranno estradati in Italia. La Corte di Cassazione francese ha respinto il ricorso presentato dal procuratore generale Rémy Heitz, che in rappresentanza del governo francese si era opposto al no all’estradizione già pronunciato il 29 giugno 2022 dalla Chambre de l’Instruction della corte di Appello. I giudici francesi avevano motivato il rifiuto con il fatto che molti degli arrestati erano stati giudicati in Italia in loro assenza, e non avrebbero avuto la possibilità di difendersi in un nuovo processo poiché la legge italiana non offre questa garanzia; inoltre, il tribunale faceva valere che i rifugiati vivevano da 25-40 anni in Francia, dove si sono costruiti una situazione famigliare stabile, si sono inseriti professionalmente e socialmente rompendo ogni legame con l’Italia, e quindi la loro estradizione avrebbe provocato un danno sproporzionato al loro diritto a una vita privata e famigliare. La Corte di cassazione considera oggi che quei motivi addotti dai giudici nel giugno 2022 sono sufficienti e respinge quindi il ricorso. Il giudizio sfavorevole all’estradizione è ormai definitivo. Si tratta di una sconfitta per le autorità italiane, che avevano presentato la richiesta di estradizione, e anche per il governo francese che l’aveva accolta e che il 27 aprile 2021 aveva arrestato i dieci ex militanti della lotta armata. In un’intervista al Corriere, il ministro della Giustizia francese Eric Dupond-Moretti è intervenuto ieri sulla vicenda dicendo che quegli ex militanti dell’estrema sinistra rifugiati in Francia “io li chiamo terroristi. Assassini. Vorrei ricordare che il signor Cesare Battisti, che è stato sostenuto da una parte dell’intellighenzia francese, appena è arrivato in Italia ha ammesso la sua colpevolezza, dopo avere criticato per anni la giustizia italiana, che è una giustizia indipendente, sovrana e di un grande Paese democratico. La seconda cosa da dire è che, da un punto di vista politico, noi abbiamo fatto quel che era necessario perché venissero arrestati. L’ultima cosa è che la giustizia ovviamente è indipendente e sovrana, in Francia come in Italia. Il Guardasigilli non può intervenire e non ho la sfera di cristallo per dire che cosa succederà martedì. Quale che sarà la decisione, invierò un messaggio agli italiani”. Immediate le reazioni alla sentenza della suprema corte francese. Tra le prime quella di Mario Calabresi, giornalista e figlio del commissario assassinato dai terroristi nel 1972. “Vedere andare in carcere queste persone non ha più senso - ha scritto su Twitter - ma c’è un dettaglio fastidioso e ipocrita. La Cassazione scrive che...l’estradizione avrebbe provocato un danno sproporzionato. Ma pensate al danno sproporzionato che loro hanno fatto uccidendo dei mariti e dei padri di famiglia. da parte di nessuno di loro c’è mai stata una parola di ravvedimento, solidarietà o riparazione. Chissà...”. “L’Italia ha fatto tutto quanto era in suo potere - ha commentato il ministro della giustizia Carlo Nordio - ho ringraziato il ministro francese Dupond Moretti per essere stato al fianco dell’Italia. Il mio pensiero va ai familiari delle vittime”. Una ferita insanabile che resterà nella storia dei rapporti tra Italia e Francia di Carlo Bonini La Repubblica, 29 marzo 2023 La decisione della Corte di Cassazione francese di confermare il diniego all’estradizione di otto uomini e due donne, protagonisti della stagione della lotta armata nel nostro Paese, e per questo condannati in via definitiva per gravissimi reati di matrice terroristica (omicidi nella maggior parte dei casi, come anche sequestri di persona) riapre, rendendola a questo punto non più rimarginabile, una ferita profonda. Che tale resterà nella storia dei rapporti tra Italia e Francia. Per l’intollerabile pregiudizio di cui questa decisione è figlia, per l’enormità giuridica del principio che afferma, per l’impunità che assicura ai colpevoli e il dolore in cui torna a precipitare la vita e la memoria delle vittime. Per l’ostacolo definitivo che pone nel chiudere per sempre la coda insanguinata del nostro Novecento. Chiariamolo subito. In nessun ordinamento democratico la pena può essere concepita come vendetta. A maggior ragione come vendetta tardiva che sorprende il condannato in una età e condizione della vita talmente distanti dai fatti per cui si è stati condannati da rendere la pena contraria ai diritti fondamentali dell’uomo. Per questo, nelle democrazie, compresa la nostra, esistono istituti che stabiliscono che decorso un tempo congruo da una condanna non eseguita, la pena decada. Ebbene, i dieci latitanti italiani oggetto della richiesta di estradizione non versavano in questa condizione. Ormai in età avanzata, in qualche caso malati, avevano ricostruito le loro vite da latitanti protetti da una dottrina (conosciuta come “dottrina Mitterand”) che gli aveva spalancato le porte della Francia elevandoli al rango di rifugiati politici. Quali, per altro, non erano. Perché in fuga non da una persecuzione politica, ma dai processi in cui erano imputati non per reati politici, ma di violenza politica. Per trent’anni la “dottrina Mitterand”, per giunta interpretata dal potere politico e giudiziario francese in modo estensivo (Mitterand, che ne era stato l’artefice, la riteneva non applicabile ai latitanti per reati di sangue), era stata uno strumento politico brandito dall’Eliseo per rimarcare un solco di cultura politica e giuridica tra i due Paesi. Nella primavera del 2021, il Presidente francese Macron e il suo ministro di giustizia Eric Dupond-Moretti insieme al nostro presidente della Repubblica Sergio Mattarella erano riusciti a chiudere quella pagina del Novecento ripristinando il principio universale di ogni democrazia per cui i reati, accertati in via definitiva in un giusto processo, non debbano e non possano restare impuniti. Ecco perché, nel giugno di quell’anno, nelle case parigine di uomini e donne ormai anziani aveva bussato il fantasma della lotta armata, presentando un conto troppo a lungo rinviato e non certo perché figlio di un ritardo nell’accertamento della verità, ma solo della volontà dei colpevoli di sottrarsi alla pena nel luogo in cui questo gli era stato per lustri consentito. Ebbene, la giustizia francese spiega oggi al nostro Paese che a impedire il rientro in Italia di quei dieci ex militanti della lotta armata, responsabili della morte data ad innocenti senza alcun processo (che non fosse quello agghiacciante pronunciato dal “tribunale” di un fantomatico “popolo”), sarebbe il mancato rispetto degli articoli 6 e 8 della carta europea dei diritti fondamentali dell’uomo. Lì dove cioè si sancisce il diritto di ogni cittadino europeo ad avere un giusto processo e a veder rispettata la propria vita privata e familiare. Nell’affermazione sono evidenti due enormità. Ritenere, senza alcuna evidenza, che l’Italia abbia celebrato nei confronti di quei dieci ex terroristi processi contrari allo Stato di diritto. Ritenere che la richiesta di estradizione leda la raggiunta quiete della sfera privata e familiare di ex assassini perché non ricorrerebbero i requisiti per cui quella libertà può essere compressa. Come se l’impunità di condannati in via definitiva cercata, ottenuta, e difesa con strumenti politici, possa essere oggi un canone europeo di giustizia cui adeguare le decisioni del giudice penale. La verità - ed è terribile dirlo - è che nella decisione della giustizia francese ci sono tutto il pregiudizio, le tossine e il ciarpame ideologico che una generazione di expat è riuscita a depositare in trent’anni nella cultura profonda di quel Paese. Convincendola che la battaglia contro il terrorismo fu vinta non grazie alla tenuta democratica italiana, della sua società, delle sue istituzioni e dei loro servitori, dei suoi partiti e sindacati, dei suoi studenti e operai che rifiutarono la lusinga della “violenza rivoluzionaria”, ma a colpi di un diritto penale addomesticato dall’emergenza. Uno sfregio alla Storia e a chi per difendere la democrazia diede la vita. Una lezione di diritto all’Italia e pure a Macron di Tiziana Maiolo Il Riformista, 29 marzo 2023 I dieci rifugiati in questi 40 anni si sono comportati da cittadini esemplari. Sulla richiesta di estradarli, il pg francese (che dipende dal governo) si era allineato all’Italia. Sono stati i giudici (indipendenti) a scegliere le regole dello stato di diritto. Con la decisione di ieri della Corte di Cassazione, la dottrina Mitterand è