Il reato di tortura è nel codice militare dal 2001. E nessuno si è mai lamentato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 marzo 2023 Dal 2017 è entrato nel nostro ordinamento dopo le sentenze Cedu sulle violenze al G8 di Genova e nelle carceri. Processi e sentenze ne smentiscono la problematica applicabilità sollevata da Fratelli d’Italia. Una delle motivazioni addotte da Fratelli D’Italia per giustificare la modifica del reato di tortura, di fatto abolendolo, è che la Polizia penitenziaria rischierebbe di subire denunce e processi strumentali che potrebbero disincentivare e demotivare la loro azione contenitiva. Eppure, tale reato esiste da oltre vent’anni nel nostro codice penale militare di guerra nell’articolo 185-bis. Nessuno ha sollevato obiezioni del genere, a maggior ragione in un contesto decisamente più problematico. Fino a pochissimi anni fa (solo nel 2017 è stato introdotto il reato), c’è stato il paradosso che gli obblighi internazionali (la Corte europea ci aveva sanzionati) appaiono rispettati nell’ordinamento italiano solo nell’ambito del diritto militare di guerra e non nel diritto penale “ordinario”. Tale inadempienza, ha portato la Corte europea dei diritti dell’uomo (Affaire “Cestaro c. Italia”) a sanzionare l’Italia in quanto, con riferimento alle violenze della polizia nella Scuola Armando Diaz al termine del G8 di Genova, “la legislazione penale italiana applicata nel caso di specie si è rivelata, al contempo, inadeguata quanto all’esigenza di sanzionare gli atti di tortura in questione e priva dell’effetto dissuasivo necessario a prevenire altre violazioni simili dell’art. 3 Cedu”. Proprio a seguito della condanna della Cedu l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi ha annunciato una accelerazione dell’iter della proposta di legge a firma dell’allora senatore Luigi Manconi, fino alla sua approvazione. Una proposta di legge che era stata presentata nel 2013. Ad accelerare l’approvazione della legge sul reato di tortura non è solo la sentenza sui fatti del G8 di Genova, ma anche quelle sul carcere. Diverse sono state le sentenze Cedu che, a seguito delle violenze sui detenuti da parte di alcuni agenti penitenziari, hanno evidenziato la problematica della mancata introduzione di tale reato. Parliamo del caso “Cirino e Renne c. Italia”. Nell’ottobre del 2017 viene pronunciata questa sentenza che vede l’Italia ancora una volta protagonista relativamente ad alcune vicende che si sono svolte nell’istituto penitenziario di Asti. Si tratta questa volta dei ricorsi proposti da Andrea Cirino e Claudio Renne nel dicembre 2014, le cui osservazioni denunciano la violazione ancora una volta dell’art.3 Cedu riguardo ai maltrattamenti a cui sono stati sottoposti nel dicembre 2004, durante il loro periodo di detenzione; la inadeguatezza della condanna verso i responsabili; e il fallimento dello Stato di porre in essere tutte quelle misure necessarie dirette a una efficiente prevenzione degli episodi di tortura e trattamenti inumani e degradanti. I ricorrenti avrebbero, a seguito di un alterco con un comandante di reparto della polizia penitenziaria, subito la reclusione in due diverse celle d’isolamento, dopo essere stati percossi da vari agenti. Privi di un materasso o coperte, di acqua corrente e di riscaldamento, i detenuti sono stati soggetti a violenze e percosse per almeno una settimana, privati del sonno, offesi verbalmente e costretti praticamente al digiuno ed alla somministrazione di piccole quantità d’acqua. Il 16 dicembre 2004, il ricorrente Renne viene condotto in ospedale a causa della sua precaria condizione di salute a seguito dell’isolamento. Il 7 luglio 2011, cinque agenti della polizia penitenziaria sono portati a processo con le accuse di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p., le aggravanti di cui all’art. 61 c.p. n. 9, lesioni personali ex art. 582 c.p. e abuso di autorità contro arrestati o detenuti ex art. 608 c.p.: tutti i reati però prescritti durante il procedimento. Sul versante delle sanzioni disciplinari, che corrono su un binario parallelo rispetto ai procedimenti penali, soprattutto in relazione alla tortura e ai trattamenti inumani, vediamo l’applicazione della sospensione dal servizio dai 4 ai 6 mesi (nessuno di queste però disposte durante l’indagine), e solo due agenti licenziati, di cui uno reintegrato. Le Corti Italiane non possono fare altro quindi che confermare l’accertamento dei fatti così come descritti dai ricorrenti, in un contesto (quello degli anni 2004 e 2005), in cui è ravvisata nel carcere di Asti una sistematica pratica di maltrattamenti simili nei confronti dei detenuti considerati “problematici”. Tutto questo è avvenuto nella più completa impunità dovuta all’acquiescenza dell’allora amministrazione penitenziaria riguardo a tali incresciosi episodi di violenza. La Corte di Strasburgo anche questa volta non nutre dubbi sulla qualificazione delle sevizie subite dai ricorrenti come tortura ai sensi dell’art. 3 Cedu considerando: la reiterazione delle torture che hanno portato all’ospedalizzazione di una delle due vittime; gli effetti psicologici derivati dal trattamento considerando anche la situazione di vulnerabilità in cui verte chiunque sia sottoposto alla custodia di agenti di polizia; l’azione combinata di violenza fisica e privazioni materiali completamente gratuite; la premeditazione ed organizzazione da parte degli agenti; la sistematicità del maltrattamento all’interno dell’istituto e l’elemento volontaristico diretto verso un obiettivo repressivo, punitivo verso i detenuti, nella convinzione di creare un monito diretto agli altri condannati che rafforzasse la disciplina all’interno del carcere. Anche in questo caso, la Cedu ha parlato dell’assenza del reato di tortura all’interno del codice penale italiano. Il dramma è che il testo della proposta di legge di FdI approdata in commissione Giustizia, osserva che “la struttura della norma non permette tra l’altro di stabilire con chiarezza se la figura tipizzata al secondo comma abbia natura circostanziale o sia una fattispecie autonoma di reato, creando notevoli difficoltà applicative - anche in relazione al possibile bilanciamento di circostanze - che la giurisprudenza si troverà a dover affrontare”. Ma i fatti smentiscono tale assunto. Non solo dai processi in corso, ma anche da alcuni esiti giudiziari come le condanne nei casi del carcere di Ferrara e San Gimignano. Nonostante l’attuale legge sia in realtà debole (ad esempio il reato viene ricollegato a più condotte), alla fine la giurisprudenza non ha trovato difficoltà applicative. L’Italia è stato l’ultimo Paese europeo ad aver introdotto il reato di tortura, dopo decenni di resistenze e condanne da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e rinunciare ora a questa conquista di civiltà significherebbe operare per riportare il Paese indietro anziché promuoverne il progresso. L’esistenza del reato di tortura non impedisce alle forze dell’ordine di svolgere diligentemente il loro lavoro, anzi, è una misura che tutela anche chi opera per il rispetto della legge. D’altronde, come detto in premessa, tale reato esiste già nel codice militare e non è certo ostativo al lavoro dei nostri soldati. Figuriamoci nelle carceri o nelle strade, dove non si è in guerra. E se anche lo fosse (ma non deve esserlo, perché non siamo l’Iran), la tortura deve essere sanzionata e inquadrata nel nostro ordinamento “ordinario” così come richiesto ripetutamente dalle corti internazionali. Madri e figli in cella e tortura: andiamo avanti non indietro di Mario Chiavario Avvenire, 28 marzo 2023 Due questioni di civiltà e di buon diritto fatte di nuovo roventi. Detenute madri, figli incarcerati con loro e reato di tortura. Sono argomenti venuti in primo piano in questi giorni a seguito di parole e di iniziative di esponenti di prima fila dell’attuale maggioranza parlamentare e di governo: rivelatrici, le une e le altre, in ambo i casi, di una pericolosa tendenza ad alterare in peggio il già sempre precario rapporto tra severità e umanità nell’amministrazione della giustizia. Sul primo problema è difficile dissentire dalla puntuale analisi critica di Laura Liberto, pubblicata domenica 26 marzo su queste stesse pagine. Semmai si può sottolineare ulteriormente che è questo un test doppiamente significativo per verificare che cosa la legge intende fare, in generale, della giustizia penale: se uno strumento - checché se ne dica - semplicisticamente e ciecamente repressivo, o se un qualcosa che, attraverso percorsi non sempre facili, sappia appunto mostrare un volto umano, pur senza con ciò favorire a nessuno l’acquisizione di indebite impunità, e che s’impegni a dare un senso reale e non retorico alla finalità “rieducativa” prospettata dalla nostra Costituzione come obiettivo essenziale per l’intero sistema penale. Ma perché “doppiamente” significativo? Perché qui, se la soluzione è sempre e soltanto quella detentiva, sono due le persone a subirla; e, almeno una, del tutto innocente. E parimenti diabolica, d’altronde, è l’alternativa che si configura, se in luogo della detenzione per entrambe le persone le si costringe a un innaturale separazione allontanando il bambino dalla madre, che resta in prigione. Nessuno può volere che la maternità sia un lasciapassare per commettere, e soprattutto per reiterare, dei reati, che non sempre, se è concesso di ribaltare un’espressione spesso usata (e anche abusata) sono “di poco conto”; o, quantomeno, non lo sono quando le vittime appartengono a loro volta, per ragioni economiche o d’altro tipo, a fasce deboli della società. Ma una cosa è il potenziare una rete di strumenti, imperniata su strutture come le “case famiglia” dotandole di risorse e soprattutto di personale adeguato e adeguatamente formato, e anche assicurando i necessari controlli sulle ospiti nel tempo che trascorrono all’esterno; e altra cosa è il cercar di tacitare preoccupazioni e perplessità più o meno diffuse nell’opinione pubblica con un’unica, ossessiva risposta - “più carcere” - magari accompagnata da slogan che con grossolane generalizzazioni vellicano tentazioni razzistiche più o meno sottotraccia (le “borseggiatrici rom”…). Discorso diverso, ma, al fondo, nemmeno troppo, quello sulle iniziative volte a “sterilizzare”, se non a cancellare del tutto e definitivamente, il reato di tortura. Innegabile il ritorno ad argomenti già massicciamente profusi per tentar d’impedire che come specifico delitto esso venisse finalmente introdotto in Italia coerentemente con impegni assunti anche a livello internazionale. Lo è stato solo di recente - occorre ricordare - e con notevoli limitazioni prudenziali, che comunque rendono pretestuosi gli argomenti con i quali si sollecita, pure qui con semplicistica alterazione di prospettive, un consenso alle operazioni riduttive e di fatto abolitive; come se la legge attuale ponesse davvero ostacolo a legittime operazioni di polizia o davvero privasse della necessaria tutela il personale penitenziario di fronte a violenze e minacce di reclusi riottosi. Ciò che essa contrasta sono i gravissimi maltrattamenti, operati da agenti tra mura protette e, quel che è peggio, in certi casi avallati dai loro superiori. Pure a questo proposito si avvertono echi di parole sconcertanti: promesse di “star sempre dalla parte” di ufficiali e agenti, offrendo il sostegno di una specie di presunzione di giustificazione “a prescindere”. Sarebbe gravissimo il volerle tradurre in norme che suonassero come una censura alle autorità giudiziarie per accertamenti rigorosamente condotti su episodi che continuano a essere denunciati con dovizia di allarmanti particolari e come un dietrofront nella fissazione di doverosi limiti all’uso della forza da parte di chi può esercitarla nei confronti di persone soggette al suo controllo: e, ciò, anche quando può sorgere un pur comprensibile impulso immediato alla ritorsione, da comprendere ma da non incoraggiare a tradursi in pratica. No: si può provare disagio nel dirlo e nello scriverlo, pensando ai sacrifici e al sangue che ha comportato e comporta, per la stragrande maggioranza di uomini e donne in divisa, l’adempimento di un servizio essenziale per la collettività; ma, se la disumanità non può mai essere approvata, tantomeno la si può giustificare o minimizzare quando a praticarla - con violazione, altresì, di uno dei cardini fondamentali dello Stato di diritto - siano coloro cui è affidata la tutela della legalità. Né la si può retrocedere benevolmente a forma, sia pur estrema, di severità, magari concedendo che, quando questa vada un po’ oltre le righe, sia da considerare alla stregua di un’aggravante tra le tante. Bambini “colpevoli” di essere nati da donne che hanno commesso reati di Elena Cimmino* Il Dubbio, 28 marzo 2023 Sembra incredibile ma in Italia, il Paese dove “la mamma è sempre la mamma”, i figli non sono sempre figli perché se sono figli di donne che hanno condanne da scontare in carcere, possono diventare piccoli detenuti. Questi figli non sono bambini da tutelare ma sono bambini “colpevoli” di essere nati da donne che hanno commesso reati. La proposta di legge presentata quasi due anni fa dall’onorevole Paolo Siani e che non riuscì per pochi giorni a diventare legge nella scorsa Legislatura, è stata ritirata dai nuovi proponenti. In commissione Giustizia della Camera, infatti, è stato tentato il “blitz” dello stravolgimento della stessa attraverso la presentazione di emendamenti che non solo svuotano di senso e contenuto la proposta di legge, che mirava ad evitare il carcere alle donne condannate madri di bambini piccoli, istituendo apposite case famiglia finanziate dallo Stato, ove far trascorre la detenzione in piena sicurezza senza alterare incisivamente il rapporto genitoriale, ma finanche peggiorano la normativa esistente, già decisamente scadente. E allora, in conseguenza degli emendamenti della destra Cristiana, si è ritirata la proposta di legge e si è deciso che l’Italia è uno Stato che non protegge i bambini nonostante la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea - Carta a cui l’Italia deve rispetto- stabilisca all’art. 24 che “i bambini (tutti) hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere”…. e che “in tutti gli atti relativi ai bambini, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente”. L’Italia, quindi, oggi si