“L’intesa è saltata”. I bimbi delle detenute restano in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 marzo 2023 Affossato il disegno di legge dei democrat che mirava a scarcerare le detenute madri con i loro figli. Scontro in commissione giustizia, l’intesa tra maggioranza e opposizione fallisce e il Pd ritira la proposta di legge che consente di far uscire i bambini fuori dalle strutture detentive. Tutto nasce quando mercoledì scorso la commissione ha dato il via libera alla legge Serracchiani, la proposta che riprende il testo presentato dall’ex deputato del Pd Paolo Siani per evitare i bambini in carcere, ma nel contempo viene depotenziata con l’approvazione di due emendamenti di Fdi: senza alcuna valutazione caso per caso da parte del magistrato di sorveglianza, in alcuni casi di recidiva, rende automatico il carcere o gli istituti a custodia attenuta (gli Icam) per le madri con i figli piccoli. Quindi niente case famiglia, punto cardine della proposta di legge. Non solo, questo vale anche per il differimento pena per detenute incinta o con bimbi minori di un anno: decade automaticamente sempre per determinati casi di recidiva. Ma nell’emendamento approvato c’è anche la possibilità, a seconda il tipo di recidiva, che il bimbo può anche essere separato dalla madre. Quindi sostanzialmente si depotenzia il principio su cui si fonda la proposta di legge: fuori i bambini dal carcere e la tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori. La trattativa per ridurre il danno presentato dall’emendamento di Fdi che snatura completamente la legge è quindi fallita. I dem avevano indicato che non avrebbero votato il mandato ai relatori e ritirare le firme, facendo decadere la pdl, se il centrodestra non avesse accolto la loro richiesta di modificare e sopprimere alcuni emendamenti con i voti della maggioranza, in particolare modo l’automatismo che toglie il differimento della pena in carcere per le donne, in casi di determinate recidive, incinte o con bambino di età inferiore a un anno. Detto, fatto. L’emendamento del partito di maggioranza approvato mercoledì, ha di fatto inserito alcuni passi che snaturano la proposta di legge iniziale. Leggiamoli. Al comma 1, lettera a) viene inserito che rimane ferma la possibilità di applicare la custodia cautelare in carcere quando, avuto riguardo alla gravità del fatto ovvero alla personalità della persona sottoposta alla misura, desumibile anche dalla recidiva ai sensi dell’articolo 99, secondo o quarto comma, del codice penale o dalla dichiarazione di delinquente abituale o professionale ai sensi degli articoli 102, 103 o 105 del codice penale, le modalità attenuate di custodia risultino inidonee: “In tale ultimo caso, la persona è condotta in un istituto senza la prole e il provvedimento è comunicato ai servizi sociali del comune ove il minore si trova”, si legge sempre nel testo dell’emendamento approvato. Conseguentemente all’articolo 3, comma 1, lettera b), capoverso 1.2, vengono aggiunte le seguenti parole: “Salvo che, avuto riguardo alla gravità del fatto ovvero alla personalità della persona sottoposta alla misura, desumibile anche dalla recidiva ai sensi dell’articolo 99, secondo o quarto comma, del codice penale o dalla dichiarazione di delinquente abituale o professionale ai sensi degli articoli 102, 103 o 105 del codice penale, le modalità attenuate di custodia, le modalità attenuate di detenzione risultino inidonee” All’articolo 47-quinquies, comma 1, viene inserito questo passaggio: “se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e” sono soppresse ed è aggiunto, infine, il seguente periodo: “Quando sussiste il concreto pericolo della commissione di ulteriori delitti, la persona detenuta è ammessa ad espiare la pena in un istituto a custodia attenuata per detenute madri, salvo che, avuto riguardo alla gravità del fatto ovvero alla personalità della persona sottoposta alla misura, desumibile anche dalla recidiva ai sensi dell’articolo 99, secondo o quarto comma, del codice penale o dalla dichiarazione di delinquente abituale o professionale ai sensi degli articoli 102, 103 o 105 del codice penale, le modalità attenuate di custodia, le modalità attenuate di detenzione risultino inidonee”. Viene così meno l’appello sostenuto da 14 associazioni, da 4 garanti dei diritti delle persone private della libertà e dal presidente della Conferenza dei garanti territoriali Stefano Anastasìa, rivolto al presidente e ai componenti della commissione Giustizia, affinché venga ripristinato lo spirito originario della proposta di legge d’iniziativa dei deputati Serracchiani, Costa, Di Biase, Casu e Furfaro. Da qui la richiesta delle organizzazioni e dei vari soggetti per non fermare questo percorso e per recuperare lo spirito originario affinché il testo completi quanto prima l’esame in Commissione Giustizia, senza modifiche che ne tradiscano l’intento o esulino dalla esplicita finalità: ossia che i bambini e le bambine possano vivere i loro primi anni di vita con le madri, siano esse in attesa di giudizio o in esecuzione penale, in un ambiente non detentivo. Ma purtroppo tale appello è rimasto inascoltato. “Abbiamo deciso di ritirare la nostra proposta di legge sulle detenute madri dalla commissione Giustizia della Camera. Eravamo a un passo dall’introdurre nel nostro sistema una legge di civiltà per fare in modo di non vedere mai più bambine e bambini dietro le sbarre. Con la forzatura della destra di oggi il testo è stato stravolto e purtroppo con queste norme l’obiettivo della nostra proposta è stato cancellato. Se vogliono norme per più bambine e bambini in carcere si facciano da soli la legge. La destra ancora una volta mostra la sua totale insensibilità, una vergogna”, dichiarano i componenti democratici della commissione Giustizia. Madri detenute, è scontro tra Pd e destra di Adriana Pollice Il Manifesto, 24 marzo 2023 Il blitz alla Camera. FdI stravolge la proposta di legge di minoranza a firma dem. Il testo viene ritirato ma la Lega ne deposita un altro “anti borseggiatrici rom”. Alessandro Zan: “Hanno utilizzato come un autobus la nostra norma per fare le loro schifezze”. Scontro frontale ieri tra Lega e Pd sulla proposta di legge relativa alle madri detenute. Un tentativo di migliorare la norma in vigore era stato fatto la scorsa legislatura, il testo era passato al Senato ma l’iter si è poi interrotto con la crisi di governo. I dem hanno presentato una nuova proposta di legge (prima firma Deborah Serracchiani) ma mercoledì la commissione Giustizia della Camera ha approvato due emendamenti a firma Carolina Varchi (FdI), con il parere favorevole del governo, che stravolgono il testo, rendendolo più restrittivo rispetto alla legge in vigore. In particolare, le madri dovrebbero scontare la pena in carcere (e non negli Icam, Istituti a custodia attenuata) in caso di recidiva, inoltre verrebbe abolita la norma che prevede lo slittamento della pena per le donne incinte o con figli di meno di un anno. Sul blitz ci sono le impronte del partito di Meloni ma a intestarsi la battaglia ieri è stata la Lega. “Odiano i poveri, i migranti, le donne. E ora pure i bambini. Non solo l’indifferenza di fronte alle bare bianche di Cutro, non solo la ferocia contro i bambini delle coppie omogenitoriali, ora si accaniscono persino sui bambini in carcere con le madri” la sintesi di Marco Furfaro, capogruppo dem in commissione Affari sociali alla Camera. Il Pd per bloccare la manovra ha ritirato le firme al proprio provvedimento facendolo decadere. Alessandro Zan: “Il governo passa da ‘legge e ordine’ a ‘disumanità e inciviltà’”. E Serracchiani: “La nostra proposta non amnistiava né condonava. Prevedeva che i primi anni di vita del bambino dovessero essere trascorsi in strutture protette, non in carcere, ma vigilate e controllate”. Nel silenzio del ministro Nordio, si è preso la scena il sottosegretario leghista alla Giustizia, Andrea Ostellari: “Il Pd sceglie ancora di stare dalla parte sbagliata e conferma di volere l’impunità per ladre e borseggiatrici incinte. Nessun problema: la Lega presenterà un nuovo testo”. Testo presentato ieri pomeriggio a firma Jacopo Morrone e Ingrid Bisa: “Se sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti, il magistrato di sorveglianza può disporre che l’esecuzione della pena non sia differita o il differimento revocato. Qualora la persona sia recidiva o delinquente abituale o professionale l’esecuzione della pena avviene presso un istituto di custodia attenuata”. Salvini ha immediatamente azionato la propaganda: “Il Pd libera le borseggiatrici Rom. Vergognatevi. La Lega aveva fatto passare la norma in commissione Giustizia e ripresenterà subito il testo: chi verrà sorpresa a rubare sconterà la pena”. Il Carroccio da settimane cavalca l’onda social contro i rom utilizzando le immagini in rete e in Tv relative alle metro di Roma e Milano, richiamate persino nel testo depositato ieri insieme al film Ieri, oggi, domani con Sophia Loren ambientato a Napoli. In base ai dati del ministero, al 28 febbraio erano 21 le madri detenute con 24 figli, il numero più altro nell’Icam di Lauro, in provincia di Avellino: 9 mamme con 11 figli, di cui 6 straniere con 9 figli. Ieri eravamo, in totale, a 23 mamme con 26 bimbi. Il rapporto di Antigone: “L’andamento della presenza dei bambini in carcere ha continuato a oscillare negli ultimi trent’anni in alto (fino a superare le 80 unità) e in basso fino a raggiungere i 17 dello scorso gennaio. È possibile constatare una sovra-rappresentazione delle straniere, le quali probabilmente incorrono in maggiori difficoltà nell’accesso a misure alternative”. Sono tre i luoghi in cui i bambini vengono reclusi con le madri: gli Icam; aree apposite interne a istituti penitenziari ordinari; “luoghi interni al carcere non pensati per bambini, ma attrezzati alla bene e meglio”. La legge 62/2011 prevede le case famiglia protette per detenute prive di un domicilio ritenuto adeguato dalla magistratura ma a oggi sono solo due: una a Milano e una a Roma. Lo scontro alla Camera non ha riguardato solo il merito ma anche il metodo del governo: “Si e rotto il rapporto di fiducia - ha accusato Zan -, hanno utilizzato come autobus la nostra pdl per fare le loro schifezze. Con gli emendamenti approvati ci sono due problemi. Le donne recidive vanno automaticamente in carcere. Noi le mandavamo comunque in case famiglia, salvo casi gravi. Il secondo è peggio: il codice penale prevede un differimento della pena per donne incinte o con bambini sotto un anno. Loro tolgono anche quello”. FdI ieri ha attaccato il Pd: “Strumentalizzano i bambini coprendo un liberi tutti”. E Forza Italia? È Serracchiani a rivelare: “Fi aveva presentato emendamenti più garantisti dei nostri, sono dovuti andare a palazzo Chigi per essere convinti a toglierli”. Sul fronte opposto, da Verdi e Sinistra italiana Devis Dori: “La maggioranza ha minato alla base la finalità di una norma di assoluta civiltà”. Azione con Carlo Calenda: “Immorale il comportamento della maggioranza. Era e rimane una battaglia giusta su cui non si può arretrare”. E I 5S con Valentina D’Orso: “Un pericoloso precedente che mina il rapporto di lealtà tra maggioranza e opposizione che non possiamo accettare”. “In cella le ladre incinte”. Giro di vite della Lega e il Pd ritira la legge di Francesco Grignetti La Stampa, 24 marzo 2023 Scontro durissimo in Parlamento sulle norme per i diritti dei minori in carcere. Serracchiani: “Incredibile disumanità e inciviltà”. Il Carroccio: “Andremo avanti”. Prendi una legge in discussione, intervieni chirurgicamente con un emendamento, e voilà, la trasformi nel suo opposto. È successo ieri al ddl di Debora Serracchiani, la capogruppo Pd alla Camera, “in materia di tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”. L’intento di Serracchiani era nobile: impedire che dei bambini nascano in carcere o ci vivano i primi anni della loro vita, in quanto in cella, sia pure in un circuito dedicato con le cosiddette “modalità di custodia attenuate”, ci sono le loro mamme. Un caso che al momento tocca 23 mamme recluse, con 26 bimbi al seguito. Un po’ meno grave rispetto a quattro anni fa, quando i bambini che crescevano dietro le sbarre erano 48, ma pur sempre uno scandalo. Il testo di legge Serracchiani era alle ultime battute quando, due sere fa, con un blitz parlamentare, il destra-centro ha e approvato un codicillo che imponeva alla regola generale una deroga grande come una casa. Tutte fuori dal carcere le mamme con figli, a meno che “l’indagata sia stata già dichiarata recidiva” o sia “stata dichiarata delinquente abituale o professionale”. Fuori di gergo giuridico, questa formulazione del destra-centro significherebbe che per le ladruncole seriali in futuro non peserebbe un eventuale stato interessante o della nascita di un bimbo. E infatti Matteo Salvini ha immediatamente semplificato la questione così: “Detenzione per borseggiatrici incinte. Stop allo sfruttamento della gravidanza”. Così la vede infatti il leghista: “Chi verrà sorpresa a rubare non sarà più rilasciata, ma sconterà la pena nelle case famiglia, in carceri adeguati o ai domiciliari, nel pieno rispetto della salute sua, dei figli e del nascituro”. Il Pd è rimasto di sasso dal colpo di mano e ha fatto l’unica cosa che a quel punto poteva fare: ha ritirato il suo ddl, ormai snaturato. “Da Governo legge e ordine” siamo passati a “Governo disumanità e inciviltà”, dice scandalizzata Debora Serracchiani. E peraltro “Forza Italia aveva presentato degli emendamenti più garantisti dei nostri, hanno fatto una guerra fino all’ultimo per mantenere i loro e sono dovuti andare a palazzo Chigi per essere convinti a toglierli. C’è un senso di civiltà trasversale”. “Sulle detenute madri - polemizza anche Anna Rossomando, vicepresidente dem del Senato - un altro esempio di cultura delle garanzie da parte della destra... Sostanzialmente hanno provato ad inserire il carcere per le donne incinte in un disegno di legge che invece puntava a togliere i bambini dal carcere. Iniziativa inaccettabile”. Enrico Costa, del Terzo Polo, a questo punto nota il silenzio imbarazzato da parte del ministro Guardasigilli. “Comportamento inqualificabile per una coalizione garantista solo a parole. Ancora una volta la maggioranza cerca un bersaglio, attaccando a testa bassa diritti e garanzie. Mentre se la prendono con i bambini e con le madri detenute, un interrogativo sorge spontaneo: ma il ministro Nordio non dice niente?”