riuscita ancora una volta a dare una lezione di diritto all’Italia. E anche al governo francese, da cui dipende organicamente e politicamente il procuratore generale che ha presentato ricorso contro la decisione della Chambre de l’instruction della Corte d’appello di Parigi che un anno fa ha rifiutato l’estradizione di dieci rifugiati italiani. I quali erano stati “selezionati” tra i circa duecento cittadini italiani condannati per fatti di terrorismo e riparati in Francia negli anni settanta all’ombra della dottrina Mitterand che qualificava il suo Paese come terra d’asilo. Si tratta di nove ex terroristi responsabili di omicidio e di Giorgio Pietrostefani, cui la parola di un solo “pentito” attribuì il ruolo di mandante, insieme a Adriano Sofri, dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi. Nel 1972. Anno millenovecentosettantadue, e ne stiamo ancora parlando, non come tragico fatto storico, ma come vicenda giudiziaria. E qui siamo a un punto cruciale della storia. Di questa come di altre. In Francia per esempio solo i crimini contro l’umanità, i genocidi, non vanno mai in prescrizione. Sarebbe quindi impossibile, secondo quel regime, pretendere di eseguire quelle condanne, applicare le pene erogate dalle diverse corti d’assise italiane. Ma tutta questa vicenda ha il sapore un po’ amarognolo di accordi politici tra governanti che si sentono obbligati da legacci in patria più che da necessità di giustizia. E del resto che giustizia può mai essere quella applicata quaranta o cinquanta anni dopo i fatti? Quando due anni fa erano improvvisamente scattati gli arresti e il Presidente Macron aveva sospirato “La questione è chiusa”, gli aveva indirettamente risposto Adriano Sofri, chiedendogli ironicamente “e adesso che cosa ve ne fate?”. Già, e l’Italia, qualora i giudici francesi ne avessero consentito l’estradizione di questi dieci, che cosa ne avrebbe fatto? In Francia, benché la pubblica accusa dipenda dal ministro guardasigilli, i giudici sono giudici, e non si deve pensare che subiscano qualche contaminazione da quella che le toghe italiane considerano una bestemmia, la sottoposizione del pm all’esecutivo. Proprio perché sono indipendenti, i giudici della Corte d’appello di Parigi un anno fa avevano emesso una sentenza che era stata una vera lezione di diritto. E l’insistenza dell’esecutivo francese, con il ministro Eric Dupond-Moretti incalzato dalla stessa Marta Cartabia, che pure è una teorica della “giustizia riparativa”, nel presentare ugualmente il ricorso in cassazione, era parso più che altro un dovere politico verso i cugini italiani. Due erano i principi cui si erano appellati i giudici per motivare la decisione di negare l’estradizione, quelli previsti dagli articoli 6 e 8 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo. Il primo è nella sostanza quello dell’habeas corpus, che contrasta visibilmente con la contumacia, l’assenza fisica dal processo, condizione in cui sono stati giudicati molti degli imputati per fatti di terrorismo. “Ogni persona ha diritto a che la sua causa -dice l’articolo 6- sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale”. Seguono poi i diritti dell’imputato, e il concetto di “forza”, per cui quella di chi è chiamato alla sbarra deve essere equivalente a quella dello Stato che lo accusa. La parità tra le parti, ecco. E la domanda: può un assente, anche se per propria scelta, avere la stessa forza del suo accusatore? E il processo e la sentenza che ne conseguirà possono essere definite “giuste”? Qui non è più questione solo di dottrina Mitterand e di diritto all’asilo, ma delle basi dello Stato di diritto, che non possono consentire di giudicare spesso solo sulla base delle dichiarazioni di “pentiti” e dell’applicazione dei reati associativi. Il che non significa pensare che siano tutti innocenti. Paradossalmente, non è questa la cosa più importante. Quanto all’articolo 8 della Convenzione, parla del “diritto al rispetto della vita privata e familiare”, e si capisce bene quanto sia stato rilevante per arrivare a quella sentenza, la considerazione del fatto che questi dieci italiani abbiano rispettato del tutto il patto stipulato con lo Stato francese. E per 40 anni e più si siano attenuti alle regole e alle leggi, non solo non commettendo reati, ma conducendo vite da esemplari cittadini francesi. Quali migliori forme di reinserimento, quale quello previsto dall’articolo 27 della nostra Costituzione? Dovrebbe compiacersene il ministro Nordio, che pure ha ereditato la patata bollente dalla sua predecessore. Invece “prende atto” di quello che definisce come “ostacolo politico che per decenni ha impedito alla magistratura francese di valutare le nostre richieste”. Ci dispiace contraddirlo, perché il procuratore generale Eric Dupond-Moretti è stato completamente allineato con la posizione del governo italiano. Ma sono stati i Giudici, i giudici indipendenti a scegliere le regole dello Stato di diritto. E anche il diritto all’oblio, al tempo che passa, alle persone che cambiano. Senza questo ci sarebbe stata solo vendetta. Bologna. Alla Dozza un altro decesso nel reparto “protetto”: 4 morti in poco più di un anno Corriere di Bologna, 29 marzo 2023 Il Garante: “Anomalo, serve un’indagine”. Altro decesso improvviso alla Dozza di Bologna, e il garante dei detenuti comunale, Antonio Ianniello, chiede di intervenire e avviare un’analisi approfondita. Domenica mattina un uomo italiano di mezza età, da lungo tempo in stato di detenzione, è stato trovato morto nel suo letto nella sezione del circuito protetto del carcere dove era ospitato. Si tratta della sezione in cui sono ospitate persone per le quali si consuma una detenzione che, per ragioni di opportunità penitenziaria, tende a escludere il contatto con il resto della popolazione detenuta, anche “al fine - spiega il garante dei detenuti - di evitare l’esposizione al rischio di subire aggressioni o sopraffazioni”. Sta di fatto che, nel lasso temporale che va dalla fine del gennaio 2021 al febbraio 2022, dunque in poco più di un anno, erano già state tre le persone detenute trovate morte improvvisamente nel loro letto (una di queste nella stessa sezione del circuito protetto, anche se ai tempi era collocata in un altro piano del reparto giudiziario). “Così - raccomanda ancora il garante Ianniello - pare configurarsi un tasso di incidenza che necessita di un’adeguata analisi”. Sul caso come sempre saranno avviati accertamenti anche dalla direzione del carcere per verificare in quali condizioni è maturato l’ennesimo decesso che ora interroga le istituzioni. Oristano. Stefano Dal Corso è stato suicidato in carcere? Tutte le cose che non tornano di Valerio Renzi fanpage.it, 29 marzo 2023 Sono troppe le cose che non tornano sulla morte nel carcere di Stefano Dal Corso nel carcere di Oristano. Il 42enne del Tufello è stato trovato impiccato il 12 ottobre 2022, ma l’autopsia non è mai stata effettuata nonostante le istanze della famiglia. Ora la sorella Marisa chiede di fare chiarezza su quanto accaduto. Il 12 ottobre del 2022 Stefano Dal Corso muore a 42 anni nel carcere Casa Massama di Oristano. Secondo quanto raccontato alla sorella ed è scritto nero su bianco nei verbali, viene trovato impiccato in cella. Caso chiuso: per la Procura non c’è bisogno di autopsia, è un suicidio. Un caso su cui molti sono i dubbi che forse solo un’autopsia potrebbe fugare, ma la procura non l’ha concessa e la famiglia di Stefano ora sta raccogliendo i soldi per svolgerla come perizia di parte. Abbiamo incontrato la sorella Marisa, che tutti conoscono come Mary, e la legale Armida Decina, che ci hanno raccontato la battaglia per sapere cosa è successo a Stefano. “Mi arriva una telefonata, mi dicono ‘è il carcere di Oristano, le passiamo al parroco che vuole parlare con lei’. Lui mi dice ‘signora volevo comunicarle purtroppo che suo fratello ci ha lasciati’. Inizialmente sono rimasta un attimo… perché, ho pensato, è scappato? Ho chiesto cosa fosse successo, che ha fatto, mi hanno detto ‘non lo sappiamo, è stato trovato in cella senza vita, impiccato’“, racconta Mary nella casa popolare dove abita al Tufello, il quartiere dove anche Stefano ha sempre vissuto. Alcune cose non tornano e la famiglia, attutito lo shock e superate le prime settimane di dolore, comincia a farsi delle domande: perché non ci sono foto del ritrovamento del corpo? Come ha fatto Stefano a confezionare il cappio con cui si è tolto la vita? Nella cella non ci sono né indumenti né lenzuoli strappati. E poi: come ha fatto a togliersi la vita se la distanza con il letto sottostante era insufficiente a lasciarsi cadere? E perché sul letto non c’è nessuna traccia e appare perfettamente fatto? Perché Stefano si sarebbe tolto la vita senza dare prima nessun segnale di disperazione, visto che da lì a poche settimane sarebbe uscito? E in ultimo: secondo il legale della famiglia è molto difficile stabilire ad occhio nudo senza un’autopsia che la rottura dell’osso del collo sia la causa del decesso così come riportato dalla cartella medico legale. Mary fatica a trattenere le lacrime mentre racconta: “Per settimane sono proprio morta, non sono riuscita a fare niente. Non ci credi che tuo fratello… quanto ha sofferto? Quanto ci avrà messo a morire? Se n’è accorto?”