Detenute madri e incinte. La Lega ribalta la legge contro i bambini in cella di Antonia Ferri Il Foglio, 26 marzo 2023 Il Pd chiedeva di togliere le detenute con figli minori di 6 anni dagli Icam e costruire più case famiglia. Un blitz parlamentare e un nuovo ddl del Carroccio apre al carcere anche per le donne incinte. Intanto il Comitato anti tortura del Consiglio d’Europa denuncia le condizioni delle nostre carceri. “Il presidente Ciro Maschio comunica che è stata ritirata in data odierna dal gruppo del Partito democratico e dal collega Enrico Costa la proposta di legge C. 103 Serracchiani”. Era quasi fatta. Una proposta di legge già di fatto approvata nel 2022 durante il governo Draghi con il voto di Forza Italia, Lega e una parte di FdI che si era slegata dall’astensione decisa dal partito. Il principio ispiratore, lo recita lo stesso testo ormai ritirato, era “mai più bambini in carcere”. Per farlo, l’idea era quella di costruire più case famiglia con i fondi già stanziati - circa un milione e mezzo di euro - e togliere le donne incinte e con figli minori di 6 anni dal circuito Icam, quello degli istituti a custodia attenuata, ma pur sempre detentivi. Giovedì però il Pd ha ritirato le firme al disegno di legge dopo la conclusione dell’esame in commissione Giustizia della Camera, in cui la maggioranza aveva presentato e approvato alcuni emendamenti che secondo i dem snaturavano gli obiettivi e il senso della proposta originaria. Una postilla avrebbe introdotto nel ddl una deroga specifica alla proposta Serracchiani: le madri fuori dal carcere sì, a meno che “l’indagata sia stata già dichiarata recidiva o delinquente abituale o professionale”. La vicepresidente dem al Senato, Anna Rossomando, ha sintetizzato così: “In sostanza hanno provato a inserire il carcere per le donne incinte in un disegno di legge che invece puntava a togliere i bambini dal carcere”. La proposta di legge è quindi decaduta, essendo stata presentata dal Pd, in quota opposizione. Ieri sera poi è arrivata una controproposta a firma Lega: il deputato Jacopo Morrone ha presentato un ddl che mira a cancellare il “differimento della pena automatico per le donne incinte”. Il che significa, esplicita il testo, che “essere incinta e/o madre di bambini piccoli non può essere il passepartout per le borseggiatrici abituali e professionali per evitare il carcere e continuare a delinquere”. In tutta risposta Matteo Salvini ha ribattuto: “Il Pd libera le borseggiatrici rom che usano bimbi e gravidanza per evitare il carcere e continuare a delinquere. Vergognatevi” - attribuendo, per altro, a un’intera categoria, in questo caso etnica, la colpa di un reato, i quali per ordinamento sono sempre dei singoli. La battaglia parlamentare, comunque, si è consumata sul destino di 23 donne, con 26 figli al seguito. Un numero già ridimensionato rispetto ai 48 bambini reclusi del 2019 e che tutto sommato sarebbe facile inserire all’interno di case famiglia. Le quali, come sottolinea in un’intervista alla Stampa il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, sono ancora molto circoscritte. “Sono solo a Roma e a Milano” e, inoltre “possono rappresentare un momento educativo molto rilevante per chi ha tendenza a ripetere i reati”. Ovvero, proprio quelle donne recidive che il codicillo della maggioranza escludeva dalla proposta Serracchiani. Inoltre, anche per gli Icam, i quali essendo penitenziari sono “strutture alle quali ricorrere solo in casi estremi”, la scelta è poca. “In Puglia, Lazio e Umbria non ci sono Icam” dice Palma, e “quindi le madri con i figli si trovano in sezioni che non sono una soluzione adeguata perché anche se ci sono culle e pareti colorate si è comunque in detenzione”. Intanto il Cpt, l’organo anti tortura del Consiglio d’Europa, nel rapporto basato sulla visita condotta un anno fa in Italia, chiede di migliorare le condizioni di vita dei detenuti, e misure specifiche per le donne e i transessuali in prigione nel nostro paese. Nel report Strasburgo torna a domandare anche l’abolizione dell’isolamento diurno e il riesame della gestione dei detenuti sottoposti al regime “41-bis”. Tra la fine di marzo e i primi giorni di aprile del 2022 il Cpt fatto un sopralluogo in Italia dove, tra le altre strutture, ha visitato anche quattro carceri: San Vittore a Milano, l’istituto di Monza, il Lorusso e Cutugno a Torino e Regina Coeli a Roma. Il Comitato europeo denuncia violenze e intimidazioni tra detenuti, in particolare nelle carceri di Lorusso, Cutugno e Regina Coeli, e un sovraffollamento in tutti gli istituti di pena che arriva al 152 per cento nella prigione di Monza. La destra chiede una legge contro le detenute madri rom che viola il diritto di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi Il Riformista, 26 marzo 2023 Caro Direttore, lei sa perfettamente cos’è una legge-fotografia. È quella norma che, secondo i critici del diritto, è stata a tal punto pensata e ritagliata intorno alla figura e alla fisionomia dell’autore di reato che è come se ne portasse scritti, nero su bianco, il nome e il cognome. Gli emendamenti presentati da Fratelli d’Italia e immediatamente dopo la proposta di legge della Lega sul tema dei bambini da 0 a 3 anni in carcere, è dichiaratamente e sfrontatamente una legge contro una specifica categoria femminile: quella che Matteo Salvini definisce “borseggiatrici rom che usano bimbi e gravidanza per evitare il carcere”. Una premessa: far risalire a un intero gruppo etnico una fattispecie penale è estremamente pericoloso e contraddice i fondamenti del diritto contemporaneo. Detto ciò, se un certo numero di donne di origine rom ha fatto e continua a fare esperienza del carcere (in genere per reati di poco conto), ciò discende anche - attenzione: abbiamo scritto anche - dal fatto che l’Italia ha adottato, su alcuni temi, una politica costantemente guidata dal pregiudizio etnico, la creazione dei campi nomadi ne è l’espressione più brutale. In altre parole, se produci segregazione abitativa è inevitabile produrre reati conseguenti. Essere incinte, inoltre, non è stato per nulla un salvacondotto e lo sa bene chi negli anni ha lavorato all’interno, per esempio, di Rebibbia femminile. A queste donne le pene venivano sospese per poi doverle subire appena il figlio fosse nato. Quei reati, oltretutto, in origine non prevedevano la custodia in carcere ma in mancanza di “un domicilio idoneo” finivano per essere scontati lì, nella sezione nido delle carceri italiane. Il meccanismo era ed è marcio e il disegno di legge proposto dal deputato Paolo Siani lo aveva compreso, puntando sulle case-famiglia e sul supporto al nucleo madre-bambino, che andasse oltre un dispositivo carcerocentrico. A Leda Colombini, partigiana e deputata della Repubblica, venne dedicata la prima casa- famiglia per madri detenute a Roma. Più di venti anni fa Colombini diceva che “se si concedessero gli arresti domiciliari alle donne condannate per reati che prevedono soluzioni alternative alla detenzione, il 97% delle donne non varcherebbe mai la soglia dei penitenziari, e con esse neanche i bambini”. Colombini, nel dicembre del 2011, morì davanti al carcere di Regina Coeli all’età di 82 anni e quella percentuale, così come la sua storia, hanno, dopo i fatti di questi giorni, un sapore di amara e dolente verità. Madri, carceri e torture. Dove è finito il rispetto? di David Allegranti La Nazione, 26 marzo 2023 “Depenalizzare il reato di tortura significa misconoscere il pieno disvalore sociale di queste pratiche: ma si scherza?”, si chiede Leonardo Bianchi, professore di Diritto costituzionale a Firenze. La giustizia resta un gigantesco punto interrogativo, a voler essere gentili, del governo di destra-centro, che ha esordito con il decreto rave - inventandosi un nuovo reato laddove non c’erano né emergenza né urgenza sociale - e ora prosegue con altre sontuose trovate sul diritto penale. I protagonisti sono Fratelli d’Italia e Lega, mentre i berlusconiani - i liberali, in teoria - probabilmente dormono. Gli italo-fratelli vogliono abrogare il reato di tortura. La proposta di legge, prima firmataria la deputata Imma Vietri - la cui competenza in materia al momento mi sfugge, ma di certo ve ne sarà traccia - è stata appena assegnata alla Commissione Giustizia di Montecitorio: “Per tutelare adeguatamente - c’è scritto nel testo - l’onorabilità e l’immagine delle Forze di polizia, che ogni giorno si adoperano per garantire la sicurezza pubblica rischiando la loro stessa vita, e per evitare le pericolose deviazioni che l’applicazione delle nuove ipotesi di reato potrebbe determinare”. L’onorabilità della polizia penitenziaria, tuttavia, non viene scalfita dal reato introdotto nel nostro ordinamento nel 2017, grazie al quale possiamo cercare di fare luce sulle vicende di Ferrara, San Gimignano, Santa Maria Capua Vetere, Firenze, solo per citarne alcune, ma dalle stesse violenze commesse contro i ristretti. “Depenalizzare il reato di tortura significa misconoscere il pieno disvalore sociale di queste pratiche: ma si scherza?”, si chiede Leonardo Bianchi, professore di Diritto costituzionale all’Università di Firenze: “Opposizione senza sconti ad un tentativo siffatto che trasuda incompetenza e/o malafede, mentre mina le basi stesse dello Stato di diritto. Quanto all’argomentazione, ‘Dove vai? Son cipolle’, si dice a Firenze”. L’altra questione, ancora più complessa, riguarda i bambini figli di madri detenute. Al momento - la statistica è aggiornata al 28 febbraio - ci sono 23 madri con 26 bambini che stanno crescendo in prigione. E se è vero che il carcere, per dirla con Tocqueville, è “l’università del crimine”, questi bambini sono già iscritti all’asilo nido del crimine. Che cosa potrà mai venirne fuori, di buono? Niente, è evidente. Orbene, la Lega - primo firmatario il capogruppo in Commissione Giustizia della Camera Jacopo Morrone - ha depositato una proposta di legge che anziché tutelare e migliorare le condizioni di vita delle detenute madri, rende la reclusione più afflittiva: nessun differimento della pena automatico per le donne incinte così come prevede l’articolo 146 del codice penale. “Comportamento inqualificabile per una coalizione garantista solo a parole”, osserva Enrico Costa, deputato di Azione-Italia Viva: “Ancora una volta la maggioranza cerca un bersaglio, attaccando a testa bassa diritti e garanzie. Mentre se la prendono con i bambini, con le madri detenute, un interrogativo sorge spontaneo: ma il ministro Nordio non dice niente?”. La domanda è più che legittima. Il ministro della Giustizia sembra essere il grande assente. Si occupa di teoria del diritto partendo da una posizione - sulla carta - liberale, ma il governo di cui è ministro se ne infischia di certi principi in nome del solito populismo giudiziario. Carceri, interrogazione Pd all’Ue: “In Italia situazione allarmante, intervenite” adnkronos.com, 26 marzo 2023 Picierno: “Sovraffollamento e sistematica violazione dei diritti umani sono vera emergenza ma il Governo sembra del tutto indifferente e Fdi propone di eliminare il reato di tortura”. “La situazione delle carceri in Italia è allarmante e richiede interventi urgenti e strutturali. Per questo ho depositato un’interrogazione alla Commissione Europea per chiedere se è conoscenza della situazione in Italia e se prevede di adottare delle misure per farvi fronte”. Così Pina Picierno, vicepresidente del Parlamento Europeo. “Il sovraffollamento e la costante violazione dei diritti più elementari - prosegue - rappresentano una vera e propria emergenza come ha evidenziato il Cpt, l’organo antitortura del Consiglio d’Europa. Il Governo però sembra del tutto indifferente e, anzi, abbraccia un giustizialismo disumano, che aggrava e inasprisce i problemi già esistenti”. “La maggioranza, con un colpo di mano della Lega, modifica la legge per costruire nuove case famiglia e si scaglia contro i bambini. Sceglie infatti di trattenere in carcere 26 bimbi al seguito di 23 madri detenute, in quanto recidive. Come se non bastasse, Fdi propone una legge per abrogare il reato di tortura, cancellando di fatto gli articoli 613 bis e 613 ter del Codice penale. Le misure proposte dal Governo - conclude - violano i diritti sanciti nei trattati e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione”. In protesta al Quirinale, Mattarella può salvare Cospito di Lello Valitutti Il Riformista, 26 marzo 2023 Sono arrivato di fronte al Quirinale intorno alle undici e mezza, mi sono messo alla porta principale, quella dove c’è l’obelisco, ci sono le statue col cavallo, il monumento. Mi sono messo li e mi hanno subito circondato: polizia, carabinieri. Mi hanno detto che lì non si poteva stare, che dovevo spostarmi e mi sono spostato nella via di fronte al Quirinale ma più indietro. La situazione che si vede adesso è paradossale. Io sono qui solo con un cartello, hanno chiuso la piazza del Quirinale ai turisti, non fanno più entrare nessun turista, nessuno