“Carceri violente e sovraffollate”. Il richiamo del Cpt all’Italia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 marzo 2023 Dal 41bis alla tutela di donne e trans. Tutte le criticità messe in luce dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti che lo scorso anno ha visitato quattro istituti penitenziari. Revisione del 41 bis, abolizione dell’isolamento diurno, problemi di sovraffollamento nelle carceri, atti di violenza nei confronti dei detenuti ma anche al personale medico da parte dei ristretti con problemi mentali. Ma anche problemi per quanto riguarda le donne e le ristrette trans che, di fatto, rende la pena più afflittiva essendo il carcere pensato esclusivamente al maschile. Non solo. Evidenziate criticità anche per quanto riguarda le RSA che, ai tempi della pandemia, erano state effettuate delle restrizioni causando un effetto dannoso sulla salute mentale degli anziani. Questo e altro ancora è stato evidenziato dal rapporto dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT), a seguito delle visite effettuate dalla sua delegazione. Nel corso della visita condotta in Italia nel periodo marzo/aprile 2022, la delegazione del CPT ha esaminato il trattamento e le condizioni di detenzione delle persone detenute in quattro istituti penitenziari. Particolare attenzione è stata rivolta alle persone soggette a regimi restrittivi, all’impatto del sovraffollamento carcerario e alle restrizioni imposte nel contesto della pandemia da Covid-19, alla situazione delle donne detenute e al trattamento delle persone affette da disturbi mentali. La delegazione ha esaminato inoltre il trattamento dei pazienti ricoverati nei reparti psichiatrici di quattro ospedali civili e di persone anziane non autonome residenti in due case di cura. Particolare attenzione è stata rivolta all’utilizzo di mezzi di contenzione e all’isolamento dei pazienti/residenti di tali strutture. La delegazione ha inoltre esaminato il trattamento delle persone private della libertà da parte delle forze dell’ordine. Nel rapporto il CPT ha evidenziato che il sovraffollamento carcerario è una preoccupazione di lunga data. Il Comitato ha notato che la dimensione complessiva della popolazione carceraria italiana era diminuita in modo significativo a seguito della situazione senza precedenti causata dalla pandemia. Tuttavia, con il ritorno al funzionamento pre covid, la popolazione carceraria ha iniziato ad aumentare di nuovo e, al momento della visita, ammontava effettivamente al 114% della capacità ufficiale di 50.863 posti. Il CPT, nel rapporto, ribadisce che affrontare il problema del sovraffollamento richiede una strategia coerente più ampia, che copra sia l’ammissione in carcere sia il rilascio, per assicurare che la detenzione sia veramente la misura di ultima istanza. La delegazione del CPT ha ricevuto denunce di maltrattamento di detenuti da parte del personale di Polizia penitenziaria in ciascuno degli istituti visitati. Tuttavia, sottolinea che la vasta maggioranza delle persone incontrate nelle carceri visitate ha affermato che il personale di sorveglianza ha tenuto un comportamento corretto nei loro confronti. Dall’altro lato, nelle carceri visitate sono stati segnalati numerosi casi di violenza e intimidazioni tra i detenuti. “Le autorità italiane - osserva il CPT - devono istituire una strategia onnicomprensiva per prevenire la violenza e le intimidazioni tra i detenuti attraverso, inter alia, la promozione di un vero sistema di sicurezza dinamica (sorveglianza dinamica) da parte del personale penitenziario”. In relazione alle misure restrittive e ai regimi di isolamento, il CPT chiede una serie di interventi, tra cui: l’abolizione della misura di isolamento diurno; il riesame della misura di segregazione per assicurare che le decisioni riguardanti la collocazione e il rinnovo della misura siano pienamente motivate, che sia in atto un ricorso a un organismo indipendente e che sia offerto un programma di attività personalizzate; il riesame della gestione dei detenuti sottoposti al 41 bis. In tema di condizioni materiali, il CPT raccomanda di compiere sforzi maggiori in tutte le carceri visitate per assicurare che le celle contengano arredi e forniture adeguati, le finestre siano riparate, i radiatori funzionino, il problema della muffa pervasiva nelle docce comuni venga risolto e la fornitura di acqua calda sia migliorata. Inoltre, osserva che è necessario assicurare a tutte le persone detenute in carcere condizioni di vita minime che garantiscano la loro dignità: ogni persona dovrebbe ricevere una regolare fornitura di prodotti di pulizia e igiene personale come anche biancheria da letto pulita e un cuscino. Inoltre, la qualità della fornitura di cibo nelle carceri deve essere migliorata. Per quanto riguarda il discorso sanitario, il CPT ci tiene e a sottolineare che è molto buona, ma nel contempo osserva che le carceri non offrono un adeguato ambiente terapeutico, in particolare per i malati psichici. Inoltre, le persone considerate ad alto rischio di autolesione o suicidio dovrebbero essere sistemate in celle più sicure. Quanto alle sezioni femminili nelle carceri San Vittore di Milano e Lorusso e Cutugno di Torino, il CPT formula diverse raccomandazioni volte a migliorare le relative condizioni materiali e, in particolar modo, offrire un programma strutturato di attività per le donne con disturbi mentali. “Più in generale - sottolinea il comitato europeo-, le autorità italiane dovrebbero adottare misure concrete per sviluppare un approccio specifico di genere nei confronti delle donne detenute”. Per quanto riguarda i detenuti transessuali, il CPT ha riscontrato l’assenza di una politica o linee guida chiare per la loro gestione e che le donne transessuali incontrate erano spesso sistemate in sezioni detentive in cui le loro esigenze specifiche non venivano soddisfatte. Chiede alle autorità italiane di intervenire per affrontare queste importanti lacune. Volenze e sovraffollamento, Strasburgo (ri)mette le carceri italiane sotto accusa di Viviana Daloisio Avvenire, 25 marzo 2023 Nelle ispezioni dell’organo antitortura del Consiglio d’Europa, l’ennesima, sconfortante fotografia della situazione nei nostri penitenziari. Pestaggi con pugni e calci, accoltellamenti. E poi insulti, minacce, nel caos di strutture fatiscenti, sovraffollate all’inverosimile. Non è una sorpresa il contenuto del rapporto stilato dal Cpt, l’organo antitortura del Consiglio d’Europa, sullo stato delle carceri italiane. Con cui Strasburgo, ancora una volta, mette l’Italia sotto accusa. Appena ieri scrivevamo su queste pagine dell’ennesima inchiesta choc condotta dalle autorità giudiziarie sull’istituto penitenziario di Biella: 23 agenti penitenziari sospesi per il reato di “tortura di Stato” commesso ai danni di tre detenuti. Li picchiavano, sostiene la Procura sulla base delle testimonianze raccolte, e li immobilizzavano col nastro adesivo. L’ultimo degli orrori, dopo quanto visto accadere nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nella primavera del 2020. E solo un’altra miccia pronta a far esplodere lo scontro politico, già infiammato in queste ore per il tramonto della legge sulle madri detenute. Il rapporto di Strasburgo è stato stilato sulla base di alcune visite effettuate un anno fa nelle carceri di Monza, di San Vittore a Milano, al Lorusso e Cutugno di Torino e al Regina Coeli di Roma. Per ciascuno di questi penitenziari sono state denunciate violenze e intimidazioni tra detenuti, in particolare nelle prigioni di Torino e Roma, che - non è una coincidenza - sono anche le due strutture dove negli ultimi mesi si sono registrati più casi di suicidi tra i detenuti: un altro sintomo evidente della situazione drammatica che vivono i nostri penitenziari. Agli ispettori sono stati raccontati e documentati soprattutto casi di pestaggi con pugni e calci, ma anche - come si diceva all’inizio - di un detenuto pugnalato a una gamba. L’altro problema, che il Cpt a dire il vero continua a riscontrare a ogni visita, è quello del sovraffollamento: ciò che si viene a creare quando in un carcere il 90% dei posti è già occupato. Un anno fa nel nostro Paese la popolazione carceraria ammontava al 114% della capacità ufficiale di 50.863 posti. Ma questo dato, evidenzia il rapporto, non racconta la realtà di istituti come quello di Monza e della Capitale, in cui il tasso d’occupazione era del 152%. “È vero, le nostre carceri sono sovraffollate” riconosce il ministro della Giustizia Carlo Nordio, aggiungendo però che il governo ha “ampi progetti per ridurre questa criticità”. Il ministro indica che tra quelli a lungo termine c’è la chiusura delle vecchie carceri, come Regina Coeli appunto, e l’uso di una serie di edifici compatibili con le strutture di detenzione, a cominciare dalle caserme dismesse. Progetti che richiedono, però, una riforma globale del sistema penitenziario, che è quello che ora le associazioni impegnate in prima linea dietro le sbarre esigono con forza. L’altra questione che il Cpt risolleva è quella dell’isolamento diurno, chiedendo di abolirlo, così come il regime legato al 41bis. Per quest’ultimo le richieste sono, per altro, le stesse formulate due anni fa: ben prima che nel nostro Paese il dibattito fosse riaperto dal tormentato caso Cospito. Strasburgo raccomanda che a tutti i detenuti sottoposti a questo regime sia offerta una gamma più ampia di attività e almeno 4 ore al giorno fuori dalle celle, insieme agli altri detenuti del loro gruppo. Inoltre, “a questi detenuti dovrebbero essere concesse maggiori visite ogni mese e la possibilità di accumularle nel caso in cui non ne abbiano usufruito”. Ma anche che abbiano la possibilità di effettuare almeno una telefonata al mese, indipendentemente dal fatto che ricevano una visita nello stesso mese. Di più: il Cpt chiede di cambiare anche le regole per le “aree riservate” al 41bis, cioè quelle in cui le restrizioni sono ancora più dure. La collocazione di qualsiasi detenuto in queste zone, secondo il Cpt, dovrebbe essere limitata nel tempo e soggetta a revisioni mensili, nonché soggetta alla possibilità di presentare ricorso da parte del detenuto. Non è finita. Tra le visite del Cpt di un anno fa, alcune sono state condotte anche all’interno di strutture sanitarie e di degenza per gli anziani, in particolare quel Pio Albergo Trivulzio di Milano già finito nel mirino delle polemiche e delle accuse per la gestione dei pazienti durante l’emergenza Covid. Dove gli ispettori hanno riscontrato “persistenti misure di restrizione” (come la durata massima delle visite dei familiari limitata ancora a soli 45 minuti a settimana o la presenza di personale per evitare il contatto fisico e impedire lo scambio di oggetti) che “potrebbero essere considerate un trattamento disumano o degradante”: in sostanza, questo il rilievo di Strasburgo, l’elevato livello di segregazione degli anziani li ha trasformati di fatto in detenuti e “ha avuto effetti graduali e deleteri sul loro stato di salute somatico e mentale”, soprattutto nella struttura milanese. Nel mirino del Cpt è finita anche un’altra Rsa milanese, l’Istituto Palazzolo: per questa struttura Strasburgo raccomanda il miglioramento delle condizioni materiali di alcuni reparti. Più in generale, l’indicazione al governo italiano è quella di aumentare il numero di infermieri e adottare una regolamentazione nazionale sul ricorso ai mezzi di contenzione per i residenti nelle Rsa. “Abolite l’isolamento diurno e cambiate il carcere duro” di Angela Stella Il Riformista, 25 marzo 2023 Il rapporto dell’organo del Consiglio d’Europa dopo la visita nei nostri istituti di pena: “Serve una strategia più ampia contro il sovraffollamento: la detenzione sia l’ultima ratio. Migliorare la formazione del personale”. “Il sovraffollamento carcerario rappresentava un problema, con carceri che operavano al 114% della loro capacità ufficiale di 50.863 posti al momento della visita. Affrontare il problema del sovraffollamento richiede una strategia coerente più ampia, che copra sia l’ammissione in carcere sia il rilascio, per assicurare che la detenzione sia veramente la misura di ultima istanza. Allo stesso tempo, è necessario prendere delle misure per migliorare le condizioni materiali nelle carceri visitate”: così si legge nel rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti pubblicato ieri in merito alla sua visita periodica in Italia condotta nel periodo marzo/aprile 2022. In realtà alcune carceri avevano tassi di overcrowding superiori al 140% della loro capacità ufficiale, come Monza, Lorusso e Cutugno (Torino) e Regina Coeli (Roma). “È vero, le nostre carceri sono sovraffollate, ha commentato il Ministro Nordio a margine di un convegno ad Udine - abbiamo ampi progetti per ridurre questa criticità. Un progetto a lungo termine riguarda la dismissione delle vecchie carceri, come Regina Coeli che può essere venduto sul mercato, prevedendo la costruzione di nuove case, ma anche un progetto a lungo termine, soluzione più ambiziosa e definita, di utilizzare una serie di edifici, a cominciare da caserme dismesse, che hanno struttura compatibile con il carcere”. Ha aggiunto: “con pochi soldi potremmo ristrutturare queste caserme dismesse e questo ci consentirebbe una detenzione differenziata per i detenuti condannati per reati di diversa gravità, con uno sfoltimento della popolazione carceraria con queste caserme che sono molto diffuse, e che hanno degli spazi compatibili con una delle funzioni essenziali della pena - ha concluso il ministro - che è quella rieducativa, attraverso la pratica dello sport e il lavoro all’interno dello spazio carcerario”. Il rapporto ha evidenziato “inoltre numerose segnalazioni di violenza e intimidazioni tra i detenuti nelle carceri visitate. Le autorità italiane devono istituire una strategia onnicomprensiva per prevenire tali violenza e intimidazioni attraverso, inter alia, la promozione di un vero sistema di sicurezza dinamica (sorveglianza dinamica) da parte del personale penitenziario che migliorerebbe il controllo e la sicurezza e renderebbe il lavoro degli agenti di Polizia penitenziaria più appagante. La delegazione ha ricevuto inoltre alcune denunce di maltrattamento di detenuti da parte del personale di Polizia penitenziaria. Le autorità italiane dovrebbero migliorare la formazione del personale sull’uso di metodi di controllo e contenzione sicuri, in particolare per i detenuti con tendenza all’autolesionismo e disturbi mentali”. In relazione alle misure restrittive e ai regimi di isolamento, il CPT chiede una serie di interventi, tra cui l’abolizione dell’isolamento diurno e “il riesame della gestione dei detenuti sottoposti al regime “41-bis”, in linea con le raccomandazioni di lunga data del CPT (confliggerebbe con l’articolo 27 della Costituzione, ndr), che il Comitato ritiene potrebbe essere raggiunto attraverso l’adozione di una Circolare di modifica del regime in questione emessa dal DAP”. “Quello che emerge nel rapporto - ha sottolineato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - è in larga parte coerente con la situazione che Antigone denuncia da tempo e che avevamo avuto modo di manifestare durante la consultazione che avemmo con la delegazione, nonché con le proposte che da noi arrivano per una riforma del sistema penitenziario che guardi alla pena come elemento di risocializzazione della persona”. In particolare sulla questione del sovraffollamento ha dichiarato: “da tempo Antigone chiede un incremento delle misure alternative, sottolineando come ci siano migliaia di detenuti con pene brevi, che ben potrebbero accedere a percorsi diversi dalla detenzione in carcere. Inoltre, da tempo, chiediamo che su alcuni temi, ad esempio quelli legati alle politiche sulle droghe, si proceda a una serie di depenalizzazioni così da affidare le persone con dipendenze a un percorso di cura e non a un percorso penale e detentivo”. Abolire il reato di tortura “per tutelare l’immagine della polizia”, la folle proposta di FdI di Carmine Di Niro Il Riformista, 25 marzo 2023 Lo aveva già annunciato nel 2018, il reato di tortura “impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro” e per questo andava abolito. Oggi che è presidente del Consiglio, Giorgia Meloni mantiene la promessa in merito a quell’annuncio. Fratelli d’Italia ha presentato una proposta di legge per annullare il provvedimento introdotto nell’ordinamento italiano nel 2017, dopo un tormentato iter parlamentare. La necessità di introdurre tale reato emerse dopo i drammatici fatti del G8 di Genova del 2001: l’Italia fu sanzionata nel 2015 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per per la mancanza di adeguate ed efficaci misure di prevenzione e repressione delle condotte di tortura, contrarie all’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, qualificando le violenze commesse in quei giorni dalle forze di polizia contro i manifestati come tortura. Il testo, che vede tra prima firmataria Imma Vietri (assieme a Amich, Cangiano, Cerreto, Chiesa, Ciaburro, Iaia, La Porta, Longi, Maiorano, Michelotti e Tremaglia), intende di fatto eliminare gli articoli 613-bis e 613-ter del codice penale che introducevano il reato e si lascia in piedi solo una sorta di aggravante all’articolo 61 del codice. Una proposta a sole 24 ore dalla notizia della sospensione di 23 agenti di polizia penitenziaria del carcere di Biella, accusati proprio di tortura ai danni di tre detenuti che sarebbero stati “colpiti con calci pugni e schiaffi mentre erano ammanettati e denudati”, come da accusa del pubblico ministero. La risposta della maggioranza è un liberi tutti perché, nella logica meloniana, se non si abrogassero gli articoli 613-bis e 613-ter “potrebbero finire nelle maglie del reato in esame comportamenti chiaramente estranei al suo ambito d’applicazione classico, tra cui un rigoroso uso della forza da parte della polizia durante un arresto o in operazioni di ordine pubblico particolarmente delicate o la collocazione di un detenuto in una cella sovraffollata”. La proposta di legge fa proprio il caso delle carceri, dove sono sorte le principali indagini e processi proprio in merito alla tortura. Secondo Fratelli d’Italia “gli appartenenti alla polizia penitenziaria rischierebbero quotidianamente denunce per tale reato a causa delle condizioni di invivibilità delle carceri e della mancanza di spazi detentivi, con conseguenze penali molto gravi e totalmente sproporzionate”. “Alla luce di tali considerazioni, per tutelare adeguatamente l’onorabilità e l’immagine delle Forze di polizia, che ogni giorno si adoperano per garantire la sicurezza pubblica rischiando la loro stessa vita e per evitare le pericolose deviazioni che l’applicazione delle nuove ipotesi di reato potrebbe determinare, la presente proposta di legge - si sottolinea ancora nella relazione - prevede l’introduzione di una nuova aggravante comune per dare attuazione agli obblighi