. Poi la convinzione che “Stefano non avrebbe mai fatto una cosa del genere” si fa più forte. “È impossibile, ha una figlia di sette anni. Lo sentivamo stava bene. No, è impossibile”. Stefano era rientrato in carcere per scontare una pena residua, era in Sardegna per poter assistere a un’udienza e presto sarebbe uscito. Il racconto ora passa alla legale Armida Decina: “Io chiaramente mi attivai subito per chiedere copia della relazione medico legale e copia dell’album fotografico. Entro in possesso di 13 foto. La prima cosa che notai è che mancava una foto di come Stefano è stato trovato. A Marisa viene detto che Stefano viene trovato con un piede sul letto. Ora è evidente che l’altezza che noi abbiamo tra letto e la finestra non è sufficiente a spezzarsi l’osso del collo. E poi il letto è perfettamente integro, non una pedata sul letto. E soprattutto il letto è tutto fatto, non vedo lenzuola rotte, è tutto apposto”. Poi ci sono i segni sul corpo di Stefano che fanno pensare che le cose potrebbero essere andate in un altro modo: “Queste foto presentano su un braccio un livido molto evidente da presa. Poi c’è un segno sul collo che potrebbe non essere compatibile con l’impiccagione”. “Noi vogliamo solamente conoscere e capire cosa sia successo a Stefano il 12 ottobre. Qui nessuno sta accusando nessuno. Vogliamo che siano ricostruite le ore precedenti la morte di Stefano, e riteniamo che l’esame autoptico sia doveroso per la tutela di tutti e il diniego da parte della Procura è inspiegabile”, conclude Decina. Ad accompagnare la famiglia Dal Corso nella sua battaglia c’è anche Luca Blasi, assessore alla Cultura del III Municipio di Roma. “L’autopsia è evidentemente l’unico strumento che può fugare ogni ombra su quanto è accaduto a Stefano. - spiega - Quindi il nostro appello intanto a non lasciare sola la famiglia Dal Corso a raccogliere i soldi necessari ad effettuare l’esame autoptico. Poi il Municipio come ente di prossimità non farà mancare il suo sostegno nel chiedere che si faccia chiarezza sulla morte di un cittadino mentre si trovava sotto la tutela e la custodia dello Stato”. Del caso si è poi occupata anche la senatrice di Alleanza Verdi Sinistra Ilaria Cucchi: “In base agli elementi che mi sono stati consegnati, e che sono anche all’attenzione degli uffici competenti, mi chiedo per quale motivo si sia ritenuto di non dover procedere con l’esame autoptico sul corpo di Stefano Dal Corso. Risulterebbe, da quanto mi viene segnalato, che le cause del decesso non appaiono chiare. La famiglia non crede nel suicidio in quanto il detenuto Stefano Dal Corso, al quale mancavano pochi mesi per concludere la pena, parlava di futuro con loro proprio qualche giorno prima del decesso. Sarebbe a mio avviso opportuno, anzi doveroso, mettere in essere tutte le iniziative per dare risposta ai legittimi dubbi che questo caso solleva. Va fatta l’autopsia, a garanzia di tutti. O forse qualcuno ritiene che non ne valga la pena per quel detenuto?”. Già nelle prossime ore sarà resa pubblica l’appuntamento di una conferenza stampa in Senato con la famiglia Dal Corso. Ora che piano piano la vicenda sta emergendo in tutta la sua gravità Mary e la sua famiglia sono meno soli, ma il dubbio che l’attanaglia ancora è senza risposta: “Io conosco mio fratello, so che non può essere andata così. So che c’è dell’altro e vorrei sapere se c’è dell’altro. Penso che è un mio diritto. Perché quindi non lasciar fare un’autopsia che non lascerebbe dubbio su quanto è accaduto in carcere e metterebbe in pace la mia anima?”. Roma. Spdc San Camillo, degrado e contenzione nei corridoi: ecco dove morì Wissem di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 marzo 2023 “Uno spazio di cemento, privo di copertura dagli agenti atmosferici, trovato sporco nel giorno della visita, con arredi (qualche sedia) visibilmente rimediati e non pensati per i pazienti il locale interno per il fumo consiste in una piccola stanza priva di un sistema funzionante di ricambio dell’aria, con la persiana della finestra chiusa con un lucchetto. Le scritte che ricoprono interamente le pareti riportano date risalenti a diversi anni fa, segno che da tempo tale locale non viene ridipinto o ripulito”, così si legge nel rapporto del Garante nazionale delle persone private della libertà, relativo al Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) dell’Azienda Ospedaliera San Camillo- Forlanini. La visita risale al 30 dicembre del 2021, ed è stata fatta a seguito della morte del migrante Wissem Abdel Latif, avvenuta il 28 novembre dello stesso anno mentre era ricoverato in questa struttura. Notizia di qualche giorno fa è che in relazione della sua morte, sono indagati due medici e due infermieri. Secondo la consulenza del medico legale il 26enne sarebbe morto a causa di un mix di sedativi che gli furono iniettati per calmarlo. In base alla consulenza qualcuno gli ha somministrato dosi di un terzo farmaco, oltre ai due sedativi prescritti. Una medicina che nessuno avrebbe annotato in cartella. L’uomo, come vedremo dalla relazione del Garante, è stato anche legato al letto situato in corridoio. Ricordiamo che Wissem era arrivato al Servizio psichiatrico il 25 novembre con la diagnosi di schizofrenia psicoaffettiva. Aveva già trascorso due giorni all’ospedale Grassi di Ostia. Ancora prima, era stato rinchiuso al Cpr di Ponte Galeria La senatrice Ilaria Cucchi, se seguito delle indagini, si è presentata a Spdc di San Camillo per vedere con i suoi occhi il luogo dove è morto quando già era nelle mani dello Stato italiano. Si è fatta si è fatta legare mani e polsi a una sedia per comprendere appieno il significato della parola “contenuto”. Ha così potuto constatare che ancora permangono delle criticità relazionate dal Garante. Nella relazione, la quale è stata importante per l’avvio delle indagini, si apprende che a un mese dalla morte del tunisino, “le sale comuni sono estremamente ridotte in numero e in dimensione, arredate con tavolini di colore celeste chiaro, più adatto a un asilo infantile che non a un locale per adulti, emblematico di una proposta ‘ trattamentale’ di tipo infantilizzante”. La relazione prosegue spiegando che la sala, del resto, viene utilizzata solo per vedere la televisione, mangiare insieme (anche se i posti a sedere sono inferiori al numero dei posti letto disponibili), fare qualche minima attività. Sottolinea il Garante che “L’aggettivo minimo è utilizzato volutamente perché è stato riferito al Garante nazionale che, nonostante l’organico preveda assistenti sociali e terapisti per la riabilitazione, di fatto queste figure sono del tutto assenti, con inevitabili ricadute sulla gestione dei pazienti e sul loro percorso terapeutico”. Il Garante ha potuto rilevare che la struttura a volte risulta sovraffollata e che alcuni pazienti vengono allettati in corridoio. Alcuni anche legati. Misure di contenzione che quindi possono avvenite anche in luogo di passaggio. Quelle che d’altronde è avvenuto con Wissem Ben Abdelataif, ricoverato il 25 novembre 2021, sistemato in un letto in corridoio presumibilmente per mancanza di altri posti, ed è stato contenuto per tutto il tempo del suo ricovero fino a morire in tale condizione il giorno 28 novembre. Dopo che il Garante ha segnalato le problematicità, il direttore sanitario ha disposto sopralluoghi e provvedimenti per migliorare la situazione. Qualcosa è migliorato, come l’aver tolto i letti in corridoio. Ma la senatrice Cucchi ha potuto constatare che pemane la mancanza di personale, spazi inadeguati per la socializzazione, mancanza di un bagno nel day hospital. Viterbo. L’Arci: “Troppi morti nelle carceri, dov’è