Giustizia. Perché la tortura deve continuare a essere un reato di Corrado Augias La Repubblica, 27 marzo 2023 Dall’Inquisizione alle leggi speciali contro il terrorismo una riflessione sull’errore di cancellare, come proposto dalla destra, una norma di civiltà. Per la quale l’Italia ha dato il suo contributo. La proposta di abolire il reato di tortura, avanzato dalla destra, è di allarmante gravità in sé e per l’ordine mentale e storico dalla quale è scaturita. Il reato di tortura è stato introdotto nel nostro ordinamento nel 2017, prevede (art. 613 bis c.p.): la reclusione da 4 a 10 anni per chiunque, con violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza. La motivazione della proposta è che il timore di commettere un reato potrebbe ostacolare un comportamento energico, a volte necessario, da parte degli inquirenti. La preoccupazione può trovare nella pratica un suo fondamento. Ricordo che qualche anno fa il celebre avvocato Alan Dershowitz - noto liberal - nel suo saggio Terrorismo (Carocci) ammetteva che una “pressione fisica” in casi estremi e sporadici potrebbe essere legalizzata con l’emissione di un “mandato di tortura” da parte del giudice. Questo, per esempio, nel caso di un terrorista che non voglia rivelare dove ha nascosto una bomba che, esplodendo, ucciderebbe molte persone. Si tratterebbe dunque di violare un principio considerato intangibile, in nome di un’urgente e superiore necessità. Se si considera la storia si vede però che nemmeno la tortura è servita a far parlare filosofi, dissidenti, ribelli. Celebre il caso di Tommaso Campanella (1601) che, torturato per 36 ore consecutive, non aprì bocca. Uscendo dalla sala dei tormenti incapace di reggersi sulle gambe, disse a chi lo sorreggeva: «Che si pensavano che io era coglione, che voleva parlare?». Gli aspetti più preoccupanti della proposta sono quelli storici e umanistici. Su quelli puramente giuridici, tra l’altro, non avrei sufficiente competenza. L’abolizione della tortura come strumento istruttorio o d’indagine s’è potuto compiere solo dopo un lungo e lento processo. Tra gli infiniti casi cito i tribunali dell’inquisizione che applicavano la tortura a sospetti casi di stregoneria o d’eresia. Giordano Bruno fu ripetutamente torturato prima del rogo; Galileo venne spinto all’abiura dalla minaccia di “tormenti”. L’Italia però è anche la terra dove il rifiuto della tortura è stato affermato con maggior vigore e lucidità. C’è un celebre precedente storico. Nel 1630 a Milano una donna accusò un certo Guglielmo Piazza d’aver sparso unguenti mortiferi sulle case. Sotto tortura lo sventurato si confessò colpevole, anzi indicò nel barbiere Giangiacomo Mora il suo complice. La casa di Mora venne demolita al suo posto sorse una colonna con iscritta l’esecuzione della pena: «Martoriati prima con rovente tenaglia e tronca la mano destra… alla ruota intrecciati, dopo sei ore scannati, poscia abbrusciati… confiscati gli averi e gettate le ceneri nel fiume». Verri ne prese spunto per condannare supplizi del genere, fu però Manzoni nella sua Storia della colonna infame a condannare “quel gran male” individuandone le cause nella rabbia: «Resa spietata da una lunga paura, e diventata odio e puntiglio contro gli sventurati che cercavan di sfuggirle di mano». Beccaria, tra i massimi esponenti dell’illuminismo italiano arrivò a teorizzare quale dovesse essere l’atteggiamento dello Stato di fronte ai delitti dei suoi cittadini: prevenire e non reprimere. Rendere la sanzione proporzionata al reato e limitata nel tempo. Riabilitare e non punire. Scrisse tra l’altro: «Parmi un assurdo che le leggi che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e che per allontanare i cittadini dall’assassinio ne ordinino uno pubblico». Una delle conquiste della modernità è aver reso lo Stato, geniale astrazione istituzionale, unico a poter esercitare legittimamente la violenza. Ci sono voluti secoli perché il principio si affermasse, quasi altrettanti perché il potere dello Stato e i diritti degli individui trovassero un reciproco temperamento. Ho citato alcuni spaventosi casi del passato ben sapendo che violenze di quel genere sono oggi rare anche se non del tutto scomparse come dimostrano casi singoli (Stefano Cucchi) o collettivi (Genova 2001, caserma di Bolzaneto). L’interesse, l’inquietudine, che la proposta suscita è nel dare dura concretezza all’aggettivo reazionario spesso lanciato come un vago improperio. In senso tecnico linguistico esso indica esattamente: chi è favorevole al ripristino di un assetto sociale e politico storicamente superato. La lunga torsione del processo penale è il più vistoso disallineamento dell’ordinamento dello Stato di Alberto Cisterna* Il Dubbio, 27 marzo 2023 La torsione del processo penale verso obiettivi securitari rappresenta, probabilmente, uno dei più vistosi disallineamenti dello ordinamento dello Stato rispetto ai principi enunciati dalla Costituzione. In verità, tutto il modo con cui si sono concretamente costruite le relazioni tra giudice e pubblico ministero, si sono intrecciati i rapporti tra procure della Repubblica e polizia giudiziaria, si sono alterate le correlazioni tra la pena e la sua espiazione, si sono allineati le interlocuzioni tra stampa e magistratura si colloca ai margini, se non fuori dal perimetro della Carta fondamentale e di tutti gli statuti internazionali di garanzia. Si è costruita una sorta di regime franco, di condizione anomica che nessuna legge riesce davvero a riportare all’ordine, di ginepraio che nessun intervento riesce a dipanare. E’ stata una silente eversione, o almeno un’elusione, che ha lasciato sempre (o quasi) intatta la forma - sia chiaro, quella è sempre stata apparentemente rispettata - ma che ha favorito il proliferare di un sottobosco nelle prassi, nella costruzione delle carriere, nelle interlocuzioni del deep state tra magistratura inquirente ed enti governativi della sicurezza che contraddice qualsivoglia separazione dei poteri e rappresenta, a ogni effetto, la più potente minaccia all’autonomia della politica e alla sua indipendenza dagli altri poteri della Repubblica. Una provocazione? Sicuro, ma necessaria visti i decenni in cui si è sempre recitato il mantra di una cittadella delle toghe assediata dalla politica e minacciata nelle sue guarentigie. Ma o la riflessione collettiva ribalta i piani d’analisi e tenta almeno di percorrere sentieri perigliosi e inesplorati, o altrimenti ci si arrende alla constatazione che la spada di Brenno è sulla bilancia e, quindi, “vae victis”. Guarda caso: una spada e una bilancia, la metafora millenaria della giustizia, scolpita in ogni anfratto giudiziario dell’occidente. Nei giorni scorsi, prima, Giorgio Spangher e, poi, Giovanni Fiandaca hanno da par loro analizzato sulle pagine del Dubbio i contorcimenti del processo e del diritto penale che da circa quaranta anni affliggono la giustizia italiana, in nome di perenni stati d’eccezione, rendendola un Moloch aggressivo e, talvolta, pericoloso. Luciano Violante, in un’intervista di un paio d’anni or sono, ha ricapitolato efficacemente i termini politici e istituzionali di questa condizione accusando il potere giudiziario di essere divenuto un «potere di governo». Una frase che pesa come un macigno e che, quindi, merita ancora oggi alcune ulteriori considerazioni: ogni riflessione sul processo penale, e in generale sugli statuti di irrogazione delle sanzioni (misure di prevenzione e misure interdittive antimafia incluse) non dovrebbe prescindere dalla considerazione che proprio la giurisdizione - e non certo da sola - ha elaborato negli anni una propria Weltanschauung, una propria precisa visione e rappresentazione del mondo, che vive e si nutre di interviste, di libri, di convegni, di relazioni ufficiali, di un’immane pubblicistica, di serie televisive di successo; tutto questo plesso culturale e ideologico - nelle declinazioni ben evidenziate da Spangher e Fiandaca) - vive e si espande in modo del tutto autosufficiente, ossia senza la necessità che la politica abbia saputo far altro che assecondarne la traiettoria e assoggettarvisi; sino a idolatrare i medesimi totem e ad ammiccare ai sommi sacerdoti officianti i riti di quella ideologia. questo sedime ha generato una precisa antropologia criminale, ha agevolato la lettura della stessa storia repubblicana, ha spalancato la strada a una interpretazione delle relazioni politiche, sociali, finanziarie sostanzialmente totalitaria, ossia poco o per nulla incline a tollerare obiezioni o eccezioni e a marchiare il dissenso come una sorta di eresia o di strisciante collaborazionismo con il nemico. Tutto questo è stato ricapitolato dal compianto Filippo Sgubbi in un pamphlet di ineguagliabile nitore: «Il diritto penale totale» (Il Mulino, 2019); un caposaldo esegetico alla cui lettura occorre necessariamente rinviare. una cultura egemone, quindi, esattamente nel senso gramsciano del termine, provvista di una straordinaria capacità espansiva e in grado di aggredire e metabolizzare qualunque declinazione della vita pubblica dall’economia alla scuola, dal lavoro allo sport, dalla sanità all’arte, dalla politica alla agricoltura, indicati tutti come potenziali o reali luoghi del contagio mafioso da sottoporre a controllo; per giungere a stigmatizzare finanche i capisaldi della cultura nazionale con le polemiche durissime che ancora lambiscono la figura di Leonardo Sciascia dopo il profetico articolo sui professionisti dell’antimafia. partita dagli angusti anfratti della mafia e da una lettura regionalistica, se non localistica, di quella drammatica realtà, la decodifica del mondo è divenuta la Stele di Rosetta con cui poter decifrare le oscure trame delle organizzazioni criminali e della politica, interpretare il reticolo dei poteri occulti, rileggere la stessa storia del paese nei suoi paurosi e, spesso, colpevoli vuoti di verità. Non esiste settore della vita della nazione che possa e, quindi, non debba nel ministero sacerdotale che discende dal “controllo di legalità” - sottrarsi al crivello dell’indagine penale; l’inquisitio generalis è prima che un modello d’indagine onnivoro, un paradigma culturale, una vocazione intellettuale che muove e sollecita settori cospicui della giustizia penale e, si badi bene, il più delle volte in assoluta buona fede; ovvero nell’assoluta convinzione che occorra bonificare, se non purificare, la società dai mali che l’affliggono e che, per attendere a questo compito immane, sia necessario «sorvegliare e punire», prendendo a prestito la famosa endiadi di Foucault. né è estranea al consolidarsi - anzi alla stessa originaria, rapida legittimazione di questa impostazione - la mera trasposizione dal versante della denuncia politica a quello giudiziario della “questione morale” additata da Enrico Berlinguer nella celebre intervista rilasciata ad Alfredo Reichlin, sull’Unità, il 7 dicembre 1980; se è vero, come era vero, che i «partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia», la condivisione dell’analisi imponeva una coerente chiamata alle armi della magistratura, già impegnata contro terrorismo e mafia in quegli anni, per dare risposta al grido di dolore della parte migliore del paese. questa cultura interventista è divenuta la precondizione, lo strumento della precomprensione delle prove e degli indizi e del loro peso dimostrativo, la forza trainante che giustifica finanche le opzioni più discutibili e controverse, come quella sull’ergastolo ostativo che ha a proprio fondamento non la realtà concreta del trattamento penitenziario, ma l’affermazione totalitaria di un modello antropologico sottratto a qualunque discussione e imposto come indefettibile; nessuno è davvero in grado di poter affermare che solo il pentimento attesti l’abbandono di un’organizzazione criminale, almeno che questa prova non sia sostituita da un sintagma inespugnabile, dalla presunzione invincibile che non esista la mafia, ma esista la mafiosità come stimmate incancellabili dell’anima. E così, dopo le sanguinose battaglie per abbandonare la visione ottocentesca e del primo novecento della mafia come mero atteggiamento interiore, per sconfiggere la visione antropologica di Giuseppe Pitrè («Usi, costumi, usanze e pregiudizi del popolo siciliano», 1889), il pendolo della storia è tornato indietro e non mancano provvedimenti di irrogazione del regime speciale di 41-bis o di applicazione della sorveglianza speciale o di applicazione di un’interdittiva antimafia in cui non spiri, nell’ideologia e nell’impostazione sociologica che li giustifica, la convinzione, condivisa con Pitrè, che «anche senza conoscere la persona di cui si serve ed a cui si affida, il solo muover degli occhi e delle labbra, mezza parola basta perché egli si faccia intendere, e possa andar sicuro della riparazione dell’offesa o, per lo meno, della rivincita». suggestioni, deduzioni, stereotipi, massime d’esperienza, decodifiche unilaterali sono il sostrato profondo, il collante ideologico delle torsioni che Spangher e Fiandaca hanno, non da ora, sempre denunciato e stigmatizzato, con l’aggiunta che una cultura giudiziaria così sedimentata corre il rischio della sclerosi o dell’ischemia, ossia il pericolo di perdere di vista le attuali e moderne connotazioni dell’avversario e di smarrirne la prossemica criminale; in fondo le celebrazioni, gli anniversari, le commemorazioni si atteggiano quasi sempre a rievocazioni prive di un aggiornamento di quei capoversi interpretativi della realtà che pur sono stati indispensabili prima del 1982 per dare ingresso al reato di associazione mafiosa nel codice penale. Le parole del senatore Scarpinato nel dibattito sulla fiducia, ma anche passaggi non secondari dell’intervento del presidente Meloni sulla mafia, si muovono nell’alveo di stereotipi culturali consolidati, ma non riqualificati; e, quindi, privi di concreti e riscontrabili elementi di verifica che sono indispensabili al fine essenziale di stabilire quale sia l’opzione strategica migliore per rintracciare un nemico scomparso da almeno un decennio dagli orizzonti delle indagini penali. L’ortodossia e il conformismo culturale sono, al momento, la minaccia più grave nel contrasto ai fenomeni criminali organizzati di qualunque spese; la dilatazione del doppio binario (pena/misure di prevenzione) verso fattispecie sideralmente lontane dalla mafia (persino lo stalking), non rappresenta la dimostrazione dell’espansione inevitabile di uno strumentario ritenuto efficiente, quanto la prova della preoccupante incapacità di procedere a elaborazioni alternative, alla costruzione di modelli di investigazione che sappiano davvero leggere il moderno poliformismo della minaccia criminale per poterlo intercettare in modo non velleitario; in fondo la debacle giudiziaria di “Mafia Capitale” dovrebbe pararsi a monito; rapidamente riposta nello scantinato della storia giudiziaria per la sua ingombrante e imbarazzante miscellanea di modelli sociologici inadeguati, presupposizioni sfocate e scoppiettanti campagne mediatiche, si dovrebbe - invece - ergere a riprova dell’insufficienza dei canoni interpretativi applicati e dell’inadeguatezza di approcci meramente e meccanicamente trasposti in un punto di caduta lontano dal loro perimetro di elaborazione. e, giunti a questo punto, la parabola espositiva volge necessariamente al termine, ma si non può chiudere senza evocare gli scenari melmosi e mefitici, i miasmi del potere raccontati da “Il Sistema”; in quelle pagine (e nelle molte, molte altre non scritte e che mai si scriveranno) v’è il riflesso che quell’egemonia ha esercitato sulla costruzione delle carriere in magistratura, v’è la prova del triangolo d’oro tra pubblici ministeri disinvolti/polizia giudiziaria compiacente/giornalisti embedded nel carrozzone giudiziario; v’è la dimostrazione che un approccio al contrasto alla criminalità, concepito in modo geniale e profetico e a costo della vita, si sia trasformato in uno strumento di potere anzi, come diceva Violante, di governo della società, in una clava da far roteare sulle teste più o meno coronate dell’establishment e non solo. *Magistrato Il magistrato “combattente” scardina e danneggia le regole e l’ortodossia del processo penale di Giovanni Fiandaca* Il Dubbio, 27 marzo 2023 In un recente intervento nel settimanale di approfondimento di questo giornale, Giorgio Spangher ha delineato un quadro ricostruttivo delle direttrici di tendenza del sistema-giustizia, con particolare riferimento al processo penale. Anticipo che condivido in larga misura l’analisi svolta dal valoroso processualista, a cominciare dalla pare in cui egli rileva che da una certa