presenta irrispettosa dei doveri morali e giuridici nei confronti dei bambini che - si ritiene- debbano essere lasciati in carcere perché le loro madri potrebbero eventualmente essere pericolose per la società poiché potrebbero andare in giro a rubare portafogli nelle metropolitane. I fini giuristi della commissione Giustizia hanno evidentemente ritenuto che l’interesse a non subire il furto del portafogli sia un interesse preminente rispetto a quello del bambino a non crescere - e talvolta a non nascere - in carcere. Con certi emendamenti e con certe posizioni rispetto ai soggetti più indifesi che possano esistere si sceglie che Paese si vuole essere e l’Italia ha scelto di essere un Paese di cui vergognarsi. Sono 26 - attualmente - i bambini in carcere che subiscono danni irreparabili dalla detenzione a cui possiamo solo chiedere scusa. *Vice presidente Carcere Possibile Onlus Alfredo Cospito resta al 41bis, i giudici: “Strumentale il suo sciopero della fame” di Valentina Stella Il Dubbio, 28 marzo 2023 Rigettate le istanze a Milano e Sassari sul differimento della pena per motivi di salute. Il difensore: “Ci appelleremo all’Europa”. Delmastro: “Partita chiusa, lo Stato ha affermato che non si piega”. Alfredo Cospito resta al 41 bis: i Tribunali di Sorveglianza di Milano e Sassari hanno respinto entrambi la richiesta di differimento pena per motivi di salute nella forma della detenzione domiciliare e quella di collocazione permanente nel reparto di medicina protetta dell’ospedale San Paolo di Milano, presentata dai suoi avvocati Flavio Rossi Albertini e Maria Teresa Pintus. I legali avevano indicato come residenza per gli eventuali arresti domiciliari la casa della sorella di Cospito, a Viterbo. Tale tipo di decisione non sembra inaspettata perché, come anticipato nei giorni precedenti, c’è giurisprudenza che nega questa richiesta quando a deteriorare lo stato di salute di un detenuto è il detenuto stesso. Ma vediamo nello specifico. Il Tribunale di Sorveglianza del capoluogo lombardo, presieduto da Giovanna Di Rosa, parte da tale presupposto: l’attuale condizione di salute del detenuto è “conseguenza dell’esercizio del suo diritto all’autodeterminazione attraverso il rifiuto, con scelta programmata, volontaria e autonoma della nutrizione, affiancato alla dichiarazione delle sue motivazioni (contrarietà al 41 bis) e alla definizione degli obiettivi auspicati (cessazione nei suoi confronti di quel regime speciale)”. Inoltre, “da nessun elemento agli atti (...) si trae che la scelta di Alfredo Cospito di intraprendere e, attualmente, proseguire, nello sciopero della fame possa essere ricondotta a tratti disfunzionali di personalità (sui quali sarebbe altrimenti doveroso indagare)”. Cospito è “lucido” e “determinato nelle rifiuto delle terapie proposte” per sopperire alle carenze del digiuno, nonostante possa così esporsi a complicanze cardiologiche, neurologiche e metaboliche. Pertanto il Collegio ha rigettato l’istanza richiamandosi altresì a dei precedenti della Corte di Cassazione, tra cui una sentenza del 2019 che recita, tra l’altro: “La condizione di sofferenza autoprodotta dal condannato, realizzata mediante comportamenti come la mancanza di collaborazione per lo svolgimento di terapie e di accertamenti o il rifiuto dei medicamenti e del cibo, non può essere presa in considerazione ai fini del bilanciamento tra esigenze di salvaguardia dei diritti fondamentali e obblighi di effettività della risposta, non potendosi pretendere tutela di un diritto abusato e esercitato in funzione di un risultato estraneo alla sua causa”. L’accettazione dei trattamenti sanitari rappresenta dunque “la condizione giuridica necessaria alla positiva valutazione della relativa richiesta”. Invece nel caso di Cospito si afferma che “la strumentalità della condotta che ha dato corso alle patologie oggi presenti è assolutamente certa”. Per quanto concerne infine la richiesta, avanzata pure dal Pg, di disporre in via permanente la collocazione di Cospito nell’attuale reparto di Medicina Protetta, essa non può essere presa in considerazione in quanto materia del magistrato di sorveglianza. Motivazioni simili sono alla base del rigetto da parte Tribunale di Sorveglianza di Sassari, presieduto da Giommaria Cuccuru: “Affinché la grave infermità fisica possa costituire il presupposto di applicabilità del differimento dell’esecuzione della pena per motivi di salute, è necessaria la sua involontarietà”. In merito alla decisione si è espresso il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro delle Vedove: “La partita è chiusa”, in quanto “lo Stato ha riaffermato che non si piega a condotte strumentali peraltro asseritamente volte a revocare il 41 bis a decine e decine di mafiosi”. Mentre l’avvocato Rossi Albertini ci dice: “L’esito era scontato, non confidavamo in alcun modo in questa iniziativa, rappresentava un passaggio obbligato per adire, anche sotto questo profilo, le giurisdizioni internazionali. Il caso Cospito è paradigmatico sotto molti profili dello stato di civiltà giuridica del nostro Paese, chissà cosa ne direbbe Voltaire se fosse ancora vivo”. Ecco perché Cospito resta al 41 bis di Lorenzo Rotella La Stampa, 28 marzo 2023 I problemi cardiaci definiti “artefatti”. Lo sciopero della fame di Alfredo Cospito per i giudici del Tribunale di Sorveglianza di Milano è “strumentale” e dunque, l’anarco-insurrezionalista detenuto ad Opera in regime del carcere duro (41bis), dovrà continuare a rimanere detenuto nelle stesse condizioni che non “confliggono col senso di umanità della pena”. Ma potrà farlo rimanendo non più in cella ma nel reparto detenuti dell’Ospedale San Paolo, dove già si trova dal 4 marzo scorso. I giudici hanno dunque rigettato l’istanza della difesa che aveva chiesto il trasferimento ai domiciliari di Cospito per gravi ragioni di salute. Anzi, hanno valutato persino che i problemi di cuore denunciati dai suoi legali il 21 marzo scorso, siano stati in realtà “artefatti” perché la tachicardia ventricolare segnalata dal monitor dell’ospedale a un ulteriore esame si è rivelata come molto meno grave. Quindi, per i giudici, la condizione clinica dell’anarchico al 41bis “è diretta conseguenza dello sciopero della fame che sta portando avanti da ottobre”. E dato che “il rifiuto dell’alimentazione ha determinato l’attuale condizione clinica” del detenuto, la richiesta viene respinta perché “la strumentalità della condotta che ha dato corso alle patologie oggi presenti è assolutamente certa”. Analoga decisione hanno preso i giudici di Sassari, ai quali la difesa aveva chiesto un differimento della pena sempre per motivi di salute. La difesa, ritenendo il quadro clinico “irreversibilmente compromesso” aveva richiesto il differimento dell’esecuzione della pena con gli arresti domiciliari nell’appartamento di una delle due sorelle a Viterbo, dove abita con due figli minori. L’avvocato Flavio Rossi Albertini ha sottolineato come altrimenti la condanna così scontata “sia eseguita in disprezzo al diritto alla salute e al senso di umanità”. Nell’udienza che si è svolta nel reparto ospedaliero del San Paolo, Cospito ha nuovamente spiegato le ragioni dello sciopero della fame. Dallo scorso 25 febbraio si nutre solo di acqua, sale e zucchero perché da un lato il regime carcerario del 41 bis rappresenta “un trattamento contrario al senso di umanità”; dall’altro perché i limiti su che può leggere in detenzione “lo porterebbero a morire dentro anche se riprendesse ad alimentarsi”. Motivazioni che però non hanno convinto le toghe. Secondo le quali, tutto ciò che sta capitando all’anarchico cinquantacinquenne è dovuto a “una forma di protesta non violenta consistente nel suo comportamento volontario”. Una condizione fisica che per i giudici può essere monitorata e tenuta sotto controllo “solo in un reparto ospedaliero”, dove attualmente si trova. “L’esito era scontato, non confidavamo in alcun modo in questa iniziativa” ha tagliato corto il legale dell’anarchico. “Il caso Cospito è paradigmatico sotto molti profili dello stato di civiltà giuridica del nostro Paese. Chissà cosa ne direbbe Voltaire se fosse ancora vivo”. L’avvocato ha inoltre ribadito che il detenuto “continuerà la sua protesta”. Aggiungendo a suo nome che “la cosa che lo fa più arrabbiare è la consegna dei libri: sono tre settimane che ha chiesto un volume di Borges e ancora non glielo hanno dato. Al 41 bis la cosa che è meno salvaguardata è il diritto allo studio, alla lettura, alla crescita morale e culturale del detenuto”. Un regime carcerario che per l’ex magistrato Gian Carlo Caselli, invece, “è essenziale” per la gestione della criminalità organizzata. Concorda il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro delle Vedove, che commenta così il doppio rigetto a Cospito: “La partita è chiusa. Nella piena cornice della legittimità, lo Stato ha riaffermato che non si piega a condotte strumentali, peraltro volte a revocare il 41 bis a decine e decine di mafiosi”. Domanda sul caso Cospito: solo chi si è ammalato involontariamente “merita” di essere curato? di Gianfranco Pellegrino Il Domani, 28 marzo 2023 I giudici suggeriscono che chiunque si metta da solo in certe condizioni di disagio e usi queste condizioni di disagio non merita aiuto per alleviarle. Mi chiedo se ai giudici sia concesso di argomentare talmente tanto nel merito da non poter estendere la loro posizione ad altri. Perché se questa posizione si estendesse, ne deriverebbe che un cittadino che si espone volontariamente a pericoli (per esempio, un cittadino che si espone al contagio di un virus) non merita le cure dello Stato. La sentenza dei giudici di sorveglianza che rifiuta i domiciliari ad Alfredo Cospito porta ad alcune riflessioni interessanti. L’argomentazione principale dei giudici sembra questa. Le condizioni di salute di Cospito sono precarie e potrebbero essere incompatibili con questo regime carcerario (su questo i giudici si dividono: per quelli di Sassari la salute di Cospito richiederebbe un differente regime, per quelli di Milano no). Tuttavia, queste condizioni di salute secondo entrambe le corti non giustificano la concessione dei domiciliari perché Cospito si è messo da solo in queste condizioni, e lo ha fatto per ottenere, così facendo, i suoi scopi. Cospito usa il corpo come arma di ricatto - L’idea, dunque, è che Cospito stia usando il suo corpo per certi fini e che concedergli i domiciliari significherebbe cedere al ricatto. Ho già sostenuto su questo giornale che quello di Cospito non è un ricatto, per la natura morale delle sue richieste e l’assenza di minacce a terzi, e non lo è neanche per chi disapprovi le sue idee. Ma è interessante quello che la posizione dei giudici aggiunge alla tesi del ricatto. I giudici suggeriscono che chiunque si metta da solo in certe condizioni di disagio e usi queste condizioni di disagio non merita aiuto per alleviarle. Assumendo (cosa che i giudici di Milano in realtà negano) che la concessione dei domiciliari sia una specie di cura (forse preventiva) delle malattie che Cospito si è procurato e si potrebbe procurare, l’idea è che questa cura egli non la meriti, perché si è messo da solo nei guai e l’ha fatto per testimoniare certe idee. Mi chiedo se ai giudici sia concesso di argomentare talmente tanto nel merito da non poter estendere la loro posizione ad altri. Perché se questa posizione si estendesse, ne deriverebbe che un cittadino che si espone volontariamente a pericoli (per esempio, un cittadino che si espone al contagio di un virus) non merita le cure dello Stato. E ne deriverebbe pure che un cittadino che, impegnato per esempio in una dimostrazione per ideali politici, si procuri danni fisici (un giovane che cerca di organizzare un picchetto di fronte a una fabbrica, e per farlo mette in pericolo la sua incolumità fisica, per esempio trasportando dei cartelli ingombranti su una strada dove le macchine corrono ad alta velocità) non dovrebbe essere curato, perché l’azione che ha portato alla sua condizione era volta a ottenere fini politici. Per evitare queste conseguenze, bisognerebbe sostenere che Cospito non è un cittadino come gli altri, cioè che un detenuto non è un cittadino con gli stessi diritti alla salute degli altri, o che privarsi del cibo non è simile a correre dei pericoli per organizzare una manifestazione. Ma non è appunto uno sciopero? Peraltro, la posizione dei giudici sembra contrastare, e anche questo è interessante, con il parere del Comitato Nazionale di bioetica, che sul caso Cospito è stato spinto ad intervenire dal ministro Nordio (nonostante per statuto questo organo non possa pronunciarsi su casi così specifici). Anche il ministro Nordio, nei suoi quesiti, aveva insistito sul fatto che i comportamenti di Cospito (in quel caso le direttive anticipate, con le quali egli rifiutava trattamenti salvavita in caso di perdita di conoscenza) erano animati da finalità estranee alla condizione clinica personale. In risposta e all’unanimità i membri del Comitato hanno sostenuto che “lo sciopero della fame rappresenta un modo, sia pure estremo, di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su situazioni ritenute ingiuste o su diritti che si desidera rivendicare” e quindi esprime la “libertà morale del soggetto”, che va sempre “pienamente rispettata”, e in particolare quando proveniente da chi altri mezzi di esercitare la libertà non li ha. “Chi sciopera”, scrive il Comitato, “mette in gioco la vita come modo per indurre un esito, senza usare violenza su alcuno”. Per questo non è un ricatto e per questo i fini di Cospito non possono essere usati per negargli condizioni migliori, se egli le chiede. Farlo significa punire l’esercizio della sua libertà. A maggioranza, il Comitato osserva che negli organismi internazionali il suicidio è un “problema di salute pubblica”, quali che ne siano le motivazioni: cioè anche quando il detenuto “abbia per obiettivo di ottenere il trasferimento in ospedale o in un’istituzione meno restrittiva”. E, sulla base di queste considerazioni, gli esponenti della mozione di maggioranza concludono che bisogna bilanciare il principio di autodeterminazione con la tutela della salute del detenuto, anche osservando l’”evoluzione degli intendimenti” del detenuto. La richiesta di Cospito sembra proprio essere una evoluzione delle sue idee, oltre che delle sue forze. La tutela della sua