può entrare nella piazza e ci sono fra i 40-50 poliziotti, carabinieri e celerini che sono tutti qui a guardare me. Sono passati più di cinque mesi, siamo nel sesto mese dello sciopero della fame di Alfredo (Cospito ndr) e il presidente della Repubblica non si è mai pronunciato, non ha detto una parola. Ma in realtà lui è il garante della Costituzione e di fronte a fatti di questa gravità deve prendere posizione, è troppo facile starsene zitti. Io sono venuto qua stamattina e non chiedo niente direttamente a Mattarella. Posso leggere il cartello che ho scritto io e che ora ho sulle ginocchia. Ripeto: son da solo. Il cartello dice esattamente: Da oltre cinque mesi lo Stato sta assassinando Alfredo, un crimine oltre l’umanità che viola le leggi, la Costituzione, i trattati internazionali. Alfredo muore per le sue idee anarchiche. Il garante della Costituzione tace, perché? Il suo silenzio pesa come un macigno. Fuori Alfredo dal 41bis, no al 41bis, no alla tortura, no al silenzio complice. A questo punto penso che sia giusto chiedere con energia che lui (Mattarella ndr.) si pronunci. Ha scelto di fare il presidente della Repubblica, è garante della Costituzione, deve assolutamente intervenire in questa situazione veramente abnorme. Chi vede Alfredo adesso resta impressionato, non è più un essere umano, è ridotto a pelle e ossa. Io starò qua oggi fino verso le quattro e mezza. Tornerò nei prossimi giorni se lui non si pronuncia. A un certo punto mi metterò fisso lì e dirò: “Non mi muovo più di qua fino a che non si pronuncia”. E potrei accompagnare questo con uno sciopero della fame. Non ne sono sicuro però esiste questa possibilità, la sto valutando. Non son sicuro perché nelle mie condizioni duro poco, però potrei anche farlo. L’ho fatto adesso per l’aggravarsi della situazione di Alfredo perché si ha la sensazione che per quanto sia un uomo di ferro non possa reggere a lungo e quindi vogliamo che ci sia un intervento, vogliamo cercare di salvarlo, di salvarlo a tutti i costi. Di fare tutto il possibile per salvarlo anche perché quando poi ci saranno le reazioni, si ricordi la gente, che noi siamo undici mesi che stiamo facendo di tutto per evitare il degenerare della situazione. Ci stiamo battendo in tutti i modi: con gli avvocati, noi, con tanta gente onesta che in Italia c’è che ci sta appoggiando. Tante persone insieme che cosa vogliono? Vogliono evitare che la situazione degeneri. E contro abbiamo trovato veramente un muro di indifferenza, di odio, di menefreghismo. Se muore Alfredo la situazione degenera necessariamente. È inevitabile che la situazione degeneri. Degenera perché lui muore, è la più drammatica delle degenerazioni per cui non c’è rimedio e poi ci saranno - è opinione mia personale - penso ci saranno reazioni in Italia ma non solo in Italia. In tanti Paesi del mondo ci saranno reazioni. La strana morte di cui è stata fatta costantemente la telecronaca, una tortura che ha coinvolto tutti quelli che vogliono bene ad Alfredo. E tutta la gente, che è tanta, le brave persone che ci sono in Italia, che sono tante, anche loro sono tutte esterrefatte. Siamo tutti esterrefatti dalla caparbietà con cui si vuole continuare. E poi noi cosa chiediamo? Che venga rispettato il diritto - che non è il nostro, è il loro - e che venga rispettata la Costituzione. Quando tu chiedi queste cose non puoi ricattare nessuno, chiedi che vengano applicate le leggi e ci fan passare come quelli che ricattano. Cosa ricattiamo? Siamo ricattati casomai! Noi fino all’ultimo, fino a che Alfredo respira, lotteremo per evitare che muoia. Se Alfredo morirà la gente deve capire di chi è la responsabilità e deve capire quanto è orribile quello che sta succedendo. Caso Cospito, Del Mastro: “Richieste irricevibili” di Annarita Digiorgio Il Giornale, 26 marzo 2023 Il Sottosegretario alla giustizia respinge le condizioni poste dal terrorista per interrompere lo sciopero della fame. Alfredo Cospito era pronto a farsi morire di fame in carcere, ora invece chiede i domiciliari. E addirittura pone le condizioni ai magistrati di sorveglianza. O i giudici lo mandano a casa, oppure liberano altri detenuti attualmente sottoposti al 41 bis “persone anziane o malate che vogliono soltanto tornare a casa dalle loro mogli”, è la richiesta fatta da Cospito al tribunale di Milano. “A casa potrebbe leggere, studiare, ricominciare, ragionare, scrivere. La sua battaglia è quella - ha spiegato il suo avvocato- essere in salute non vuol dire mangiare, non sono un somaro per cui se mangio tanta erba sto bene, l’essere umano deve poter crescere intellettualmente e lo fa solo attraverso lo studio e la lettura, altrimenti non è vita”. Un’alternativa avanzata nel corso dell’udienza sul differimento della pena ai domiciliari a casa della sorella, con cui cerca di uscire vincente da quella che è una sfida politica, sebbene i giudici milanese non siano chiamati a decidere sul regime del 41 bis, ma solo sul suo stato di salute e sulla compatibilità in un istituto di pena. Il collegio si è riservato e non deciderà prima di lunedì e comunque nei cinque giorni concessi dalla legge. Condizioni respinte dal sottosegretario alla giustizia Andrea Del Mastro: “Le irricevibili richieste di Cospito di revocare il 41 bis ad alcuni mafiosi dimostrano ancor più che l’istituto stesso del 41 bis è stato posto sotto attacco dal terrorismo”. Secondo il sottosegretario: “L’aggressione al carcere duro è sempre stata la battaglia della criminalità organizzata che oggi trova fiancheggiatori nel mondo del terrorismo e un testimonial in Cospito. Non vacilleremo mai sul 41 bis e su tutti gli istituti di contrasto alla criminalità organizzata”. Sul no ai domiciliari si sono espressi in una relazione la procura generale di Torino e quella nazionale Antimafia, che hanno ribadito la pericolosità dell’uomo accusato anche dell’attentato del 2006 contro la Scuola carabinieri di Fossano (Cuneo), così come, oralmente, la procura generale di Milano. Un no sostenuto dalla giurisprudenza che stabilisce, in casi simili, che la richiesta va respinta “se la patologia è autodeterminata”. Nel frattempo proseguono cortei e tafferugli dei terroristi in suo sostegno. Oggi Venezia si è blindata preparandosi alla manifestazione. L’allarme era scattato dopo l’annuncio che gruppi anarchici, provenienti da varie regioni ma anche dall’estero, intendevano manifestare in Campo Santa Margherita a sostegno di Alfredo Cospito, ma soprattutto in vista del processo d’appello che vede imputato dal 29 marzo nell’aula bunker di Mestre lo spagnolo Juan Antonio Sorroche, 44 anni, condannato in primo grado a 28 anni per l’attentato nel 2018 al K3 di Villorba, sede della Lega trevigiana. Sorroche quattro anni prima, nel 2014, era stato accusato di atti di terrorismo con ordigni esplosivi per essere stato l’autore anche dell’attentato al Tribunale di sorveglianza di Trento. C’è stato qualche momento di tensione, nel quale agenti in tenuta antisommossa e manifestanti hanno avuto un contatto diretto, si è avuto solo nella fase finale della protesta, mentre il corteo stava rientrando a Piazzale Roma. Gli striscioni dei manifestanti: “Fuori Alfredo dal 41bis” e “Stragista è lo Stato. Solidarietà con Anna e Alfredo”. Mentre la città lagunare affrontava la paura di una possibile azione distruttiva, la polizia compiva alcune perquisizioni a Ravenna in relazione ad almeno una dozzina di volantini scritti a mano e trovati appiccicati sui muri del centro della città il 24 febbraio scorso a favore della liberazione di Cospito dal 41bis. Tra le frasi riportate sui volantini, sequestrati dalla Digos, oltre a richiami sulla liberazione dell’anarchico e a invettive a magistrati, forze dell’ordine, al Pd e anche a giornalisti, politici e “cittadini silenziosi”, compare un attacco esplicito alla magistratura: “Si Alfredo muere todos los jueces son un objetivo”, cioè se Alfredo muore tutti i giudici sono un bersaglio. Proprio il 24 febbraio la Cassazione avrebbe dovuto decidere sulla richiesta di revoca del carcere duro per Cospito. Sono quattro per ora gli indagati in concorso, tre donne e un uomo, di età comprese tra 32 e 63 anni, per minacce a corpo giudiziario e imbrattamenti aggravati. Farebbero parte, secondo l’ipotesi accusatoria, di un gruppo anarco-comunista attivo a Ravenna chiamato La Comune. Ergastolo ostativo. Esce in permesso premio dopo 30 anni in cella, la metà dei quali al 41bis di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 26 marzo 2023 Sulla vicenda umana e giudiziaria di Giuseppe Grassonelli, rientrato in Sicilia dalla Germania per vendicarsi dopo essere scampato a ben quattro agguati, è stato scritto anche un libro, “Malerba”, dal giornalista Carmelo Sardo. Trent’anni passati in carcere, la metà dei quali trascorsi al 41bis, fino al permesso premio. Dodici ore in cui è potuto uscire dall’istituto penitenziario di Opera, alle porte di Milano, perché secondo i giudici ha dato dimostrazione concreta di ravvedimento rispetto al suo passato criminale, sebbene non abbia mai fornito informazioni utili alle indagini né abbia collaborato fattivamente con la giustizia. Per il tribunale di Sorveglianza di Milano, Giuseppe Grassonelli, 58 anni, capo della Stidda di Porto Empedocle, in provincia di Agrigento, meritava quelle 12 ore fuori dal carcere “in un’ottica di risocializzazione”. Attualmente sottoposto al regime di Alta sicurezza, il boss ha trascorso quasi la metà della sua vita in cella al carcere duro. Da una quindicina di anni, proprio in considerazione del percorso intrapreso dal detenuto, che in carcere ha preso anche due lauree, una in Lettere e l’altra in Filosofia, è invece in Alta sicurezza, il regime che precede il 41bis. Scrivono i giudici del tribunale: “Il percorso carcerario più che trentennale effettuato dal carcerato convince oggi del suo completo e radicale distacco dalle vicende e contesto criminale. La concessione del primo permesso premio si presenta come un passo basilare e utile in un’ottica di risocializzazione”. Grassonelli, soprannominato Malerba, sta scontando più ergastoli per gli omicidi commessi durante la guerra di mafia che fra gli anni Ottanta e Novanta insanguinarono l’Agrigentino. In particolare Grassonelli scampò miracolosamente alla strage di Porto Empedocle del 21 settembre 1986, in cui furono uccise sei persone tra cui il nonno Giuseppe e lo zio Luigi. Proprio in risposta a questo eccidio il boss avrebbe pianificato un’altra strage con tre vittime, avvenuta il 4 luglio 1990 sempre a Porto Empedocle. Non si è pentito ma si è ravveduto, ecco perché Giuseppe Grassonelli ha ottenuto un permesso La Sicilia, 26 marzo 2023 L’ex boss stiddaro empedoclino sarà “libero” per 12 ore dopo 31 anni di carcere duro. Ha ottenuto un permesso premio di 12 ore, dopo oltre trent’anni anni di carcere, la metà dei quali trascorsi al 41bis. Per i giudici del tribunale di sorveglianza di Milano Giuseppe Grassonelli, 58 anni, capo della Stidda di Porto Empedocle, in provincia di Agrigento, avrebbe dato dimostrazione concreta di un ravvedimento rispetto al suo passato criminale, sebbene non abbia mai fornito informazioni utili alle indagini né abbia collaborato fattivamente con la giustizia. Il boss mafioso, detenuto nel carcere Opera di Milano, è attualmente sottoposto al regime di Alta sicurezza, meno rigoroso rispetto al 41 bis. Un provvedimento maturato una quindicina di anni fa, proprio in considerazione del percorso intrapreso dal detenuto, che in carcere ha preso anche due lauree, una in lettere e l’altra in filosofia. Scrivono i giudici del tribunale: “Il percorso carcerario più che trentennale effettuato dal carcerato convince oggi del suo completo e radicale distacco dalle vicende e contesto criminale. La concessione del primo permesso premio si presenta come un passo basilare e utile in un’ottica di risocializzazione”. Giuseppe Grassonelli, soprannominato Malerba, sta scontando più ergastoli per gli omicidi commessi durante la guerra di mafia che fra gli anni Ottanta e Novanta insanguinarono l’Agrigentino. In particolare Grassonelli scampò miracolosamente alla strage di Porto Empedocle del 21 settembre 1986 a Porto Empedocle, in cui furono uccise sei persone tra cui il nonno Giuseppe e lo zio Luigi. Proprio in risposta a questo eccidio il boss avrebbe pianificato un’altra strage con tre vittime, avvenuta il 4 luglio del 90 sempre a Porto Empedocle. Sulla vicenda umana e giudiziaria di Grassonelli, rientrato in Sicilia dalla Germania per vendicarsi dopo essere scampato a ben quattro agguati, è stato scritto anche un libro, Malerba, dal giornalista Carmelo Sardo. Le porte girevoli per i pm tornano per poche ore poi arriva il dietrofront di Stefano Zurlo Il Giornale, 26 marzo 2023 Gli emendamenti Lega-Fdi eludono la riforma. Il pasticcio alla fine si scioglie: improponibili. Tornano le porte girevoli fra politica e magistratura. Anzi no. Polemiche. Sospetti e una mezza retromarcia intorno a due