fase storica in poi - segnata prima dall’emergenza terroristica e poi dall’escalation della criminalità mafiosa - è emersa la tendenza a concepire il processo penale, più che come meccanismo di accertamento di singoli e circoscritti reati, come strumento di lotta e contrasto a fenomeni criminali di ampia portata: con conseguente rottura di quell’equilibrio tra finalità repressiva e rispetto delle garanzie individuali che ogni procedimento penale dovrebbe, almeno in linea teorica, riuscire a mantenere. Ma vi è di più. La propensione a utilizzare il processo come mezzo di lotta ha, altresì, preso piede nell’ambito delle strategie di contrasto alla corruzione cosiddetta sistemica: come emblematicamente dimostra l’esperienza giudiziaria milanese di Mani Pulite, di cui quest’anno è stato celebrato il trentennale, anche in questo caso l’obiettivo principale preso di mira dai magistrati inquirenti è finito col consistere, più che nell’accertare singoli episodi corruttivi, nel colpire e disarticolare il sistema della corruzione come fenomeno generale. Quale che sia il settore specifico di criminalità collettiva di vota in volta considerato, l’impiego del processo come una sorta di macchina da guerra è destinato a condizionare anche la fase preliminare delle indagini. Pubblici ministeri e polizia giudiziaria sono infatti indotti ad aprire grandi inchieste-contenitore ad amplissimo raggio su ambienti e persone potenzialmente sospettabili di relazioni criminose, ancor prima però di disporre di elementi di conoscenza relativi a possibili ipotesi specifiche di reato: piuttosto, l’indagine funge così da strumento esplorativo per andare alla ricerca di eventuali fatti penalmente rilevanti, con l’effetto di dilatare smisuratamente i tempi dell’accertamento giudiziario e di contestare non di rado reati di problematica e incerta configurabilità, con conseguente spreco di risorse materiali e umane . Prendendo implicitamente le distanze da un simile modello d’intervento, ad esempio il nuovo procuratore di Palermo Maurizio De Lucia ha dichiarato nel suo recente discorso di insediamento: “Indagheremo dove la legge ci impone di farlo e nel rispetto delle regole, ma processeremo dove saremo convinti di arrivare alle condanne. I processi che si devono fare saranno solo quelli che vanno fatti” (cfr. Giornale di Sicilia 16 ottobre 2022). È una apprezzabile dichiarazione d’intenti, peraltro in linea con alcune innovazioni normative della riforma Cartabia che convergono nello scoraggiare le investigazioni esplorative. Certo, l’idea del processo come arma di lotta ha avuto motivazioni storiche che - come anticipato - riconducono alla presenza o recrudescenza nel nostro paese di gravi forme di criminalità sistemica, che il potere giudiziario si è trovato a dover fronteggiare anche per una specie di delega tacita ricevuta da un potere politico incapace di (o poco disposto a) mettere in campo strategie di intervento idonee a incidere in profondità sulle cause genetiche dei fenomeni criminali da contrastare e prevenire. Ma - non soltanto a mio avviso - ha avuto in proposito un peso una componente soggettiva a carattere ideologico o latamente culturale, che ha a che fare con la auto-percezione di ruolo almeno di una parte della nostra magistratura penale e che in qualche misura perdura a tutt’oggi: mi riferisco alla concezione (presente in origine soprattutto tra i magistrati ‘di sinistra’, ma poi estesasi con una certa trasversalità) che ravvisa la principale missione della giurisdizione penale nell’esercizio di un controllo di legalità a tutto campo (sull’attività dei pubblici poteri, prima ancora che sulle condotte dei cittadini comuni), nella difesa delle istituzioni democratiche dalle minacce della grande criminalità, nella promozione del rinnovamento politico e nella moralizzazione collettiva. Questa concezione della giurisdizione, oltre a determinarne una sovra-esposizione politica con conseguenti squilibri nell’ottica della divisione dei poteri istituzionali, e a condizionare - come già detto la gestione del processo penale strettamente inteso, produce in verità effetti pure sul modo di interpretare e applicare le norme del diritto penale sostanziale, che definiscono cioè i presupposti generali della punibilità e gli elementi oggettivi e soggettivi dei vari tipi di reato. Quanto più infatti la giustizia penale assume un’impronta combattente di tipo simil-belligerante, tanto più il magistrato interprete-applicatore delle norme incriminatrici sarà tentato di cavarne il massimo della punibilità, adottando interpretazioni estensive o addirittura analogiche (ancorché in diritto penale formalmente vietate!) che forzano o manipolano il contenuto testuale delle fattispecie legali; con buona pace dei principi di riserva di legge e tipicità, che dovrebbero in linea teorica fungere da presidi garantistici invalicabili. A neutralizzare o indebolire l’efficacia orientativa del principio della tipicità legale delle incriminazioni concorre un fenomeno connesso, che la dottrina di matrice professorale ha denominato processualizzazione delle categorie sostanziali. Che vuol dire? Per rendere più accessibile il significato di questa espressione ostica, cerchiamo di esplicitarlo così: si allude alla mossa giudiziale di spostare sul terreno della prova processuale la soluzione di nodi problematici che attengono, invece, alla previa determinazione dei presupposti della responsabilità sul versante del diritto sostanziale, in conformità appunto al principio di tipicità penale. Per esemplificare, si pensi al problema, ricorrente nei processi di mafia, di definire il partecipe punibile di un’associazione mafiosa. Orbene, il predetto fenomeno della processualizzazione si verifica ogniqualvolta l’organo procedente, piuttosto che partire da una precisa e vincolante definizione generale di che cosa secondo la legge penale debba intendersi per ‘partecipe’, e ricercare poi gli elementi di prova corrispondenti, stabilisce con ampia discrezionalità se un certo soggetto rivesta tale ruolo: decidendo sulla base sia dei riscontri probatori contingentemente disponibili, sia delle esigenze repressive valutate di caso in caso (così, ad esempio, la soglia minima della partecipazione associativa punibile è stata dalla giurisprudenza più volte individuata nella mera sottoposizione al rito di affiliazione, non ritenendosi necessario anche il successivo ed effettivo compimento di concreti atti espressivi del ruolo di associato, come viceversa richiede ai fini della punibilità l’orientamento più garantistico predominante nella dottrina accademica). È forse superfluo esplicitare che un tale stile decisorio contraddice, in maniera vistosa, i principi di un diritto penale di ascendenza illuministico-liberale. In una recente rievocazione, promossa dalla Camera penale di Palermo, del celebre maxiprocesso alla mafia siciliana istruito ormai più di un trentennio fa da Giovanni Falcone e da alcuni suoi colleghi di allora, si è ridiscusso del tormentoso problema di fondo di come rendere compatibile il contrasto giudiziario alle mafie con un modello di giustizia penale liberale e con i principi del giusto processo. Partecipando alla discussione, ho ricordato che lo stesso Falcone - come risulta da svariati suoi scritti ricchi di acume analitico e propositivo, successivamente raccolti nel volume Interventi e proposte (Sansoni, 1994) - aveva ben chiari i non pochi inconvenienti dei maxiprocessi in termini di gigantismo processuale e di conseguente oggettiva difficoltà di accertare in maniera approfondita le colpevolezze individuali dei numerosi soggetti sottoposti a giudizio: e che, rendendosi altresì conto della tendenziale incompatibilità tra i processi di grandi dimensioni e il nuovo rito di stampo accusatorio (beninteso, considerato nella versione originaria) allora ancora in gestazione, egli raccomandava di privilegiare non già la strada dell’illecito di associazione (dispositivo di incriminazione comodo e servizievole anche per la sua idoneità a consentire scorciatoie probatorie), bensì la ricerca dei singoli reati-scopo rientranti nel programma associativo, e di concentrare su di essi la verifica processuale. Un metodo d’indagine, questo, a suo giudizio per un verso più efficace per rendere meno evanescente la prova e, per altro verso, più rispettoso delle istanze di garanzia. Ritengo che questi suggerimenti di Giovanni Falcone meritino di essere, oggi, ripresi e rimeditati. A maggior ragione, considerando che la tendenza giudiziale all’utilizzo della fattispecie associativa è andato sempre più diffondendosi anche in settori criminosi che poco hanno a che fare con la criminalità organizzata, sovrapponendosi spesso in maniera indebita al concorso criminoso in uno o più reati specifici. *Giurista Le garanzie processuali tra logiche autoritarie e istanze efficientiste di Giorgio Spangher* Il Dubbio, 27 marzo 2023 Credo sia difficile delineare - anche solo parzialmente - la direttrice lungo la quale si è venuto evolvendo il sistema della giustizia penale, anche se lo si volesse limitare al processo penale. Ciò non significa che, seppure con i riferiti limiti, qualche riflessione non possa essere sviluppata. È dato acquisito che la bonifica del codice di procedura penale avviata dalla Corte costituzionale si sia in qualche modo arenata con il dispiegarsi del fenomeno terroristico di matrice domestica. In quel tempo è chiaramente emersa la consapevolezza che significativi risultati in termine di accertamento di responsabilità potevano ottenersi non tanto con l’inasprimento delle pene e la creazione di nuove ipotesi criminose (o di aggravamento circostanziato di quelle esistenti) quanto attraverso lo strumento del processo. È la c.d. stagione dell’emergenza, alla quale deve riconoscersi (o attribuirsi) il fatto di essere stata l’incubatrice delle modifiche sostanziali, ma soprattutto processuali, relativamente ai reati di criminalità organizzata. Nascono e si sviluppano in questa stagione - dello stragismo e del terrorismo - le espressioni “lotta”, “contrasto” e “fenomeni criminali”. Inevitabilmente il processo subisce una “torsione” finalistica. Certamente vengono ridefinite le ipotesi delittuose, man mano che i fatti criminali evidenziano significative manifestazioni fattuali, ma è il processo, rimodulato nei suoi sviluppi e nei suoi strumenti, ad assumere rilievo. È inevitabile che la tenuta democratica del Paese, e la stessa tenuta delle istituzioni, siano messe a dura prova da una criminalità così strutturata se anche lo Stato, la magistratura, gli organi investigativi, l’intelligence, operando in sinergia, non affrontano con la legalità (le leggi del Parlamento) le diffuse e radicate questioni criminali che rischiano di minare la stessa sopravvivenza del Paese. È inevitabile che, fermi i confini invalidabili tracciati dalla Corte costituzionale, spetti al Parlamento affrontare l’emergenza con leggi che mettono in tensione princìpi e garanzie. Democrazia e diritti, processo e criminalità. Su questo elemento, in qualche modo fisiologico del rapporto tra criminalità e giustizia penale si è inserito, spesso molto al di là del dato “fisiologico”, un elemento finalistico: l’azione di lotta e di contrasto, tesa non già al solo accertamento, ma per così dire finalizzata a piegare il processo al risultato di argine, non già al reato, ma al fenomeno, in una dimensione che, collegando i due elementi oggettivo e soggettivo, altera la natura e l’essenza del processo penale, strumento di verifica di responsabilità e di esistenza del fatto delittuoso. Certo il processo, nato per verificare fatti isolati, spesso oggetto di semplice accertamento di responsabilità, si deve misurare con la struttura del reato che trascende l’individuo per collocarlo nella dimensione associativa, nonché nell’espansione territoriale dei fatti che supera gli ambiti ristretti delle competenze storicamente ritagliate per una diversa tipologia di reati. Tutto ciò non poteva lasciare indifferente la politica, il parlamento, la legge. Della predisposizione di questo strumentario, votato all’acquisizione di questo arsenale (ancorché non sacro ma egualmente funzionale) si è impadronita la politica, una larga parte della politica, mossa da esigenze securitarie, definite anche sovraniste e populiste, in quanto originate e alimentate dal cortocircuito tra politica (parte della società) e popolo (parte di esso) che lo ha progressivamente esteso e ne fa fatto una prospettazione sempre più ampia. In altri termini, il meccanismo ha progressivamente contagiato larghi settori della fenomenologia criminale, in una dimensione non rispettosa del principio di proporzionalità. Non sono mancate lungo questo percorso che ha attraversato la fine e l’inizio di questo secolo anche delle controspinte, evidenziatesi da interventi sulla Costituzione (art. 111 Cost.), sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte costituzionale, con varietà di effetti che non hanno alterato, tuttavia, il non marginale retrogusto di sapore autoritario della nostra legislazione e della sua interpretazione giurisprudenziale. È facile attribuire a queste situazioni - vere o comunque di non agevole quantificazione - la responsabilità di una progressiva attenuazione delle garanzie processuali dell’imputato, accentuata dallo spostamento del baricentro del processo nella fase investigativa delle indagini preliminari e da un progressivo rafforzamento del ruolo della polizia giudiziaria e del pubblico ministero non adeguatamente bilanciato da un significativo potere di controllo e di garanzia del giudice delle indagini preliminari che troppo spesso asseconda la procura avallandone acriticamente le iniziative. Sarebbe, tuttavia, riduttivo in contesti così complessi, attribuire solo a questo elemento la matrice del progressivo indebolimento dell’impianto garantista, al di là del vulnus di sistema determinato dalle notissime decisioni della Corte costituzionale del 1992, figlie della ricordata stagione. In altri termini, non sono solo le spinte e le propensioni riferite a incidere sul sistema delle garanzie, ma altre visioni della funzione delle regole finiscono per intaccare erodendole quelle forme consolidate di tutela dei diritti non solo individuali, ma che pur sotto questa dimensione incidono su aspetti di garanzia più ampi. Il riferimento è alle istanze sempre più accentuate tese alla semplificazione, all’economicità, alla compressione temporale, alla dimensione sostanzialistica, alla smaterializzazione in una dimensione ispirata ad una logica di funzionalità della macchina giudiziaria. Gli attori della giurisdizione, ispirati da una logica che potremmo definire, a volte, proprietaria della stessa, nella volontà di gestire i percorsi processuali, dettano l’agenda delle riforme mascherate da esigenze di funzionalità degli uffici attraverso azioni organizzative che non sono mai solo tali, essendovi sottese scelte processuali valoriali; governata dalla giurisprudenza c.d. creativa, finiscono per modellare il processo in termini di efficienza, pur nell’affermata esigenza, ritenuta però in qualche modo subvalente, delle garanzie. Invero, non è un elemento inedito al quale sono funzionali istituti come le sanatorie, la mera irregolarità, il raggiungimento dello scopo, gli oneri a carico delle parti private, la natura ordinatoria dei termini, la sanzione di inammissibilità. Sono tutte occasioni per adeguare il rito, come - ecco il riferimento al virus - nel caso dell’emergenza epidemiologica, colta come occasione per adeguare i comportamenti alle mutate situazioni ambientali, per poi trasformare le eccezioni, destinate alla temporaneità, in regole permanenti. Al rispetto formale delle regole, si affianca una interpretazione meno rigorosa, sfocata che tende a fare del giudice il codificatore delle regole attraverso la prassi e i comportamenti formalmente non irrituali spesso delineati attraverso correzioni attuate anche con la softlaw (normativa secondaria). La logica si attua anche attraverso percorsi processuali acognitivi e induzioni a comportamenti che pongono alternative da “soave inquisizione” suggerendo adesioni vantaggiose a fronte di incerti esiti processuali. La logica dell’accertamento investigativo, del resto, non si innesta in una fase a forte connotazione garantista, come era alle origini del modello accusatorio, ma in un percorso ibrido con accentuati recuperi del materiale d’accusa e da marcati interventi del giudicante. C’è sicuramente diversità tra una consapevole - ancorché agevolata - accettazione delle proprie responsabilità, alla quale non è estranea anche