la sicurezza?” viterbotoday.it, 29 marzo 2023 L’Arci interviene dopo che un detenuto è stato trovato senza vita a Mammagialla. Le forze politiche di maggioranza si affannano a rincorrere un’idea di sicurezza e legalità che passa attraverso la sanzione per chi partecipa ai rave, la detenzione di 24 bambini insieme alle loro mamme, la difesa del 41 bis, l’abolizione del reato di tortura per tutelare le forze di polizia, la criminalizzazione delle Ong che salvano i naufraghi in mare. Nei nostri istituti penitenziari sono detenute 56mila 319 persone e da inizio anno già 31 hanno perso la vita. Allora dove è la sicurezza in questo caso? Gli istituti penitenziari adempiono al loro mandato attraverso tante forze che non sono, solo, quelle della sicurezza. I percorsi educativi, le attività trattamentali, il supporto psicologico, l’attenzione alla salute, la mediazione linguistica sono il vero strumento per raggiungere le persone, supportarle e sostenerle nei loro percorsi detentivi e per prevenire le tragedie. Per fare questo bisogna che ciascuno si riprenda le sue responsabilità, non solo il ministero della Giustizia e i suoi operatori, anche quello della Salute, dell’Istruzione, gli enti locali e la società civile tutta per evitare che questa responsabilità venga delegata ai soli operatori penitenziari. Sarebbe opportuno che i politici visitino gli istituti penitenziari, non per comunicare vicinanze o simpatie ma perché è un dovere del loro mandato istituzionale. Arci, Comitato provinciale Viterbo Rimini. La nuova direttrice del carcere: “Diamo una seconda vita ai detenuti” Il Resto del Carlino, 29 marzo 2023 Palma Mercurio: “La mancanza di personale resta uno dei nodi da risolvere. A Forlì abbiamo ridotto il rischio di recidiva puntando sui programmi di reinserimento lavorativo e sociale”. Palma Mercurio sta tornando alla guida del carcere di Rimini. E per la prima volta dopo una decina di anni, i ‘Casetti’ torneranno ad avere un direttore in pianta stabile. La Mercurio, che fino a lunedì si divideva tra la casa circondariale di Rimini e quella di Forlì, da sabato assumerà la guida in toto dei Casetti. Del carcere di Rimini la futura direttrice aveva già parlato, assicurando come: “La situazione ai ‘Casetti’ oggi è buona. Non abbiamo un carcere sovraffollato. Abbiamo 130 detenuti e di questi 70 stanno scontando la pena definitiva”. La Mercurio piuttosto si era soffermata sulla carenza di personale di polizia penitenziaria, asserendo che: “Mancano all’appello almeno 30 agenti”. Come per quanto riguarda gli operatori e gli assistenti sociali, “attualmente ce ne sono solo 3, mentre dovrebbero essere 5”. Ma prima di fare i conti a tempo pieno con Rimini, Palma Mercurio si è congedata da Forlì tracciando un bilancio degli ultimi 12 anni alla guida della Rocca. “Resto in Romagna, mi sono innamorata di questa terra” ha affermato la direttrice riferendosi a Rimini. Durante la festa di addio organizzatale, la Mercurio ha fatto anche una riflessione sulla vita dei detenuti, affermando che: ““Con le nuove direttive, si dovrà riorganizzare: da adesso ogni stanza avrà un frigo e lavatrici a gettone per la biancheria”. Non solo, la Mercurio ha compiuto anche una riflessione a partire dal particolare, ossia il carcere di Forlì, al generale circa la recidività, che alla Rocca ha registrato un tasso bassissimo. “Io credo nella sussidiarietà della pena e un anno prima del fine pena ci occupiamo dei dimittendi, per cercare loro una casa, un lavoro. In questi 12 anni molti si sono reinseriti in modo positivo: 150 persone hanno lavorato dentro il carcere e, una volta fuori, non sono più tornate. Quanto alle donne, sono poche, solo 15 e non abbiamo mamme con bambini: incontrano i figli una volta al mese”. Firenze. Dalla Diaconia Valdese due servizi rivolti ai genitori detenuti e ai loro famigliari riforma.it, 29 marzo 2023 Nel 2009 e nel 2011 il Sinodo dell’Unione delle Chiese Metodiste e Valdesi - preso atto della gravissima condizione di disagio in cui è costretta a vivere la popolazione detenuta, della frequente carenza di sostegno sociale che impedisce a molte persone detenute di accedere ai benefici di legge e delle difficoltà legate al loro percorso di reinserimento - invita le chiese a sostenere e assistere le persone sottoposte a pene detentive con interventi concreti e vegliare affinché siano garantiti i loro diritti. Nasce così nel 2013 a Firenze il progetto sull’Esecuzione Penale della Diaconia Valdese, che nel 2022 si amplia con due servizi rivolti ai genitori detenuti e i loro figli/famigliari, lo Sportello Incontrarsi Dentro e lo Sportello Incontrarsi Fuori. Lo Sportello di ascolto psicopedagogico Incontrarsi Dentro, attivo presso il carcere di Firenze Sollicciano dal 12 aprile 2016, si propone di promuovere le relazioni familiari e la genitorialità in carcere, garantendo condizioni di pari dignità ai genitori detenuti e affiancando le loro famiglie, specie in presenza di minorenni, durante lo svolgimento dei colloqui e mediante l’istituzione di uno spazio di consulenza e ascolto psicopedagogico. Lo Sportello Dentro è rivolto ai genitori detenuti e loro figli, caregivers/accompagnatori, familiari, operatori degli Istituti detentivi e delle strutture di accoglienza. Tra i servizi offerti: trattamenti e consulenze specialistiche nell’ambito psico-educativo, quali incontri di sostegno alla genitorialità e interventi di parent training; colloqui di orientamento nei momenti di trasformazione dell’organizzazione familiare; preparazione al rientro in famiglia; gruppi di accompagnamento per i genitori detenuti; supporto alla coppia per agevolare l’adattamento del detenuto al contesto; mediazione Familiare e/o sociale nei processi separativi e per l’attenuazione delle conflittualità intrapsichiche ed interpersonali. Percorsi di accompagnamento dei figli in visita mediante una “facilitatrice dei rapporti familiari” che garantisce accoglienza rassicurante e affiancamento nelle fasi più delicate (ingresso/perquisizione corporea; preparazione all’incontro nella Ludoteca; mediazione durante il colloquio e momento del congedo), oltre che rappresentare una figura “filtro” per rilevare e segnalare eventuali disagi dei minorenni/nucleo ai colleghi deputati alle consulenze specialistiche. Lo sportello di ascolto psicopedagogico Incontrarsi Fuori, in corso di attivazione presso uno spazio fiorentino della Diaconia Valdese, si propone di promuovere le relazioni familiari e la genitorialità in carcere e anche fuori dal contesto penitenziario, come continuum of care del servizio dello sportello di ascolto psico-pedagogico per il sostegno alla genitorialità. Il focus è posto sul riconoscimento dei bisogni dei figli di veder salvaguardata la relazione affettiva ed educativa con entrambi i genitori, come condizione che maggiormente garantisca una prospettiva di crescita equilibrata e l’acquisizione di un’identità adulta integrata. Mediante l’istituzione di uno spazio di consulenza e di ascolto psicopedagogico professionale extra-murario, si favorisce un percorso di accompagnamento nei processi di trasformazione dell’organizzazione familiare e nel family enrichment per garantire la piena attuazione del superiore interesse dei minorenni coinvolti. Le attività progettuali, attraverso una funzione di raccordo fra le varie istituzioni di riferimento del nucleo, mirano a favorire l’orientamento e il supporto delle famiglie nel processo di riunificazione parentale e nel prevenire o ricomporre fratture familiari. È dedicato ai genitori detenuti in permesso, in regime di misura alternativa al carcere ed ex detenuti/e, ai loro figli, caregivers/accompagnatori, familiari, operatori degli Istituti penitenziari e delle strutture di accoglienza. Lecce. “Papillon teatro”, i detenuti diventano attori di Emiliano Moccia vita.it, 29 marzo 2023 All’interno della Casa circondariale di Lecce, l’Accademia teatrale dell’Attore porta avanti un percorso teatrale per le persone detenute nella sezione maschile. E a giugno portano in scena lo spettacolo “Madre, ammirami” scritto da loro, mentre si organizzano iniziative per creare un contatto tra mondo esterno e ristretti. “Prima per noi era impossibile piangere, commuoversi, lasciarsi andare alle emozioni. Sarebbe stato un segno di debolezza all’interno del proprio clan o del gruppo criminale di appartenenza. Adesso, invece, non è più così e questo grazie alle attività che facciamo, che ci fanno lavorare soprattutto