internazionali” e “la contestuale abrogazione delle fattispecie penali della tortura e dell’istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura di cui rispettivamente agli articoli 613-bis e 613-ter del codice penale”. Immediata le razioni delle opposizioni. La più dura è quella della senatrice di Alleanza Verdi-Sinistra Ilaria Cucchi, che si è spinta ad un appello al capo dello Stato Sergio Mattarella affinché non si cancelli dall’ordinamento l’aggravante del reato di tortura “come invece intende fare Fratelli d’Italia”. “Sostenere che la tortura in Italia non esista è una bugia. Far finta di niente e voltarsi dall’altra parte è già questa una violazione dei diritti umani e lo so perché l’ho provata sulla mia pelle - ha affermato la senatrice -. Più di un giudice, prima dell’introduzione di questa legge si è trovato a non poter procedere perché la legge non esisteva. Abbiamo lottato per la sua introduzione e ora rivolgo un appello a tutte le forze politiche soprattutto al Presidente della Repubblica: giù le mani dalla legge che punisce la tortura. Chi ha paura del reato di tortura legittima la tortura”, l’attacco durissimo di Cucchi. L’abolizione del reato di tortura sarebbe un triste primato di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 25 marzo 2023 Sembra quasi fatto apposta. Nello stesso giorno in cui è stato pubblicato il rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) che aveva visitato l’Italia circa un anno fa, Fdi presenta una proposta di legge per abrogare il reato di tortura. Era il 1992 quando ci fu la prima visita ispettiva in Italia di un Comitato di cui pochi conoscevano funzioni, potenzialità, forza. Non era ovvio, e non lo è ancora, vedere esperti di altri paesi entrare in carceri, caserme, commissariati, ospedali psichiatrici, centri di detenzione per migranti senza dover elemosinare un’autorizzazione ministeriale. Il Cpt è un organismo del Consiglio d’Europa dotato di poteri ispettivi in un campo, quello penale e carcerario, dove gli Stati hanno sempre rivendicato la loro sovranità assoluta. La sovranità assoluta è però sempre fonte di violazioni di diritti fondamentali come ci hanno insegnato nella storia Kant, Kelsen, Einstein, Freud, Spinelli e, infine, Ferrajoli con la sua proposta di una Costituente per la terra. Mi soffermo solo su tre tra le osservazioni conclusive del Cpt rivolte alle autorità italiane, dopo avere visitato, tra i tanti luoghi, le carceri di Roma Regina Coeli, Monza, Torino Lorusso e Cotugno, Milano San Vittore: 1) con il ritorno al normale funzionamento del sistema giudiziario, la popolazione carceraria ha iniziato ad aumentare di nuovo e, al momento della visita, ammontava effettivamente al 114% della capacità ufficiale di 50.863 posti. Il CPT ribadisce che affrontare il problema del sovraffollamento richiede una strategia più ampia per assicurare che la detenzione sia veramente la misura di ultima istanza. 2) La delegazione del CPT ha ricevuto denunce di maltrattamento di detenuti da parte del personale di Polizia penitenziaria in ciascuno degli istituti visitati. Tuttavia, la vasta maggioranza delle persone incontrate nelle carceri visitate ha affermato che il personale di sorveglianza ha tenuto un comportamento corretto nei loro confronti 3) In relazione alle misure restrittive e ai regimi di isolamento, il CPT chiede una serie di interventi, tra cui: l’abolizione della misura di confinamento solitario imposto dal tribunale ai sensi dell’Articolo 72 del Codice penale, noto come isolamento diurno; il riesame della misura di segregazione secondo l’Articolo 32 del Regolamento di esecuzione dell’ Ordinamento penitenziario per assicurare che le decisioni riguardanti la collocazione e il rinnovo della misura siano pienamente motivate, che sia in atto un ricorso a un organismo indipendente e che sia offerto un programma di attività personalizzate; il riesame della gestione dei detenuti sottoposti al regime “41-bis”, in linea con le raccomandazioni di lunga data del CPT. Dunque si chiede allo Stato di ridurre la pressione numerica della popolazione detenuta, ossia di diversificare il sistema sanzionatorio e di puntare su misure non detentive. Dal governo, però, arrivano brutti segnali in questa direzione. Si pensi alla norma sui rave parties o alla stucchevole decisione populista di affossare il disegno di legge sulle detenute madri. Si rammenta come la violenza dei poliziotti è stata denunciata in tutti gli istituti visitati e allo stesso modo come ciò riguardi una minoranza dello staff penitenziario. E sempre di ieri la notizia che la procura di Biella ha sospeso 23 agenti della polizia penitenziaria per le torture avvenute nell’agosto del 2022. Si parla di botte, violenze fisiche e psicologiche, uso di nastro adesivo per contenere i detenuti nonostante non fosse previsto dalle norme, clima di sopraffazione. Dunque il rischio di essere sottoposti a tortura e maltrattamenti esiste. Chiudere gli occhi significa non rendere servizio alla giustizia e ai tanti agenti che si muovono nel solco della legalità. Infine, si chiede di ridurre tutte le forme di isolamento penitenziario, pratica devastante dal punto di vista psico-fisico. L’isolamento è sempre l’anticamera del dolore nonché della degradazione fisica e mentale. In particolare con forza viene ribadito come andrebbe abrogato l’articolo 72 del codice penale che prevede l’isolamento diurno fino a tre anni per i pluri-ergastolani. Una misura senza senso, violenta, afflittiva, irriguardosa delle norme internazionali, illiberale e dunque tipica della cultura fascista che permea di sé il codice Rocco. Rispetto a tutto questo la risposta delle autorità italiane si muove sul filo della burocrazia e non evoca proposte di riforma. E ieri arriva la proposta del partito di Giorgia Meloni. Anziché impegnarsi per abolire la tortura preannuncia la cancellazione del delitto. Non si è mai visto un paese democratico che abroga il crimine di tortura. Sarebbe un triste, tragico primato. *Presidente di Antigone FdI vuole cancellare il reato di tortura di Marina Della Croce Il Manifesto, 25 marzo 2023 Un pdl in commissione Giustizia alla Camera. Il Pd: “Agghiacciante”. Sembra proprio che imbarbarire questo Paese sia il vero e unico motivo per cui governano. Dopo l’attacco ai migranti e a chi li salva, dopo la scelta di tenere in prigione le mamme con figli, come se non bastasse adesso la maggioranza di centrodestra punta ad abolire il reato di tortura, faticosamente introdotto nel codice penale nel 2017. A farlo è una pattuglia di deputati di Fratelli d’Italia che a novembre del 2022 ha presentato una proposta di legge che prevede di cancellare due articoli, il 613 bis (tortura) e il 613 ter (istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura), salvando solo una sorta di aggravante all’articolo 61 del codice penale. Il testo, prima firmataria Imma Vietti, è arrivato adesso in commissione Giustizia della Camera per essere discusso. Con un tempismo perfetto, visto che proprio ieri 23 agenti del carcere di Biella sono stati sospesi dal servizio per aver picchiato tre detenuti e il Cpt, l’organo anti tortura del Consiglio d’Europa, ha lanciato l’allarme sulle carceri italiane “violente e sovraffollate”. “Sostenere che la tortura in Italia non esista è una bugia. Far finta di niente e voltarsi dall’altra parte è già questa una violazione dei diritti umani e lo so perché l’ho provata sulla mia pelle”, ha commentato Ilaria Cucchi, sorella di Stefano e senatrice di Sinistra-Verdi che fa appello al capo dello Stato della Mattarella perché intervenga per impedire che il reato venga cancellato. L’obiettivo dei firmatari è offrire maggiori garanzie ai componenti delle forze dell’ordine, “in particolare del personale delle Forze di polizia che per l’esercizio delle proprie funzioni è autorizzato a ricorrere legittimamente anche a mezzi di coazione fisica”. Un esempio sono gli appartenenti alla polizia penitenziaria che - è scritto nella relazione del pdl - “rischierebbero quotidianamente denunce per tale reato a causa delle condizioni di invivibilità delle carceri e della mancanza di spazi detentivi, con conseguenze penali molto gravi e totalmente sproporzionate”. “Il rischio di subire denunce e processi strumentali - osservano i deputati di FdI - potrebbe, inoltre, disincentivare e demotivare l’azione delle Forze dell’ordine, privando i soggetti preposti all’applicazione della legge dello slancio necessario per portare avanti al meglio il loro lavoro, con conseguente arretramento dell’attività di prevenzione e repressione dei reati e uno scoraggiamento generalizzato dell’iniziativa delle Forze dell’ordine”. La notizia del nuovo attacco delle destre ha scatenato la reazione di tutte le opposizioni: Pd, 5 Stelle, Azione, Italia viva, +Europa. La capogruppo dei senatori pd Simona Malpezzi definisce “agghiacciante” la proposta di FdI e chiede alla premier Meloni se “il suo governo e la sua forza politica vogliono attaccare una norma in difesa dei diritti umani?”. Alla premier si rivolge anche il dem Alfredo Bazoli: “Non ci siamo dimenticati - ricorda il senatore - di quando l’attuale presidente del consiglio dichiarò che con quel reato si impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro”, mentre Riccardo Magi di +Europa che parla di “schizofrenia legislativa” di FdI: “Da un lato annuncia di voler introdurre, incostituzionalmente, nuovi reato universali inventandoseli di sana pianta, come nel caso della Gpa, dall’altra vuole l’abolizione di reati reali che danneggiano l’immagine del nostro paese, come quelli commessi appunto dalle forze dell’ordine”. Per il governo torturare i detenuti non è reato di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 25 marzo 2023 Il Cpt del Consiglio d’Europa, nel suo rapporto sull’Italia, parla dei maltrattamenti in carcere e del sovraffollamento. Cita anche il pestaggio di Santa Maria dove gli agenti sono accusati di tortura. Reato che FdI vuole eliminare. Alcuni deputati di Fratelli d’Italia hanno presentato una proposta di legge per abrogare il reato di tortura. Una decisione che arriva a poche ore di distanza dalla sospensione di 23 agenti della polizia penitenziaria, accusati di tortura di stato nei confronti di tre detenuti a Biella, e nel giorno in cui l’organo anti tortura del Consiglio d’Europa segnala evidenti problematicità legate al sistema carcerario italiano. La proposta intende abrogare gli articoli 613-bis e 613-ter del codice penale, rimarrebbe in vigore soltanto una sorta di aggravante nell’articolo 61. Immediata la reazione della senatrice di Alleanza Verdi e Sinistra Ilaria Cucchi: “Giù le mani da questa legge. Questa legge ce la siamo sudata e questa legge si è dimostrata essere indispensabile. In passato tanti giudici hanno dichiarato di non poter procedere per tortura in quanto il reato non esisteva, oggi esiste, chi ha paura del reato di tortura in qualche modo legittima la tortura”. Il rapporto del Cpt - Denunce per maltrattamento fisico, sovraffollamento, condizioni nelle carceri al limite della sufficienza. Sono queste alcune delle considerazioni finali pubblicate nel rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt) dopo la visita effettuata dai suoi membri dal 28 marzo all’8 aprile del 2022. Nel documento viene anche citata l’inchiesta sul pestaggio contro i detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere e i video pubblicati da Domani. Guidati dal presidente del Cpt, Alan Mitchell, la delegazione ha visitato in totale quattro istituti penitenziari: il carcere di Monza, San Vittore a Milano, quello di Lorusso e Cutugno a Torino, e infine quello di Regina Coeli a Roma. La delegazione ha valutato anche il trattamento dei pazienti ricoverati nei reparti psichiatrici di quattro ospedali e delle persone anziane presenti in alcune Rsa, visitando il padiglione Fornari del Pio Albergo Trivulzio e l’istituto Palazzolo. Lo stato delle carceri - Uno dei dati più preoccupanti emersi dal rapporto è lo stato di sovraffollamento degli istituti penitenziari, con una media del 114 per cento della capienza occupata che in alcuni casi arriva anche fino al 140 per cento. Questo comporta vivere in celle che spesso non sono conformi agli standard europei. Al 27 aprile 2022, quasi 10mila persone nelle carceri italiane erano detenute in celle con uno spazio abitativo inferiore a quattro metri quadri ciascuna, non rispettando il limite minimo della Cpt. Al sovraffollamento si sommano le denunce per maltrattamenti dei detenuti “da parte del personale della Polizia penitenziaria”. Denunce che sono state ricevute dalla delegazione in tutti e quattro gli istituti penitenziari visitati. Nel documento dell’organo anti tortura del Consiglio d’Europa viene anche citato il pestaggio avvenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sollevato da Domani. Qui, nell’aprile del 2020, decine di detenuti sono stati picchiati dagli agenti della polizia penitenziaria. Oggi, c’è un processo in corso sul caso in cui sono imputati 105 agenti. Nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino è emersa, invece, “la sensazione generale dei detenuti che il personale era diventato meno aggressivo nei suoi interventi negli ultimi due anni”. Una notizia migliore rispetto ai casi di maltrattamento emersi negli anni precedenti alla pandemia che hanno portato a un processo in corso con rito abbreviato per l’ex direttore del carcere Domenico Minervini, l’ex comandante della penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza e l’agente Alessandro Apostolico. Altri 21 agenti sono a processo ordinario. Ma “non c’è spazio per l’autocompiacimento”, scrive la delegazione riguardo il miglioramento delle condizioni del carcere di Torino, visto il triste quadro finale. Nei quattro istituti penitenziari visitati sono stati segnalati anche numerosi casi di violenza e intimidazioni tra i detenuti. Per evitare pestaggi e spedizioni punitive in carcere il Cpt raccomanda al Dap di adottare misure per sviluppare un “approccio di sicurezza dinamica” che possa anche fornire “attività propositive per preparare i detenuti al reinserimento nella comunità”. Infine, il rapporto si focalizza anche sul rispetto dei diritti civili all’interno delle istituzioni carcerarie. Per quanto riguarda i detenuti transessuali è stata riscontrata “l’assenza di una politica o linee guida chiare per la loro gestione”, proprio per questo “è necessario intervenire per affrontare queste importanti lacune”. Il silenzio del governo - L’unico esponente della maggioranza che si è espresso sulle considerazioni del rapporto è il ministro della Giustizia Carlo Nordio. “È vero, le nostre carceri sono sovraffollate, abbiamo ampi progetti per ridurre questa criticità”, ha detto il guardasigilli mentre la premier Meloni non si esprime. Tra i progetti in discussione c’è anche l’idea di utilizzare una serie di uffici al momento liberi come le caserme dismesse. Il 41 bis - Il Cpt chiede una serie di interventi alle autorità italiane riguardo alcune misure restrittive in carcere tra cui l’abolizione dell’isolamento diurno e il riesame delle gestione dei detenuti sottoposti al regime del 41 bis. Nello specifico, il Cpt chiede che i detenuti al 41 bis abbiano: un’offerta più ampia ad attività utili; possano trascorrere almeno 4 ore al giorno fuori dalle loro celle; più visite e il permesso di effettuare almeno una chiamata al mese. Infine, per quanto riguarda il sistema carcerario il Cpt chiede all’Italia di rispettare i servizi basilari essenziali e quindi che “le finestre siano riparate”, “i radiatori funzionino”, garantire il miglioramento della fornitura dell’acqua calda Le forze dell’ordine - “La delegazione ha ricevuto una serie di denunce di maltrattamento fisico (tra cui un uso eccessivo della forza) da parte di agenti della Polizia di stato e dei carabinieri”, si legge nel documento. Per far fronte alla problematica, l’organo chiede alle autorità italiane di fornire agli agenti gli “strumenti adeguati per eseguire gli arresti e fermi senza utilizzare maggiore forza di quella strettamente necessaria”. Da qui anche la proposta di considerare l’introduzione di videocamere indossabili da parte degli agenti delle forze dell’ordine. In circa 90 pagine di rapporto, il Cpt, visitando solo quattro istituti penitenziari, restituisce al governo italiano un sistema carcerario con tante lacune da colmare affinché la normativa europea e i diritti umani vengano garantiti per tutti detenuti. Ilaria Cucchi: “Il reato di tortura ce lo siamo sudato e non si tocca”. Poi si appella al Capo dello Stato di Simona Buscaglia La Stampa, 25 marzo 2023 Arriva in commissione Giustizia la proposta di un gruppo di deputati per eliminare gli articoli del codice penale approvati nel 2017. Il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Tommaso Foti: “Non vogliamo abrogare il reato, solo tipizzarlo in modo nitido”. “Faremo una battaglia serrata, piuttosto mi incateno, ma la legge che punisce il reato di tortura non si tocca”. Le parole della senatrice di Alleanza Verdi e Sinistra, Ilaria Cucchi, sono accolte dal fragoroso applauso degli studenti della Statale, che in un’aula gremita dell’ateneo milanese oggi hanno assistito all’incontro “Vite di serie A e Vite di serie B - la condizione dei detenuti oggi”. La dichiarazione di Cucchi si riferisce alla proposta di legge per abrogare il reato di tortura presentata da alcuni esponenti di Fratelli d’Italia alla commissione Giustizia della Camera: “Sono sicura che non sarò l’unica a oppormi, ci sono altri parlamentari e molte associazioni che insieme a me nel 2017 hanno combattuto molto per l’introduzione di quel reato nell’ordinamento italiano - aggiunge Cucchi - quella che eravamo riusciti a far approvare era una legge magari non perfetta ma è stata un importante strumento per i giudici, per permettere loro di agire. Tanti in passato non potevano condannare per tortura perché non esisteva una legge. Abrogare il reato di tortura equivale a legittimarla”. Ieri il Cpt, l’organo anti tortura del Consiglio d’Europa, nel rapporto basato su una visita di un anno fa, denuncia non solo le carceri italiane sovraffollate ma anche violenze e intimidazioni tra detenuti. E se il ministro della Giustizia Carlo Nordio ammette il problema del sovraffollamento e parla di “ampi progetti per ridurre queste criticità”, dalla Statale la senatrice Cucchi sottolinea alcuni punti necessari da cui partire per affrontare il problema: “Molti detenuti sono malati psichiatrici e tossicodipendenti che non dovrebbero essere in carcere. Partiamo quindi dal prevedere strutture adeguate per i malati psichiatrici e percorsi in comunità per i tossicodipendenti. Molti scontano una detenzione per reati minori che potrebbero avere pene alternative. Inoltre, in molte carceri che ho visitato non si svolgono abbastanza attività di studio o lavoro, che possono ridare dignità e garantire un futuro fuori”. In merito alla questione