una funzione rieducativa, ed una scelta indotta da molteplici fattori condizionanti (economici, sociali), oltre a quelli più strettamente processuali. Inevitabilmente, l’accentuazione dell’autoritarismo favorisce logiche ispirate a deformare il processo dei suoi connotati storici per collocarlo in una dimensione efficientista, spesso ispirata ad altri modelli processuali dalle cui impostazioni siamo lontano per la forte diversità dei contesti storici, politici e strutturali di quelle giurisdizioni. Entro questa tenaglia - da un lato pulsioni autoritarie e dall’altro propensioni efficientiste, anche variamente combinate tra loro - si snatura il senso “classico” e “storico” del processo penale che spesso smarrisce la propria essenza. Per un verso, in relazione alle emergenze criminali (o presunte tali) si accentuano le spinte repressive; dall’altro, per la criminalità a medio-bassa intensità si pregiudica la sua natura sostanziale-qualitativa che le è propria, considerati i valori in gioco, per approdare a una burocratico-quantitativa di impostazione quasi aziendalista che dovrebbe esserle estranea sempre considerati i beni coinvolti. *Emerito di procedura penale all’Università Sapienza di Roma Il declino del processo basato su emergenze (spesso irreali) che hanno attraversato l’Italia di Vincenzo Roppo* Il Dubbio, 27 marzo 2023 Grandi disastri (non solo la pandemia, ma anche terremoti, alluvioni, sciagure aeree, ferroviarie, navali e quant’altro) innescano diffusi sentimenti popolari che precipitano in una precisa reazione: per tutti questi morti non può non esserci un responsabile che ad ogni costo va individuato e punito. “Punire. Una passione contemporanea”, è il titolo del profetico libro di Didier Fassin. È un modo irrazionale di elaborare il lutto, che non di rado le procure assecondano. Giorgio Spangher e Giovanni Fiandaca insegnano che emergenze sociali come mafia e terrorismo sono intrinsecamente nemiche del garantismo. Lo mettono in tensione e spesso in crisi, enfatizzando esigenze di difesa sociale che entrano in oggettivo conflitto con le garanzie individuali. E quando la risposta pubblica non è equilibrata, finiscono per determinarsi torsioni anti-garantiste che distolgono il sistema penale dal suo compito primario di accertare singoli reati e singole responsabilità. Alessandro Barbano denuncia il rischio che la torsione vada anche oltre, piegando lo strumento penale non solo all’obiettivo improprio di “lottare” contro il “fenomeno” criminale, ma addirittura a quello - ancora più improprio - della perequazione sociale. Mi inserisco nel dibattito con qualche c0nsiderazione ulteriore. Il garantismo è sfidato storicamente dalle emergenze mafia e terrorismo, certo. Ma anche la recente emergenza pandemia è foriera di derive anti-garantiste. In un senso diverso, però. Qui le minacce al garantismo non vengono da una legislazione - le misure restrittive anti-Covid - cui possa rimproverarsi un eccessivo sbilanciamento a favore della salute pubblica, con sacrificio intollerabile di libertà, diritti, garanzie individuali: lasciamo queste accuse ai no face mask, ai no vax, ai no green pass, che non meritano di essere seguiti nel loro esasperato estremismo libertario e un po’ anarchico. A me pare che Covid-19 abbia insidiato il garantismo in un modo indiretto, più sottile. Come? Essenzialmente, a mio avviso, scatenando molte procure nella caccia a trovare colpevoli a ogni costo, cui addebitare responsabilità penali in relazione alla pandemia. Ecco allora raffiche di indagini penali sulle “stragi” per coronavirus di anziani ricoverati in rsa o in case di riposo; sulla mancata tempestiva istituzione della “zona rossa” in certi Comuni del bergamasco; su sovraccarichi e “intasamenti” delle strutture di pronto soccorso; sulla elaborazione e l’invio di dati epidemiologici dalle Regioni all’amministrazione sanitaria centrale; e perfino su qualche ordinanza regionale per la didattica a distanza nelle scuole. Tutte situazioni da valutare ed eventualmente sanzionare sul terreno professionale, amministrativo, politico: ma rispetto alle quali al diritto e alla giurisdizione penale non sembrano competere spazi di intervento. Ma tant’è. I grandi disastri (non solo la pandemia, ma anche terremoti, alluvioni, sciagure aeree, ferroviarie, navali e quant’altro) innescano diffusi sentimenti popolari che precipitano in una precisa reazione: per tutti questi morti non può non esserci un responsabile che ad ogni costo va individuato e punito. “Punire. Una passione contemporanea” è iltitolo del profetico libro di Dier Fassin. È un modo irrazionale di elaborare il lutto, che non di rado le procure assecondano e coltivano con un attivismo sopra le righe: vedendo dovunque improbabili “notizie di reato” su cui aprire indagini penali, e così introducendo nelle relazioni e nelle dinamiche sociali la mala pianta del pan-penalismo, che è il terreno più fertile per idee e pratiche anti-garantiste. Mafia, terrorismo o pandemia sono emergenze vere, che possono giustificare l’intervento penale (ma, s’intende, secondo modalità che siano ben bilanciato col giusto rispetto delle garanzie individuali), e però non mai un intervento penale omnibus, indiscriminato, spinto in territori da cui la logica dei delitti e delle pene dovrebbe tenersi fuori. Epperò ci sono anche emergenze inventate, o artificiosamente pompate agli occhi dei cittadini da un ceto politico ansioso di catturare consenso popolare a buon mercato: ad esse si lega il fenomeno che siamo abituati a chiamare populismo penale. Alle inquietudini, ansie, paure diffuse in un corpo sociale esposto ai contraccolpi dei nuovi problematici scenari del mondo (la globalizzazione, la società liquida, la destrutturazione del lavoro…) il ceto politico offre falsi bersagli, e falsi rimedi: in particolare il rimedio del pan-penalismo, inutile perché del tutto scentrato rispetto alla sostanza reale dei problemi, e dannoso perché deprime il livello di garantismo del sistema. Abbiamo conosciuto la brutta bestia del populismo penale in forme di particolare virulenza soprattutto nella fase recente della nostra storia (chissà se avviata al tramonto…), dove si è presentato nella sua doppia variante: la variante securitaria, incarnata in provvedimenti simbolo del salvinismo come i decreti sicurezza e la riforma della difesa (sempre!) legittima; e quella moraleggiante, rappresentata da bandiere del grillismo come la legge spazza-corrotti e il blocco della prescrizione penale. Entrambe basate sulla predicazione di emergenze fasulle, costruite ideologicamente e smentite dai dati di realtà, e comunque non aggredibili in modo efficace con lo strumento penale. Il populismo penale è incubatore di giustizialismo anti-garantista, che si manifesta nella moltiplicazione delle figure di reato e nella loro crescente evanescenza contraria al principio di tassatività e tipicità, nella previsione di pene sempre più dure, nel declino della presunzione di innocenza. E ad ogni populismo penale corrisponde il suo proprio giustizialismo: sicché abbiamo conosciuto un giustizialismo securitario e un giustizialismo moralistico. Ma io vedo un terzo tipo di giustizialismo a matrice populista, che faute de mieux chiamo “piacione”: un giustizialismo senza bava alla bocca, non incattivito né troppo minaccioso ma composto e compunto, un giustizialismo che riflette buoni sentimenti e si mette al servizio del politicamente corretto. Sicché non sorprende che esso accomuni trasversalmente l’intero arco politico. Chi non è d’accordo che fenomeni deplorevoli come l’omicidio stradale o la violenza di genere o le discriminazioni in odio alle minoranze di ogni tipo meritino una risposta energica ed efficace? E che il massimo dell’energia e dell’efficacia si identifichi in dure risposte penali è un bias in cui cascano (o fanno finta di cascare) un po’ tutte le forze politiche. Che, anche qui, s’ingannano e/o ingannano i governati: perché la via giusta per affrontare quei problemi sembra quella che passa per strumenti di controllo e intervento diversi dai meccanismi penali, e soprattutto per azioni di tipo culturale-educativo. Questo quadro ci parla di un sistema penale italiano che complessivamente patisce un deficit di garantismo. Ed è un quadro che chiama in causa sia il legislatore (dunque la politica) sia la magistratura, nonché i rapporti reciproci. Di qui una domanda, che formulo in termini grossolani: questo stato di cose è colpa della politica? O della magistratura? O di entrambe, e allora in che quote? Di certo la magistratura non è senza peccato. Indagini penali avventurose (come molte di quelle avviate in tempi di pandemia). Pulsioni narcisiste di pubblici ministeri che enfatizzano il momento dell’inchiesta e dell’accusa e minimizzano quello del giudizio formato in dibattimento. Impieghi talora disinvolti della custodia cautelare (fra le tante accuse rivolte a Mani pulite, molte delle quali infondate e pretestuose, questa è forse quella più condivisibile). Qualche incursione non appropriata nel campo della funzione legislativa e delle sottostanti scelte politiche. Partecipazione più o meno compiaciuta ai numeri del circo mediatico-giudiziario. E qualche volta interpretazioni poco sorvegliate della norma penale. Tutti segni con cui il giudiziario manifesta una postura poco coerente ai principi del garantismo. Ma ce n’è anche per la politica, e forse perfino di più. Nella misura in cui la legislazione anti-mafia e anti-terrorismo manifesti qualche vena anti-garantista, il peccato è primariamente del legislatore che la produce, nella sua funzione politica e secondo le sue scelte politiche. E ha radice tutta politica la pratica del populismo penale, che non è altro se non la delega (spesso in bianco, o quasi) rilasciata dalla politica alla magistratura, cui si affida il compito improprio di rispondere a domande sociali che spetterebbe alla politica affrontare, ma con cui la politica - oggi debole ed esangue non vuole o non sa misurarsi. Ne consegue l’abnorme sovra-esposizione della magistratura: da essa il corpo sociale (cui la politica racconta che la sanzione penale è lo strumento migliore per il governo della società) attende e pretende che traduca le incriminazioni in condanne, e che per questa via possa generarsi una convivenza sociale più sicura e ordinata. Il che naturalmente non avviene: e questo è letto come “insuccesso” della magistratura, che ne appanna l’immagine agli occhi del pubblico. Alla iper-responsabilizzazione della magistratura fa da contraltare la de-responsabilizzazione della politica incarnata nel legislatore: che una volta scritti i reati nelle pagine del codice, può presentarsi come quello che ha fatto il suo e altro non deve se non aspettare che la magistratura li estragga dalle pagine del codice facendoli funzionare come strumento effettivo di difesa sociale. Che se poi non funzionano come sperato, la colpa non sarà del legislatore che ha creato lo strumento, ma dei magistrati che non l’hanno voluto o saputo ben manovrare. È chiaro che una dinamica del genere distorce il giusto schema di ripartizione dei poteri, dei ruoli e delle responsabilità fra i protagonisti della funzione legislativa e della funzione giudiziaria. E così ferisce quel fondamentale postulato del garantismo che è l’osservanza della rule of law: il rispetto dei giusti confini e dei giusti equilibri fra i diversi poteri pubblici, senza di che non c’è Stato di diritto. E allora che dire quando si sente la politica accusare di anti-garantismo la magistratura? Il minimo è ricordare l’ammonimento evangelico che esorta a fare i conti con la trave ficcata nel proprio occhio, prima di strepitare contro la pagliuzza nell’occhio del fratello (Matteo, 7, 1-5). *Giurista L’insidiosa tentazione delle toghe: raggiungere una presunta giustizia sociale per via giudiziaria di Alessandro Barbano Il Dubbio, 27 marzo 2023 Non si può raccontare la crisi della giustizia fermandosi all’evoluzione del processo penale. Mi concedo questo spunto critico, partecipando al dibattito aperto sul dubbio dagli interventi di due maestri del diritto, come Giorgio Spangher e Giovanni Fiandaca. Non perché abbia l’ardire o la competenza per mettere in discussione tesi così autorevolmente rappresentate, ma perché voglio approfittare del mio punto di vista metodologicamente «ignorante» per riportare la discussione al rapporto tra il cittadino e la potestà punitiva dello Stato. Sono convinto che il rischio di un’analisi limitata al processo, cioè alle categorie del penale propriamente dette, è quello di sottovalutare il dilagare del punitivismo nella democrazia italiana, in azioni ed effetti che debordano ampiamente dagli argini formali della procedura. La tesi dei due insigni giuristi è che il processo ha subito una «torsione finalistica», spostando il suo target dall’accertamento del reato al contrasto del fenomeno criminale, alterandone la sua originaria natura liberale, e offrendosi come braccio armato a una politica mossa da pulsioni securitarie. In nome dell’efficientismo, dell’economicità e della compressione temporale, il risultato del processo ha fatto strame del principio di tipicità legale delle incriminazioni, fagocitando le categorie sostanziali dentro una «processualizzazione» in cui sfuma, fino svanire, il rapporto tra l’accertamento penale e la verità ontologica dei fatti. È specchio di questa distorsione l’eclissi dei «reati che offendono beni afferrabili» a vantaggio di fattispecie centrate su una fenomenologia sociale giudicata moralmente riprovevole, a prescindere dalla sua offensività giuridica. La seconda conseguenza di questa torsione finalistica è la centralità dell’indagine come strumento esplorativo e pervasivo di tutela sociale, connesso a tre funzioni che la giustizia ha ricevuto in delega dalla politica, e che Giovanni Fiandaca riassume nel «controllo di legalità» a tutto campo sull’attività dei pubblici poteri, nella difesa della democrazia dalle minacce della criminalità e nel rinnovamento e nella moralizzazione della classe dirigente e della società. All’analisi ineccepibile dei due prestigiosi maestri qui sintetizzata, aggiungo solo una considerazione, per così dire, a posteriori: un rito accusatorio incompiuto, insediato in un sistema ordinamentale che rinunci alla separazione delle carriere, e in un sistema magistratuale geneticamente idiosincratico rispetto all’idea di una parità tra accusa e difesa, non può che approdare a una verità processuale che coincida con una verità sfigurata. Nessun giudizio che cerchi la prova nella dialettica tra le parti può prescindere da una terzietà radicale del giudicante. Che non riguardi solo la sua funzione nel processo, e neanche l’inquadramento nell’ordinamento, ma il rapporto direi sacrale del giudice con la protezione dell’innocente, la sua inattaccabile indifferenza alle domande di giustizia dell’opinione pubblica, la responsabilità di sostenere il senso del limite che il sistema accusatorio porta con sé, e tra questo l’idea che un colpevole possa anche farla franca perché le indagini sono state condotte male. Ma non è solo il processo propriamente detto la sede di «corruzione» della giustizia, quanto le sue duplicazioni speciali, che si sono riprodotte dentro e fuori i confini del penale, portando a spasso il punitivismo nella democrazia italiana. E tra queste la legislazione antimafia, storica amnesia del dibattito pubblico. È qui che, alle tre deleghe della politica alla magistratura, indicate da Giovanni Fiandaca, se ne aggiunge una quarta, ancora più decisiva: e cioè la funzione di riscatto sociale e di perseguimento di quell’uguaglianza sostanziale che la Costituzione prescrive alla democrazia nel secondo comma dell’articolo 3. E che la giustizia di prevenzione s’incarica di realizzare, mettendo al centro del suo radar non più i colpevoli, ma i beneficiari di ricchezze ingiuste, che si tratti di mafiosi o di corrotti, o più semplicemente di terzi in qualche modo coinvolti con i primi a prescindere da una loro responsabilità penale, e perfino di ostaggi del ricatto mafioso in quanto pagatori del cosiddetto pizzo. La loro colpa non è verso lo Stato o verso la comunità, e neanche verso le vittime dei reati commessi, spesso neanche provati o ipotizzati, ma prima di tutto verso la storia. Il fatto che le confische non siano considerate sanzioni, ma piuttosto provvedimenti penali sui generis, con un artificio incomprensibile a qualunque cittadino di buon senso, non ci esime dall’analizzare l’enorme afflittività che scaricano sulla democrazia e la sua giustificazione. Ne fornisce un compendio ideologicamente chiaro la