sulle emozioni”. A raccontarsi e condividere la sua riflessione è uno dei detenuti che da quasi due anni segue “Papillon teatro”, il laboratorio teatrale che Ama, l’Accademia teatrale dell’Attore, porta avanti all’interno della Casa circondariale di Lecce. “Il teatro è emozione” spiega Franco Ungaro, direttore di Ama, che da ormai quattro anni ha avviato un percorso biennale per le persone detenute nella sezione maschile. “Quest’anno il laboratorio ha preso due strade diverse: la prima ha coinvolto il gruppo di attori giunto al suo secondo anno di pratiche teatrali; la seconda strada è stata riservata agli allievi-esordienti alla loro prima esperienza”. I frutti del lavoro iniziano a farsi vedere. Qualche giorno fa, infatti, la sala teatro del carcere ha aperto le porte alla cittadinanza per condividere le attività del laboratorio e favorire un momento di contatto fra i detenuti ed il mondo esterno, promuovendo momenti di interazione e di conoscenza. Anche perché a giugno, gli attori-detenuti vanno in scena con lo spettacolo “Madre, ammirami”. “È uno spettacolo scritto da loro” prosegue Ungaro. “Nella loro semplicità indagano profondamente il tema dell’essere genitore. I detenuti-attori scrivono, chiedono e cercano risposte a domande che da sempre restano inascoltate: cosa vuol dire generare? Cosa porteremmo nel nostro ideale, perfetto e perfettibile universo?”. I laboratori teatrali, guidati dalle attrici pedagoghe Carmen Ines Tarantino e Veronica Mele, seguono percorsi sensoriali, training dell’immaginazione, esercizi di improvvisazione del corpo, del movimento e della parola, attività di manipolazione di materiali e colori, con la realizzazione anche di piccoli abbozzi scenografici. Ma è soprattutto l’indagine interiore, l’approfondimento di sé stessi, dell’espressività corporea e delle parole dette e non dette, che sconvolge e cambia la prospettiva di vita di chi vi partecipa. “Il teatro ha delle ricadute importanti sul benessere psichico e fisico delle persone detenute che vivono una condizione di restrizione e allontanamento dagli affetti e dai sentimenti” evidenzia Ungaro. “Anche i laboratori aperti al pubblico e lo spettacolo vogliono preparare queste persone ad un possibile reinserimento nella società ed avere rapporti con il pubblico, i famigliari, i volontari. Queste cose aiutano in questo cammino di reinserimento. L’esperienza laboratoriale può anche trasformarsi in futuro in un percorso lavorativo. Alcuni dei partecipanti al termine del laboratorio ci chiedono di frequentare l’Accademia teatrale dell’attore”. Intanto, lo spettacolo “Madre, ammirami” è stato inserito nella rassegna teatrale “Dentro, il teatro”, che si svolgerà all’interno del carcere di Lecce dal 27 aprile al 22 giugno. La rassegna è organizzata da AMA in collaborazione con Università del Salento e Dams Salento. “La programmazione degli spettacoli, aperti al pubblico, prova a mantenere un legame tra il dentro e il fuori del carcere, pensando soprattutto al futuro dei detenuti fuori dalle mura e al loro reinserimento sociale. L’augurio” conclude Ungaro “è di riuscire ad eseguire degli interventi sulla struttura scenica del teatro, migliorando anche gli impianti audio e le luci, in modo da far inserire anche la sala del carcere nella programmazione teatrale promossa dal Comune di Lecce, promuovendo ancora di più l’avvicinarsi del mondo esterno con l’umanità che vive all’interno del penitenziario”. Per saperne di più sulla rassegna in programma vai sul sito dedicato: https://www.accademiaama.it/progetti/attivita-in-carcere/. Chieti. La prigione e la piazza: la mostra mercato di libri da e sul carcere chietitoday.it, 29 marzo 2023 Per due giorni, in piazza G.B. Vico a Chieti e in piazza Plebiscito a Lanciano si parlerà di carcere e carcerati con la onlus Voci di dentro. Arriva a Chieti e provincia la seconda edizione de La prigione e la piazza, mostra-mercato di libri da e sul carcere. A organizzarla è Voci di dentro, l’associazione che promuove la cultura della solidarietà e l’aiuto a detenuti ed ex detenuti, attiva nel volontariato penitenziario e altri progetti. Per due giorni, mattina e pomeriggio, il 31 marzo in piazza G.B. Vico a Chieti e il primo aprile in piazza Plebiscito a Lanciano si parlerà di carcere e di carcerati, cercando di rompere il muro di indifferenza che avvolge strutture spesso fatiscenti riempite di persone e non di “reati che camminano”. Il tour di incontri e dibattiti che sta attraversando le varie città d’Italia è promosso dalle associazioni Yairaiha Onlus e Napoli Monitor. Nelle due giornate abruzzesi ci saranno tanti confronti aperti anche su temi caldi, interverranno: Elisa Mauri (psicologa e psicoterapeuta, autrice di “Perché il carcere? Costruire un immaginario che sappia farne a meno”), Francesca De Carolis (scrittrice, giornalista, ex Tg1, ex Radio 1), Riccardo Rosa (promotore della piattaforma “Morire di pena. Per l’abolizione di ergastolo e 41bis”), Nicoletta Dosio (storica attivista del movimento No Tav), Elton Kalica (università di Padova), Sandra Berardi (presidente di Yairaiha Onlus), Antonella La Morgia (vicedirettore di Voci di dentro rivista e membro di Sulle regole), Francesco Lo Piccolo (presidente di Voci di dentro), Simona Anedda e Claudio Bottan, testimoni di ogni possibile “seconda chance”, lui dell’esperienza detentiva, lei della malattia. Due giorni di lavori all’aperto nelle piazze delle due città con una “coda particolare” dal titolo ‘Una semplice e straordinaria storia’: nella sala di Conversazione a Lanciano, alle ore 17.30, Simona Anedda e Claudio Bottan racconteranno la loro storia, lei disabile con la sclerosi multipla ed in carrozzella alla conquista del mondo, e lui dopo anni di detenzione impegnato in difesa della libertà e dei diritti degli emarginati. Due persone che insieme hanno vinto ostacoli e pregiudizi. Avellino. Carcere di Bellizzi, dopo 40 anni un campo di calcetto per i detenuti di Katiuscia Guarino Il Mattino, 29 marzo 2023 Dopo circa quarant’anni rinasce il campo sportivo all’interno del carcere di Bellizzi Irpino. La struttura fu chiusa ai tempi della detenzione nel penitenziario avellinese di lady camorra, Pupetta Maresca, e da allora mai più utilizzata. Ci fu una soffiata secondo cui era pronta la fuga della donna con un elicottero che sarebbe atterrato proprio nel campo. Da ieri quell’impianto è tornato ad animarsi. In mattinata la cerimonia di inaugurazione. A tagliare il nastro la direttrice del carcere Concetta Felaco, insieme al sindaco Gianluca Festa. “Questa struttura - dice Felaco - segna l’inizio di nuovi percorsi di educazione alla legalità fondati sui valori sani dello sport. Rappresenta un traguardo importante e anche un punto di partenza. Le attività sportive hanno l’obiettivo della rieducazione. Lo sport costituisce un momento che offre beneficio psico-fisico ai detenuti. Il gioco di squadra, il rispetto delle regole, l’autodisciplina e la cooperazione sono tutti elementi sui quali si fonda il nostro mandato”. Il sindaco Festa sottolinea: “Siamo vicini alla comunità detenuta che fa parte del nostro contesto sociale. Lo sport è formazione e socializzazione”. Per il primo calcio al pallone dopo quarant’anni sono scesi in campo squadre miste composte di reclusi e atleti della Asd Sandro Abate Five Soccer. La partita è terminata con un pareggio. Un match di rinascita nel segno della legalità. A centrocampo Vincenzo ristretto per traffico di droga, al quale mancano ancora quattro anni da scontare per essere libero: “Un’iniziativa importante per noi detenuti. Abbiamo l’occasione di giocare con i campioni e per noi è motivo di grande orgoglio e soddisfazione. È un punto di partenza verso la legalità. Ed è una vittoria per tutti. Tirare un calcio al pallone per chi non ha mai avuto niente nella vita è importante, ci restituisce dignità”. Al suo fianco il compagno più giovane Kosmi dietro le sbarre per una serie di furti. “Giocare a calcio in carcere è una bella esperienza. Non è mai successo prima. Mi fa stare bene, mi fa sentire libero. È una lezione di vita. C’è tanto da imparare. Ero venuto in Italia per lavoro. Ho fatto un po’ di casini e mi ritrovo qui”. A sostenere il progetto, fortemente voluto dalla direttrice Felaco e finanziato dal Ministero della Giustizia, il capitano dell’Asd Sandro Abate, Massimo Abate, e il presidente della Figc Campania, Carmine Zigarelli. “Abbiamo fornito divise e palloni ai detenuti. Restiamo a disposizione