emendamenti presentati da FdI e Lega. Forse per accontentare toghe amiche che hanno scelto di lavorare con l’esecutivo. Ma è proprio su questa delicata frontiera che era appena intervenuta la riforma Cartabia, scritta con lo scopo di tagliare i nodi che avvelenano i due poteri. Due le fattispecie approvate solo la scorsa estate: chi entra nell’arena e viene eletto indossando la casacca di un partito, dovrà rassegnarsi alla fine dell’incarico ad andare fuori ruolo; ancora chi viene chiamato ad un ruolo nel governo dovrà fermarsi per una pausa di decantazione prima di rientrare nei ranghi. È esattamente il punto dolente della coppia di emendamenti, probabilmente ispirati dalla stessa regia, e targati maggioranza. Il “taxi” su cui salgono FdI e Lega è quello del Pnrr, insomma la più nobile sfida nazionale. E qui si inserisce la manovra che prova a disinnescare la Cartabia, Ancora fresca di approvazione. I testi aboliscono la stanza di compensazione per chi si trova proprio a seguire i temi del Pnrr e poi per quelli che sono stati chiamati nei primi 30 giorni di vita dell’esecutivo. Possibile? Il centrodestra, dopo aver sollevato la querelle sul pendolarismo fra politica e giustizia, scopre le deroghe, le eccezioni, le obiezioni. Dunque, in questi casi i giudici rientrano immediatamente a Palazzo di giustizia, senza alcuna finestra temporale, e possono aspirare a posizioni direttive. Porte più che girevoli. E il sarcasmo dai banchi dell’opposizione. Enrico Costa di Azione scrive un’interrogazione: “Questi emendamenti sono stati ritagliati ad hoc per consentire ai magistrati ai vertici dei ministeri di tornare subito nei tribunali e di avere incarichi direttivi. E magari giudicare gli avversari politici”. In effetti, siamo al capovolgimento del mantra ripetuto dal centrodestra in tutte le sue gradazioni da sempre: no e poi no alle toghe che scelgono una parte e poi si rimettono la toga. Cosi, si torna ai soliti sospetti, alle ombre sulla politicizzazione dei magistrati che si sono cimentati col potere e hanno smarrito quell’imparzialità, o per essere più sottili quell’immagine di imparzialità, ricercata per anni e anni fra una riforma e l’altra. “Ho presentato un’interrogazione al ministro Nordio che, a differenza dei suoi uffici, sono sicuro fosse all’oscuro della vicenda - prosegue Costa - perché blocchi questo maldestro tentativo di cucire norme su misura per qualche magistrato con il pretesto del Pnrr”. Sulla stessa linea anche il Pd: “Questa destra - ironizzano i capigruppo in Commissione giustizia di Camera e Senato Federico Ganassi e Alfredo Bazoli - è davvero tutto chiacchiere e distintivo. Alla prova dei fatti si smentisce sempre e promuove solo ritorni al passato”. Con un’operazione che aggira la Cartabia. Ma il blitz dura poche ore, poi si sgonfia, almeno in parte: “Non c’è alcun caso politico - spiega all’Adnkronos il senatore di FdI Marco Lisei, primo firmatario di uno dei due testi incriminati. Che succede dunque? È sempre il parlamentare a spiegarlo: “L’emendamento al decreto Pnrr è stato dichiarato improponibile e verrà formalmente ritirato. Non verrà inserito nel testo” Di più: “È un processo alle intenzioni - conclude Lisei - parlano di qualcosa che non c’è”. O forse c’era, ma è caduto, anche se non si hanno notizie precise dell’altra proposta. Certo, per la maggioranza è una pagina da dimenticare. Abuso d’ufficio: la riforma tra Pnrr e rilancio della macchina dello Stato di Roberto Garofoli* Corriere della Sera, 26 marzo 2023 Non è scontato che la riscrittura del reato di abuso sia quindi la soluzione. La stessa abolizione del reato va valutata con cautela, non foss’altro per il concreto rischio di riespansione applicativa di altri reati. Anche a seguito delle preoccupazioni espresse dai Sindaci si è ripreso a discutere dell’opportunità di un’ennesima “stretta” legislativa relativa all’abuso di ufficio. Previsto dal codice penale come ultima forma di tutela del cittadino contro gli abusi dei funzionari pubblici non altrimenti punibili e già significativamente ristretto nel suo perimetro nel 2020, il reato di abuso di ufficio continua ad essere percepito come causa di un’esposizione dei sindaci stessi ad un rischio “non calcolabile e prevedibile” di responsabilità penale, destinato - si sostiene - a sacrificare la fluidità dell’azione amministrativa. Un rischio in astratto assai elevato, se si tien conto degli straordinari impegni legati al Pnrr. A sostegno delle proposte di riforma, tanto nel 2020, quanto nel dibattito di questi mesi, sono valorizzati taluni dati statistici. L’elevato tasso di archiviazione, pari nel 2021 al circa 85%, induce in particolare taluni a proporre l’abolizione della fattispecie, valorizzando i danni prodotti dal solo avvio delle indagini, anche in termini di efficienza amministrativa. I dati si prestano tuttavia a letture anche diverse. Il numero dei procedimenti per abuso di ufficio è in forte calo (da 7939 nel 2016 a 5418 nel 2021). Le archiviazioni, certo numerose nei procedimenti per abuso di ufficio, sono comunque mediamente pari al 62% per tutti gli altri reati (si dovrebbe concludere per ciò solo per l’abolizione di centinaia di altri reati o sono altri i rimedi da attivare?). Lo stesso scarno numero di condanne (da 82 nel 2016 a 18 nel 2021 per i processi giunti a dibattimento, oltre le 44 sempre del 2021 innanzi alle Sezioni G.i.p./G.u.p.) è prova di una capacità della giurisprudenza di selezionare rigorosamente gli abusi penalmente rilevanti e potrebbe concorrere a ridurre la diffusa ansia di denuncia, oltre che ad orientare le scelte dei magistrati inquirenti, tanto più in considerazione delle recenti novità della riforma Cartabia quanto alle condizioni per chiedere l’archiviazione. La giurisprudenza, infatti, tra il 2020 e il 2022, ha per lo più optato per indirizzi interpretativi restrittivi, coerenti con le dichiarate ragioni sottese alla riforma del 2020 (“basta paura, occorre sbloccare”, fu il motto con cui quella riforma fu presentata). La stessa scelta legislativa del 2020 di circoscrivere il perimetro del reato alle sole violazioni commesse nell’esercizio di poteri non discrezionali, ma c.d. vincolati, pur reggendo al vaglio di costituzionalità (Corte cost., 18 gennaio 2022, n. 8), è stata del resto non poco criticata, atteso che di frequente gli abusi - anche i più odiosi - si annidano proprio nell’esercizio della discrezionalità. D’altra parte - tornando ai Sindaci - le loro principali preoccupazioni sono essenzialmente legate a tre fattori: la lamentata attitudine del solo avvio delle indagini a minare la credibilità degli amministratori locali (il che tuttavia vale per tanti altri reati oggetto di iscrizione o contestazione), la contestata sospensione dal mandato prima della condanna definitiva per abuso di ufficio, la preoccupante dilatazione della posizione di garanzia, talvolta desunta in sede giudiziale dai poteri di ordinanza assegnati ai Sindaci e destinata ad integrare variegate ipotesi di reato per omissione (non certo il solo abuso di ufficio). Non è scontato che la riscrittura del reato di abuso sia quindi la soluzione. La stessa abolizione del reato va valutata con cautela, non foss’altro per il concreto rischio di riespansione applicativa di altri reati. Se è vero, del resto, che anche il regime delle responsabilità può incidere su ritmi e fluidità produttiva dell’apparato amministrativo, l’innalzamento del relativo livello di efficienza non deve necessariamente passare per un “liberi tutti” che alteri il necessario equilibrio tra certezza dell’attività (e nell’attività amministrativa) e pienezza ed effettività del controllo giudiziale. Nella scontata consapevolezza, in conclusione, che il giusto obiettivo di ridimensionare la cosiddetta paura della firma non può esaurire le politiche da mettere in campo per riparare la macchina dello Stato, essendo necessario proseguire nel riorganizzarne alcuni gangli, nell’attenuare la polverizzazione di alcune sue strutture (si pensi alle migliaia di inadeguate stazioni appaltanti), nel ripensare i meccanismi interni di controllo e responsabilità, nel riattivare robusti interventi di formazione dei funzionari pubblici, nel rendere in ultimo più attrattiva l’Amministrazione pubblica e la sua missione, soprattutto per i giovani, anche i più capaci e brillanti. È un compito la cui eccezionale importanza è emersa ancor più chiara negli ultimi anni, nei quali l’intero Paese - alle prese con la pandemia prima e subito dopo con la necessità di progettare, attuare e monitorare i poderosi programmi di investimento legati al Pnrr - ha riacquisito la smarrita consapevolezza della centralità della macchina dello Stato e del rischio che i suoi affanni possano pregiudicare le politiche pubbliche e la relativa trasmissione attuativa. *Presidente di Sezione del Consiglio di Stato Oristano. Il caso di Stefano, morto in cella. La famiglia: “Non è stato un suicidio” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 marzo 2023 Per la procura il 43enne morto lo scorso ottobre in carcere si sarebbe impiccato. La sorella: “Negato due volte l’esame autoptico”. La morte in carcere di Stefano Dal Corso è un vero e proprio giallo. Il presunto suicidio del 43enne - trovato cadavere nel penitenziario Casa Massama di Oristano, in Sardegna, il 12 ottobre scorso - non convince la famiglia dell’uomo che si è affidata all’avvocato Armida Decina e al medico legale Cristina Cattaneo, il consulente forense che ha lavorato alla risoluzione dei delitti più conosciuti in Italia: dall’omicidio di Serena Mollicone al caso di Stefano Cucchi. “Mio fratello è morto impiccato, mi hanno detto al telefono. Eppure lui non aveva alcun motivo di togliersi la vita, mai aveva manifestato l’intenzione di farlo e anzi aveva preso accordi per un lavoro in un ristorante appena sarebbe uscito, da lì a poco. Mi hanno mandato solo delle foto, poche e in cui tra l’altro era vestito, dalle quale si vedono segni come di presa su un braccio, uno alla testa e sugli occhi. Per ben due volte ci è stata negata la possibilità di fare l’esame autoptico, ma io chiedo che venga fatta chiarezza. Voglio capire come è morto Stefano”, dice all’Adnkronos Marisa Dal Corso, sorella del 43enne che avrebbe finito di scontare la pena il prossimo 31 dicembre. “Dovendo assistere al processo, che si sarebbe tenuto a Oristano dove aveva abitato con la ex compagna e la figlia di 7 anni, ha fatto domanda per essere presente in aula e vedere così la bimba. Glielo hanno concesso, e il 4 ottobre è stato portato a Oristano. Da dove però non ha mai più fatto rientro. Mi venne detto che non c’era modo di riportarlo a Roma, che non ci sarebbe stato un volo prima del 13. Il 12 pomeriggio, intorno alle 16, ho ricevuto la telefonata del parroco del carcere, che senza mezzi termini mi ha detto ‘suo fratello ci ha lasciati’“. La procura di Oristano, nonostante le tre istanze presentate dall’avvocato Decina, ha deciso di chiedere l’archiviazione del fascicolo aperto con ipotesi di omicidio colposo. Secondo l’ipotesi di chi ha svolto le indagini, dunque, non c’è alcun dubbio: Stefano, nato e cresciuto nel quartiere romano Tufello, si è impiccato alla grata davanti la finestra, proprio sopra il letto, in carcere. Nessuno avrebbe potuto fare nulla per evitare questa tragedia. C’è però più di un elemento che non quadra a cominciare dall’assenza di un esame autoptico sul corpo del 43enne. Secondo il pm Armando Mammone, non c’è alcuna necessità dell’autopsia “data l’insussistenza di elementi idonei che potessero giustificare detto esame medico”. Non è dello stesso avviso il medico legale Cattaneo che ritiene invece necessario l’esame per stabilire le cause della morte di Dal Corso. Tanto più che non ci sono testimoni diretti del gesto: nessun detenuto avrebbe visto o sentito nulla nelle ore in cui, si presume, possa essere avvenuto il fatto. “Le indicazioni scientifico-forensi nazionali e internazionali sulle investigazioni delle cause di morte (tra cui il Minnesota Protocol delle Nazioni Unite) suggeriscono sempre l’effettuazione dell’esame autoptico completo soprattutto in casi di morti in custodia, senza il quale è impossibile giungere ad un giudizio affidabile”, scrive il medico legale in una comunicazione inviata al pubblico ministero.In questo caso, poi, è ancora più complicato arrivare a conclusioni senza un esame medico approfondito. Non esistono infatti nemmeno le foto del corpo di Stefano impiccato (o almeno ad avvocato e medico legale non sono mai arrivate, ndr) e quelle esistenti sono dell’uomo vestito (15 in tutto). “Dalle poche immagini visionate si intuisce che vi è un solco al collo con margini arrossati. Questo unico elemento non può essere dirimente per una diagnosi di suicidio né di morte per impiccamento - scrive ancora la dottoressa Cattaneo -. L’autopsia giudiziaria è fondamentale in questi casi per sciogliere i nodi almeno su quanto segue: se il solco al collo sia l’esito dell’impiccamento o di un precedente strangolamento cui è seguita una simulazione di impiccamento; se il soggetto fosse vivo al momento dell’applicazione di un laccio (o altro) intorno al collo; se vi siano segni interni coerenti con l’ipotesi di asfissia meccanica per impiccamento; se vi siano segni riconducibili a colluttazioni (colpi ad esempio non sempre visibili al mero esame esterno); se siano state assunte o somministrate sostanze stupefacenti o farmaci; se vi siano tracce genetiche riconducibili all’intervento di terzi nella dinamica del decesso”. Roma. “Normalmente il carcere ti fa dimenticare il reato per lo sforzo di sopravvivere” agensir.it, 26 marzo 2023 L’esperienza di chi il carcere lo conosce bene con tutto il suo carico di umanità l’ha portata - al convegno nazionale del Meic “E liberaci dal male. Percorsi di giustizia e di riparazione in questo tempo”, in svolgimento a Roma - don Sandro Spriano, cappellano, con altri sacerdoti, dei quattro istituti di pena di Rebibbia in cui ci sono circa 2.300 persone detenute (nei tre istituti maschili, nella casa circondariale per l’accoglienza di un piccolo gruppo di ragazzi tossicodipendenti con una custodia attenuata e dei detenuti semi liberi; nell’istituto femminile che è il più numeroso d’Europa con più di 350 donne e in questo momento solo due bambini). “L’esperienza mi dice che con questo tipo di carcere non si passa da nessuna parte. La mediazione penale, la riparativa, può riguardare qualcuno che ha fatto un reato grave con delle vittime con nome e cognome e magari lì si può fare un percorso di riconciliazione, diciamo, come facevano nei Tribunali del Sudafrica. Per il resto il carcere non consente alle persone che stanno lì di pensare ad un percorso di riparazione perché nessuno li aiuta in questo. E la persona detenuta, specialmente oggi che l’80% sono poveri ed emarginati, dice ‘che vol dì giustizia riparativa?’