sentenza 24/2019 con cui la Consulta riconosce e assegna alla confisca una natura «ripristinatoria». L’ablazione dei beni costituisce, secondo la Corte, «non già una sanzione, ma piuttosto la naturale conseguenza della loro illecita acquisizione, la quale determina un vizio genetico nella costituzione dello stesso diritto di proprietà in capo a chi ne abbia acquisito la materiale disponibilità, risultando sin troppo ovvio che la funzione sociale della proprietà privata possa essere assolta solo all’indeclinabile condizione che il suo acquisto sia conforme alle regole dell’ordinamento giuridico. In presenza, insomma, di una ragionevole presunzione che il bene sia stato acquistato attraverso una condotta illecita, il sequestro e la confisca del bene medesimo - dice ancora la Corte - non hanno lo scopo di punire il soggetto per la propria condotta, bensì, più semplicemente, quello di far venir meno il rapporto di fatto del soggetto con il bene, dal momento che tale rapporto si è costituito in maniera non conforme all’ordinamento giuridico, o comunque di far sì che venga neutralizzato quell’arricchimento di cui il soggetto, se non fosse stata compiuta l’attività criminosa presupposta, non potrebbe godere». Come si può ignorare che la lotta all’arricchimento illecito sia stata ufficialmente codificata dal Giudice delle Leggi come uno degli obiettivi del sistema penale, ancorché sui generis? E come ignorare che questo sistema sui generis prescinda dalle garanzie del processo penale ordinario? Tanto da far sostenere alla Corte di Cassazione (V Sez. Pen. n.49153/2019) che, «in tema di misure di prevenzione, l’assoluzione del proposto dal reato associativo non comporta l’automatica esclusione della pericolosità sociale dello stesso, in quanto, in ragione dell’autonomia del processo di prevenzione rispetto a quello penale, il giudice chiamato ad applicare la misura può avvalersi di un complesso di elementi indiziari, anche attinti dallo stesso processo penale conclusosi con l’assoluzione». Significa - ed è norma nella prassi - che il giudice della prevenzione può scremare dal processo penale gli indizi di colpevolezza da quelli di innocenza, prevalenti, che hanno concorso a determinare l’assoluzione, e utilizzare ai fini della decisione sulla confisca solo i primi, cioè i più utili a raggiungere il risultato. E ancora: si può ignorare che «nel giudizio di prevenzione - (V Sez. Pen. n.33149/2018) - la prova indiretta o indiziaria non deve essere dotata dei caratteri di gravità, precisione e concordanza prescritti dall’articolo 192, né le chiamate in correità o in reità devono essere necessariamente sorrette da riscontri individualizzanti»? Vuol dire che ai fini delle confische la prova non deve essere grave. Quindi può essere irrilevante? Non deve essere precisa. Quindi può anche essere sfocata, tanto da non identificare con chiarezza i soggetti né i fatti a giustificazione di una pericolosità dei primi? Non deve essere concordante. Quindi può tranquillamente essere dissonante o in contrapposizione con altri elementi che abbiano portato il giudice penale a confutarla, elementi che in sede di giudizio di prevenzione si può far finta di non vedere? A ulteriore precisazione di ciò di cui si parla, la Corte aggiunge che le accuse dei pentiti non devono essere necessariamente confermate. Anche se la conferma non esiste, o se esiste una precisa smentita, le loro accuse possono essere espunte dal processo penale e impiegate, per quello che servono, nel processo di prevenzione? È accaduto, accade, accadrà ancora in tanti di quei tribunali di territorio dove l’evocazione della mafiosità fa scattare un riflesso pavloviano. Tutto questo per dire che la «torsione finalistica», di cui parlano Spangher e Fiandaca, arriva al punto di perseguire un obiettivo politico di giustizia sociale attraverso gli scarti del diritto penale, cioè quegli indizi o semplicemente sospetti, illazioni, congetture, pregiudizi che in nessuno procedimento ordinario potrebbero mai diventare prova e che invece bastano a togliere perfino le scarpe a cittadini mai indagati, o piuttosto assolti. Se vogliamo comprendere a pieno che cosa è diventata la giustizia in Italia, dobbiamo partire da qui. E il pm disse: Barbano ha ragione, l’antimafia è un disastro di Errico Novi Il Dubbio, 27 marzo 2023 L’ex capo di gabinetto di via Arenula, Raffaele Piccirillo: «Garanzie sacrificate senza produrre risultati: il libro coglie nel segno». L’ex ministra Cartabia: «Un’opera polemica ma da prendere sul serio». Marta Cartabia non ha certo inflazionato la propria immagine pubblica, una volta lasciato l’incarico di guardasigilli. È tornata a esercitare la vocazione di illuminata studiosa dei principi costituzionali, nella sua università milanese della Bicocca. Con rare presenze all’esterno dell’accademia. Ha voluto fare uno strappo alla regola per “L’inganno”, il libro di Alessandro Barbano che svela gli abusi dell’antimafia. La presidente emerita della Consulta ha scelto una cornice splendida per derogare all’autoconsegna: la Sala della Regina di Montecitorio. È lì che il giornalista divenuto attore principale del dibattito sulla giustizia ha tenuto una nuova presentazione del proprio saggio. Al fianco di una figura del calibro di Cartabia ha avuto la fortuna di trovare una personalità di spessore come Giorgio Mulè a fare gli onori di casa, ha quindi scelto una delle migliori voci dell’accademia e dell’avvocatura penalistica, il professore dell’Università di Bologna Vittorio Manes, e un magistrato. Non un magistrato qualsiasi: Raffaele Piccirillo, oggi sostituto procuratore generale della Cassazione e fino a pochi mesi fa, per più di quattro anni consecutivi, capo di gabinetto al ministero della Giustizia, prima con Alfonso Bonafede e poi con la stessa Cartabia. «Nella sceneggiatura dell’incontro sono colui che dovrebbe fare la parte del cattivo», ha scherzosamente esordito Piccirillo quando ha preso la parola. Ma la sceneggiatura è stata sorprendente. Non tanto per Mulè, la cui onestà intellettuale è nota: con l’eco ancora percepibile degli anatemi lanciati contro Barbano da Gian Carlo Caselli e Nando Dalla Chiesa, il vicepresidente della Camera ha detto che proprio Montecitorio è «il luogo dove le idee si confrontano liberamente nel sacro rispetto della Costituzione», e che quindi non si sarebbe rischiata una scomunica come quelle inflitte nei giorni precedenti. Non è stata una sorpresa l’eleganza della lezione offerta da Manes, che ha accordato l’orgogliosa replica del giurista dinanzi al lapidario disprezzo dei giustizialisti («coniano di continuo nuove espressioni, “borghesia mafiosa”, “populismo garantistico”...) con l’umana vicinanza agli innocenti colpiti dalle misure di prevenzione, vero epicentro de “L’inganno” («una vita segnata da una vicenda penale ingiusta diventa una vita di scarto, ci si può rialzare ma spiritualmente si resta un’anima morta»). E poi Cartabia, che nella propria arringa ha intrecciato apprezzamenti e controdeduzioni. I primi, precisati subito, li ha rivolti alla «verve polemica, molto energica, del libro», che però, ha detto, «è documentato e capace disvelare problemi seri in modo serio. Un libro da prendere assolutamente in considerazione». Non ha poi risparmiato le repliche, quanto si è voluta difendere dai passaggi de “L’inganno” che la chiamano in causa direttamente, «in particolare perché ho ricordato, durante il mio mandato di ministra della Giustizia, che la nostra legislazione antimafia è universalmente apprezzata: è così, potrei citare le parole del guardasigilli francese Dupond- Moretti di fronte al riuso di una villa dei Casamonica per l’assistenza ai bambini autistici. Ed è così», ha aggiunto la presidente emerita della Consulta, «anche nel senso che tutte le Corti chiamate a vigilare sui principi fondamentali non hanno fin qui rilevato alcuno strutturale conflitto fra le misure antimafia, la Costituzione e le Carte dei diritti». Cartabia è una costituzionalista, e non si è sottratta dal rappresentare il punto di vista del mondo da cui proviene rispetto alle contraddizioni denunciate da Barbano. Ma Piccirillo, appunto, nella “sceneggiatura” doveva fare altro, «il cattivo». E invece. E invece Piccirillo ha ribaltato clamorosamente il canovaccio dei suoi colleghi, di Caselli, ha spiazzato anche la severità di Melillo, intervenuto con Giuliano Amato alla “prima” romana de “L’inganno”. Ha detto, l’ex capo di gabinetto di Cartabia e, non lo si dimentichi, di Bonafede, che intanto “L’inganno” non è un libro da bandire, perché «è un’analisi sul potere, e il controllo sul potere è una cosa necessaria, che a me interessa». Non solo: «Non è appropriata la critica di chi pensa di cavarsela col discorso “eh, però c’è la mafia, la necessità di contrastarla...”: non mi convince. Intanto occupiamoci di quest’altro problema». E già la distanza dai colleghi più indignati è messa in chiaro. «Occupiamoci», dice Piccirillo, «di quanto scrive Barbano: del sacrificio delle garanzie imposto con le misure di prevenzione, a fronte di un sistema che non produce risultato». Ed è una cosa che dovrebbe far rimbombare le stanze della magistratura antimafia. Perché Piccirillo, lo ricorda lui stesso, non è un osservatore esterno: è stato direttore generale degli Affari penali a via Arenula. «Da lì», spiega, «avevo a disposizione la banca dati dei beni sequestrati. Ebbene, le informazioni erano e sono tuttora disallineate, illeggibili. Non sappiamo quale sia esattamente il valore del patrimonio affidato all’Agenzia. Sappiamo che per molte aziende il riuso è impossibile, perché la loro matrice inquinata dalla criminalità ne pregiudica la capacità di stare sul mercato. E poi dovremmo fare i conti con la dequalificazione degli amministratori giudiziari, con le improvvisazioni dei giudici: c’è da chiedersi, in certi casi, se avrebbero gestito anche le loro proprietà personali, con lo stesso avventurismo adottato per i beni prossimi alla confisca». Parole dirompenti. Con cui dovrà fare i conti chiunque volesse trattare Barbano e il suo libro come un’indegna apostasia. E se solo sarà servito a far emergere, nella magistratura, queste contraddizioni, a “L’inganno” sarà doveroso essere grati. Viterbo. Detenuto muore in cella a 26 anni, la Procura ha disposto l’autopsia di Antonio Bertizzolo latinaoggi.eu, 27 marzo 2023 Cosmin Tebuie, 26 anni, di origine romena ma residente a Latina. Lo hanno trovato senza vita ieri mattina alle 8, pensavano che stesse ancora dormendo e invece era morto. Il giovane stava scontando una condanna per una rapina e un incendio, i fatti erano avvenuti a Borgo Grappa nel 2021. Il ragazzo che a quanto pare godeva di buona salute, sarebbe morto nel sonno e sul corpo non sono stati trovati segni di violenza. Poche ore prima aveva parlato al telefono con i familiari e aveva detto che stava bene. Sabato dopo la cena si è addormentato e non si è più svegliato. La Procura di Viterbo ha disposto l'autopsia e ha aperto un'inchiesta. Oristano. Il mistero del detenuto suicida, la famiglia cerca 6mila euro per finanziare l’autopsia di Olivia Dabbene La Repubblica, 27 marzo 2023 Troppi i dubbi sulla fine di Stefano Dal Corso. La moglie vuole indagare e lancia una raccolta fondi. Una raccolta fondi per finanziare le indagini volte a fare luce sul giallo della morte di Stefano Dal Corso, il detenuto romano, originario del Tufello, trovato misteriosamente senza vita nell'infermeria del carcere di Oristano il 12 ottobre 2022. Dal Corso, 42 anni, era entrato in prigione, a Roma, il 19 agosto. Il 4 ottobre era stato trasferito temporaneamente in Sardegna per consentirgli di presenziare a un processo. Sarebbe dovuto rientrare a Roma il 13 ottobre per concludere la detenzione: a dicembre sarebbe tornato libero. E invece il 42enne, secondo la versione ufficiale, si sarebbe impiccato alle sbarre della cella singola con il lembo di un lenzuolo. La famiglia però solleva molti dubbi sulla ricostruzione fornita finora dagli inquirenti. Nonostante i funerali siano già stati celebrati da tempo, Marisa Dal Corso, 55 anni, la sorella di Stefano, ha lanciato una raccolta di denaro ("sul conto corrente postale 5333171110218464") per finanziare l'autopsia "che la procura di Oristano - denuncia - ci ha negato per due volte". L'obiettivo è raggiungere i 6mila euro necessari a poter eseguire finalmente l'esame, necessario per chiarire i contorni dell'ennesima morte sospetta nelle carceri italiane. "Gli atti sul caso di Stefano sono scarni - dice la sorella - ufficialmente è morto per una lesione all'osso del collo, ma delle foto che siamo riusciti a recuperare si notano dei lividi sul corpo". Non solo. "Si sarebbe impiccato alle sbarre con il lembo di un lenzuolo - continua - ma il letto era perfettamente in ordine, con il lenzuolo intonso. Dalle immagini non si nota nemmeno l'ombra di una impronta sulle coperte, avrebbero dovuto esserci visto che per arrivare alle sbarre avrebbe dovuto per forza salire sul letto". Senza considerare il fatto che "non esistono foto della salma nuda - insiste Marisa - le uniche che ci ha consegnato il carcere lo ritraggono vestito: questo non consente neppure un completo esame visivo agli esperti che abbiamo contattato per capire cosa sia successo". Stefano non era affatto depresso. "È certificato da una relazione firmata dalla psicologa del carcere - spiega Marisa - a dicembre sarebbe tornato a casa. E poi aveva una nuova compagna, non vedeva l'ora di rivedere la figlia di sette anni. Stefano non si è suicidato". La salma è ancora custodita al deposito del cimitero di Prima Porta in attesa che la famiglia riesca a ottenere l'autopsia. Verona. Un 2022 complicato a Montorio tra difficoltà sanitarie, suicidi e disagio psichico di Luca Stoppele veronasera.it, 27 marzo 2023 È quanto emerge dalla relazione annuale del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Don Carlo Vinco, illustrata in Consiglio comunale a Verona, che mette in luce le principali criticità della casa circondariale. Il Consiglio comunale che si è tenuto giovedì sera, ha visto l'elezione della prima Garante per la tutela dei diritti degli animali del Comune di Verona. Dopo l’approvazione a fine 2022 del nuovo Regolamento per la sua istituzione, Emanuela Pasetto è stata eletta, a scrutinio segreto, con 20 voti favorevoli. Difficoltà sanitarie, suicidi, disagio psichico. E, ancora, diminuzione della possibilità di attività lavorative all’interno del carcere e piccole e grandi precarietà nei servizi. Sono queste alcune delle principali criticità portate alla luce dal Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Don Carlo Vinco, nel corso dell’illustrazione in aula della sua relazione annuale in merito alla situazione carceraria alla Casa Circondariale di Montorio. «Il 2022 - ha spiegato don Vinco - si è aperto con una situazione molto critica in ambito sanitario. Negli ultimi giorni del 2021 si era sviluppato un focolaio di covid e nelle prime settimane del 2022 si sono raggiunti 180 contagiati. Fortunatamente con nessuna situazione grave, nessun ricovero ospedaliero, ma la diffusione del virus così veloce ha obbligato la Direzione a decidere la chiusura totale delle celle, con quello che tale decisione comporta in termini di fatica dei detenuti e di possibili tensioni fra detenuti ed agenti. La situazione è stata aggravata dall’assenza, sempre dovuta all’epidemia, di più di 100 agenti contemporaneamente, con problemi di sostituzione e di ridefinizione dei turni di servizio che hanno ulteriormente messo alla prova gli agenti e la complessità del loro lavoro. Suicidi: altro elemento che ha segnato il 2022 è stata la grande risonanza che ha avuto anche a livello nazionale il suicidio di una giovane ragazza. Ex tossicodipendente, uscita da una comunità terapeutica dove stava scontando una pena alternativa, molto conosciuta e da vari anni seguita dalle diverse figure che si sono inserite nel suo percorso di pena e di recupero, con il suo gesto ha richiamato l’attenzione verso uno dei problemi più difficili delle nostre carceri: il suicidio e il tentativo di suicidio. Nel 2022 nelle carceri italiane ci sono stati più di 80 suicidi. Ma i tentativi di suicidio, sventati dalla prontezza degli agenti o, spesso, dagli stessi compagni di detenzione sono stati centinaia. Purtroppo non è stato l’unico suicidio a Montorio. Un’altra giovane donna si era suicidata poco prima di Natale del 2021 e nell’ottobre del 2022 un detenuto anziano, che peraltro aveva vissuto già molti anni in cella, si è tolto la vita». «Poter far lavorare alcune decine di detenuti ogni giorno è un fatto di grande rilevanza, sia