salute, bilanciata col rispetto per la sua autodeterminazione, dovrebbe indurre ad accettare con sollievo la richiesta di domiciliari, non ad accanirsi a censire le sue motivazioni. Anche qualche riflessione strategica potrebbe aiutare, se non i giudici almeno i politici. Un Cospito ai domiciliari, alimentato decentemente, perderebbe molto del suo presunto potere di ispirare gli anarchici, sgonfiando forse le proteste. Questa ossessione per il ricatto e per la linea della fermezza ricorda invece tempi peggiori e ostinazioni che non hanno portato a nulla di buono. Nessuna pietà per Cospito: ora va alla morte di Frank Cimini Il Riformista, 28 marzo 2023 “La strumentalità della condotta che ha dato corso alle patologie oggi presenti è assolutamente certa al pari della motivazione che ha indotto la forma di protesta” scrivono i giudici del Tribunale di Sorveglianza di Milano rigettando la richiesta di Alfredo Cospito in sciopero della fame dal 20 ottobre scorso di ottenere il differimento della pena e gli arresti domiciliari a casa di una sorella. Cospito resta al 41 bis. Le sue precarie condizioni di salute è il ragionamento del collegio presieduto da Giovanna Di Rosa sono il frutto di una deliberata e consapevole scelta sulla quale permane un discreto compenso cardio-circolatorio. Attraverso il ricovero in ospedale si permette il più attento monitoraggio clinico concepibile. L’avvocato difensore Flavio Rossi Albertini dice che ricorrerà in Cassazione contro le decisioni assunte dai giudici di Milano e dai colleghi di Sassari, dove Cospito era stato detenuto in precedenza. Ma i tempi di queste impugnazioni sembrano incompatibili con le condizioni di salute dell’anarchico in continuo peggioramento considerando che rifiuta qualsiasi ipotesi di alimentarsi al di là di acqua, sale, zucchero e qualche multivitaminico. Che l’istanza sarebbe stata rigettata era stato chiaro già durante l’udienza di venerdì scorso, quando il giudice Di Rosa invitava Cospito a interrompere il digiuno. Si trattava di un messaggio sin troppo esplicito per dire che altre strade davanti a sé il detenuto non avrebbe avuto. Va ricordato che il giudice sta lì per prendere una decisione non per lanciare messaggi. Poi il legale aggiunge: “Non confidavamo in alcun modo in questa iniziativa, rappresentava un passaggio obbligato per adire, anche sotto questo profilo, le giurisdizioni internazionali. Il caso Cospito è paradigmatico sotto molti profili dello stato di civiltà giuridica del nostro paese, chissà cosa ne direbbe Voltaire se fosse ancora vivo” I giudici nella motivazione scrivono che Alfredo Cospito è costantemente informato dai sanitari degli elevati rischi per la propria salute ai quali si espone nel proseguire lo sciopero della fame e reiteratemente i medici gli propongono un protocollo di rialimentazione, dopo il digiuno prolungato, che però viene rifiutato coscientemente. Cospito anche in udienza aveva ribadito che quella con l’applicazione dell’articolo 41bis è una sorta di non vita, che non basta mangiare per vivere se non si può leggere quello che si vuole, se non si possono scrivere articoli per giornali della sua area politica. Per i giudici la condizione di sofferenza autoprodotta dal condannato preclude la scarcerazione per motivi di salute. Va ricordato che in questa vicenda organi accusatori della magistratura come la direzione nazionale antiterrorismo, la direzione distrettuale di Torino e persino una relazione informativa del Ros dei carabinieri avevano prospettato la sostituzione del 41bis con la detenzione in alta sicurezza. Il tutto per superare il muro contro muro. Insomma era stata la magistratura a esercitare una funzione di mediazione contrariamente a quanto accade di solito. Ma la politica non ha voluto sentire ragioni. E le decisioni assunte ieri, considerando la giurisprudenza consolidata in caso di sciopero della fame, erano e sono addirittura scontate. La curvatura inquisitoria dei professionisti del bene di Vincenzo Maiello* Il Dubbio, 28 marzo 2023 Il dibattito pubblico sui temi della giustizia, in un paese governato da principi e regole della democrazia costituzionale, dovrebbe rispecchiarne i caratteri identitari. Quelli idonei a promuovere un modello di società aperta, fondata sul pluralismo e la libertà di opinione che espone le forme del potere al controllo dialettico nel teatro della polis. Purtroppo, non è quel che sta avvenendo dalle nostre parti. Negli ultimissimi tempi, abbiamo dovuto osservare, sconcertati, il preoccupante ripetersi di forme di fanatismo massimalista (di “dogmatismo sacrale”, per dirla con Giovanni Fiandaca, Il Dubbio, 23 marzo) e intolleranza civile verso studiosi e intellettuali, ostracizzati per aver osato mettere in discussione congegni normativi e prassi del law enforcement del contrasto alla criminalità mafiosa. Sono in particolare tre le vicende emblematiche del fenomeno. La prima riguarda l’infamante accusa di collateralismo (in realtà di vera e propria appartenenza all’ambito della ‘ borghesia mafiosa’) che un noto giornalista ha rivolto in una trasmissione televisiva - non senza toni di squadrismo verbale - a Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo per le loro note posizioni critiche sul tema della trattativa Stato- Mafia e sulla sua narrazione processuale. La seconda rinvia alle aspre critiche espresse da magistrati simbolo dell’esperienza giudiziaria antimafia, quali Nino Di Matteo, Pietro Grasso e Giancarlo Caselli, indirizzate ad una giovane docente di procedura penale che, durante un dibattito all’Università di Palermo, ha riproposto una risalente opposizione di principio al modello del maxiprocesso, considerato per più versi lesivo dell’epistemologia garantistica che deve permeare la giurisdizione penale. La terza concerne la messa all’indice del libro- inchiesta- denuncia di Alessandro Barbano, nell’imminenza della sua presentazione alla Camera dei Deputati con l’intervento di giuristi e dell’ex Guardasigilli Cartabia. Tre esperienze differenti, legate, tuttavia, da un vizio antico che corrode il potere e lo rende antagonista al bisogno di verità che si esprime nel circuito della discussione pubblica. È il vizio dell’intolleranza che permette al medioevo di essere ancora tra noi, dando nuova linfa al sospetto come pratica sociale di esclusione e, nel contempo, strumento di legittimazione dell’autorità. E che avvelena la coscienza civile della vita democratica, impedendole di accompagnare col proprio consenso la configurazione costituzionale del rapporto tra istituzione e individuo; così, giustificando la logica dell’eccezione e dando ragione all’osservazione di chi ritiene che la storia non sia sempre affermazione di libertà, ma del suo contrario. Dare del fiancheggiatore (peggio ancora se solo in termini preterintenzionali) a chi ricorda che il processo penale non svolge funzione ricostruttiva di meri fatti insignificanti per il diritto delle fattispecie criminose; etichettare come un “insulto alla memoria di Falcone e Borsellino” e come ingenerosa “per l’estremo sacrificio della vita costato a tanti valorosi servitori dello Stato” una posizione di critica culturale (per di più circondata da credito e autorevole sostegno scientifico) al congegno del maxiprocesso e, infine, esprimere incredulità per il fatto che, dopo la giornata in memoria delle vittime di mafia, la Camera dei deputati avrebbe ospitato la discussione su un libro “la cui cifra fondamentale è l’attacco alla legislazione antimafia” significa dover prendere atto della curvatura inquisitoria dello spirito del tempo ogni qualvolta esso è chiamato a confrontarsi con questioni di legittimazione e di funzionamento del diritto della criminalità di stampo mafioso. Significa che, presso la nostra cultura pubblica, non si è ancora consumato il divorzio dagli archetipi dell’eresia e del crimen laesae e, dunque, di una concezione autoritaria del diritto - espressione della sola voluntas del potere, anziché, anche, ratio che promana dal piano alto dei diritti costituzionali. Sotto questo aspetto, l’ostracismo, a tratti scomposto e con venature di isterismo, alle posizioni di Barbano assurge a topos di questo paradigma. Un sistema che fosse convinto della ineluttabilità delle misure di prevenzione - sulle quali assai opportunamente è stata ricordata su queste pagine la posizione preoccupata di Giovanni Falcone - non si affiderebbe ad una difesa preconcetta ma ne affronterebbe la discussione aperta alle critiche sapendo di poter contare su “buone ragioni”. Questa generale indisponibilità di principio ad affrontare le ricadute individuali, sociali ed economiche di quell’apparato, ma di ogni altro dispositivo della legislazione antimafia, tradisce una preoccupazione antica del potere e, nel contempo, svilisce la libertà di espressione che - è il caso di rammentarlo - non è “mezzo per stabilizzare il potere, semmai per abbatterlo” (C. Fiore, I reati di opinione). Di questa “democrazia a bassa intensità”, nella quale la cultura costituzionale dei diritti non sembra appartenere alle elites e alle classi dirigenti, forse dovrebbero interrogarsi i giuristi, quelli accademici in particolare. Epperò conforta cogliere - anche grazie alle vicende di cui si è parlato - incoraggianti segnali di un “nuovo inizio”, come quelli emergenti dalla riflessione di Schiavello e Tesauro nell’articolo pubblicato su questo giornale il 24 marzo (Cari Di Matteo e Caselli, criticare i maxi processi non è lesa maestà). *Ordinario diritto penale all’Università Federico II di Napoli “Rivoluzione giustizia? Le toghe ministeriali la vogliono sabotare” di Errico Novi Il Dubbio, 28 marzo 2023 Parla Enrico Costa (Azione): “Tornano le porte girevoli, bloccati i decreti sul Csm: è la rivincita dei magistrati”. “Non è che siamo alla stasi: siamo alla retromarcia. È sconcertante: in molti punti chiave la riforma Cartabia, la svolta che avrebbe dovuto garantire rigore, meritocrazia e coerenza nell’azione della magistratura, viene ripudiata. Addirittura si assiste a clamorosi tentativi di sabotaggio”. Enrico Costa è sempre in primissima linea nel promuovere innovazioni in materia di giustizia. E ha dichiarato fin da subito il proprio sostegno al programma di Carlo Nordio. Ma ora è allibito di fronte a segnali che vanno in direzione diametralmente opposta. In particolare per il tentativo di disinnescare la riforma Csm di Cartabia, per esempio sullo stop alle porte girevoli fra toga e politica. La linea del centrodestra è “non strappiamo coi magistrati, abbiamo altre emergenze”. Ma qui, oltre allo stop sulla separazione delle carriere, si procede all’affossamento delle conquiste già realizzate: dalle porte girevoli alle valutazioni di professionalità, incluso il voto degli avvocati nei Consigli giudiziari. Il nodo è la burocrazia ministeriale, la magistratura che presidia le stanze dei bottoni governative. Certi emendamenti vengono suggeriti da lì, è chiaro. È in atto un processo di revisione e sabotaggio della riforma Cartabia, attuato scientificamente e con assoluta disinvoltura da quei magistrati che, insediati nei ministeri, verrebbero direttamente danneggiati dalle nuove norme. Siamo a questo. Si riferisce all’emendamento per ora sventato che avrebbe vanificato il divieto di porte girevoli fra politica e magistratura? Sventato sì ma pronto a essere riproposto nel primo provvedimento utile. Con la scusa del Pnrr, si cerca di ripristinare, per i magistrati distaccati ai vertici dei ministeri, la possibilità, preclusa dalla riforma Cartabia, di rientrare immediatamente e con funzioni direttive in magistratura. Con la scusa del Pnrr? Sì, si è cercato di inserire quella norma in un decreto Pnrr, e di collegare il ritorno in toga per le magistrature ex ministeriali alle esigenze del Piano nazionale. Ma la cosa incredibile è che il Piano nazionale fa anche da alibi rispetto alla mancata definizione dei decreti con cui si dovrebbe attuare la riforma del Csm targata Cartabia. Ti dicono che per scrivere quei testi hanno bisogno di altri 6 mesi, perché ora sono troppo impegnati col Pnrr. In realtà ci metteranno un anno. Da una parte disinnescano lo stop alle porte girevoli, dall’altra tengono in freezer le altre innovazioni dell’ordinamento giudiziario, sempre per asserite superiori necessità. Resta inattuato il voto degli avvocati nei Consigli giudiziari, esteso, dalla riforma Cartabia, alle valutazioni di professionalità dei magistrati, in modo da spezzare l’incantesimo del 99,6 per cento di valutazioni positive. Poi c’era il fascicolo personale per verificare gli esiti degli atti promossi da ciascun magistrato. Tutto fermo. C’è il Pnrr, che è anche la scusa passare subito da incarichi politici alle funzioni di vertice in magistratura: una giostra da capogiro. Viene quasi da ridere. Siamo al liberi tutti provocato da una maggioranza col freno a mano tirato sulla giustizia? Chiariamo: in gran parte sono forme di sabotaggio e di distorsione consumate alle spalle della maggioranza e dello stesso ministro Nordio. Né si può parlare di trame ordite da una qualche centrale politica della magistratura: in tutte queste operazioni, l’Anm non è coinvolta. Ma la sostanza non cambia: pare vogliano disinnescare pure la norma che indica in 10 anni il tempo massimo che un magistrato può trascorrere fuori ruolo. Sulle porte girevoli ho presentato un’interrogazione. Vediamo. Ma temo che a scrivere la replica saranno sempre le toghe del ministero. Crede che i parlamentari di Fratelli d’Italia e Lega presentatori degli emendamenti sulle porte girevoli fossero pienamente consapevoli di cosa avrebbe comportato la modifica da loro stessi avanzata? Mi chiedo anzi se la politica si renda conto, in generale, di cosa sta accadendo. Ma insomma, gli avvocati voteranno mai sulle promozioni dei giudici? Non ci sarà alcun decreto legislativo che attui la riforma del Csm, dove quella norma è inserita sotto forma di delega. È desolante che Nordio tolleri il rinvio di un anno di un pacchetto di norme attuative che sarebbe perfettamente in linea con la sua visone di ministro. In teoria la politica dovrebbe imporre alle strutture ministeriali di realizzare il programma E invece siamo al sabotaggio conclamato delle riforme già approvate. Se neppure Nordio riesce a cambiare le cose... È un quadro davvero triste. Lei è trai relatori di un dibattito alla Camera sul diritto all’oblio: anche quest’altro