. È molto difficile!”. Come si possono attivare percorsi simili? “Sicuramente - ha commentato don Sandro - più persone ci sono che fanno volontariato e più questi accompagnamenti interpersonali producono anche dei piccoli percorsi in cui uno sente di dover interessarsi al suo reato e quindi da lì può cominciare un percorso. Perché normalmente il carcere ti fa dimenticare il reato, perché è tale lo sforzo di sopravvivere alla vita del carcere che si pensa solo a quello. C’è una inflizione di sofferenza esagerata che non produce più né un rimorso né una capacità di dire ‘io devo pagare per quello che ho fatto perché lo pago con il carcere e se lo Stato è soddisfatto sono soddisfatto anch’io’”. La questione della dignità del detenuto è centrale e il cappellano nel suo intervento ha parlato di questo e della giustizia nel confronto con il Vangelo. O meglio, come ha detto don Sandro, “di questa ingiustizia somma” che è il carcere. “Il problema grosso - ha aggiunto - è che non ci sono questi percorsi. Non c’è una prospettiva di speranza se non se ne fanno carico il volontariato e i cappellani e qualche direttore e educatore illuminato, che ha voglia di metterci del suo, non di fare lavoro d’ufficio. In carcere si fanno carte carte carte, invece in carcere ci sono persone persone persone”. Don Spriano ha ricordato che se non ci sono percorsi lavorativi e di accompagnamento si torna a delinquere mentre più del 70% di chi lavora non torna a delinquere. Anche a Rebibbia grazie a don Sandro dal 2000 c’è una cooperativa dove oggi lavorano 28 detenuti col Cup del Bambin Gesù. “La gente telefona per gli ambulatori, ma non sa che risponde un detenuto - ha raccontato il cappellano -. Per coloro che lavorano c’è una prospettiva di speranza perché c’è uno stipendio, c’è una possibilità. Vanno accompagnati a tutti comunque, come ciascuno di noi in fondo”. Crotone. Sistemati i locali per il ricovero dei detenuti in ospedale ilcrotonese.it, 26 marzo 2023 Sono ritornati agibili i locali per il ricovero dei detenuti nell’ospedale di Crotone. Lo avevano comunicato già dall’Asp di Crotone tre giorni dopo dopo la notizia dell’inagibilità per via di alcuni problemi alla rete idraulica. Ora la conferma che sono state eseguiti arriva anche dal sopralluogo svolto nella mattina del 24 marzo, dal garante dei detenuti, Federico Ferraro, alla presenza della direttrice dell’istituto penitenziario di Crotone, Caterina Arrotta, del Comandante pro tempore di Polizia Penitenziaria, commissario Francesco Tisci, e del Comandante del Nucleo traduzione e piantonamento, commissario Gaetano Megna. È stata sistemata la rete idrica e sono stati effettuati interventi di tinteggiatura e di intervento sull’umidità sui muri. Il Garante comunale dei detenuti esprime “vivo apprezzamento per il tempestivo intervento, realizzato dalla Direzione Sanitaria, nella persona del dott. Lucio Cosentino, con il quale successivamente si è tenuto un incontro informale proficuo in merito alla soluzione delle criticità esposte”. “È stato garantito - prosegue Ferraro - così il diritto alla salute e la dignità della persona. Ciò testimonia che quando le istituzioni sono in sinergia e dialogano in modo costruttivo riescono a dare risposte concrete alle problematiche”. L’aggiornamento sullo stato dei luoghi è stato comunicato anche al Sindaco di Crotone, Vincenzo Voce, ed alla Terza Commissione Consiliare che, attraverso la Presidente Antonella Passalacqua, si è occupata di varie tematiche connesse al settore sanitario ed a quello sanitario penitenziario. Busto Arsizio. Don Mazzi a Busto apre il convegno sul teatro in carcere di Andrea Aliverti malpensa24.it, 26 marzo 2023 Teatro in carcere, al convegno dell’associazione Oblò-Liberi Dentro nella sala parrocchiale di Sant’Anna, in occasione della giornata nazionale sul tema, si presenta anche don Antonio Mazzi, fondatore di Exodus, accompagnato dal cappellano della casa circondariale di Busto Arsizio don David Maria Riboldi: “Spesso c’è più realtà nel teatro che nella vita vera”. E la vicesindaco Manuela Maffioli ricorda che “la cultura non ha confini. Non ci sono porte che non possano essere aperte e attraversate dalla cultura”. “La mia è una presenza, non una testimonianza” chiarisce don Mazzi, che apre i lavori dei “Dialoghi e azioni tra teatro e carcere” al teatro Sant’Anna, nell’ambito della decima giornata nazionale del teatro in carcere. Di fronte ad una platea di operatori delle associazioni che “entrano” in carcere, ma anche di ex detenuti che sono stati coinvolti nelle attività dell’area trattamentale, in cui il teatro è da anni presente insieme ai lavori (la cioccolateria in primis) e allo sport. “Era un momento brutto, a loro devo la mia vita” la testimonianza di un ex detenuto, che racconta di essere stato “salvato” dal teatro in carcere. “Ditemi che droga mi avete dato, perché era una droga buona”. E subito una delle operatrici ribatte: “Si chiamava teatro”. Un altro ex detenuto arriva persino a definire “un periodo fantastico, che ha lasciato tanti ricordi” la sua esperienza nell’area trattamentale, che era pur sempre dietro le sbarre. “Il teatro è importante come tutte le altre attività - rimarca Rita Gaeta, storica responsabile dell’area trattamentale del carcere di Busto, oggi in pensione - ciò che rovina in carcere sono i tempi morti, perché non è vita reale, non è vita libera. Se li lasciamo i detenuti in cella li lasciamo a fare i detenuti, invece devono fare la vita che si fa fuori, devono imparare ad alzarsi alle 7 per andare a scuola o per andare a lavorare, un ritmo di vita regolare che può rendere l’uomo migliore”. Per questo, per Gaeta, “il carcere si deve aprire, deve essere un luogo vivo, dove la gente può cambiare”. Tra gli altri interventi, quello di Elisa Carnelli, attrice, formatrice e drammaterapeuta, fondatrice e presidente dell’associazione l’Oblò Liberi Dentro, che svela la storia della compagnia teatrale del carcere di Busto, e di Giovanni Maria Lodigiani, docente di giustizia riparativa e mediazione penale, che insiste sul concetto di “responsabilità”. La vicesindaco e assessore alla cultura Manuela Maffioli fa notare la concomitanza con la festa del teatro che sta coinvolgendo le otto sale teatrali cittadine: “Per noi gli spazi culturali non hanno confini insuperabili. Il carcere ad esempio è partner della biblioteca per “Reading Busto”, mentre alcuni detenuti che si avvicinavano a fine pena hanno tinteggiato le sale di palazzo Cicogna. Ora li inviteremo alle nostre mostre. Perché la cultura è strumento di elevazione e di rieducazione”. Orvieto (Pg). “That’s amore”, detenuti in scena per la solidarietà sociale orvietonews.it, 26 marzo 2023 I detenuti della Casa di Reclusione di Orvieto come volontari per la solidarietà. Questa è stata la molla principale che ha portato alla mini tournée teatrale, voluta dalla direzione del carcere e approvata dal magistrato di sorveglianza, che nella giornata di venerdì 31 marzo vedrà in scena diversi detenuti, per la prima volta all’esterno, nei teatri di Orvieto e di Porano. Grazie all’ospitalità offerta dai sindaci, la Sala del Carmine di Orvieto si aprirà allo spettacolo in matinée alle 10, mentre il sipario si alzerà alle 18 al Teatro Santa Cristina di Porano. La regista e conduttrice del laboratorio di teatro, Patrizia Spagnoli, ripropone “That’s amore”, presentato con grande successo nell’Istituto di Via Roma lo scorso 26 novembre 2022. Tratta dell’amore nelle sue varie forme, divertenti, amare o drammatiche, spunti di riflessione che coinvolgono tutti, con brani recitati e musicati di grandi musical e testi di autori noti, nonché lettere prodotte proprio dagli attori detenuti, ai quali si affiancano commedianti e musicisti professionisti. Ma lo spettacolo è principalmente l’occasione per dare la possibilità a quei detenuti che hanno avviato un serio percorso personale di recupero morale di offrire alla società una riparazione parziale, o anche solo simbolica, a quanto hanno commesso di illegale. Il ricavato delle donazioni libere che verranno raccolte all’ingresso verrà infatti devoluto a associazioni del territorio orvietano che si occupano di marginalità sociale. L’evento, che si iscrive nella settimana nazionale della promozione del teatro dal carcere, riceve il prezioso sostegno del Rotary Club Distretto 2090 e del Rotaract di Orvieto, così come della Caritas diocesana di Orvieto-Todi. Livorno. Pet therapy in carcere: riabilitare i detenuti con l’aiuto degli animali lentepubblica.it, 26 marzo 2023 A proporre quest’esempio virtuoso è la Casa Circondariale “Le Sughere”: ecco come la Pet therapy in carcere può aiutare i detenuti. I benefici del contatto con animali abilitati e certificati per gli Interventi Assistiti sono ad oggi riconosciuti dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 28 febbraio 2003 e più di recente dal Ministero della Salute che nel 2015 ha emanato le linee guida per gli interventi assistiti con gli animali (IAA) che hanno portato alla regolamentazione di tali attività e al definitivo riconoscimento del loro valore terapeutico. Sono una quindicina i detenuti della casa circondariale Le Sughere di Livorno coinvolti nella quinta edizione del Progetto Ulisse, percorso di pet therapy organizzato dall’associazione Do Re Miao! con il sostegno economico di Enpa (Ente nazionale protezione animali), il patrocinio del Comune di Livorno e la collaborazione della cooperativa Melograno gestore dei servizi del canile municipale di Livorno “La cuccia nel bosco”. Il progetto del Carcere e già svolte in diversi istituti della Toscana, nell’ambito di progetti-pilota o di veri e propri percorsi a lungo termine volti a verificare la validità degli interventi assistiti per le persone detenute coinvolte. Il progetto - Articolato in due fasi, prevede una prima parte formativa incentrata sull’incremento delle competenze delle persone detenute coinvolte, stimolandole all’approfondimento teorico di nozioni di educazione e gestione del cane messe in atto poi sul campo con gli animali dell’associazione e con alcuni cani del Canile Municipale di Livorno. Al termine del percorso saranno valutate le competenze raggiunte con un riconoscimento, per coloro che hanno seguito almeno un periodo minimo di attività, in forma di certificato di partecipazione. I benefici della presenza degli animali - La presenza del cane facilita il dialogo e l’apertura dei soggetti coinvolti in quanto tocca e attiva una sfera di relazione non vicariabile da altre esperienze e quasi sempre collegata ad un’immagine positiva e sana di sé. “Un passo alla volta. La vita oltre le dipendenze”: il racconto di un modello di recupero diverso e di chi lo ha reso possibile di Sara Tirrito Il Fatto Quotidiano, 26 marzo 2023 Il libro di Vincenzo Aliotta, curato da Barbara Bonomi Romagnoli, è nato dal racconto diretto di operatori, pazienti e counselor. E fotografa un approccio innovativo nella cura delle dipendenze, quella portata avanti dal Centro Recupero Dipendenze San Nicola, nelle Marche. Curare le dipendenze