sul piano educativo, sia per le possibilità di aiuto economico, e sia come controllo di decine di detenuti che si vedevano occupati varie ore al giorno e tolti dall’isolamento e dalla solitudine della cella». «Mi dispiace sottolineare che alcune presenze di volontariato in ambito sportivo, che negli anni trascorsi sono state molto significative anche perché hanno saputo coinvolgere studenti nella conoscenza e nella relazione con i detenuti, non hanno ancora potuto riprendere le attività di un tempo». Don Carlo Vinco ha poi concluso: «Nel corso del 2022 oltre agli incontri istituzionali, la grande attività del Garante si è svolta con i colloqui individuali con i detenuti delle varie sezioni del carcere, per un totale di 412 incontri. Restano aperte varie questioni che ci auguriamo possano essere prese in considerazione in un prossimo futuro: come incrementare la possibilità di comunicazione e di relazione con i propri affetti; il potenziamento e l’utilizzo di impiego di nuove tecnologie; l’ampliamento e l’effettività della video-sorveglianza; l’organizzazione di azioni e di reti che aiutino il fine pena e il reinserimento nella società». Roma. "Wissem stava bene, l'ho fatto legare perché era agitato" di Romina Marceca, Marco Mensurati La Repubblica, 27 marzo 2023 Parla Piero Petrini, primario del San Camillo, dove morì il 26enne tunisino. Due medici e due infermieri sono accusati di omicidio colposo. Hanno ucciso un ragazzo sano, bombardandolo di sedativi e antiepilettici. Ad ammetterlo, in una mattina di fine marzo davanti alla porta di Psichiatria all'ospedale San Camillo di Roma, è il professor Piero Petrini, il primario del reparto in cui Wissem Ben Abdel Latif, migrante tunisino in transito a Roma nel suo viaggio verso la Francia, è morto a 26 anni, il 28 novembre del 2021, in circostanze sospette. Per quel decesso la procura di Roma ha indagato (con l'ipotesi di omicidio colposo e falso in atto pubblico) due medici e due infermieri in servizio sotto la responsabilità proprio del primario Petrini. "Non lo scriva - premette il medico - ma la verità è che quel ragazzo stava meglio di me, gli esami erano buoni". Dice così Petrini non spiegando però per quale motivo, se era sano, il ragazzo sia stato legato a un letto in corridoio e riempito di sedativi. Il primario parla per la prima volta del caso a un anno e quattro mesi di distanza. E, invece di spiegare come sia possibile che due medici e due infermieri del suo reparto abbiano iniettato un farmaco che non era stato in alcun modo prescritto, omettendo per giunta di trascrivere la cosa in cartella, si preoccupa di difendere reparto e medici. Arrivando fino allo scaricabarile. Ma se Wissem era sano, di cosa è morto secondo lei? "L'ho detto e l'ho riferito a chi di dovere. Non cercate in questa direzione. Questo paziente veniva dal Cpr di Ponte Galeria (il centro per il rimpatrio, ndr). Lì è successo qualcosa, non qui. I miei colleghi non hanno fatto niente". Sta sostenendo che è stato picchiato? Voi avete riscontrato ferite o la compromissione degli organi interni? "No, il paziente stava meglio di me e di lei, lo ripeto. Gli esami erano buoni". Al momento ci sono due medici e due infermieri del suo reparto indagati per la morte di Wissem... "Nessuno mi ha ufficialmente riferito di questa svolta nelle indagini. I miei colleghi sono ancora in servizio, si aspetta il terzo grado di giudizio. Se avessi saputo della loro condotta li avrei subito segnalati al consiglio di disciplina". Quindi lei nega l'errore medico? "Non c'è un errore medico secondo me. È stato trattato benissimo. Poi quello che è successo quella notte non lo so, sia chiaro. Io non c'ero. Potrebbe avere avuto un aneurisma cerebrale". Negli esami di sangue di Wissem c'era un valore riferito alla corretta funzionalità dei muscoli di 35 volte maggiore rispetto al normale... "Gli esami erano normali, la Cpk a 7.151 ci sta in un uomo contenuto (era legato a una barella, in corridoio, ndr) e che si agitava. Noi potevamo dargli solo eparina e gliel'abbiamo data". Non avete pensato di fare approfondimenti? Un elettrocardiogramma? "Non siamo riusciti a fare un elettrocardiogramma, era sempre agitato. Io lo avevo chiesto, ma non ci riuscivamo. Abbiamo fatto vedere l'elettrocardiogramma di tre giorni prima e i colleghi avevano detto che andava bene". Ma il paziente è comunque morto legato a quel letto... "Che le devo dire? Non ha mai sentito che ci sono giovani a 18 anni che si vanno a coricare e la mattina non si risvegliano più?". In cartella c'è scritto che Wissem assumeva due sedativi e un antiepilettico. Possibile che non fosse gestibile per eseguire un elettrocardiogramma? "Non importa, era agitato. Posso assumere 40 gocce di Tavor e dormire e prenderne 80 e essere agitato. Tutto dipende da come sono dentro". Allora forse la contenzione è stata esagerata? "Cosa facevamo? Lo facevamo sbattere nei muri? Quella Cpk non è pericolosa perché è un indice muscolare, non cardiaco". Quindi per lei è normale che un paziente rimanga legato a un letto in un corridoio? "Il paziente è stato messo in corridoio. L'ho fatto legare perché era sempre agitato e, quando il posto si è liberato, ho preferito tenerlo in corridoio per averlo sott'occhio. Era un paziente che aveva bisogno di ossigeno. Non aveva altre complicazioni, era giovane". Sta di fatto che dalla cartella di Wissem manca il diario di contenzione... "Sì, è vero, ma i dati erano riportati anche sui fogli degli infermieri". Wissem urlava, voleva comunicare qualcosa. È stato affiancato da un mediatore culturale? "Il mediatore è venuto ma non capiva nulla perché lui ha detto solo che aveva il cervello che gli usciva dalla testa. Che voleva dire? Alludeva a una malattia neurologica?". Scusi, quindi il mediatore non comprendeva il tunisino? "Non capiva nulla di quello che diceva il paziente, non riuscivano a comunicare". Lei è indagato? "No. A mio carico ho un procedimento amministrativo per non avere mandato al consiglio di disciplina il collega e gli infermieri della notte in cui è morto Wissem. Sta di fatto che il nostro è stato definito il reparto degli orrori e adesso qui non vuole venire più nessuno". Roma. Ilaria Cucchi: "Mi sono fatta legare al letto di contenzione come Wissem, è stato terribile" di Romina Marceca La Repubblica, 27 marzo 2023 La senatrice nel reparto psichiatrico del San Camillo dove era ricoverato il migrante: "Sono qua perché ho deciso di vedere coi miei occhi il luogo dove è morto quando già era nelle mani dello Stato italiano". Una prima porta antipanico si apre su un'anticamera con i muri rivestiti in linoleum beige, un'altra dà l'accesso sul corridoio del reparto. Eccola l'unità operativa del Servizio psichiatrico diagnosi e cura del'Asl 3. L'ultimo approdo per Wissem, dopo un mese e mezzo in Italia pieno di speranze per il futuro. Davanti al reparto che si trova in una palazzina primi Novecento all'interno dell'ospedale San Camillo arriva la senatrice dei Verdi-Sinistra, Ilaria Cucchi. "Sono qua perché ho letto la storia di Wissem e dopo avere appreso dell'inchiesta sui sanitari ho deciso di vedere coi miei occhi il luogo dove è morto quando già era nelle mani dello Stato italiano", dice la parlamentare che aspetta 15 minuti prima di entrare. Manca l'autorizzazione del primario Petrini che, intanto, si trova a Ostia dove è responsabile anche lì della Psichiatria. Quando sarà dentro, Ilaria, sorella di Stefano, si sottoporrà anche alla contenzione. Accetta di avere i polsi legati a una sedia per comprendere cosa significa la parola "contenuto". "È una sensazione terribile, che ti dà la misura di cosa significa essere privati della libertà di movimento. stat", dice la senatrice. Alle 11,53 finalmente si apre l'ultima porta e Ilaria Cucchi, accompagnata dal suo assistente, percorre il corridoio bianco con le guide blu dove il migrante che sognava la Francia è morto. Solo, legato a un letto per tre giorni, affiancato da un mediatore culturale che non riusciva a capire cosa dicesse. Quel corridoio adesso è sgombero dai letti addossati sui muri. Non è stato così per il povero Wissem, finito su un letto provvisorio. Il suo posto di degenza era il numero 16- C1 (cioè il primo del corridoio, ndr). In quel novembre del 2021 i pazienti erano una ventina. Oggi i ricoverati sono meno di dieci. Tra questi c'è Roberto che mostra agitazione. È stato contenuto anche lui ma quando Ilaria Cucchi entra, nella sua cartella clinica legge che la contenzione è stata sospesa. Il reparto, in parte, non è quello che aveva trovato il 30 dicembre 2021 il garante nazionale per i detenuti Mauro Palma. "Nella planimetria compaiono i letti sistemati in corridoio, le finestre sono sempre chiuse perché i perni sono rotti, il paziente Wissem è rimasto in contenzione per tre giorni in un corridoio", aveva scritto nella sua relazione Palma, quella che ha dato il via all’inchiesta sul caso. "Resta quel neo di mancata socializzazione. Lo spazio esterno, un terrazzino, non ha alcuna copertura. C’è troppo sole d’estate e pioggia d’inverno. E ci sono ancora le sedie malridotte che menzionava nella sua relazione il Garante per i detenuti", racconta Ilaria Cucchi al termine della sua ispezione. C'è di più. "Ho potuto constatare la mancanza di personale sulla quale intendo andare avanti a capire come sia possibile che in reparti così delicati manchi personale. Non c’è, poi, un bagno nel day hospital", riferisce la senatrice. Le stanze di degenza sono sette, la pulizia del reparto è buona. Una sola stanza ha quattro letti. "Non ho parlato con nessun paziente, alcuni erano dormienti. Altri non erano in condizione", racconta Ilaria Cucchi. Quello che è cambiato dal novembre del 2021 è che non arrivano più pazienti dai centri per il rimpatrio dopo la morte di Wissem."Vengono ricoverati, invece, pregiudicati che nessuno piantona. O meglio, li controllano a vista gli unici tre infermieri di reparto", spiega la parlamentare. Per il resto c'è un soggiorno dove si pranza, la sala medici che è proprio di fronte dove il letto di Wissem era addossato al corridoio. È stato proprio il primario del reparto a dichiarare: "L'ho tenuto lì per vederlo meglio. Per controllarlo continuamente". Milano. “La pena non è solo il carcere”, parola di magistrato di Errico Novi Il Dubbio, 27 marzo 2023 L’intervento di Ilio Mannucci Pacini, presidente della terza sezione penale del Tribunale di Milano, all’evento “Rigenerare bici rigenerare persone”. «Nel suo libro Critica della retorica giustizialista, il penalista romano Francesco Petrelli spiega come nell’immaginario collettivo la pena e la reazione dello Stato al reato sia unicamente il carcere. Di fronte a fenomeno gravi si interviene sull’onda dell’emozione, inasprendo le pene. Come nel caso degli incidenti stradali o, più di recente, per le tragiche stragi nel Mediterraneo. L’idea della retorica giustizialista è sempre la stessa: mettere in carcere chi si presume sia responsabile». A dirlo è il magistrato Ilio Mannucci Pacini, presidente della terza sezione penale del Tribunale di Milano, nel suo intervento di sabato scorso all’evento “Rigenerare bici rigenerare persone”, organizzato presso Upcycle Caffè dal Comune di Milano, Dipartimento Economia urbana, moda e design unitamente al Consorzio Viale dei mille. «Come si interviene allora sulla retorica giustizialista? Introducendo tarli», risponde Pacini. «E sul carcere stiamo provando a gettarli oltre che tra gli addetti ai lavori anche tra chi a questa retorica è sensibile», aggiunge il magistrato. Che poi indica come esempio una mostra fotografica di detenuti e agenti penitenziari all’interno delle quattro carceri milanesi, Per esempio la mostra al pac di foto detenuti e agenti dentro le 4 carceri milanesi, che dal Pac di Milano è arrivata anche nel Palazzo di Giustizia e in alcuni licei. Scopo dell’iniziativa milanese è proprio sensibilizzare l’opinione pubblica sul mondo penitenziari: indagare le opportunità di sviluppo delle imprese carcerarie nel settore della ciclabilità e della mobilità leggera è il primo tema scelto per una serie di incontri finalizzati a creare rete tra le imprese e il mondo ristretto. E l’appuntamento di sabato scorso sarà anche il punto di partenza per la prossima edizione de Sui Pedali della Libertà, il progetto del Dubbio ideato e realizzato da Roberto Sensi, che nel 2020 ha percorso oltre 2mila chilometri in bicicletta dal Brennero a Capo Passero per visitare le carceri italiane. Ma il tema della sicurezza sociale riguarda tutti e deve coinvolgere il più ampio pubblico anche con nuovi linguaggi e approcci: all’incontro di Milano si è parlato anche di “Fuga in Avanti”, la ricerca avviata dal think tank Noi di Spoiler, con l’avvocata e futurista Carla Broccardo, tesa ad elaborare scenari possibili e proporre visioni alternative con un approccio di systems thinking per individuare ed aggirare le trappole sistemiche dei nostri sistemi sociali. Ferrara. "La scuola come scelta": un docu-film sull'istruzione in carcere cronacacomune.it, 27 marzo 2023 Venerdì 31 marzo alle 18, nella Sala del Consiglio comunale (piazza del Municipio 2 - Ferrara) è in programma la proiezione del docu-film sull'istruzione in carcere "La scuola com scelta", realizzato per il CPIA dal regista Alejandro Ventura. La proiezione del docu-film nella sala del Consiglio comunale è stata patrocinata dall'Assessorato alla Pubblica Istruzione del Comune di Ferrara. Girato nel maggio del 2022, dal regista/image-maker Alejandro Ventura su progetto della docente carceraria Marzia Marchi, "La scuola come scelta" è un corto che illustra la scuola in carcere, che a Ferrara è gestita dal Cpia (Centro per l'istruzione degli adulti) e dall'Istituto alberghiero O.Vergani, in collaborazione con la Casa Circondariale di Ferrara. Voluto per documentare il percorso di istruzione interno al carcere, dall'alfabetizzazione primaria fino al diploma, il docu-film si snoda per 40' tra riprese e interviste a studenti e docenti tra il dentro e il fuori del carcere in una continuità di vita per i docenti ma a volte, nei casi positivi, anche per gli ex detenuti. "La scuola come scelta" è il titolo ricavato dall'intervista a uno degli studenti detenuti. Questi testimoniano, con la propria esperienza, l'importanza di un recupero, anche tardivo, del percorso formativo di base, dell'importanza di acquisire una competenza certificata da un titolo di studio. Il filmato mette anche in luce l'importanza della scelta scolastica parallela alla propria esperienza di vita, sia che avvenga in carcere che fuori, attraverso i corsi serali del Cpia e dell'istituto alberghiero. Il sottile confine tra la vita ristretta e la vita "libera" viene travalicato attraverso l'esperienza dell'apprendere in un percorso scolastico affrontato nella vita adulta. Un prezioso documentario sull'importanza della formazione permanente nell'età adulta e sull'opportunità di proseguire un percorso di istruzione interrotto, a disposizione di tutte le scuole che vogliano utilizzarlo come materiale di sensibilizzazione e di divulgazione sul delicato lavoro dei docenti carcerari e dei docenti delle cosiddette scuole serali. Il docu-film è stato presentato nell'ottobre scorso in anteprima a "Fierida 2022", il festival dei Cpia che ogni anno si ritrovano per fare il punto sulla formazione permanente e che nel 2022 focalizzava la propria attenzione proprio sulla scuola carceraria. È stato inviato a tutte le scuole della provincia di Ferrara ed è a disposizione di iniziative di promozione culturale. Visibile sulla piattaforma Vimeo, il link del film è inviato su specifica richiesta. Info: segreteria@cpiaferrara.edu.it, marzia.marchi@cpiaferrara.edu.it. Milano. I quadri di Baj nel carcere di Opera: l’arte strumento di libertà di Massimiliano Saggese Il Giorno, 27 marzo 2023 Alla Casa di Reclusione con le opere di Enrico Baj: l’iniziativa culturale milanese per fare dell’arte strumento e veicolo di libertà, portando opere in luoghi di isolamento e disagio. I quadri di Baj saranno fruibili per tutto il prossimo mese sia dalla popolazione carceraria che dalle loro famiglie, per portare il messaggio della libertà, attraverso l’immaginazione. È arrivata alla Casa di Reclusione di Opera, l’iniziativa Alma - Arte Libera Musei Aperti. Lo scopo del progetto dell’associazione culturale Corte Sconta, realizzato con il contributo di Fondazione di Comunità Milano è rendere accessibili le opere d’arte, ma anche avvicinare all’interesse artistico individui esclusi da eventi pubblici per motivazioni sanitarie, fisico-psichiche o penali rendendoli partecipi dell’arte come via per la libertà. Riduzione