versante della riforma Cartabia è disatteso? Si tratta di una norma entrata nella riforma penale di Cartabia grazie a un mio emendamento: prevede, per chi è assolto in un processo, di ottenere che, nelle ricerche su google, il proprio nome non venga più associato a quella vicenda giudiziaria. In questo caso il decreto attuativo è stato scritto da Cartabia, per fortuna, ma appunto la norma statuisce che le cancellerie, su richiesta della persona assolta, debbano apporre in calce alla sentenza la formula “costituisce titolo per ottenere la deindicizzazione dai motori di ricerca”. Più di un avvocato mi segnala che, alla richiesta, i cancellieri cascano dalle nuvole. Servirebbe una circolare del ministero o anche del Csm. Ma evidentemente questa non è una priorità. Doveva essere la nuova fase per la magistratura, il riscatto dopo le cosiddette degenerazioni... Non c’ alcuna fase nuova. La magistratura si adegua e indirizza tutto. Non credo che la politica se ne renda conto. Parliamo di un potere che gode di una capacità di controllo superiore. E che resta più forte degli altri. “Il Governo è prono alle Procure”. Gli avvocati proclamano lo sciopero di Angela Stella Il Riformista, 28 marzo 2023 Durissima nota delle Camere Penali, che non risparmiano neppure Nordio. “Le riforme urgenti richieste dalla avvocatura sono ignorate, i diktat della magistratura prontamente eseguiti”: monta il malcontento verso governo e maggioranza tra i penalisti italiani, guidati da Gian Domenico Caiazza, che annunciano tre giorni di sciopero (19, 20, 21 aprile) e una manifestazione nazionale per chiedere il rispetto degli impegni elettorali sulla giustizia. Nella delibera approvata ieri l’Ucpi denuncia il “rallentamento della riforma costituzionale della separazione delle carriere, congelamento delle riforme dell’ordinamento giudiziario sgradite alle toghe. E poi, carcere, carcere, carcere, ogni qual volta la cronaca e la ricerca del consenso ispirano e sollecitano il peggiore populismo penale”. “Senza esito i ripetuti impegni pubblici del Ministro Nordio ad avviare - sin dalla metà di gennaio - un tavolo (Camere Penali, Anm, Accademia) per individuare gli interventi più necessari ed urgenti di modifica dei decreti attuativi Cartabia”. Insomma, chiedono i penalisti: “La preannunciata stagione delle riforme liberali della giustizia è già abortita?”. Tre giorni di astensione (1920-21 aprile) e una manifestazione nazionale a Roma sempre il 21 aprile per il rispetto degli impegni elettorali assunti dalla maggioranza in tema di giustizia al momento non attuati. È quanto ha deliberato ieri la Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane. “La preannunciata stagione delle riforme liberali della giustizia è già abortita?” si chiedono sarcasticamente i penalisti, guidati da Gian Domenico Caiazza. La situazione che descrivono è quella di “riforme processuali urgenti richieste dalla avvocatura” “ignorate”. Mentre “i diktat della magistratura” sono “prontamente eseguiti: rallentamento della riforma costituzionale della separazione delle carriere, congelamento delle riforme dell’ordinamento giudiziario sgradite alle toghe. E poi, carcere, carcere, carcere, ogni qual volta la cronaca e la ricerca del consenso ispirano e sollecitano il peggiore populismo penale”. Il grande malcontento nasce soprattutto dal fatto che “sono rimasti senza esito i ripetuti impegni pubblici del Ministro Nordio ad avviare - sin dalla metà di gennaio - un tavolo (Camere Penali, A.N.M, Accademia) per individuare gli interventi più necessari ed urgenti di modifica dei decreti attuativi Cartabia”. Al contrario, invece, “sono evidentissimi e convergenti i segnali di una politica della giustizia di nuovo prona ai diktat ed ai desiderata della magistratura. Si fermano o si tenta di manomettere le riforme dell’ordinamento giudiziario appena varate e sgradite alla magistratura (porte girevoli, distacchi ministeriali, fascicolo per le valutazioni professionali); si fa abortire sul nascere la riforma costituzionale per la separazione delle carriere in magistratura, pur annunciata in campagna elettorale come il punto centrale della riforma della giustizia italiana (da attuarsi -come tutti ricordiamo ‘nei primi sei mesi’)”. Accade infatti che “proprio il gruppo parlamentare di Fratelli d’Italia sia l’unica forza di maggioranza (essendone la principale) a non aver presentato né la proposta di legge di iniziativa popolare delle Camere penali, facendola propria al pari di Lega e Forza Italia (oltre che di Azione-Italia Viva), né alcuna altra proposta”. Inoltre, si legge sempre nella delibera, “la politica della giustizia in questi primi mesi si è puntualmente connotata, con prontezza e rapidità di azione degna di miglior causa, per la spasmodica sua attenzione alle parole d’ordine del peggiore giustizialismo populista. Carcere, intercettazioni e addirittura codice antimafia contro il grottesco spauracchio dei rave-party; ulteriore aggravamento del regime penitenziario del 41 bis e del regime dell’ostatività; illusorie e propagandistiche moltiplicazioni iperboliche delle pene nei confronti di imprendibili trafficanti di esseri umani protetti e garantiti nelle loro patrie, e nei confronti di scafisti indebitamente spacciati per trafficanti; indiscriminati accanimenti nei confronti di poche decine di detenute madri o in gravidanza, per colpire quella parte di esse balzate agli onori delle cronache social”. Ciò che emerge da questo quadro è soprattutto l’incoerenza tra il dire e il fare da parte del Guardasigilli: “si assiste dunque ad un eclatante quanto paradossale contrasto tra le idee ed i programmi di riforma liberale della giustizia penale che il Ministro Carlo Nordio ha formalmente e solennemente annunciato in Parlamento, e che egli continua a ribadire e rivendicare - con sincera e profonda convinzione - in ogni occasione pubblica e di interlocuzione con l’avvocatura, e la quotidiana realtà di una politica giudiziaria, governativa e parlamentare, ispirata al più vieto populismo giustizialista e pronta, ancora più che nei precedenti governi, a dare ascolto e privilegiata priorità alle esigenze corporative e politiche della magistratura, la cui forza di condizionamento della macchina amministrativa ministeriale, tuttora dominata da magistrati ivi distaccati in spregio al principio della separazione dei poteri, lungi dall’essere finalmente ridimensionata come nei dichiarati propositi della nuova maggioranza politica, appare al contrario ulteriormente rafforzata”. Insomma, tra i penalisti e Nordio pare essersi congelato, al momento, l’idillio iniziale che aveva fatto ben sperare tutti in un giro di boa sui temi della giustizia per lasciarsi alle spalle l’era del populismo giallo verde e quella del compromesso politico della Cartabia. Ex Br in Francia: domani i giudici decidono sull’estradizione di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 28 marzo 2023 Le difese si dicono ottimiste: se Parigi deciderà di respingere il ricorso della procura generale per i dieci ex terroristi italiani rifugiati in Francia, quella pagina di storia verrà chiusa definitivamente. Se domani i giudici parigini decideranno di respingere il ricorso della procura generale, negando l’estradizione per i dieci ex terroristi italiani rifugiati in Francia, quella pagina di storia verrà chiusa definitivamente. Altrimenti la palla tornerà alla Corte d’Appello e, in un eterno ritorno degli anni di piombo, la saga giudiziaria andrà avanti chissà ancora per quanto. Nel corso dell’ultima udienza che si è svolta lo scorso anno l’avvocato generale della Cassazione aveva rigettato il ricorso, evocando il diritto alla vita privata, all’equo processo e alle garanzie della difesa secondo gli articoli 8 e 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La legislazione d’emergenza e le leggi speciali impiegate negli anni 70-80 dalla magistratura italiana per arrestare e condannare centinaia di extraparlamentari e appartenenti ai gruppi armati, sono in tal senso incompatibili con i criteri della Cedu, rilevarono le toghe transalpine. Per questo le difese si dicono ottimiste, convinte che la Cassazione francese archivierà per sempre la vicenda. “I motivi di impugnazione sollevati dalla Procura generale non hanno alcun fondamento, il ricorso deve essere respinto”, sottolinea Irène Terrel, storica avvocata dei rifugiati italiani in Francia (dei dieci sette sono suoi clienti) che nel corso degli anni hanno beneficiato della “dottrina Mitterrand” ottenendo un asilo politico de facto dallo Stato francese. La dottrina Mitterrand, che si applicava a chi avesse rinunciato alla lotta armata, è però stata sepolta con l’arresto-rapimento dell’ex Br Ucc Paolo Persichettti nel 2002 (accusato a torto di avere rapporti con le nuove Brigate rosse), mentre i successivi governi francesi non hanno più fatto ricorso a quel principio (vedi l’affaire Cesare Battisti). Ma il suo fondamento giuridico è rimasto in piedi, come dimostrano le sentenze successive della magistratura emesse nonostante le forti pressioni politiche dell’Italia sull’Eliseo. Sul caso era intervenuto lo stesso presidente Macron che lo scorso anno aveva espresso anche un suo personale giudizio a favore dell’estradizione: “Quelle persone meritano di essere giudicate nel loro paese”. Ma si era ben guardato nel violare l’indipendenza dei giudici dell’alta Corte. Tra gli “esiliati” coinvolto il più noto è l’ex fondatore di Lotta Continua Giorgio Pietrostefani, oggi ottantenne e gravemente malato, condannato a 22 anni per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi il 13 marzo 1979. Oltre a Pietrstefani ci sono gli ex Br Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella, Sergio Tornaghi, Maurizio Di Marzio, Enzo Calvitti; l’ex militante di Autonomia Operaia Raffaele Ventura; l’ex militante dei Proletari armati Luigi Bergamin e l’ex membro dei ‘Nuclei armati contropotere territoriale’, Narciso Manenti. “Devono scontare la pena in Italia, ce li riconsegnino” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 28 marzo 2023 Il senatore Alberto Balboni (FdI), avvocato e presidente della Commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama: “Concordo con il ministro della Giustizia francese, Eric Dupond-Moretti. Gli ex militanti di estrema sinistra italiani, per i quali la Corte di Cassazione d’oltralpe si esprimerà in merito alla loro estradizione in Italia, sono dei terroristi”. Senatore Balboni, la Suprema Corte francese potrebbe autorizzare l’estradizione dei terroristi rifugiatisi in Francia negli anni scorsi. Potrebbe essere fatta, dunque, giustizia? Io penso che la vera vergogna sia rappresentata dal fatto che dopo tanti anni i terroristi di cui stiamo parlando siano ancora in Francia. Un paese rispettoso delle leggi e della democrazia, proprio come la Francia, non avrebbe dovuto permettere una situazione del genere. Fu Mitterand a imporre un certo orientamento, perdurato talmente tanti anni per cui inevitabilmente questi terroristi si sono rifatti una vita Oltralpe. Ma questo non può essere l’argomento per impedire l’estradizione. I terroristi si sono rifatti una vita contro i principi democratici per cui la responsabilità penale è sempre personale e non possono esserci ideologie, malintesi o forme di difesa dei propri ideali tali da giustificare chi ha ucciso delle persone. Il guardasigilli francese si è espresso chiaramente nei confronti degli ex militanti di estrema sinistra… Il ministro Eric Dupond-Moretti ha fatto bene a chiamare terroristi i soggetti sui quali si esprimerà la Corte di Cassazione. È stato chiarissimo. La lotta armata la Francia l’ha combattuta come ha potuto e quando ha potuto. Non capisco a questo punto perché proprio la lotta armata in Italia possa essere ritenuta legittima dalla Francia. Se si ammette un principio, sbagliatissimo, per cui se tu commetti un reato, perché hai degli ideali, quel reato è giustificabile, siamo fuori dallo Stato di diritto. Anche in Francia c’è un principio della separazione dei poteri. Il potere esecutivo non ha ovviamente la possibilità di decidere se concedere l’estradizione o meno. Tuttavia, non possiamo neppure assistere a questo gioco delle parti, secondo il quale il ministro della Giustizia dice che abbiamo ragione e poi i magistrati si uniformano ad una dottrina, sviluppata per anni dalle massime istituzioni francesi, e decidono in un altro modo. Spero che i giudici francesi, nella loro autonomia, comprendano che non ci può essere nessuna ideologia tale da giustificare chi ha ammazzato delle persone. Stiamo parlando di assassini e terroristi. Cosa ancora più grave è il fatto che sono state uccise delle persone per affermare una aberrante ideologia. E questa è una aggravante. Hanno influito anche certi metodi politici del passato rispetto al giustificazionismo affermatosi in Francia? Certo. La Francia con la “dottrina Mitterand” si è posta fuori dallo Stato di diritto e dal rispetto dei principi democratici. Inoltre, consentendo a questi terroristi di rifarsi una vita, ha contravvenuto all’elementare dovere che ha ogni Stato di perseguire chi commette gravissimi reati. Stiamo parlando di persone ammazzate. Siamo o non siamo in Europa? Se siamo in Europa, non ci possono essere zone d’ombra per le quali si arriva all’impunità. Certe persone professavano in modo abnorme degli ideali di sinistra. Ma non può essere questa la coperta sotto la quale nascondere le efferatezze che hanno commesso. Lo Stato italiano aveva e ha tutto il diritto di rendere giustizia alle vittime dei reati. Queste ultime, a differenza dei terroristi, purtroppo, non hanno potuto rifarsi una vita. I terroristi paradossalmente sono stati premiati da uno Stato che accetta i principi di diritto ai quali si ispirano pure l’Italia e tutta l’Unione europea. Le vittime dei reati sono invece al cimitero. Io mi auguro, come cittadino italiano, prima di tutto, che la magistratura francese non continui a osservare la “dottrina Mitterand”. Sarebbe paradossale se, nella vicenda che stiamo commentando, la Francia volesse venire a darci lezioni di democrazia. La sentenza della Corte di Cassazione francese potrebbe chiudere un capitolo o mantenere ancora una ferita aperta per l’Italia? Se i giudici dovessero rifiutare l’estradizione, la ferita rimarrà aperta. Non ci sono dubbi su questo. Ne soffrirebbe di sicuro l’immagine della