come fossero “il mal di denti dell’anima”. È questo il cuore del libro Un passo alla volta. La vita oltre le dipendenze, che racconta l’esperienza del Centro Recupero Dipendenze San Nicola, struttura marchigiana di riferimento in Italia per il recupero. Nato nel 2013 a Piticchio, piccolo borgo della provincia di Ancona, il Centro San Nicola si fonda su un mantra: per fermare un comportamento bisogna capire un comportamento. A partire dalla storia delle dipendenze nel mondo, che si intreccia con la vita di Vincenzo Aliotta, autore del testo e fondatore del San Nicola, nel libro viene raccontata la genesi del centro. E viene soprattutto presentato un approccio di cura innovativo, fondato sul modello anglosassone della residenzialità breve dei pazienti e su una terapia clinica e psicoterapica, ma anche ludica, artistica e sociale. Dodici sono i capitoli del volume, tanti quanti sono i passi in cui si divide il cosiddetto “metodo Minnesota”, usato dai gruppi di alcolisti e narcotici anonimi fin dalla loro fondazione, nonché quello adottato nel centro marchigiano. Sono elencati sinteticamente alla fine del volume e danno il titolo a ogni capitolo. Il primo passo è ammettere che c’è un problema urgente divenuto incontrollabile. L’ultimo è fare cultura sulle dipendenze, portando anche chi ne è uscito a confrontarsi con chi ancora dipende dalle sostanze o dall’alcol. “Oggi c’è un vasto campionario di libera scelta nel mercato delle sostanze - dice il dottor Aliotta a ilfattoquotidiano.it - L’alcol è il sottofondo a tutte le dipendenze, poi ci sono cocaina, eroina, consumata in tutte le maniere, e psicofarmaci usati in modo improprio”. Aliotta parla di “politossicodipendenza”, un fenomeno che colpisce sempre più i giovani, anche in età scolastica. “Per l’abuso di alcol, l’Italia è bandiera nera in Europa, con ragazzini che cominciano a bere intorno agli 11 anni. Questo - spiega - è molto grave, perché a quell’età non sono maturati gli enzimi necessari per metabolizzare l’alcol. Passata la soglia anagrafica dei 16 anni, gli effetti della dipendenza possono essere molto gravi”. Ecco allora perché il libro vuole arrivare nei luoghi in cui è più importante fare prevenzione. “Abbiamo voluto fare un testo agile, divulgativo - racconta a ilfattoquotidiano.it Barbara Bonomi Romagnoli, giornalista e curatrice del volume - Speriamo venga letto nelle scuole dai giovanissimi, perché non incontrino sostanze che poi diventano dipendenze”. Un ruolo fondamentale in questo senso giocano le famiglie, a cui è riservato un percorso di recupero parallelo a quello dei pazienti. “In situazioni di questo tipo - dice Aliotta - anche la famiglia deve piegarsi su se stessa e analizzare il suo percorso chiedendosi cosa non sta andando”. Si tratta in molti casi di contesti di provenienza difficili, in cui non si è compreso per tempo cosa non stesse funzionando. “Molte sono famiglie disfunzionali - dice Aliotta - che nel rapporto con il paziente diventano ora vittime ora carnefici della situazione patologica del proprio caro”. Un’esperienza , quella della famiglia, che Aliotta ha vissuto sulla sua pelle con due cognate dipendenti dall’alcol, di cui si parla nel libro. La moglie, di origini francesi, ha ispirato gran parte della sua carriera e della sua vita, portandolo anche a coltivare l’idea del soccorso reciproco. “Per aiutare le persone servono le persone”, è uno dei principi del centro San Nicola. Nel libro, si lascia voce diretta alle esperienze di medici, pazienti e counselor, figure che hanno un ruolo fondamentale nel recupero secondo Aliotta. “Il counselor è un alcolista riabilitato, un ex paziente che partecipa ai gruppi di mutuo aiuto. È una figura essenziale, perché per quanto il medico, lo psicoterapeuta o l’educatore possono essere bravi, ci sono situazioni che solo chi ha vissuto può capire e questo può fare la differenza nel far trovare ai pazienti un equilibrio alla fine del percorso riabilitativo”. Il libro valorizza e racconta queste professionalità come le altre voci che popolano la struttura, incluse quelle dei pazienti che hanno avuto la forza di esporsi e raccontare in forma anonima quello che hanno vissuto. “È un libro corale - conclude Bonomi Romagnoli - con il filo conduttore di Vincenzo Aliotta vuole raccontare che esiste un modello diverso di recupero, consapevoli che si è sobri un passo alla volta, 24 ore per volta”. Il libro sarà presentato il 28 marzo alle 19.15 allo Spazio Sette Libreria, via dei Barbieri 7. Intervengono con l’autore Luciano Ciocchetti, Vicepresidente Commissione Affari sociali della Camera dei Deputati; Maria Elena Ridolfi, Psichiatra e Psicoterapeuta; Giuseppe Tommasi, Counsellor Centro San Nicola; Barbara Bonomi Romagnoli. Modera Elisabetta Stefanelli, Caporedattrice Ansa Cultura. Mare fuori, per un ragazzo niente è perduto di Silvia Fumarola La Repubblica, 26 marzo 2023 La serie Rai attira il grande pubblico degli adolescenti mettendo in scena sfide ed emozioni. Il messaggio è arrivato forte e chiaro. Si può cadere e ci si può rialzare, si può sbagliare ancora e non mollare perché il destino, se sei un ragazzo, è tutto nelle tue mani. Niente è perduto. Il successo della serie Rai Mare fuori fa riflettere, la televisione che educa - verbo sempre impegnativo - e al tempo stesso intrattiene e fa sperare, è un piccolo miracolo. E’ accaduto. Quell’immaginario carcere minorile a Napoli, dove il mare si vede oltre le sbarre, è diventato, per milioni di spettatori, un luogo dove coltivare la speranza. Anche se la realtà è sempre più dura, vista da dentro: il sovraffollamento, i soprusi. E lo è anche fuori, perché non fa sconti, non prevede lieto fine. Quello che succede ti schiaccia al muro e toglie il fiato, l’omicidio assurdo e insensato di Francesco Pio Maimone, il diciottenne ucciso a Mergellina da Francesco Pio Valda, solo due anni in più (figlio di un camorrista ammazzato nel 2013), una sera come tante. Una macchia sulle scarpe, una pistola in tasca. La fiction sa raccontare l’abisso ma insegna che il riscatto va cercato sempre. Mare fuori ha iniziato un percorso in questi anni. In sordina, in salita. Le prime stagioni della serie trasmessa su Rai 2 approdano su Netflix - altro pubblico, altra corsa - e quel passaggio dà nuova vita, è un fenomeno da condividere. Un corto circuito virtuoso, il mondo è cambiato; difficile che un ragazzo rispetti l’appuntamento della tv generalista, smanetta sul cellulare, naviga e sceglie. Così sui social quel tam tam “non perdete Mare fuori” diventa quasi un appello, la community cresce. La terza stagione esplode su RaiPlay (solo il primo giorno 8 milioni di visualizzazioni), il finale è discusso e condiviso. Le riprese della quarta sono annunciate a maggio. La via è tracciata. Nel carcere formato fiction convivono violenza e prove di forza, ma il primo passo è la rieducazione, immaginare insieme un futuro possibile, imparare un mestiere. Niente è facile dentro; e niente è facile fuori, dove gli adolescenti si misurano con i boss. Se la società non offre risposte, è la malavita a tendere la mano. La serie diretta da Ivan Silvestrini, scritta da Maurizio Careddu e Cristiana Farina, è una scommessa per la tv generalista; prova a non semplificare, a restituire la complessità, anche a consolare. Non succede sempre che si trovi l’equilibrio, è la qualità che in questo caso fa la differenza. La sfida per i produttori - Roberto Sessa con RaiFiction - è stata non cercare soluzioni facili. Così è scattato un gioco di specchi: i ragazzi che vedono in azione i coetanei, forse si fanno le stesse domande e cercano risposte. Sanno che tutti saranno chiamati a fare delle scelte. E chi scrive il destino dei personaggi (interpretati da Nicolas Maupas, Massimiliano Caiazzo, Matteo Paolillo, Valentina Romani e da tanti altri giovani attori di talento), è in ascolto, i commenti sono importanti, significa capire se si va nella direzione giusta. Anche se poi un autore deve scegliere. Certo, è fiction. Così, dubbi dolore, disillusioni, famiglia, amicizia, amore, il desiderio di libertà - perduta e ritrovata - ingredienti sapientemente intrecciati, diventano i temi centrali e tengono incollato il pubblico. La vita “dentro” può essere dura, insopportabile; l’età adulta è lì a due passi. La finale sfida è affrontare il mondo fuori. Vicino, come il mare oltre le sbarre. La televisione parla di emozioni forti, riscatto e sentimenti, tutto bellissimo. La speranza vera è che un ragazzo si aggrappi ai valori, impari a non finire in carcere e possa restarci il meno possibile. Scuola. L’istruzione è il potere del popolo di Concita De Gregorio La Repubblica, 26 marzo 2023 L’educazione dei ragazzi è alla base di tutto: imparare è fatica e non bisogna difenderli da questo. Voltando le spalle al palco si illumina la platea: a spettacolo finito applaude o fischia, decreta il successo o la debacle di chi è di scena. La chiave di ogni cosa è sempre lì, nel consenso. Se ci sia o non ci sia è evidente, si misura - in politica, per esempio - in numero di voti. La questione non è se arrivi o meno l’applauso ma perché: cosa determini il gradimento, o il dissenso, o l’indifferenza. A ogni passo, per ogni cosa. Sul tema dell’antifascismo, per esempio. E’ evidente che la presidente del consiglio faccia fatica a pronunciare la parola, prima ancora a pensarla come radice del presente. E’ ovvio, è coerente con la sua proposta. Le ragioni le ha spiegate molto bene Simonetta Fiori ieri qui. Cancellare pezzi di storia è quel che fanno tutti coloro che vogliono scriverne una nuova: dimenticano quello che sono, diventano chi vorrebbero essere. Lo facciamo talvolta persino nelle nostre private esistenze, ma c’è sempre qualcuno che presto o tardi ci riporta alla realtà. Un testimone del passato, un figlio di quella storia, chi la conosca e dica: ehi, scusa, ti sbagli. Guarda che hai dimenticato un pezzo. Il problema si pone quando quel testimone, quel figlio, quel qualcuno non c’è: quando in platea non c’è più nessuno che abbia consapevolezza di quel che è stato. Che sappia valutare il presente con gli strumenti del sapere, che non si faccia persuadere da una performance ben riuscita se fondata sull’inganno. Che sappia togliere la maschera a chi ne indossa una. Perciò, alla fine, si torna sempre alla conoscenza. L’unico potere di cui disponiamo noi che non ne abbiamo in dote altri: né le famiglie (biologiche o politiche, accademiche o di clan) né i denari guadagnati dai padri, né le terre dei signori. L’istruzione è il potere del popolo. Chi avesse letto Gramsci, anche un compendio scolastico, potrebbe ricordare la famosa esortazione. Si torna sempre alla scuola. Pubblica gratuita universale. La scuola architetto di democrazia. La scuola che ci mette tutti quanti allo stesso livello, tutti in grado di dire e disdire: ma non al grado zero della conoscenza, quello è facile. È terribilmente facile e colpevole denigrare la funzione del sapere: trasformare i cittadini in sudditi serve a chi esercita il potere. Meno sanno più facile sarà dar loro in pasto un inganno. Difficile è costruire un mondo in cui tutti abbiano accesso ai gradi alti del sapere. È faticoso e pericoloso per chi governa, se il suo obiettivo è mantenere il consenso, saldo il posto. Del resto essere autorevoli ed essere autoritari sono condizioni molto diverse: la prima è fondata sulla conoscenza e la seconda sulla forza, e la forza sempre si esercita quando le ragioni del dialogo sono sconfitte. La scuola, dunque. Ripartire da qui: qualcosa nel passaggio di consegne fra generazioni non ha funzionato. Qualcosa è davvero andato storto. L’Italia ha avuto per decenni le scuole migliori del mondo. Gli asili nido, si chiamavano allora: venivano dall’America e dal Giappone a studiare quelli di Reggio Emilia. Le scuole di infanzia, le elementari e le medie, la scuola dell’obbligo. Ha avuto, l’Italia, Don Milani e Maria Montessori: la scuola capace di educare accogliendo le differenze, aspettando chi va meno veloce, dando a ciascuno ciò di cui aveva bisogno. Non era autoritaria, quella scuola. Era democratica e autorevole. Ha fatto l’Italia ricostruendola dalle macerie. Salto, scusate, molti anni e vengo alle cronache di oggi. Quasi ogni giorno leggiamo di un insegnante denunciato per aver violato gli odierni codici del rispetto della privacy, la presunta “integrità morale del fanciullo”. Non mi riferisco alla prof licenziata in Florida per aver mostrato agli studenti il David di Michelangelo (i genitori hanno protestato che fosse pornografico): quella è l’America dei parossismi, della rigidità ipocrita. Della paura figlia dell’ignoranza, naturalmente, anche. Tuttavia è interessante che lì come qui siano i genitori a inalberarsi: gli adulti, la nostra generazione. Giorni fa in un liceo di Roma un ragazzo ha gettato una lavagna in cortile, dal terzo piano. L’insegnante gli ha detto “è un comportamento da subnormale”. Non ha detto lo sei, ha detto è un comportamento