delle disuguaglianze, parità di genere, accessibilità e sostenibilità sociale, sono le parole chiave che guidano il progetto. "Siamo alla seconda tappa di Alma. Abbiamo deciso di portare due quadri di Enrico Baj: uno sarà ospitato nella Galleria delle Opportunità, l’altro quadro sarà nella sala dei colloqui, ovvero dove le famiglie stazionano in attesa dei colloqui", ha spiegato Andrea Vento, portavoce del progetto Alma e presidente dell’associazione culturale Corte Sconta. Le prossime tappe saranno la Rsa Golgi Redaelli, l’associazione Olinda presso l’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini. L’iniziativa si concluderà in autunno, con la riunione di tutte le opere esposte alla Fabbrica del Vapore, presso la sede di Corte Sconta, per raccogliere i risultati del progetto. Il progetto gode del patrocinio di International Committee for Architecture and Museum Techniques e International Council of Museum. Nelle parole dell’architetto Maddalena D’Alfonso, ideatrice del progetto Alma, il significato di questo evento: "Noi possiamo in realtà, con l’immaginazione, costruire dei mondi, raccontare delle storie, ritrovare dei pezzi di noi stessi, dei legami con la nostra civiltà e la nostra società". Cara Meloni, la vera madre è la Costituzione e lei ne è figlia di Donatella Stasio La Stampa, 27 marzo 2023 Coppie gay, migranti, mamme detenute: è arrivato il momento di mostrare più democrazia e rispetto. Ammesso - e non concesso - che essere madre sia garanzia di umanità e di credibilità politica, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che quel “titolo” esibisce come una medaglia, dovrebbe spiegarci dov’è finita la madre che è in lei nel dibattito politico parlamentare sui figli delle coppie gay, sui figli delle madri detenute e su quelli dei migranti naufragati al largo di Cutro. Dovrebbe dirci dove cercare quella madre nelle parole (non) pronunciate sui figli dell’Italia antifascista, trucidati alle Fosse Ardeatine. Ammesso - e ancora una volta non concesso - che il sentimento materno qualifichi più del sentimento costituzionale dell’antifascismo, della solidarietà, del rispetto, la presidente Meloni dovrebbe aiutarci a trovare - nella punizione delle Ong che salvano i migranti, nella voglia di cancellare il reato di tortura e di togliere la potestà genitoriale alle detenute madri, nei muri alla circolazione in Europa dei figli di famiglie arcobaleno - la compassione materna, che secondo la Chiesa è partecipazione attiva alla sofferenza altrui, vedi Maria dinanzi alla passione e alla morte di Gesù. È singolare che una donna approdata democraticamente alla guida politica di un Paese abbia bisogno di usare la maternità per legittimare la propria azione, con buona pace della storia che, com’è stato già ricordato, offre una lunga carrellata di madri protagoniste di azioni politiche discutibili, e talvolta crudeli, ma anche di efferati delitti verso i figli, i mariti e il prossimo. Il punto è che, più che madri o padri, siamo tutti figli. E così dovremmo sentirci e trattarci. Siamo figli di un’unica madre, la Costituzione antifascista, che ci ha fatto nascere liberi e che ci nutre dei suoi valori unificanti, l’uguaglianza e la giustizia sociale, la laicità dello Stato, la libertà di espressione e i diritti delle minoranze, il rispetto per le diversità e per la dignità umana, ovunque e sempre, che sia una spiaggia calabrese, una periferia degradata, un carcere o il mondo libero. Perciò ci piacerebbe che la presidente del Consiglio, invece di continuare a ripetere “Sono una madre”, dicesse “Sono una figlia” e dimostrasse che la Costituzione non è un abito da indossare nelle cerimonie ufficiali né una formula vuota su cui prestare giuramento, meno che mai un espediente retorico, ma è una mentalità, una cultura, un sentimento, appunto, che dà corpo alle istituzioni, alle loro azioni e anche alle loro parole. In nessun altro regime come la democrazia le parole sono importanti, dice Gustavo Zagrebelsky, perché sono lo strumento per far circolare le opinioni, nel rispetto reciproco; perciò, ogni spirito democratico le usa con una cura particolare. Che non riscontriamo, purtroppo, nel governo e nella sua maggioranza. Basterebbe ricordare il richiamo di Giuseppe Valditara alla preside del liceo di Firenze per la lettera inviata agli studenti sul pericolo di un rigurgito fascista; l’accusa di Matteo Piantedosi ai migranti che partono con il brutto tempo; l’intemerata di Matteo Salvini sulle borseggiatrici rom che usano le gravidanze per evitare la galera e quella del vicepresidente della Camera Fabio Rampelli sui gay che spacciano come propri i figli nati da maternità surrogata. Parole frutto di pregiudizi, di ideologismi, di una cultura estranea a quella, inclusiva, della nostra Costituzione. Tanto più preoccupanti per la disinvoltura con cui vengono pronunciate, come se si stesse consumando un normale regolamento di conti, una rappresaglia. Non da meno è il torto fatto all’Italia, e alla storia, da Giorgia Meloni con la scelta di omettere parole qualificanti sul massacro delle Fosse ardeatine. Anche qui, con una naturalezza che tutto confonde ma che non è consentita ai figli e alle figlie della Costituzione, a chi crede nella democrazia costituzionale come strumento di convivenza pacifica nelle società pluraliste. Anche grazie a un linguaggio condiviso, la Costituzione seppe dare fondamenta solide e prospettive di lunga durata all’Italia democratica costruita nel dopoguerra e quelle fondamenta poggiavano sui valori maturati nell’opposizione al fascismo e nella Resistenza. All’epoca, Giorgio Napolitano era un giovane di 23 anni e, in una delle sue testimonianze, il presidente emerito della Repubblica ha ricordato che «i valori dell’antifascismo e della Resistenza non restarono mai chiusi in una semplice logica di rifiuto e di contrasto, ma sprigionarono sempre da impulsi positivi e propositivi e poterono perciò tradursi, con la Costituzione, in principi e in diritti condivisibili anche da quanti fossero rimasti estranei all’antifascismo e alla Resistenza. Perciò il 25 aprile non è la festa di una parte sola». Ecco perché Giorgia Meloni dovrebbe abbandonare la postura, minacciosa, della madre e assumere quella, pacificata, di figlia della Costituzione e dell’antifascismo, allontanando dall’Italia lo spettro di una regressione democratica, che si agita nel mondo - Israele, Ungheria, Polonia sono solo alcuni esempi - attraverso governi supportati da un ampio consenso elettorale e modifiche legislative che, prese singolarmente, non sembrano pericolose ma nell’insieme svuotano le democrazie. Ed ecco perché non si può restare indifferenti di fronte alle sgrammaticature costituzionali, alle crociate ideologiche, all’uso del diritto come grimaldello per scardinare le garanzie. L’Italia di oggi è diversa dall’Italia del dopoguerra ma la Costituzione, con il suo sguardo presbite, seppe vedere questa “diversità”, per cui nella sua trama oggi troviamo le risposte ai diritti, vecchi e nuovi, dei figli di ogni generazione, cittadini d’Europa. Compito delle istituzioni, dal governo alla Corte costituzionale, è farsi interpreti di questo sguardo, l’unico che le legittima e le rende credibili, chiunque sia a guidarle: donne, uomini, etero o omosessuali, mariti, mogli, padri, madri, conviventi, single, vedovi, cittadini italiani o con doppia o tripla cittadinanza. Siamo tutti figli e apparteniamo tutti alla stessa famiglia, quella della Costituzione. Il governo Meloni cominci a dimostrarlo sul serio, inverando i valori costituzionali in parole ed opere, è proprio il caso di dire. La difesa della persona umana di Luciano Violante La Repubblica, 27 marzo 2023 Quattro episodi, apparentemente privi di connessione, pongono un tema che va oltre la polemica tra parti politiche. Mi riferisco alla morte dei migranti in mare, alla mancata registrazione anagrafica dei figli di coppie omogenitoriali, all’inasprimento dei soggiorni in carcere per i figli di donne detenute, alla cancellazione del delitto di tortura. In tutti questi casi, esponenti della maggioranza politica hanno espresso valutazioni che in nome della bontà della causa sembrano trascurare la drammaticità degli effetti. È giusto combattere i trafficanti che vendono a caro prezzo le migrazioni di disperati che fuggono dalla miseria, dalla guerra, dalle persecuzioni per costruire un avvenire migliore. Ma omettere di salvare coloro che stanno annegando può essere una accettabile conseguenza del progetto di lotta ai trafficanti? Si può ritenere disdicevole una stabile relazione omosessuale (non sono d’accordo) e da disincentivare la pratica di partorire per conto terzi dietro compenso (sono d’accordo), ma privare i bambini di una corretta iscrizione anagrafica può essere una accettabile conseguenza delle valutazioni negative su ciò che non riguarda la responsabilità di quei bambini? Certamente va disincentivata l’eventuale pratica di far figli per non andare in carcere, ma i figli che colpa ne hanno? È certamente giusto tutelare quei dipendenti dalle forze di polizia che possono essere costretti dalle circostanze ad usare la forza. Ma la cancellazione del reato di tortura garantirebbe davvero la loro dignità professionale? A me pare che nei casi citati sia in gioco il valore della persona umana, utilizzata come mezzo per conseguire un fine: la lotta ai trafficanti, la condanna morale dell’omosessualità, la necessità della pena e della forza per garantire l’ordine sociale. Oppure, dall’altro versante del conflitto politico, per stigmatizzare le scelte dell’avversario politico. Sulla difesa intransigente della persona umana le parti dovrebbero trovare un punto d’intesa. Questa necessità emerge in tutte le grandi questioni del nostro tempo: la guerra, l’ambiente, lo sviluppo delle tecnologie digitali. Insieme, dobbiamo evitare che una scelta politica o un’applicazione digitale possano prevalere sulla dignità umana. Si deve fare una politica contro i trafficanti, ma si devono salvare le vite dei naufraghi. Si può punire il ricorso alla gravidanza retribuita per conto terzi, ma non si devono penalizzare i bambini frutto di quella gravidanza. Si possono avere opinioni critiche sulle coppie omosessuali, ma non si possono considerare figli di un dio minore i bambini di quella coppia. È naturale che esista il desiderio di avere un figlio, ma non esiste un diritto al figlio mentre esiste il diritto del bambino ad avere una famiglia. Una donna che commette un reato dev’essere punita, ma non si può condannare al carcere anche il bambino; una società democratica non può non trovare un equilibrio tra il diritto di punire dello Stato e il diritto di essere libero del bambino. Le forze di polizia, infine, vanno garantite assicurando adeguate condizioni professionali, non cancellando il delitto di tortura, cancellazione che le disonorerebbe. Così Salvini fa propaganda contro i Rom partendo dalla legge sulle madri detenute di Davide Assael Il Domani, 27 marzo 2023 Matteo Salvini ci è cascato ancora. Proprio non riesce a resistere all’istinto populista che lo tiene intrappolato in una campagna elettorale permanente, puntando il dito contro i soggetti più vulnerabili per darli in pasto all’opinione pubblica e nascondere, così, i limiti della sua azione di governo. Non ha potuto, quindi, farsi sfuggire l’occasione per spargere, ancora una volta, odio nei confronti della comunità rom. Partendo dal dibattito parlamentare sulla proposta di legge riguardante le detenute madri, si è subito lanciato nell’ennesima sparata: «Il Pd libera le borseggiatrici Rom che usano bimbi e gravidanza per evitare il carcere e continuare a delinquere». Naturalmente, nessuno fino a quel momento aveva tirato in ballo riferimenti ad identità specifiche, ma a Salvini, in versione ministro degli Interni (ruolo che aveva nel Conte I) o delle Infrastrutture (con Giorgia Meloni premier) è uguale, tanto interviene su tutto, fra promesse di opere avveniristiche che rischiano la fine della secessione o dell’uscita dall’Euro e i sondaggi che arrancano, non resta che solleticare le viscere dell’opinione pubblica. Cerchiamo, allora, di chiarire alcuni punti. Uno: la stragrande maggioranza dei circa 170.000 Rom che vivono nel nostro paese è italiana. Alcune comunità sono, come si suol dire, di antico insediamento, in Italia da secoli. Due, lo precisiamo visto il costante rifermento a stereotipi che inducono a ridurre l’identità romanì a tratti somatici: i Rom, termine generico che raduna almeno cinque gruppi diversi (Rom, Sinti, Manouches, Kalé, Romanicharles), non sono un’etnia, ma un popolo. Sono, quindi, di ogni colore e religione, per intendersi. Salvini appiattisce tutto sull’iconografia di una componente povera e marginalizzata come la propaganda antisemita dello scorso secolo appiattiva l’ebreo sull’ashkenazita dello shtetl, che rappresentava l’ebraismo povero, se non poverissimo. Stereotipo per stereotipo, è un po’ come usare l’immagine del mafioso per descrivere gli italiani. Terzo, ci sono Rom italiani stilisti, professori universitari, grandi musicisti, affermati sportivi, personalità politiche. Stabilito questo, come cittadini italiani esigiamo per loro il rispetto che si deve a tutti i nostri concittadini. Non ammettiamo che vengano costantemente apostrofate o marchiate dai pregiudizi persone che per il nostro Paese hanno anche combattuto. Se la cosa può far piacere al nuovo governo, sostituiscano concittadini con compatrioti, a noi va bene uguale. Vorremmo, poi, ricordare, che, se è vero che la soluzione finale era destinata a risolvere «il problema ebraico», insieme agli ebrei e a tanti altri, nei lager nazisti sono stati massacrati 500.000 Rom e Sinti (il nostro ministro vada a farsi un giro a Birkenau, dove potrà vedere il monumento dedicato). Cifra altamente sottostimata. Perché i nostri giovani non crescano nella stessa ignoranza dei più vecchi (neo cinquantenni compresi), esigiamo anche che, come il 27 gennaio si commemora la Shoà, nelle scuole si ricordi il Samudaripen, lo sterminio nazista di Rom e Sinti, con tanto di elenco dei di Rom e Sinti italiani passati da Auschwitz, di presenza dei reduci sopravvissuti e delle loro famiglie. Siamo certi che una Presidente del Consiglio che ha recentemente utilizzato il termine «italiani» in modo così estensivo da cancellare la distinzione fra fascisti e antifascisti sarà d’accordo su questo punto. Come esseri umani, esigiamo, poi, che si ponga fine ad una politica che mira ad ottenere consenso spargendo odio a piene mani. Siamo consapevoli che l’avvelenamento del clima porti disastri per tutti. Si sa, «prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c'era rimasto nessuno a protestare». Se l’intelligenza artificiale ha imparato a essere razzista e sessista di Andrea Daniele Signorelli Il Domani, 27 marzo 2023 Arresti ingiustificati, discriminazioni nella selezione dei curriculum e altro ancora: a fare le spese dei bias dell’intelligenza artificiale sono sempre le donne e le minoranze. Nella maggior parte dei casi, il problema sta tutto nel database usato per l’addestramento, costituito da dati in cui sono inevitabilmente incorporati i pregiudizi della società. Gli stessi problemi si sono verificati recentemente anche con sistemi di ultima generazione come ChatGPT o Dall-E 2. E allora che cosa si può fare? È il gennaio 2020 quando la polizia di Detroit si reca presso l’abitazione di Robert Julian-Borchak Williams, un uomo nero, per arrestarlo. Williams è accusato di aver rubato alcuni orologi nel negozio di lusso Shinola per un totale di 3.800 dollari. A segnalare la sua identità ai poliziotti è stato un algoritmo di riconoscimento facciale, incaricato di confrontare le immagini salvate dalle videocamere di sicurezza con il database a disposizione delle forze dell’ordine. “Questo non sono io, credete che gli uomini neri siano tutti uguali?”, replica Williams agli agenti che gli mostrano le immagini. Sei mesi dopo, il processo viene infatti archiviato, ma non prima che Williams sia costretto a trascorrere 30 ore in prigione e a pagare una cauzione di mille dollari. L’errore da parte del sistema di riconoscimento facciale è meno sorprendente di quanto si potrebbe pensare, dal momento che questi algoritmi - come conferma anche uno studio di Harvard - non sono in grado di riconoscere con sufficiente accuratezza le persone non bianche. È solo uno dei tantissimi casi in cui i sistemi algoritmici basati su intelligenza artificiale hanno discriminato le minoranze o altre categorie. Dal programma di analisi del testo Cloud Natural Language di Google (che giudicava negativamente