per l’organizzazione di tornei di calcio”, fa sapere Zigarelli. “Con questa giornata, si superano i muri dell’indifferenza: quello dei detenuti è un gol contro l’indifferenza”, sottolinea il garante regionale per i diritti dei detenuti, Samuele Ciambriello. Presenti all’evento autorità civili, militari, forze dell’ordine e rappresentanti della magistratura di sorveglianza e dell’Uepe. Disuguali e sempre più poveri, don Zuppi e il “cazzotto” della verità: primo passo per cambiare di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 29 marzo 2023 “Un cazzotto nello stomaco”, lo definito così il cardinale presidente della Cei Matteo Zuppi: la forbice tra ricchi e poveri è sempre più larga È il primo “Rapporto sulle disuguaglianze” in Italia e lo ha realizzato Fondazione Cariplo, il cui presidente Giovanni Fosti ha sottolineato: “Un punto di parenza per cambiare e agire in modo migliore”. Disuguali e sempre più poveri, don Zuppi e il “cazzotto” della verità: primo passo per cambiare “Un cazzotto nello stomaco”, lo ha definito il cardinale Matteo Zuppi. È il primo Rapporto sulle disuguaglianze in Italia, realizzato da Fondazione Cariplo a cura di Federico Fubini, e i dati che contiene sono effettivamente tremendi anche perché va sempre peggio: nel 2005 avevamo 1,9 milioni di poveri e oggi ne abbiamo più di cinque e mezzo, mentre la forbice tra loro e i ricchi anziché stringersi si allarga. “Una ferita per la singola persona ma anche per la comunità”, ha detto il presidente della Fondazione, Giovanni Fosti. E però tutto questo va usato non per piangersi addosso bensì come punto di partenza per cambiare marcia: non per forza mettendoci più soldi ma mettendoceli meglio e soprattutto “creando connessioni”, ha insistito Fosti, tra le tante forze già in campo, forse finora meno efficaci di quanto avrebbero potuto essere lavorando insieme. Il rapporto è stato presentato a Milano con la partecipazione tra gli altri di Gian Paolo Barbetta per Fondazione Social Venture, Giordano Dell’Amore Evaluation Lab, di Enrica Chiappero dell’Università di Pavia, commentato a caldo dall’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo Carlo Messina e dal presidente di Generali Italia Andrea Sironi. Questa prima edizione è focalizzata sul momento di origine delle disuguaglianze, quello della formazione, i cui meccanismi appaiono oggi sempre più inadeguati a permettere il funzionamento dell’ascensore sociale: i figli dei laureati si laureano o perlomeno ci provano, gli altri sempre meno. “La retorica del merito - ha scandito Zuppi - è oggi più che mai fuori luogo perché sono i punti di partenza che creano opportunità o meno. Il merito va dato a tutti”. E non farlo, ha proseguito il cardinale presidente della Cei, è una violazione della Costituzione: “È compito della Repubblica - ha ripetuto il cardinale citando l’articolo 3 - rimuovere gli ostacoli sociali che impediscono il pieno sviluppo della persona”. E ha aggiunto: “La cosa peggiore delle disuguaglianze è che ci abituiamo, il grido di chi sta indietro lo sentiamo meno, pensiamo di aver fatto abbastanza”. Al contrario, ha concluso Fosti, non si può più stare “in attesa” che i bisognosi vengano a prendere quel che magari si offre, li si deve andare a cercare e agire “prendendo l’iniziativa”: solo “investendo sulle persone si investe sul futuro del Paese”. Migranti. Protezione speciale, parte dal Senato l’assalto della Lega di Leo Lancari Il Manifesto, 29 marzo 2023 Giro di vite su permessi di soggiorno e Cpr con gli emendamenti al dl migranti. Il Carroccio impone la sua linea al governo Meloni. Nuovo giro di vite sulla protezione speciale, divieto di convertire alcuni permessi di soggiorno in permessi di lavoro, raddoppio dei tempi di detenzione per i migranti rinchiusi nei Centri per il rimpatrio. Annunciato più volte, l’assalto della Lega al decreto migranti varato dal consiglio dei ministri dopo la strage di Cutro è cominciato sotto forma di 21 emendamenti che puntano a resuscitare i decreti sicurezza varati da Matteo Salvini ma soprattutto a dettare al governo la linea della Lega sull’immigrazione. Un proposito che il Carroccio non ha mai nascosto ma che ora rischia di aprire una breccia nella stessa maggioranza dopo i rilievi avanzati dal Colle proprio sulle restrizioni alla protezione speciale e in parte accolti nella prima stesura del decreto dalla premier Giorgia Meloni, decisa finora a evitare un possibile incidente con il Quirinale. Tutto questo mentre il previsto successo del click day, con più del triplo delle domande presentate rispetto agli 82.705 ingressi previsti dal decreto flussi per i lavoratori stranieri, sta portando il governo a non escludere un ritocco verso l’alto delle quote di ingresso: “Se ci fosse la necessità e l’opportunità di ampliare i numeri in relazione alle possibilità del mercato del lavoro, non ci sono pregiudizi”, ha assicurato ieri il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Sono in tutto 126 gli emendamenti al decreto depositati in Commissione Affari costituzionali del Senato, dove il testo è in discussione. Otre ai 21 della Lega, 5 sono di Forza Italia, 4 di FdI, 39 del Pd, 25 di Avs, 23 del M5S e 5 del terzo Polo. Delle proposte di modifica presentate dalla Lega 15 riguardano il contrasto all’immigrazione irregolare e sei l’integrazione dei cittadini stranieri in Italia. Nella prima versione del testo viene cancellata la possibilità per un richiedente asilo di non essere espulso considerando il grado di integrazione raggiunto nel nostro Paese, restringendo il riconoscimento dello status di rifugiato solo a chi scappa da guerre e persecuzioni, al quale viene rilasciato un permesso di soggiorno della durata di due anni. La Lega chiede di intervenire anche su questo punto dimezzando a un anno la durata del permesso di soggiorno e cancellando la sua convertibilità in permesso di lavoro come avviene oggi. Stop alla convertibilità in permessi di lavoro anche per altre categorie, come ad esempio quanti hanno ottenuto un permesso di soggiorno per calamità naturali, cure mediche, assistenza ai minori o perché apolide. Altri emendamenti prevedono la sospensione dell’accoglienza per un periodo variabile tra i 30 giorni e i sei mesi per quanti si rendono responsabili di danneggiamenti all’interno delle strutture di accoglienza, e il prolungamento dei tempi di detenzione all’interno dei Centri per il rimpatrio (Cpr): dagli attuali 90 giorni prorogabile per altri 30, a 180 giorni prorogabili sempre di 30. Oggi la commissione si esprimerà sulle eventuali inammissibilità di parte dei 126 emendamenti proposti, che però non dovrebbero essere numerose. “La maggioranza in generale si schiererà compatta come è avvenuto negli altri provvedimenti”, ha dichiarato il capogruppo di FdI in 1a Marco Lisei, a proposito delle diverse proposte depositate dai partiti di centrodestra. Possibili pareri del governo sugli emendamenti non dovrebbero invece arrivare prima della fine della settimana. Tra il 18 e il 20 aprile è invece atteso l’arrivo del decreto nell’aula di Palazzo Madama. Intanto ieri è cominciato al ministero del Lavoro il tavolo tecnico che dovrebbe portare alla definizione delle quote massime di ingressi di lavoratori stranieri in Italia per il triennio 2023-2025. Al governo le parti sociali hanno sottolineato la necessità di un nuovo decreto flussi che possa assorbire l’eccedenza di domande già presentate. “A fronte di tali dati il rischio di rimanere senza la necessaria manodopera nei campi è alto, soprattutto in vista delle prossime settimane, nelle quali si concentreranno gran parte delle operazioni di raccolta - ha spiegato il presidente di Copagri Tommaso Battista -; tutto ciò potrà avere sensibili ricadute sull’intera filiera, partendo dai produttori agricoli, che dovranno fare i conti con perdite non indifferenti, e passando per i cittadini, che rischiano di pagare lo scotto di una minore disponibilità di produzione, con possibili ricadute sui prezzi al consumo”. Italiano detenuto in Papua Nuova Guinea, l’ex compagna: “Ha un tumore, va operato d’urgenza. Aiutateci” La Stampa, 29 marzo 2023 Carlo D’Attanasio, velista abruzzese di 54 anni, è stato arrestato con l’accusa di aver fatto parte di una banda di trafficanti di droga. L’appello della donna: “Una lenta agonia, mio figlio ha 6 anni e rischia di non rivederlo”. Verserebbe in condizioni di salute critiche Carlo D’Attanasio, il velista di 54 anni detenuto ormai da 30 mesi