Francia non quella dell’Italia. Il nostro paese ha dovuto subire nel passato un atteggiamento particolare della Francia. Più questo atteggiamento perdura più si consuma una sorta di affronto non allo Stato italiano, ma ai sentimenti di giustizia degli italiani. Una cosa che è molto più grave, a mio avviso. Spero quindi che sia fatta giustizia. Il Brasile si è mosso, seppur in ritardo, nel caso di Cesare Battisti. Non vedo perché non debba farlo la Francia, uno Stato di diritto che non ha nulla da invidiare al Brasile. “L’esecuzione tardiva della pena, dopo 40 anni dai fatti, è fuori luogo” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 28 marzo 2023 La Corte di Cassazione francese si appresta a decidere sull’estradizione di dieci ex militanti di estrema sinistra italiani, in gran parte ex delle Brigate rosse, rifugiati in Francia dopo gli “anni di piombo”. L’avvocato Davide Steccanella, penalista del Foro di Milano, conosce bene quel periodo storico che ha riguardato l’Italia: è il difensore di Cesare Battisti (ma anche di Renato Vallanzasca, tra gli altri) e ha dedicato diversi saggi alla “lotta armata”. Avvocato Steccanella, c’è grande attesa per la sentenza della Corte di Cassazione francese prevista per oggi. Dopo oltre quarant’anni da certi fatti di sangue ha ancora senso giudicare le persone? Su questo tema si è già pronunciata la Chambre de l’Instruction francese in primo grado, affermando che non intende concedere l’estradizione per delle ragioni che mi sembrano anche ben esplicitate. Non vedo come la Cassazione francese possa modificare questa decisione, motivata, tra l’altro, in maniera ineccepibile. Sono stati già fatti i processi e accertate ampiamente le responsabilità. Non si tratta, dunque, neanche se sia giusto giudicare dopo più di quarant’anni. Mi soffermerei invece su un altro punto. Quale? Porrei all’attenzione il tema se è giusto eseguire, dopo più di quarant’anni, una pena per fatti che risalgono a un periodo storico molto preciso, che ha interessato l’Italia e tutto il mondo. Ritengo che non abbia molto senso il principio della pena, nel nostro ordinamento, che possa corrispondere ai requisiti appena richiamati. Stiamo parlando di soggetti che hanno scelto di vivere in un altro paese, la Francia, che si sono ricostruiti una vita e che non hanno più creato nessun tipo di problema alla collettività locale. Parliamo di persone con cittadinanza francese a tutti gli effetti. C’è il rischio però che la giustizia italiana venga congelata per non dire mortificata? Non capisco davvero che significato possa avere oggi prendere delle persone anziane, dopo tantissimi anni, per fargli scontare pene legate a dei fatti riguardanti un preciso periodo della nostra storia. Perché, non nascondiamolo, questa ormai è la realtà. Ritengo quindi che la decisione di non concedere l’estradizione sia assolutamente giusta e credo che la Cassazione francese non potrà che confermarla. Non capirei il significato di una punizione così differita nel tempo. Ma questo discorso lo faccio anche per le vittime, perché tutto sommato la giustizia è stata fatta a suo tempo, accertando le responsabilità. Non c’è un caso di mancata giustizia. Si tratta di una esecuzione di pena, che, forse, è già stata in qualche modo eseguita. Parliamo di persone che hanno dovuto ricostruirsi una vita all’estero, lasciare il loro Paese, gli affetti. Per quello che hanno commesso hanno già pagato. Molti di loro sono stati pure in carcere. Mi riferisco a Pietrostefani, ma non solo a lui. Stiamo parlando di fatti connessi a un periodo storico che sarebbe giusto inserirli solo in un preciso periodo storico e non più nella cronaca giudiziaria. La Suprema Corte d’oltralpe, in un senso o nell’altro, potrebbe riaprire anche il libro della storia d’Italia? Spero che la Francia non conceda l’estradizione. Anche in casi recenti in Italia l’esecuzione tardiva, a distanza di quarant’anni dai fatti, è fuori luogo. Non la comprendo. La giustizia penale ha un senso se è efficace e, nei limiti del possibile, anche rapida. Intervenire quarant’anni dopo mi domando a cosa possa servire. Sembra quasi una vendetta tardiva. Lo Stato italiano ha fatto tutto quello che doveva fare e ha fatto benissimo ad attivarsi fino all’ultimo. Nel momento in cui una autorità giudiziaria straniera si è espressa in un certo modo, francamente lo accetterei e fine del discorso. Sono state appurate delle verità giudiziarie. Ma badiamo bene non tutte. Ci sono delle stragi che hanno insanguinato l’Italia ancora senza autori, avvenute nello stesso periodo storico. Forse, sarebbe più utile fare chiarezza su queste stragi a distanza di diversi decenni. Secondo lei, in ogni caso, la decisione della Corte di Cassazione francese creerà distinti schieramenti e inevitabili polemiche qui in Italia? Di sicuro. Viviamo ancora in un Paese bloccato da una continua emergenza e non si riesce a considerare quanto accaduto in passato un periodo della nostra storia. Ci saranno le solite polemiche con l’accusa alla Francia che non stima l’autorità giudiziaria italiana. Tutte cose, a mio avviso, inconferenti. Ci saranno i soliti schieramenti, che non saranno interessati al dolore delle vittime ma porranno al centro delle loro argomentazioni le ragioni ideologiche. Si assisterà alla solita trafila che siamo abituati a sentire da tanto tempo. Forse, le nuove generazioni, che non hanno vissuto quegli anni, saranno in grado di valutare la nostra storia come merita di essere valutata. La ferita comunque è ancora aperta e ragionare in termini davvero storici è difficile. FdI vuole introdurre il reato di istigazione all’anoressia. È l’undicesima proposta sul tema in 15 anni di Giovanni Rodriquez Il Foglio, 28 marzo 2023 Presentato un disegno di legge contro i disturbi alimentari. È l’ultimo tentativo di un fenomeno che va avanti da tempo e sembra rivolto più all’attenzione mediatica che a una reale necessità. Il ministro Nordio, che voleva “ridurre il numero dei reati”, cosa ne pensa? Fratelli d’Italia ha presentato un disegno di legge, a prima firma Alberto Balboni, con il quale si punta, attraverso modifiche all’articolo 580-bis del codice penale, a introdurre il nuovo reato di istigazione all’anoressia. Se a questo punto siete stati colti da una strana sensazione di déjà vu non allarmatevi, non c’è nulla di strano. Si tratta infatti dell’undicesima proposta di legge “fotocopia” presentata in maniera trasversale sullo stesso tema da quasi tutti i partiti nell’arco degli ultimi 15 anni. Tutto prese il via il 28 novembre del 2008 con la proposta di legge presentata dall’ex ministra della Salute Beatrice Lorenzin, ora esponente del Pd ma allora deputata del Pdl. Sempre attraverso una modifica dell’articolo 580-bis, si tentava di far diventare reato l’istigazione all’anoressia o alla bulimia tramite il web. La pena prevista era la reclusione di un anno, che raddoppiava a due anni se la persona colpita aveva meno di quattordici anni o era priva della capacità di intendere e di volere. Due anni dopo, il 29 luglio del 2010, Maria Rizzotti (Pdl) presentò una nuova proposta che ricalcava quanto già previsto nel testo presentato da Lorenzin. Sempre nello stesso anno vennero poi depositate, rispettivamente, le proposte di Antonio Palagiano dell’Italia dei Valori il 6 settembre, che oltre alla reclusione prevedeva anche sanzioni economiche che potevano variare da un minimo di 10 mila a un massimo di 100 mila euro a seconda dell’età della persona oggetto di istigazione all’anoressia; e quella di Maria Antonietta Farina Coscioni (Pd) il 26 ottobre 2010 (ma in questo caso purtroppo il sito del Senato non riporta il contenuto del testo, che immaginiamo però simile a quelli fino a quel momento presentati”. L’elenco prosegue poi con Michela Marzano (Pd) che il 21 gennaio 2014 depositava una proposta con la quale, nuovamente, si prevedeva la reclusione da uno a due anni e sanzioni economiche da un minimo di 10 mila a un massimo di 100 mila euro. Successivamente è stato il turno di Mario Borghese di Scelta Civica che il 25 maggio 2017 proponeva con un disegno di legge a sua prima firma l’introduzione di una pena con reclusione da uno a due anni per chi istiga all’anoressia. Il 28 marzo 2018 Maria Rizzotti (FI) decideva di provarci nuovamente: questa volta però, oltre alla reclusione, si introduceva anche una sanzione pecuniaria che andava da un minimo di 10 mila a un massimo di 100 mila euro. E ancora, il 2 marzo del 2020 Mario Borghese (Misto-Maie) depositava un testo per introdurre la reclusione da uno a due anni per questo nuovo reato. Il 28 ottobre 2021, Arianna Lazzarini (Lega), deposita una nuova proposta, ma senza cambiare di una virgola il contenuto rispetto a tutti gli altri testi presentati in precedenza: anche in questo caso si andava dalla reclusione da uno a due anni, fino alle multe da 10 mila e 50 mila euro. E arriviamo così alla XIX legislatura. Prima ancora della proposta di legge di FdI è la Lega, sempre con Arianna Lazzarini, a ripresentare un nuovo disegno di legge su questo tema il 13 ottobre del 2022. Questo l’elenco completo di 15 anni di proposte, utili unicamente ad alzare un po’ di attenzione mediatica sul tema ma tutte inesorabilmente conclusesi con un nulla di fatto. Oltre a questa valutazione storica, vale la pena soffermarsi a valutare la reale necessità di introdurre una nuova fattispecie di reato. Spesso l’anoressia porta a sintomi depressivi che culminano con pensieri suicidiari. Già oggi la pena in caso di istigazione o aiuto al suicidio prevede una pena da cinque a dodici anni; se il suicidio non avviene è, invece, prevista la reclusione da uno a cinque anni. Nel caso in cui l’anoressia non comporti la morte per suicidio ma lesioni, anche in questo caso il codice penale già prevede che il colpevole possa essere denunciato per il rispettivo reato di lesione. C’è infine da ricordare come, appena insediato, il ministro della Giustizia Carlo Nordio diceva di voler “velocizzare il corso della giustizia, depenalizzare e ridurre il numero dei reati”. Insomma, l’esatto contrario di quello che la maggioranza sta portando avanti in Parlamento. Chissà come commenterebbe oggi Nordio la proposta del suo partito. Basilicata. L’Osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria? Da due anni non viene convocato sassilive.it, 28 marzo 2023 Lettera aperta del Consigliere regionale Rosa al Presidente della Regione Bardi per sollecitare un incontro. Sono due anni che l’Osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria, previsto dal Dpcm 1 aprile 2008, nonché dall’accordo Stato-Regioni del 20 novembre 2008, in Basilicata non viene convocato. Ho scritto al Presidente della Regione per sollecitare un incontro. L’Osservatorio è la sede interistituzionale, di cui fanno parte rappresentanti della Regione, della Amministrazione penitenziaria e della Giustizia minorile e delle Aziende Sanitarie Locali per la verifica dell’efficacia e dell’efficianza degli interventi effettuati dalle Aziende Sanitarie Locali, che si occupa della tutela della salute dei detenuti e che coordina su tutto il territorio regionale questi interventi. Alla medicina penitenziaria è affidato il compito della prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione di persone che si già si trovano in uno stato di privazione della libertà. Raccogliendo le preoccupazioni degli Agenti della Polizia penitenziaria, ho sollecitato una rapida convocazione dell’Osservatorio. Non è solo questione formale. L’erogazione di assistenza e cure per la salute dei detenuti tutela concretamente la dignità dei detenuti e garantisce l’umanità della pena. Non possiamo permettere che, in Basilicata, non venga garantito un trattamento dignitoso a tutti i cittadini. Messina. Tragedia al carcere di Gazzi, giovane detenuto suicida dopo l’interrogatorio di garanzia messinatoday.it, 28 marzo 2023 Era entrato in prigione da pochi giorni. Doveva rispondere insieme ad altri due di aggressione e di sottrazione di un telefonino ai danni di una donna a Torre Faro. Non avrà mai più modo di difendersi. Aymen Dahech, 24 anni, tunisino, ha scritto da solo la sua pena togliendosi la vita al carcere di Gazzi dopo l’interrogatorio di garanzia davanti al gip Simona Finocchiaro. La tragedia è avvenuta pochi giorni dopo la misura cautelare del 20 febbraio scorso, a carico anche di altri due cittadini di nazionalità tunisina. Oltre Aymen Dahech, il 18enne Zoubaler Jlidi e una donna di trent’anni, Awatef Ben Amara, amica della donna che ha denunciato l’aggressione. “Il trauma della carcerazione, mette a dura prova il sistema emotivo della persona che la subisce, soprattutto se si trova ad affrontare questa situazione per la prima volta e se è anche un soggetto fragile che non si è reso conto neanche del motivo per il quale si trova in carcere”, spiega l’avvocato Mimma Di Santo che lo ha difeso nelle prime fasi e che ora assiste la sorella della vittima insieme all’avvocato Roberta Mauro. Un fenomeno in crescita quello dei suicidi in carcere, dove spesso ci finiscono soprattutto quelli che si sono macchiati di reati minori oppure chi non ha ancora affrontato il processo e si trova ristretto per via della ormai abusata carcerazione preventiva. Oggi ci si chiede per l’ennesima volta se in alcuni casi non sia meglio fare ricorso alle misure alternative al carcere anche per contrastare anche altri gravi problemi che attanagliano i penitenziari, dalla mancata assistenza dei soggetti fragili al sovraffollamento che contribuisce a rendere insopportabile la vita nelle quattro mura da condividere con altri detenuti. Aymen Dahech sarà solo un numero in più nei bollettini delle varie associazioni che hanno individuato il 2022 come l’anno record dei suicidi in cella con 85 persone che hanno deciso di farla finita. Mai così tanti. Anche il 2023 non sembra portare buone notizie su questo drammatico tema: già cinque le vittime in Italia nel primo mese e mezzo. Poco importa in tutto questo il motivo per il quale Aymen era recluso. Fra due giorni il Tribunale del Riesame dovrà decidere sulla scarcerazione degli altri due difesi dagli avvocati Alfonso Polto e Carmelo Picciotto. Per Aymen non ci sarà più nessuna chance. È stata aperta una indagine per chiarire quanto accaduto e la dinamica. “Sara? meglio per tutti - dice ora l’avvocato Di Santo - se riuscissimo a restituire alla società persone non