da. C’è un’enorme differenza fra dire sei un cretino e dire ti comporti da cretino. Il ragazzo ha chiamato la famiglia, la famiglia ha protestato con la preside, la preside ha redarguito l’insegnante. Quasi ogni giorno leggiamo di professori aggrediti fisicamente, picchiati da genitori che protestano per un brutto voto, un rimprovero. Da quando i genitori difendono i figli dall’educazione anziché augurarsi che ne abbiano una? Ricordavo l’altro giorno a una platea di ragazzi che Enea in fuga dalla città in fiamme portava sulle spalle il padre, non il figlio. Ai figli basta indicare la strada, che poi la percorrano da soli come vogliono e come possono. In diversi hanno risposto eh, sì, ma non è che i vecchi abbiano sempre ragione: gli insegnanti ci vessano, non rispettano le nostre diversità, ci chiudono in gabbie e ci stressano con le loro regole. E’ così? Non lo so, non è dato sapere di tutti. Ci saranno certo rigidità, in qualche caso. Ma è stressante imparare un verso, una formula a memoria? Chiedo alle famiglie. Quale altro modo esiste, a parte il Superenalotto, di ottenere qualcosa senza fatica? Il problema della scuola sono oggi certo gli insegnanti mal pagati, male utilizzati, forse anche mal selezionati. Certamente screditati. Ma è anche un sentire comune che ci riguarda tutti. Proteggere i propri figli non significa evitar loro le frustrazioni ma insegnare ad attraversarle. In un caso li si infragilisce, in un altro li si rafforza. Certo, sempre nell’ascolto delle diverse condizioni di partenza: ma eliminare gli ostacoli non è la soluzione. Tornando al consenso, alla cittadinanza, alla salute di una democrazia. Sapere cosa siano state le Fosse ardeatine - saperlo bene, saperlo tutti - eliminerebbe di colpo la consueta becera e ormai stanca discussione da stadio sulla parola antifascismo. A saperlo, non ci sarebbe proprio niente da discutere. Comunicazione. La propaganda torna di moda e a noi manca la coscienza critica per difenderci di Bruno Ballardini* Il Fatto Quotidiano, 26 marzo 2023 Il Covid prima e la guerra in Ucraina dopo hanno fatto tornare alla ribalta un’attrice dimenticata che tutti, nel mondo della comunicazione, credevano ormai in pensione da tempo: la propaganda. Invece, dopo un intervallo di circa quarant’anni in cui era stata offuscata dalla pubblicità, sicuramente più innocua e trasparente nei metodi, oggi la propaganda ha ripreso il sopravvento e viene utilizzata a tutti i livelli (anche inconsapevolmente), dal giornalismo alla stessa pubblicità che, diciamolo, non è più in mano ai pubblicitari. Secondo una credenza assai diffusa, a inventare la propaganda così come la intendiamo oggi fu Goebbels, ministro di Hilter. In realtà questa attività risale addirittura all’epoca dei romani, e fu concepita fin dall’inizio per condizionare l’opinione pubblica. Un grande impulso al suo utilizzo a livello globale lo diede la Chiesa cattolica che fondò quella che fu a tutti gli effetti la prima agenzia multinazionale in questo campo: la Propaganda Fide. Per avere una visione storica andrebbe letto Storia della Propaganda, di Jacques Ellul, pubblicato dalle Edizioni Scientifiche Italiane. Ma la sistematizzazione definitiva della propaganda sul piano metodologico è arrivata invece nel 900 grazie all’apporto della psicologia sociale, facendola diventare lo strumento ideale per il controllo delle masse. E così è rimasta. L’unica possibilità che abbiamo per riconoscerla e difenderci dalla sua influenza è studiarne i metodi. Per chi fosse interessato all’argomento, voglio suggerire qui di seguito una bibliografia essenziale. Il vero padre della propaganda moderna fu Edward Bernays, nipote nientepopodimeno che di Sigmund Freud. Bernays cercò di trovare subito ciò che poteva evocare l’emozione irrazionale della massa ben sapendo che l’informazione da sola non era sufficiente a modificarne i comportamenti. Definì “relazioni pubbliche” la disciplina che aveva come obiettivo quello di influenzare larghe fasce della popolazione, un crimine che in seguito fu erroneamente attribuito ai pubblicitari: in realtà, i veri “persuasori occulti” erano e sono tutt’ora loro, gli esperti di relazioni pubbliche. Nel 1923, dopo aver realizzato con successo per il governo americano la strategia di comunicazione per convincere il popolo americano a un coinvolgimento diretto nella Prima guerra mondiale, Bernays pubblicò un libro che riuniva la summa della sua esperienza: Crystallizing public opinion. Fu proprio quel testo a influenzare profondamente Josep Goebbels che, come rivelò al giornalista americano Wiegand, lo considerava tra i libri più preziosi della sua biblioteca. In quelle pagine Bernays scriveva: “La manipolazione consapevole e intelligente delle abitudini organizzate e delle opinioni delle masse è un elemento importante in una società democratica. Coloro che manipolano questo meccanismo nascosto della società costituiscono un governo invisibile che ha il vero potere di governare nel nostro paese. Veniamo governati, le nostre menti vengono modellate, i nostri gusti influenzati, le nostre idee suggerite per la maggior parte da uomini di cui non abbiamo mai sentito parlare. Questa è la conseguenza logica del modo in cui è organizzata la nostra società democratica”. Bernays divenne presto uno dei consulenti più ascoltati dal governo degli Stati Uniti e rileggendolo è possibile comprendere quanta influenza abbia avuto nella formazione del modello con cui è gestita ancora oggi la democrazia americana. Nel 1928 Bernays pubblicò Propaganda (trad. it.: Propaganda, Della manipolazione dell’opinione pubblica in democrazia, Lupetti), il suo testo più maturo sulla disciplina. Un anno dopo mise a segno un altro colpo da persuasore occulto: convinse un gruppo di femministe a marciare fumando delle sigarette durante la parata di Pasqua a New York. A quell’epoca, alle donne era vietato fumare in pubblico. Poi Bernays avvertì i giornalisti che le suffragette stavano per fare un’azione dimostrativa nella loro lotta per l’emancipazione femminile e la notizia andò su tutti i giornali degli Stati Uniti, realizzando all’insaputa di tutti, e per prime le femministe, una colossale campagna per dell’American Tobacco Company. Un colpo decisamente fortunato: manco a farlo apposta, le sigarette si chiamavano Lucky Strike… Quella che noi pubblicitari definiremmo opera del diavolo. La pax consumistica dopo la Seconda guerra mondiale ha segnato una pausa nell’uso massivo della propaganda per qualche decennio, con l’uso della “modica quantità” costituita dalla pubblicità, che ha assicurato uno sviluppo costante del mercato trasformando i cittadini in consumatori compulsivi. Ma quando la geopolitica e l’economia hanno avuto bisogno di maggiori “guadagni” la propaganda è tornata prepotentemente alla ribalta con tutto il suo potere di manipolazione finanziaria, mediatica, accademica, pseudo scientifica e soprattutto politica. Un esempio? Oggi in Occidente l’informazione denuncia il temibile “soft power” esercitato dalla Russia, senza indicare mai in che cosa consisterebbe, per poter almeno allertare i cittadini e fornire magari un modo per difendersene. Questo metodo, di fatto, è propaganda. E così, negli scorsi mesi, abbiamo assistito alla messa al bando di autori e artisti russi che sono da sempre patrimonio dell’umanità, in una sorta di cancel culture. Per soft power si intende una forma più “morbida” di propaganda che riesce a ottenere consenso presso la massa utilizzando la cultura e l’intrattenimento. Quindi, secondo coloro che hanno disseminato questa fobia, Dostoevskij e Rachmaninoff (tanto per citare due autori a caso) sarebbero dei pericolosi influencer e andrebbero censurati. Nessuno però ricorda che da tutto il dopoguerra a oggi chi ha usato veramente in modo intensivo il soft power sono stati gli americani, diffondendo film e serie televisive che celebravano il primato della cultura e della forza militare statunitense, capace di “difendere il mondo” da sempre nuovi nemici, come dimostra l’importante saggio di Tricia Jenkins, The CIA in Hollywood: How the Agency Shapes Film and Television, pubblicato dalla University of Texas Press. La guerra è oggi l’evento che più ci tocca da vicino, più del cambiamento climatico, perché siamo noi a produrla. E occorre inquadrare il fenomeno in termini storici per comprendere come la continua fabbricazione di nuovi nemici, serva a tenere l’Occidente in uno stato di allerta costante favorendo la ricerca, la produzione e il commercio di sempre nuove armi. Per comprendere meglio come funzioni questo business e quanto sia alimentato dalla propaganda è indispensabile un saggio come Le guerre illegali della Nato, di Daniele Ganser pubblicato da Fazi Editore, che ripercorre in modo sistematico sul piano storico tutte le tappe della strategia bellica occidentale dal dopoguerra a oggi, strategia che ha coinvolto tutti i paesi alleati in continue guerre, in tempi di pace. Ancora più importante, per comprendere in che modo la propaganda alimenti l’escalation nell’attuale conflitto, è il terribile saggio di Benjamin Abelow, Come l’Occidente ha provocato la guerra in Ucraina, sempre di Fazi, accolto subito con entusiasmo dal più importante intellettuale americano, Noam Chomsky, e da poco uscito anche in Italia con la prefazione di Luciano Canfora. Al di là delle posizioni geopolitiche che ciascuno di noi può avere, il fatto che questo piccolo ma indispensabile libro sia schizzato subito in cima alla classifica di Amazon significa soltanto che anche da noi sempre più persone stanno cominciando a porsi molte domande su questa guerra, non riuscendo ad avere risposte soddisfacenti da un’informazione a reti unificate. Quella che manca è una coscienza critica che permetta di difenderci subito da tutte le forme di propaganda, da qualunque parte esse provengano. Un’informazione incompleta o univoca è già di per sé un tentativo di manipolazione. E di fronte al pericolo di una guerra nucleare forse la gente sta cominciando ad accorgersene. *Esperto di comunicazione strategica, saggista Volontariato. L’iniziativa dei dentisti di Bologna che curano gratis chi ha bisogno di Alessandra Arini La Repubblica, 26 marzo 2023 È nato il primo ambulatorio odontoiatrico no-profit. Il laboratorio sociale in vicolo Bolognetti a Làbas è aperto tre pomeriggi su sette. In un anno sono venute 250 persone. Crowdfunding per le nuove attrezzature. Durante l’ultimo anno di università, nel 2019, cinque studenti del corso di odontoiatria dell’Unibo sono partiti insieme per l’Argentina. Hanno viaggiato in autobus per arrivare nelle favelàs. Si sono accorti di come lì fosse la sanità ad andare nei luoghi del bisogno, e non il contrario, e di come nel loro settore le operazioni per chi ne necessitava costassero meno, anche grazie all’impegno dell’Università pubblica di Buenos Aires.Tornati in Italia e avendo preso la laurea, prima di guardarsi intorno, hanno riaperto la valigia di quel viaggio. Si sono affacciati proprio dalla finestra della facoltà che stavano per lasciare, in via San Vitale 59, e hanno scorto il grande cortile di Vicolo Bolognetti, in cui aveva trovato spazio il municipio sociale del Làbas. Lì proprio da poco e con grande riscontro era sorto il Laboratorio di Salute Popolare(LSP): uno spazio dedicato alle prestazioni sanitarie gratuite per chi fosse in condizioni economiche di fragilità, dove c’era già un presidio medico-infermieristico e uno sportello psicologico. Ma mancava uno spazio in cui prendersi cura dei denti. Così interagiscono con Làbas, proponendo il loro progetto. E riescono, grazie a un grande passaparola, nell’impresa, proprio un anno fa, a marzo 2022, aprendo nel pieno centro di Bologna il primo ambulatorio odontoiatrico no-profit. Loro e le altre molte attiviste della salute che da quel momento in poi si sono aggiunte hanno per lo più meno di trent’anni. Nella loro vita privata lavorano in cliniche, ambulatori, studi o altri settori. Poi, tre pomeriggi a settimana vengono qui, a curare chi non può, o chi non può aspettare troppo. Le pareti sono rosse e blu, la reception è calda e accogliente equasi tutte le attrezzature sono state donate da colleghi, spesso in cambio di svuotamenti di studi e traslochi fatti personalmente da questi giovani dottori. In un anno sono venute 250 persone: soprattutto migranti senza residenza per cui è più difficile avere accesso alle cure, persone senza dimora, ma anche molti cittadini italiani che pur avendo un Isee e quindi diritto alle prestazioni, devono aspettare troppo, e così si rivolgono a loro. La loro attività, dati e non solo, è diventata un report. Il crowdfunding per nuove attrezzature - Le operazioni che svolgono il lunedì, il mercoledì e il venerdì, dalle 14 alle 18, sono soprattutto di urgenza e volte a ridurre il dolore e a poter tornare a sorridere e a mangiare: e quindi carie, devitalizzazioni, estrazioni e anche, per moltissimi, protesi dentarie. Come quella della signora Ludmilla scappata dalla guerra in Ucraina, o anche di tanti ex detenuti, ora liberi, che hanno potuto solo con difficoltà e tempo accedere ai tradizionali percorsi di cura. Il loro obiettivo, fornendo prestazioni gratuite a chi ne ha bisogno, non è solo abbattere le barriere sociali, politiche ed economiche che precludono l’accesso al Servizio sanitario nazionale, ma anche ripensare proprio lo “stato di salute e di cura” del sistema, partendo dall’intersezione con gli altri sevizi. L’agenda del loro ambulatorio popolare per ora segna tutto pieno fino a maggio. Ma non basta. Ci sono tanti pazienti che hanno bisogno di più attrezzature. E così ora per migliorare le diagnosi serve un radiografico panoramico nuovo, che consenta di fare indagini più di qualità. Per questo, hanno lanciato una campagna di crowdfunding consultabile sul loro sito (laboratoriosalutepopolare.it) e sui canali social del Laboratorio. Servono 11.500 euro. E l’obiettivo è raggiungerli entro i prossimi due mesi. “Ogni piccolo aiuto sarebbe importante”, dice il giovanissimo dottore Alessandro Fusconi. “Lo scopo è colmare lacune, ma anche portare le cure a un livello superiore. Finora siamo rimasti sorpresi dalla gentilezza. Speriamo di tornare a farlo anche questa volta”. Migranti dalla Tunisia, è allarme. Il piano di Roma per sbloccare il prestito e superare il veto Usa di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 26 marzo 2023 Si tratta di 1,9 miliardi di euro del Fondo monetario internazionale bloccati anche per la posizione americana contro le ultime mosse del presidente Kais Saied. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi a Tunisi a fine aprile. Erano partiti da Sfax, in Tunisia, cercavano di attraversare il Mediterraneo per raggiungere l’Italia, ma l’imbarcazione su cui si trovavano è naufragata. Almeno 19 migranti provenienti dall’Africa subsahariana sono morti così, al largo della Tunisia: lo ha reso noto alla Reuters un funzionario della ong Forum tunisino per i diritti sociali ed economici. Cinque persone sono state salvate dalla guardia costiera tunisina. Non è chiaro, per ora, quando sia avvenuto il naufragio. Quel che è certo, però, è che questa è l’ennesima strage che si consume nelle acque al largo della Tunisia, dove la situazione si fa sempre più instabile. Dall’inizio dell’anno sono già più di 12 mila i migranti partiti dal Paese del Nord Africa e approdati sulle coste italiane. Nove volte quelli dello stesso periodo del 2022. Un’ondata che si annuncia peggiore di quella dello scorso anno, con 32 mila profughi che hanno raggiunto il nostro Paese seguendo la stessa rotta: +60% rispetto al 2021, con circa 18 mila persone che hanno dichiarato subito come nazionalità quella tunisina, mentre altri 14 mila provenivano da Paesi subsahariani. Oggi la percentuale è più che invertita, con il 90% di migranti sbarcati originari dell’Africa centrale. In pochi mesi, dati alla mano, la Tunisia si è trasformata in un luogo di transito per lo più senza controllo: solo nelle ultime 48 ore sono arrivate in Italia 3 mila persone a bordo di almeno 60 imbarcazioni salpate da Sfax, Kerkenna, Madhia, Soussa, Chebba e Zawia. Ci sono stati naufragi, morti e salvataggi. La situazione sta precipitando. Ecco perché il dossier migratorio è in cima alla lista delle priorità nei rapporti fra Italia e Tunisia. Lo ha ricordato proprio ieri il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani: “Bisogna affrontare la questione con grande rapidità perché è un Paese vicino al collasso finanziario, rischiamo di avere decine e decine di migliaia di migranti che abbandonano la Tunisia. Sarebbe un problema enorme, con tante persone che metterebbero a repentaglio le loro vite - ha aggiunto -. Si deve intervenire immediatamente con i finanziamenti del Fondo monetario internazionale e dell’Europa”. Il nodo dei fondi - La questione è molto delicata. L’Italia, attualmente primo partner commerciale (ha infatti superato la Francia), sta appoggiando Tunisi nel negoziato con il Fmi per un prestito di 1,9 miliardi di euro. Il nostro Paese ha già confermato un sostegno in bilancio di 50 milioni di euro, più una linea di credito di altri 55 milioni a favore delle piccole e medie imprese tunisine. Ma il percorso non è facile e soprattutto bisogna concluderlo in fretta: si calcola infatti che se l’accordo non dovesse andare in porto, le risorse finanziarie dello Stato nordafricano avrebbero un’autonomia di 6-9 mesi. E con oltre 900 mila profughi pronti a partire, compresi tunisini appartenenti anche alla classe media della popolazione, lo scenario sarebbe peggiore. L’intervento dell’Ue - Dopo l’ultimo summit fra la premier Giorgia Meloni e il presidente francese Emmanuel Macron, la Commissaria agli Affari interni dell’Unione europea Ylva Johansson si recherà a fine aprile a Tunisi con i ministri dell’Interno Matteo Piantedosi e i suoi omologhi francese e tedesco, Gerald Darmanin e Annalena Baerbock, per cercare di pianificare una gestione comune del massiccio arrivo di migranti. C’è molta attesa sul risultato della missione, sebbene Parigi stia per approvare in queste settimane una legge molto più rigida contro l’immigrazione clandestina, che prevede rimpatri immediati per chi rappresenta una minaccia per l’ordine pubblico (ma anche la regolarizzazione di lavoratori stranieri in settori ora in difficoltà). Gli Usa contrari - Ma senza lo sblocco del maxi finanziamento del Fmi - è la convinzione italiana - la Tunisia non andrà da nessuna parte. A contrastarlo con fermezza c’è la posizione americana: sulla decisione di Washington pesa soprattutto la considerazione sulle ultime mosse e sulla svolta autoritaria del presidente Kais Saied, che a fine febbraio ha preso di mira proprio i migranti subsahariani, denunciando “un piano criminale per cambiare la composizione demografica della Tunisia: ci sono alcuni individui - ha detto - che hanno ricevuto grosse somme di denaro per dargli la residenza. La loro presenza è fonte di violenza, crimini e atti inaccettabili, è il momento di mettere la parola fine a tutto questo perché c’è la volontà di far diventare la Tunisia solamente un Paese africano e non un membro del mondo arabo e islamico”. Parole “razziste” per l’Unione africana, che hanno portato a un’immediata caccia al nero. Gli Usa, insomma, ritengono che quella di Saied sia una svolta dittatoriale che ne mina l’affidabilità. A complicare le cose poi ci sono le critiche di Tunisi a Josep Borrell, capo della politica estera europea, che aveva lanciato l’allarme sui rischi di un’ondata di migranti senza precedenti, come anche le influenze sempre più forti di Cina e Russia nel Paese. Di contro proprio Tajani, nei suoi recenti contatti con il segretario di Stato Antony Blinken e con la direttrice del Fmi Kristalina Georgeva, ha prospettato il rischio di uno “scenario libico” in caso di crollo di Tunisi. Gli interessi di Roma - Del resto l’Italia è oggi in prima linea per salvare la Tunisia dal baratro. A ribadire la necessità di immediate riforme interne per sbloccare quei fondi indispensabili, è stata anche la premier Meloni in un colloquio con l’omologa Najla Bouden. Oltre 900 aziende italiane, con circa 70 mila addetti, lavorano oggi dall’altra parte dello stretto di Sicilia. Ci sono progetti comuni in campo lavorativo, turistico, culturale e sulla sicurezza. Ma in gioco c’è anche Elmed, il collegamento elettrico sottomarino di Terna e Steg (Société Tunisienne de l’Electricité et du Gaz) che arriverà a Castelvetrano (Trapani), con un investimento di 850 milioni di euro. L’inizio dei lavori nel 2024 è più che vicino. Non c’è nessuna invasione di migranti in Italia. Siamo terra di passaggio, non la terra promessa di Alessandro Mauro Rossi L’Espresso, 26 marzo 2023 Sbarcano dalla Libia. Arrivano dalla rotta balcanica. Entrano dal Friuli. Vengono dall’Africa, dall’Afghanistan, dal Pakistan, persino dai Paesi dell’Unione europea come la Romania. Ma non è un’invasione. È invece disperazione, dolore, fame, paura, miseria che talvolta si trasforma in strage. Sulle nostre coste, perché l’Italia è il primo Paese dell’Unione europea più facilmente raggiungibile. Rischiano la morte sui barconi sgangherati, partendo dalle coste turche, migliaia di nuovi migranti asiatici che non approdano alle isole greche, più vicine, più agevoli da toccare, ma allungano la loro roulette russa sul mare per arrivare in Italia semplicemente perché la Grecia non confina con nessun Paese dell’Unione. L’Italia invece sì, e da lì è più facile ripartire. Vengono, ma non vogliono restare. Vengono per andarsene rischiando un’altra volta la vita per i passaggi impervi della costa Ligure a Ventimiglia oppure salendo su un treno, nel cassone di un camion, in un container col rischio di asfissiare, a piedi o in autostop, ma lasciano l’Italia perché alla fine l’Italia è solo un Paese di transito, non di arrivo. Vanno a Nord, nei Paesi scandinavi, in Germania, in Inghilterra, in Francia. L’inchiesta di copertina di questa settimana, che ha orgogliosi tratti di giornalismo letterario, racconta proprio il fenomeno dell’Italia terra di passaggio per andare a cercare la terra promessa. Un’altra. Che i migranti non si fermino nelle nostre città è testimoniato dall’anagrafe: dal 2016 il numero dei figli di genitori stranieri è in diminuzione. Nel 2018 erano 65.444, tre anni più tardi 56.296, quasi 10 mila in meno, con un calo del 13%. Il problema, quindi, non è nemmeno quello della redistribuzione perché si redistribuiscono da soli. E allora il problema sono i clandestini? Certo, ma poi neanche tanto. “Secondo il Sole 24 Ore”, ha scritto Sergio Rizzo su L’Espresso “nel 2020 in tutta Europa sono stati individuati 557 mila immigrati irregolari. Ben 118 mila in Germania e 104 mila in Francia che con i clandestini non è certo tenera. Mentre in Italia, che in rapporto agli abitanti ha il più alto numero di forze dell’ordine, appena 23 mila”. Tutto questo casino che fa il centrodestra per 23 mila persone? Il problema vero è dei morti in mare, sulle spiagge. È lì che bisogna intervenire, è quello da evitare organizzando controlli, aiuti in mare, flussi d’immigrazione, accoglienza. Ma con azioni plausibili. Non con grida manzoniane come le super condanne agli scafisti che poi tanto gli scafisti non si prendono mai. Ora è attesa l’ondata tunisina spinta dalle tensioni politiche e sociali. Il governo di Tunisi sta negoziando un prestito di oltre un miliardo con il Fondo Monetario internazionale. Ma per ottenere questi fondi dovrebbe impegnarsi in una serie di riforme che al momento, stante la situazione politica, appaiono improbabili. E anche la linea di credito attivata dalla Banca mondiale è stata interrotta. L’Italia è impegnata ad aiutare la Tunisia con uno stanziamento di 200 milioni di euro visto che è il Paese più interessato agli sviluppi migratori. Se i soldi del Fmi non arriveranno, la Tunisia potrebbe dichiarare default con i flussi migratori che esploderebbero in un momento. Ne arriveranno altri. E altri ancora. Per andarsene. Ma solo quelli che avranno avuto la fortuna di non morire in mare. Il nodo scorsoio del riarmo di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 26 marzo 2023 Crisi ucraina. Pure assolutamente convinti della necessità di una forza di sinistra alternativa in questa rovinosa crisi italiana, consideriamo l’avvento di Elly Schlein alla segreteria del Pd come una occasione importante per tutti per una opposizione in questo Paese precipitato nell’epoca dell’estrema destra al governo. Tuttavia accadono cose che è impossibile non sottolineare. Soprattutto in queste ore drammatiche, di fronte al discorso minaccioso di Putin che annuncia il dispiegamento di armi nucleari tattiche in Bielorussia, bontà sua dichiarando “nel rispetto del Trattato Start”, come se la cosa non mettesse lo stesso il mondo nel terrore. Parliamo di quello che è accaduto giovedì 23 scorso a Bruxelles alla riunione del Pse, le forze socialiste europee. Dove, e non è chiaro a quale titolo, insieme a Schlein, al premier spagnolo Sanchez e alla premier finlandese Marin e a tanti altri, ha partecipato Jens Stoltenberg, il segretario generale della Nato. La cosa è sorprendente per diversi ordini di motivi. Il primo è che nessuno dei presenti ha avuto a quanto pare niente a che ridire. Sarà stata una sorpresa per molti, oppure era invitato - ma ripetiamo, a che titolo visto che Stoltenberg è stato sì dirigente laburista norvegese ma fino al 2014? Oppure siamo di fronte alla strategia dell’”ospite ingrato”: dare la tribuna a quello che dovrebbe essere un avversario per essere legittimati? Oppure meglio ancora, un revival di memoria, annoverando la triste storia dei leader neoliberisti di sinistra Clinton, Blair e tanti altri che hanno avviato tutte le guerre sporche che hanno preceduto l’aggressione di Putin all’Ucraina? Più credibile che abbia a tutti i costi voluto approfittare di questa “antica” tribuna preoccupato di cambi di posizioni in un’area politica delicata quanto decisiva. Così, insieme ai temi attesi nel dibattito del Pse, welfare, Green deal, immigrazione, digitale, lavoro e diritti, è arrivato Stoltenberg a declinare la sua priorità, quella del riarmo: “Bisogna aumentare la produzione delle armi - ha dichiarato - per aiutare Kiev per sempre”. Hai voglia a dire che Schlein ha anticipato con la mossa di essere presente sempre a Bruxelles, ma in una sede formalmente alternativa, l’arrivo nella capitale europea di Giorgia Meloni. Perché sul tema del riarmo è la destra ad avere l’ultima parola e a guidare le danze. Soprattutto se su questo tema si tace o si farfuglia, anche in parlamento. Di più. C’era una volta nel Pd, appena la scellerata guerra di Putin è iniziata, un’area significativa che sull’invio di armi insisteva sul “controllo, perché non dovranno essere di offesa ma di difesa” e che allo stesso tempo diceva no al riarmo italiano. Questa strategia ora a dir poco vacilla, di fronte al fatto che ormai l’Occidente invia armi apertamente d’offesa come cacciabombardieri, droni e micidiali proiettili all’uranio impoverito - alla faccia della difesa. Non basta dire “non ci faremo dettare l’agenda dalla Nato” se la Nato arriva ad abbaiare anche dentro la massima assise dei socialisti europei. Perché dopo un anno di invio di armi come partecipazione indiretta di guerra quale unica e assoluta risposta alla guerra russa, gli arsenali si sono svuotati proprio grazie ai massicci invii di armi. Gioco forza il governo Meloni-Crosetto, per il quale la guerra ucraìna è la polizza assicurativa quanto a durata di legislatura e legittimità atlantica, ha buon gioco a proporre l’aumento delle spese militari per riempire di nuovo gli arsenali, che poi si svuoteranno e saranno di nuovo da riempire, “per sempre”. C’è l’obiettivo del 2% di Pil in spese militari; certo già avviato da prima ma mai ratificato o deciso dai parlamenti, compreso quello italiano, mentre la “virtuosa” e apripista Polonia punta al 4%. Spalmati negli anni fino al 2028, sarebbero 13 miliardi in più sul bilancio dello Stato. Che volete che siano? Evitiamo il rapporto considerato “errato” con le spese sociali che invece vengono centellinate e revisionate in un’ottica privatistica. Il nodo è che così facendo entriamo nell’ottica di guerra prolungata ovunque. Non basta infatti dire che per quella data la guerra ucraina sarà finita (ma ne siamo sicuri?): arriva l’avvertimento del segretario di Stato Usa Blinken che dice che “nel 2027 la Cina attaccherà Taiwan”; e riprende la guerra in Siria. Insomma, approvare oggi l’aumento delle spese militari vuol dire inscrivere il Paese e il suo immediato futuro dentro una stagione bellica infinita. Il fatto più incredibile però non è nemmeno questo. È che per la quarta volta in un mese e mezzo il capo di stato maggiore dell’esercito Usa Mark Milley ha ripetuto, pochi giorni fa al Pentagono, che non c’è soluzione militare al conflitto e che “l’obiettivo dichiarato da Zelensky, la restituzione all’Ucraina dei confini del 1991, è troppo ambizioso”, in buona sostanza che non c’è sul campo nessuna vittoria dell’una o dell’altra parte. Ci si chiede: a che serve inviare nuove micidiali e sofisticate armi. Se nessuno parla lo fa la presidente del Consiglio d’estrema destra: “Per riequilibrare le forze in campo”. Eppure non è una serata di risiko a tavolino, perché allora per “riequilibrare”, ora che Putin ridisloca le armi tattiche nucleari, dovremmo forse inviare inviare armi atomiche, il fantasma più volte agitato in questo anno di guerra?. Intanto dopo Bakhmut, l’attesa è per l’offensiva e corrispettiva controffensiva di primavera. Ci siamo. Se finora - ai margini della terza guerra mondiale con linee rosse invalicabili colpite “per sbaglio” - gli “incidenti”sono stati gravi ma eccezioni e alla fine l’abbiamo scampata bella, ora nello scontro definitivo, si moltiplicheranno. Il mondo intero è a rischio, uno schieramento di Paesi del Sud, vuole un negoziato, la Cina è andata nella tana del lupo a Mosca ricevendo bordate da tutte le parti. Ma adesso tutti corrono a Pechino scoprendo, come lo spagnolo Sanchez “punti interessanti nella proposta cinese”, ma ahimé, sembrano più preoccupati delle sorti delle economie occidentali legate a filo doppio alla Cina. Invece è la strategia del negoziato, non il riarmo - o riarmetto democratico - l’unica vera possibilità. Africa, il ritorno della Tratta dei migranti di Domenico Quirico La Stampa, 26 marzo 2023 A Sud del Sahara la modernità ha la forma del kalashnikov, violenza, sopraffazione. I più deboli percorrono le stesse strade degli antichi traffici: un Continente in fuga. I sub-sahariani. Li definiamo così. Comodo. È una parola grande, talmente spaziosa che dentro ci puoi ficcare tutto: le savane monotone e le bianche nevi del Kilimangiaro, zebre ed elefanti, il club Méd a Malindi e la bidonville di immondizie ovunque, l’eroe Nelson Mandela e i perfidi Boko Haram, la carestia e il grattacielo, il tamburo e l’afro beat. E i migranti. Tanti migranti. Qualcuno adesso perfino li conta, li mette in fila e va ai summit impugnando la cifra per chiedere protestare giustificare. Dicono: novecentomila son lì già pronti a partire dal continente nero come lo si liquidava una volta, quando il colonialismo si travestiva appena appena di esotismo, sono pronti a scavalcare navigare affondare sbarcare. Che si fa? Le statistiche sono un’invenzione meravigliosa: perché funzionano da sole, si auto confermano. Novecentomila! E perché non cinquecentomila o un milione? Dove sono andati a intervistarli, i pronti partire, quelli dell’Intelligence, dove li hanno visti in fila dallo scafista di terra e di mare, a chi hanno raccontato: eccomi? Le piste africane della migrazione. Ti prende lo scoramento quando ti accorgi che ricalcano quelle dell’Ottocento quando i mercanti di uomini non si chiamavano scafisti ma schiavisti. Si erano divisi i compiti. Gli arabi si occupavano della “merce” dell’Est. La loro miniera era il Sudan dove compravano “permessi di caccia” dal governo egiziano, a parole antischiavista ma che sulla Tratta aveva montato un ignobile sistema industriale. E poi via via che le riserve si esaurivano le piste si addentravano sempre più verso l’interno. A Ovest era mercato nostro, europeo: l’immenso bacino del Niger e gli scafisti francesi inglesi portoghesi aspettavano con i barconi che le colonne di “mano d’opera” per le piantagioni americane le portassero i loro soci africani, re e capi tribù. Un continente intero è in cammino, da anni verrebbe da dire da sempre, e noi pensiamo di contarli. Proprio così. In questa epopea smisurata e tragica, conseguenza della Storia e della miseria, noi abbiamo raccontato proprio storie di insetti in movimento. Il fatto, la migrazione, lo mescoliamo sempre alle emozioni e ai pregiudizi. Cerchiamo di dare un inizio e una fine a qualcosa che ne è privo. A qualcosa che ogni giorno produce Storia del terzo millennio a ritmi inauditi. Noi cerchiamo di ridurlo a teatro con il sipario che sale e poi cala a nostro comodo o utile. O procediamo alla consueta traduzione monetaria dell’universo: quanto ci costeranno, di quanto possiamo rifarci di questa sciagura tirando fuori qualcosa perfino da questi subsahariani, facendoli diventare Pil. Ci dividiamo tra coloro che con il loro spirito di bigotti non si rassegnano a constatare che nessun periodo nuovo è mai stato definito dalle sue frontiere e bottegai di un umanesimo a basso costo che aggiungono al “siamo con voi” il consueto diabolico ma. Li ho seguiti per dieci anni i subsahariani e poi a un certo punto ho acquistato forse anche io la imperturbabilità che ho incontrato solo nei combattenti e appunto nei migranti. Prendete la carta geografica per favore. Cercate con il dito macchie enormi come il Congo la repubblica centrafricana la Nigeria il Sudan il Corno d’Africa e calcolate quanti chilometri e quanto tempo hanno percorso quei subsahariani per diventare densa presenza reale, quanto sono invecchiati contro il muro dei venti contrari per trasformarsi in incubo problema vittima del mare. E in un dossier con dei numeri. I migranti africani li ho incontrati ben prima che Lampedusa diventasse una parte della storia del ventunesimo secolo e non un luogo di villeggiatura. Li ho ho visti fitti nei cassoni di camion che sudavano polvere, in equilibrio mirabile sui tetti di sgangherati bus della savana sotto il sole ardente, insaccati con le loro toghe rappezzate in jeep scalcagnate. Perché la povera gente si adatta a tutti i vani come l’acqua e i disperati li puoi schiacciare senza rimorsi come se fossero sacchi o fascine. Sì, c’erano quelli che fuggivano dalle guerre ma quelli andavano a piedi, in file sterminate tenendosi lungo i bordi delle piste di terra rossa come il sangue, perché il fuggiasco sa che deve rendersi quasi invisibile, non essere di impiccio. Ma la maggior parte di loro, be’! erano già “migranti economici”, costretti a emigrare dalla fame dopo essersi dibattuti ogni anno nell’artiglio della miseria. Le genti dell’acacia e del cespuglio e delle periferie di uno squallore disperante. Le loro strade allora andavano verso Sud o verso Ovest, Ghana, Costa d’Avorio, la geografia del caffè, del cacao dove la raccolta offriva ogni anno occasioni di lavoro. Come ora li incontri nelle nostre vigne, o chini nei campi di pomodori e tra gli ulivi. E poi c’erano quelli che scendevano verso l’Africa delle miniere. Perché africani meno poveri non scendevano più sottoterra o sparivano nella foresta a raccoglier con le mani, immersi nel fango, controllati da uomini armati, tesori di cui non intuivano nemmeno il valore. Erano africani a cui la mancanza di lavoro aveva levato la carne. Che avrebbero avuto già diritto ad una pietà piena e profonda. Ma non muovevano nel loro migrare verso di noi. Gente abituata a una vita rassegnata, gli abitanti di luoghi che non erano nessun luogo, gli ostaggi degli aiuti umanitari e della nostra pelosa carità. Poi tutto è cambiato. La globalizzazione ha investito anche l’Africa ed è stato anche sfruttamento, disastri ambientali, violenza, corruzione. Ma l’orizzonte di quegli eterni migranti si è allargato, ha scavalcato le rotte dei Paesi vicini o di quello spicchio di continente su cui fino ad allora avevano, eterni viandanti, camminato. Quale fu la scintilla non sarà mai possibile scoprirlo. Forse la telefonata di un parente fortunato che viveva già in Europa, o qualche secondo di immagini, barche piene di uomini che scendevano sui moli di un Paese ricco, intraviste in qualche sudicio caffè di una capitale africana. Ecco. Fu l’Africa che si rimette in marcia. Questa volta verso Nord, questa volta verso un mare. Prima sono partiti quelli delle terre del kalashnikov, dove infuriano guerre senza fine che una volta si combattevano con lance e machete, ma dove ora è arrivata la modernità, la modernità di imbracciare un mitra spietato. Dicono che in Africa ci siano almeno settanta milioni esemplari di questa diabolica invenzione dell’ingegnere sovietico che rende guerrieri anche i bambini. Ci sono settanta milioni di uomini che lo possiedono e non partiranno mai, perché la possibilità di uccidere è potere e sopravvivenza. E poi ci sono gli altri, molti di più, i non uomini, gli indifesi, le cose, le vittime. Coloro che vivono in un senso innato, perenne di pericolo, quello che noi, in questa parte del mondo, non conosciamo più perchè ci siamo levato di dosso questo vizio della angoscia. Quelli si sono messi in marcia verso di noi. Il loro viaggio parte dal Sudan, dalla Somalia, il Corno d’Africa della prigione a cielo aperto della Eritrea, della Somalia degli Shabaab, del Tigrai ribelle, e poi la Nigeria, il Centrafrica il Congo e i Paesi che il Niger difende dal deserto ma non dai nuovi califfati. Le piste sono quelle antichissime transahariane. Tutto quello che hanno sono numeri di telefono di uomini che li attendono lungo il percorso verso Nord, a loro devono pagare ogni tappa. La nuova Tratta: non sono più legati con la “canga”, l’orribile gogna di legno, ma l’avidità e la ferocia degli appaltatori è la stessa. E poi mescolata all’Africa delle guerre c’è quella della povertà, della fame. Già la fame. A noi danno emozioni solo le carestie, per quelle periodicamente ci mobilitiamo, un poco. Ma le carestie sono una eccezione, fiammate brutali di morte legate a eventi spesso temporanei. Quello che muove gli africani è perenne, la miseria quotidiana, la povertà che è ricerca di un pasto tutti i giorni. Le loro pietose epopee non sono conseguenze del riscaldamento climatico. Sono fitte di nomi: presidenti, caudillos, colonnelli golpisti, alleanze geopolitiche e traffici economici con l’Occidente delle democrazie, dei diritti e del benessere. Li ascoltate e dite: davvero questo e nient’altro è il loro mondo? Non è nient’altro che questo la vita? Attenti: sono molti di più che novecentomila.