nel carcere di Papua Nuova Guinea, in Oceania, con l’accusa di aver fatto parte di una banda di trafficanti che avrebbe importato 611 kg di cocaina. Un caso controverso quello dell’ex imprenditore pescarese, sempre dichiaratosi innocente e estraneo alle accuse. Ora un nuovo tassello si aggiunge a questa vicenda, perché a D’Attanasio, a inizio marzo, è stata diagnosticata una massa tumorale al colon di 10 centimetri, con lesioni, che andrebbe asportata d’urgenza, come recita il referto dell’esame clinico a cui è stato sottoposto “con un forte ritardo che potrebbe rivelarsi fatale”, l’accusa mossa dalla madre del figlio di D’Attanasio, Juanita Costantini. D’Attanasio era partito per compiere il giro del mondo in barca a vela in solitaria nell’estate del 2019. Nel marzo del 2020 è approdato in Papua Nuova Guinea e ha deciso di fermarsi per una sosta che si è prolungata per 5 mesi, quando, in procinto di ripartire per portare a termine la sua impresa, un piccolo aeroplano si è schiantato sull’isola subito dopo il decollo. All’interno del velivolo la polizia ha rinvenuto 611 kg di cocaina, probabilmente destinati all’Australia. Dopo una manciata di giorni sono stati fermati tre papua guinesi e D’Attanasio, indicato come l’uomo che aveva portato sull’isola il carico di droga 5 mesi prima. Il capo d’accusa per lui è di traffico internazionale di stupefacenti. Dopo alcuni mesi, però, le accuse cominciano a vacillare, la stessa stampa locale inizia a dubitare della colpevolezza dell’italiano. Eppure la situazione rimane in stand-by, il processo sottoposto a continui rinvii mentre D’Attanasio, costretto in una piccola cella fatiscente con altri detenuti, senza servizi igienici, ha iniziato ad accusare malori continui, dolori lancinanti. Da qui la richiesta di essere sottoposto ad esami diagnostici, con tutti i ritardi del caso. A inizio marzo, dopo un anno e mezzo di attesa, la colonscopia ha confermato i sospetti: l’uomo non sta bene, ha un tumore di 10 centimetri che va asportato immediatamente. “Deve tornare in Italia ed essere curato, senza altro tempo da perdere - dice Juanita, anche lei pescarese, con la voce incrinata dalla disperazione - ogni giorno che passa la speranza che mio figlio possa riabbracciare suo padre si fa più flebile. È una lenta agonia, un incubo che va avanti da 30 mesi. Eppure Carlo è un cittadino italiano, merita di essere aiutato, non può essere lasciato morire lì, sarebbe un’ingiustizia indegna di un paese come il nostro”. “La colonscopia - dice l’ex compagna dell’uomo, madre del piccolo Enea, 6 anni, avuto da una relazione con l’imprenditore - doveva essere eseguita un anno e mezzo fa, ma Carlo è stato sottoposto all’esame soltanto nei giorni scorsi. L’esito purtroppo è terribile: ha una massa tumorale di 10 centimetri da rimuovere immediatamente, ma lì dove è detenuto non ci sono mezzi per sottoporlo a questo tipo di intervento. Temo per la vita del padre di mio figlio, spero venga riportato in Italia il prima possibile perché altrimenti questa storia rischia di finire malissimo. Il medico gli ha detto espressamente che se non viene operato da qui a breve ha i giorni contati. Non c’è altro tempo da perdere”, il grido d’allarme della donna. Siria. Parla Caesar, il fotografo che ha raccontato gli orrori del regime di Assad di Francesca Caferri La Repubblica, 29 marzo 2023 Voce alterata, il fotografo indossa una maschera e porta i guanti per non essere riconosciuto attraverso le mani. Nel 2013 un fotografo militare fugge dalla Siria e consegna al mondo le prove dei crimini del regime. Nome in codice Caesar, vive nascosto. E per la prima volta parla a un giornale europeo. Tutto quello che si conosce di lui è il nome con cui ha scelto di farsi chiamare: Caesar. E poi ciò che era: un fotografo militare siriano, di stanza a Damasco. Un soldato per anni chiamato a fotografare fatti che coinvolgevano soldati (incidenti, suicidi, incendi) e che improvvisamente si trovò buttato in un vortice di orrore crescente. La prima richiesta arrivò nel marzo 2011: fotografare i corpi di prigionieri morti nelle mani della polizia o dei servizi segreti. Dieci, quindici al giorno all’inizio, e solo qualche volta: quaranta al giorno quando il lavoro divenne regolare, ripetuto tutti i giorni. Settimana dopo settimana, mese dopo mese. Corpi deturpati dalla fame, dalle botte, dalle torture, tanto che i familiari hanno stentato a riconoscerli. Immortalati negli attimi prima della sepoltura in fosse comuni fra il marzo 2011 e l’agosto 2013, quando l’uomo chiamato a fotografarli fuggì dalla Siria. Erano i corpi di chi, a partire dal marzo 2011, aveva scelto di ribellarsi al presidente Bashar al Assad e al regime con cui la sua famiglia da quarant’anni soffocava il Paese, chiedendo diritti e libertà sulla scia delle cosiddette “Primavere arabe”. Per questo erano stati imprigionati, torturati e infine uccisi. Come Ahmad al-Musalmani, che aveva 14 anni nel 2012 quando fu arrestato perché sul cellulare aveva una canzone contro Assad: lo zio aveva cercato senza successo notizie sulla sua sorte per 950 giorni, prima di riconoscerne il viso fra le foto di Caesar. O come Rehab al-Allawi, 25 anni, studentessa di ingegneria fermata a gennaio 2013 per il suo attivismo: il fratello aveva chiesto conferma a una compagna di detenzione prima di identificarla, tanto il volto era deformato. La storia di Caesar, delle 28.707 fotografie di cadaveri che è riuscito a portare fuori dalla Siria a rischio della sua vita e di quella di chi gli era vicino, della diffusione di quelle immagini e di come tutto questo potrebbe portare all’incriminazione per crimini contro l’umanità del presidente siriano, è ora contenuta in The Lost Souls of Syria, un documentario del cineasta Stéphane Malterre e della giornalista Garance Le Caisne. Il film verrà presentato in anteprima italiana e premiato al Pordenone Docs Festival il 29 marzo. In occasione dell’evento, Caesar ha rotto un silenzio che durava da anni e deciso di parlare per la prima volta con un giornale europeo, rispondendo in forma scritta alle nostre domande. Il fotografo ex militare oggi vive nascosto in un Paese dell’Europa del Nord. Nulla che riguarda la sua identità può essere rivelato, perché aiuterebbe chi, all’interno del regime siriano, lo sta cercando: non il suo viso, ma neanche la forma delle sue mani o il suono della sua voce. Caesar tiene nascosta anche la sua grafia, per timore che possa essere usata come traccia per risalire alla sua vera identità. E non risponde ad alcuna domanda privata: non solo dove si trovi, ovviamente, ma neppure quelle su come stia e se sia ancora capace di prendere in mano una macchina fotografica dopo tanto orrore. Chi lo conosce, racconta di un uomo segnato dall’impossibilità di condividere con chiunque il segreto della sua identità e di ciò che ha visto. Il suo nome in codice è già entrato nella Storia. Le foto da lui scattate sono oggi la base del cosiddetto Caesar Act, l’insieme di sanzioni imposte dagli Stati Uniti alla Siria nel 2020. E così pure la base del processo di Coblenza, che a inizio 2022 ha riconosciuto per la prima volta le responsabilità di due ufficiali siriani nella morte di detenuti imprigionati e torturati nelle carceri di Damasco. Sono passati quasi dieci anni dalla sua fuga dalla Siria: nonostante le sue foto, Bashar al Assad non è comparso di fronte ad alcun tribunale. Si è pentito? Ne è valsa la pena? “Non ho mai provato, nemmeno per un attimo, rimpianti o pentimenti. Nonostante l’indifferenza nei confronti di ciò che accade in Siria da parte di Paesi che si proclamano democratici. E nonostante l’ipocrisia di alcuni governi arabi che oggi tentano di far apparire accettabile questo regime criminale, pur sapendo il prezzo che hanno pagato in termini di sangue e di vite umane migliaia di innocenti. Ed essendo perfettamente a conoscenza del fatto che milioni di siriani hanno dovuto lasciare il loro Paese solo per essere scesi in strada pacificamente chiedendo libertà e dignità. Ci sono stati molti rischi lungo la strada che io e chi mi ha aiutato abbiamo percorso per rendere pubbliche le informazioni che avevo, ma non ho mai avuto dubbi sul fatto che la nostra causa fosse giusta. E che la rivoluzione contro l’ingiustizia fosse legittima. Il prezzo pagato dalle persone morte sotto tortura affinché noi e le generazioni future possiamo vivere liberi, merita che anche noi facciamo sacrifici per far capire al mondo intero il