distrutte o incattivite dall’esperienza carceraria così come sarebbe importante evitare che nelle vicende giudiziarie si scrivesse la parola fine in sentenze con i protagonisti già morti”. Udine. Ex sezione femminile del carcere verrà utilizzata per la formazione e il lavoro dei detenuti telefriuli.it, 28 marzo 2023 Visita ieri mattina del sottosegretario di Stato alla Giustizia, Andrea Ostellari, che ha definito la casa circondariale un buon penitenziario. Entro un anno saranno chiusi alcuni cantieri. “Quello di Udine è un buon carcere, con molte potenzialità. Come tante strutture ha bisogno di interventi di miglioramento, che sono in corso d’opera - ha dichiarato il sottosegretario di Stato alla Giustizia, sen. Andrea Ostellari, a margine della visita di oggi in via Spalato - Penso alla nuova sezione per i semiliberi, che sarà conclusa entro un anno, e alla ex sezione femminile, che verrà utilizzata per la formazione e il lavoro dei detenuti. Attività, queste ultime, che vogliamo incentivare il più possibile negli Istituti di tutto il Paese. Il motivo è semplice: chi trascorre la detenzione lavorando, nel 98% dei casi quando esce smette di delinquere. E questo fa bene tanto al singolo condannato, che sperimenta un efficace percorso di rieducazione, quanto all’intera comunità, che se ne avvantaggia in termini di sicurezza - ha spiegato Ostellari - La stagione degli indulti e degli svuota-carceri è finita. Anche perché, nella gran parte dei casi, chi è stato liberato prima del previsto, è rientrato poco dopo. Meglio pene certe, eseguite fino in fondo, secondo quanto previsto dalla nostra Costituzione: cioè con il fine della rieducazione - ha chiarito prima di concludere - Non ci nascondiamo: anche ad Udine ci sono delle criticità a livello di personale. Il Governo è già intervenuto nell’ambito della legge di bilancio con l’assunzione straordinaria di 1.000 unità di Polizia Penitenziaria. A queste ne seguiranno altre, sia di agenti, sia di educatori e psicologi. La Giustizia non può essere considerata una voce di costo: ogni euro speso è in realtà un euro investito per il futuro del Paese”. Parma. Contratti non rinnovati, i medici penitenziari pronti allo sciopero La Repubblica, 28 marzo 2023 I medici degli istituti penitenziari di Parma sono pronti allo sciopero dopo tre mesi di “vacatio contrattuale” e la mancata volontà dell’Ausl ducale di dare seguito ad un accordo per sbloccare la situazione. Il sindacato Smi ha quindi indetto lo stato di mobilitazione dei professionisti che operano in carcere. “Il mancato accordo- affermano il segretario regionale Michele Tamburini e quello provinciale di Parma Paul Nji Mujih- renderà impossibile, in prospettiva, garantire il normale svolgimento di tutte le attività di sostegno agli Istituti di Pena di Parma dal primo aprile prossimo oltre che garantire la copertura oraria”. Tutto questo, proseguono i sindacalisti, “è intollerabile e rischia di gettare ulteriore disagio sui medici e per riflesso sull’intero servizio, favorendo la fuga dei professionisti, già adesso in numero ridotto rispetto alla pianta organica stabile”. Lo Smi chiede pertanto di attivare le procedure “di raffreddamento e conciliazione previste dalla normativa”, ma trascorsi i termini previsti dalla legge, “metterà in atto ogni legittima forma di tutela e di protesta fino ad individuare e comunicare le date e le modalità di eventuali scioperi”. “Alla stazione successiva”, sognando una giustizia capace di abbracciare gli ultimi di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 28 marzo 2023 Il viaggio dell’avvocato Raffaele Caruso tra i capolavori di Fabrizio De André. Fabrizio de André non credeva nella legge né in chi la applica: “Al vostro posto non ci so stare”, gridava ai giudici, dipingendoli come nani meschini e vendicativi o immaginandoli sodomizzati da un gorilla. Eppure nella sua opera si ritrova un senso profondo e coerente di giustizia. Intesa, però, non come la dea algida e cieca raffigurata dalle statue, ma come una forza istintiva, quasi ancestrale, “che attinge a pieno alla categoria dell’umano: la capacità di guardare alla realtà con il cuore degli ultimi, abbracciando sia le ragioni di chi soffre e subisce che quelle di chi sbaglia”. Di questo parla “Alla stazione successiva. La giustizia ascoltando de André” (San Paolo, 359 pagine, 19 euro) di Raffaele Caruso, avvocato penalista genovese, legale del Comitato dei parenti delle vittime della strage del ponte Morandi (che è riuscito, per la prima volta in Italia, a far ammettere tra le parti civili del processo). L’autore traccia un percorso esegetico inesplorato delle poesie più celebri di Faber, accompagnandolo con spunti autobiografici personali e professionali, alla ricerca appassionata di una giustizia utopica, la giustizia “della stazione successiva” - la citazione, ovviamente, è da Bocca di rosa - capace di togliersi la benda e deporre bilancia e spada “per volgere gli occhi sul dolore e abbracciare la realtà nella sua complessità”. Il viaggio inizia dal Pescatore, favola in musica entrata nell’immaginario collettivo. Il testo, nota Caruso, ci insegna che per de André “il punto di partenza è sempre il reale”: l’uomo che arriva sulla spiaggia ha ucciso e da allora non ha (più) un nome, è soltanto un assassino, condizione totalizzante come quella degli imputati, che “perdono la loro identità per assumere quella del loro delitto”. Ma l’assassino, incarnazione del male, ha gli occhi di un bambino, simbolo dell’innocenza. E come i bambini ha paura mentre fugge dalla vendetta, che arriverà ineludibile alla fine dell’avventura. Così il vecchio pescatore - pur sapendo chi ha davanti - non ha dubbi e lo accoglie con un gesto “dal valore simbolico infinito”: versa il vino e spezza il pane, come Gesù all’Ultima cena. Anche in Geordie il protagonista è indubbiamente colpevole: ha rubato i cervi dal parco del re, lo sanno tutti, compresa la sua amata. Che nonostante ciò fa sellare il pony e corre a Londra a implorare pietà, senza cercare scorciatoie, “fragile nelle argomentazioni ma invincibile nella dignità”. E finisce per far lacrimare il cuore di un popolo intero, attonito di fronte all’insensatezza di quella legge che non può e non deve cambiare, per quanto incapace di adattarsi alle esigenze del cuore dell’uomo. Proprio la figura della fidanzata di Geordie è il varco con cui l’autore riesce a far entrare i lettori nel senso più intimo, e più nobile, del mestiere dell’avvocato penalista (lo stesso, peraltro, a cui de André era destinato per tradizione di famiglia): domandare ascolto e comprensione a chi detiene un potere. L’atto di chiedere, scrive Caruso, “ha una dignità non solo quando si è intimamente convinti di aver ragione, ma anche quando si ha il dubbio - che a volte diviene certezza - di avere torto. È di fronte all’ingiustizia, ovviamente, che il ruolo dell’avvocato ha il suo principale significato. Ma anche chi sbaglia ha la necessità di non essere da solo di fronte al potere, desidera la certezza che tutto sia fatto nel modo corretto, che sia esplorato ogni dettaglio utile della sua storia, necessita della sicurezza che qualcuno griderà per lui invocando giustizia, ma - più probabilmente - implorando pietà”. Per questo, spiega, “mi fanno sorridere le domande di chi chiede come si faccia a difendere chi si sa colpevole: la difesa del colpevole è sacra, significa esplorare ogni minimo anfratto delle vicende umane, e invocare l’umano che l’amministrazione della giustizia richiede per essere giusta al di là della giustizia stessa”. Nei capolavori di de André l’avvocato trova gli spunti per raccontarsi e raccontare l’umanità incontrata in carriera. Marinella, prostituta scivolata nel fiume, diventa Ruth, una ragazza olandese vittima di violenza sessuale mentre era in vacanza in Liguria. Accompagnato dal Testamento di Tito, poi, l’autore riflette da cattolico osservante sulle contraddizioni della fede e sul rapporto tra legge e morale. Mentre la storia del medico che voleva “guarire i ciliegi” (Un medico, Antologia di Spoon River) e finisce a truffare i pazienti è il modo per ricordarsi di “non tradire il bambino per l’uomo”, di conservare quell’idealismo che anima gli esordi nelle professioni e spesso svanisce con gli anni, spento dalla routine e dal cinismo. E non può mancare la storia del Giudice di Edgar Lee Masters, che Faber ha riadattato trasformandola in un affresco formidabile della piccolezza del potere: il nano dileggiato che “compie un gesto sacrilego, si fa dio, e da lì esercita il potere consumando la sua vendetta”. Un brano che Caruso ammette di avere l’abitudine di far partire a tutto volume, cantando a squarciagola, quando un processo gli va storto, cercando di sfogare la rabbia. Nelle conclusioni, come summa del messaggio del libro, si cita l’episodio di Gesù che perdona l’adultera nel Vangelo, rifiutandosi di scagliare la prima pietra: “Una crepa nella logica della giustizia, che costituisce un’anomalia cui dobbiamo continuare a tendere, in direzione ostinata e contraria”. Guerra, repressione delle proteste e patriarcato. Nel mondo si continuano a violare i diritti umani di Riccardo Noury* Il Domani, 28 marzo 2023 Il 2022 è stato, ovviamente, l’anno del ritorno della guerra in Europa. L’aggressione russa all’Ucraina ha prodotto una crisi umanitaria spaventosa ed è stata segnata da crimini di guerra a ripetizione. Ma proprio la guerra contro l’Ucraina ha rivelato impietosamente i doppi standard che gli stati della comunità internazionale applicano quando sono in gioco i diritti umani. Per quanto riguarda l’Italia, l’analisi di Amnesty International riguarda due legislature e altrettanti governi, protagonisti di un costante deterioramento del rispetto dei diritti umani. Il filo conduttore è quello delle occasioni perdute. Se le 156 schede-paese del Rapporto 2022-2023 di Amnesty International potessero essere riassunte da un titolo, questo potrebbe essere “Guerra, protesta e patriarcato”. Il 2022 è stato, ovviamente, l’anno del ritorno della guerra in Europa. L’aggressione russa all’Ucraina ha prodotto una crisi umanitaria spaventosa ed è stata segnata da crimini di guerra a ripetizione, sui quali la procura della Corte penale internazionale ha doverosamente aperto un’indagine: attacchi contro obiettivi civili, uso di armi vietate dal diritto internazionale, stupri, esecuzioni extragiudiziali, trasferimenti forzati di popolazione e altro ancora. Ma proprio la guerra contro l’Ucraina ha rivelato impietosamente i doppi standard che gli stati della comunità internazionale applicano quando sono in gioco i diritti umani. La risposta nei confronti del crimine di aggressione di Mosca è stata rapida e determinata. La Cina, invece, si è fatta beffe delle denunce di crimini contro l’umanità commessi nei confronti degli uiguri e di altre minoranze musulmane. La situazione dei diritti umani è drammaticamente peggiorata in Egitto e Arabia Saudita e il mondo ha taciuto, così come ha taciuto su quanto accade in Israele con i palestinesi. Il conflitto del Tigray, in Etiopia, non ha conosciuto la minima attenzione. In Myanmar, l’esercito golpista ha proseguito a stroncare ogni forma di dissenso e a compiere crimini contro le minoranze etniche. La guerra contro l’Ucraina ha dimostrato che un’altra accoglienza è possibile: ma solo per chi viene da nord. I percorsi legali e sicuri per chi viene da sud e da est continuano a essere preclusi: si muore in mare e sulle rotte terrestri, tra mancati soccorsi, respingimenti e violenze lungo i confini. Proteste pacifiche e repressione - Il 2022 è stato un altro anno di enormi proteste pacifiche. Amnesty International ne ha registrate in almeno 87 stati. Sono state adottate nuove norme per limitare le proteste in 29 stati ed è stata usata forza illegale nei confronti di proteste pacifiche in almeno 85. Manifestanti pacifici sono stati arrestati in 79 stati. In 33 sono stati uccisi manifestanti, in 35 sono state usate armi letali, in 31 sono stati impiegati i militari in servizio di ordine pubblico e in almeno 67 sono state usate armi cosiddette meno letali, che facilmente possono diventare letali: proiettili di gomma, gas lacrimogeni, granate, cannoni ad acqua e altro ancora. La militarizzazione delle piazze e l’approccio securitario nei confronti di chi manifesta l’abbiamo visto in due luoghi distanti tra loro: il Perù e l’Iran. Nel primo caso, la repressione si è intrisa di razzismo, abbattendosi soprattutto sulle proteste dei nativi. Nel secondo, ha mostrato ancora una volta i tratti misogini di un gruppo al potere che, come in Afghanistan, vive molti secoli indietro. Lo scorso anno è proseguito l’attacco globale ai diritti delle donne. Non solo nelle strade e nelle piazze, ma anche nella perdurante discriminazione di genere e negli attacchi ai diritti sessuali e riproduttivi. Questa patriarcale brama di controllare i corpi delle donne l’abbiamo osservata negli Usa, dove la Corte suprema ha annullato mezzo secolo di garanzie federali sull’aborto, e nella progressiva e inesorabile limitazione dell’accesso ai servizi d’interruzione di gravidanza in Ungheria, Polonia e altrove. Anche in Italia non siamo messi bene. L’Italia - Per quanto riguarda il nostro paese, l’analisi di Amnesty international riguarda due legislature e altrettanti governi, protagonisti di un costante deterioramento del rispetto dei diritti umani. Il filo conduttore è quello delle occasioni perdute: la riforma della cittadinanza, il contrasto alla discriminazione, l’istituzione di un’autorità nazionale per la tutela dei diritti umani, l’introduzione del principio del consenso nella normativa in materia di stupro, la fine del memorandum d’intesa con la Libia e i crimini di cui le nostre istituzioni si sono rese complici, la cessazione della criminalizzazione nei confronti delle ong di ricerca e soccorso in mare e delle politiche che rendono arduo, spesso impossibile, trovare riparo in Italia dalla guerra (Ucraina esclusa) e dalla persecuzione e, infine, una gestione dell’ordine pubblico coerente con gli standard internazionali sull’uso della forza. Sono richieste che i movimenti per i diritti umani in Italia portano avanti da tempo. Ci vogliono anni per avanzare nel campo dei diritti umani, molto meno tempo per arretrare. Come nel caso del reato di tortura: 28 anni per introdurlo nel codice penale, forse 28 minuti in una