del ddl di Debora Serracchiani, emendato e stravolto dal centrodestra, e quindi ritirato dallo stesso Pd, sulla delicata questione della tutela del rapporto tra detenute e madri e figli minori, Cucchi non ha dubbi: “Bambini e carcere sono due cose incompatibili. Per risolvere la gran parte dei problemi del carcere di oggi bisognerebbe usare una parola sola: umanità”. Sulla vicenda che riguarda l’anarchico Alfredo Cospito, da mesi in sciopero della fame contro il regime di carcere duro, la senatrice precisa: “Per i reati per cui è accusato secondo me non dovrebbe essere al 41 bis. Quando fu introdotto era importante ci fosse ma adesso è una sconfitta dello Stato”. Anche se le carceri vengono spesso considerate alla stregua di “discariche sociali” devono comunque rimanere sotto i riflettori: “Di storie come quelle di mio fratello Stefano ce ne sono molte, le nostre carceri sono stracolme di persone come lui - conclude Cucchi - Tenere alta l’attenzione vuol dire fare in modo che quello che gli è accaduto non si ripeta più. Mio fratello è morto nell’indifferenza, la stessa che si riserva troppo spesso a tutti quegli ultimi che non hanno voce e che abitano le nostre carceri sovraffollate”. Dalla parte dei bambini di Lorenzo Marone La Stampa, 25 marzo 2023 Negli istituti con le donne detenute ci sono figli che non hanno colpe. Ancora una volta sui loro diritti prevale il famelico bisogno di una giustizia da sceriffi che li sacrifica per colpire i genitori. Io ci sono stato in un Istituto a custodia attenuata per detenute madri (comunemente chiamato Icam), ci sono stato in un assolato giorno di primavera del 2021, ho trascorso con i bambini di Lauro, in provincia di Avellino, qualche ora e ho cercato poi di raccontare la mia esperienza attraverso la forma di narrazione che prediligo, il romanzo. Le ricordo ancora bene le facce di quei bambini, le loro grida, la voglia e la fretta che avevano di giocare, di mostrarsi, di rendersi non più invisibili, forse. Ricordo la surreale sensazione, la contrapposizione tra i confini fisici intorno a noi e la libertà delle loro corse. E ciò che mi sento di dire, ciò che mi preme innanzitutto ricordare, adesso che la proposta di legge Siani, volta a tenere i bambini fuori dal carcere, è stata ritirata in Commissione Giustizia perché ostacolata a tal punto da divenire peggiorativa rispetto alla situazione attuale, è che tale proposta aveva il solo scopo di salvaguardare quei bambini. Era stata ideata e costruita per garantire i diritti di questi a vivere un’infanzia il più possibile serena, era nata con l’intento di provare a salvarli dalla reclusione forzata alla quale sono invece costretti. All’interno degli Icam, è bene ricordarlo, prima ancora delle detenute, quindi di donne colpevoli di reati più o meno gravi, ci sono i loro figli, i bambini, che certamente colpevoli non sono. È di loro che si discute, del loro diritto a crescere in un ambiente non deprivato qual è quello di un carcere, seppur a detenzione attenuata. Questi Istituti, sorti proprio per venire incontro alle necessità dei piccoli, per far sì che potessero stare con le madri che scontavano un periodo di detenzione, si sono rivelati nel tempo inadatti, perché, sebbene nei cortili interni ci siano le giostrine e le guardie penitenziarie non abbiano divisa e non portino armi, restano comunque carceri, con le sbarre alle finestre e le porte blindate chiuse a chiave la sera alle ventidue, con barriere, grate, telecamere e serrature ovunque. Perché la detenzione resta detenzione. Non è un caso che, come mi raccontò l’allora direttore dell’Icam di Lauro, la prima parola di una bambina “ospite” dell’Istituto fu proprio “apri”. Mi sembra che ancora una volta abbia prevalso il bisogno famelico di giustizia, di una giustizia “da sceriffo” di una certa parte politica e dell’elettorato che rappresenta. La volontà di punire viene, si direbbe, prima della volontà di salvare le vittime. I bambini sono sacrificati per colpire i genitori, che siano migranti su un barcone, che siano nati attraverso la maternità surrogata, che siano figli di donne colpevoli di reati, pagano loro in primis per le (eventuali) colpe dei padri e delle madri. In un mondo civile gli uomini dovrebbero potersi muovere liberamente, in un mondo civile i diritti si garantiscono, non si ostacolano, in un mondo sano i bambini sono messi al centro dalla politica. A dispetto della propaganda di alcuni, in quel carcere nascosto tra i monti dell’Irpinia, come in ogni istituto penitenziario del Paese, non c’erano solo rom, c’erano donne di tutte le nazionalità: c’erano madri italiane, madri dell’est Europa, madri africane. Madri e basta. Madri con i loro figli. A questi bambini noi guardiamo oggi, per questi bambini chiediamo giustizia, anzi chiediamo una legge. Perché non può esserci giustizia senza legge, non può esserci giustizia al di fuori della legge. Perché la legge serve a garantire pari opportunità e uguale trattamento, serve a proteggere i più deboli, gli ultimi. E i bambini lo sono sempre di più, ultimi, nella nostra società. Il disegno di legge Siani si proponeva di sostituire gli Icam con delle apposite case-famiglia, strutture da individuare tra i beni confiscati alle mafie, all’interno delle quali i bambini avrebbero potuto condurre una vita più serena, quasi ordinaria, senza esseri spinti, come spesso avviene oggi, come mi è stato da più parti raccontato, a nascondere ai compagni di scuola la propria provenienza, a raccontare bugie sulla propria condizione, a dire che “la mamma non c’è perché ha sempre mal di testa.” Molti in questi mesi mi hanno detto di aver sperato in un finale diverso per il mio romanzo, ma che finale diverso avrei mai potuto scrivere, che lieto fine può mai esserci per questi ragazzi che trascorrono i primi anni della loro vita dentro un carcere? In che futuro dobbiamo sperare per loro se invece di aiutarli gli giriamo le spalle? Nel cortile dell’Icam di Lauro mi venne incontro un bambino dalla faccia paffuta che in dialetto napoletano mi chiese di giocare con lui, per mostrarmi quanto fosse bravo nelle capriole, o ad arrampicarsi sullo scivolo al contrario. Per l’intera mattina che trascorsi lì, quel ragazzo simpatico non mi lasciò un attimo, e per tutto il tempo una bimba di cinque anni rimase a guardarci giocare dalla sua cella, il viso dietro le sbarre. Che vergogna “il miglior interesse del bambino” (sbattuto in carcere) di Annalena Benini Il Foglio, 25 marzo 2023 Un milione e mezzo di euro: tutto quello che serve per le case famiglia, soldi che sono stati già stanziati, una piccola cifra per non tenere i bambini in prigione. Formalmente, sono liberi. Ospiti della struttura. Invece scontano una pena, la pena delle loro madri. La prima parola che un bambino impara in carcere, subito dopo mamma (se nasci in carcere hai solo tua madre) è: apri. Apri questa porta che mi sono svegliato, fai scattare il chiavistello, fammi uscire. Uscire dove? In corridoio, nella zona comune, nel giardino di cemento e nella cucina con le pareti dipinte di azzurro per farla sembrare meno una galera. È una galera, se devi dire: apri. È una galera, se hai subìto problemi di vista perché i tuoi occhi non possono abituarsi a un orizzonte. Quale orizzonte? Un muro. La tv sul muro. Le macchie sul muro. I disegni attaccati al muro. La luce al neon e poi sempre sempre sempre il rumore del ferro. Le chiavi di ferro, le porte di ferro, le inferriate di ferro dove sbattere gli oggetti e sbattere le mani. Si può imparare a giocare sbattendo le cose sul ferro? Si può fare tutto, si può credere che la vita sia così anche per gli altri bambini, non solo per questi ventisei reclusi nelle carceri italiane insieme alle loro ventitré madri. E per quelli che nasceranno in carcere grazie alla bella considerazione che ha questo governo per i suoi bambini. Bambini con due madri o con due padri o nati altrove per un desiderio spinto al massimo? Marginali. Bambini nati da borseggiatrici, ragazze rom, tossicodipendenti? Marginali. Restate dove siete, bambini che noi vi amiamo tanto, ma siete colpevoli di marginalità. Restate lì e imparate a giocare con il ferro delle inferriate, perché noi dobbiamo gridare che puniamo le vostre madri, perché a noi non la si fa, siamo più furbi. Un milione e mezzo di euro: tutto quello che serve per le case famiglia, soldi che sono stati già stanziati, una piccola cifra per non tenere i bambini in prigione. Formalmente, sono liberi. Ospiti della struttura. Invece scontano una pena, la pena delle loro madri. Uno di questi bambini è nato in cella, per terra. Un altro ha cominciato a uscire con i volontari tre volte la settimana, è andato ai giardinetti. E adesso la sera piange, quando lo chiudono dentro. Sapete che i volontari devono fare attenzione a non far divertire troppo questi bambini? A non fargli vedere cose troppo belle, come la cucina di una vera casa, come la gelateria con i coni e i gusti in esposizione. Come i bambini per mano alle loro mamme per strada che piangono perché vogliono tornare a casa. Sono cose davvero troppo belle, insopportabilmente belle, i bambini galeotti poi se le sognano di notte e piangono, diventano rabbiosi, e le madri come fanno a calmarli? E’ interessante questa ossessione per cosa sia più giusto per un bambino, in quale tipo di famiglia debba nascere, come dev’essere la madre, non troppo giovane, non troppo vecchia, come dev’essere il padre, quindi tu non vai bene, neanche tu vai bene, mi dispiace ma non posso riconoscerti, sei dannoso per questo bambino, sei una reato universale per questo bambino. E poi però va benissimo che i neonati stiano in carcere, che i bambini di due anni giochino in carcere, che qualcuno coscientemente, politicamente, li sbatta in carcere. Alle migliori condizioni per la loro salute. Le migliori condizioni sono un danno esistenziale grave alla crescita dei bambini: un luogo livido per il quale provare presto vergogna. La vergogna che proviamo noi nei loro confronti, adesso, ma noi siamo liberi e loro no, loro sono innocenti e noi no. Difficile immaginare, della galera, il ben che vi si trova di Adriano Sofri Il Foglio, 25 marzo 2023 Chi non c’è stato, si dice, non può immaginarne la pena e l’infamia. Ma nemmeno i bei ricordi che ne restano. Come quello di una bambina in visita che gattona nel parlatorio, e fa conoscenza con ladri e truffatori, piccoli spacciatori e piccolissimi spacciati. Chi non è stato in galera, si dice, non può immaginarne la pena e l’infamia. Gli è quasi altrettanto difficile, e forse di più, immaginare il ben che vi si trova, e i bei ricordi che ne restano. A me, per esempio, un particolare ricordo del parlatorio, dove si incontrano i famigliari. E’ una sala colloqui all’antica, dove i contatti fisici sono per regolamento proibiti, e fra i detenuti e i parenti in visita c’è una massiccia separazione, un muro di un metro d’altezza e un metro e mezzo di larghezza, con un ripiano - di legno, o di mattonelle. Sporgendosi, si può darsi la mano, o un bacio, o una carezza, se l’agente addetto alla sorveglianza è di quelli che chiudono un occhio - parliamo di una detenzione “normale”, senza particolari misure di sicurezza, gente innocua. Se no, no. E’ spesso una babele, c’è il famoso sovraffollamento anche lì, e doversi parlare a distanza costringe ad alzare la voce, e una voce alzata costringe le altre ad alzarsi di più, e finisce in un vero baccano. Un passante distratto, o cretino (non ci sono passanti là) direbbe che i detenuti e i loro parenti non sanno parlare senza gridare. C’è chi piange, naturalmente. A volte si sta così addosso gli uni agli altri che non si può fare a meno di confondere quello che dicono i tuoi con quello che dicono quelli degli altri. A volte si chiede scusa ai propri e si toglie loro un paio di minuti per il piacere di fare conoscenza e scambiare chiacchiere con quelli degli altri, che poi sono i propri compagni di galera, i propri amici, i propri fratelli - fratello è nome prediletto dai detenuti. Insomma, da un certo giorno di colloquio i miei vennero a trovarmi con una bambina nata da poco, che poi tornava, così che, pur per intervalli, potetti vederla imparare a camminare. Prima naturalmente ad andare a quattro zampe, e lo faceva con maestria ed entusiasmo, sopra quel ripiano lurido di separazione, passando da un detenuto all’altro, così festeggiata da moltiplicare smorfie e moine. La mia nipotina fece nei suoi primissimi anni di vita una felice, ilare conoscenza con ladri e truffatori, piccoli spacciatori e piccolissimi spacciati, rapinatori di vecchia scuola e assassini di mogli, di ogni età colore e qualità. Contenta lei, contenti loro. Molti di loro non ci sono più, c’è una mortalità straordinaria in quei mestieri, di altri ho perduto le tracce, alcuni mi sono rimasti. Avrei voluto fargli sapere che la mia nipotina ieri ha compiuto vent’anni. Loro hanno una relazione speciale, una competenza speciale nel computo degli anni. Maurizio Lupi: “Nessun bimbo deve stare in carcere: Lega e Pd, parlatevi” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 25 marzo 2023 L’esponente di Noi Moderati: “Penso che quando gli animi sono esasperati bisogna far passare un po’ di tempo. Quindi calma e sangue freddo. Siamo legislatori e dobbiamo avere senso di responsabilità. Considerata anche la dimensione “limitata” del problema, per quanto grave, è giusto provare a trovare una soluzione comune”. Onorevole Lupi, dopo il patatrac in commissione sui bambini in carcere lei propone una pacificazione: in che modo? Innanzitutto dobbiamo partire dal contesto. Rispetto agli anni scorsi la situazione attuale è migliorata, perché il numero di bambini in carcere è di gran lunga inferiore rispetto al passato. Questo ci mette nelle condizioni di poter fare chiarezza e intervenire legislativamente rispetto a un indirizzo che dobbiamo dare, cioè quello di impedire che dei bambini crescano dietro le sbarre. C’erano diverse iniziative legislative e credo che su questo tema bisognerebbe lavorare tutti insieme piuttosto che dividersi. Cosa puntualmente accaduta con Lega e Pd che se le sono date di santa ragione, fino al ritiro della proposta di legge. Come se ne esce? Gli aspetti in gioco sono due. Da una parte l’aspetto prioritario dal mio punto di vista e cioè che un bambino non può pagare la colpa di una madre perché verrebbe punito due volte. Considerando anche il fatto che, in particolare in tenera età, il rapporto tra bambino e madre è indissolubile e quindi la condizione dell’uno non può prescindere da quella dell’altro. L’altro aspetto? L’altra faccia della medaglia è come coniugare questo diritto inalienabile e indiscutibile con la certezza della pena. Nella nostra idea il carcere è anche luogo della rieducazione, non solo dell’inferno. E quindi occorre considerare il tema della condizione delle nostre carceri, del lavoro dignitoso dietro le sbarre, del percorso da intraprendere una volta espiata la pena. Ma se affrontiamo la questione come è stato fatto finora, non si va da nessuna parte. Secondo il Pd gli emendamenti del centrodestra stravolgevano la legge… La lega voleva portare avanti in particolare l’aspetto della certezza della pena. Ma se vogliamo coniugare questo punto con i diritti dei bambini la soluzione è semplicissima. Consiste nelle pene alternative, nella concessione dei domiciliari, insomma ci sono diverse strade percorribili. Ancor più visto che siamo di fronte a numeri limitati, credo che non sia giusto scontrarsi come una sfida all’ok corral su temi in cui le soluzioni sono a portata. L’importante è non farne una bandierina. Il Pd avrebbe dovuto proseguire comunque con il percorso in Commissione? Non entro nelle decisioni degli altri partiti, certo in questo momento vedo una china preoccupante da parte del Pd data dalla nuova segretaria Schlein. Per cercare di recuperare consenso, si sta spostando su identità molto estreme, in particolare con l’esasperazione del tema dei diritti. In questo modo si rischia di trasformare una serie di punti sui quali si può discutere in bandiere ideologiche e non come questioni che possono essere poste e affrontate. Alzare sempre i toni è un errore, ma la maggioranza non deve cadere in questo tranello. Pensa che sia solo l’opposizione ad alzare i toni o anche dalla maggioranza servirebbe più moderazione? Beh, di certo nell’ultimo mese dall’opposizione si sono fatte battaglia molto aspre, basti pensare alla maternità surrogata o alle accuse di “disumanità” sulla tragedia di Cutro. Insomma non mi sembra ci sia l’interesse di porre delle questioni ma solo di sventolare bandiere. Il centrodestra ha vinto le elezioni e ha il diritto di governare il paese secondo una propria visione che di certo non è massimalista. C’è ancora spazio per il dialogo? Direi che occorre far sedimentare un attimo il problema. Se il Pd ritiene che questo tema sia una priorità, come credo, gli strumenti per riattivare l’iter ci sono tutti. Siamo ancora in commissione, quindi all’inizio del percorso legislativo. E anzi proprio questa legge può essere l’occasione per il dialogo tra maggioranza e opposizione. Per quanto riguarda la Lega, penso che quando gli animi sono esasperati bisogna far passare un po’ di tempo. Quindi calma e sangue freddo. Siamo legislatori e dobbiamo avere senso di responsabilità. Considerata anche la dimensione “limitata” del problema, per quanto grave, è giusto provare a trovare una soluzione comune. Cirielli (FdI): “Togliere la podestà sui figli alle madri condannate in via definitiva” di Adriana Pollice Il Manifesto, 25 marzo 2023 La proposta choc. Il Pd: “Siamo alla follia. Il ministro Nordio garantista appare un ricordo sbiadito”. Antigone e la Cgil: “Una proposta che non garantisce alle donne la possibilità di essere madri erode il principio dell’interesse supremo del bambino. La recidiva in Italia è quasi sempre legata alla piccola criminalità da strada dovuta all’esclusione sociale, alla povertà, alla tossicodipendenza” Madri detenute, è scontro tra Pd e destra - Giovedì lo scontro frontale tra Pd e destra sulla proposta di legge per migliorare la condizione delle madri detenute, norma stravolta dall’esecutivo: la riformulazione degli emendamenti della relatrice Varchi (FdI) è arrivata dal governo, che ha seguito la partita con il sottosegretario alla Giustizia, il leghista Ostellari. I dem hanno ritirato le firme e fatto decadere la pdl ma la Lega ne ha presentata un’altra “anti-borseggiatrici rom”, scavalcando gli alleati. Ieri da Fdi - Edmondo Cirielli, viceministro degli Esteri, ha rincarato la dose: “Le donne che vanno in carcere per reati gravi con sentenza passata in giudicato devono perdere automaticamente la patria potestà sui figli. Ho sempre pensato fosse ingiusto tenere i bambini in carcere ma considero ancora più ingiusto lasciare la patria potestà a madri degeneri”. Cirielli, bontà sua, lascia un piccolo varco: “Prevista la custodia attenuata con case famiglia di fronte o all’interno