livello di sofferenza e di oppressione che c’è nelle prigioni siriane. Era mio dovere far ascoltare le grida degli anziani, delle donne e dei bambini rinchiusi per anni, torturati e metodicamente uccisi in Siria. E rivelare a tutti il vero volto di un regime che si nutre del dolore e della sofferenza dei suoi cittadini”. Crede che ci sia ancora speranza nella ricerca di giustizia per le persone che lei ha fotografato? “Senza una soluzione politica che garantisca ai siriani il diritto a tornare nel loro Paese e a vivere in sicurezza e in pace, e a causa della paralisi della giustizia internazionale e dell’opposizione degli alleati del regime come la Russia e la Cina di fronte a ogni richiesta che il governo siriano paghi per ciò che ha fatto, le cause intentate di fronte a diversi tribunali europei sono l’unica speranza che hanno le famiglie delle vittime. L’unica speranza che criminali con le mani sporche di sangue vengano portati davanti alla giustizia. I mandati di cattura emessi dai pubblici ministeri tedeschi e francesi contro funzionari siriani sono l’inizio della vittoria della giustizia. È come il primo chiodo nella bara del regime, che ora finalmente comincia a sentirsi in pericolo e a temere che future condanne possano colpirlo. E a capire che rimanere impunito sarà impossibile”. Che cosa può raccontarci di come vive oggi? “La mia quotidianità è quella di migliaia di siriani cacciati, esiliati dalle loro case e dal loro Paese da un regime sanguinario che crede solo nel linguaggio della violenza e dell’oppressione. Ogni mattina ascolto le notizie sulla Siria, sperando di sentire qualcosa che ci renda felici, faccia rifiorire il mio cuore e quello di tanti altri e ci faccia intravedere la fine di questa tragedia e la caduta di chi ha distrutto la nostra nazione, violato l’onore delle nostre donne e versato il nostro sangue gridando “Assad o bruciamo il Paese”. Il tramonto di questo regime è l’unica speranza che hanno milioni di siriani in esilio, come me, per tornare a casa”. Lei parla di speranza: ce l’ha ancora? Glielo chiedo perché molti suoi connazionali si sono ormai rassegnati a non tornare più in Siria. E lei? Come vede il suo futuro? “Io credo che lavorare per ottenere verità e giustizia e per punire i criminali che hanno ucciso migliaia di innocenti sia un dovere: morale e umano. Dunque faccio questo e continuerò a farlo. Quella che vivono le famiglie dei detenuti non è una semplice tragedia: non c’è tortura o fonte di dolore maggiore del non sapere. Ignorare quale sia il destino di fratelli, genitori, coniugi o amici rinchiusi nelle carceri in Siria è drammatico. Queste persone vivono con la speranza che i loro cari siano ancora vivi. Credo anche che chi ha avuto la sfortuna di sapere che la persona che cercava è morta in quelle celle, debba rivolgersi a una delle organizzazioni che seguono la vicenda siriana per fornire documenti e informazioni. Questo ci permetterà di arrivare a processi davanti a tribunali nazionali, che siano di Paesi europei o americani”. Negli Usa le pistole uccidono più delle auto: prima causa di morte tra i bambini di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 29 marzo 2023 I decessi per arma da fuoco tra gli under 19 sono aumentati del 62% in quasi un decennio. In America record di 5,3 bambini morti ogni 100.000 (insegue a gran distanza il Canada con un tasso dello 0,8). Dopo lo choc e il dolore straziante, ora ai genitori dei tre bambini uccisi tra i banchi della Covenant School di Nashville tocca scegliere gli ultimi vestitini e le piccole bare per i loro figli sterminati da un killer entrato a scuola con fucili d’assalto e una pistola. Un’ennesima strage di bambini in un Paese dove le motivazioni che inducono alla violenza variano ma una cosa accomuna questi massacri: il facile accesso alle armi di chi li compie. Il risultato è drammatico: niente uccide di più i bambini americani delle pistole, le sparatorie sono la prima causa di morte tra gli under 19 negli Usa. Davanti persino agli incidenti d’auto. E non da ora. Sono passati più di 10 anni dalla strage nella scuola elementare Sandy Hook di Newtown, nel Connecticut: si pensava che l’indignazione per quei 20 alunni uccisi avrebbe finalmente portato l’America a limitare l’accesso alle armi. Invece la situazione nel corso degli anni non soltanto non è cambiata, è addirittura peggiorata. Da Sandy Hook le morti per armi da fuoco di bambini sono aumentate del 62% negli Stati Uniti. Nel 2012, le ferite da arma da fuoco hanno ucciso 2.694 bambini negli States, secondo i dati dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC). Un numero salito a 4.368 nel 2020 (ultimo anno per cui sono disponibili dati ufficiali sulla violenza armata), con un’impennata tra il 2019 e il 2020. Quella di martedì a Nashville, in Tennessee, è solo una delle oltre 130 sparatorie di massa avvenute finora negli Stati Uniti quest’anno, 13 delle quali nelle scuole. In totale dopo Sandy Hook oltre 25.000 bambini sono morti per ferite da arma da fuoco. La maggior parte ha perso la vita per aggressione (64%), circa un terzo per suicidio (30%) e il resto per negligenza, come armi mal conservate nelle loro case. Le armi da fuoco uccidono così tanti bambini americani che pongono fine alla vita di 5,3 bambini ogni 100.000 e superano anche i decessi automobilistici, che sono 4,8 ogni 100.000. Non solo nessun’altra nazione sviluppata può rivendicare le armi come la principale causa di morte infantile, ma i tassi di mortalità per armi da fuoco tra i bambini sono di gran lunga superiori rispetto ad altri Paesi ad alto reddito, che hanno tutti leggi sul controllo delle armi molto più severe rispetto agli Stati Uniti. In Canada, che è al secondo posto, il tasso è dello 0,8 per 100.000; in Francia è 0,5. In media, in Paesi comparabili, è 0,3 per 100.000. “Ci sono molti modi per giudicare il successo o il fallimento di un paese - considera oggi l’americano Esau McCaulley sul New York Times - Possiamo guardare alla sua economia, alla forza dei suoi militari o alla qualità della sua istruzione. Possiamo esaminare la solidità dei nostri ponti o l’uniformità delle nostre autostrade. Ma cosa succede se usiamo uno standard diverso? Dovremmo giudicare una nazione in base a un semplice parametro: il numero di genitori in lacrime che consente, le piccole tombe che tollera”. I diritti negati delle donne: in Afghanistan è persecuzione di genere di Marta Serafini Corriere della Sera, 29 marzo 2023 Arrestato il fondatore dell’associazione PenPath che si batte contro l’analfabetismo. Le accuse dell’Onu al regime dei talebani. Matiullah Wesa, 30 anni, si batteva per l’educazione di bambini e giovani donne in Afghanistan. Una missione cominciata prestissimo, a 16 anni, quando insieme al fratello aveva fondato l’associazione no-profit PenPath che, dal 2009 a oggi, ha combattuto l’analfabetismo in tutto il Paese aprendo scuole, avviando progetti d’istruzione e distribuendo gratis libri nelle aree rurali. Matiullah Wesa è stato arrestato dalle autorità talebane appena uscito da una moschea nel quartiere di Khushal Khan, a Kabul. Da quando sono tornati al potere, nell’agosto 2021, i talebani hanno cancellato ogni passo in avanti fatto dall’Afghanistan per tutelare il diritto all’istruzione, impedendo alle donne l’accesso a scuole e università. Questo nonostante le promesse fatte sia durante i colloqui di Doha, sia all’indomani della presa di Kabul. “La politica intenzionale e calcolata dei talebani è quella di negare i diritti delle donne e delle ragazze e di cancellarle dalla vita pubblica”, ha scritto Richard Bennett, l’inviato speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Afghanistan, nel presentare il suo rapporto sul Paese centro-asiatico al Consiglio dei diritti umani dell’Onu. Un’analisi con dati talmente gravi da spingere Bennett a un invito-appello, rivolto al procuratore capo della Corte penale internazionale: verificare se in Afghanistan sia in corso un “crimine di persecuzione di genere”. L’Afghanistan è uno Stato firmatario della Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, ma i talebani la stanno “contravvenendo in modo flagrante”, scrive ancora Bannett. È allora fondamentale che la comunità internazionale intraprenda tutti i passi possibili affinché gli atti violenti contro le donne e contro chi le difende vengano considerati come crimini contro l’umanità e come tali siano processati. Solo così tutto questo potrà avere fine.