le frasi con protagoniste, tra le altre, persone ebree o omosessuali) fino al sistema di Amazon di reclutamento professionale che penalizzava regolarmente le donne rispetto agli uomini, gli esempi sono innumerevoli. Ma perché succede tutto ciò? In sintesi estrema, il problema è tutto nei dati usati per l’addestramento: il riconoscimento immagini identifica con minore precisione le persone nere perché la maggior parte dei database utilizzati per l’addestramento è solitamente composta da persone bianche; il programma di analisi del testo di Google discriminava invece le minoranze perché addestrato tramite testi risalenti ai primi del Novecento (per evitare problemi di copyright) e che quindi integravano in essi i pregiudizi del tempo; il sistema di Amazon aveva invece imparato, poiché alcuni lavori sono storicamente stati a maggioranza maschile, a scartare i curriculum femminili. Tutto ciò, come vedremo tra poco, continua ad avvenire ancora oggi, anche nei più evoluti e avanzati sistemi di deep learning. Com’è possibile? “Mi rendo sempre più conto che è soprattutto una questione di mentalità”, spiega a Domani Diletta Huyskes, ricercatrice di Etica dell’intelligenza artificiale e cofondatrice e ceo di Immanence, società benefit che offre valutazioni sull’impatto degli algoritmi. “Finché non capita uno scandalo, le istituzioni e le aziende non sono spinte a investire nella sicurezza dei loro sistemi, anche perché ciò richiede investimenti in analisi, ricerca, governance e altro. Valutare i rischi in anticipo è in effetti una modalità opposta a quella a cui il mondo dell’innovazione è abituato”. Non a caso, il motto delle startup della Silicon Valley è da sempre “move fast and break things”: lo stesso approccio utilizzato anche da OpenAI, la società creatrice di ChatGPT. Sebbene il suo fondatore Sam Altman abbia recentemente promesso - per timore di dare vita a una (fantascientica) superintelligenza artificiale - di volersi muovere con grande cautela nello sviluppo dei sistemi di deep learning, è curioso notare come proprio OpenAI non abbia usato nessuna cautela nella distribuzione e diffusione di ChatGPT o del sistema di generazione immagini Dall-E 2, che, tra le altre cose, hanno subito iniziato a mostrare problemi legati alla discriminazione algoritmica. Per esempio, alla richiesta di creare immagini di assistenti o infermieri, Dall-E 2, nel corso di un test, ha invariabilmente generato immagini di donne; se invece gli si chiedeva di produrre immagini di avvocati o manager si ottenevano immagini maschili. Tra i tanti esempi che hanno invece ChatGPT come protagonista, troviamo le conversazioni in cui il bot di OpenAI sostiene che “i passeggeri più pericolosi del mondo sono quelli che provengono da Pakistan, Afghanistan, Iran, Iraq e Siria”. Uno studio pubblicato da Lorenzo Ancona su GitHub ha infine mostrato come, in materia di genere, ChatGPT abbia parecchi pregiudizi. Per esempio, aggettivi come “dolce” o “incompetente” vengono associati con percentuali molto superiori alle donne; mentre “competente” o “violento” vengono associati prevalentemente agli uomini. D’altra parte, se questi sistemi sono così efficaci nell’interpretare le istruzioni e a imitare il linguaggio umano è perché sono stati addestrati sfruttando una quantità colossale di esempi testuali presi dalla rete: un database talmente vasto da essere difficilmente controllabile e che, di conseguenza, porta con sé anche i pregiudizi insiti nella società che quegli stessi testi ha prodotto (soprattutto se, come spesso avviene, le fonti dei dati sono piattaforme come Reddit o Twitter). È possibile superare questo problema e creare algoritmi privi di bias? “Soprattutto in quanto ricercatrice, la mia risposta è negativa”, prosegue Huyskes. “Come non possiamo essere neutrali noi esseri umani, nemmeno una macchina di questo tipo può esserlo. La tecnologia non è neutrale e noi non possiamo renderla tale. Quello che come Immanence vorremmo fare è invece capire che tipo di bias - negativi o positivi - possano essere accettabili in determinate situazioni, e quale sia la composizione del database più adatta a un determinato contesto. Per esempio, se si sta progettando un algoritmo per la gestione di una casa di riposo non si può usare un dataset all’interno del quale ci sono anche bambini e adolescenti. Può sembrare una banalità, ma in realtà siamo ancora molto indietro”. Per questa ragione, una società come Immanence pone attenzione soprattutto alla fase progettuale, per capire gli obiettivi, i modelli più adatti e le scelte da compiere per evitare che un sistema provochi conseguenze indesiderate, alle quali magari i classici data scientist non penserebbero. Un lavoro che accompagna tutta la progettazione del sistema e che può proseguire anche in una fase successiva di audit e valutazione. Nel corso del workshop Safety fo Conversational AI, organizzato qualche tempo fa da Meta, si sono invece valutate misure di sicurezza di altro tipo: dai “test di sicurezza” che un chatbot deve passare prima di essere immesso sul mercato, alla possibilità di addestrare questi sistemi a individuare un linguaggio o dei temi offensivi e a cambiare discorso, fino alla totale (ma complessa) eliminazione di ogni argomento sgradito - politica, religione, etnia, ecc. - dal database utilizzato per l’addestramento. Tutte soluzioni già almeno in parte sperimentate, ma che si sono sempre rivelate parziali. E che portano anche a chiedersi se non sia semplicemente il caso di rinunciare all’utilizzo di questi strumenti in ambiti delicati come il lavoro, la giustizia e altro: “Il deep learning, che è fondamentalmente una tecnica per il riconoscimento di pattern, funziona al meglio quando tutto ciò che ci serve sono risultati grossolani e pronti per l’uso, in cui la posta in gioco è bassa e la perfezione dei risultati opzionale”, ha scritto Gary Marcus, neuroscienziato della New York University e fondatore di Robust.AI. Il ruolo dei programmatori - Allo stesso tempo, è stato suggerito che, per esempio nel settore dell’assistenza medica, possa essere meglio sperimentare l’utilizzo dell’intelligenza artificiale simbolica, che invece di imparare dai dati si limita a seguire i comandi iscritti nel suo sistema dai programmatori, risultando così più facilmente controllabile e meno soggetta a pericolose “allucinazioni” (come si definiscono in gergo le situazioni in cui l’intelligenza artificiale produce con sicurezza dei fatti completamente inventati). “In effetti non voglio nemmeno pensare a cosa potrebbe succedere se usassimo ChatGPT per la selezione dei curriculum o per l’assegnazione del welfare, visto che già affrontiamo moltissimi problemi anche utilizzando algoritmi molto più banali e che poco hanno a che fare con il deep learning”, conclude Diletta Huyskes. “Allo stesso tempo, non dobbiamo neanche cedere alla narrazione secondo cui i sistemi più evoluti siano incontrollabili, che potrebbe potenzialmente diventare una giustificazione nel caso in cui le cose vadano storte. Per quanto sofisticata e in grado di generare risultati a volte impressionanti, l’intelligenza artificiale è un nostro prodotto ed è sempre sotto il nostro controllo. Sta a noi fare le scelte migliori”. Migranti, ancora sbarchi e morti. La Guardia costiera contro le Ong di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 27 marzo 2023 La denuncia: «Le loro chiamate intralciano i soccorsi». A Lampedusa l’hotspot è al collasso. Il commissario Gentiloni in missione a Tunisi per cercare di frenare l’esodo. La Guardia Costiera ieri ha fatto sapere con una nota di aver soccorso «in 48 ore oltre 3.300 persone a bordo di 58 imbarcazioni» nel Mediterraneo. Questo per replicare a chi aveva lanciato accuse dopo il naufragio di Cutro. Attenzione, però. La nota conteneva anche un avverbio: «Ciononostante». E si riferiva, in modo chiarissimo, alle Ong. Accusate per la prima volta apertamente di essere un ostacolo alle operazioni di soccorso in mare anziché un aiuto. Un attacco frontale. La colpa innanzitutto - è scritto nella nota - è delle «continue chiamate dei mezzi aerei delle Ong», segnalazioni che in questi giorni di flussi record hanno «sovraccaricato i sistemi di comunicazione del Centro nazionale di coordinamento dei soccorsi, sovrapponendosi e duplicando le segnalazioni dei già presenti assetti aerei dello Stato italiano». E viene citato ad esempio l’episodio denunciato dalla nave Ocean Viking di Sos Méditerranée, minacciata da una motovedetta libica con spari in aria. L’Ocean Viking - secondo la Guardia Costiera - si trovava in area Sar libica perciò avrebbe dovuto segnalare l’episodio «al Paese di bandiera» della motovedetta, cioè alla Libia, invece di sovraccaricare il «Centro di coordinamento italiano in momenti particolarmente intensi di soccorsi in atto». Igor Iezzi, vicecapogruppo della Lega alla Camera, sulla base di questa denuncia, chiede ora di fare luce sul ruolo delle Ong: «Chi proteggono?». Intanto, purtroppo, ci sono stati due nuovi naufragi al largo della Tunisia, con 29 vittime accertate: 100 morti in pochi giorni sulla rotta tunisina. Perché le partenze per l’Italia, soprattutto da Sfax, non si fermano e allora il governo di Tunisi alla vigilia della visita del commissario Ue all’Economia, Paolo Gentiloni, ieri ha chiesto all’Europa di fare pressione sul Fondo monetario internazionale (Fmi) perché sblocchi il pacchetto di aiuti da 1,9 miliardi di dollari per risollevare l’economia e non costringere l’Africa all’esodo. Secca però la replica di Usa e Fmi: «I soldi arriveranno a Tunisi solo se ci sarà una svolta riformista dopo la deriva autoritaria». Una cosa è certa: la lotta agli scafisti si vince solo con la legalità. Per questo c’è molta attesa anche per il «click day» che scatterà oggi in Italia, previsto dal nuovo Dpcm di programmazione dei flussi: per il 2023 stabilisce 82.705 ingressi di lavoratori extracomunitari, in aumento rispetto ai 69.700 del 2022. La metà lavorerà nei campi. Ingressi regolari, senza il ricatto dei mercanti di uomini. E si mobilitano anche i sindaci italiani. Matteo Biffoni, primo cittadino di Prato e delegato Anci all’immigrazione, dice però che per finanziare a dovere il sistema dell’accoglienza i Comuni avrebbero bisogno di risorse aggiuntive «quantificabili tra i 500 e i 600 milioni di euro, che possono superare anche il miliardo nel caso in cui il quadro degli arrivi dovesse ulteriormente peggiorare». Perché l’Italia resta un Paese accogliente: «Il mondo intero dovrebbe esserci grato», ha detto ieri il sindaco di Lampedusa, Filippo Mannino, mentre la nave Diciotti della Guardia Costiera e altri due traghetti portavano via quasi 900 migranti dall’hotspot, comunque al collasso con 3 mila arrivi in 24 ore e solo 400 posti a disposizione. A Bari, infine, è arrivata la Geo Barents di Medici senza frontiere con i 190 migranti salvati nei giorni scorsi al largo della Libia. Adeel, 25 anni, prima di scendere ha regalato all’equipaggio la sua poesia in inglese: «Grazie a voi, persone del mare. Ci avete presi dall’inferno e portati in paradiso. Ci avete salvato. Non lo dimenticheremo mai». Migranti. Il dramma umano e le scelte miopi di Karima Moual La Stampa, 27 marzo 2023 Quel che succede con i migranti nel Mar Mediterraneo è una vergogna ben documentata da anni. Non è solo la fossa comune dell’umanità, ma un campo di battaglia dove da una parte abbiamo dei disperati in cerca di salvezza, dall’altra ci siamo noi. C’è l’Europa che ha deciso - in barba al diritto internazionale, e a quel sentimento di umanità e solidarietà verso chi ha tutto il diritto di essere accolto - di appaltare le frontiere a sud, in cambio di fondi consistenti, a dei gendarmi esterni senza alcuno scrupolo, affinché tengano i migranti, tutti, lontani dalla nostra vista. Inutile ripetere l’orrore dei lager libici, che fingiamo di non conoscere, e le varie reti criminali di trafficanti, perché complici sono anche gli europei. Quel che è ancora più aberrante è fingere di non vedere come si comporta la guardia costiera libica, dotata peraltro di motovedette italiane. Dalle immagini dell’aereo Seabird si vede chiaramente una parte importante della battaglia che si sta consumando al centro del mar Mediterraneo. La minaccia rivolta dai libici verso una nave di salvataggio con tanto di spari d'arma da fuoco. Un vero attacco non solo all’equipaggio della Ocean Viking ma anche a quelle persone che i volontari stavano cercando di salvare, presenti in un gommone evidentemente in grande difficoltà. Dalle immagini si vede come la Guardia costiera libica minacci l'equipaggio attaccandolo e sparando in aria, per impedirgli di soccorrere le persone in pericolo. E infatti la Ocean Viking è costretta ad abbandonare il campo. Del gommone pieno di migranti, invece, non sappiamo nulla. Le persone, presumibilmente subsahariane, sono state catturate e respinte in Libia. Eccola in tutta la sua chiarezza la battaglia del Mar Mediterraneo. Cinica e disumana. Una violazione del diritto internazionale commissionata e pagata dall'Italia e dalla Ue, dicono le Ong, ma è ancora peggio. Il bene e il male. La fatica di fare del bene e la sua fragilità, la violenza del male e la sua forza, arrogante e senza paura. Ecco, almeno questo punto deve essere chiaro. La criminalizzazione delle navi Ong da parte della politica che ora ci governa ha anche il braccio armato a sud. Tanto la carne da macello è quella dei migranti. Quelli che non vogliamo. Nonostante la propaganda del pugno duro contro i migranti, i disperati continuano ad emigrare e per mille ragioni che hanno un comune denominatore: a casa propria non c’è più speranza. I migranti continuano ad arrivare e a mettersi in mano ai trafficanti perché le vie legali per una vita migliore sono sempre più strette e mi dispiace ministro Piantedosi ma non erano le navi Ong il pull factor dell’emigrazione come non lo è l’opinione pubblica che lei ha segnalato come fattore attrattivo che annovera l’accettazione di questo fenomeno. La Tunisia è un Paese al collasso. Il presidente, Saied Kais, è inadeguato. Le conseguenze della guerra in Ucraina sono devastanti. Non a caso arrivano da lì le 3 mila persone sbarcate sulle nostre coste in sole 24 ore. E oltre a Tunisi ci sono anche la Libia, il Maghreb, il Medio Oriente e l’Africa subsahariana. Mondi e confini in subbuglio ed equilibri geopolitici in continuo cambiamento, che non hanno certo bisogno di una propaganda che criminalizza le Ong, né di incontri a Bruxelles spacciati come vertici dal risultato storico per il fenomeno migratorio dalla stessa premier Giorgia Meloni. È urgente un’operazione di verità che comprende anche un approccio di umiltà. Il fenomeno è complesso, e va gestito con realismo e unità da un fronte capace di raccogliere i maggior alleati possibili. Il rischio concreto è esserne travolti. I segnali ci sono già tutti. Tunisia, obbligati a fuggire di Francesca Mannocchi La Stampa, 27 marzo 2023 In tre mesi 12 mila migranti sono partiti dalle coste del Paese al collasso, 60 morti in pochi giorni. Colpa della deriva autoritaria del presidente Saied: un misto di razzismo, diritti negati e islamismo. I numeri degli arrivi dalla Tunisia di questi ultimi giorni raccontano ancora una volta un Mediterraneo di morti e dispersi. Sono state 60 le vittime del mare provenienti dalla Tunisia negli ultimi giorni, 34 le persone migranti disperse venerdì dopo che un’imbarcazione è affondata al largo delle coste tunisine, portando a cinque il numero dei naufragi in due giorni e portando il numero totale dei dispersi a 67, numeri in costante aggiornamento. Duemila gli arrivi solo nelle ultime ore, mentre dall’altra parte della costa, continua la conta dei morti. Il giudice tunisino Faouzi Masmoudi ha detto a Reuters che sono morte sette persone nel ribaltamento di una barca al largo di Sfax e secondo un funzionario della Guardia Nazionale, Houssem Jebabli, la Guardia Costiera avrebbe fermato 56 imbarcazioni dirette in Italia in due giorni, arrestando tremila migranti per lo più provenienti da Paesi dell’Africa sub-sahariana. Secondo le Nazioni Unite, dall’inizio dell’anno, cioè in poco meno di tre mesi sono arrivate dalla Tunisia 12 mila persone. Lo scorso anno erano state 1300. Dieci volte tanto. La premier Giorgia Meloni al vertice Ue ha detto che se crolla la Tunisia l’Italia deve aspettarsi l’arrivo anche di 900 mila persone e ha aggiunto che si impegnerà affinché il Paese accetti le condizioni del prestito del Fondo Monetario Internazionale, cioè due miliardi - ora sospesi a data da destinarsi - a fronte di cambiamenti radicali, riduzione del deficit in un