del carcere per consentire alla mamma di uscire da un momento di ristrettezza. Questo nell’ipotesi di custodia cautelare” Dal Pd la replica di Alessandro Zan: “Quindi una donna che sbaglia, oltre la pena, deve perdere i figli, rendendo di fatto un bambino orfano. Siamo alla follia”. E Deborah Serracchiani: “Il ministro Nordio garantista appare un ricordo sbiadito”. La senatrice di Alleanza Verdi e Sinistra, Ilaria Cucchi: “Togliere un bambino all’affetto della propria madre è disumano. Servono strutture adeguate”. Matteo Renzi: “Togliere la patria potestà alle madri condannate significa capire poco di diritto e soprattutto non capire nulla di umanità. I membri del governo Meloni devono smetterla con queste uscite da bar”. E Calenda: “Accadono cose assurde. Ogni giorno dichiarazioni folli, estremiste e soprattutto infondate. Basta”. L’associazione Antigone e la Cgil nella nota congiunta: “Una proposta che non garantisce alle donne la possibilità di essere madri erode il principio dell’interesse supremo del bambino, come previsto dalla Convenzione Onu del 1989. In un paese come l’Italia, dove il tasso di recidiva raggiunge circa il 70%, soprattutto nel caso delle donne sappiamo come questa non caratterizzi affatto crimini di peso o di allarme sociale bensì uno stile di vita legato alla piccola o piccolissima criminalità da strada legata all’esclusione sociale, alla povertà, alla tossicodipendenza. Non pensiamo che la sicurezza di milioni di persone dipenda dal tenere in carcere 24 bambini e le loro 21 madri. Pensiamo invece che dal rimanere in carcere o meno dipenda la sicurezza e la crescita di quei 24 bambini”. Il doppio fronte dei sovranisti: via il reato di tortura e la patria potestà delle detenute di Pier Francesco Borgia Il Giornale, 25 marzo 2023 Via il reato di tortura e via anche la patria podestà per le madri condannate e recidive. Fratelli d’Italia prova a imprimere un’accelerazione sulla sua idea di giustizia. Ieri è stato infatti assegnata alla Commissione giustizia della Camera la proposta di legge (avanzata dal partito della premier) di abrogazione del reato di tortura, introdotto soltanto nel 2017. E nelle stesse ore il viceministro degli Esteri, Edmondo Cirielli, ha lanciato un’altra proposta: togliere la patria podestà alle donne che vanno in carcere per reati gravi con sentenza passata in giudicata Proposta che arriva all’indomani dell’infuocato dibattito seguito al ritiro, da parte del Partito democratico, del suo disegno di legge a prima firma Debora Serracchiani sulle detenute madri. Ritiro motivato dal peggioramento della stessa legge dopo gli emendamenti presentati dal centrodestra e approvati in Commissione che prevedevano il carcere per le madri in caso di recidiva e cancellavano il differimento della pena per le donne incinte o con un figlio che abbia meno di un anno. La possibile abrogazione del reato di tortura ha spinto sul piede di guerra le opposizioni. Ilaria Cucchi (Sinistra italiana) si appella direttamente al capo dello Stato per impedire che venga toccata la norma. Nelle file dell’opposizione i commenti più “benevoli” definiscono la proposta di FdI “agghiacciante”. Il capogruppo alla Camera Tommaso Foti, però, non ci sta. E replica che l’idea della sua abrogazione è il primo passo per una reintroduzione del reato dopo essere stato “tipizzato” in maniera più efficace. E il suo compagno di partito, nonché vicepresidente della Camera dei deputati, Fabio Rampelli, respinge l’accusa nel campo dell’opposizione bollando la polemica come l’ennesima e “stucchevole guerra delle parole”. Ma è sempre sulle parole e sul loro significato profondo che l’opposizione si muove. Matteo Renzi, a esempio, su Twitter boccia l’idea di Cirielli. “Togliere la patria potestà alle madri condannate significa capire poco di diritto - commenta il leader di Italia viva - ma significa soprattutto non capire nulla di umanità. I membri del governo Meloni devono smetterla con queste uscite da bar e pensare a governare, se ci riescono”. Mentre il dem Alessandro Zan parla di follia, più articolato risulta il ragionamento della sua compagna di partito Serracchiani che chiama in causa il Guardasigilli e la sua fama di esemplare garantista. “Qualcosa è cambiato - suggerisce la capogruppo dem alla Camera -,e il Nordio garantista appare un ricordo sbiadito. Come testimonia anche la scelta di avallare la linea vergognosa e disumana assunta da Lega e Fratelli d’Italia sulla legge relativa alle madri detenute che, invece di portare fuori dalle carceri i piccoli, intendono aprire le porte per farne entrare di più. E già che ci siamo aboliamo anche il reato di tortura! Ministro, dov’è finito Carlo Nordio?”. Cospito: “Sono disposto a mangiare se scarcerate anziani e malati” di Valentina Stella Il Dubbio, 25 marzo 2023 Il messaggio dell’anarchico dinanzi ai magistrati del Tribunale di Sorveglianza di Milano, che comunicheranno la loro decisione entro cinque giorni. “Sono disposto a recedere dallo sciopero della fame purché il tribunale di Sorveglianza liberi altri detenuti attualmente sottoposti al 41 bis, persone anziane o malate che vogliono soltanto tornare a casa dopo 30 anni di 41 bis”: è questo il messaggio utopistico pronunciato da Alfredo Cospito dinanzi ai magistrati del Tribunale di Sorveglianza di Milano. L’udienza si è tenuta nel reparto di medicina penitenziaria del San Paolo di Milano, nel quale si è discussa l’istanza di differimento pena per motivi di salute con detenzione domiciliare presentata dal legale di Alfredo Cospito, Flavio Rossi Albertini. L’anarchico è in sciopero della fame ormai da oltre cinque mesi e i medici non hanno dato parere favorevole al suo trasferimento in carcere per effettuare un video collegamento con il Tribunale. Solo qualche giorno fa l’uomo ha avuto un problema cardiaco, anche se la situazione resta stabile ma sempre con rischi di aggravamento. L’anarchico non assume più nemmeno gli integratori, che in questi mesi ha assunto ad intermittenza. Solo acqua con sale o zucchero. La procuratrice generale di Milano Francesca Nanni e il sostituto pg Nicola Balice hanno dato parere negativo alla richiesta di differimento pena. Tra le motivazioni ci potrebbe essere quella per cui la situazione clinica in cui si trova sia stata autoindotta, proprio per la sua scelta di andare avanti col digiuno per mesi. E su quest’ultimo aspetto va considerato che la giurisprudenza ha già sancito che l’autoinduzione contrasta col principio del differimento pena. Altrimenti chiunque potrebbe intraprendere uno sciopero della fame e chiedere poi di essere mandato ai domiciliari. I giudici della Sorveglianza, dopo due ore di udienza, si sono riservati e avranno cinque giorni di tempo per depositare il loro provvedimento. Una cinquantina di manifestanti si è riunita davanti al Palazzo di Giustizia di Milano per un presidio in solidarietà di Alfredo Cospito e contro il regime di 41 bis. Sono stati appesi alcuni striscioni a sostegno del detenuto. Tra questi “fuori Cospito dal 41 bis” e “Cospito, immigrati, guerra, governo assassino”. La scalinata del palazzo è stata presidiata dalla polizia in tenuta antisommossa. “Siamo qui davanti al tribunale perché è il luogo deputato a scegliere se salvare la vita di Alfredo o no”, hanno detto i manifestanti al megafono. “Abbiamo scelto di mantenere presidio qua e di non andare al San Paolo perché lì c’è la sofferenza di tanti e non solo quella di Alfredo”. Nelle stesse ore si è tenuta anche l’udienza del Tribunale di Sorveglianza di Sassari, sempre su un’istanza di differimento pena, e Cospito era in videocollegamento dall’ospedale San Paolo. “Ha ribadito le ragioni della sua scelta, della sua battaglia - ha spiegato il legale - ha detto che sarebbe disposto a recedere dallo sciopero della fame se il Tribunale di sorveglianza liberasse altri detenuti dal 41 bis, ossia le persone anziane e malate che vogliono tornare a riabbracciare la propria moglie dopo 30 anni di 41 bis, quelle con cui lui trascorre le parti di socialità”. L’anarchico ha parlato ai giudici di “provvedimenti adottati solo due giorni prima della morte di queste persone in carcere”. E ha ribadito le sue ragioni perché per lui al 41bis è “impossibile vivere, è una battaglia per la vita, argomenti che ha sempre espresso nei mesi, è tanto stanco e provato”. Andando a casa coi domiciliari, comunque, interromperebbe lo sciopero della fame perché potrebbe ricominciare “quelle attività che lo hanno condotto a dire che questa non era vita, quindi potrebbe leggere, studiare, ricominciare a ragionare, scrivere, partecipare a progetti editoriali”. Essere in salute, ha spiegato il legale, “non vuol dire mangiare, non è un somaro per cui se mangia tanta erba vuol dire che sta bene. L’essere umano deve poter crescere intellettualmente e lo fa solo attraverso lo studio e la lettura, altrimenti non è vita”. Cospito. La procura generale di Milano si esprime: no ai domiciliari, deve restare al 41bis ansa.it, 25 marzo 2023 Il parere espresso dalla pg Nanni e dal sostituto pg Balice non è vincolante ai fini della decisione. Il verdetto del Tribunale di Sorveglianza è atteso entro 5 giorni da oggi. L’anarchico ai giudici: stop al digiuno se liberate altri al 41bis. Alfredo Cospito deve restare detenuto in carcere al 41 bis e non può andare agli arresti domiciliari nell’abitazione dalla sorella a Pescara. Lo ritiene la procura generale di Milano che ha espresso parere negativo alla richiesta della difesa, rappresentata dall’avvocato Flavio Rossi Albertini, di concedere all’anarchico il differimento della pena per motivi di salute con la formula della detenzione domiciliare. Il parere espresso dalla procuratrice generale Francesca Nanni e dal sostituto pg Nicola Balice non è vincolante ai fini della decisione. Il verdetto del Tribunale di Sorveglianza presieduto dal giudice Giovanna di Rosa è atteso entro 5 giorni da oggi. La manifestazione degli anarchici davanti al tribunale di Milano - Una quarantina di persone ha dato vita a un presidio davanti al Tribunale di Milano per manifestare solidarietà all’anarchico da oltre 4 mesi in sciopero della fame contro il regime del 41bis, a quale è stato sottoposto. “Oggi siamo qui - spiegano gli organizzatori - perché questo rimane il luogo deputato a scegliere se salvare la vita di Alfredo o no. Abbiamo pensato di mantenere il presidio qui e di non andare al San Paolo anche perché al San Paolo c’è la sofferenza di tanti, non solo quella di Alfredo. E anche lui, quando è stato ricoverato li, ha espresso il suo dispiacere per creare del disagio in un ospedale. Oltre ad avere un grande coraggio, Alfredo ha un cuore grandissimo e noi speriamo che il suo cuore lo sostenga”. “Alfredo - aggiungono - sta portando avanti la lotta non soltanto per lui, ma anche per tutti quelli che, appartengano alla mafia o meno, sono sottoposti come lui al regime del 41bis, un regime di tortura che non può esistere. Una tortura dalla quale ti salvi solo se chini la testa e rinneghi te stesso”. Cospito ai giudici: stop al digiuno se liberate altri al 41 bis - Alfredo Cospito, davanti ai giudici della Sorveglianza ha detto che sarebbe “disposto a recedere dallo sciopero della fame purché il tribunale di Sorveglianza liberasse altri detenuti attualmente sottoposti al 41 bis, persone anziane o malate che vogliono soltanto tornare a casa dopo 30 anni di 41 bis”. Lo ha spiegato il legale Flavio Rossi Albertini chiarendo che l’anarchico interromperà lo sciopero della fame anche se otterrà i domiciliari. “Seconda Chance”, che trova lavoro per i detenuti. Fondata da una giornalista de La7 professionereporter.eu, 25 marzo 2023 Quando i giornalisti fanno anche altro. Flavia Filippi, da molti anni al Tg de La7 ha fondato “Seconda Chance”, assieme all’autrice e documentarista Alessandra Ventimiglia Pieri e alla titolare di Ethicatering, Beatrice Busi Deriu. Un progetto per aiutare gli imprenditori e i detenuti ad incontrarsi. I primi danno lavoro ai secondi. Grazie a una legge - è di 22 anni fa, ma è poco conosciuta - che permette alle aziende di ottenere un credito d’imposta di 6.000 euro l’anno. Filippi è stata una sportiva, una forte tennista-baby, ha seguito per anni lo sport come giornalista, ora si occupa di cronaca giudiziaria. Con l’Associazione del Terzo Settore, che ha costituito a luglio 2022, procura posti di lavoro a detenuti, ex detenuti, familiari di detenuti, facendo conoscere alle aziende le agevolazioni fiscali e contributive previste dallo Stato con la legge voluta dal partigiano Carlo Smuraglia. In un anno “Seconda Chance” ha trovato 160 offerte di lavoro. Tutte all’interno del Protocollo d’intesa firmato con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Agli imprenditori vengono proposti baristi, lavapiatti, cuochi, pasticcieri, camerieri, addetti alle pulizie, gastronomi, pizzaioli, commis, scaffalisti, magazzinieri, macellai, muratori, elettricisti, idraulici, falegnami, giardinieri. E anche laureati. A Padova a metà marzo c’è stato un colloquio tra una azienda di informatica e un detenuto con tre lauree, che aveva scritto all’associazione. Il colloquio è andato bene. Quali sono le regole? I detenuti - prossimi al fine pena - possono svolgere attività lavorativa sia dentro che fuori dal carcere. Per assumerli è necessario stipulare una convenzione con la Direzione dell’istituto penitenziario e presentare una dichiarazione d’interesse alla direzione del carcere. La durata del contratto deve essere di almeno 30 giorni e la retribuzione non inferiore a quanto previsto dai contratti collettivi. I numeri generali sono molto bassi: a fine giugno 2022 i detenuti al lavoro erano solo il 4,5 per cento dei presenti negli istituti (2.473 su 54.841) e l’impegno di “Seconda Chance” è di farli crescere. Racconta Filippi: “Facciamo leva sul credito d’imposta di 520 euro al mese sulla busta paga del dipendente e sul fatto che tendendo una mano a un detenuto a fine pena (che si viene a scegliere in carcere con noi) ci si sente, o meglio si diventa, persone migliori. Ottenendo anche una bella pubblicità gratuita su giornali e siti, come si può verificare dalla nostra portentosa rassegna stampa”. In questi giorni sono in corso le selezioni dei candidati per i prossimi colloqui. Già sono state portate due imprese edili, la Fabbrica di san Pietro e tre ristoratori a Rebibbia, Gruppo Axcent a Secondigliano e a Bollate, lo chef Filippo La Mantia a Opera. È stato accompagnato EPM, leader nell’efficientamento energetico, nel carcere di Torino. Altri colloqui a Rimini e a Pescara. Acqua Vera ha scelto due detenuti di Frosinone. McDonald’s ha fatto colloqui in due carceri e sta per farne altri a Milano. Joule (logistica per Conad Nord Ovest) ha assunto 4 detenuti a Civitavecchia e 4 a Cagliari, Nespresso ne ha assunti due a Monza. Stanno assumendo detenuti aziende di Bologna, Grosseto, Agrigento, Ospedaletti. È stato appena appena chiuso un accordo con Ance Toscana, che sarà replicato in altre regioni. Detenuti seguiti da “Seconda Chance” lavorano all’Istituto Superiore di Sanità, da Terna, alle Serre, nei locali del Gruppo Palombini e in molte altre aziende. L’associazione porta lavoro anche all’interno degli Istituti: a Viterbo 7 detenuti lavorano in sartoria, utilizzando vele riciclate per produrre sacchi per vele e borsoni per conto della veleria di Prato MilleniumTech. Sono in corso iniziative con Technogym. E con Plastic Free è in partenza un piano per abbattere la plastica nel carcere di Bologna. A maggio, una giornata ecologica per far collaborare detenuti e ambientalisti, come è già avvenuto sulla spiaggia di Sabaudia con i detenuti di Frosinone. “Seconda Chance” accompagna anche gli imprenditori a vedere i locali vuoti e abbandonati dei penitenziari: c’è la possibilità di prenderli in comodato d’uso gratuito per fare impresa lì dentro. Offrendo quel tipo di occupazione ai detenuti si risparmiano ingenti somme e i contributi si abbattono del 95 per cento. Poi, lo sport: la FIP ha appena dato l’ok per costruire un campo da basket a Secondigliano, la FIT costruirà un campo da tennis a Rebibbia. E le attività ricreative: un corso di musica con il rapper The Niro, uno di gelateria con Andrea Fassi a Roma, corsi di scacchi, di giornalismo, di trucco, di arte, di pasticceria. Carriere separate, troppe grane: il governo ci ripensa di Valentina Stella Il Dubbio, 25 marzo 2023 Dietrofront sulla giustizia. Dal Transatlantico fanno sapere che la premier vuole evitare di aprire nuovi fronti con le toghe. La separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri (almeno per ora non s’ha da fare. Intendiamoci, si tratta di spifferi, sussurri, voci da Transatlantico ammesse a mezza bocca da uomini assai vicini alla premier Meloni la quale, quanto pare, non avrebbe alcuna intenzione di aprire un nuovo fronte con i magistrati. E in effetti più fonti parlamentari hanno riferito che lo stop verrebbe proprio dall’azionista di maggioranza del governo, ossia da Fratelli D’Italia. Il motivo? Come detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni non vuole creare strappi con le toghe. Eppure fu proprio la premier, nella conferenza stampa di fine anno, a dire che l’obiettivo “carriere separate” sarebbe stato raggiunto addirittura nel giro di pochi mesi. Una dichiarazione che era apparsa subito un tantino azzardata, anche perché la modifica sarebbe di tipo costituzionale e dunque necessiterebbe di più tempo. Un altro indizio che porterebbe a confermare quanto saputo sarebbe anche l’assenza di Fratelli d’Italia alla conferenza stampa del 14 febbraio convocata dal Terzo Polo, Lega, Forza Italia insieme all’Unione Camere Penali per illustrare le proposte di legge incardinate in materia. Aveva spiegato il presidente della Commissione Giustizia della Camera Ciro Maschio (FdI): “Non prenderò parte alla conferenza stampa perché avevo preso precedentemente altri impegni. Per quanto riguarda invece il fatto che Fratelli d’Italia non ha ancora depositato un progetto di legge in questo senso è che l’idea del partito è quella di presentare una riforma complessiva del processo penale, come già annunciato dal Guardasigilli Nordio, all’interno della quale si dovrà inserire anche il tema della separazione delle carriere”. Concetto che il parlamentare ha ribadito al Dubbio: “Non mi risulta che FdI voglia mettere in atto un sabotaggio. Semplicemente siamo più prudenti rispetto agli altri partiti nell’elaborare delle proposte che avranno delle importanti ricadute su tutto il sistema penale”. Sta di fatto che al momento ancora non si può ragionare su delle proposte concrete non solo su questo tema - basti pensare a quello sulle intercettazioni - perché tutti sono fermi alle sole dichiarazioni di intenti di Nordio. In realtà, se fosse vero quanto appreso in questi giorni, verrebbe a cadere uno dei pilastri in materia di giustizia sponsorizzato da tutta la coalizione di centrodestra durante la campagna elettorale. La volontà di non creare conflitti soprattutto con la magistratura associata si potrebbe trarre anche dal ritardo con cui verranno approvati i decreti attuativi sulla riforma del Consiglio Superiore della Magistratura e dell’ordinamento giudiziario. Tre settimane fa il Ministro Nordio, rispondendo ad una interrogazione dell’onorevole di Azione Enrico Costa, aveva assicurato: “Giugno è un termine che noi speriamo di poter rispettare ma nessuno meglio di voi sa che trattandosi di materia estremamente complessa potrebbe essere necessaria qualche settimana in più. In ogni caso questa è una nostra priorità”. Ma adesso fonti parlamentari e governative ammettono che dalle settimane si sarebbe passati ad una proroga dei termini di sei mesi, se non addirittura di un anno. L’ufficio legislativo di Via Arenula sarebbe alle prese con altre emergenze, ma c’è chi sostiene che i magistrati lì presenti vogliano prendere tempo per fare un favore ai loro colleghi in servizio nei tribunali e nelle procure. E il rinvio dovrebbe essere contenuto nel prossimo decreto sul Pnrr. Nel pacchetto della riforma ancora da attuare e che verrebbe procrastinato c’è il fascicolo di performance dei magistrati e il diritto di voto per gli avvocati nei Consigli giudiziari, due degli elementi maggiormente stigmatizzati dall’Anm, talmente irricevibili che portò il “sindacato” delle toghe ad uno sciopero. Nonché il riordino della disciplina del collocamento fuori ruolo dei magistrati ordinari, amministrativi e contabili, altro tema caldo. A questo quadro si aggiunge un corollario di non poco conto: il Parlamento ancora non ha approvato tramite una legge i criteri generali per selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, come previsto dall’articolo 13 legge 71 del 2022. A proposito di questo, un parlamentare ci ha confessato: “E vabbè mica possiamo pensare a tutto, abbiamo un sacco da fare” Con il Pnrr ritornano le porte girevoli magistratura-politica: il rischio che si aggiri la legge Cartabia di Liana Milella La Repubblica, 25 marzo 2023 Due emendamenti di Lega e FdI bloccati per ora al Senato. E Costa di Azione chiede al Guardasigilli Nordio: “Ma lei lo sapeva?”