. La questione s’infiamma. Salvini ci torna sopra furiosamente: “Il Pd libera le borseggiatrici Rom che usano bimbi e gravidanza per evitare il carcere e continuare a delinquere. Vergognatevi”. E a sera la Lega, con Jacopo Morrone, riparte con un ddl che cancella il “differimento della pena automatico per le donne incinte”. Dice “Essere incinta e/o madre di bambini piccoli non può essere il passe-partout per le borseggiatrici abituali e professionali per evitare il carcere e continuare a delinquere”. Commenta anche il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, Lega: “Pd smemorato. Il nostro testo è la fotocopia di uno loro della scorsa legislatura”. Madri detenute, non si farà nulla per migliorarne la condizione: chi parla di recidiva è in malafede di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 24 marzo 2023 La proposta di legge riguardante le detenute madri passa in Commissione Giustizia della Camera con un emendamento della Lega che allontana la possibilità di benefici nel caso di recidiva e che restringe le alternative al carcere per donne incinte e con bambini piccolissimi. I parlamentari del Pd, che avevano presentato la proposta, ritirano di conseguenza le loro firme, facendo decadere il provvedimento. Un nuovo nulla di fatto, dunque, su un tema, quello dei figli di donne detenute, sul quale tutti si dicono da sempre d’accordo sul dover intervenire con urgenza. La prima volta che il legislatore, dopo che nel 1975 era entrato in vigore l’ordinamento penitenziario, si è occupato segnatamente del tema delle detenute madri fu nel 2001. Fu scelto simbolicamente l’8 marzo di quell’anno come data per l’entrata in vigore della legge 40, la cosiddetta legge Finocchiaro dal nome della promotrice e prima firmataria. Tra le altre cose, la legge introdusse nell’ordinamento penitenziario una specifica misura alternativa per le donne con figli fino ai dieci anni di età, la detenzione domiciliare speciale. Se rispettavano alcuni parametri sulla pena espiata, esse vi potevano venir ammesse “se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli”. Purtroppo questi paletti si rivelarono troppo alti. I magistrati di sorveglianza, negli anni successivi, fecero un ricorso molto limitato alla detenzione domiciliare speciale per madri, vista la difficoltà di escludere che la donna sarebbe tornata a commettere un reato nonché l’inadeguatezza di molte soluzioni abitative per ripristinare la convinvenza con i figli, soprattutto nel caso di donne rom. Fu anche per questo che dieci anni dopo si ritornò sul medesimo tema con la legge n. 62 del 2011, che tentava di smussare alcuni ostacoli alla concessione dei benefici e che introduceva le case famiglia protette per accogliere quelle donne che non avevano un proprio domicilio considerato adeguato. Purtroppo anche in questo caso i risultati non furono quelli sperati. La legge non prevedeva alcuna copertura finanziaria, lasciando agli enti locali l’onere di realizzare le case famiglia. Facile capire per quale motivo, a tutt’oggi, ne esistano solo due, una a Milano e una a Roma, per un totale di una quindicina di bambini ospitati con le loro madri in tutta Italia. La proposta di legge Siani, presentata nella scorsa legislatura e ripresa nell’attuale a firma Serracchiani, avrebbe finalmente garantito risorse per la creazione delle case famiglia. Purtroppo non se ne farà nulla. E le modalità in cui ciò accade sono preoccupanti. Chi fa appello alla recidiva come criterio di esclusione da benefici penitenziari o è in malafede oppure non conosce la realtà delle nostre carceri. La composizione socio-giuridica in particolare delle donne detenute ci mostra come la recidiva non caratterizzi affatto crimini di peso o di allarme sociale, bensì uno stile di vita legato alla piccola o piccolissima criminalità da strada, legata all’esclusione sociale, alla povertà economica, alla tossicodipendenza. La scorsa estate una donna ha partorito da sola, con il solo aiuto della compagna di cella anch’essa in gravidanza al quinto mese, nel carcere romano di Rebibbia. L’anno precedente una donna incinta si è sentita male nel carcere milanese di San Vittore e ha perso il proprio bambino. Matteo Salvini si è rallegrato dell’emendamento votato in Commissione e ha parlato del “vergognoso sfruttamento della gravidanza da parte di borseggiatrici e delinquenti”. Come se noi donne ci facessimo mettere incinte per poter liberamente rubare un portafogli. Peggio per lui che ha questa visione della realtà. Peggio per quei bambini che resteranno dietro le sbarre. *Coordinatrice associazione Antigone Vogliono fare crescere questi bambini dentro un carcere di Annalisa Cuzzocrea La Stampa, 24 marzo 2023 La condizione detentiva non è compatibile con la salute dei minori. Guardatela questa bambina, con i capelli neri lunghi e i piedi che non toccano terra. Si chiama Zinetta, quando è entrata in carcere aveva tre anni, adesso ne ha sette e quel cortile e quella panchina sono il suo posto del cuore nel carcere di Lauro, in provincia di Avellino. Guardate le foto di Anna Catalano, a Napoli, ascoltatela mentre racconta dei bambini che le chiedevano: “Portami via”, e poi ditemi se questa è giustizia. Forse il problema è che quei deputati di Fratelli d’Italia, quei sottosegretari, quei leader politici a vederli da vicino - i bambini in carcere - non ci sono mai stati. Non hanno attraversato il portone dalla vernice scrostata della casa circondariale di Rebibbia, a Roma. Consegnato la borsa con il telefonino, percorso i viali spogli, osservato il mare di cemento in mezzo al quale si trova la sezione nido. Non hanno visto i più piccoli affollarsi intorno alle assistenti per giocare con le chiavi delle porte di ferro che ogni notte li rinchiudono. Non li hanno visti piangere perché vorrebbero andare fuori, e loro fuori non possono andare. Non li hanno sentiti urlare per la paura di un lavoro di ristrutturazione, “umore, umore”, gridava un bambino che non aveva due anni e quel suono lì non lo aveva mai sentito. Non faceva parte del repertorio della sua clausura. E non era l’ora di uscire in giardino quindi no, da quel brutto rumore nessuno lo poteva allontanare. Non hanno parlato con i medici che visitano i bambini in carcere e raccontano del loro rapporto malato con lo spazio, ristretto da quando hanno memoria. Dei loro problemi di vista perché quasi sempre l’unica luce - bassa - è quella dei neon. Perché la luce del giorno la vedono troppo poco e quando la tua percezione del mondo è in costruzione, questo conta, incide, limita, ammala. Non hanno visto madri disperarsi quando in un Icam un bambino che da scuola deve tornare dentro, e dentro non può invitare nessuno, comincia a detestare la prigionia associandola alle colpe di chi gli ha dato la vita. Molti di questi rapporti - che in carcere sono simbiotici - si spezzano quando il bambino diventa ragazzo e prende coscienza. Tutte le persone che si occupano di carcere, anche chi lavora con l’infanzia nelle prigioni italiane e fa di tutto per rendere la permanenza dei bambini meno terribile, dice chiaramente: “La condizione detentiva non è compatibile con la salute dei minori”. E allora cosa si aspetta? C’è una legge del 2011 che prevede per le detenute madri che hanno con sé bambini fino a tre anni (nelle sezioni nido) o fino a 10 anni (negli Icam, istituti a custodia attenuata, comunque chiusi e spesso inseriti all’interno delle carceri) la pena possa essere scontata in case famiglia protette. Luoghi inseriti in un tessuto cittadino, ma comunque controllate. Dove si possano fare percorsi di rieducazione per le madri, ci sono anche in carcere, ma da dove i bambini possano uscire e entrare con più libertà. Ce ne sono già due, una a Milano e una a Roma, “La casa di Leda”, dal nome di Leda Colombini, partigiana che ai bambini in prigione aveva dedicato la vita. Da lì in venti anni c’è stata una sola evasione. La legge che è saltata ieri perché Fratelli d’Italia l’aveva modificata fino a stravolgerne lo spirito non faceva altro che spingere verso la costruzione di nuove case famiglia in modo che quei 26 bambini che oggi vivono in cella possano vivere in un ambiente più sano e più protetto. Sono 26 a oggi, sono stati anche 80 negli anni che hanno preceduto la pandemia. Sono tantissimi, se contiamo tutti quelli che sono passati dalle carceri in questi anni. Ma com’è possibile doverlo spiegare? Che non è civile, non è sano, non è umano, non è giusto? I soldi per la costruzione delle case famiglia che servono, un milione e mezzo di euro, sono già stati stanziati nella manovra di bilancio del 2020. Le Regioni non li hanno spesi perché aspettavano la nuova legge, era a un passo, era già stata approvata il 30 maggio scorso dalla Camera, poi il governo Draghi è caduto e serviva ricominciare daccapo. Ma nessuno si aspettava che sarebbe saltata. Perché quel 30 maggio l’allora deputato pd Paolo Siani aveva attraversato l’aula e aveva abbracciato la deputata di Fratelli d’Italia Maria Teresa Bellucci. È vero, il partito di Giorgia Meloni aveva scelto l’astensione, unico tra tutti, ma qualcuno la legge l’aveva comunque votata. Cos’è successo, da allora? Com’è possibile che Lega Forza Italia e quel pezzo di Fratelli d’Italia abbiano cambiato idea su una norma di pura civiltà? È successo che la destra che non sa dare risposte ha bisogno di propaganda e come dimostra il tweet di Salvini non c’è propaganda migliore di quella fatta grazie alla foto di borseggiatrici incinte al grido di: “Devono andare in prigione anche loro! Basta fare figli per salvarsi!”. Nessuno le ha mai salvate. Sono loro, spesso, a popolare le sezioni nido e gli Icam. Lo sono perché tornano a delinquere e nessuno fa loro sconti, per questo. Differiscono l’ingresso in carcere, a volte, ma poi scontano tutto insieme e per il cumulo delle recidive arrivano a pene che superano i 30 anni. Solo che, a dispetto della propaganda leghista, nessuno vuole far sì che tornino a delinquere. La legge saltata prevedeva che quelle donne siano detenute in case adatte alla loro condizione di madri. A volte, ma solo quando i percorsi di rieducazione funzionano, queste donne non tornano al “campo” e non tornano a rubare proprio perché la giustizia mostra loro una strada diversa. Come sempre, Salvini usa un problema enorme per aizzare i peggiori istinti contro obiettivi facili. Forse non sa, neanche lui, che a settembre del 2021 Amra ha partorito in carcere, sempre a Rebibbia, perché il giudice non aveva fatto in tempo a esaminare il suo caso. In terra, aiutata da una compagna di cella anche lei al quinto mese di gravidanza, senza un medico, senza un’ostetrica. La ministra Cartabia allora mandò gli ispettori, disse “mai più”, e invece. Forse non ricordano, Salvini o il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari o la deputata FdI Carolina Varchi, che nel 2018 a Rebibbia una donna tedesca che lì non doveva stare perché era malata di schizofrenia ha buttato i suoi due bambini dalle scale e li ha uccisi. Anche allora si disse mai più. Il cappellano del carcere richiamò la politica alle sue responsabilità. Paolo Siani, era appena arrivato in Parlamento, si mise al lavoro su quella legge. Che oggi salta perché Salvini aveva bisogno di un tweet sulle ladre incinte per saziare la sua bestia social, e Fratelli d’Italia di nuovi nemici da dare in pasto all’elettorato. Dice il ministro Carlo Nordio, interpellato dalla Stampa su questo, che il nostro giornale è “così prevenuto da non interpretare bene le norme. Peccato”. Rispondiamo al ministro Nordio, che se così fosse con noi le interpreterebbero male tutte - tutte - le associazioni che si occupano di carcere. E che quel che sta avvenendo ai danni di questi bambini non è un peccato. È un delitto. Piccoli incarcerati con le mamme: la barbarie continua, e così l’impegno di Laura Liberto* Avvenire, 24 marzo 2023 Dopo il ritiro di una proposta di legge stravolta emendamenti peggiorativi. Abbiamo dovuto assistere a un triste epilogo, almeno per il momento, per la proposta di legge sulla tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori; un epilogo che ci lascia estremamente amareggiati, perché arresta un percorso, portato avanti negli anni, di positiva collaborazione tra Parlamento e organizzazioni della società civile. La presenza, a oggi sono 24, di bambini costretti a trascorrere i primi anni di vita negli istituti penitenziari assieme alle madri detenute è una contraddizione inaccettabile del nostro sistema; un paradosso sul quale negli ultimi anni ci siamo impegnati, attraverso la campagna “L’infanzia non si incarcera” e in sinergia con altre organizzazioni, per richiamare l’attenzione pubblica e delle istituzioni e per formulare e sollecitare l’adozione di soluzioni di sistema idonee a risolverlo definitamente. Ciò nella convinzione che la tutela della salute psicofisica dei bambini debba prevalere su ogni altra ragione o interesse pubblico e debba costituire il principale, se non l’unico, criterio guida per la costruzione di misure dedicate. Su questo terreno ci siamo impegnati nel tempo nella formulazione e richiesta di soluzioni concrete e in una proficua e intensa collaborazione con Paolo Siani e gli altri deputati che, nella scorsa legislatura, hanno lavorato alla proposta di legge - della quale “Avvenire” ha dato puntualmente conto - tesa a rimuovere quegli ostacoli e quei limiti, di natura giuridica ed economica, che continuano a produrre nuovi ingressi di bambini in carcere al seguito delle madri. Tra le più apprezzabili, in particolare, le disposizioni rivolte a sostenere e promuovere il sistema delle “case famiglia” protette come modello alternativo alle soluzioni detentive di madri e bambini, comprese quelle della detenzione cosiddetta attenuata in ICAM. La proposta di legge, che nella scorsa legislatura non aveva potuto completare il suo iter in seguito alla caduta del governo Draghi, è stata ripresentata nella legislatura corrente, su iniziativa della deputata Serracchiani, e si trovava fino ad oggi all’esame della Commissione Giustizia della Camera, che avrebbe dovuto in queste ore licenziare il testo per il successivo passaggio in aula. Contrariamente alle nostre aspettative, l’esame del provvedimento ha subito una prima battuta d’arresto a causa della presentazione di alcune proposte emendative, da parte della deputata Varchi di Fdi, che stravolgevano totalmente l’impianto originario del testo, contraddicendone finalità e motivazioni. Per queste ragioni, avevamo rivolto un appello al presidente e ai componenti della Commissione, unitamente a un gruppo di 14 Associazioni e di Garanti dei diritti delle persone detenute, perché si recuperasse il provvedimento nella sua versione iniziale. Nonostante questo, quegli emendamenti sono stati riformulati in senso ulteriormente peggiorativo. Da un lato, si è proposto il ricorso in automatico, in presenza di recidiva, alla detenzione in Icam di madri e bambini, alimentando, nella direzione opposta a quella originaria, nuovi ingressi in contesto detentivo. Dall’altro, si è proposta addirittura una modifica in materia di rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena, prevedendo l’ingresso in carcere anche per le donne in stato di gravidanza e le madri di bambini con meno di un anno di età. Un peggioramento gravissimo, quindi, della normativa già vigente. Iniziativa, quest’ultima, presentata come misura “contro le donne borseggiatrici”, che strumentalizzerebbero le gravidanze per evitare il carcere. Iniziativa, pertanto, che lascia sconcertati per il substrato di pregiudizio e propaganda che sottende e che meriterebbe una levata di scudi unanime, anzitutto da parte di tutte le donne parlamentari. Le forze politiche cha hanno determinato l’affossamento, in seguito al ritiro a questo punto inevitabile, dell’intera proposta di legge, si sono assunte la responsabilità di aver arrestato un percorso di civiltà, che mirava unicamente a superare il problema dell’incarcerazione dell’infanzia. Come CittadinanzAttiva continueremo il nostro impegno per tenere viva l’attenzione sul problema dei piccoli detenuti e perché si recuperi il lavoro finora fatto. *Coordinatrice nazionale Giustizia per i diritti - CittadinanzAttiva Mauro Palma: “Attaccare le donne rom è soltanto populismo” di Flavia Amabile La Stampa, 24 marzo 2023 “Un errore attaccare le donne rom in quanto categoria”, secondo Mauro Palma, presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Ed è soltanto populismo proporre che debbano rimanere in carcere anche durante la gravidanza o con figli piccoli. Secondo Matteo Salvini il Pd vuole mettere in libertà “le borseggiatrici rom che usano bimbi e gravidanza per evitare il carcere”… “In generale non commento le dichiarazioni dei ministri però questa mi sembra una dichiarazione di stampo politico non relativa all’attività del dicastero quindi sento di poter mi pronunciare”. E che cosa ne pensa? “Trovo che indicare una categoria rispetto a un reato sia un arretramento culturale grave. Non è mai una minoranza o un gruppo sociale in quanto tale a commettere un reato. È un errore linguistico che evoca un errore concettuale i reati sono sempre individuali”. Una forma di razzismo? “Preferisco non usare questo termine. Mi sembra più corretto sottolineare che legare i reati a delle categorie di appartenenza sociale come se ne fossero la ragione è un errore. Il diritto penale si fonda sulla responsabilità individuale”. Non solo Salvini, anche altri parlamentari della Lega insistono: le donne rom approfittano della gravidanza per evitare il carcere… “Casi singoli possono essercene. Capita sempre che qualcuno approfitti degli interstizi di una norma. Sono situazioni raccontate anche nella letteratura e nel cinema ma non può essere questo a farci andare sotto il livello di civiltà che le nostre norme devono esprimere altrimenti è la vittoria di chi vuole fregare la norma. Invece chi si approfitta deve essere uno stimolo ad agire su altri piani, nella costruzione di una società più civile”. Nel frattempo il provvedimento del Pd non esiste più e la Lega ha presentato una nuova proposta che impedisce alle donne incinta di avere il differimento della pena. Che ne pensa? “Dobbiamo tenere presente qual è il cardine del nostro ordinamento e delle norme internazionali: il benessere del bambino deve essere prevalente rispetto ad altre considerazioni che pure possono essere rilevanti. Detto questo, le politiche territoriali sono ancora molto arretrate. Ci sono case famiglia solo a Roma e Milano, invece avrebbe dovuto esserci un investimento in questo senso perché serve alla collettività. La casa famiglia può rappresentare un momento educativo molto importante per chi ha tendenza a ripetere i reati. In ogni caso stiamo parlando di 22 madri con 24 bambini in tutta Italia. Sono pochi, si può trovare una soluzione”. Ora dove sono? “In Campania, Lombardia, Piemonte e Veneto sono negli Icam, gli istituti a custodia attenuata dove è vero che ci sono ambienti più accoglienti ma si tratta comunque di situazioni detentive. In Puglia, Lazio e Umbria non ci sono Icam quindi le madri con i figli si trovano in sezioni che non sono una soluzione adeguata perché anche se ci sono culle e pareti colorate si è comunque in detenzione”. Ventiquattro madri sono davvero poche… “Esatto e io chiedo alla politica nazionale come sia possibile che un Paese di 60 milioni di abitanti non riesca ad avere delle strutture di accoglienza e sicurezza per questi pochi casi”. Che intende per strutture di accoglienza e sicurezza? “Gli Icam sono comunque reparti penitenziari anche se gli agenti non sono in divisa e le porte non hanno sbarre. Sono strutture a cui ricorrere solo in casi estremi. La priorità invece va data alle case famiglia protette. Purtroppo, quando è il momento di decidere l’assegnazione, i magistrati ci dicono che non ce ne sono e hanno ragione quindi invece di fare proposte di legge da populismo penale preferirei che la politica si assumesse l’impegno di creare delle case famiglia in modo che sul territorio ci siano luoghi accoglienti e sicuri in grado di rispondere al benessere del minore, alla tutela della relazione genitoriale e all’esigenza di giustizia. E l’ordine con cui ho elencato queste esigenze non è casuale”. “Il vero problema è la mancanza di integrazione. La recidiva non si combatte con il pugno duro dello Stato” di Pasquale Quaranta La Stampa, 24 marzo 2023 Susanna Marietti, coordinatrice dell’associazione Antigone: “È una questione lunga e annosa, quella della maternità e dei bambini in carcere. Ma la questione è mal posta” spiega Susanna Marietti di Antigone. Per la coordinatrice dell’associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, il problema è a monte, e consiste nella “incapacità del governo e dello Stato di tutelare le persone più povere e vulnerabili”. Per capirlo, bisogna tornare al 2001. “La prima legge a tutela delle madri e dei figli minori fu votata nel 2001. Entrò simbolicamente in vigore l’8 marzo, tutti la conoscono come legge Finocchiaro, perché fu voluta proprio dalla senatrice dem. Già allora si stabilì che le donne incinte o madri di bambini piccolissimi non dovessero portare con sé i piccoli in carcere, qualora responsabili di reato che prevedesse una pena detentiva”. Cosa prevedeva in concreto quella legge? “La legge offriva al magistrato di sorveglianza e al magistrato di merito degli strumenti diversi rispetto alle misure alternative al carcere per far sì che una donna con un figlio piccolo potesse continuare a tenere un rapporto con il nascituro. Se il piccolo aveva meno di tre anni, ad esempio, la madre non lo portava con sé in carcere, ma poteva stare fuori con lui”. Stiamo parlando sempre di donne non socialmente pericolose? “Sì, nei casi di persone non socialmente pericolose, nei casi in cui non ci fosse allarme sociale, il magistrato poteva disporre gli arresti domiciliari e il differimento della pena, a seconda dell’età del bambino. Una misura rilevante che introduceva la legge Finocchiaro era la detenzione domiciliare speciale, speciale perché valeva solo per le madri detenute”. Cosa prevedeva la detenzione domiciliare speciale? “Consentiva alla donna con figli al di sotto dei 10 anni di età di scontare la pena a casa per stargli vicino. Il magistrato poteva disporre questa misura nel caso in cui ritenesse ragionevole che la donna non tornasse a delinquere e potesse dimostrare di ripristinare la convivenza con i figli”. Perché la detenzione speciale non ha funzionato? “Perché questi due paletti - la recidiva e il ripristino della convivenza con i figli - hanno spaventato i magistrati. Chi avrebbe mai potuto essere certo che una donna in difficoltà non avrebbe più commesso reati in futuro? Anche i campi rom, dove alcune di queste donne vivevano, non erano considerati domicili adeguati dai magistrati”. Quali soluzioni si sono trovate dopo? “Dieci anni dopo, c’è stata la legge Buemi, che prende il nome dal primo firmatario Enrico Buemi. Questa legge predisponeva delle strutture in cui le donne potevano andare nel caso in cui non avessero un domicilio adeguato. Sono sono le cosiddette “case famiglia protette”, strutture dedicate esclusivamente a donne con figli fino a 6 anni, e fino a 10 se la pena è definitiva”. Perché anche le case famiglia protette hanno fallito? “La legge di 11 anni fa non aveva previsto alcun onere per lo Stato e quindi non copriva economicamente la spesa. Diceva, in buona sostanza, che avrebbero dovuto pensarci gli enti locali, che com’è noto hanno poche risorse. Dal 2011 a oggi di queste case famiglia ne esistono due, una a Milano e una Roma, per un totale di una quindicina di posti per i bambini, 30 se consideriamo le madri. Sono numeri molto bassi”. Cosa è successo concretamente oggi? “La legge che doveva passare oggi proviene dalla scorsa legislatura. Era una legge voluta da Paolo Siani del Pd (approvata dalla Camera nel maggio 2022 e poi rimasta bloccata al Senato, ndr), che intendeva mettere una copertura di bilancio alle cosiddette case famiglia per fare in modo che lo Stato le costruisse. Quella normativa prevedeva la possibilità per la mamma condannata, con figli di età fino a 10 anni, di scontare la pena a domicilio”. Una proposta di legge portata oggi avanti da Debora Serracchiani, che però è stata ritirata. “Il testo è stato bloccato l’8 marzo da una serie di emendamenti avanzati da Fratelli d’Italia, e oggi è stato ritirato da Serracchiani. Non si è trovato un accordo perché il pensiero della maggioranza è che le donne recidive non debbano avere diritto al beneficio di scontare la propria pena in detenzione domiciliare nelle strutture gestite da enti del terzo settore, pagate dallo Stato”. Insomma, la donna recidiva - secondo questo governo - non se lo merita… “Il problema è che se uno conosce veramente la composizione socio-giuridica delle nostre carceri sa bene cos’è la recidiva. Non è una cosa che grava sui delitti più efferati ma è una caratteristica tipica della piccola e piccolissima criminalità, di piccoli reati da strada legati alla povertà, alla tossicodipendenza. Se per loro la recidiva è un paletto, allora non hanno capito la situazione. Queste donne hanno bisogno di essere prese in carico dai servizi sociali, non hanno bisogno del pugno di ferro, hanno bisogno di un altro tipo trattamento”. Per Salvini il ritiro della legge del Pd “ferma il vergognoso sfruttamento della gravidanza da parte di borseggiatrici e delinquenti”… “Questa affermazione è umiliante per una donna. Vogliamo lasciare intendere che una donna si fa mettere incinta per non continuare a rubare in strada? Donne che delinquono continueranno ad esserci, anche se sono madri. E continueranno ad esistere figli che soffriranno per il comportamento delle madri. Queste persone delinquono perché non hanno alcuna struttura di welfare su cui contare. La recidiva è un segno quasi sempre di marginalità e non si combatte con uno Stato dal pugno duro. Se cominciassimo a ragionare su una seria politica della casa, del lavoro, di politiche sanitarie adeguate, di integrazione della popolazione rom, invece che a pensare di risolvere tutto il carcere, sono certa che ci saranno sempre meno donne incinte che delinquono”. Riguardo alla proposta di legge sulle detenute madri di Giovanna Longo* Ristretti Orizzonti, 24 marzo 2023 “A Roma Insieme-Leda Colombini” e “Cittadinanzattiva” si sono battute insieme a numerose istituzioni ed associazioni in queste settimane per sostenere presso la camera dei Deputati (Commissione Giustizia) la proposta di legge, qui in discussione, sulle madri detenute con i figli minori al seguito. L’obiettivo era e resta quello di una conquista di civiltà, riassumibile nel fine, in piena coerenza con il diritto penale ed il diritto processuale penale, che nessun bambino varchi la soglia del carcere. Prendiamo atto in questo momento che detta proposta di legge, a seguito di emendamenti approvati e compromettenti le finalità originarie della proposta stessa, è stata ritirata. Emerge così il dato grave di una resistenza ottusa al processo faticoso di avanzamento di leggi più umane e più giuste. Tutto ciò è tanto più grave se si pensa che si sta parlando dell’interesse e del diritto di bambini e bambine ad una crescita sana e senza traumi. Non importa che il fenomeno delle donne madri ristrette con i propri bambini al seguito riguardi oggi in Italia poche decine di persone. “A Roma Insieme Leda Colombini” e “Cittadinanzattiva” prendono atto di tutto ciò. Non intendono abbassare minimamenrte la guardia. La battaglia deve ora proseguire individuando le resistenze nel Parlamento e nelle istituzioni che oggi permangono forti. L’iniziativa ed il dialogo debbono estendersi alle cittadine ed ai cittadini, ai giovani, usando innanzitutto il linguaggio della verità. Sfidiamo chiunque a dimostrare che nell’Italia del 2023 sia possibile e giusto far vivere un bambino o una bambina i primi anni della propria vita dietro le sbarre del carcere. *Presidente di A Roma Insieme Leda Colombini La Sorveglianza decide sui domiciliari a Cospito. L’udienza sarà in carcere di Giulia Merlo Il Domani, 24 marzo 2023 Il detenuto ha chiesto il differimento della pena per ragioni di salute. I giudici valuteranno la compatibilità del carcere con il suo stato. Ci saranno due udienze fotocopia, a Milano e a Sassari. In caso di decisioni discordanti, prevarrà quella più favorevole al detenuto. Attualmente Cospito pesa meno di 70 chili, ha avuto un episodio cardiaco il 21 marzo che ha fatto temere per la sua vita e secondo il medico è “alto il rischio che si ripeta”. La vicenda giudiziaria dell’anarchico Alfredo Cospito aggiunge un nuovo passaggio: oggi ben due tribunali di sorveglianza - quello di Milano e quello di Sassari - si esprimeranno contemporaneamente sulla richiesta del detenuto di domiciliari per motivi di salute. Due udienze “fotocopia”: Cospito a Milano è detenuto; a Sassari ha scontato la prima parte della reclusione, prima del trasferimento per motivi di salute e la procura generale di Torino ha continuato a fare riferimento a questo ufficio. In quello che ormai è diventato un caso giuridico a sé stante, c’è il rischio che i due tribunali si esprimano in modo diverso. Se così fosse, prevarrà l’ordinanza che ha deciso in modo più favorevole al detenuto. Cospito, in sciopero della fame da più di 150 giorni contro il regime di carcere duro, ha chiesto di partecipare all’udienza di Milano e per questo non si celebrerà in tribunale, ma nel reparto penitenziario dell’ospedale San Paolo di Milano. Essendo detenuto al 41 bis, l’anarchico avrebbe potuto partecipare solo attraverso videocollegamento dal carcere. Tuttavia, i medici non hanno dato il nulla osta sanitario per il suo trasferimento a Milano Opera, a causa del suo precario stato di salute. Di conseguenza saranno la presidente del tribunale di Sorveglianza, Giovanna Di Rosa, e la giudice Ornella Anedda con i due esperti che completano il collegio giudicante ad andare da lui, così da rendergli possibile la partecipazione all’udienza. La valutazione del tribunale - I tribunali di sorveglianza dovranno decidere se accordare o meno a Cospito i domiciliari in casa di una delle sue sorelle. La loro valutazione non toccherà in nessun modo il regime di 41 bis, ma sarà limitata alla valutazione se le sue condizioni di salute attuali siano o meno compatibili con la detenzione, tenendo in considerazione anche le cure che possono essergli praticate in regime di detenzione. Un altro elemento che verrà valutato è anche il fatto che la sua condizione di salute è stata autoindotta, visto che è causata dallo sciopero della fame. Questo potrebbe giocare a sfavore della concessione dei domiciliari: la giurisprudenza, infatti, è orientata a considerare l’autoinduzione di danni fisici in contrasto con il principio del differimento della pena. La scelta di chiedere quello che tecnicamente è un rinvio nell’esecuzione della pena è stata un cambio rispetto alla linea che l’anarchico aveva tenuto fino a questo momento. Il differimento, infatti, non modifica il regime di 41 bis ma prevede solo che il detenuto in precarie condizioni di salute venga temporaneamente riportato a casa. 41 bis: restrizioni e finalità vanno ridiscusse di Gianmarco Bondi agenda17.it, 24 marzo 2023 Dalla strage di Capaci al caso Cospito è cambiato. Lotta alla criminalità organizzata attraverso la “tortura democratica”? L’art. 41 bis comma 2 previsto dalla legge sull’ordinamento penitenziario contempla un regime detentivo speciale di cui, in corrispondenza con l’arresto di Matteo Messina Denaro e la vicenda di Alfredo Cospito (sulla quale, peraltro, si è recentemente pronunciato l’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, chiedendo di assicurare il rispetto della dignità e dell’umanità del detenuto), si è tornati a discutere, pur esso rimanendo un tabù e o un totem. Pare dunque utile inquadrare i casi di cui si parla in questi giorni, accennando a due aspetti centrali di tale disposizione normativa, nell’ottica di una sua profonda riforma: i contenuti e gli scopi. I contenuti del 41 bis - L’art. 41 bis comma 2 dell’ordinamento penitenziario afferma che, quando ricorrono gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica, il Ministro della Giustizia ha la facoltà di sospendere in tutto o in parte le normali regole di trattamento e gli istituti penitenziari che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza, nei confronti dei detenuti per i reati elencati al relativo art. 4 bis (tra gli altri, in materia di mafia, terrorismo ed eversione), in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con l’associazione delittuosa di provenienza. La disciplina del regime detentivo speciale non prevede un termine massimo di durata. La prima applicazione ha un limite di quattro anni, cui eventualmente seguono proroghe di due anni ciascuna, in corrispondenza delle quali deve essere rinnovato il giudizio sulla pericolosità del destinatario. Ciò significa che si può trascorrere (e ciò non è infrequente) l’intero periodo di restrizione carceraria, se non il resto della vita qualora si sia un ergastolano,al 41 bis. Agli antipodi del dettato costituzionale sull’umanità e rieducazione della pena - La legge e le circolari ministeriali disegnano un regime detentivo speciale notevolmente riduttivo dei diritti del detenuto, tanto da costituire una tipologia di isolamento, quantomeno relativo, foriero di gravi ripercussioni sulla vita e la salute personale e familiare e agli antipodi rispetto al dettato dell’art. 27 comma 3 della Costituzione sulla umanità e la funzione rieducativa delle pene. Tra le altre limitazioni, si evidenziano quelle che seguono. Innanzitutto, i colloqui con i familiari stretti possono tenersi solamente per non più di un’ora una volta al mese, dietro un vetro a tutta altezza e attraverso un interfono, e sono suscettibili di registrazione (quelli telefonici sono ammessi dopo sei mesi e sottostanno alle medesime condizioni). Inoltre, per quanto concerne i rapporti di socialità dentro al carcere, si possono trascorrere due ore d’aria una volta al giorno in gruppi composti da quattro persone selezionate all’Amministrazione penitenziaria secondo criteri stringenti (nelle cosiddette “aree riservate” del 41 bis, destinate alle figure apicali, da due). Oltre a tali previsioni, se ne aggiungono molteplici. Ad esempio, si può appendere solo una fotografia nella propria cella e avere in lettura massimo quattro libri contemporaneamente. Imposizioni incoerenti. Alcune ingiustificate e solamente afflittive - Ciò rappresenta icasticamente come vi sia una notevolissima differenza intercorrente tra i detenuti al 41 bis e quelli in regimi detentivi ordinari (sul tema delle condizioni di vita negli istituti di pena Agenda 17 ha pubblicato l’intervista alla prof.ssa Carnevale). Soprattutto, l’insieme di tali imposizioni appare incoerente. Mentre alcune si comprendono, benché esasperate, come precipuamente protese a recidere i legami con l’organizzazione criminale di appartenenza (quali le limitazioni ai colloqui e ai rapporti di socialità), altre sembrano avere connotati squisitamente afflittivi (come le previsioni sulle fotografie e sui libri), risultando del tutto ingiustificate. Per quanto riguarda i contenuti del 41 bis, sarebbe pertanto auspicabile ampliare il numero e facilitare i presupposti degli incontri con i familiari e dei rapporti coni detenuti, così da alleviare la situazione di isolamento. Inoltre, è necessario almeno eliminare quei tratti del regime detentivo speciale che non hanno alcun nesso finalistico con la prevenzione delle relazioni extra- e intra- carcerarie. Gli scopi del 41 bis - Per capire gli scopi, espliciti e non, del 41 bis è significativo riepilogarne la storia, soffermandosi in specie nella sua introduzione e sulla riforma del 2002. Il decreto legge che ha inserito il regime detentivo speciale è stato adottato in seguito alla strage di Capaci e i primi decreti 41 bis sono stati emessi la notte stessa di quella di via d’Amelio. Nei mesi successivi, numerosi detenuti (a centinaia) sono stati trasferiti presso le carceri sulle isole di Pianosa e dell’Asinara, che sono state teatro, secondo alcune ricostruzioni, di violenze e maltrattamenti nei loro confronti. Si noti come per non aver adeguatamente indagato in proposito l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (v. Cedu, Grande Camera, sent. 6 aprile 2000, Labita c. Italia e Cedu, sez. II, sent. 18 ottobre 2001, Indelicato c. Italia). Pertanto, in questa prima fase di applicazione, può dirsi che il regime detentivo speciale abbia svolto una funzione meramente repressiva e retributiva, simboleggiando la risposta dello Stato all’aggressione subita a mezzo delle due stragi. Da risposta dello Stato alla mafia alla spinta alla collaborazione - Solamente con la riforma attuata nel 2002 il 41 bis ha cessato di avere natura temporanea ed è stato stabilmente inserito nella legge sull’ordinamento penitenziario. A dieci anni dalla sua entrata in vigore, il regime detentivo speciale si è visto finalmente attribuito uno scopo “ufficiale”, quello di prevenire contatti pericolosi interni ed esterni al carcere da parte di soggetti indagati o condannati per reati afferenti alla sfera della criminalità organizzata. L’evidenza empirica tratta dalle risultanze di più processi, infatti, lasciava intendere che specialmente personaggi di spicco di associazioni di stampo mafioso esercitassero il loro ruolo gerarchico anche se privati della libertà, utilizzando gli spazi di interazione concessi normalmente ai detenuti, e svuotando, così, la misura cautelare e la pena della capacità di prevenire la commissione di reati. Assieme a questa funzione, però, ve ne sono di ulteriori, certamente molto meno lodevoli. Una prima è quella secondo la quale il 41 bis ha lo scopo di forzare chi vi è sottoposto, pur di vedere cessare lo stillicidio di divieti, a collaborare con la giustizia. A sostegno di questa interpretazione, si porta che il regime detentivo speciale viene revocato nei confronti di coloro i quali scelgano di divenire cosiddetti “pentiti”, altrimenti non avendo accesso a determinati benefici penitenziari. Il secondo consiste nel terrorizzare gli associati rimasti in libertà, i quali, per paura di finirvi sottoposti, vengano spronati a orientarsi nel senso del rispetto della legge. La logica sottesa è quella del cosiddetto “diritto penale del nemico”, dove si mira a neutralizzare il destinatario della sanzione penale, trattandolo alla stregua di una non-persona. Una “tortura democratica”? Nello specifico, vi è chi, con riferimento alla prima delle due funzioni “nascoste” appena richiamate, ha colto nell’attuale formulazione del 41 bis addirittura una forma di “tortura democratica” o “di stato”. Ciò sarebbe ravvisabile proprio nella dicotomia “carcere duro”/collaborazione sopra riportata. In proposito, è significativo illustrare il caso della richiesta di estradizione di Rosario Gambino dagli Stati Uniti verso l’Italia del 2007. In questo procedimento, il giudice californiano Sitgraves ha respinto siffatta domanda (poi accolta in sede di impugnazione) sostenendo che il regime detentivo speciale servisse a costringere fisicamente e psicologicamente i criminali a rivelare informazioni sulla mafia siciliana e che tale strumento di coercizione non fosse legato ad alcuna sanzione o punizione legalmente imposta e perciò costituisse tortura. In relazione agli scopi del 41 bis, occorre dunque intervenire sui canoni per la valutazione della pericolosità del destinatario del regime detentivo speciale (atteso che essa ne costituisce oggi la ratio formale), ad esempio conferendo maggior rilievo al dato del passaggio del tempo. Inoltre, il 41 bis deve perdere la veste di mezzo di indagine inquisitorio, attraverso l’offerta di una reale alternativa al “pentimento” quale condizione utile per la cessazione della sua applicazione. Tutto esaurito al 41 bis e i boss in lista d’attesa evitano il carcere duro di Lirio Abbate e Giuliano Foschini La Repubblica, 24 marzo 2023 Dell’evasione del boss Marco Raduano, detto Pallone, avvenuta ormai un mese fa dal carcere di massima sicurezza di Nuoro, è trascorso un mese ed è rimasto poco più di quelle immagini che hanno fatto il giro del mondo: il capomafia foggiano attaccato a un lenzuolo che si calava dal muro di cinta per poi fuggire. Si disse: lo prenderanno subito. Ma di Raduano non c’è traccia. C’è chi dice sia in Germania, chi invece sia tornato nella sua Vieste, ma in verità si procede per ipotesi, gli indizi sono pochissimi. La penitenziaria in sottorganico - La sua evasione porta ad elencare una serie di errori e omissioni che mettono in risalto la grave carenza di organico di agenti penitenziari nella struttura carceraria sarda, (il Dap ha sostituito il comandante degli agenti e attraverso la direzione generale detenuti e trattamento ha dato mandato al Provveditore regionale della Sardegna di svolgere accertamenti e verifiche per verificare le responsabilità) e fa emergere la disattenzione degli ultimi due ministri della Giustizia, Marta Cartabia e Carlo Nordio. Entrambi impegnati a sistemare l’anarchico Alfredo Cospito al regime carcerario “più gravoso”, non hanno mai risposto alla proposta dei magistrati che hanno fatto arrivare sul loro tavolo la richiesta di applicare il 41 bis al boss foggiano, considerato pericolosissimo. In questo modo Raduano è stato lasciato libero di circolare nella sezione di alta sicurezza, senza alcun vincolo di rapporti con altri detenuti e nelle condizioni di progettare l’evasione. La risposta mai arrivata - Come Repubblica aveva già raccontato, la procura di Bari aveva chiesto al ministro della Giustizia di applicare il 41 bis a Raduano. Lo aveva fatto con una lunga memoria depositata il 28 giugno del 2022 con la quale i pm spiegavano i motivi per cui, “nonostante l’attuale stato di detenzione”, fosse una “persona di estrema pericolosità” in grado da un lato, di controllare il clan, dall’altro di “intrecciare nuovi e vecchi rapporti delinquenziali”. Ed è proprio quello che, stando alle prime indagini sulla sua evasione, è accaduto. Raduano per fuggire ha avuto il sostegno logistico di alcuni criminali sardi, conosciuti all’interno del carcere, proprio quello che i pm dell’antimafia volevano evitare. E che il ministero della Giustizia ha invece ignorato. Nonostante nella lunga richiesta fosse elencato il curriculum malavitoso di Raduano. “È lui che comanda” - “È lui che comanda” ha messo a verbale uno dei pochi pentiti foggiani, Danilo Della Malva, spiegando tra le altre cose come fosse mantenuto in carcere, in Sardegna, dal clan che lo riconosceva come capo anche durante la detenzione. “Il prestigio criminale di cui gode, rappresentando l’associazione mafiosa, gli ha consentito di divenire un vero e proprio punto di riferimento”, scrivono i pm. Altri due collaboratori hanno confermato che Raduano dal carcere, attraverso la sua “batteria”, mandava continue indicazioni al territorio, anche grazie ai telefonini che riusciva ad avere in cella. E ancora: “Nonostante le rassicurazioni contrarie della casa circondariale”, i boss foggiani reclusi a Nuoro, che non dovevano parlarsi tra loro, secondo quanto ricostruito riuscivano a vedersi “nel campo di calcetto”. Ma c’è di più. I due evasi - Tra le informazioni che l’Antimafia comunica al ministero ce n’è una specifica, inquietante: segnalano come sia necessario tenerlo al 41 bis perché due dei principali esponenti della sua batteria sono evasi. Si tratta di Gianluigi Troiano, detto “il nano”, fuggito a dicembre del 2021 e da allora sparito nel nulla, mentre era ai domiciliari. E Giovanni Cristalli, irreperibile dal gennaio del 2022 mentre era con il braccialetto elettronico a Vieste. Queste lunghe latitanze documentano come il clan sia in grado di gestirle. E, soprattutto, metteva già in guardia sulla possibilità e capacità di organizzarle. La lista d’attesa del 41 bis - Ma perché allora Raduano non è finito sotto il duro regime carcerario? Evidentemente il ministro Nordio ha ritenuto che il capomafia foggiano non fosse più pericoloso di Cospito: mentre non rispondeva alle richieste dei magistrati sul boss, confermava il 41 bis all’anarchico. E questo non è un caso isolato. Secondo quanto risulta a Repubblica sono almeno una dozzina i boss detenuti “in lista di attesa” per il 41 bis. Sono mafiosi per cui diverse procure hanno proposto di applicare “il regime detentivo più gravoso”, per limitare i contatti con l’esterno. Ma non ci sono posti in carcere, perché gli attuali 750 li occupano tutti. Il carcere duro a tutela della collettività - Il 41 bis è uno strumento delicato: ideato e attuato per impermeabilizzare i capi della mafia in carcere e rendere impossibile le loro comunicazioni con l’organizzazione, deve essere applicato in maniera umana ma efficace, perché non è una pena supplettiva. Per farlo servono uomini e spazi. “I detenuti che devono stare sotto questo regime non sono i killer feroci ma sono i capi delle organizzazioni, solo che più va avanti l’azione repressiva dello stato più si catturano i capi, maggiore è l’esigenza di creare posti in cui questi possono stare detenuti senza continuare a comandare”, spiega un magistrato antimafia. Questo che significa? “Che forse è arrivato il momento di fare una ricognizione generale per valutare davvero a chi serve e a chi no”, aggiunge una fonte del Dipartimento penitenziario. “Il 41 bis non è una pena afflittiva in più ma è uno strumento di tutela della collettività che evita che si continuano a comandare omicidi dal carcere”. E le carceri, insegna la storia, sono sempre stati i luoghi privilegiati dalla criminalità organizzata per continuare a comandare. Carceri italiane violente e sovraffollate: la denuncia di Strasburgo La Repubblica, 24 marzo 2023 Pubblicato il rapporto dell’organo anti-tortura del Consiglio europeo. La visita nei penitenziari della penisola un anno fa. Le situazioni peggiori a Torino e al Regina Coeli di Roma. Violente e sovraffollate. Così gli ispettori del Cpt, l’organo anti-tortura del Consiglio d’Europa, hanno descritto le carceri italiane dopo la visita condotta un anno fa. Le situazioni peggiori nelle prigioni di Lorusso e Cutugno a Torino e di Regina Coeli a Roma per le intimidazioni e le aggressioni tra detenuti, e nel carcere di Monza per quanto riguarda il sovraffollamento che arriva al 152%. Nella relazione Strasburgo torna a domandare l’abolizione dell’isolamento diurno e il riesame della gestione dei detenuti sottoposti al regime di 41 bis, oltre al miglioramento delle condizioni generali di vita dei detenuti con misure specifiche per le donne e le persone transessuali recluse. Il sovraffollamento medio salito al 114% - Nel dettaglio, il Cpt (Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti) ha riscontrato un sovraffollamento medio del 114% rispetto alla capacità ufficiale delle carceri italiane di 50.863 posti (al momento della visita). La delegazione ha ricevuto molti resoconti di violenze e intimidazioni tra detenuti nelle carceri visitate e anche alcune denunce di maltrattamento da parte del personale. I servizi sanitari sono stati giudicati generalmente buoni mentre il Cpt ha sottolineato che le carceri non offrono un ambiente terapeutico. Ma anche che è inopportuno che le persone bisognose di cure psichiatriche specializzate siano dietro le sbarre. Inoltre, i detenuti valutati ad alto rischio di autolesionismo o suicidio dovrebbero essere sistemati in celle più sicure. Lo scorso anno le prigioni italiane si sono macchiate del drammatico record dei suicidi: 84 casi nei 12 mesi del 2022. Alle autorità italiane, che hanno poi risposto a Strasburgo, è stato suggerito di adottare misure attive per sviluppare un approccio specifico di genere per le donne in carcere. Ed è stata evidenziata la necessità di sviluppare una politica chiara per la gestione delle persone transgender, spesso genericamente sistemate in sezioni maschili dove i loro bisogni specifici non venivano soddisfatti. Il nodo dei Servizi psichiatrici - Critiche ai Servizi psichiatrici di diagnosi e cura: se è vero che “il personale di salute mentale ha mostrato un approccio positivo e premuroso”, sono stati anche segnalati “alcuni episodi sporadici di abusi verbali e commenti dispregiativi”. Ma ciò che più ha fatto storcere il naso agli ispettori è stato il quadro giuridico poco chiaro che disciplina l’applicazione della contenzione meccanica a pazienti psichiatrici in stato di grave agitazione, che ha permesso ai pazienti di essere trattenuti fino a nove giorni e di applicare ripetutamente tale misura. Il rapporto rileva inoltre con preoccupazione “che la procedura per l’imposizione di un Tso (Trattamento sanitario obbligatorio) continua a seguire un formato standardizzato e ripetitivo, che il giudice tutelare non incontra mai i pazienti di persona e che i pazienti non sono ancora informati del loro stato giuridico”. La visita in due Rsa di Milano - Infine, il Cpt si è recato per la prima volta anche in due Rsa, il Pio Albergo Trivulzio e Palazzolo, entrambe a Milano. Sostenendo che gli effetti della segregazione prolungata e a tempo indeterminato degli anziani per le persistenti misure di restrizione imposte per il Covid 19, non dovrebbero essere sottovalutati e potrebbero essere considerate un trattamento disumano o degradante. Il CPT sottolinea cose che ribadiamo da tempo. Il governo metta il carcere tra le priorità di Andrea Oleandri* antigone.it, 24 marzo 2023 Tra la fine di marzo e i primi giorni di aprile del 2022 il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (CPT) del Consiglio d’Europa ha svolto una visita in Italia dove, tra le altre strutture, ha visitato anche quattro carceri: San Vittore a Milano, l’istituto di Monza, il Lorusso e Cutugno a Torino e Regina Coeli a Roma. “Quello che emerge nel rapporto pubblicato questa mattina - sottolinea Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - è in larga parte coerente con la situazione che Antigone denuncia da tempo e che avevamo avuto modo di manifestare durante la consultazione che avemmo con la delegazione, nonché con le proposte che da noi arrivano per una riforma del sistema penitenziario che guardi alla pena come elemento di risocializzazione della persona”. Innanzitutto, quello che emerge dal report, è la situazione di sovraffollamento strutturale del sistema penitenziario italiano che, al momento della visita degli esperti del CPT, ammontava al 114%. Una situazione per cui il CPT ha ribadito la necessità di adottare una strategia coerente che possa assicurare che la detenzione sia veramente la misura di ultima istanza. “Da tempo Antigone chiede un incremento delle misure alternative, sottolineando come ci siano migliaia di detenuti con pene brevi, che ben potrebbero accedere a percorsi diversi dalla detenzione in carcere. Inoltre, da tempo, chiediamo che su alcuni temi, ad esempio quelli legati alle politiche sulle droghe, si proceda a una serie di depenalizzazioni così da affidare le persone con dipendenze a un percorso di cura e non a un percorso penale e detentivo” dichiara Gonnella. Altro tema emerso dalla visita, pur constatando il CPT come la vasta maggioranza delle persone incontrate nelle carceri visitate abbia affermato che il personale di sorveglianza ha tenuto un comportamento corretto nei loro confronti, in tutti gli istituti la delegazione ha ricevuto dai detenuti denunce di maltrattamento, violenza e intimidazioni da parte del personale di Polizia penitenziaria. “Attualmente in Italia ci sono oltre 200 persone tra agenti, operatori e funzionari indagati, imputati o condannati per violenze e torture. Questo - specifica il presidente di Antigone - è quindi un tema che va affrontato con priorità, senza cercare scorciatoie. Nel proprio report il CPT sottolinea infatti come vada ancor più promosso un sistema di sorveglianza dinamica che interagisca con il sistema delle celle aperte che, forze politiche e sindacali, più volte hanno chiesto e proposto venisse eliminato, tornando di fatto ad un regime in cui il detenuto passa 20 ore su 24 chiuso nella propria cella. Un regime, quello a celle aperte, che va dunque riempito di attività e non si trasformi in ciò che troppo spesso è, ovvero un regime dove i detenuti possono passeggiare per le sezioni ma senza poter far altro. Sul tema delle violenze il CPT ha anche redatto una specifica raccomandazione al personale medico per la corretta refertazione delle lesioni. Troppo spesso - sottolinea ancora Patrizio Gonnella - si è assistito a indagini e processi nei quali i medici erano chiamati a rispondere di omissioni nei referti a seguito di presunti o comprovati casi di violenze”. Ancora la delegazione del CPT ha richiesto che il regime dell’isolamento diurno venga abolito. “Si tratta di una pena aggiuntiva che rappresenta di fatto un’aggravante per la quale, già in passato, abbiamo chiesto interventi radicali di riforma”. Infine, ulteriore tema che emerge dalla relazione del Comitato per la Prevenzione della Tortura, riguarda la promozione di misure concrete per sviluppare un approccio specifico di genere nei confronti delle donne detenute. “Proprio sui bisogni delle donne recluse, non tenuti in giusta considerazione, si è concentrato il rapporto che Antigone ha recentemente presentato in cui, attraverso 10 raccomandazioni, si sono indicati altrettanti interventi urgenti affinché la specificità delle donne sia riconosciuta e si sviluppi per loro un modello detentivo che tenga conto dei loro bisogni, necessità e peculiarità” conclude il presidente di Antigone. Il report completo del CPT è consultabile a questo link: https://www.coe.int/it/web/cpt/italy *Ufficio Stampa Associazione Antigone L’analfabetismo dei diritti di Carlo Bonini La Repubblica, 24 marzo 2023 Dai bambini delle coppie omosessuali ai figli delle detenute, la destra dimostra di essere oscurantista e molto indietro rispetto al Paese. In una coazione a ripetere intollerabile per la rozzezza delle argomentazioni, la ferocia e la disumanità degli obiettivi, l’oscurantismo ideologico delle premesse, la destra al governo - o almeno due dei suoi pilastri, FdI e Lega - annichilisce il disegno di legge di iniziativa del Pd immaginato per cancellare la vergogna dei bambini costretti a nascere e trascorrere la loro prima infanzia in carcere o in strutture para-carcerarie per la sola colpa di essere stati generati da madri condannate a pene detentive. E lo fa riproponendo lo stucchevole canovaccio agitato ogni qual volta, in questi mesi, la discussione parlamentare ha incrociato il tema dei diritti della persona. Che si trattasse di migranti piuttosto che del regime carcerario del 41 bis, di bambini figli di coppie omogenitoriali, o, appunto, di figli minori di detenute. Con una grossolana manipolazione, FdI e Lega sono infatti riusciti a rovesciare sull’opposizione l’accusa grottesca di voler “proteggere”, alternativamente, “i mafiosi al 41 bis”, “gli scafisti e i trafficanti di esseri umani”, “il commercio di bambini comprati con uteri in affitto” e ora, niente di meno, che le “borseggiatrici recidive che usano i loro figli per sfuggire alla galera”. Impermeabile al dato di realtà, che la articolata macchina del rumore che accompagna l’azione di governo provvede ogni volta a occultare, la destra finge di non sapere che, al mese di febbraio, le madri detenute in Italia con i loro figli sono 21. Non esattamente un dato statistico capace di corroborare la tesi secondo la quale il Paese dovrebbe difendersi dall’aggressione spregiudicata di donne che usano i loro figli come salvacondotto dalla galera. Ma quel che è peggio, la destra di governo posa a vittima di un fantomatico disegno che vedrebbe noti estremisti come i parlamentari di Pd, Terzo polo e della stessa Forza Italia in combutta per assicurare l’impunità a madri “snaturate” per le quali, evidentemente, può e deve valere una sola regola. Contraria a qualsiasi principio etico prima ancora che di civiltà. Che un figlio, per giunta appena nato o in tenerissima età, paghi le colpe della madre. La verità è più semplice. E soprattutto cristallina. L’arroganza mista a vittimismo con cui la destra consuma scientificamente il suo assalto ai diritti dimostra infatti, dopo appena sei mesi di governo, quale idea retriva di società coltivi. E l’idiosincrasia ideologica che ne è insieme la premessa e il carburante. L’Italia di Giorgia Meloni e Matteo Salvini è una ridotta sovranista dove i diritti non si sommano, allargando così il perimetro delle libertà individuali, ma si elidono. Dove non c’è spazio per nessuna forma di diversità o fragilità, perché la regola, propria di ogni società chiusa, è quella del “guai ai vinti”. Perché il diritto di vivere diversamente la propria sessualità, di fuggire dalle guerre o dalla persecuzione, di declinare liberamente la propria genitorialità, di non dover far pagare ai propri figli i propri errori, conosce una sola declinazione. Quella inscritta nell’alfabeto della paura in nome del quale il “diverso”, il “deviante”, è un nemico che attenta alla nostra integrità, una minaccia alla “nazione” e ai valori iscritti nell’idea primitiva che ne coltiva questa destra. Sarebbe di un qualche sollievo che in una maggioranza ridotta a caserma dove conta solo la regola dell’obbedienza, si fosse levata o si levasse qualche voce dissonante. Ma evidentemente il garantismo e l’amore per le libertà di cui retoricamente si fregiano molti esponenti della maggioranza vale a giorni alterni. E tuttavia, c’è un dato che deve confortare. Il Paese, la sua coscienza, il suo modo di guardare la persona e le sue libertà è infinitamente più avanti sul tema dei diritti della classe politica che oggi la governa e dice di rappresentarla. E il tempo sarà galantuomo. C’è un’Italia, soprattutto quella che oggi ha dai 40 anni in giù, che non consentirà né a Giorgia Meloni, né a Matteo Salvini, di riportare indietro le lancette dei diritti agli anni ‘50 del secolo scorso. Sottovalutarla o pensare di addomesticarla parlando il linguaggio grottesco della propaganda, scaricando per giunta su dei bambini (ieri i figli delle coppie omogenitoriali, oggi delle detenute) il prezzo di tanta spregiudicatezza non allontanerà il giorno in cui i nodi verranno al pettine e il conto sarà presentato. Il giorno in cui Giorgia Meloni e Matteo Salvini scopriranno di essere solo due vecchi arnesi di un tempo che non c’è più. Valutazione del magistrato? Tutto rinviato. La rabbia di Costa di Aldo Torchiaro Il Riformista, 24 marzo 2023 Il pacchetto di riforme, che l’onorevole di Azione aveva portato in approvazione definitiva al termine del governo Draghi, si sta letteralmente dissolvendo. Il ministro Nordio: proroga di un anno. Chi l’ha visto? Il pacchetto di riforme della magistratura - una legge delega coraggiosa ma parziale - che l’onorevole Enrico Costa aveva portato in approvazione definitiva al termine del governo Draghi si sta letteralmente dissolvendo. Il parlamentare di Azione-Italia Viva lo ha fatto presente con una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, Carlo Nordio. E lo denuncia con un tweet al giorno perché nessuno possa dire di non aver visto o capito. Cosa sta succedendo? Che quel pacchetto di leggi che prevedeva la valutazione del magistrato, gli incarichi direttivi del Csm che vanno dati per merito, nuove norme sul disciplinare e il fascicolo di valutazione individuale del magistrato, tutte leggi approvate sulla carta, non riescono a vedere la luce. Troppi gli interessi particolari in ballo, evidentemente. E quelli sbagliati. La riforma che prevede il taglio del numero dei magistrati fuori ruolo - ad esempio - è stata messa, per la sua attuazione, nelle mani dei magistrati fuori ruolo. Come chiedere al cappone come preferisce essere cucinato a Natale: la risposta formale è che al momento non ci sono le condizioni, che vanno acquisiti dei pareri, che bisogna valutare le norme europee, e via dicendo. “Ti diranno sempre che non sono in grado, che hanno problemi tecnici. Su queste norme o c’è una guida rigorosa della politica che richiama all’esecutività delle leggi votate, o si andrà alla proroga motu proprio. Un abominio”, si inalbera Enrico Costa. Di proroga di un anno ha parlato lo stesso Nordio, rispondendogli a Montecitorio. “Ma ci opporremo in tutti i modi”, fanno sapere dal gruppo del Terzo Polo. Intanto sulle riforme votate durante il governo Draghi questo esecutivo fa orecchie da mercante. Non si vuole fare un torto alle toghe. Lo sciopero che era stato indetto da Anm, all’unanimità, contro il fascicolo di valutazione individuale del magistrato è uno dei casi più eloquenti. Deciso in forza di legge, viene aggirato. Postposto. Rimandato alle calende greche in vista dell’adozione di regolamenti attuativi. “Tutte scuse”, alza i toni Costa. “Si pensi a tutti gli incarichi extragiudiziali che salterebbero, se si vuole capire perché si rimanda tanto. E sono davvero sorpreso che ad avere tanto timore reverenziale verso la magistratura sia proprio questo governo, la cui maggioranza aveva rimproverato alla Cartabia di essere troppo debole. E ora che ci sono loro, al Ministero, fanno perfino peggio. Hanno predicato bene e adesso razzolano malissimo”. Lo stupore riguarda soprattutto, par di capire, Forza Italia. “Su questo tema, è la grande occasione di Francesco Paolo Sisto e di Berlusconi, facciano vedere che il garantismo si può tradurre in riforme, adesso che possono”. Qual è il punto vero? Che le norme attuative sono allo studio dei magistrati stessi, molti dei quali sono i più stretti consiglieri del ministro Nordio. I magistrati fuori ruolo che diventano dirigenti ministeriali molto difficilmente scriveranno norme attuative che possono nuocere agli interessi della categoria. A quelli istituzionali e a quelli di qualche beneficiario diretto. “Sulle riforme c’è inerzia. Ma noi penalisti siamo pronti ad aiutare Nordio” di Valentina Stella Il Dubbio, 24 marzo 2023 A dicembre il ministro Nordio aveva accolto la proposta dell’Ucpi di creare un tavolo a cui far sedere avvocati, magistrati e accademici per mettere mano ad alcune criticità della riforma Cartabia del processo penale. Nonostante molteplici promesse quel tavolo ancora non c’è. Ne parliamo con Eriberto Rosso, Segretario dell’Unione Camere Penali. Il 27 marzo il presidente Caiazza ha convocato la giunta denunciando una inerzia sulle riforme. Il tavolo che vi aveva promesso Nordio è un tavolo fantasma? Di certo non è nato e la sensazione è che ci si muova in un terreno incerto, senza idee precise sui tempi e su chi debbano essere gli interlocutori. Intanto le conseguenze dei nuovi meccanismi processuali si cominciano ad avvertire nella esperienza professionale quotidiana e l’avvocatura penale non può più aspettare. Per parte nostra abbiamo subito presentato al ministro una serie di proposte di emendamenti per rimuovere le criticità più manifeste dei decreti attuativi. È un lavoro che abbiamo condotto insieme ai professori del nostro Centro studi Marongiu e che poi abbiamo proposto alla discussione con gli studiosi del processo penale. Nella nostra inaugurazione dell’anno giudiziario di qualche settimana fa a Ferrara ne abbiamo discusso con politici e magistrati e in quella sede il ministro ha confermato l’impegno assunto. Una questione che vi preoccupa molto è quella delle impugnazioni. Quali sono i pericoli? Le nostre proposte per interventi immediati riguardano anche l’appello. Non è pensabile che vada a regime la previsione dei decreti attuativi che impone un nuovo mandato e l’elezione di domicilio, a pena di inammissibilità, nell’atto di impugnazione. Si tratta di un ostacolo burocratico destinato a escludere dalla filiera delle impugnazioni gran parte degli imputati assistiti da difensori di ufficio. Vi è poi una critica più generale sulla filosofia del nuovo appello e sull’impugnazione del pm ma intanto è necessario ripristinare la pienezza del diritto a un secondo grado di giudizio per chi è stato condannato. Anche la questione improcedibilità è nella vostra lista delle urgenze... Avevamo subito detto che sostituire la prescrizione con un meccanismo di natura processuale avrebbe determinato una stortura nel sistema. Operatori, studiosi, la stessa magistratura associata ne hanno sottolineato l’incongruenza e quasi tutte le forze politiche si sono già dichiarate d’accordo per il ripristino della prescrizione. Del resto a nessuno sfugge che la soluzione individuata con la riforma sia stata un compromesso politico che ha ignorato i profili della scienza penale. Quali sono invece le criticità relative all’udienza pre-dibattimentale nei giudizi con rito monocratico? Si dovrà pure prendere atto che nessuno degli attori del processo condivide questo nuovo istituto, destinato nel migliore dei casi ad appesantirne la disciplina, per di più sulla base degli atti del fascicolo delle indagini. In una intervista a questo giornale ieri il professor Fiandaca ha detto: “Al posto di Nordio io non avrei ad esempio accettato di fare il ministro o mi sarei già dimesso”, riferendosi al fatto che il Nordio editorialista non potrà mai essere uguale al Nordio ministro. Concorda? Il fatto che a ricoprire il ruolo di ministro della Giustizia sia stata chiamata una personalità che professa i principi del diritto penale liberale è una buona cosa. Dalle petizioni è però necessario che si passi ai fatti e al rispetto degli impegni assunti. Fiandaca è anche scettico sull’obiettivo della separazione delle carriere. Voi avete segnali invece positivi dal Parlamento? Su questo tema vi sono leader e porze parlamentari probabilmente più affidabili di altri. Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, continueremo nella nostra attività di interlocuzione politica e chiameremo quella parte di società civile disponibile a impegnarsi per la realizzazione del disegno costituzionale a un impegno straordinario perché la separazione delle carriere resti al centro della mobilitazione politica. Questa legislatura può realizzare un grande obiettivo di civiltà giuridica e consegnare il vero strumento equilibratore nel processo. La politica deve affidarsi alle idealità e trovare la forza per resistere ai veti. Siete pronti anche a giorni di astensione qualora la situazione non si smuovesse sulle riforme? In queste ore il ministro Nordio ha voluto con noi ribadire il suo impegno a interloquire sulle proposte di riforma. Apprezziamo il gesto politico e ne verificheremo la portata. Assumeremo comunque tutte le iniziative che, per quanto dipende da noi, portino governo e Parlamento a realizzare presto interventi legislativi in linea con le nostre proposte. Cari Di Matteo e Caselli, criticare i maxiprocessi non è lesa maestà di Aldo Schiavello* e Alessandro Tesauro** Il Dubbio, 24 marzo 2023 “Chi fa antimafia in buona fede e tiene a che si faccia, dovrebbe, quale che sia il suo orientamento, mettere per prima cosa razionalmente in discussione l’antimafia stessa, le modalità di farla e i suoi obiettivi”. Questo articolo era originariamente destinato alla pubblicazione sul quotidiano La Repubblica Palermo. La scelta di quella sede si giustificava in relazione al fatto che l’articolo qui di seguito riprodotto costituisce una replica a una polemica alimentata nei giorni scorsi da quel giornale. Abbiamo ricevuto una risposta interlocutoria che consideriamo sostanzialmente negativa. Ringraziamo Il Dubbio per averci ospitato. Nei giorni scorsi il Dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Palermo è stato investito da una polemica giornalistica, non esente da accenti sensazionalistici, sviluppatasi a margine di un confronto pubblico promosso e gestito dagli studenti. All’iniziativa partecipavano un noto magistrato meritoriamente impegnato sul fronte delle più importanti indagini antimafia e una professoressa di diritto processuale penale del suddetto Dipartimento. La polemica ha avuto a oggetto alcune osservazioni critiche avanzate - forse con un surplus di enfasi - dalla docente in questione sulla compatibilità tra il fenomeno dei Maxiprocessi e il rispetto delle garanzie riconosciute dalla Costituzione all’imputato. Su tale confronto pubblico e sulla strumentalizzazione mediatica che ne è seguita, come docenti del Dipartimento di giurisprudenza ci limitiamo ad avanzare le seguenti considerazioni. La prima considerazione riguarda la persistente problematicità dei Maxiprocessi. I problemi sollevati da tale fenomenologia processuale sono storicamente risalente nel tempo, se è vero che - già a cavallo tra ottocento e novecento - in relazione ai c.d. “processi di gran mole”, si osservava che la sottoposizione a giudizio di un numero quantitativamente rilevante di imputati rendeva difficoltosa una verifica processuale sufficientemente individualizzata della responsabilità penale, con connesso rischio di semplificazioni probatorie. Per venire a tempi più recenti, uno dei padri nobili della procedura penale come Paolo Ferrua, a proposito della valenza simbolica del maxiprocesso come strumento di rassicurazione psicologica dei cittadini sul fronte del contrasto alla criminalità organizzata, mette in luce la trasformazione del giudizio penale in “teatro delle ragioni di Stato”. Le frizioni che il ricorso a un simile congegno processuale determina in ordine alla garanzia costituzionale del diritto di difesa erano del resto ben noti allo stesso Giovanni Falcone, come dimostra il volume che raccoglie i suoi contributi a carattere più tecnico, intitolato “Interventi e proposte” (1982-1992), in cui egli ravvisa sin da subito la difficile conciliabilità tra il gigantismo processuale del Maxi e il modello del nuovo processo penale accusatorio che stava per entrare in vigore. Infine, in un convegno dell’ottobre 2016, svoltosi presso la Corte di Cassazione e intitolato “Il processo di mafia trent’anni dopo”, alcuni tra i più accreditati studiosi del processo penale hanno criticamente ripercorso tutti i nodi problematici dei processi di grandi dimensioni, in relazione ai quali non basta affermare in modo semplicistico, come ha fatto su La Repubblica Pietro Grasso, che “in quel processo ci furono 114 assoluzioni”. Ancor più fuori fuoco ci appaiono le dichiarazioni su La Stampa dell’ex magistrato Giancarlo Caselli il quale, sentendo soffiare da più parti un vento “anti-antimafia”, giudica “sconvolgente” la presa di posizione della docente palermitana. Qui evidentemente non si tratta di iscriversi al partito dei tifosi o, viceversa, dei detrattori del Maxiprocesso ma di rivendicare un esercizio della ragione pubblica che di fronte a problemi articolati e complessi rinunci a demonizzazioni o santificazioni aprioristiche. La seconda considerazione riguarda alcune affermazioni sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia fatte da Nino Di Matteo nel contesto del seminario in questione, reperibile per chi vuole sulla pagina Facebook dell’associazione studentesca Contrariamente. Conviene citarle testualmente: “La sentenza di secondo grado ha assolto per asserita mancanza di dolo gli uomini dello Stato ma ha condannato i mafiosi e l’intermediario mafioso. Vi hanno detto, vi vogliono far credere, che i fatti sono stati smentiti, che veniva smontato il teorema dei soliti pubblici ministeri complottisti e politicizzati (…). Questo è proprio falso! Quei fatti sono lì, restano lì pesanti come pietre (c.vi nostri)”. Due brevi notazioni a margine. Innanzitutto, soprattutto chi si intesta compiti di moralizzazione pedagogica delle giovani generazioni di giuristi dovrebbe ricordare che i fatti bruti, senza colpevolezza, sono “fatti inerti” che, a norma dell’art. 27, commi 1 e 2, della Costituzione, non generano responsabilità penale. Inoltre, e ancora una volta, non si tratta di essere pro o contro la “Trattativa” ma di ribadire che i criteri di scientificità e di controllabilità intersoggettiva cui deve, per statuto, conformarsi il confronto di idee all’università non ammettono rigidi apriorismi ideologici, tesi sostenute con certezza dogmatica e contrapposizioni manichee con la pretesa di possedere Verità Potenti. La terza considerazione è di più ampio respiro e ci interroga sul nostro ruolo di docenti impegnati nel dibattito pubblico. L’istituzione universitaria è elettivamente una sede di argomentazione razionale e di confronto critico. È cioè una sede di approfondimento in cui, come sottolinea Karl Popper, nessuno può vantare l’ultima parola e non deve trasformarsi in una sede di riproduzione di modelli di confronto dialettico da talk show televisivo in cui prevalgono l’espressione pura di emozioni, leadership carismatiche à la Weber, mitizzazione acritica di personaggi-simbolo, si tratti pure di magistrati coraggiosi distintisi per il loro impegno antimafia. In questo foro della ragione hanno pari titolo a partecipare e confrontarsi tutte le diverse voci dell’antimafia oggi compresenti sulla scena pubblica e nella discussione scientifica. Come sostiene Alfio Mastropaolo in un recentissimo articolo apparso su Il Mulino: “…chi fa antimafia in buona fede e tiene a che si faccia, dovrebbe, quale che sia il suo orientamento, mettere per prima cosa razionalmente in discussione l’antimafia stessa, le modalità di farla e i suoi obiettivi”. Sulla base di tali premesse, come giuristi proponiamo un grande convegno universitario di respiro interdisciplinare su “Mafia e antimafia oggi” che si preoccupi di chiamare a raccolta le migliori energie intellettuali a disposizione per fare il punto su almeno tre questioni centrali. E segnatamente: il concetto, dai confini semantici evanescenti, di ‘borghesia mafiosa’; la presunta persistente tendenza trattavistica tra lo Stato italiano e le mafie; l’attuale stato di salute dell’organizzazione Cosa nostra, anche in rapporto alle altre mafie radicate sul territorio nazionale. Proprio perché niente resta per sempre identico a sé stesso, neppure la mafia, è attuale più che mai il monito di Sciascia: “Qualcosa sta mutando, qualcosa è già mutato: con buona pace di coloro che ancora non vogliono crederci. O che vorrebbero non fosse vero. (…) Così a Robespierre che parlava contro i nemici della rivoluzione, qualcuno (…) gridò: “ma ti dispiacerebbe, se non ce ne fossero più!”“. *Professore ordinario di Filosofia del diritto **Professore ordinario di Diritto penale e Legislazione antimafia Piazza della Loggia, il governo non è tra le parti civili. O forse sì di Mario Di Vito Il Manifesto, 24 marzo 2023 La presidenza del Consiglio non si costituisce parte civile al nuovo processo per la strage di piazza della Loggia. Anzi sì. Anzi forse. Ieri mattina, a Brescia, all’apertura dell’udienza preliminare per l’attentato di provata matrice neofascista che il 28 maggio de 1974 uccise 8 persone e ne ferì 102 durante un comizio sindacale, alla presentazione delle parti civili rispondono presente il Comune di Brescia, i familiari delle vittime, Cgil, Cisl e Uil. E basta. La notizia corre veloce di agenzia in agenzia, da più parti arrivano richieste di chiarimenti, le opposizioni attaccano, vogliono spiegazioni. Poco prima dell’ora di pranzo, con la flemma di chi probabilmente ha tirato il bastoncino più corto, il sottosegretario Alfredo Mantovano è costretto a dichiarare che si è trattato di un disguido, che “la presidenza del Consiglio non aveva ricevuto alcun avviso” e che, comunque, sarà chiesta la riapertura dei termini per la costituzione della parte civile. “Non è una scelta politica”, assicura poi il capogruppo di Fdi alla Camera Tommaso Foti. Una figura non brillantissima, a voler essere gentili, anche perché parliamo di Brescia, la città in cui il primo partito del governo ha pochi mesi fa dedicato un suo circolo a Pino Rauti, volontario della Repubblica Sociale, dirigente del Msi, fondatore di Ordine Nuovo, processato per la strage di piazza della Loggia e assolto su richiesta degli stessi magistrati, che per quei fatti lo hanno giudicato responsabile morale ma non penale. L’intitolazione, a dire della stessa dirigenza locale di Fdi, era stata fatta “per ribadire con forza la continuità ideale della nostra comunità politica”. Per questa che è la quarta inchiesta sulla strage, la procura ha chiesto il rinvio a giudizio di due persone, Roberto Zorzi e Marco “Tomaten” Toffaloni, come esecutori materiali dell’attentato. Nel 2017 la Cassazione ha condannato all’ergastolo in qualità di mandanti gli ordinovisti Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte (quest’ultimo anche collaboratore del Sid). Il nuovo filone è la cosiddetta pista veronese, che mette insieme nuovi elementi sull’esplosivo utilizzato e su alcuni incontri, avvenuti proprio nella città veneta, tra esponenti di Ordine Nuovo e pezzi dei servizi segreti italiani. Sullo sfondo resta il cosiddetto “terzo livello”, ovvero il presunto coinvolgimento del commando Nato delle Forze terrestri alleate per il Sud Europa, già tirato in ballo dal giudice Guido Salvini ai tempi dell’ultima inchiesta sulla strage di piazza Fontana. Il processo bresciano, tra le altre cose, servirà a chiarire se l’esplosivo utilizzato nel 1969 a Milano sia dello stesso tipo di quello rinvenuto a Brescia nel 1974. L’ipotesi degli investigatori è che le stragi facessero parte di una più ampia strategia volta ad alimentare la tensione in Italia per indebolire il Pci, i sindacati e alcuni settori della Dc non abbastanza ostili al “pericolo rosso”: un tentativo, cioè, di trasformare la guerra fredda in guerra civile. Dalle decine di migliaia di atti giudiziari sin qui prodotti sul caso emerge che questa teoria è stata più volte al centro dei pensieri degli inquirenti, solo che, almeno sin qui, non sono mai emerse prove certe. Toffaloni, che ora vive in Svizzera e lì è stato anche interrogato tramite rogatoria internazionale (si è avvalso della facoltà di non rispondere), era minorenne all’epoca dei fatti e per vagliare la sua posizione si è reso necessario il coinvolgimento del tribunale dei minori. Per Zorzi la questione è ancora più complicata: ormai settantenne, l’ex Ordine Nuovo è cittadino statunitense e vive da anni a Snohomish, nello stato di Washington, dove fa il predicatore e gestisce un centro di addestramento per dobermann, il “kennel Del Littorio”. Il suo coinvolgimento era già emerso già due giorni dopo la strage, con il Corriere della Sera che in un articolo parlò di “un giovane di 21 anni, Roberto Z., che si ritiene possa fornire elementi decisivi per lo sviluppo dell’inchiesta”. Zorzi ieri non si è presentato in aula, ma i suoi legali hanno depositato una memoria difensiva in cui si sostiene che non ci siano nuovi elementi indiziari rispetto al passato e che tutte le tesi della procura siano frutto di “suggestioni”. Lazio. Suicidi in carcere, il 2022 annus horribilis di Paolo Tripaldi agi.it, 24 marzo 2023 Il Garante dei detenuti, Stefano Anastasia chiede di convocare al più presto l’Osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria. Lo scorso anno registrato il record di 84 suicidi nelle carceri italiane, una media di sei/sette al mese. “Auspico che il Presidente Rocca proceda al più presto alla convocazione dell’Osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria della Regione Lazio. Si tratta di un tavolo presieduto dall’assessore alla Sanità regionale che in questo caso è lo stesso presidente Rocca, e di cui fanno parte il presidente del Tribunale di sorveglianza, il Provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise e i rappresentanti di tutte le Asl competenti. È importante che il tavolo torni a riunirsi, perché bisogna mettere a registro l’offerta dell’assistenza sanitaria alle persone detenute dopo il ciclone della pandemia, le politiche per l’affollamento, quelle dei servizi che possono migliorare la salute dei detenuti. Penso a quello che è possibile fare con la digitalizzazione, come la telemedicina che in ambito carcerario può ovviare ai problemi logistici dell’assistenza specialistica, garantendone la tempestività”. È quanto dichiara in un colloquio con l’AGI Stefano Anastasìa, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, sottolineando l’importanza dell’Osservatorio che ha il compito di monitorare la situazione sanitaria della popolazione carceraria, segnalando avvenimenti di interesse sanitario o eventuali problematiche e criticità negli Istituti penitenziari di tutto il territorio regionale. Stefano Anastasìa è stato eletto dal Consiglio regionale del Lazio per la seconda volta Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale nel 2021. È stato anche Garante della Regione Umbria e dal 2018 è il Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali nominati dalle regioni, dalle province e dai comuni italiani, organismo istituito presso la Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle regioni e delle province autonome. A Regina Coeli si sono verificati già tre suicidi di detenuti dall’inizio dell’anno. Quali sono i dati nel Lazio relativi a questi tragici eventi? Lo scorso anno nella Regione Lazio ci sono stati sei suicidi nelle carceri. Quest’anno il dato nazionale ci dice che si sono già registrati 12 suicidi di cui tre nel Lazio, questi ultimi avvenuti proprio a Regina Coeli. Certamente anche un solo suicidio è un evento grave, ma al momento sembra che il dato sia in diminuzione rispetto all’anno scorso, quando in tutta Italia 84 detenuti si sono tolti la vita. È stato un numero record: significa che abbiamo avuto una media di sei/sette suicidi al mese. Il maggior numero di episodi si è verificato nel periodo estivo che è sempre uno dei momenti più delicati per lo stato d’animo delle persone costrette in carcere. Speriamo che quest’estate non sia come quella precedente”. Quali eventi hanno portato a un’impennata dei suicidi nel 2022? Occorre evidenziare che l’anno scorso stavamo uscendo dalla pandemia e tutto il Paese si rimetteva in movimento, questo può aver accentuato il senso di abbandono dei detenuti. Finita l’emergenza pandemica, la vita all’esterno del carcere è tornata alla normalità mentre negli istituti di pena si è rimasti in condizione di solitudine e si è fatto più forte il sentimento di abbandono. Come intervenire per evitare episodi di aggressioni subite da chi lavora nelle carceri da parte di detenuti? Alle aggressioni agli operatori nelle carceri, sia di polizia che sanitari, causate dal sovraffollamento, dall’inappropriatezza della detenzione e dalla carenza di attività in carcere, si può rispondere in maniera durevole ed efficace solo con la riduzione dei detenuti e il conseguente potenziamento delle attività rieducative. Nelle carceri della regione i dati del sovraffollamento sono in linea con quelli nazionali? Secondo i dati del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, in Italia il sovraffollamento carcerario è al 110%, cioè 10 detenuti in più ogni 100 posti letto. Nel Lazio, invece, la media del tasso di occupazione carcerario è del 120%. Siamo al disopra, quindi, del dato nazionale. Il dato va però anche analizzato a seconda dei vari Istituti di pena regionali: in alcune carceri come Regina Coeli, Rebibbia Nuovo complesso, Velletri, Civitavecchia e Viterbo il tasso di affollamento arriva anche al 150%. Santa Maria Capua Vetere. Pestaggio in carcere: vietato pubblicare la registrazione del processo di Nello Trocchia Il Domani, 24 marzo 2023 Radio Radicale non potrà pubblicare le registrazioni delle udienze del maxi processo in corso davanti al tribunale di Santa Maria Capua Vetere per le violenze avvenute nel carcere Francesco Uccella il 6 aprile 2020. La sospensione, per il momento, decisa dalla Corte d’assise, presidente Roberto Donatiello, riguarda solo l’ultima udienza in attesa di decidere, il prossimo 29 marzo, sulla richiesta degli avvocati di difesa che vorrebbero il divieto esteso all’intero processo. Sul banco degli imputati ci sono 105 persone accusate, a vario titolo, di quanto accaduto nel carcere in provincia di Caserta. Nelle prime settimane di pandemia, i reclusi del carcere di Santa Maria Capua Vetere, come molti altri carcerati in tutta Italia, avevano inscenato proteste per chiedere, dopo il primo caso di contagio in carcere, mascherine e dispositivi di sicurezza. Per tutta risposta, il 6 aprile 2020, quasi 300 poliziotti penitenziari, provenienti anche da altri istituti detentivi, sono entrati in carcere e per oltre quattro ore hanno colpito con manganelli, schiaffi e ginocchiate i detenuti. Una mattanza documentata dai video che Domani ha pubblicato nel giugno del 2021. Il processo è iniziato, lo scorso novembre, nell’aula bunker del tribunale di Santa Maria Capua Vetere davanti alla Corte d’assise, a carico di 105 persone: agenti penitenziari, funzionari e medici coinvolti a vario titolo nel pestaggio. Sono accusati di tortura pluriaggravata, lesioni, falso, calunnia, depistaggio e altri reati. Fino all’ultima udienza il processo è stato registrato e pubblicato sul sito di Radio Radicale, ma adesso è arrivato il momentaneo stop che potrebbe diventare definitivo. L’avvocato Carlo De Stavola, difensore di alcuni imputati, alla cui richiesta si è associato l’avvocato Claudio Botti, ha sollecitato la Corte a disporre il divieto di pubblicazione dell’audio dopo ogni udienza, come Radio radicale fa da anni anche per altri processi importanti, e di prevedere che la pubblicazione delle registrazioni avvenga alla fine del processo. Ma per quale motivo? Il legale ha spiegato che non si deve inficiare la genuinità delle dichiarazioni rese in aula dai testimoni, la pubblicazione dell’audio dopo l’udienza, potrebbe permettere a testimoni non ancora sentiti di ascoltare le parole dette da altri testimoni, e dunque in teoria di decidere cosa dire e in che modo. Insomma, pubblicare l’audio potrebbe condizionare e svelare la strategia difensiva, ma il processo è pubblico e ciascuno può seguirlo, cosa dicono gli altri testimoni potrebbe essere raccontato anche dalle cronache giornalistiche. La reazione - In attesa della prossima udienza e della decisione della corte, è intervenuto anche Alessio Falconio, direttore dell’emittente, che ha chiesto di rivedere questa decisione. “Radio Radicale vuole continuare ad assicurare il servizio che da oltre 40 anni consente agli italiani la diretta conoscenza dei processi che rivestono un particolare interesse pubblico, qual è senz’altro quello in questione. La pubblicità delle udienze è posta a base della garanzia per la corretta amministrazione della giustizia e il servizio che svolge Radio radicale è funzionale a questa esigenza”, dice Falconio. Ivrea (To). “Detenuti legati con nastro adesivo, picchiati e seviziati” di Floriana Rullo Corriere di Torino, 24 marzo 2023 Per la Procura c’era un clima di sopraffazione. Il 3 agosto del 2022 il vicecomandante pro tempore redige una notizia di reato nei confronti di un detenuto per violenza e minaccia nei suoi confronti, per oltraggio a pubblico ufficiale e danneggiamento aggravato: quel documento ha invece portato alla sua sospensione. Hanno legato con del nastro adesivo tre detenuti, poi li hanno picchiati e seviziati. Sono ventitré gli agenti della polizia penitenziaria di Biella sospesi dal servizio. Sono tutti accusati di tortura di Stato, commessa all’interno del carcere nei confronti di tre detenuti. Era il 6 febbraio scorso quando “il gip, su richiesta dei pm, aveva ordinato l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari a carico del vice comandante pro-tempore, riservandosi, all’esito degli interrogatori, sull’applicazione delle richieste di misure interdittive nei confronti degli altri ventisette agenti coinvolti” riferisce la Procura. L’ordinanza è stata eseguita dal Nucleo investigativo dei carabinieri di Biella. Il procedimento della Procura, coordinata dalla procuratrice Teresa Angela Camelio, era partito da una comunicazione di notizia di reato del 3 agosto 2022, redatta dal vicecomandante pro-tempore, nei confronti di un detenuto che veniva deferito in stato di libertà per violenza e minaccia nei suoi confronti, nonché per oltraggio a pubblico ufficiale e danneggiamento aggravato. Tutto era nato da uno screzio tra il commissario e un detenuto 23enne di nazionalità marocchina. Quando l’uomo rientra in cella e comincia a dare segnali di disagio intervengono medico e infermieri. Il loro intervento non basta, l’uomo è sempre più agitato, arriva a sbattere la testa contro il vetro della finestra. Gli agenti indossano i guanti e in sette lo tirano fuori dalla cell,a già ammanettato dietro la schiena, lo afferrano per le gambe e gliele imprigionano con del nastro adesivo, pratica vietata da un articolo della legge sull’ordinamento penitenziario come rimarca la Procura. Nel corso dell’operazione forse qualcuno gli si inginocchia sulla schiena, quando tenta di rialzarsi viene tenuto giù da un piede. Tutto ripreso dalle telecamere interne. Le indagini della Procura, partite con quel caso, consentivano di verificare altri atti di violenza fisica ai suoi danni in almeno in altre due occasioni. Così come capita anche con altri due detenuti. Ma solo uno di loro decide di procedere penalmente nei confronti del Commissario. Gli altri hanno paura invece di subire ripercussioni. Interrogati e visionate anche le telecamere all’interno del carcere di Biella, nonché nei referti medici, sono state emesse le misure cautelari e interdittive. Si parte da sei mesi, per poi passare a otto e infine a un anno. Secondo la Procura, in carcere a Biella esisteva “un metodo punitivo e un clima di generale sopraffazione creato e coltivato dal vice commissario, con la complicità e la connivenza di altri agenti della polizia penitenziaria”: una tesi che secondo il gip “trova precisi elementi di sostegno”. Sono stati già annunciati dai difensori una serie di ricorsi al Tribunale del Riesame. Napoli. Carcere di Poggioreale, non ci fu “cella zero”: tutti assolti i 12 agenti imputati di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 24 marzo 2023 Scagionati nel merito i penitenziari di Poggioreale: avevano rinunciato alla prescrizione. Non ci furono pestaggi e sevizie. O comunque non è provato che esistesse una “cella zero”, quella nella quale avvenivano violenze molto vicine alla tortura. È questo il verdetto della terza penale (presidente Vargas), che assolve gli agenti di polizia penitenziaria di Poggioreale (difesi, tra gli altri, dai penalisti Carlo De Stavola, Carmine Capasso, Gennaro Ciero, Elisabetta Montano, Marco Monica, Marcello Severino), al termine di un processo nel quale si ipotizzava l’esistenza di un sistema di controllo del carcere fondato sulla violenza consumata nei confronti di alcuni detenuti. Dodici imputati assolti, dunque, che avevano rinunciato alla prescrizione, chiedendo di essere giudicati nel merito. Caltanissetta. Rimesso in cella anche se il carcere l’ha reso cieco di Angela Stella Il Riformista, 24 marzo 2023 Come si può far rientrare in carcere una persona diventata cieca proprio a causa della malasanità penitenziaria? È umano? È legittimo? Questa è la storia di Salvatore Giuseppe Di Calogero, classe 1975, condannato in via definitiva a 8 anni e 8 mesi per associazione mafiosa. Nonostante che, contando i periodi trascorsi tra misura cautelare in carcere e ai domiciliari e considerando anche la liberazione anticipata, gli anni definitivi da scontare sarebbero sotto i quattro, lo scorso 9 marzo, quando la Cassazione ha rigettato il ricorso della difesa, la Procura Generale di Caltanissetta ha emesso l’ordine di esecuzione per la carcerazione dell’uomo prelevandolo con la febbre dalla sua abitazione, ove negli ultimi 3 anni ha trascorso la custodia cautelare in arresti domiciliari, proprio in ragione della sua grave e inaspettata disabilità. Infatti Di Calogero - affetto da ipertiroidismo con esoftalmo da “morbo di Basedow” - adesso è completamente e irreversibilmente cieco. Un giorno del 2019 sua moglie Elisa apprende dal marito che è stata sospesa la terapia durante la custodia cautelare in carcere. Purtroppo non si è riusciti a evitare il peggio: la cecità del marito a soli 44 anni. Ora l’uomo si trova in una piccola cella della casa circondariale di Caltanissetta. Le numerose richieste sia scritte che telefoniche da parte dei legali Eliana Zecca e Michele De Stefani, per avere notizie in merito allo stato psicofisico del proprio assistito, sono rimaste inizialmente inevase. Si è deciso, così, il 13 marzo di interpellare il Garante dei diritti dei detenuti della Regione Sicilia, il professor Giovanni Fiandaca, il quale, attraverso un intervento determinante, ha sollecitato il Direttore Sanitario al deposito di una doverosa relazione sanitaria, già sollecitata dal Magistrato di Sorveglianza di Caltanissetta. “Il silenzio e l’indifferenza manifestata nei nostri confronti - dicono i legali - appare sconcertante se si considera la straordinarietà della vicenda. In fondo abbiamo chiesto delle informazioni circa lo stato psicofisico del nostro assistito, a fronte della copiosa documentazione sanitaria depositata nel fascicolo del Magistrato di Sorveglianza e consegnata alla Polizia Giudiziaria durante l’arresto. È proprio in queste situazioni che si dovrebbe auspicare una maggiore collaborazione tra la Polizia penitenziaria e la difesa dei detenuti, soprattutto quando in gioco vi è la tutela di Diritti Costituzionali, quali la salute e la rieducazione di un condannato”. Solo durante un colloquio visivo, che si è potuto organizzare nel sabato successivo, la difesa ha potuto costatare che al Di Calogero è stata fornita una sedia a rotelle e tutte le necessità quotidiane (quali cucinare, mangiare, lavarsi, vestirsi) sono state rese possibili con l’ausilio di un “improvvisato badante detenuto”. E solo in quello successivo, avvenuto con la moglie, il Di Calogero ha manifestato un forte imbarazzo, chiudendosi in un inevitabile e doloroso sconforto, per questa gestione ma, soprattutto, ha rappresentato l’umiliazione, come essere umano, di farsi assistere, anche nei gesti più intimi, da uno sconosciuto. Inoltre, senza l’ausilio del bastone non ha la possibilità di percepire gli spazi intorno a lui e, quindi, non può usufruire della cosiddetta ora d’aria. “Non dimentichiamo - proseguano gli avvocati - che, con l’intervenuto arresto, Di Calogero non solo non ha potuto effettuare due importanti visite mediche programmate rispettivamente il 13 e 15 marzo presso l’Ospedale di Enna e di Caltanissetta, ma vi è stata la brusca interruzione del percorso psicologico-riabilitativo in corso presso l’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti di Enna, unico luogo dove il Di Calogero si sente protetto, aiutato, stimolato nell’apprendimento delle tecniche necessarie per cercare di ritornare a lavarsi, vestirsi, mangiare, leggere, scrivere, salire e scendere le scale, passeggiare. Proprio nella relazione dell’Unione Ciechi si legge chiaramente che “il Sig. Di Calogero ha estrema e urgente esigenza di proseguire il percorso riabilitativo e psicologico con continuità e costanza, pena la degenerazione in modo irreversibile della condizione fisica e psicologica dello stesso”. Per questo gli avvocati sono in attesa di una risposta da parte del magistrato di sorveglianza su una richiesta di differimento pena per motivi di salute. Milano. “Gli invisibili”, casa e assistenza sanitaria per i detenuti ansa.it, 24 marzo 2023 Progetto Consorzio Sir nelle carceri milanesi con fondi europei. Detenuti con un’invalidità più o meno grave, fisica o mentale, che si trovano in carcere o in misura alternativa sul territorio. Sono ‘gli invisibili’ a cui si rivolge dal 2017 il progetto del Consorzio Sir, un insieme di cooperative sociali specializzate nei servizi alla persona, finanziato dalla Regione Lombardia attraverso il Fondo sociale europeo. I detenuti vengono intercettati nelle carceri milanesi di Opera, Bollate e San Vittore per iniziare dei percorsi riabilitativi interni nei centri diurni del Consorzio - come il laboratorio sugli Orti sociali di Opera - oppure per impostare un reinserimento esterno attraverso un percorso personalizzato sulle proprie esigenze. Il modello d’intervento prevede la presa in carico di un “disability manager”, un esperto di disabilità che approfondisce il profilo del detenuto direttamente in carcere. Le aree di bisogno, soprattutto per chi esce dal carcere ma rimane in misura in esecuzione penale, possono essere molteplici, dall’accesso al sostegno sociale ai servizi specialistici del Comune di Milano o a quelli per le dipendenze, fino alla formazione lavorativa, l’assistenza sanitaria e l’abitare: “Ospitiamo i detenuti in appartamenti di housing sociale in coabitazione diffusi sulla città e di solito la convivenza funziona bene. Noi facciamo in modo che siano sempre impegnati”, spiega Simona Silvestro, responsabile dell’area carcere del Consorzio Sir e coordinatrice del progetto ‘Gli invisibili’. Alcuni possono lavorare, altri fanno volontariato. Sono accolti per un periodo di sei mesi, rinnovabile fino a un massimo di un anno, finché non sono pronti a vivere in autonomia. Quelle del progetto ‘Gli invisibili’ sono infatti abitazioni “ad alta assistenza” con una copertura costante degli operatori, eccetto la notte. “Ci sono capitate persone sul punto di morire - prosegue - che escono dal carcere grazie all’accoglienza che possiamo offrire. E per questo ci sono grate”. Uno di loro si chiama Giuseppe e ha preso parte al progetto alla fine del 2020: “Quando sono venuto da loro ero distrutto - racconta il detenuto - pesavo 108 kg e non riuscivo neanche a fare quattro gradini. Mi hanno salvato la vita”. Oggi vive in una casa a Ponte Lambro, assistito affettuosamente da Luisa, la sua operatrice preferita, ma inizialmente, una volta uscito dal carcere, era in una casa con altre tre coinquilini. E non fu semplice, per uno come lui che si definisce un ‘lupo solitario’: “A me piace stare da solo e i primi tempi è stata dura - aggiunge Giuseppe - non sono un gran cuoco ma per fare amicizia ho provato e abbiamo iniziato a farlo insieme”. Oggi sta meglio e ha anche una nuova compagna: “E adesso peso 95 kg - sorride - ero andato fuori carreggiata, ora mi sto riprendendo”. Giustizia è esserci per gli altri di Giorgio Vittadini ilsussidiario.net, 24 marzo 2023 “Lo chiamiamo Terzo settore, perché ci siamo abituati a guardare le cose con distacco, dall’alto. Ma è la prima realtà con cui si viene in contatto, prima di Stato e mercato”. Il mondo appare sempre più ingiusto. La benzina sul fuoco di conflitti politici, sociali, personali pare non esaurirsi mai. Guerre, povertà, disuguaglianza, ma anche tanta rabbia e incapacità di compassione sembrano inarrestabili. Ingiusta è la situazione dei Neet, ingiusta è la crescente distanza tra ricchi e poveri, ingiusta è la difficoltà sempre più drammatica delle famiglie e degli anziani ad arrivare a fine mese, ingiusta è la quantità di denari fermi nei fondi e non utilizzati per creare imprese e lavoro. È inutile illudersi: il moltiplicarsi di leggi e regole non aiuta, anzi, l’esperienza ci dimostra il contrario. Per capire che cosa sia “giusto”, prima che guardare ai numeri, sarebbe meglio osservare i fatti. Come quelli che succedono in luoghi nascosti alla vita dei più, o nella semplice quotidianità delle persone che coltivano nel loro intimo una speranza e la mostrano sui loro volti o nei loro gesti. “Voglio essere pulita, perché quando suor Elvira mi dà un bacio, io voglio essere profumata”: questa la richiesta di una bambina alla sua mamma, prima di recarsi al centro educativo San Camillo, gestito dalle Suore di carità dell’Assunzione, in un quartiere povero di Napoli. Sorprende che queste suore non si diano una missione “assistenziale”, non strutturino grandi progetti con obiettivi e resoconti da fare, ma condividano semplicemente, per ciò che è nelle loro forze, il bisogno delle famiglie che vivono situazioni di fragilità, malattia e problemi di diverso tipo. Per quale ragione? “Perché facciamo quello che possiamo. Ma è questa semplice, quotidiana e personale vicinanza a creare nel tempo processi di cambiamento nelle persone”. Quella bambina, che arrivava sempre mal vestita e trascurata, a un certo punto, ha cominciato a presentarsi in ordine. Perché era stata accolta, attesa, guardata come qualcuno di prezioso. Per la stessa ragione, alcune famiglie si sono fatte aiutare nel cercare un alloggio più funzionale, e tanti hanno cominciato ad attivarsi per cercare lavoro. Perché sanno che c’è qualcuno disponibile a sostenere il loro tentativo. Si sono create anche situazioni di mutuo aiuto tra le famiglie che si conoscono attraverso i gesti rivolti a loro e al territorio. Prima della pandemia avevano attivato un laboratorio “Mamme all’opera”: ogni due settimane si ritrovavano per costruire oggetti e poi venderli. Con il ricavato hanno fatto la spesa per alcune famiglie durante il Covid. Tante mamme si sono coinvolte in gesti di solidarietà come la Giornata della colletta alimentare e nella raccolta dei viveri e medicinali per i popoli in guerra. Questi fatti dicono che cosa sia giustizia sociale: quello che fa riprendere fiducia, spinge a fare un passo verso un bene comune, fa rialzare la testa, fa percepire che si può avere una vita da impegnare e qualcosa da costruire. “Nessuno sarà lasciato indietro” è oggi uno slogan usato dalla politica. Tantissimi in Italia realizzano questo intento perché nessuno venga dimenticato. Lo chiamiamo Terzo settore, perché ci siamo abituati a guardare le cose con distacco, dall’alto. Ma è la prima realtà con cui si viene in contatto, prima di Stato e mercato. La comunità è la realtà più prossima, quella delle facce concrete che più spesso di quello che sembra sono disponibili a tendere una mano. Realtà abitate da persone come suor Elvira, impegnate nelle cooperative, nelle imprese sociali, nell’aiuto allo studio per combattere il fenomeno della dispersione scolastica, nell’assistenza ai più fragili, agli anziani, alle famiglie, ai disoccupati, ai senza casa. Persone che mettono in comune il valore della solidarietà e della sussidiarietà. Persone che si muovono non per imposizione di un dovere, ma per libera e spontanea decisione: esserci per sé e per gli altri. L’opinionismo e il diritto alla verità di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 24 marzo 2023 Non sono in discussione la libertà e il diritto di esprimersi ma il contrasto alla manipolazione e alla menzogna. Il dibattito di questi giorni è indicativo della attuale tendenza culturale che, soprattutto negli ultimi tempi, rischia di travolgere la progettualità per la risoluzione di problematiche concrete che da tempo ci affliggono. Una condizione che inevitabilmente si ribalta sul piano della politica che, come è noto, attraversa un periodo particolarmente significativo poiché unitamente alla attuazione delle aspettative che dovrebbero condurre al rilancio del Paese, obiettivo per il quale vi è la dichiarata disponibilità delle forze di maggioranza e di opposizione e, soprattutto, di risorse finanziarie straordinarie, deve far fronte a contrapposte istanze della società civile. In primo luogo, quelle relative alla sospensione oppure continuazione, anche con l’invio di armamenti, del sostegno del popolo ucraino nella sanguinosa guerra con la Russia. Il pericolo maggiore è rappresentato dall’opinionismo, che non riguarda l’effettiva valutazione dei fatti, bensì la loro negazione; una attitudine che determina un sempre più accentuato distacco dalla realtà. L’opinione diventa essa stessa realtà e si surroga alla vita reale fino a pretendere che quest’ultima vi si adegui. La spinta di forze non sempre spontanee e raramente espressive di interessi generalizzati, incide sensibilmente sulle scelte politiche, nel mentre le istanze delle persone comuni, volte ad abbattere le barriere dell’indifferenza e delle disfunzioni in settori vitali , come la sanità e la giustizia, sono trascurate. È evidente che sempre più l’opinionismo tende a superare anche i principi e valori costituzionali. Le opinioni vengono espresse su altre opinioni senza tenere in alcun conto i fatti comprovati semmai attraverso testimonianze, anche filmate, raccolte da eroici operatori e giornalisti, come nel caso delle fosse comuni scoperte a Irpin e Bucha e, notizie di questi giorni la decisione della Corte Penale Internazionale di incriminare il Presidente russo per il deplorevole delitto di deportazione di bambini. Appare a dir poco contraddittoria la posizione di chi, allo stesso tempo, sostiene la pace e il disarmo dello Stato aggredito, ben sapendo che ciò determinerebbe solamente l’annientamento di quest’ultimo e una concreta minaccia per la intera umanità. La politica è una scienza empirica che deve studiare e risolvere le problematiche sociali misurandosi costantemente con la coscienza comune. Il punto non è mettere in discussione, neanche implicitamente, la libertà di esprimere opinioni. Un diritto sacrosanto, inviolabile e irrinunciabile, bensì contrastare la manipolazione o, peggio ancora, l’obliterazione della verità che deve restare al centro degli interessi e obiettivi dello Stato costituzionale il quale è tenuto alla sua continua ricerca, essendo la verità indissolubilmente legata alla tutela delle libertà fondamentali. È su questi presupposti che può parlarsi di un vero e proprio diritto del cittadino alla verità e quindi del correlato benché contrapposto, divieto di menzogna che, come evidenziato in tempi certo non recenti da Emmanuel Kant, rappresenta una violazione della “dignità dell’uomo nella sua persona”. Per altri versi, quelli più propriamente legati alla ricerca del consenso, è bene che i politici considerino il dato incontrovertibile che il circolo di vita di una notizia falsa è molto più breve rispetto a quello di una notizia vera. È tempo, quindi, che gli stessi superino la perenne mediazione nelle scelte da compiere e, sia pure nel rispetto dell’avversario, sostengano fino in fondo le proprie idee convenendo, tuttavia, nella individuazione dei nemici comuni tra i quali, forse il più insidioso, è la disinformazione. Il politico del futuro, nelle società democratiche, deve combattere la distorsione della verità che manipolando l’opinione pubblica genera, per dirla con Karl Marx, una “falsa coscienza”, e garantire la verità dei fatti sulla cui base potranno essere assunte le decisioni ed i provvedimenti più in linea con le effettive esigenze delle persone e della società. Migranti. L’Europa si spacca, i Paesi del Nord: “Pericoloso fare patti con Libia e Tunisia” di Marco Bresolin La Stampa, 24 marzo 2023 I dubbi della Germania: “Il rispetto dei diritti umani deve essere al centro della cooperazione”. La premier italiana lancia l’allarme: “Il collasso di Tunisi potrebbe provocare 900 mila rifugiati”. È giusto aumentare la cooperazione con Libia e Tunisia per cercare di frenare le partenze dei migranti, ma “il rispetto dei diritti umani deve essere al centro di questa cooperazione”. La questione si sta facendo sempre più largo tra i governi europei, soprattutto quelli del Nord, preoccupati che l’Ue - anche su spinta dell’Italia - finisca per stringere patti col diavolo. Un timore che diverse delegazioni dei Paesi Ue hanno sollevato nelle riunioni dei gruppi di esperti e che sono state poi raccolte in un’analisi effettuata dai servizi del Consiglio. La questione del rispetto dei diritti umani - relativa alla svolta autoritaria del presidente tunisino Kais Saied, ma soprattutto alla situazione in Libia - è stata sollevata tra gli altri anche dal governo tedesco. E a Bruxelles ci sono diverse perplessità anche sull’intenzione di consegnare altre due motovedette alla guardia costiera libica, come indicato nella lettera di Ursula von der Leyen, perché non è chiaro come verranno utilizzate. Su questo anche il Parlamento europeo aveva più volte espresso dubbi. Le attività di ricerca e soccorso di Tripoli e Tunisi lasciano infatti molto a desiderare, come dimostrano le ultime due tragedie: quella di dieci giorni fa al largo delle coste libiche e quella di mercoledì notte a poche miglia dalla costa tunisina, dove già si contano 7 vittime (tra cui quattro bambini e un neonato) e una ventina di dispersi. Il governo italiano sta cercando di ottenere la sponda della Commissione per un intervento deciso in Tunisia, soprattutto per cercare di sbloccare il maxi-prestito da 1,9 miliardi di dollari del Fondo monetario internazionale, e la commissaria Ylva Johansson ha confermato che andrà a Tunisi con Matteo Piantedosi. Ma non è ancora chiaro se ci sarà anche il suo collega francese. “Ci stiamo lavorando” ha spiegato la commissaria. La questione immigrazione continua dunque a dividere i Paesi europei, anche se alla fine è arrivato il via libera alle poche righe di conclusioni che invitano a una “rapida attuazione” dei punti discussi a febbraio, ma se ne riparlerà a giugno. L’obiettivo iniziale di ieri era di relegare la questione a un punto informativo della Commissione, all’ora di cena si è aperto un mini-dibattito al tavolo del Consiglio europeo, durante il quale i dieci leader che hanno preso la parola hanno espresso i loro diversi punti di vista. Per Giorgia Meloni c’è il rischio che un crollo della Tunisia possa portare a una “catastrofe umanitaria con oltre 900 mila rifugiati”. Poi ha preso la parola l’olandese Mark Rutte, che si è detto d’accordo con Meloni sulla necessità di proteggere le frontiere esterne e di lottare contro i trafficanti, ma è tornato a insistere sul rispetto delle regole di Dublino per frenare i movimenti secondari, tema che vede l’Italia sul banco degli imputati. “Dobbiamo evitare una frattura tra i Paesi di primo ingresso e quelli che li ricevono” ha avvertito il premier spagnolo Pedro Sanchez, mentre il presidente bulgaro Rumen Radev ha ribadito la richiesta di fondi Ue per finanziare la costruzione della barriera al confine con la Turchia, ma anche per acquistare sistemi di sorveglianza. Il polacco Mateusz Morawiecki, in grande sintonia con Meloni, ha sottolineato che i Paesi più esposti dovrebbero avere più fondi, mentre per Viktor Orban la ricetta è sempre e solo la stessa: “No migranti, no gender e no guerra”. Come rivelato ieri da La Stampa nell’edizione online, il Consiglio ha effettuato un’analisi molto critica nei confronti della lettera di Ursula von der Leyen contenente un rapporto sulle azioni sin qui intraprese e su quelle programmate sul fronte immigrazione. Sullo stanziamento di fondi, l’analisi del Consiglio punta il dito contro la lettera di von der Leyen, che non offrirebbe garanzie sull’utilizzo di risorse aggiuntive. E mette in luce anche le divisioni tra i governi sulla recente proposta della Commissione sul riconoscimento reciproco delle procedure di rimpatrio, che piace a Italia e Grecia, ma non a molti altri, come Francia, Ungheria e Paesi Bassi. Gli aspetti relativi alla questione immigrazione sono stati affrontati lateralmente anche durante la sessione iniziale del Consiglio europeo con il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres. Ma con il portoghese il confronto si è concentrato soprattutto sul dossier Ucraina. Nel primo pomeriggio c’è stato un video-collegamento con Volodymyr Zelensky. Secondo il presidente c’è il rischio che i ritardi relativi alla consegna delle armi e ai nuovi pacchetti di sanzioni possano causare un prolungamento della guerra. Migrazioni e non solidarietà Ue. Alla radice delle chiusure di Maurizio Ambrosini Avvenire, 24 marzo 2023 È in corso l’atteso Consiglio europeo a Bruxelles, a cui Giorgia Meloni ha richiesto per l’ennesima volta adesione alla sua linea dura e al tempo stesso “ridistributiva” sull’annoso e dolente dossier viaggi della speranza (e, purtroppo, della morte), approdi mediterranei, richiedenti asilo e rifugiati. In realtà il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, ha annunciato soltanto un “breve aggiornamento” sulla questione. Già questa differenza di enfasi rivela la scarsa sintonia tra l’agenda italiana e le priorità europee che, come s’è subito visto ieri, sono soprattutto concentrate sulla guerra d’Ucraina e altri nodi economico-finanziari. Regna, insomma, l’incertezza sugli effettivi avanzamenti decisionali, al di là del retorico riconoscimento dell’importanza del dossier migrazioni. Le richieste italiane sono fondamentalmente un manifesto sovranista, quello annunciato alla Camera dalla premier prima della partenza: “Prevenire le partenze irregolari, arginare il traffico di esseri umani, dedicare adeguate risorse finanziarie, collaborare con i principali Paesi di origine e transito dei migranti, aumentare i rimpatri, incentivare la migrazione legale e i corridoi umanitari”. A parte l’ultimo punto, su cui il governo italiano in realtà ha soltanto previsto un (allo stato) modesto aumento degli ingressi per lavoro, la linea è quella della chiusura, dei respingimenti, della delega del lavoro sporco di contrasto delle partenze ai Paesi di transito, in modo particolare a quelli rivieraschi. Ancora una volta, Meloni ha poi rilanciato la leggenda dell’Italia “campo profughi d’Europa”: un’affermazione contraddetta dai dati reali, certificati da Eurostat, secondo cui nel 2022 la Germania ha ricevuto 218.000 richieste d’asilo, la Francia 137.000, la Spagna 116.000, l’Italia 77.000. I richiedenti asilo non arrivano soltanto dal mare. Sbagliato ed enfatico anche parlare di un’emergenza senza precedenti. Nel 2015 e 2016 nella Ue le richieste di asilo hanno superato il milione, a causa soprattutto della guerra in Siria e della fuga di chi poteva da quel martoriato Paese. E allora l’accoglienza fu garantita soprattutto dai tedeschi. Quanto alla riforma delle Convenzioni di Dublino, l’ostacolo principale è rappresentato dai governi del gruppo di Visegrad, che l’attuale governo italiano e il suo principale partito, Fratelli d’Italia, considerano come i loro migliori alleati. Si tratta di una contraddizione insanabile. È soprattutto a causa loro che la Ue non è riuscita finora ad andare oltre il concetto di “solidarietà volontaria” nell’accoglienza condivisa dei profughi. Se qualcosa si muove nel senso desiderato dal governo italiano, è sul fronte Nato. Qui il segretario dell’Alleanza, Stoltenberg, alla vigilia del vertice di Bruxelles ha raccolto l’assist del ministro Crosetto, dicendosi disponibile a inviare navi Nato nel Mediterraneo per presidiare le acque, come già nell’Egeo. La Nato rafforza così il suo ruolo in Europa. Lo scenario di guerra disegnato dal segretario dell’Alleanza atlantica, mettendo insieme la presenza crescente del gruppo Wagner in Africa, l’instabilità della Tunisia, l’invasione dell’Ucraina, è eloquente e insieme inquietante: barche cariche di profughi disarmati, tra cui donne e bambini, in fuga da paesi come Siria e Afghanistan, diventano minacce esiziali per l’Europa, da contrastare ricorrendo alle navi da guerra. Viene da commentare: se non lasciasse presagire esiti tragici, sarebbe un discorso ridicolo. A questa umanità dolente viene negata non solo la libertà di restare nella propria terra, ma anche la libertà di partire e di raggiungere un luogo sicuro in cui ripartire, offrendo un futuro ai propri figli. Dire che si ammettono solo ingressi legali, quando ne sono esclusi nonostante le dichiarazioni formali, proprio i Paesi in guerra o sotto regimi oppressivi, è un malcelato travestimento di una politica delle porte chiuse verso chi avrebbe bisogno di essere accolto. E intanto dei più volte annunciati nuovi e stabili corridoi umanitari non si vede traccia. Si continua con il benedetto, ma intermittente e limitato, impegno di cui d’intesa con lo Stato si fanno meritoriamente (ed ecumenicamente) carico realtà cristiane, cattoliche ed evangeliche, del nostro Paese. Il reato “universale” di maternità surrogata è impossibile da applicare di Giulia Merlo Il Domani, 24 marzo 2023 Fratelli d’Italia punta ad approvare una proposta di legge che rende la gpa un reato universale. Tuttavia la nozione difficilmente regge davanti alle regole di diritto internazionale: non si può condannare qualcuno per un comportamento commesso fuori dai confini nazionali e dove è considerato legale. Fratelli d’Italia continua la sua battaglia contro la maternità surrogata e ha incardinato in commissione Giustizia alla Camera una proposta di legge per renderla “reato universale”. L’esame del provvedimento inizierà la prossima settimana ma, dal punto di vista giuridico, il progetto poggia su presupposti molto fragili e a rischio incostituzionalità. Il reato universale - A livello generale, perchè un comportamento venga perseguito penalmente, deve essere stato commesso nello stato in cui è reato. Questo vale soprattutto in Italia, dove il codice penale all’articolo 6 prevede che solo chi commette un reato nel territorio dello stato è punito secondo la legge italiana. Secondo l’articolo 7, invece il cittadino o lo straniero che commettono all’estero un reato sono puniti secondo la legge italiana solo in casi eccezionali: delitti contro la personalità dello stato; contraffazione del sigillo dello stato; falsità di monete; delitti commessi da pubblici ufficiali e reati per i quali disposizioni speciali o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge italiana. In altre parole, quindi, in Italia si possono punire le condotte avvenute dentro i confini nazionali ed esiste solo una ristrettissima casistica che vi deroga. Dunque, la nozione di reato universale nel nostro ordinamento non è prevista. La giurisdizione penale universale - Esiste poi una giurisdizione penale universale, che prevede che uno stato estenda la propria iniziativa penale anche per perseguire crimini commessi fuori dai propri confini. La sua applicazione, però, è molto ristretta e prevede una lista composta da pochi e gravissimi delitti: genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità. Questi reati, talmente odiosi da essere considerati comunemente riconosciuti come da perseguire a prescindere da dove sono stati commessi, sono perseguiti dalla Corte penale internazionale. Tuttavia anche alcuni stati ritengono di considerarli reati da condannare nei propri tribunali, a prescindere dal fatto che esista un collegamento diretto territoriale con il luogo in cui sono stati commessi. È in caso della Germania, che ha introdotto il principio della giurisdizione universale recependo il codice dei crimini internazionali del 2002, adeguando l’ordinamento tedesco allo Statuto di Roma su cui poggia la base giuridica della Corte penale internazionale. Grazie a questo, la Germania può esercitare la propria giurisdizione con riferimento ai crimini internazionali previsti dallo Statuto, indipendentemente dal luogo di commissione o dalla presenza del reo o della vittima sul territorio tedesco. Non è invece il caso dell’Italia. Il caso della maternità surrogata - La proposta di legge di FdI punta a inserire il reato di maternità surrogata come “universale”, aggiungendolo alla lista di deroghe previste dall’articolo 7 del codice penale. Tuttavia, si tratta di una soluzione di fatto inapplicabile dal punto di vista del del diritto penale, sia interno che internazionale. Proprio queste critiche sono state mosse dal terzo polo, con Enrico Costa che ha definito “incostituzionale” il progetto di FdI e dal Pd, con la presidente del gruppo, Debora Serracchiani secondo cui il pdl “tecnicamente non sta in piedi”. La maternità surrogata è infatti già un reato se viene praticata in Italia ed è punita con una pena pecuniaria molto alta (da 600 mila a un milione di euro) e la detenzione da tre mesi a due anni. L’elemento determinante che rende inapplicabile la nozione di universalità che piace a Fratelli d’Italia, è che la gestazione per altri è legale in molti stati anche europei. Di conseguenza, è incongruo che un comportamento che viene compiuto in uno stato dove questo è legale, venga poi perseguito da un tribunale italiano. Gli unici casi in cui una incriminazione in Italia potrebbe avvenire, infatti, sono quelli in cui scatta la cosiddetta “doppia incriminabilità”: ovvero se il fatto è previsto come reato sia nello stato in cui viene commesso che nello stato che intende perseguirlo. Nel caso della gpa, sarebbe perseguibile in Italia solo se questa venisse praticata in uno stato in cui è reato farla. A stabilirlo è stata, da ultimo, una sentenza della Cassazione del 2016 e ha prodotto l’archiviazione di tutti i procedimenti a carico dei genitori “intenzionali” per l’ipotesi di reato di alterazione dello stato civile. Secondo la Corte, infatti, il certificato di nascita con entrambi i nomi dei genitori che si forma all’estero dove la gpa è legale non può essere considerato falsificato. Una previsione come quella proposta da FdI, dunque, rischia di essere incostituzionale perché contraria alle norme del diritto internazionale a cui la Costituzionale prevede che il nostro ordinamento si adegui. Tra queste, anche la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, visto che la Corte di Strasburgo ha ripetutamente affermato che la disciplina della maternità surrogata rientra nell’ampio margine di discrezionalità legislativa degli Stati, soprattutto in ragione delle differenze di regolazione tra i diversi Paesi e del mancato raggiungimento in sede di Consiglio d’Europa di un consenso allargato sulla materia.