Paese in cui il debito pubblico ha raggiunto l’83 per cento del Pil a fine 2020 e l’89 per cento a fine 2022. La crisi ha certamente a che fare con il costante peggioramento dell’economia di cui, poche settimane fa, gli analisti de lavoce.info sintetizzavano i numeri: il tasso di disoccupazione totale al 17.5 per cento, più acuta nei giovani. La percentuale dei giovani che lavorano nel settore informale, senza protezione sociale, è passata dal 33% nel 2013 al 42%nel 2019. Crisi di questa portata vengono spesso contrastate con l’aumento della spesa pubblica, e così è stato anche in Tunisia, dove negli ultimi anni è aumentato l’aiuto alle famiglie, sono aumentati i sussidi e i dipendenti pubblici (la massa salariale pubblica - come riporta lavoce.info - ha raggiunto il 15 per cento del Pil nel 2019 dall’11 per cento nel 2010). Esattamente gli ambiti in cui il Fondo Monetario chiede tagli draconiani. La stima di 900 mila persone della premier Meloni è probabilmente eccessiva ma i dati parlano chiaro: per un numero crescente di tunisini la situazione non è più tollerabile. Per il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, la soluzione è quella di sempre: è necessario, ribadisce, bloccare le partenze. Per questo ha annunciato una visita a Tunisi a fine aprile. L’auspicio è trovare interlocutori, stringere accordi, cioè come d’abitudine di tutti gli ultimi governi, indirizzare soldi in cambio del pattugliamento delle coste. Il punto da cui ripartire per capire cosa stia davvero accadendo in Tunisia è proprio questo: l’Europa, convocata giustamente, a trovare una comune politica per la gestione di un fenomeno destinato a mutamento come il flusso migratorio, conosce davvero i suoi interlocutori, conosce l’agenda delle istituzioni che finanzia? Il caso tunisino è un caso di scuola. Negli ultimi anni, a fronte della ripetuta erosione dei diritti civili, l’Europa ha taciuto continuando a finanziare governi che - anche in virtù dell’assenza di sanzioni - inasprivano misure repressive. È dallo stato dei diritti in Tunisia che bisogna riavvolgere, dunque, il nastro, per giudicare l’efficacia degli accordi che l’Europa tutta e l’Italia in particolare, hanno stretto finora, perché i numeri degli arrivi da Sfax, da Zarzis e da altri porti nel Sud del Paese non hanno solo a che fare con l’aggravarsi delle condizioni economiche, ma molto con la deriva autoritaria impressa dal capo di Stato Kais Saied e con il progressivo ridursi degli spazi di dissenso. Il deterioramento dei diritti umani - Nell’ultimo mese e mezzo le tensioni in Tunisia sono aumentate rapidamente. L’undici febbraio, Kais Saied ha preso di mira gli oppositori, ordinando l’arresto di almeno dodici oppositori tra cui sindacalisti, giornalisti, avvocati, giudici e un imprenditore. Secondo quanto riferito dalle organizzazioni umanitarie locali sarebbero una dozzina gli altri attivisti prelevati dalle loro case e trasferiti con la forza in strutture carcerarie e detenuti senza accuse e senza la possibilità di vedere i loro avvocati. Per arginare l’ondata di proteste seguita agli arresti, Saied ha spostato l’attenzione su un «nemico» che riteneva più semplice e contro il quale riteneva - i fatti gli hanno dato ragione, purtroppo - di raccogliere il consenso dell’opinione pubblica. Alla fine del mese scorso, la Guardia nazionale tunisina ha annunciato che più di 100 migranti erano stati arrestati per aver attraversato illegalmente il confine e Saied, parlando alla nazione, ha chiesto «un’azione urgente» per fermare il flusso di migranti in Tunisia lanciando accuse complottiste di «un accordo criminale... per alterare la struttura demografica della Tunisia». Da allora le comunità di migranti sono state prese d’assalto, donne e uomini picchiati, cacciati dalle loro abitazioni, costretti in strada. Molti di loro, nell’impossibilità di essere aiutati dalle organizzazioni umanitarie e dalle agenzie delle Nazioni Unite, e di fronte all’inazione delle ambasciate e dei consolati dei Paesi di origine non hanno altra scelta: provare a fuggire attraversando il Mediterraneo Centrale. Con qualsiasi mezzo, qualsiasi meteo, a qualsiasi prezzo. La posizione di Kais Saied sui migranti segue le teorie sempre più diffuse e proposte in Tunisia dal Partito Nazionalista. Il cuore della propaganda razzista e suprematista del movimento è che le fatiscenti condizioni economiche e sociali dipendano dai «nemici»: migranti e partito islamista Ennahda. Il cuore della soluzione che propongono è deportare «migranti irregolari» e «qualsiasi immigrato dall’Africa sub-sahariana che ha commesso un crimine in Tunisia o disturbato l'ordine pubblico». La concatenazione allarmante di eventi è solo l’ultima tappa di una tendenza repressiva che precede la presidenza di Saied ma che sotto il suo mandato si è aggravata. Prima la sospensione del Parlamento, poi il suo scioglimento, poi le misure contro la libertà d’espressione. Nell’estate del 2021 Saied ha decretato che chi avesse utilizzato reti di comunicazione e informazione come Internet per diffondere «false informazioni e voci» sarebbe stato soggetto a punizione, sancendo una limitazione della libertà di parola. Aumentava, parallelamente, la violenza della polizia: arresti sistematici di attivisti, leader Lgbtq+, nel duplice tentativo di arginare il dissenso e strizzare l’occhio al suo elettorato conservatore. Inoltre, almeno dal luglio 2021, i detenuti possono essere trattenuti senza accesso all’assistenza legale, i civili sono stati processati in tribunali militari e numerosi oppositori politici sono stati sottoposti agli arresti domiciliari. Mentre i diritti civili venivano consumati, uno ad uno, la comunità internazionale è rimasta per lo più in silenzio. I diritti delle donne - Non va meglio per i diritti delle donne. Come nota Ikram Ben Said, attivista tunisina, fondatrice di Aswat Nisaa, un’organizzazione che si concentra sulla partecipazione politica delle donne, la Tunisia aveva una delle leggi più progressiste al mondo in materia di partecipazione politica delle donne, dopo che la legge elettorale del 2011 aveva imposto il partito di genere nelle liste elettorali. Scrive Ben Said su Carnegie Endowment for International Peace che la legge rifletteva «l’impegno dello Stato a raggiungere l’uguaglianza di genere e la trasformazione sociale attraverso l’equa rappresentanza degli interessi delle donne». La Costituzione voluta da Kais Saied nel 2022, e la rimozione della parità di genere durante l’ultima tornata elettorale, hanno fatto precipitare il numero di donne in Parlamento. Solo il 16% rispetto al 31% delle elezioni del 2014. Significa che rispetto a dieci anni fa, oggi, nel Parlamento dell’uomo che si era presentato nel 2019 fa come riformatore, come l’unico in grado di garantire la stabilità del Paese, siedono metà delle donne. E metà delle donne significa metà delle possibilità di influenzare l’agenda politica. Ikram Ben Said riannoda il nastro, tornando alla campagna elettorale di Saied. Era tutto già visibile, a volerlo vedere. La campagna elettorale di quattro anni fa, infatti, si poggiava su una piattaforma conservatrice. Saied era stato molto chiaro: nessuna modifica alla legge sull’eredità tunisina che concede alle donne metà di quanto spetta ai loro fratelli. Poi una volta eletto, nel 2020, aveva affermato che la questione della disuguaglianza nell’eredità era già risolta chiaramente nel Corano. Per tamponare la frattura con le opposizioni o forse per sembrare meno reazionario ai suoi alleati sull’altra sponda del Mediterraneo, Kais Saied, l’anno dopo ha nominato Najla Bouden capo del governo. La prima donna a ricoprire quel ruolo nel Paese ma non per questo affrancata dalle posizioni del presidente, anzi. È stata proprio Bouden ha abrogare la Circolare n. 20 cioè quella che garantiva la parità di genere nelle nomine dei funzionari governativi. Solo colpa di Saied? Anche prima della presidenza Saied le violazioni dei diritti umani erano pane quotidiano in Tunisia, erano i tempi del regime di Zine El Abidine Ben Ali e la limitazione sistematica delle libertà civili in nome della sicurezza erano prassi. Poi c’è stata la rivoluzione del 2011 che ha avviato il Paese sulla strada della democratizzazione, alcuni passi erano stati fatti e significativi ma tutti i governi hanno faticato (leggasi fallito) nel rinnovare le forze di sicurezza. Nessun governo ha attuato riforme adeguate sul sistema giudiziario contribuendo a violazioni sistematiche dei diritti umani. Per anni gli abusi della polizia, la loro impunità, hanno alimentato il malcontento e la marginalizzazione della popolazione, così quando nel 2019 Kais Saied si è proposto come riformatore, come giurista in grado di cambiare, finalmente, una situazione stagnante, il consenso è stato ampio. Ci ha messo poco più di un anno, a rivelare che i contorni della sua proposta politica fossero autoritari, dall’altra parte una società civile fiaccata da anni di politiche che avevano favorito le fratture sociali anziché sanarle, impedendo un confronto costruttivo e favorendo il terreno per l’ascesa di un capo di stato illiberale e antidemocratico. E ora l’Europa? Fatte queste premesse, è sulla base di questi eventi, che l’Europa dovrebbe interrogarsi prima delle visite di Stato, e in vista degli incontri bilaterali per risolvere questioni cruciali come la gestione dei flussi migratori. Il punto non è più solo se stringere o meno accordi con Paesi di transito, che natura abbiano questi accordi, i punti sono due. Il primo: siamo sicuri di conoscere chi siano i nostri interlocutori, quale sia l’agenda che li muove? Il secondo: abbiamo analizzato le conseguenze dei nostri accordi precedenti, per poter prevedere così i potenziali effetti degli accordi che ci apprestiamo a stringere oggi? L’agenda che dovrebbe muovere l’Europa dovrebbe essere, innanzitutto, quella di ripristinare un equilibrio sociale ed economico. Vanno prima promosse le libertà civili, rafforzate le istituzioni democratiche e poi e solo poi, stretti accordi con Paesi partner. Il rischio è, come dimostrato da tutti gli ultimi accordi, memorandum, negli ultimi anni, che i soldi destinati ai Paesi di transito finiscono per favorire regimi illiberali che si presentano come gli unici in grado di gestire crisi e mantenere l’ordine. La priorità europea in termini di sicurezza ha schiacciato l’interesse verso le condizioni delle persone migranti e gli abusi sistematici sulla società civile in Tunisia. La preoccupazione per i diritti umani è stata controbilanciata dal desiderio di frenare gli arrivi, di sbloccare le partenze, primo comandamento di ogni governo italiano da dieci anni a questa parte. La strategia ha fallito. Lo dicono i numeri. Affidarsi a leader autoritari non funziona. È arrivata - e per i morti in mare è troppo tardi - l’ora di un approccio nuovo. Israele. Le spaccature sulla giustizia: licenziato il ministro della Difesa, scontri nella notte di Davide Frattini Corriere della Sera, 27 marzo 2023 Il premier Netanyahu licenzia Yoav Gallant che gli aveva chiesto di fermare la riforma della giustizia in Parlamento. Ma sembra che in realtà sia vicino a un ripensamento. Scontri davanti alla sua abitazione, si dimette anche il console a New York. Benjamin Netanyahu e la moglie Sara sono atterrati in Israele sabato notte a poche ore dal discorso alla nazione di Yoav Galant, il ministro della Difesa: per primo ha ordinato il rompete le righe e ha chiesto a Bibi, com’è soprannominato, di fermare la marcia forzata in parlamento di quel piano giustizia che l’opposizione e gli israeliani in strada a contestare da 11 settimane lo considerano un blitz per smantellare la democrazia. «La spaccatura nella società sta coinvolgendo l’esercito. Questa situazione rappresenta un pericolo grave e imminente per il Paese. Non lo permetterò», ha dichiarato l’ex generale entrato in politica nel Likud di Netanyahu. Che ci ha messo un giorno a licenziarlo, mentre i manifestanti hanno impiegato pochi minuti a invadere di nuovo le strade dopo l’annuncio: centinaia di migliaia nei viali di Tel Aviv e verso la residenza del premier a Gerusalemme. A New York il console Asaf Zamir se ne va per protesta, le università oggi sono in sciopero e i sindacati preparano il blocco generale. Le notizie da casa avevano inseguito il leader conservatore anche a Londra. e l’aragosta, seppur cucinata da Gordon Ramsay, rischia di restare sullo stomaco a Benjamin Netanyahu . Che è stato fotografato dai vicini di tavolo a Londra mentre gustava le ricette dello chef britannico dopo l’incontro con il primo ministro Rishi Sunak. Così sul piatto già strapieno di questioni da risolvere il premier israeliano si è ritrovato anche le critiche per aver dissacrato lo Shabbat - la cena era di venerdì sera - e aver mangiato un crostaceo, proibito dalla religione ebraica. Menù che diventa politico perché la sua coalizione di estrema destra punta a sfornare la «legge del pane azzimo» negli ospedali in tempo per le festività pasquali tra una decina di giorni: i partiti ultraortodossi vogliono impedire a medici, pazienti, parenti in visita di mangiare in corsia una pagnotta, anche solo una pita per gli arabi. Da Washington gli americani dicono di essere «profondamente preoccupati» e riecheggiano le parole di Galant: «La capacità di reazione delle forze armate potrebbe compromettersi». I riservisti rifiutano di presentarsi all’addestramento e stanno già inceppando l’operatività di unità d’élite come lo Squadrone 69 dell’aviazione (sono i piloti dei gli F-15i più avanzati, quelli che dovrebbero guidare un’eventuale missione contro i centri atomici sviluppati da Teheran, attacco che il primo ministro ripete di giudicare sempre più vicino). Si rivoltano anche i combattenti delle forze speciali (pure la prestigiosa Sayeret Matkal in cui ha servito Netanyahu) fino ai militari che devono prestare servizio nei territori palestinesi, dove ci sarebbe stato un aumento delle rinunce fino al 15 per cento. Lo Stato Maggiore ha convocato i giornalisti israeliani per rendere pubblici i timori: «I nemici ci vedono deboli, calcolano che le nostre possibilità di risposta a un attacco siano limitate», ha spiegato una fonte precisando che questa analisi è condivisa dai servizi segreti. Per la prima volta anche i due partiti ultraortodossi sembrano proporre una pausa ma Netanyahu per ora non ha intenzione di fermarsi: vuole approvare entro questa settimana il testo che gli garantisce di controllare le nomine dei giudici, di fatto sottoponendo la Corte Suprema alle decisioni dell’esecutivo senza possibilità di respingere leggi in contrasto con i diritti civili o le norme democratiche. Libano. La Francia arma la repressione delle proteste: tante denunce, zero indagini di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 27 marzo 2023 Omar ha subìto danni permanenti a un occhio centrato da un candelotto di gas lacrimogeno l’8 agosto 2020 durante una protesta a Beirut. Lo stesso giorno, Hussein ha rischiato di perdere un occhio colpito da un proiettile di gomma. Dall’ottobre 2019 il Libano è attraversato da proteste di massa: contro la crisi economica, contro la corruzione, contro l’impunità per i responsabili della strage al porto di Beirut, contro il mancato accesso alle cure mediche e per altri motivi ancora. Nel rapporto pubblicato da Amnesty International a metà marzo sulle armi meno letali che diventano letali, c’è spazio anche per la situazione libanese: l’uso sconsiderato di proiettili di gomma e di metallo e dei gas lacrimogeni esplosi da distanza ravvicinata e mirando alla testa, al petto e alla schiena ha causato almeno tre morti e centinaia di feriti. Le numerose denunce presentate dai collettivi di avvocati non hanno dato alcun risultato: zero indagini. Ma chi è che arma la repressione delle proteste libanesi? La Francia. Il Crisis Evidence Lab di Amnesty International ha identificato proiettili di gomma Sapl Gomm-Cogne, candelotti di gas lacrimogeno Nobel Sport Sécurité MP7, Alsetex CM4 e CM6, lanciatori Alsetex Land Cougar dodici predisposti per essere montati sui veicoli militari; lanciatori di granate Alsetex Chouka e Cougar e veicoli blindati Arquus Sherpa. Le leggi in vigore in Francia sull’esportazione di armi permettono il loro trasferimento a forze di sicurezza di Stati che violano i diritti umani. Amnesty International e decine di altre organizzazioni per i diritti umani chiedono da tempo un trattato internazionale che metta al bando la produzione e il commercio di armi ed equipaggiamenti intrinsecamente atti a causare violazioni dei diritti umani. *Portavoce di Amnesty International Italia