commissione parlamentare per proporne l’abrogazione. *Portavoce di Amnesty International Italia Diritti umani negati nel mondo sull’orlo del baratro di Giovanna Branca Il Manifesto, 28 marzo 2023 Amnesty International. Il rapporto 2022-2023. L’aggressione dell’Ucraina, i doppi standard dell’Occidente, violenza di genere. Se il rapporto 2022-2023 di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nel mondo avesse un titolo, osserva il portavoce Riccardo Noury, sarebbe “Guerra, protesta, patriarcato”. La guerra, naturalmente, è quella tornata sul suolo europeo con l’aggressione dell’Ucraina - “abbiamo fatto oltre 17 rapporti sulla situazione in Ucraina, cercando di occuparci di tutte le violazioni dei diritti umani: dalle esecuzioni extragiudiziali agli attacchi gratuiti e deliberati alle infrastrutture civili e l’uso di armi proibite”, dice il presidente di Amnesty Italia Emanuele Russo - che espone anche quello che l’organizzazione definisce “il vergognoso doppio standard” di cui ha dato prova l’Occidente. La compattezza dimostrata contro l’invasione russa manca nei confronti di “altri contesti non meno pericolosi e cruenti”, afferma Russo. “Penso in particolare a ciò che accade in Egitto, in Israele, Arabia saudita, o in teatri di guerra dimenticati come lo Yemen o l’Etiopia”. Ed è il doppio standard anche nei confronti dei rifugiati: “Abbiamo accolto giustamente quelli ucraini ma senza fare lo stesso con quelli che lasciamo morire nel Mediterraneo”, dice la direttrice generale di Amnesty Italia Ileana Bello. Un particolare focus del rapporto 2022-2023 è sulle proteste della società civile, sotto attacco in buona parte dei 156 paesi presi in esame. “La protesta pacifica - afferma Noury - è uno degli strumenti più importanti per il cambiamento, basta guardare a quello che sta succedendo in Israele. Per questo i governi la temono e cercano di limitarla”. Come dimostrano i numeri presentati dal rapporto: sono almeno 85 (il 54% del totale) gli stati che fanno un uso illegale della forza contro manifestanti pacifici. E in almeno 33 stati (21%) ci sono state uccisioni illegali di manifestanti. Sono poi 67 i paesi, sottolinea Noury, dove contro chi protesta si fa uso di armi meno letali - proiettili di gomma, idranti ecc. - una definizione fuorviante “perché ci vuole poco affinché diventino letali”. Per questo Amnesty chiede un Trattato per un commercio libero dalla tortura che “vieti la produzione e il commercio di equipaggiamenti per le forze di sicurezza intrinsecamente atti a commettere violazioni dei diritti umani”. Ma, aggiunge il portavoce, non è solo con la violenza che si reprime il dissenso: “Una costante del rapporto è la narrazione stigmatizzante di chi protesta, per produrre inimicizia nella popolazione”. E pervasiva è anche la negazione della repressione, come di recente abbiamo potuto osservare in Perù “dove l’operato della polizia è intriso di razzismo e classismo”, o in Iran dove si è arrivato a sostenere che le vittime della repressione delle proteste scoppiate per l’omicidio di Mahsa Amini “fossero state morse da cani con la rabbia, o cadute per le scale - una negazione dell’evidenza di cui in Italia sappiamo qualcosa” commenta Noury facendo riferimento all’omicidio di Stefano Cucchi (la condanna in Cassazione dei due carabinieri colpevoli della sua morte è citata dal rapporto fra le “buone notizie” per i diritti umani del 2022). La protesta in Iran è uno degli eventi in cui emerge il terzo “protagonista” del rapporto, il patriarcato, la violenza di genere e contro la comunità Lgbtqia+ che si manifesta diffusamente dall’Afghanistan - “una società mutilata” dove “donne, ragazze e bambine sono state cancellate dallo spazio pubblico” osserva Ilaria Masinara - agli Stati uniti dove la Corte suprema ha cancellato il diritto federale all’aborto. O in America latina, dove contro le migranti venezuelane c’è una “discriminazione intersezionale”, per il loro genere e la loro provenienza. La tutela dei diritti della comunità Lgbtqia+ e del diritto delle donne ad abortire (in un paese dove in alcune regioni il 100% dei medici ginecologi è obiettore) sono fra quelle che Bello e Noury definiscono le “occasioni mancate” dell’Italia nel 2022: una legge per la cittadinanza dei figli di stranieri cresciuti qui, la nascita di un’autorità per la tutela dei diritti umani (che fra tutti i paesi europei manca solo da noi e a Malta), una norma contro la discriminazione come il naufragato ddl Zan. E ancora la scelta di rinnovare il memorandum d’intesa con la Libia contro i migranti, e l’inazione contro il cambiamento climatico - uno dei temi più ricorrenti del rapporto in un mondo che si avvicina sempre più al “punto di non ritorno”. Migranti. Salvini contro le Ong: “Ostacolano i soccorsi. Italia sotto attacco” di Adriana Pollice Il Manifesto, 28 marzo 2023 Matteo Salvini prosegue la sua guerra contro le Ong. Dalla Guardia Costiera domenica era arrivata una nota molto polemica: “Le continue chiamate dei mezzi aerei Ong hanno sovraccaricato i sistemi di comunicazione del Centro nazionale di coordinamento dei soccorsi, sovrapponendosi e duplicando le segnalazioni dei già presenti assetti aerei dello Stato. Allo stesso modo, l’episodio citato dalla Ong Ocean Viking e riferito ai presunti spari della guardia costiera libica nella loro area Sar, non veniva riportato al Paese di bandiera, come previsto dalle norme, bensì al Centro di coordinamento italiano, finendo col sovraccaricare il Centro”. L’audio della comunicazione: “Stanno sparando”, “grazie per l’informazione - la replica -, abbiamo ricevuto la sua mail”. Salvini ieri ha rincarato la dose: “È l’Italia sotto attacco, non le Ong. Se complicano il lavoro dei nostri marinai il problema si pone. L’immigrazione non può essere regolata da organismi privati finanziati da paesi stranieri”. E ancora: “C’è un attacco della malavita in corso. L’Europa sta imponendo sacrifici agli italiani almeno sul controllo delle frontiere dovrebbe darci una mano”. Stessa linea per FdI con il capogruppo alla Camera Foti: “Le Ong ostacolano i salvataggi. Questa situazione va frenata”. Dal primo gennaio a ieri mattina sono stati 26.927 i migranti sbarcati sulle nostre coste, il quadruplo dei 6.543 approdati l’anno scorso; i minori non accompagnati 2.641. La replica di Calenda: “Le Ong non regolano un bel nulla. L’immigrazione è ‘regolata’ dall’instabilità politica, economica e climatica. Le Ong salvano le persone e portano meno del 10% dei migranti. Salvini ha fatto chiudere la missione Sofia (e non era privata). L’intera gestione di Salvini ministro dell’Interno con Conte premier è stata un fallimento. Meno espulsioni di Alfano, smantellamento degli Sprar, navi ferme nei porti con migranti a bordo per fare show”. E il vicepresidente 5S della Camera Costa: “Si possono fare le investigazioni sugli scafisti anche quando si sono portati sulla terraferma i migranti”. Mediterranea saving humans ieri ha scritto al presidente Mattarella e alla premier Meloni: “Dopo la strage di Cutro più di 100 persone hanno perso la vita in nuovi naufragi. Quello che dobbiamo fare è mettere al centro una corale azione immediata di istituzioni e società civile. Basta guerra alle Ong. Produciamo un’azione sinergica che possa indurre l’Ue a mettere in campo una missione coordinata di soccorso”. Infine: “Togliere mezzi disponibili per i soccorsi equivale a condannare a morte centinaia di persone. Delegare alla sedicente ‘guardia costiera libica’ il controllo della zona Sar più grande del Mediterraneo non metterà al sicuro chi tenta di fuggire da quell’inferno. Pensare che la Tunisia, con la crisi che sta affrontando e l’incitamento razzista di Saied contro i subsahariani, possa ‘salvare’ qualcuno non è plausibile”. Per effetto del decreto Ong del ministro Piantedosi, la nave Louise Michel (finanziata da Banksy) ha ricevuto il fermo per 20 giorni per aver fatto più salvataggi, invece di dirigersi a Trapani, con un carico eccessivo a bordo: “Prenderemo tutte le misure per combattere la detenzione. L’obiettivo del decreto è il blocco delle navi di soccorso mettendo in conto la morte delle persone. Sabato in 180 sono sbarcati a Lampedusa dopo 4 soccorsi: l’equipaggio aveva risposto alle chiamate di Frontex”. Nel decreto si riconosce che un adulto e un bambino in stato di incoscienza “necessitavano di cure immediate per sindrome da annegamento”. L’UE: “Siamo in contatto con le autorità italiane sulla Louise Michel”. E sui colpi di avvertimento alla Ocean Viking: “Chiesti chiarimenti ai libici anche per vedere se si tratti di una nave finanziata dall’Ue”. Il giurista Fulvio Vassallo Paleologo: “Fino al 2017 le Ong erano inserite nel dispositivo di soccorso della Guardia costiera. A giugno arrivò Minniti con l’istituzione di una zona Sar libica fittizia. Quindi Salvini. Oggi i corpi dello Stato operano per fare fuori le Ong che hanno fatto troppe denunce per mancato coordinamento dei soccorsi”. A Lampedusa si prova a svuotare l’hotspot. Ieri nel centro erano in 1.611, una cinquantina tra zero e 5 anni senza scarpe, con vestiti troppo leggeri. Nel poliambulatorio in stato di choc una 17enne tunisina: venerdì in zona Sar maltese è stata 4 ore in acqua vedendo scomparire tra le onde i due fratelli di 7 e 27 anni. Domenica notte a Roccella Ionica sono approdati in 650 su un peschereccio partito dalla Libia. La nave di Emergency, invece, è in viaggio verso Ortona con 161 persone salvate in tre operazioni in meno di 10 ore. Europa, operazione Tunisi di Marco Bresolin La Stampa, 28 marzo 2023 “La Tunisia non sarà lasciata sola”. Ma per ottenere il sostegno dell’Unione europea utile a evitare il collasso finanziario “ci sono delle condizioni da rispettare”. In termini di riforme economiche, ma anche e soprattutto democratiche. È questo il messaggio che il commissario europeo Paolo Gentiloni ha portato ieri a Tunisi al presidente Kais Saied, nel tentativo di tendere una mano al Paese nordafricano che in questo momento sta affrontando una grave crisi e non riesce più a controllare le partenze dei migranti diretti verso l’Italia. L’incontro con il controverso capo di Stato è rimasto in bilico fino all’ultimo: prima annunciato ufficialmente, poi sparito “per ragioni di agenda”, si è infine tenuto nel pomeriggio. Gentiloni e Saied si sono visti per circa un’ora, durante la quale l’ex premier ha confermato la disponibilità dell’Ue a concedere un altro piano di assistenza macrofinanziaria. Sarebbe il quarto dopo i tre siglati negli ultimi dieci anni (per un valore totale di 1,4 miliardi di prestiti, ancora da rimborsare) che si aggiungono ai circa 2 miliardi di sovvenzioni a fondo perduto che l’Ue ha erogato dal 2011 a oggi. “Siamo determinati nel sostenere il popolo tunisino nell’attuale contesto economico, che è estremamente difficile - ha assicurato Gentiloni -. Vogliamo continuare ad aiutare la Tunisia per creare una vera crescita economica, nuovi posti di lavoro e migliori prospettive per i tunisini, in particolare per le donne e i giovani”. Prima però è necessario che Tunisi trovi l’accordo con il Fondo monetario internazionale per il prestito da 1,9 miliardi di dollari, ancora bloccato perché il Paese non ha fatto le riforme concordate. Dalla Casa Bianca sono arrivati timidi segnali di apertura, ma la strada da percorrere è ancora lunga. Gentiloni ha spiegato al suo interlocutore che l’Unione europea è pronta a fare da facilitatore con il Fmi, ma bisogna portare termine le riforme. “È essenziale che ciò avvenga nel più breve termine possibile” ha insistito il commissario, spiegando che l’Ue potrà fornire solo aiuti aggiuntivi ma non ha alcuna intenzione di sostituirsi al Fondo monetario. La Commissione europea in questo momento si trova stretta tra due fuochi. Da un lato ci sono le pressioni dell’Italia, che chiede di fare tutto il possibile per sostenere la Tunisia in modo da fermare le partenze dei migranti. “O l’Europa si sveglia - ha attaccato ieri il vicepremier Matteo Salvini - o mi domando che senso abbia di esistere. Sul controllo delle frontiere e sulla protezione dei confini deve darci una mano. C’è un evidente attacco della malavita ed è l’Italia a essere sotto attacco, non le Ong”. Ma dall’altro lato Bruxelles deve fare i conti con i dubbi di molti governi Ue del Nord e del Parlamento europeo, preoccupati “per la deriva autoritaria del presidente Saied e per la sua strumentalizzazione della drammatica situazione socioeconomica al fine di invertire la storica transizione democratica del Paese”, come si legge nella risoluzione approvata dagli eurodeputati dieci giorni fa. La stessa in cui il Parlamento ha chiesto alla Commissione di “sospendere” alcuni programmi specifici di sostegno. Per questo la visita di Gentiloni a Tunisi è stata come camminare sulle uova. Anche perché dall’altro lato ha trovato un partner risentito per le critiche ricevute. Il ministro degli Esteri, Nabil Ammar, ha infatti invitato l’Ue ad “adottare un discorso responsabile e costruttivo, che rifletta la realtà e apprezzi quanto è stato realizzato per una vera democrazia e per uno sviluppo più completo che soddisfi le aspirazioni dei tunisini”. Un modo neanche troppo velato per respingere le accuse di deriva autoritaria. La giornata di Gentiloni è poi proseguita con una serie di incontri a 360 gradi che lo hanno portato, tra gli altri, anche dal ministro dell’Economia Samir Saied, da quella delle Finanze, Sihem Boughdiri Nemsia, dal governatore della Banca centrale Marouane Abassi e dalla premier Najla Bouden. Il commissario ha sottolineato l’importanza del partenariato strategico dell’Ue con la Tunisia, “Paese con il quale condividiamo profondi legami storici e culturali, nonché comuni interessi geopolitici”, ma ha anche messo l’accento sull’importanza di difendere “i valori della democrazia, dell’inclusione e dello Stato di diritto”. Nelle prossime settimane ci sarà un’altra missione della Commissione a Tunisi: Ylva Johansson, responsabile del dossier immigrazione, accompagnerà il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Ancora in forse la presenza del francese Gérald Darmanin. Tunisia. Ue in aiuto a Tunisi se, come Tripoli, diventa gendarme dei migranti di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 28 marzo 2023 Il Paese, appeso alle dure decisioni del Fmi, vive una grave crisi economica e politica dopo il “golpe” del presidente