. La storia che stiamo per raccontarvi dimostra che tra gli slogan politici e i fatti passa un abisso. Ricordate la battuta “il magistrato che va in politica non torna più indietro”? È stato un vessillo che ha unito destra e sinistra nella scorsa legislatura. Ma i fatti adesso vanno in tutt’altra direzione. Come rivela un duplice emendamento presentato, ma per il momento bloccato, al decreto legge sul Pnrr al Senato. Sul quale Enrico Costa di Azione, un vero segugio di commi e sotto commi, ha appena presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia Carlo Nordio. Con la quale vuole sapere “se il governo sia a conoscenza del tentativo di riproporre le porte girevoli magistratura-politica usando a pretesto il Pnrr” e cambiando la legge Cartabia, e soprattutto “se gli uffici ministeriali interessati dagli effetti della proposta abbiano avuto un ruolo nel predisporla”. Per l’ovvia ragione che si tratta di una norma fatta apposta per loro stessi e che solo loro possono aver ideato a proprio uso e consumo. Succede questo. La legge Cartabia sull’ordinamento giudiziario e sul Csm del giugno 2022 imponeva alle toghe, anche quelle che assumono incarichi di governo, uno stop al rientro in ruolo. Vedremo nei dettagli quanto rigida sia la norma. E che succede invece? Che un duplice gruppo di senatori, della Lega e di Fratelli d’Italia, voglia derogare alla regola. E con due righe di emendamento propongono che proprio “lo stop alle porte girevoli” - come lo chiama Costa - non si applichi ai magistrati che hanno assunto questi ruoli “nei trenta giorni successivi” alla formazione del governo. Una norma “vestitino” si sarebbe detto vent’anni fa quando cominciò la stagione delle leggi ad personam. Per intenderci stiamo parlando di figure strategiche nel governo, come il segretario generale della presidenza del Consiglio Carlo Deodato, che è un consigliere di Stato; oppure il magistrato amministrativo Alfredo Storto, capo di gabinetto di Matteo Salvini alle Infrastrutture, o ancora Alberto Rizzo, capo di gabinetto alla Giustizia, magistrato ordinario come la sua vice Giusi Bartolozzi, che esce a sua volta da una legislatura alla Camera nata con Forza Italia e poi finita nel gruppo Misto. Ma cosa propongono i due emendamenti? Pochissime righe, ma dagli effetti dirompenti rispetto alla legge Cartabia. Scrivono i leghisti Tilde Minasi, Antonino Salvatore Germanà, Manfredi Potenti, Claudio Borghi, Marco Dreosto: “Al comma quattro dell’articolo 20 della legge 17 giugno 2022 numero 71 (cioè la legge Cartabia sul Csm) aggiungere infine il seguente periodo: ai medesimi incarichi assunti nell’anno 2022 presso le amministrazioni titolari di interventi previsti nel Pnrr si applica la disciplina vigente prima dell’entrata in vigore delle disposizioni di cui al primo periodo”. Un emendamento così mirato a uno specifico gruppo di magistrati da non poter provenire che da loro stessi. Ma non basta, perché all’emendamento della Lega si aggiunge, quasi a rafforzarlo e mostrare che sono due partiti a proporlo, ecco quello di Fratelli d’Italia, con i senatori meloniani Marco Lisei, Quintino Liris, Paola Ambrogio, Lavinia Mennuni, Vita Maria Nocco. Si tratta esattamente della stessa proposta. Ed entrambe violano in modo evidente la legge Cartabia, lo spirito stesso di quella norma, che blocca il ritorno in magistratura di chi ha fatto politica, ma anche - per un certo tempo - delle toghe che sono state “al servizio” della politica nei ministeri. E guarda caso ecco un emendamento che dovrebbe favorire solo un gruppo ristretto, cioè coloro che sono entrati in servizio - chissà perché solo loro - nei “trenta giorni” successivi alla formazione del governo. Qualche maligno butta lì che solo Giusi Bartolozzi, grande amica di Carlo Nordio, può aver inventato questa diavoleria, visto che proprio lei conosce benissimo la dinamica delle leggi Cartabia avendole seguite alla Camera dalla commissione Giustizia e in aula. Deputata focosa la Bartolozzi che non mancava di far sentire la sua voce, fino al punto da litigare con i forzisti e sbattere la porta per difendere le sue idee. La legge della ex Guardasigilli Cartabia, che riprendeva sul punto quella del suo precedessore Alfonso Bonafede, ha stabilito norme rigide non solo per i magistrati che si candidano e che non possono più tornare indietro, ma anche per chi assume un ruolo tecnico nei ministeri, dai capi di gabinetto, ai capi dipartimento, ai segretari generali. E recita così: a incarico terminato, “restano collocati fuori ruolo presso il ministero di appartenenza o presso l’Avvocatura dello Stato o presso altre amministrazioni, i magistrati amministrativi e contabili presso la presidenza del Consiglio”. Ma una cosa è certa, “per un ulteriore periodo di tre anni non possono assumere incarichi direttivi e semidirettivi”. L’emendamento leghista e meloniano vuole evitare proprio questo. E Costa si arrabbia e interpella Nordio da quale vuole sapere se “le urgenze del Pnrr possono essere utilizzate come pretesti per derogare alla separazione netta tra attività politica e attività giurisdizionale e, pare, anche per derogare al limite decennale per i magistrati fuori ruolo”. Eh già, perché l’obiettivo sarebbe anche quello di far cadere il limite massimo dei dieci anni concessi a una toga per stare “fuori ruolo” se costei o costui lavora al Pnrr. Biella. Il calvario dei detenuti: “Colpivano ovunque, pensavo di morire” di Mauro Zola La Stampa, 25 marzo 2023 Le guardie con manganelli e guanti erano circa dieci, mi hanno gettato a terra, spogliato nudo e manganellato. Nel carcere di Biella si sarebbe usato abitualmente un “metodo punitivo” operando in un “clima di generale sopraffazione”. Questa la tesi della Procura che ha portato alla richiesta di sospensione per 23 agenti della penitenziaria (il vicecomandante è già da febbraio agli arresti domiciliari) accolta dal gip che ha trovato nella ricostruzione fornita dalle indagini “precisi elementi di sostegno”. È un racconto drammatico quello che emerge dalle testimonianze dei tre detenuti coinvolti nei presunti pestaggi, a cui fanno da contraltare quelle degli agenti di tenore opposto. L’episodio ritenuto più esplicito riguarda il caso di un giovane detenuto di nazionalità marocchina, a cui sono state bloccate le gambe con del nastro adesivo. Il tutto ripreso dalle videocamere. Secondo gli agenti “doveva essere contenuto, per evitare che continuasse a compiere gesti auto lesivi anche gravi”. Da lì la decisione di legarlo. “Scalciava in modo incontrollato con forza inaudita. Si sono avvicinati per farlo calmare ma era in piena crisi psicomotoria”. Nella sua ricostruzione invece dopo un diverbio “mi hanno lasciato dentro la cella da solo, prima non mi avevano toccato. Allora ho iniziato a gridare e a dare due calci alla porta del bagno per richiamare l’attenzione. A quel punto mi ammanettano dietro la schiena, io chiedevo spiegazioni ma hanno iniziato a darmi degli schiaffi in faccia prendendomi sotto la gola e dicendo “ti rovino sei solo un delinquente”, sferrandomi calci”. Avrebbe quindi iniziato a colpire con la testa il vetro della finestra. “Mi ritirano fuori e mi legano le caviglie. Poi però non mi hanno picchiato più, perché forse si erano stancati. Piangevo di brutto, anche adesso se ci penso mi viene da piangere”. Il secondo episodio riguarda un detenuto georgiano arrestato per furto. “Stavo malissimo perché tossicodipendente ed ero in astinenza. Un detenuto è venuto portandomi della sostanza, voleva 50 euro ma non li avevo, mi ha detto di dargli la fede cosa che non ho fatto, e che in carcere c’era tutto quello che serviva fumo, eroina”. Secondo il verbale interno, impugnando una penna avrebbe afferrato per il collo un agente, nella sua testimonianza ha sostenuto che l’avrebbe soltanto toccato su di un braccio per attirarne l’attenzione. “Ho buttato un cestino a terra, so di aver sbagliato, dopo cinque minuti sono arrivate le guardie con guanti e manganello erano circa dieci, mi hanno gettato a terra, spogliato nudo e manganellato, trascinato a forza e continuato a picchiarmi, pensavo di morire. Gli ho urlato ricordatevi di Floyd ma loro hanno continuato. Non riuscivo a respirare perché avevo un ginocchio sul collo”. Nel carcere di Ivrea dove è stato trasferito gli è stato riscontrato un disturbo post traumatico. Il terzo detenuto, anche questo di nazionalità marocchina, considerato molto pericoloso per una lunga serie di aggressioni, dovendo essere trasferito sarebbe stato circondato da “otto o dieci con scudi (che però nel video non ci sono, ndr) e manganelli. Mi portano in cella e cominciano a darmi manganellate in testa, mi hanno fatto abbassare i pantaloni, mi colpivano ovunque. Questa cosa è durata dieci minuti perché non ho reagito. Ero ammanettato davanti e rivolto verso il muro, cercavo di chiudermi a chioccia ma loro mi colpivano. Speravo solo che finisse tutto il prima possibile”. Rimini. Giorgio Galavotti è il nuovo Garante comunale dei detenuti riminitoday.it, 25 marzo 2023 Su tre candidati totali, il Consiglio comunale di giovedì 23 marzo, al termine della votazione, ha eletto con 20 voti favorevoli l’avvocato Giorgio Galavotti come nuovo Garante comunale delle Persone private della Libertà personale, un figura istituita con la delibera n. 63 del 05.06.2014 e n. 100 del 15.12.2022 al fine di promuovere l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali da parte delle persone private della libertà personale o limitate nella libertà di movimento. “Si aggiunge un ulteriore tassello di un iter importante che, oltre ai diversi step selettivi finalizzati a individuare la figura più idonea a esercitare il ruolo di Garante, ha visto anche la revisione dello specifico Regolamento su questo incarico - dichiara Giulia Corazzi, Presidente del Consiglio comunale del Comune di Rimini -. L’elezione è il frutto di un percorso condiviso, plurale, con il quale, come territorio di Rimini, vogliamo potenziare gli strumenti di integrazione e di inclusione dei detenuti, con lo scopo di inserirli in progetti virtuosi che guardino al loro futuro, al loro rientro e alla loro reintegrazione nel tessuto sociale. Il dottor Galavotti ricoprirà un incarico fondamentale non solo per i carcerati, ma per l’intera comunità riminese. Le carceri non sono luoghi distaccati dal contesto in cui sono inseriti, ma ne costituiscono una parte strutturale, perennemente in dialogo. Per questo voglio augurare a Galavotti i più sinceri auguri di buon lavoro, certa che, forte della sua lunga esperienza professionale e in realtà legate all’universo del volontariato, saprà ricoprire al meglio le funzioni che lo attendono. Con autonomia e allo stesso tempo senza isolarsi, in continuo contatto con l’ampia rete di realtà che orbitano attorno al mondo penitenziario”. Soddisfatti anche I capigruppo di maggioranza Andrea Bellucci, Luca Pasini, Matteo Petrucci e Marco Tonti che, in una nota, commentano come “La “short list” di tre nomi uscita dalla commissione consiliare era costituita da personalità di profilo professionale e umano di altissimo livello, infatti insieme a Giorgio Galavotti erano stati selezionati anche Simone Campolattano e Ivan Innocenti. Quella del Garante è una figura importantissima per garantire il rispetto dei diritti e della dignità delle persone private della libertà, che con la riforma che abbiamo promosso e sostenuto ora è dotato di una struttura di supporto e di fondi per svolgere anche iniziative pubbliche. Questo con l’obiettivo di favorire un cambiamento culturale che possa permettere un reinserimento sociale di quelle persone che completano il loro percorso di detenzione e che purtroppo spesso, quando escono dal carcere, subiscono ulteriore diffidenza e discriminazione”. “Il ruolo del garante - ricordano i capigruppo - è quindi importantissimo non solo per le persone coinvolte direttamente ma anche per un corretto equilibrio sociale, e dispiace dire che nella seduta del consiglio che l’ha nominato sono volate accuse di strumentalizzazione politica sulla pelle dei condannati, accusa che respingiamo con fermezza. C’è stato perfino un tentativo di ostruzionismo strumentale da parte della Consigliera Gloria Lisi che poteva rischiare di compromettere la rapida nomina del garante. Un rinvio avrebbe gettato discredito sulle nostre istituzioni ed è stato possibile contrastarlo grazie alla compattezza della maggioranza e agli argomenti di legittimità portati dalla Presidenza del consiglio. Visto che giovedì 30 il Consiglio comunale si svolgerà proprio nel carcere abbiamo ritenuto essenziale che il nuovo garante fosse già nominato e presente proprio per rispetto dei detenuti. Siamo fieri di aver sostenuto compattamente l’avvocato Galavotti che con la sua esperienza e umanità riteniamo saprà ricoprire questo incarico delicato con equilibrio ed efficacia”. Di parere opposto, però, il Gruppo Gloria Lisi per Rimini che sulla nomina del Garante dei detenuti ha sottolineato come “Ieri sera abbiamo chiesto il rinvio della delibera sulla nomina del Garante dei Detenuti in base all’art 61 del Regolamento del Consiglio comunale: “Questioni pregiudiziali e sospensive” con la motivazione di aver ricevuto il parere del Garante Regionale dei Detenuti che solleva alcune questioni di inopportunità territoriale verso chi eserciterebbe attività forense. Questo il testo della nostra richiesta di parere che presentata al Garante Nazionale, al Garante Regionale e all’ordine degli avvocati di Rimini: “Venerdì scorso si è tenuta sull’argomento una Commissione Consigliare, nella rosa dei cinque CV pervenuti se ne sono scelti tre, che verranno votati durante il Consiglio Comunale. Ora vorrei far presente che delle tre candidature rimaste ben due sono di Avvocati del foro di Rimini”. “Prima della votazione in Consiglio Comunale - aggiungono in una nota stampa - siamo a richiedere il parere in merito alla questione di opportunità e su quale sia il vostro orientamento sulla scelta di un avvocato in qualità di Garante dei Detenuti. A nostro avviso il legale che volesse assumere questo incarico dovrebbe temporaneamente sospendersi dalla professione per evitare possibili questioni di conflitto di interesse. Il Garante Regionale ha risposto inviandoci un testo che forniva un documento della Conferenza dei garanti territoriali in cui vengono date linee guida sulla nomina dei garanti ed in particolare quando questi svolgono la professione di avvocati. Pertanto abbiamo chiesto il rinvio in attesa di poter avere anche il fondamentale parere dell’ordine degli Avvocati di Rimini. La nota inviata, che abbiamo poi inviato al Consiglio comunale, era una proposta per valutare la figura professionale maggiormente idonea a ricoprire un ruolo tanto delicato. Mi colpisce il fatto che soltanto noi abbia pensato a richiedere un tale parere, un’ennesima prova di inadeguatezza di chi ci amministra. Tralasciamo poi l’atteggiamento non imparziale, né tantomeno equidistante della Presidente del Consiglio che alla nostra richiesta di sospensione si è palesemente innervosita. Riflettere e prendersi il giusto tempo avrebbe permesso a tutti i Consiglieri di andare a votare senza ordini di partito e con spirito di condivisione verso una figura imparziale e senza “coinvolgimenti passati o futuri con l’amministrazione comunale”. “Anche questa volta con un voto scontato della maggioranza - concludono - si è ribadito che si vota tutto e sempre senza se o senza ma. Noi siamo stati sul merito del tema. Il rinvio che avevamo chiesto avrebbe dato la possibilità di avere una maggiore condivisione con la maggioranza per individuare la figura giusta da indicare come Garante, un ruolo delicatissimo ed importantissimo per chi sta scontando una pena detentiva, un ruolo che sarebbe stato bello avesse avuto la condivisione di tutti i consiglieri al di là degli schieramenti politici. In conclusione aggiungiamo che proprio ora mentre stiamo scrivendo questo comunicato ci è anche arrivata anche la risposta con il parere del Garante Nazionale, in fondo bastava aspettare poche ore”. Is Arenas (Ca). La Garante Testa: “Le colonie sono un modello sardo tutto da esportare” consregsardegna.it, 25 marzo 2023 “La Sardegna con il sistema delle colonie è all’avanguardia non solo in Italia ma in Europa. È un modello che rispetta il dettato della Costituzione che prevede che il detenuto debba essere rieducato e riabilitato attraverso il lavoro”. Lo ha detto Irene Testa, Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale che ha visitato, nei giorni scorsi, la colonia penale di IS Arenas. “A Is Arenas - ha affermato - c’è il pieno rispetto del principio costituzionale, tutti i detenuti lavorano e hanno uno stipendio”. I detenuti presenti nella struttura sono 80 che lavorano in un clima di grande collaborazione. Non si registrano provvedimenti disciplinari, la recidiva è pari a zero per chi sconta la pena in colonia. Non si registrano evasioni pur essendo un circuito aperto. “Is Arenas - ha sottolineato la Garante - è un fiore all’occhiello della Sardegna. il Ministro della Giustizia Nordio e le Istituzioni devono venire a visitarla per prendere esempio. Strutture di questo tipo nobilitano la società e sono un’evoluzione del vecchio concetto di carcere dove il recluso non è aiutato in quel percorso di reinserimento previsto dalla legge”. Modena. Carcere e reinserimento sociale “Tirocinio per otto detenuti nel laboratorio del Sant’Anna” Il Resto del Carlino, 25 marzo 2023 Dopo la formazione saranno assunti da Coopattiva che sostiene l’iniziativa finanziata anche dalla diocesi. Il presidente Nora: “La nostra mission è accogliere le persone svantaggiate”. Otto detenuti del carcere Sant’Anna di Modena potranno lavorare all’interno della struttura carceraria. Avverrà nelle prossime settimane grazie alla convenzione firmata ieri tra la casa circondariale e Coopattiva, la storica cooperativa sociale con sedi a Modena, Nonantola e Pavullo. Aderente a Confcooperative Terre d’Emilia, Coopattiva è stata scelta dall’arcivescovo di Modena-Nonantola monsignor Erio Castellucci, che sostiene questa iniziativa con un contributo economico della diocesi. “La direzione del carcere cercava da tempo di sviluppare uno spazio di lavoro interno con l’obiettivo di favorire il reinserimento sociale dei detenuti - spiega il presidente di Coopattiva, Arturo Nora - Abbiamo attrezzato un laboratorio nel quale i detenuti selezionati potranno essere inseriti per svolgere attività di contoterzista, come facciamo sul mercato da 40 anni. La firma della convenzione con la casa circondariale di Modena conferma la nostra mission: accogliere le persone in situazioni di svantaggio, promuovendone dignità, inclusione e integrazione attraverso un lavoro autentico e di valore”. “Inizialmente il laboratorio funzionerà tutte le mattine e ospiterà fino a un massimo di otto persone coordinate dal nostro personale esperto - aggiunge Giorgio Sgarbi, direttore di Coopattiva - Dopo un percorso di tirocinio formativo le persone saranno assunte direttamente dalla nostra cooperativa, che fornisce servizi di qualità a numerose aziende del territorio operanti in vari settori, dalla ceramica alla meccanica, dalla gomma-plastica alla grande distribuzione”. Pozzuoli (Na). “Le Lazzarelle” e la ricetta di Cicirinella di Vincenzo Mattei Il Manifesto, 25 marzo 2023 Nella Casa circondariale femminile di Pozzuoli una cooperativa ha adibito a torrefazione un’ala dell’edificio, per produrre caffè artigianale e dare una possibilità alle donne che sono in carcere: dal 2010 più di 80 detenute hanno fatto il percorso lavorativo con le Lazzarelle, e quasi il 90% dei casi non è rientrato in prigione ed è riuscito a reinserirsi nella società. Natascia pesa diligentemente i chicchi di caffè verde nei secchi di plastica alimentari, con il misurino definisce il grammo, la tostatrice è già accesa da un’ora per ottenere il risultato migliore. Versa tutto con cura dentro gli ingranaggi che daranno l’aroma inconfondibile al caffè. Sebbene la macchina sia completamente automatizzata e scandisca tutto al secondo, di tanto in tanto Natasha segue il progredire della tostatura attraverso un piccolo oblò di vetro dal quale si vedono i chicchi cambiare colore e assumere il tipico marrone scuro della bevanda nazionale. Natasha è di Ponticelli, ha 44 anni, non aveva mai fatto questo lavoro, per 20 anni ha spacciato cocaina e droghe minori nel territorio napoletano. Sono otto anni che è reclusa nel carcere femminile di Pozzuoli. Il tempo passa, l’aroma del caffè tostato si diffonde nell’ambiente, intanto prepara i contenitori per raccogliere i chicchi tostati e i silos dove verranno stipati. “La maggior parte delle carcerate di Pozzuoli viene quasi tutta dalla periferia, ma se sono di Ponticelli (un rione di Napoli), dicono “Andiamo a Napoli”, la stessa cosa se vengono da Scampia. Molte che vivono nel quartiere della Sanità, qui vicino, non hanno mai attraversato la strada, non sono mai state a piazza Dante che è qua dietro. Così ti accorgi che non escono dai propri quartieri, sembra impossibile ma è la realtà. Si vive là per tutta la tua vita senza mai uscire come se fosse un piccolo villaggio, con le sue regole, le sue leggi e il destino che ti riserva. In molte pensano nel proprio immaginario che l’attività criminale sia l’unica cosa che si può fare, che non c’è alternativa!”, afferma Imma Carpiello che ha fondato la cooperativa delle Lazzarelle nel 2010 con lo scopo di cercare il recupero delle detenute attraverso il lavoro. Quale mezzo migliore se non il caffè? “Lo abbiamo scelto perché è un prodotto tradizionale, a cui ci si affeziona, è tipico napoletano, ed è un prodotto che dà identità”, afferma Paola Pizzo, socia delle Lazzarelle dal 2016. La Cooperativa ha adibito a torrefazione un’ala all’interno della Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli di comune accordo con le autorità costituite e di cui Paola è responsabile. “È un’impresa tutta al femminile in un settore tipicamente maschile. Abbiamo immaginato qualcosa che fosse realmente qualificante per le donne che lavorano con noi, per andare incontro a un bisogno, non solo di un reddito, ma soprattutto qualcosa che desse delle vere skill e competenze da spendere eventualmente una volta finita la pena”, continua Paola. “Noi diamo uno stipendio normale alle carcerate, con tanto di contributi, questo permette di non pesare sull’economia familiare. Ci sono delle spese, come gli assorbenti e altre necessità, che sono a carico dei loro parenti. Così facendo s’innesca un meccanismo inverso in cui sono le stesse detenute ad aiutare la propria famiglia che spesso versa in condizioni indigenti. Inoltre hanno la possibilità di pagare il debito che hanno con lo stato, sì, perché stare in prigione è come pagare un canone che poi risulta un debito da pagare in piccole rate una volta uscite di galera. Invece le nostre Lazzarelle riescono a mettersi qualcosa da parte, non molto, qualche migliaio di euro, ma comunque una somma discreta per chi deve reinserirsi nella società. Può essere investita nell’affitto di un appartamento e provare a iniziare in maniera indipendente un lavoro invece di ritornare a casa da un marito-padrone dal quale si dipende economicamente”, precisa Imma. Le Lazzarelle sono una piccola realtà e non possono di certo competere con la produzione industriale ma hanno una discreta distribuzione del proprio caffè a livello nazionale. “Abbiamo fatto tanto in questi 12 anni, con le fiere ci siamo fatti conoscere, anche a Napoli eravamo ignorate prima di aprire il bistrot qui alla Galleria Principe Umberto perché ovviamente, stando chiuse in carcere non era facile accorgersi di noi. Facemmo una fiera a Milano e fortunatamente siamo esplosi in Lombardia e in tutto il nord Italia, poi abbiamo i GAS, che per noi sono molto importanti”, afferma Imma. Dal 2020 le Lazzarelle hanno aperto il loro bistrot a pochi passi dal Mann, in pieno centro storico, Imma ne descrive l’idea: “Quando abbiamo avanzato il progetto ce lo eravamo immaginate già con un punto esterno come la sua normale evoluzione, per proseguire il lavoro che facevamo dentro avevamo bisogno di un punto fuori. È stata una coincidenza fortuita trovare questo posto perché ci permette di non essere un progetto periferico e di portare le detenute al centro della città in un posto unico come la Galleria Principe. Circa 6 anni fa il comune di Napoli fece un bando per affidare questi locali e presentammo un progetto, lo vincemmo e avviammo i lavori di ristrutturazione per i quali abbiamo acceso parzialmente un mutuo usufruendo anche dei finanziamenti di due fondazioni. Stare qui e essere all’interno della rete del Mann e avere quindi come interlocutore il museo archeologico, il suo direttore Giulierini che viene a prendere il caffè dove sono le detenute, è diventato un processo osmotico”. “Lavorare con le Lazzarelle mi ha aiutato tantissimo perché ero una persona molto depressa, tendevo sempre a stare a letto con psicofarmaci, invece stando qua mi sento di nuovo viva. Grazie a Paola e ai ragazzi del sevizio civile e alla mia amica Nunzia ora sto molto meglio, davvero un grandissimo cambiamento, anche perché con le altre persone ero chiusa, adesso no”, Natasha lavora alla torrefazione dal 1 febbraio del 2022, riesce a mandare ai suoi due figli ventenni circa €300 al mese, un piccolo contributo in una realtà non sempre facile nelle periferie delle grandi città. “I miei familiari mi hanno visto cambiata, mi hanno detto che sono la Natasha di una volta, proprio perché ero caduta in una brutta depressione per i troppi anni di carcere”. Infatti il carcere, visto come sola detenzione, diventa un mezzo punitivo che spesso porta le detenute, una volta terminata la pena, a ritornare sugli stessi passi, a meno che non si agisca sia all’interno della struttura detentiva sia nel territorio. “Le mura chiuse possono portare all’annullamento della persona. Sono originaria di Aversa, ho vissuto in una città in cui il manicomio giudiziario e quello civile erano limitrofi, si passava sotto quelle mura senza rendersi conto di quello che c’era all’interno. E si continua ancora a fare così, quando si cammina a Poggioreale, non ci poniamo il problema di chi è all’interno, per questo faccio gli incontri nelle scuole, gli studenti pensano che dentro le prigioni ci siano tutti Totò Riina e invece la maggior parte è la povera gente. Poi insisto sulla stessa cosa da anni: ci vogliono politiche di welfare differenti per evitare la dispersione scolastica, perché molte delle donne che noi incrociamo hanno la 5a elementare e molte intorno ai 40 anni sono già nonne. Quindi significa che ti trovi di fronte a dei meccanismi che si rigenerano. Se non si vanno ad intaccare queste problematiche, se non se ne parla non se ne uscirà mai”, conclude Imma. Uno dei problemi del Meridione è appunto la mancanza di servizi che possano evitare l’abbandono scolastico, ma non solo. Nel Sud, molto di più che in altre zone d’Italia, le donne sono relegate ad un ruolo prettamente domestico, quando diventano madri il loro percorso è scritto, devono rimanere a casa ed accudire i figli. In Campania sono poche le scuole pubbliche che hanno la possibilità di tenere i bambini a tempo pieno, impedendo alle madri di trovare un lavoro anche part-time che possa renderle indipendenti. “Spesso il marito o il figlio maschio costituiscono l’unica fonte di sostentamento della coppia/famiglia perché le detenute non hanno mai lavorato. Quando i mariti, compagni o figli vengono arrestati, l’unico modo per portare avanti la famiglia è prendere il loro posto. Lo fanno perché hanno bisogno di soldi e non hanno altra opportunità lavorativa”, descrive le dinamiche Imma. “Avevo il marito ergastolano con due figli da mantenere e mandare a scuola, un appartamento, l’avvocato … sono tante le spese poi quando non c’è il marito che fai? Non c’era alternativa, almeno per me”. Natasha ripercorre la sua vita, e continua: “Chiaramente non si può avere una prospettiva per sapere già quello che si farà una volta fuori dal carcere, perché sarà molto difficile prima recuperare la propria libertà, nel senso che esco dopo tanti anni, me metto paura pure de pija o purman (il bus). Prima devo riacquistare fiducia in me stessa stando fuori, non commettere più errori, lo devo fare per i miei figli che non devono assolutamente fare la nostra vita! Sono sicura che non mi succederà mai più, e se troverò un lavoro in una torrefazione sarò felice”. Natasha poi ricorda con piacere un evento con le Lazzarelle che l’ha segnata positivamente, con una vena di orgoglio e soddisfazione: “La prima volta che siamo andate con Paola a fare il mercatino, per me era una novità uscire con l’azienda anche solo per lavorare davanti ad un supermercato e confrontarsi con altre persone, parlarci, cioè, io lavoro, dopo tanti anni io lavoro, sto uscendo con la mia titolare e vado a fare un mercato, per me era una cosa nuova e bella che non pensavo di poter fare”. Le detenute non hanno l’educazione o la forma mentis volta all’emancipazione imprenditoriale, quindi il lavoro delle Lazzarelle all’interno del carcere di Pozzuoli rappresenta un’alternativa, una diversa prospettiva della vita. “In Campania si riscontra un contesto socioeconomico complicato. In generale noi donne abbiamo difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro e siamo doppiamente svantaggiate, per cui per una donna che termina la pena non avere delle qualifiche è una tragedia. Abbiamo studiato i bisogni del contesto carcerario femminile e abbiamo immaginato le Lazzarelle come un’impresa femminile che fa caffè, dove il caffè non è lo scopo, ma è il mezzo, loro devono diventare in grado di fare qualsiasi cosa, o tornare ad essere in grado di farla. Normalmente la detenzione reprime quelle che sono le loro capacità, quindi si lavora insieme per ricordarsi di quello che si sapeva e si può fare, ma soprattutto ciò che si può imparare a fare per il futuro nella speranza di non tornare più qui dentro ed essere grado di riprendersi la propria vita”, precisa Paola. “C’era questa realtà molto bella all’interno del carcere che dava la possibilità alle donne che sono recluse di poter imparare un lavoro ma anche acquisire delle competenze. Le Lazzarelle danno una speranza di poter ricostruire il proprio futuro nonostante ciò che è successo e gli errori commessi, avere una seconda possibilità, inserirsi nel mondo del lavoro, ti assumono con contratto regolare per un sostegno economico, quando uscirò da questo posto avrò accumulato una piccola somma che mi permetterà di ricominciare la mia vita”, ad affermarlo è Anna, che attualmente lavora al bistrot nella Galleria Umberto grazie all’articolo 21, cioè semilibertà con possibilità in un contesto lavorativo esterno, dopo aver lavorato nella torrefazione nella casa circondariale. “Il bistrot per me è stata l’opportunità per tornare in qualche modo ad essere libera, sebbene la sera debba rientrare in istituto. Ho imparato nuove cose perché all’interno della torrefazione ci si dedica alla produzione, quindi si scopre come si tosta il caffè e tutta la catena produttiva/industriale, mentre al bistrot ho acquisito un’altra competenza come il contatto con il pubblico, lavorare al bar, servire i tavoli, fare i catering. Con le Lazzarelle ho scoperto il lavoro manuale e di possedere delle abilità che non credevo di avere. All’inizio, devo ammettere, mi sono sentita un po’ in difficoltà ed in imbarazzo. Arrivati ad una certa età si pensa che non sia possibile fare determinate cose, invece non è così, si scoprono altre capacità, altre situazioni … riscopri te stessa in un percorso di crescita”, continua Anna. Anna non solo lavora al bistrot, ma conta di laurearsi per luglio del 2023 in Economia e Commercio, ha ripreso ad andare a casa dai genitori e a frequentare di nuovo i suoi amici. “Quando entri in un contesto come quello carcerario, pensi che i tuoi amici abbiano cambiato idea su di te, esiste un pregiudizio che porta a farsi una serie di domande. Invece, quando sono tornata a casa, loro sono stati contenti di rivedermi e mi vengono a trovare anche qui al bistrot, questo è stato un ulteriore punto di forza che mi ha fatto capire che sì, è vero, è successo quello che è successo, evidentemente non era poi tutto sbagliato, c’è stata solo una fase molto deleteria nella mia vita e sono anche quello che mi è accaduto, ma c’è anche un tutto prima e un tutto dopo”, precisa Anna. A differenza di molte altre detenute Anna era diplomata in ragioneria e lavorava in amministrazione presso una succursale Fiat di Napoli. Anna non vuole scendere nei particolare, ma “…Uno lotta, si riprende, vuole riprendersi la propria vita, però c’è sempre quella parte che ci divide. Ho fatto sicuramente pace con me stessa, ma non so se l’ho fatta con il mio reato. Penso di avere piena responsabilità del mio crimine, però mi sento in colpa. Ho sempre pensato e continuerò a pensarlo che non sono una persona ignorante, avevo tutti gli strumenti per chiedere aiuto, perché mi sarebbe bastato chiederlo a qualcuno e dire che ero in una situazione psicologica che non riuscivo ad affrontare, ma non l’ho chiesto. Quindi mi assumo appieno la responsabilità del mio errore e ciò mi fa sentire meglio piuttosto che giustificarmi”. Anna esce alle 7 del mattino e deve rientrare in carcere alle 10 di sera, e su questo punto è non poco contrariata perché aveva ottenuto la semilibertà in periodo di emergenza covid, quindi invece di rientrare in prigione poteva dormire a casa dei suoi genitori e lo ha fatto da fine estate 2022 fino al 7 gennaio 2023. “Già da 2 anni che con l’articolo 21 faccio lavoro esterno, poi mi è stata data la semilibertà che ho rispettato per 5 mesi senza dare noie con nessuna infrazione o segnalazione. Ora questo passo indietro non ha un senso, è una pugnalata, ci sono dei premi, il premio dovrebbe essere proprio questo di darci una possibilità di rimanere a casa. Il giudice dovrebbe valutare il percorso formativo di reinserimento che la persona sta facendo e potrebbe premiarla confermando la libertà vigilata”, afferma sconsolata Anna. È cosciente che esiste un limite edittale della pena che il giudice è tenuto a tenere in considerazione, ma in un contesto di sovraffollamento delle carceri, come è il caso italiano, forse potrebbero essere applicate le norme in maniera più contestuale. Non aiuta di certo la cosiddetta legge anti-rave approvata dall’attuale governo che “… ha comportato una serie di restrizioni per le persone con i reati ostativi”, afferma Paola Pizzo, “Sostanzialmente nessuna di loro due, Natasha e Nunzia, è andata più in permesso premio, quindi hanno perso dei benefici di legge a causa di questo nuovo decreto. Così a Natale non sono andate a casa e stare con i figli come gli altri anni, per una detenuta è la cosa peggiore che possa accadere. Abbiamo avuto dei momenti complicatissimi che sul lavoro si gestisce ma dal lato emotivo non ci siamo ancora riprese. E poi non abbiamo capito se questa cosa inficia la possibilità di una misura alternativa come la semilibertà o un lavoro esterno come il caso di Anna, stiamo ancora capendo”. Le Lazzarelle hanno presentato il progetto al dipartimento di politiche sociali e giovanili campano per ospitare il servizio civile (SC) che è in auge da circa un anno. “I ragazzi si sono trovati in questo momento di tempesta natalizia, abbiamo sofferto tutti insieme, abbiamo pianto, un pianto collettivo … sono stati molto bravi a cogliere la sensibilità, a stare vicino a Nunzia e Natasha. Si sono interessati alla legge stessa per cercare di capire e di aiutarle, perché alla fine le vedono per quello che sono, delle donne, che hanno sbagliato sì, ma sono esseri umani. Quindi il SC può aiutare i giovani a comprendere il carcere e quanto possa essere duro, la limitazione della propria libertà è la cosa più orribile che possa capitare, e può creare un po’ di dissuasione nel commettere reati”, continua Paola. Maria Cristina ha 27 anni e fa il Servizio Civile alla torrefazione delle Lazzarelle, racconta la sue esperienza: “Non avevo mai messo piede in un centro detentivo, quindi mi ero interrogata a lungo su come potevo reagire dopo l’ingresso in un carcere. Ero cosciente che non avrei saputo dei reati commessi dalle detenute e mi ero posta il problema di come sarebbe stato lavorare con loro nel momento stesso in cui avrei saputo di più delle loro vite. Devo ammettere che poi si è risolto nella maniera più naturale possibile. Bisogna capire come effettivamente funziona il sistema penitenziario italiano con tutte le sue asperità e durezze, ma anche con i piccoli spiragli di speranza. Si capisce come si svolge la vita in una prigione, di come loro trascorrono le giornate, il senso del tempo e dello spazio perché nel carcere è diverso e quindi anche il lavoro assume delle sfumature diverse da quello che ha fuori”. Nunzia, 34 anni e due figli di 17 e 16 anni, collabora con le Lazzarelle da circa 5 mesi ed è in carcere per lo stesso reato di Natasha, spiega meglio l’importanza del SC: “Ritorniamo parzialmente al mondo di prima: non abbiamo possibilità di contatto con persone all’esterno, invece stando loro abbiamo notizie da fuori, se ci dimentichiamo di qualcosa, qualche dinamica, loro ce lo ricordano, sembra una sciocchezza ma è molto importante. Sono ragazzi ed è bello stare con i giovani”, conclude Nunzia, poi descrive l’ambiente da cui proviene: “Lo spaccio era un mondo facile, facile per un guadagno economico, facile da non fare niente dalla mattina alla sera … poi magari ci siamo trovati in una situazione più grande di noi ma abbiamo capito che quello è un mondo che oggi non ci appartiene. L’ho capito proprio con le Lazzarelle, perché abbiamo la possibilità di fare per la prima volta un lavoro vero, entriamo in un mondo che noi neanche conosciamo, ci fanno capire che il lavoro è dignitoso e che dobbiamo andare avanti”. “Le Lazzarelle mi hanno anche appoggiato quando mi sono iscritta all’università, Imma mi dà la possibilità di collegarmi per le lezioni qui al bistrot. Sono contente nel seguirti, stai facendo un percorso di crescita e loro ti accompagnano, ti danno tutte le armi e tutti gli strumenti per poter affrontare la tua vita in modo diverso”, conclude Anna. Dal 2010 più di 80 detenute hanno fatto il percorso lavorativo con le Lazzarelle, e quasi il 90% dei casi non è rientrato in prigione ed è riuscito a reinserirsi nella società. Una goccia nel mare, “Le detenute che vengono a lavorare con noi certo hanno un cambiamento, anche all’interno del carcere, però 3-6 detenute su 180 è un numero irrisorio anche se importante. Posso dire solo una cosa: a livello personale ognuna di loro mi lascia un pezzo, o si porta via un pezzo di me”, conclude Imma. Il lavoro intenso delle Lazzarelle è stato riconosciuto a livello nazionale tanto da ricevere l’onorificenza al Merito della Repubblica Italiana da Capo dello Stato Mattarella il 23 febbraio 2023 (https://caffelazzarelle.jimdofree.com/). La rivoluzione della biblioteca contro la solitudine del web di Silvia Avallone Corriere della Sera, 25 marzo 2023 Abbiamo costruito una società malata di individualismo e competizione al posto di una sana, basata sull’empatia. La lettura è un ponte, un esercizio dell’alterità. Serve la volontà di uscire da noi stessi altrimenti rischiamo di calpestarci senza incontrarci. Di fronte al dilagare di episodi di bullismo per una visualizzazione in più sul web, d’intolleranza verso chi è percepito come diverso e viene bersagliato in chat. Di fronte al moltiplicarsi di atti di autolesionismo amplificati dalla rete, di depressioni provocate da un eccesso di giudizi e paragoni, penso che abbiamo costruito una società della solitudine e della competizione al posto di una società sana: dell’empatia. Senza empatia, precipitiamo nella disgregazione, in un Far West dove l’unica legge che conta è quella del più forte: chi ha più seguaci e commenti, o chi, al di qua dello schermo, ha voti più alti, esibisce più successi. Per ottenerli, siamo spesso chiamati a trasformarci in fenomeni, a tradirci nel profondo e, insieme, a svilire gli altri. Perché è così che funziona l’algoritmo: a colpi di reazioni immediate, di pancia, che durano un istante. È così che funziona una realtà fondata sul vincere a ogni costo: perdiamo tutti. Partendo dal basso per affrontare un problema gigantesco, un piccolo antidoto da proporre ce l’ho: la lettura. Per vivere - e usare la tecnologia - con empatia, si può aprire un romanzo e diventare un altro. Che tra le pagine non è mai un fenomeno, bensì una persona: restituita in tutta la sua invisibile verità. Un uomo può calarsi nei pensieri più intimi di una donna e viceversa. Un ragazzino può comprendere i sentimenti di un anziano e un anziano rivivere la giovinezza. Un cittadino benestante può scoprire cosa significa dormire per strada, e un adolescente di periferia può proiettarsi al centro del mondo. La lettura è un ponte, un esercizio all’alterità. Una liberazione dalla solitudine per approdare a un’esistenza più vasta, dove non si vince e non si perde: ci si impegna a imparare, educare e solidarizzare. Poi è vero che la cultura ha un costo, e per molte famiglie può essere complicato renderla una prassi quotidiana. Ma dobbiamo ricordare che possediamo un luogo straordinario, gratuito, prova concreta di civiltà: la biblioteca. Sfruttiamola! Andiamoci noi e portiamoci i bambini, gli adolescenti. Organizziamo laboratori, pomeriggi d’incontro. Finanziamo le biblioteche scolastiche e teniamole vive. Non servono risorse trascendentali. Serve la volontà: di uscire da noi stessi, dalla prigionia dell’apparire e del competere. Altrimenti rischiamo di calpestarci senza incontrarci, e di dare un pessimo esempio ai giovani che invece hanno bisogno di maestri. È la comunità l’unico luogo in cui possiamo fiorire e renderci utili. Da soli, possiamo solo implodere in un violento narcisismo che fa il paio con il suo contrario: il senso di non valere nulla. Ritrovandoci insieme, invece, con le parole giuste, ascoltando e condividendo storie, insegnamenti, cultura, possiamo ricostruirci. Entrare in una biblioteca, in questo senso, può essere l’inizio di una rivoluzione. Se questo governo vuole lo Stato etico di Luigi Manconi La Stampa, 25 marzo 2023 Individuare un nesso filosofico tra Giorgia Meloni, Matteo Salvini e la categoria hegeliana di “Stato etico” può risultare impresa talmente ardua da determinare una vertigine intellettuale. Eppure. Eppure già solo nei primi cinque mesi del governo delle destre - per tacere di prima - sono state numerose le prove di una forte inclinazione della maggioranza verso una idea, magari sgarrupata, di Stato etico. Si pensi che un importante esponente di Forza Italia, Giorgio Mulè, ha motivato la sua opposizione alla gestazione per altri col fatto che essa “viola non solo la legge dello Stato ma anche le leggi divine”. Se questa è l’opinione e la dichiarazione pubblica di uno tra i più lucidi e anticonformisti membri della maggioranza, figuriamoci gli altri. E infatti la destra ha voluto che tutto il dibattito sulla maternità surrogata e sui suoi rischi si concentrasse sulla necessità di uniformare le categorie di genitorialità, filiazione, e sessualità a una concezione assoluta e omologante. Quella concezione discende da una precisa prospettiva - propria dell’idealismo assoluto - che considera lo Stato non come una istituzione garante dei diritti degli individui, ma come la più alta manifestazione della vita spirituale della società umana. Che una tale interpretazione sia ossessivamente presente nella cultura delle destre è confermato da quel richiamo alla classificazione della maternità surrogata come “reato universale”. La fattispecie penale perde, dunque, tutti i connotati richiesti dal diritto contemporaneo - dai requisiti di tempo e spazio per la sua applicazione, fino all’offensività e alla materialità - per diventare qualcosa di assai simile a una interdizione morale o a un monito religioso, come la scomunica o la fatwa. La stessa tendenza si è rivelata esemplarmente anche nel più recente episodio parlamentare, quando una legge destinata a sottrarre al carcere i minori da 0 a 3 anni ha rischiato di trasformarsi, a causa di un emendamento di Fratelli d’Italia, in una norma per tenere in cella le donne incinte. Anche qui sembra affermarsi un assoluto etico: la sanzionabilità di un reato (il furto) deve prevalere su ogni altra considerazione, in quanto la punizione non avrebbe una funzione utilitaristica (prevenire la recidiva), bensì il senso di una lezione morale. In ogni caso, l’idea di Stato etico percorre tutta la politica e la comunicazione politica delle destre. Assai significativo il trattamento riservato al tema dell’immigrazione. Sullo sfondo c’è la teoria della “grande sostituzione etnica”: una tesi di incerta origine e dai molti padri che negli anni più recenti si è tradotta nel fantomatico “piano Kalergi”, secondo cui l’arrivo di centinaia di migliaia di persone in Europa sarebbe l’esito di un disegno elaborato dalle élite politiche ed economiche dell’Occidente per importare forza-lavoro a basso costo e dare vita a una nuova “popolazione meticcia” debole e manovrabile. Resta il fatto che il riferimento a un simile progetto, unitamente alla formula “genocidio del popolo italiano” è frequente nella prosa di Matteo Salvini e in quella di Giorgia Meloni che più volte ha parlato di “prove generali di sostituzione etnica in Italia”. Dunque, quella dell’immigrazione non viene affrontata come una gigantesca questione di natura economica, demografica, sociale e culturale, bensì come il frutto di un complotto internazionale e come - ecco il punto - un attentato allo Stato, ai suoi fondamenti etici, alla sua unità spirituale. Tutti elementi che la destra di Meloni trasferisce sul concetto di “nazione”, fin quasi a identificare quest’ultima nello stesso Stato. Ne consegue una visione organicistica e corporativa della società e delle sue istituzioni. Ed è così che l’idea dello Stato etico si esprime anche in una lettura della storia nazionale dove il regime fascista - esecrabile, ma “per alcuni versi”... - finisce per trovare cittadinanza e una qualche continuità ideale nel tempo. Di conseguenza non stupiscono alcune implicazioni più ordinarie e sgangherate di quella concezione nella sua applicazione quotidiana. Quando il Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara esclama: “Evviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità”, non commette una gaffe della quale altrettanto maldestramente si sarebbe poi scusato. Piuttosto esprime limpidamente il suo pensiero, preceduto, non a caso, dall’elogio della “stigmatizzazione pubblica”. Forse è esagerato scomodare una nozione imponente come quella di Stato etico per simili corbellerie, ma l’ispirazione è sempre la stessa. Stigmatizzazione e umiliazione sono espressioni, entrambe, di un apparato culturale moralistico in cui la trasgressione, la devianza, l’illecito sono intesi come peccati da emendare, più che come comportamenti critici e, nel caso, da sanzionare. Più come offese alla sostanza morale della società e dello Stato che come atti da prevenire e contenere. Si comprende, quindi, anche il senso della proposta di legge del viceministro agli Esteri Edmondo Cirielli (di Fratelli d’Italia), finalizzata a ripristinare il carcere per gli atti osceni in luogo pubblico, qualificandoli come reato e non più come mero illecito amministrativo. L’attenuante prevista è per coloro che abbiano provveduto a tenere al riparo dal pubblico, attraverso “l’appannamento o la copertura dei vetri” (c’è scritto proprio così!), quegli atti osceni commessi all’interno di un’autovettura. Se vi sembra che, in tal modo, il possente concetto di Stato etico venga abbassato al livello delle commedie porno-soft degli anni 70 (con Lino Banfi e Barbara Bouchet quali eroi eponimi), vi garantisco che la colpa non è assolutamente mia. Migranti. Vertice Ue: un piccolo passo avanti di Massimo Franco Corriere della Sera, 25 marzo 2023 Meloni ha ottenuto che il tema sia riconosciuto nelle sue dimensioni strutturali e continentali, ed è già qualcosa. Pensare che la soluzione invocata dal governo di Roma sia vicina, tuttavia, potrebbe rivelarsi un’illusione. Il mantra di Giorgia Meloni è il “cambio di passo” in materia di immigrazione. E come era inevitabile ognuno lo declina a proprio modo. Con dosi massicce e scontate di sarcasmo, le opposizioni; con soddisfazione quasi gridata, la maggioranza. Forse sarebbe meglio limitarsi a fotografare un Consiglio europeo per forza di cose dominato dalle ombre della guerra russa contro l’Ucraina, e da quelle dell’inflazione e delle crisi bancarie. E segnato, al di là dei comunicati ufficiali, da una resistenza generale a prendere misure operative. Abbellire questa realtà prosaica finisce per sminuire il progresso nei rapporti tra Italia e Francia: la ripresa di un dialogo tra la premier e il presidente Emmanuel Macron, bloccato per mesi da polemiche e malintesi. Per quanto obbligato da una cornice internazionale che sconsiglia divisioni nell’Ue e nella Nato, l’incontro dell’altra notte a Bruxelles va salutato positivamente. Serve a un Macron assediato in patria dalla protesta di piazza per la sua riforma delle pensioni. Ma serve anche a Meloni per evitare che continuino manovre strumentali tese a isolare l’Italia; e per dare sostanza alle ambizioni di centralità e di protagonismo, che non nasconde. Andare oltre significherebbe esporsi all’assalto di opposizioni senza strategia e senza unità, che attaccano Palazzo Chigi facendo finta di non sapere che sul tema la debolezza dell’Italia ha una storia antica. Per questo i progressi almeno lessicali sui migranti vanno registrati, non esagerati. Meloni ha ottenuto che il tema sia riconosciuto nelle sue dimensioni strutturali e continentali, ed è già qualcosa. Pensare che la soluzione invocata dal governo di Roma sia vicina, tuttavia, potrebbe rivelarsi un’illusione. Nonostante l’allarme che proviene dalla Tunisia, con la prospettiva di un nuovo esodo dal Nord Africa, l’Europa offre rassicurazioni e promesse di solidarietà; ma non sembra in grado di offrire impegni concreti. Sono troppe le resistenze nei Paesi del Nord, che temono non tanto un’“invasione” quanto i riflessi di una svolta sull’accoglienza a un anno dalle elezioni europee del 2024. Già sono arrivati e arriveranno migliaia di profughi all’estremo Est, dai confini dell’Ucraina invasa dalle truppe di Vladimir Putin. Quelli che approdano in Italia, e non solo, attraverso il mare Mediterraneo sono un problema potenzialmente destabilizzante per noi, ma agli occhi di quell’Europa meno prioritario. Il fatto che finora non sia stata raggiunta nessuna intesa tale da abbozzare una nuova strategia fotografa questo retroterra di miopia e egoismi nazionali. Meloni non ha responsabilità maggiori di chi l’ha preceduta: è un muro contro il quale si sono scontrati più o meno tutti. Per questo bisogna insistere, certo, ma in parallelo concentrarsi sul Piano di ripresa e ottenere dalla Commissione Ue la terza parte dei fondi stanziati, 19 miliardi di euro. Meglio “mettersi alla stanga”, ammonisce il capo dello Stato, Sergio Mattarella, citando Alcide De Gasperi e la ricostruzione del dopoguerra. Magari anche ratificando il controverso Mes, che qualcuno è pronto a usare come prova di scarsa affidabilità dell’Italia. Migranti. Il vocabolario menzognero dell’ideologia securitaria di Marco Bascetta Il Manifesto, 25 marzo 2023 Ciò che rende inconsistenti e beffarde tutte le formule e le finte proposte sciorinate sull’immigrazione è il fatto di fondarsi immancabilmente su accordi con quegli Stati ai quali i migranti cercano in ogni modo di sottrarsi, per ragioni che riguardano tutti (guerra, carestia, devastazione ambientale) o determinati segmenti di popolazione, se non addirittura singoli individui, minacciati da forme mirate di persecuzione. Poche parole dal Consiglio europeo tanto atteso. Parole in libertà, formule vacue e stantie, (come “il diritto a non emigrare” dichiarato da Giorgia Meloni, controsenso che ignora la realtà prodotta da secoli di sfruttamento e sopraffazioni), finte proposte, castelli in aria, fumisterie e vere e proprie menzogne. Quando i governanti affrontano il tema delle migrazioni si entra in pieno nel mondo del non senso, degli accordi senza interlocutori, dei progetti senza denari. O, peggio, dei razzismi selettivi - accoglienza a braccia aperte per quelli biondi e bianchi, respingimento o peggio per tutti gli altri. Con quella desolante e ottusa mancanza di fantasia politica che ripropone ossessivamente per uso interno lo scenario dell’”invasione”, gonfiando l’allarme sociale ben oltre la sua perlopiù modesta consistenza. L’ultima favola ci assicura che dobbiamo alle manovre di destabilizzazione condotte dai mercenari russi del gruppo Wagner contro l’Occidente l’incremento degli sbarchi di migranti sulle coste italiane. Ma è solo l’ultima variante, aggiornata alle convenienze dell’attualità, di quella narrazione del complotto (dalla leggenda della “sostituzione etnica” al sabotaggio delle identità culturali e delle tradizioni) che vede i flussi dei migranti manovrati da potenti interessi “cosmopoliti” o da livelli occulti e obliqui dello scontro geopolitico. Un gradino sotto questo scenario fantapolitico troviamo i “trafficanti di esseri umani” contro i quali si strombazza una impossibile guerra globale. Impraticabile sia sul piano giuridico che su quello materiale. Confondendo, fra l’altro, i vertici del business con gli scafisti, figure facilmente sostituibili conferendo a qualche passeggero, sommariamente addestrato e ignaro dei rischi ai quali si espone, i gradi di capitano e il ruolo di timoniere. Ma poco importa, lo scopo di questi bellicosi proclami è solo quello di simulare una guerra contro i soli malvagi, gli scafisti, e in difesa delle loro (non nostre!) vittime, ossia i migranti stessi. Come se fossero i barcaioli clandestini a determinare le migrazioni e non le dimensioni incontrollabili di questo fenomeno a dar spazio ai loschi affari dei trafficanti che, semplicemente, traghettano chi meglio paga. La crociata contro questi ultimi non è che un modo sbrigativo e puerile di mascherare agli occhi delle pubbliche opinioni l’impotenza dei governi nell’affrontare la grande fuga da mondi resi invivibili e sempre più estesi. Esodo che qualcuno, oltre il limite del ridicolo, vorrebbe fermare telefonando ai migranti per avvertirli che la traversata è pericolosa. L’impostura, tuttavia, non finisce qui. I “trafficanti” coincidono spesso direttamente e sempre indirettamente con quei governi che l’Unione europea e l’Italia pagano per rinchiudere i migranti nei campi di concentramento e sotto tortura, dai quali usciranno solo pagando gli aguzzini governativi. Muoveremo loro guerra? Un’infamia che mette nelle mani di regimi corrotti e senza scrupoli, come quello turco, libico o egiziano non solo dei disperati senza protezione, ma anche un formidabile strumento di ricatto e cioè il potere di aprire le porte alle partenze di massa per batter ulteriormente cassa o per ottenere favori politici. In questa partita le organizzazioni criminali sono parte integrante del sistema. La cooperazione con questi stati o segmenti di stati (come nel caso della Cirenaica e della Tripolitania), non può essere in nessun caso, come finora non lo è stata, in favore dei migranti e dei diritti umani e dovrà comunque sottostare alle condizioni imposte da siffatti regimi. Ai quali si aggiunge ultimamente la Tunisia che, accoppiando autoritarismo e xenofobia, da presunto partner si è trasformata in sicuro problema. Su questa ruvida realtà si sgretola una inconcludente diplomazia di facciata, nonché suggestioni campate in aria come il fantasmatico “piano Mattei”, niente più che gli affari dell’Eni sulla sponda africana del Mediterraneo, per non parlare degli investimenti a chiacchiere nei paesi di origine dei migranti e di tutti gli inutili orpelli che ammantano una sostanziale volontà di respingimento senza rete e senza prospettive. Ciò che rende inconsistenti e beffarde tutte le formule e le finte proposte sciorinate sull’immigrazione è il fatto di fondarsi immancabilmente su accordi con quegli Stati ai quali i migranti cercano in ogni modo di sottrarsi, per ragioni che riguardano tutti (guerra, carestia, devastazione ambientale) o determinati segmenti di popolazione, se non addirittura singoli individui, minacciati da forme mirate di persecuzione. Circostanza che scardina qualunque tassonomia imposta al diritto di asilo che, invece di essere ampliato di pari passo con il moltiplicarsi dei fenomeni e delle forme di oppressione in tutto il pianeta, subisce al contrario continui restringimenti. Per dirla con una formula, un movimento di moltitudini, non riconducibile dunque a nessuna unità, disegno o progetto, la ricerca individuale di una vita vivibile che si fa destino comune e pratica collettiva, non può essere arginata da evanescenti patti stipulati con governi costitutivi delle realtà da cui innumerevoli persone cercano di fuggire. Possono essere considerati interlocutori Kabul, Damasco, Baghdad, Asmara nonché svariati governi subsahariani? O, peggio ancora, gli stati “trafficanti” di transito? Poco, importa. Alla demagogia “protettiva” e securitaria dei governi europei, basta accompagnare alla retorica della fermezza quel tanto di ipocrisia e di edulcorazione necessarie a mascherare la brutalità dell’azione di contenimento e respingimento. All’orrore si risponde con una presa in giro. La “war on drugs” va a braccetto col boia di Marco Perduca Il Riformista, 25 marzo 2023 Chi chiama proibizionismo il “sistema internazionale di controllo delle droghe” sa che la guerra alla droga è da sempre una guerra contro le persone, persone che coltivano usano e, naturalmente, scambiano le sostanze contenute nelle Convenzioni Onu. Nell’introduzione al suo rapporto di quest’anno, l’International Narcotics Control Board, INCB, si scaglia contro quelle giurisdizioni che stanno legalizzando la cannabis ma non dedica altrettanta evidenza all’uso della pena di morte per reati “droga-correlati”. La pandemia ci ha confermato la preferenza popolare dell’uso di sostanze psicoattive per lenire gli effetti dei lockdown senza che ci fosse un aggravamento della pressione penale. Il ritorno alla “normalità” dal 2022 ci restituisce un quadro di inaudita violenza di stato contro chi usa e traffica “droghe” Secondo il rapporto di Harm Reduction International (HRI) relativo all’anno scorso, almeno 285 persone sono state giustiziate per reati di droga in Cina, Iran, Corea del Nord, Arabia Saudita, Singapore e Vietnam. Le esecuzioni per droga sono state circa il 30% di tutte le esecuzioni confermate a livello globale. L’aumento rispetto al 2021 è stato del 118% e dell’850% rispetto al 2020! Dal 2007 HRI monitora l’uso della pena di morte per reati di droga in tutto il mondo offrendo una panoramica che fornisce aggiornamenti su legislazioni, politiche e pratiche relative alla lotta alla droga. L’uso della pena capitale da parte di decine di Paesi costituisce una chiara violazione degli standard internazionali, secondo i quali la pena di morte non può essere applicata a fattispecie, come il traffico di droga, che non raggiungono la soglia dei reati “più gravi”. Non solo le esecuzioni, nel 2022, sono aumentate anche le condanne a morte confermate per reati di droga, con almeno 303 persone condannate in 18 paesi. Ciò segna un aumento del 28% rispetto al 2021. Secondo le stime di HRI, almeno 3.700 persone sono nel braccio della morte in tutto il mondo per “reati di droga”, cifre che non tengono conto delle esecuzioni extragiudiziali connesse alla lotta al narcotraffico che nell’estate del 2021 sono state chiaramente stigmatizzare dal Comitato Onu in materia. Tanto l’Assemblea generale delle Nazioni unite del 2016 quanto la Commissione Onu sulle droghe e l’INCB - quando era a guida tedesca e olandese - si sono sempre dichiarati contrari all’uso della pena di morte come sanzione per le violazioni del “controllo internazionale delle droghe”, l’attenuamento della retorica anti-terrorismo ha fatto però tornare in auge altre preoccupazioni “securitarie” per giustificare un indiscriminato uso della violenza di stato per imporre il proprio controllo sulla società e le sue componenti “devianti”. Il numero di esecuzioni è da sempre una stima per difetto perché, trattandosi di regimi che reprimono anche la circolazione delle informazioni, risulta difficile poter avere accesso a dati verificabili. Se alcuni paesi, come Iran, Indonesia, Vietnam o Laos pubblicizzano le esecuzioni per provare le loro politiche di “tolleranza zero”, nel Golfo l’interesse a far conoscere come la si pensa su alcune questioni è pari allo zero - si agisce e basta. Significativa per esempio l’assenza di dati dall’Afghanistan dove si concentra quasi il 90% della produzione globale di oppio per eroina e dove dal 2021 sono tornati i talebani che, almeno a parole, si sono sempre dichiarati violentemente contro la coltivazione del papavero. Mancano all’appello anche i dati di Laos, Myanmar e Thailandia che da un paio di anni sono tornati a quantitativi di produzione di oppio talmente importanti da far parlare nuovamente di triangolo d’oro. Un altro “narco-stato” di cui non si parla mai è la Corea del Nord, luogo di raffinazione di sostanze psicoattive chimiche e centro di distribuzione di eroina verso i mercati asiatici. Ma è il caso dell’Iran che da sempre resta il più grave: l’odio nei confronti delle donne si conferma anche in questo caso. Infatti, oltre un quarto delle esecuzioni hanno riguardato donne che, ragionevolmente, vista l’oppressione nei loro confronti della Repubblica islamica, non fanno parte dei vertici di organizzazioni criminali ma sono, eventualmente, l’ultimo anello della catena di piccolo spaccio o vittime di macchinazioni di uomini. Quando alla fine degli anni Ottanta si tornò a evocare la necessità di una Corte penale internazionale la si ritenne indispensabile per processare il narco-traffico internazionale. Paradossalmente uno degli ultimi casi portati all’attenzione della Corte dell’Aia prima dell’aggressione russa dell’Ucraina è stata la situazione delle Filippine dove, sotto la direzione dell’allora Presidente Rodrigo Duterte, decine di consumatori sono stati uccisi da esercito, polizia e milizie. Se in quanto tale il proibizionismo non è un crimine, l’uso sproporzionato di sanzioni penali e punizioni lo è sicuramente e la pena di morte ne è la pistola fumante. L’Onu denuncia: esecuzioni sommarie di prigionieri di guerra, sia russi sia ucraini di Sabato Angieri Il Manifesto, 25 marzo 2023 Un rapporto Onu afferma che da quando la Russia ha invaso l’Ucraina si sono verificate decine di esecuzioni sommarie ai danni dei prigionieri di guerra. E la notizia inattesa è che il triste primato nella sfida tra boia spetta all’Ucraina. IL REPORT, pubblicato ieri, è frutto di un’indagine durata da agosto a gennaio e si basa su interviste a circa 400 prigionieri di guerra, metà dei quali ucraini rilasciati e l’altra metà russi tenuti prigionieri in Ucraina. I funzionari dell’Onu coinvolti hanno chiarito di non essere riusciti a sentire i prigionieri di guerra detenuti in Russia o nelle zone ucraine occupate dai russi dove, ciononostante, sono stati identificati 48 siti di internamento. Il primo dato che salta agli occhi è quello dei morti: circa 40 militari sarebbero stati vittima di esecuzioni sommarie nei 13 mesi di guerra. Di questi, 25 prigionieri di guerra o persone fuori combattimento russe prigionieri degli ucraini sarebbero stati uccisi sommariamente. Il rapporto si riferisce non solo alle uccisioni ma ai casi di tortura, all’uso di scudi umani e altri abusi legati al contesto bellico che “potrebbero costituire crimini di guerra”. Del resto, come sempre accade in questi casi, i dati si basano solo sui casi confermati e accertabili e quindi, ritengono gli osservatori Onu, sono sottostimati. Si noti che l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani dispone di una squadra di osservatori in Ucraina dal 2014, quando cioè sono iniziati gli scontri tra l’esercito regolare di Kiev e le truppe separatiste in Donbass e nell’est. “Siamo profondamente preoccupati per l’esecuzione sommaria di 25 prigionieri di guerra russi e di persone che hanno ricevuto l’ordine di combattere dalle forze armate ucraine, che abbiamo documentato” ha dichiarato Matilda Bogner, capo della missione di monitoraggio Onu in una conferenza stampa a Kiev. Bogner ha descritto gli abusi commessi da entrambe le parti coinvolte nel conflitto, specificando tuttavia che l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è alla base di ogni violenza contro i civili e i prigionieri di guerra. Gli investigatori contro i crimini di guerra ucraini, inoltre, sarebbero già indagando su alcuni casi citati nel rapporto, ma finora “nessuno è stato ancora portato in tribunale”. “In relazione al trattamento dei prigionieri di guerra ucraini, siamo anche profondamente preoccupati per l’esecuzione sommaria di 15 di questi poco dopo la loro cattura da parte delle forze armate russe”, ha proseguito Bogner, chiarendo che “i contractor militari e di sicurezza del Gruppo Wagner hanno perpetrato 11 di queste esecuzioni”. Nella relazione presentata ieri si trovano anche documentati i casi di cinque prigionieri di guerra ucraini morti dopo essere stati torturati o altrimenti maltrattati e quattro per mancanza di cure mediche durante la prigionia. Sebbene il numero di esecuzioni sia sbilanciato verso Kiev, nel documento si riporta che gli abusi erano molto più comuni contro gli ucraini (tra i quali più di 9 intervistati su 10 hanno riferito di aver subito abusi) che contro i russi (tra cui gli abusi avrebbero riguardato la metà dei catturati). In un contesto del genere ciò che conta non è tanto capire chi sia più crudele ma che tali aberrazioni siano connaturate a ogni conflitto. Il rapporto dell’Onu magari infangherà un po’ il mantello bianco dei soldati ucraini ma forse contribuirà a far capire di cosa si parla quando si tratta di guerra. Pena di morte, gli Usa riscoprono il plotone d’esecuzione. Ora è legale anche in Idaho di Massimo Basile La Repubblica, 25 marzo 2023 Si allunga la lista degli Stati che preferiscono sparare ai detenuti invece di ricorrere all’iniezione legale. Riportando indietro il Paee di duecento anni. Non tutti vorranno vedere qualcuno che spara sul petto a un condannato a morte, giustiziandolo, ma la scena potrebbe diventare meno rara. E soprattutto legale. L’Idaho si è aggiunto a Mississippi, Utah, Oklahoma e South Carolina, tra gli Stati che prevedono il plotone d’esecuzione. È stata approvata una legge che rimanda indietro di duecento anni. I difensori della svolta, tra cui alcuni giudici della Corte Suprema, sostengono che sparare a un detenuto sarà meno crudele e doloroso dell’iniezione letale, e non rischia di fare cilecca. Mentre con l’iniezione ci sono stati casi in cui il condannato ha dovuto soffrire per ore perché il boia non era riuscito a trovare la vena giusta, con un colpo al petto la “pratica” verrebbe archiviata in fretta. L’ultimo a essere fucilato negli Stati Uniti non risale ai tempi del generale Custer ma quando alla Casa Bianca c’era ancora George W. Bush: è stato Ronnie Lee Gardner, il 18 giugno del 2010, nella prigione di stato dello Utah. Nato da genitori alcolizzati, molestato da piccolo, Gardner era stato arrestato per l’omicidio di un barista a Salt Lake City. Durante il processo, in un tentativo di fuga, aveva ucciso il procuratore Michael Bardell. Il 22 ottobre dell’85 venne condannato a morte, ma dovette aspettare venticinque anni per chiudere i conti. Era stato lui a scegliere il plotone. Da quando era stata ripristinata la pena di morte negli Usa, solo due condannati erano stati fucilati e sempre nello Utah: Gary Gilmore nel ‘77 e John Albert Taylor nel ‘96. Poi arrivò il giugno del 2010. La sera del 15 gugno Gardner aveva consumato il suo ultimo pasto, a base di bistecca, Seven Up, torta di mele, gelato alla vaniglia e aragosta. Poi, da osservante mormone, Gardner aveva cominciato un digiuno di 48 ore, guardando la trilogia del “Signore degli Anelli”. Il giorno dell’esecuzione, il 18 giugno, venne legato a una sedia, circondato da sacchi di sabbia. Sul petto, all’altezza del cuore, aveva un bersaglio. Cinque membri dello staff della prigione erano stati sorteggiati tra i volontari. A loro era spettato il compito di sparare da otto metri con fucili calibro 30. Due minuti dopo, Gardner era stato dichiarato morto. Su sua richiesta, non c’erano testimoni. Dei cinque fucili, uno era stato caricato a salve, in modo da lasciare il dubbio su chi avesse sparato il colpo fatale. Secondo l’agenzia Ap, che cita il Death Penalty Information Center, no-profit di Washington, lo Utah è stato finora l’unico Stato a usare il plotone negli ultimi cinquant’anni. L’Idaho potrebbe diventare il secondo, ma non è automatico, perché la legge prevede il ricorso ai fucili solo nel caso non vengano trovati i farmaci per l’iniezione letale e l’esecuzione sia stata rinviata troppe volte. Sembra un paradosso nell’America in cui la gente si intossica di medicinali, ma è la realtà. Da quando l’inizione è diventata, vent’anni fa, la prima opzione per eseguire le condanne a morte, molte compagnie farmaceutiche le hanno vietate, sostenendo di averle prodotte per salvare vite, non per toglierle. Serve un cocktail a base di tiopentale, un barbiturico, pancuronio, un anestetico, e il cloruro di potassio, cioè il sale di potassio. Alcuni Stati hanno scelto di passare a farmaci più facilmente reperibili, come il pentobarbital o il midazolam, ma producono una morte lenta e crudele. Le alternative sono state la sedia elettrica e la camera a gas. Da tempo la fucilazione comincia a essere considerata più “umana”. Lo pensa anche la giudice della Corte Suprema Sonia Sotomayor, progressista. Con la fucilazione, dicono i suoi difensori, non c’è l’incognita della chimica, ma la certezza della meccanica e la concretezza del piombo: il proiettile penetra il cuore, lo spezza, provoca uno stato di stordimento e il condannato muore dissanguato. Con l’iniezione il detenuto viene paralizzato, ma non stordito. In realtà, alcuni anestesisti sostengono che il condannato possa vivere dieci secondi atroci dopo la fucilazione, specie se il proiettile frattura la colonna vertebrale”. In più c’è lo spargimento di sangue, che potrebbe traumatizzare i parenti delle vittime e gli addetti alla fucilazione, ai quali tocca poi pulire la stanza. Ma resta, per stastistica, infallibile. Un ricercatore di Amherst College, Austin Sarat, ha studiato le 8776 esecuzioni avvenute negli Stati Uniti tra il 1890 e il 2010 e scoperto che 276 si erano rivelate un pasticcio. Di queste, la maggior parte erano per iniezione, le altre per impiccagione o sedia elettrica. Le trentaquattro volte in cui era stato usato un plotone d’esecuzione, era andato tutto come da programma. Secondo il Death Penalty Information Center, un precedente sfortunato c’è: risale al 1879, sempre nello Utah, quando i fucilieri mancarono il cuore di Wallace Wilkerson, il quale morì dopo ventisette minuti di pene atroci. Problema “superabile”, secondo uno dei giudici conservatori della Corte Suprema, Neil Gorsuch, che ha ricordato come la Costituzione americana, in fondo, non garantisca al prigioniero una morte indolore. Ruanda. Liberato Paul Rusesabagina, l’uomo che ha ispirato il film “Hotel Rwanda” La Stampa, 25 marzo 2023 Paul Rusesabagina, l’uomo che ha ispirato il personaggio protagonista del film hollywoodiano “Hotel Rwanda”, è stato liberato dal carcere in cui si trovava come oppositore del governo ruandese. Ora si trova nella residenza dell’ambasciatore del Qatar in attesa di partire per gli Stati Uniti, dove viveva prima di essere processato. Nel 1994, anno del genocidio in Ruanda, Rusesabagina - che dirigeva un hotel nella capitale Kigali - accolse 1.200 persone salvandole dalla morte. In un genocidio che fece 800mila vittime. Il film americano che racconta le vicende di quei giorni di massacro è del 2004. E dagli Usa è arrivato un ringraziamento. “Accogliamo con favore il rilascio di Paul Rusesabagina da parte del governo del Ruanda. È un sollievo sapere che Paul si ricongiunge alla sua famiglia e il governo degli Stati Uniti è grato al governo ruandese per aver reso possibile questo ricongiungimento. Ringraziamo anche il governo del Qatar per la preziosa assistenza che consentirà il ritorno di Paul negli Stati Uniti”, ha detto il segretario di Stato Antony Blinken. Rusesabagina è stato graziato dal presidente ruandese Paul Kagame dopo essere stato condannato nel 2021 a 25 anni di carcere per reati di terrorismo. L’aereo che avrebbe dovuto portarlo nel vicino Burundi nell’agosto 2020 è invece atterrato a Kigali: la sua famiglia e i suoi avvocati lo hanno descritto come un “rapimento”. Il 20 settembre 2021, l’Alta Corte per i crimini internazionali e transfrontalieri di Kigali lo ha riconosciuto colpevole di aver creato e finanziato l’Fln, il braccio armato del suo partito, il Movimento per il cambiamento democratico del Ruanda (Mrcd). Il tribunale ha emesso una sentenza di 25 anni di carcere in un procedimento giudiziario condannato dalle Ong come Amnesty International. Il Qatar ha avuto un ruolo di mediazione per ottenere il rilascio dell’ex manager 68enne, ha dichiarato la portavoce del governo ruandese Yolande Makolo, mediazione confermata anche dal governo statunitense.