Saied. Tajani agita il “Piano Marshall” e il “rischio islamizzazione”. Alla fine il presidente tunisino Kais Saied è tornato sui suoi passi e ha incontrato il commissario europeo per l’economia Paolo Gentiloni, contrariamente a quanto annunciato in un primo tempo. Lo sgarro, che non avrebbe potuto permettersi in questo momento, era motivato dall’orgoglio di un presidente che incontra solo i suoi pari. Atteggiamento all’insegna dell’autoritarismo che guida il suo operato di presidente della repubblica che ha assunto tutti i poteri e accusa tutti coloro che sembrano credere agli allarmi occidentali sulla situazione fallimentare dell’economia tunisina di essere traditori. Contro il “complotto” sono scatenati anche i social sostenitori del presidente. Kais Saied, detentore della verità assoluta, accusa i corrotti e gli speculatori di essere i responsabili di tutti i mali della Tunisia. Compreso quello dell’immigrazione di profughi provenienti dai paesi della regione subsahariana che utilizzano la Tunisia come passaggio verso l’Europa. “Non vogliamo alimentare la polemica continua e non costruttiva sui molti temi che riguardano la Tunisia, tra cui quello dell’immigrazione clandestina e della situazione economica. Coloro che amano la Tunisia devono evitare le dichiarazioni negative che possono avere gravi ripercussioni sulla situazione turistica ed economica del paese”, ha dichiarato a radio Mosaique Mohamed Trabelsi, capo della diplomazia e dell’informazione del ministero degli esteri. L’irritazione contro le prese di posizioni europee espresse dal ministero degli esteri viene esorcizzata dal presidente che in tempo di Ramadan preferisce affrontare il problema dell’inflazione, tradizionale in questo periodo, che riguarda soprattutto i prezzi dei prodotti alimentari, discutendone con gli imam della moschea di al-Zeituna nella medina. L’allarme europeo sulla situazione economica in Tunisia, che purtroppo si trascina da qualche mese provocando anche la scarsità di beni di prima necessità per la difficoltà nelle importazioni, coincide con l’ondata di emigrazioni in partenza dai porti della Tunisia, dove nei giorni scorsi è avvenuta una delle tragedie cui purtroppo gli ultimi tempi ci hanno abituati. La crisi della Tunisia si è indubbiamente aggravata dopo la sospensione del prestito del Fondo monetario internazionale di 1,9 miliardi di dollari, sulla cui concessione si concentrano ora le pressioni dei paesi europei, in particolare l’Italia e la Francia. Ulteriori prestiti si fanno dipendere da quello più consistente del Fmi che è però condizionato da riforme - soprattutto il risanamento delle imprese pubbliche - da parte del governo tunisino. La crisi della Tunisia non è solo economica ma anche decisamente politica dopo il “golpe” di Saied. Sebbene il parlamento europeo abbia approvato una risoluzione che condanna la violazione dei diritti umani da parte del regime tunisino con molti dissidenti in carcere, i governi europei, soprattutto quello italiano, tentano di ripetere con la Tunisia l’operazione anti-immigranti già fallita con la Libia e con la Turchia. Aiuti economici, fornitura di motovedette e sistemi di controllo, oltre al rimpatrio nei paesi di origine - già accettato da alcuni paesi - favoriscono la linea xenofoba di Saied, ma viene criticata da chi teme che si voglia fare della Tunisia il nuovo gendarme dell’Africa nel mar Mediterraneo. E questo è in effetti il vero obiettivo che si nasconde dietro le preoccupazioni e gli impegni di aiuti economici a Tunisi, etichettati come “piano Mattei” già riconvertito nel più scontato piano Marshall” riproposto a ogni occasione senza che trovi mai una definizione precisa e tantomeno una realizzazione. Alla promozione dei vari “piani” tendono i vari messaggeri inviati a Tunisi. Ieri si è aggiunta una nuova preoccupazione - ripresa dai giornali tunisini - del “pericolo islamizzazione” sollevata dal ministro degli esteri italiano Tajani. “Non possiamo abbandonare la Tunisia - ha detto ancora il ministro - perché se cade questo governo, rischiamo di avere i Fratelli musulmani dentro casa. Non possiamo permetterci una islamizzazione del Mediterraneo. Ecco perché occorre agire subito”. I Fratelli musulmani, rappresentati dal partito En-nahdha, sono già stati al potere in Tunisia e sebbene il presidente Saied abbia contrastato il partito di Rachid Ghannouchi, la sua visione del ruolo della religione è ancora più radicale “lo Stato deve operare per il raggiungimento degli obiettivi dell’Islam e della Sharia”. E forse Tajani non si è accorto che organizzazioni che fanno riferimento ai Fratelli musulmani sono presenti nel Consiglio d’Europa e fanno campagne pubblicitarie finanziate anche dall’Unione europea, come quella bloccata dalla Francia: “La mia libertà è nell’hijab”. Ma si sa che la vera preoccupazione di Tajani e di tutta la destra è quella di salvaguardare l’identità cristiana dell’Europa. Israele. La protesta blocca la riforma della giustizia di Ugo De Giovannangeli Il Riformista, 28 marzo 2023 Il Paese in rivolta contro il governo. Ben Gvir, leader di Potenza ebraica, ha accettato di congelare tutto fino a dopo Pasqua, ma ha ottenuto che si esamini la creazione di una sorta di milizia da lui guidata. Un ricatto. Un Paese intero si è bloccato. È sceso nelle strade, ha riempito le piazze, ha “assediato”, in più di centomila, la Knesset, il parlamento dello Stato ebraico. Alla fine Ben Gvir, capo del partito di ultra destra ‘Potenza ebraica, ha detto di essere disponibile a rinviare la riforma della giustizia fino alla ripresa della Knesset, dopo la Pasqua ebraica, a patto che il governo esamini subito la creazione di una Guardia nazionale sotto la guida dello stesso Ben Gvir. Un Paese lacerato dall’interno, come mai era avvenuto nei suoi 75 anni di storia. È la lunga notte d’Israele. E la posta in gioco non è più il ritiro da parte del governo di una contestatissima riforma della giustizia. In gioco c’è la convivenza interna, ci sono le basi stesse dello stato di diritto di quella che, a ragione, continua a ritenersi l’unica democrazia in Medio Oriente. È la cronaca di uno scontro che va ben al di là della vecchia divisione destra/sinistra. Perché quella che continua ininterrottamente da dodici settimane è una rivolta dal basso che coinvolge tutti i segmenti della società israeliana. Non c’è un settore d’Israele che ieri non sia stato paralizzato dalla protesta. In mattinata, il leader del sindacato dei dipendenti degli aeroporti israeliani Pinchas Idan aveva annunciato l’arresto immediato di tutti i decolli dall’aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv. Si tratta, ha spiegato, di una protesta nei confronti della riforma giudiziaria avviata dal governo Netanyahu e contro il licenziamento del ministro della difesa Yoav Gallant. Bloccato da uno sciopero a sorpresa anche il porto commerciale di Ashdod, nel sud di Israele. In mattinata uno sciopero improvviso è stato proclamato anche negli ospedali. Le università hanno annunciato il blocco ad oltranza delle lezioni in quanto, hanno affermato “non ci può essere vita accademica dove non c’è più democrazia”. Chiusi anche numerosi centri commerciali, ed agitazioni fra i dipendenti del ministero della giustizia. Tra le tante categorie che si sono astenute dal lavoro ci sono anche gli infermieri che hanno deciso di fermarsi: “Chiediamo di fermare la legislazione e avviare un dialogo tra le parti. Lavoriamo tutti insieme per salvare vite umane, indipendentemente dal background di qualsiasi persona, è tempo di agire insieme per la protezione naaltra Anche la catena di fast food, McDonald’s, si è unita allo sciopero generale La catena ha twittato che avrebbe iniziato a chiudere i ristoranti dalle 17 ora locale di lunedì. McDonald’s gestisce 226 ristoranti kosher e non kosher in tutto il paese e ha scelto di aderire alla protesta sindacale, contro il governo, che ha coinvolto oltre 800.000 lavoratori. La Borsa di Tel Aviv resterà chiusa oggi. Lo ha annunciato la Federazione del lavoro Histadrut, il principale sindacato israeliano, spiegando che a partire da oggi la borsa di Tel Aviv sarà completamente chiusa. A dar conto della drammaticità del momento è il capo di stato maggiore delle Idf (le Forze di difesa israeliane) che ha invitato i soldati a continuare a fare il proprio dovere e ad agire con responsabilità di fronte alle aspre divisioni sociali sui piani del governo per rivedere la magistratura. “Quest’ora è diversa da qualsiasi che abbiamo conosciuto prima. Non abbiamo conosciuto giorni simili di minacce esterne che si coalizzano, mentre una tempesta si sta preparando a casa”, ha avvertito il tenente generale Herzi Halevi nelle osservazioni rese pubbliche dall’ufficio stampa militare. Anche le ambasciate israeliane nel mondo, compresa quella in Italia, partecipano allo sciopero generale contro la riforma della giustizia. “Il premier può licenziare il ministro, ma non può licenziare la realtà del popolo di Israele che sta resistendo alla follia della maggioranza”, dice il leader dell’opposizione, Yair Lapid. Il riferimento è alla decisione di Netanyahu di licenziare il ministro della Difesa Yoav Galant, contrario alla riforma della giustizia. La tensione è altissima. L’estrema destra si è data appuntamento in piazza, davanti alla Knesset, in serata per manifestare a sostengo della riforma della Giustizia”. le piazze democratiche. “I gruppi WhatsApp e i social media di destra sono in fermento”, scrive il quotidiano israeliano Haaretz, “con alcuni attivisti che invitano i sostenitori a prendere le armi - “trattori, pistole, coltelli” - e attaccare i manifestanti anti-governo”. “Basta con lo strapotere della Corte Suprema - si legge in uno degli striscioni della destra. - Riforma subito”. E anche: “Il popolo ha deciso, riforma adesso”. Altri espongono cartelli in cui affermano: “Non vogliamo essere cittadini di serie B”. Un sito ortodosso, che sostiene questa manifestazione, ha scritto: “Chi è col Signore, venga a noi. Non ci faremo rubare la Torah e la nostra sacra Terra”. Alla protesta ha aderito il gruppo “La Familia”, gli ultras della squadra di calcio del Betar Gerusalemme, legati all’estrema destra. “Non intendiamo - minaccia La Familia - farci rubare il risultato delle elezioni”. Centinaia sono vestiti di nero e con il volto coperto. Per evitare scontri e incidenti, molti dei partecipanti alla manifestazione anti-governativa hanno lasciato il piazzale. L’ultradestra corre in soccorso del suo leader, il ministro della Sicurezza interna, Itamar Ben Gvir. Il leader di Potenza ebraica, dopo ore di frenetiche trattative con Netanyahu, ha detto di essere disponibile a rinviare la riforma fino alla ripresa della Knesset, dopo la Pasqua ebraica, a patto che il governo esamini subito la creazione di una “Guardia nazionale” sotto la guida dello stesso Ben Gvir. Lo riferiscono i media secondo cui Potenza ebraica ha diffuso una lettera con l’impegno in questo senso firmata dal premier Benjamin Netanyahu al termine dell’incontro con Ben Gvir. “Ho accettato di rimuovere il mio veto - ha scritto - in cambio di questo impegno”. Un impegno che rischia di gettare altra benzina sul fuoco di uno scontro senza precedenti. Perché, per la prima volta nella storia d’Israele, un ministro avrebbe la guida di una forza paramilitare indipendente dal ministero della Difesa e fuori dal controllo dell’esercito. Una milizia armata. A tarda sera, in una Gerusalemme militarizzata, alla Knesset prende la parola Benjamin Netanyahu per rivolgere un discorso alla nazione. Teso in volto, interrotto più volte dalle proteste dell’opposizione, “Bibi” annuncia il congelamento della riforma e si appella al popolo: “Siamo tutti fratelli”, dice. Ma Israele è segnato, diviso, da quella che è la più grande protesta politica della sua storia. La lunga notte della democrazia non è finita. Israele. Record di detenuti senza accuse: 967 palestinesi Il Manifesto, 28 marzo 2023 La detenzione amministrativa prevede il carcere senza accuse ufficiali né processo. Il numero di prigionieri politici palestinesi in detenzione amministrativa è raddoppiato rispetto allo scorso anno: 967, un dato che non si vedeva da venti anni (ovvero dalla Seconda Intifada palestinese). A pubblicare il dato, domenica, sono stati il quotidiano israeliano Haaretz e l’ong palestinese Addameer, impegnata nella tutela e la difesa dei detenuti politici palestinesi nelle carceri israeliane. La detenzione amministrativa è una forma speciale di custodia cautelare, introdotta dalle autorità coloniali britanniche e traslata nell’ordinamento israeliano: prevede il carcere senza accuse ufficiali né processo, sulla base di rapporti confidenziali (a cui i legali dell’accusato non hanno accesso) dell’esercito o dei servizi segreti che identificano una persona come possibile minaccia allo Stato. L’ordine di detenzione amministrativa israeliana dura sei mesi ma è rinnovabile senza limiti di tempo, una aperta violazione del diritto internazionale che lo prevede solo in casi eccezionali. E oggi tocca nuovi record. Messico. Almeno 37 migranti morti nell’incendio in Centro di detenzione al confine con gli Usa La Repubblica, 28 marzo 2023 È di almeno 37 morti il bilancio dell’incendio che ha colpito un centro di detenzione per migranti nella città messicana di Ciudad Juarez, al confine con gli Stati Uniti: lo ha reso noto un comunicato dello Stato di Chihuahua. Secondo le autorità l’incendio si è sviluppato nell’ufficio dell’Istituto Nazionale per le Migrazioni (INM) dopo che gli agenti avevano fermato circa 71 migranti nelle strade della città e li avevano portati nel centro. Le cause dell’incendio e la nazionalità delle vittime non sono state rese note. I testimoni raccontano di aver visto vari vigili del fuoco trasportare fuori dalla struttura i corpi dei migranti che sarebbero per lo più venezuelani. L’incendio è scoppiato poco prima della mezzanotte di lunedì e i testimoni lamentano che soltanto nella prima mattinata di martedì sarebbero intervenuti i vigili del fuoco con decine di ambulanze. Ciudad Juarez, vicino a El Paso (Texas), è una delle città di confine da cui molti migranti privi di documenti cercano di raggiungere gli Stati Uniti per chiedere asilo. Dal 2014, circa 7.661 migranti sono morti o sono scomparsi durante il viaggio verso gli Usa, secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni.