Lo scandalo del carcere unisce destra e sinistra di Carmine Fotia Il Domani, 23 marzo 2023 La condizione inumana delle carceri è una sorta di afflizione aggiuntiva alla pena che si abbatte su una popolazione in prevalenza composta da persone fragili, disagiate, povere, scrive Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio. Cinquantasette mila detenuti, quasi due terzi dei quali per reati legati all’immigrazione clandestina, alle tossicodipendenze, alla salute mentale a fronte di una disponibilità reale di circa 47mila posti; le numerose condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo e i richiami della Corte costituzionale; 84 suicidi nel 2022, il dato più alto da dieci anni. Ecco la carta d’identità delle carceri italiane, luogo di dolore e afflizione, assai lontane dall’idea di pena prevista dalla costituzione italiana che deve tendere al recupero del detenuto e ne deve salvaguardare l’integrità. Tutto questo fa dire a Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio (Le pene e il Carcere, Mondadori Università, si intitola il suo ultimo bel libro) che il carcere è diventato “una grande discarica sociale, una sorta di ospizio per i poveri dove rinchiudiamo le persone che ci pongono problemi che andrebbero risolti in tutt’altro modo. Durante la pandemia le restrizioni del carcere erano in qualche modo collegate ai sacrifici dell’intera società e potevano apparire in qualche misura più sopportabili. Oggi, il mondo di fuori è ripartito ma le condizioni delle carceri italiane sono rimaste quelle di prima. E ciò ingenera disperazione: la spia è l’impressionante aumento dei suicidi”. Situazione disumana - La drammatica e inumana condizione delle carceri italiane è una sorta di afflizione aggiuntiva alla pena che si abbatte su una popolazione in prevalenza composta da persone fragili, disagiate, povere. Degli 84 suicidi 33 erano persone con fragilità sociali o personali, ovvero persone con disagi psichici o senza fissa dimora; 49 si sono uccisi nei primi sei mesi di detenzione; 21 nei primi tre mesi;15 nei primi dieci giorni; 9 nelle prime 24 ore; 5 sarebbero stati liberi entro un anno; 39 avevano una pena residua inferiore a tre anni; soltanto 4 avevano una pena residua di più di tre anni e uno doveva scontare 10 anni. 50 delle persone detenute che si sono uccise erano italiane e 34 straniere, di cui 18 senza fissa dimora. Nove avevano tra i 18 e i 25 anni e tre più di 70 anni. 33 detenuti erano in carcerazione preventiva e sette in attesa del processo d’appello: “È il vuoto a caratterizzare ancora troppe carceri italiane: la dimensione di un tempo che scorre inutilmente semplicemente sottratto alla vita che non riesce a diventare un’opportunità di crescita di cambiamento, e poi reinserimento costruttivo per i detenuti, come ci chiede la Costituzione”, ha detto commentando il record dei suicidi Daniela de Robert, dell’ufficio dell’Autorità del Garante nazionale dei detenuti. Non si tratta solo di sovraffollamento o degrado perché alcuni “non avevano fatto in tempo neppure ad essere immatricolati perché si sono uccisi subito. Non è il sovraffollamento o il carcere degradato a spingere le persone a gesti estremi, ma la disperazione: quella sensazione terribile di chi entra in carcere e pensa: “da qui non riemergerò mai più”, ha aggiunto. Una gara oscena - L’ex pm Carlo Nordio, prima di diventare ministro diceva: “Il sistema carcerario è incompatibile con la rieducazione, perché troppo brutale. Le sue strutture edilizie e le condizioni inumane sono al limite della tolleranza, sono una vergogna della nostra pretesa giuridica”. Lo scorso ottobre, da ministro, ha parlato dei suicidi all’interno delle carceri, definendoli “una drammatica emergenza, una dolorosa sconfitta per ciascuno di noi e la conferma della necessità di occuparci da vicino del mondo penitenziario”. Il carcere, diceva Nordio “per me è una priorità assoluta: riconosco il grande impegno di chi mi ha preceduto e dell’amministrazione penitenziaria, che ha diffuso anche una circolare specifica sul tema dei suicidi. Molteplici possono essere le cause e i problemi dietro questo drammatico record: le urgenze del carcere - compresa la necessità di rinforzare gli organici di tutto il personale - saranno una delle mie priorità”. Mentre attendiamo che il ministro dia seguito alle sue buone intenzioni, la discussione pubblica italiana sulle condizioni delle carceri è diventata una oscena gara tra chi propone più durezza, non più umanità. La reazione a Cospito - È successo nel caso Cospito, l’anarchico in sciopero della fame da quasi quattro mesi contro il 41 bis, la norma che prevede una serie di durissime restrizioni per evitare che i capi mafiosi continuino a comandare dal carcere. Chiunque invitasse a riconsiderare l’applicazione di quella norma anche ad accusati di reati gravi, come quelli dei quali è imputato Cospito, ma che nulla hanno a che fare con le modalità tipiche dell’organizzazione mafiosa, è stato indicato dalla destra come un complice dei terroristi e dei mafiosi. Inutile obiettare che lo stesso procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo ha aperto alla possibilità di una diversa forma di detenzione per Cospito o che lo stesso procuratore generale della Cassazione ne aveva chiesto la revoca. Sulla base, forse, della considerazione che l’organizzazione anarchica per sua natura è l’opposto della organizzazione mafiosa: un magma autorganizzato che non riconosce capi la prima, un’organizzazione verticistica che s’incardina sul comando verticale dei capi la seconda. E che quindi misure come il 41 bis, se sono efficaci contro i mafiosi non lo sono contro gli anarchici. Cospito è diventato così non una persona concreta in pericolo di vita ma il simbolo astratto della ferocia dello stato. È questa simbolizzazione, e non i presunti ordini del capo dalle carceri a fomentare la radicalizzazione del conflitto. La vicenda si sta ora avvicinando a un tragico esito: dopo che il 24 febbraio la corte di Cassazione ha confermato il carcere duro, l’anarchico ha annunciato che non assumerà più gli integratori che gli avevano con sentito di resistere nel suo lunghissimo sciopero della fame che intende condurre fino alle estreme conseguenze: “Presto morirò”, ha detto. “Con la decisione della Cassazione”, dice Anastasia, “la questione giudiziaria dell’applicazione del 41 bis ad Alfredo Cospito è sostanzialmente chiusa, almeno nel breve periodo dettato dal suo sciopero della fame. Resta però l’anomalia di una misura pensata per i capi di rigide organizzazioni criminali e applicata a un esponente di una non-organizzazione ideologicamente senza capi. Contro la prospettiva infausta della morte in stato di detenzione di un uomo in sciopera della fame ora resta solo l’arma della politica: prendere sul serio le critiche che da più parti sono venute in queste settimane all’abuso del 41 bis (è lecito dubitare che persone in sostanziale isolamento da dieci, 20 o 30 anni siano ancora in condizione di dare ordini a qualcuno) e agli abusi nel 41 bis (le inutili limitazioni nella vita quotidiana dei detenuti che nulla hanno a che fare con le finalità di prevenzione del regime), critiche che originano da sentenze della Corte europea dei diritti umani e della Corte costituzionale, da rapporti del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dal Garante nazionale dei detenuti, e lavorare alla sua riforma, per la sua riconduzione alle strette necessità che lo giustificano”. Il garantismo latita - La destra, dunque, messe da parte le sbandierate intenzioni garantiste del ministro Carlo Nordio, vira sulle tradizionali politiche securitarie con misure come quelle su immigrazione e rave party mentre mantiene la legislazione proibizionista sulle droghe leggere e quindi alimenta proprio quel circuito devianza-carcere che è la causa della sovrappopolazione delle nostre carceri. Per la destra il garantismo vale solo per i potenti, per i poveracci carcere duro e buttare via la chiave. Ma anche nell’opposizione le voci autenticamente garantiste sono isolate e quelle giustizialiste guidate dal partito di Giuseppe Conte invece dominano il coro. Secondo Anastasia questa egemonia antigarantista nasce “dai presupposti giustizialisti su cui è nata la Seconda repubblica, molto meno attenta ai diritti della prima”. Non è un problema solo italiano. Entrata in crisi la funzione di coesione sociale e di riduzione delle diseguaglianze del welfare, spiega Anastasia, il neoliberismo ha scelto la strada delle politiche securitarie offrendo come sbocco alle insicurezze e alle paure dei cittadini la logica del capro espiatorio, la repressione e il carcere, invece che politiche sociali ed economiche in grado di risolvere i problemi dei ceti più svantaggiati. L’uso populista della giustizia non è tuttavia una prerogativa della destra: “Di sinistra si presenta l’uso populista della giustizia penale che si rivolge direttamente contro le élite che l’attore politico intende avversare, mentre di destra è quello che si indirizza contro soggetti marginali identificati come sostituti simbolici di quei poteri forti che impediscono l’esercizio della sovranità popolare”. Carcere, ancora tensioni. Il Dap: ora, si cambi rotta di Fulvio Fulvi Avvenire, 23 marzo 2023 Sarebbe l’undicesimo suicidio in carcere dall’inizio dell’anno. Sembrava essersi fermato il tragico vortice della morte che ha portato nel 2022 al record di 84 detenuti che si sono tolti la vita in cella. Ma l’altra notte nella Casa circondariale di Torino un recluso di 26 anni, italiano, si è inalato il gas di una bomboletta usata per alimentare un fornello rimanendo asfissiato. “Non è ancora chiaro, comunque, se si tratti delle conseguenze di uno sballo finito male oppure di un suicidio” afferma il segretario regionale piemontese del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria) il quale sottolinea come un detenuto su tre, nei 192 istituti penali italiani, abbia problemi di tossicodipendenza. Resta il fatto che questi dispositivi rappresentano un pericolo anche per chi deve vigilare all’interno dei penitenziari. Delle piccole bombe che potrebbero esplodere da un momento all’altro. “Si dotino le carceri di piastre elettriche per riscaldare il cibo dei detenuti” chiede il segretario generale del Sappe, Donato Capece, il quale rimarca ancora una volta che “le criticità operative del personale di polizia” dipendono dalla carenza di addetti specializzato che rende difficile la gestione delle situazioni più a rischio, come quelle dei reclusi con problemi psichici e di droga Intanto, ieri nel carcere di Viterbo, un agente è stato aggredito da un detenuto che lo avrebbe colpito al volto con un pugno mandandolo al pronto soccorso. Alla base del gesto ci sarebbe il ritardato cambio di una tv mal funzionante. Soltanto due giorni i fa i sindacati di categoria erano scesi in piazza, in città, per chiedere maggiori tutele e denunciare la carenza di personale. E Maurizio Orlandi della Cisl aveva denunciato “la gravissima carenza di personale che da molto tempo affligge l’organizzazione del lavoro” e “i continui eventi critici a danno degli operatori da parte della popolazione detenuta ormai diventate una consuetudine, detenuti psichiatrici presenti nella struttura”. I casi di Torino e Viterbo sono avvenuti proprio a ridosso del 206° anniversario della fondazione del Corpo di polizia penitenziaria che “per troppo tempo è stato dimenticato e lasciato al suo destino” ma “il ministero della Giustizia, il governo e il parlamento hanno, in questi mesi, invertito questo processo, fornendo sostegno e risorse in termini assai significativi” ha detto durante la festa che si è tenuta sulla terrazza del Pincio, a Roma, il capo del Dap Giovanni Russo. Il riferimento è alla politica di assunzioni in corso per colmare il forte divario tra i 36mila agenti in servizio e i quasi 42mila posti previsti in organico. Il bando di assunzioni è stato già varato. A scaldare il cuore dei poliziotti penitenziari è stato il messaggio del Capo dello stato, Sergio Mattarella. “Le donne e gli uomini del Corpo si trovano ad affrontare situazioni complesse, in un contesto di sofferenza e, spesso, di tensione, la professionalità, lo spirito di servizio e la dedizione con le quali operano, nelle criticità del sistema carcerario, li vedono contribuire in modo significativo alle finalità definite dalla Costituzione e dalle leggi dello Stato” ha scritto il presidente. Nell’occasione è intervenuto il ministro Guardasigilli, Carlo Nordio che ha proposto di “mettere a reddito le carceri più antiche che si trovano nei centri storici delle città, sul modello di Regina Coeli a Roma, per ricavarne i fondi con cui finanziare la costruzione di nuovi penitenziari più funzionali o per ristrutturare quelli esistenti”. L’infanzia negata ai figli delle detenute: ferma la legge per spostarli in case-famiglia di Serena Riformato La Stampa, 23 marzo 2023 Dopo i rinvii, l’impasse, le discussioni, la proposta di legge sulle madri detenute è pronta a essere discussa in aula alla Camera da lunedì. Tuttavia con un testo, per volontà della maggioranza, annacquato rispetto all’intento originario: impedire che i bambini fino a 6 anni si trovino a scontare con le mamme la pena in carcere o in strutture detentive, privilegiando invece i trasferimenti in case famiglie. Le modifiche di Fratelli d’Italia, secondo il relatore di minoranza Alessandro Zan, non solo “peggiorano il testo”, ma addirittura inaspriscono alcuni aspetti della normativa vigente: “Con uno degli emendamenti approvati con il voto contrario delle opposizioni - spiega il deputato Pd - verrebbe abolito anche il differimento della pena e le donne dovrebbero andare in carcere anche se incinte o con figli di meno di un anno, questa è per noi una cosa inaccettabile”. Un quadro reso ancor più restrittivo dall’articolo - anche questo firmato dalla deputata di FdI Carolina Varchi - che nei casi recidiva, cioè la maggior parte, farebbe scattare un ritorno automatico delle madri detenute negli Istituti a custodia attenuta (gli Icam), senza passare per la valutazione caso per caso del magistrato di sorveglianza. La prima versione della legge, presentata nella scorsa legislatura dall’ex deputato Pd Paolo Siani - e riproposta in questa a firma della capogruppo dem Debora Serracchiani - era stata approvata in prima lettura nel 2022 da tutte le forze politiche con l’astensione di Fratelli d’Italia. “Per noi la linea invalicabile è mai più bambini in carcere”, commenta il deputato Pd Federico Gianassi. “Auspichiamo - aggiunge - che nei prossimi giorni prevalgano ragione e sensibilità e siano accolte le modifiche che continuiamo a chiedere”. La relatrice di maggioranza Carolina Varchi, da parte sua, si dice pronta a discutere con le opposizioni perché eventuali ritocchi possano essere concordati in vista dell’aula. Secondo i dati del ministero della Giustizia aggiornati a fine febbraio, attualmente sono ventiquattro i bambini che vivono con le madri in istituti detentivi. Dal 2018 a oggi, Anna Catalano ha visitato e fotografato ognuna di queste strutture “per porre delle domande”, dice, “senza certezza delle risposte”. Cinque anni di conoscenza e osservazione riassunti nei ventisei scatti esposti fino al 9 aprile al Palazzo delle Arti di Napoli per la mostra “Senza colpe”. Una bambina vestita di rosa, in piedi su una sedia, cerca di guardare più in là di una finestra sbarrata. Un bambino di cui non vediamo il volto allunga un braccio verso l’esterno, stretto fra le inferriate. “Come fotografa ho cercato di mantenere un distacco emotivo - racconta Catalano - ma visita dopo visita era sempre più difficile, i bambini mi chiedevano di portarli via”. Altri flash: bimbi che saltano sul letto, qualche giocattolo, posti quasi normali finché l’occhio non raggiunge le sbarre. “I figli delle carcerate possono uscire dall’istituto a custodia attenuata nei fine settimana - spiega Catalano - ma vivono molto male l’obbligo di dover tornare nella struttura: quando rientrano da casa sono sottoposti a controlli e perquisizioni”. Vanno a scuola, ma sono segnati dalla diversità della loro condizione. “Uno dei bimbi a Milano - racconta ancora Catalano - non accetta di non poter ospitare i propri amichetti, in queste strutture è vietato. Ha trovato una scusa per i compagni: “mia mamma ha sempre mal di testa”. Fdi vuole in carcere le detenute madri con i figli, alla Camera è scontro con il Pd di Liana Milella La Repubblica, 23 marzo 2023 Gli emendamenti della meloniana Carolina Varchi stravolgono il testo approvato nella scorsa legislatura a Montecitorio e oggi riproposto dai Dem. Forza Italia ritira le modifiche e si accoda a FdI. Oggi lo show down in commissione. Lunedì il testo va in aula. “Mai più bambini in carcere” era lo slogan, ma Fratelli d’Italia sta facendo di tutto non solo per far rimanere dentro quelli che già ci sono - ben 24 con 21 madri al 23 febbraio, secondo le statistiche di via Arenula - ma anche per mandarcene di nuovi. Il Pd sale sulle barricate, oggi ci sarà lo show down in commissione Giustizia alla Camera, ma ormai la maggioranza ha votato gli emendamenti restrittivi rispetto al testo già approvato a Montecitorio ad aprile dell’anno scorso. I meloniani non si smentiscono mai. E anche se il presidente della commissione Giustizia Ciro Maschio di FdI vanta il prossimo arrivo in aula - lunedì 27 marzo - della legge sulle detenute madri, in realtà non c’è nulla di cui gioire, salvo che la maggioranza non ammetta la realtà, e cioè una decisione controcorrente e un errore storico rispetto a quello che qualsiasi giurista sostiene, e cioè che un bimbo non può nascere in carcere e non può restarci appena nato subendo una pena che non ha meritato. Ma tant’è. Sono proprio gli emendamenti della meloniana Carolina Varchi - avvocata, vice sindaca di Palermo, la città dov’è nata - a stravolgere la proposta di legge, in quota opposizione, firmata dalla capogruppo del Pd Debora Serracchiani. Ovviamente il Pd protesta e Alessandro Zan dichiara che le modifiche introdotte “peggiorano non solo il provvedimento, ma anche la legge attualmente in vigore che noi invece volevamo migliorare”. Stiamo parlando dunque di un netto passo indietro. Non solo rispetto alla legge attualmente in vigore, quella approvata nel 2011, per cui le detenute madri scontano la pena con i loro figli negli Icam, gli istituti “a custodia attenuata” che furono istituiti proprio a seguiti di quella legge. Ma - come denuncia il Pd - in presenza di una recidiva la donna incinta o con un figlio piccolo che ha ottenuto di non andare in carcere verrebbe di nuovo messa a scontare la pena negli Icam. Senza neppure consentire che a decidere sia il magistrato di sorveglianza. Ma non basta ancora. Perché mentre la legge in vigore prevede la possibilità di differire la pena, cioè di rinviarla se la donna è incinta oppure se ha un figlio molto piccolo, con gli emendamenti Varchi tutto questo sparisce e - come dice Zan - “il differimento della pena verrebbe abolito e le donne dovrebbero andare in carcere, “una cosa per noi inaccettabile”. Ma guardiamo le statistiche di via Arenula ferme al 23 febbraio, da cui risulta che sono 21 le detenute madri con 24 figli al seguito recluse. Nove si trovano in Campania con 11 figli, due nel Lazio con due figli, cinque in Lombardia con cinque figli, due in Piemonte con due figli. E ancora ci sono una madre in Puglia con un figlio, una in Umbria con un figlio, una in Veneto con due figli. Ma rivediamo il film di questa ennesima stretta del centrodestra sui diritti minimi delle donne. Il Pd si batte in commissione per il testo Serracchiani, che vede anche il pieno appoggio di Enrico Costa di Azione, che aveva presentato lo stesso testo. Il Pd è convinto che non possano insorgere problemi, anche perché l’anno scorso la Camera ha già approvato lo stesso testo che adesso è diventato un punto di forza dei Dem. Invece ecco la sorpresa. Un mese fa Carolina Varchi, che è la relatrice del provvedimento, presenta una serie di emendamenti molto restrittivi che di fatto annullano lo spirito stesso della legge. Forza Italia, con Tommaso Calderone, presenta all’opposto modifiche che ampliano le maglie del provvedimento in senso garantista. Ma di fronte alla stretta di Varchi, Calderone fa un passo indietro e ritira i suoi. Venti giorni fa il Pd protesta e dice chiaramente che non accetta modifiche al testo che rappresentano una marcia indietro rispetto a quello già approvato in aula. Con gli emendamenti Varchi - di fatto - la proposta del Pd viene svuotata, viene colpito al cuore lo spirito stesso della proposta. Carolina Varchi riformula i suoi emendamenti, ma la stretta resta tutta, madri di nuovo in carcere soprattutto in caso di recidiva. A questo punto, ieri, il Pd vota contro perché la legge viene di fatto affossata. Al punto che mentre oggi, per una donna incinta o con un figlio piccolo è possibile il differimento della pena, con la proposta Varchi la donna e suoi figlio finiscono subito in carcere a scontarla. Oggi siamo alla stretta finale e il Pd si appresta, se la situazione non cambia, a non votare il mandato al relatore. Come dice il capogruppo del Pd Federico Gianassi “non possiamo portare in aula un provvedimento peggiore di quello che regola la situazione attuale”. Strappo di Fdi sui bimbi in carcere: la commissione della Camera depotenzia la legge di Federica Olivo huffingtonpost.it, 23 marzo 2023 La proposta aveva ottenuto l’urgenza: prevedeva che le donne costrette a tenere i figli con sé potessero scontare la pena in una casa famiglia. Arriva il via libera, ma gli emendamenti escludono la possibilità per chi è recidiva. Il Pd insorge: “Così stravolgono il testo”. La legge sulle detenute madri con figli al seguito va avanti, ma il patto con le opposizioni è stato rotto. E ne esce fuori un testo fortemente depotenziato. In commissione giustizia alla Camera è stato dato un primo via libera alla proposta di legge che dovrebbe - o meglio, avrebbe dovuto - fare in modo che nessun bambino trascorra mai più un pezzo di infanzia in cella con la sua mamma. Al 28 febbraio le donne in carcere o in un istituto a custodia attenuata con i figli al seguito erano 21. I bambini, invece, 24. E con i reati commessi dalle madri non c’entrano nulla. La proposta di legge arriva da una lunga battaglia portata avanti nella scorsa legislatura da Paolo Siani, ex deputato del Pd, per far scontare la pena - salvo casi particolarmente gravi - non in carcere, non in un istituto a custodia attenuata - che comunque a un carcere somiglia - ma in una casa famiglia protetta. Strutture che gli enti locali devono premurarsi di costruire, perché ad oggi ce ne sono due in tutta Italia. E che questa legge, a differenza della precedente, si premura anche di finanziare. Nella scorsa legislatura il disegno aveva ottenuto il via libera alla Camera, ma si era arenato al Senato, complice anche la caduta del governo. Riproposto dal Pd, ha ottenuto l’urgenza, ed è stata immediatamente calendarizzato in commissione. Il patto non scritto era quello di approvare il testo com’era ma, sorpresa, Fratelli d’Italia ha presentato emendamenti che, in particolare secondo i dem, svuotavano tutto del suo senso principale. Dopo una serie di rimostranze - tra cui alcune dichiarazioni di Alessandro Zan e Debora Serracchiani fatte durante la Giornata della donna - FdI aveva chiesto un rinvio. Le opposizioni speravano in un ripensamento che, però, non è arrivato: “Non ritiriamo gli emendamenti”, diceva già stamattina ad HuffPost Carolina Varchi, di FdI, che ora del provvedimento sarà relatrice. Gli emendamenti sono stati riformulati, ma non al punto da convincere le opposizioni. “Abbiamo votato contro perché non ci sembrano migliorativi, insistono nella volontà di stravolgere il testo”, spiega ad HuffPost Debora Serracchiani, capogruppo dem e componente della commissione giustizia. Cosa sia questo stravolgimento lo spiega Alessandro Zan, che della proposta di legge è stato relatore in commissione: “Le questioni sono due - ci racconta in Transatlantico, subito dopo la fine della seduta della commissione - innanzitutto viene previsto un automatismo in forza del quale se la detenuta madre è recidiva, non potrà scontare la pena in una casa famiglia protetta. Non si lascia alcuno spiraglio per la valutazione caso per caso del giudice. In secondo luogo, poi, un emendamento di FdI vuole fare in modo che una donna incinta o con un bambino molto piccolo, se recidiva, non possa usufruire del differimento della pena, come previsto dall’articolo 146, ma vada comunque in carcere o in Icam. Questo per noi è inaccettabile”. Si tratta, a ben vedere, di quanto già ventilato dalla Lega appena ieri: “La vita nascente va sempre tutelata, ma non può rappresentare un alibi. La cronaca recente dimostra che numerose borseggiatrici sfruttano il loro stato di gravidanza per sottrarsi all’esecuzione penale. Tutto questo è inaccettabile. Per questo proponiamo una modifica dell’articolo 146 del codice penale, che consenta al magistrato, qualora debba essere eseguita una sentenza nei confronti di una donna incinta, di intervenire per interrompere un’eventuale catena di reati, assegnando la condannata ad una casa famiglia protetta ovvero ad un istituto di custodia attenuata per detenute madri”, ha dichiarato il sottosegretario leghista alla Giustizia, Andrea Ostellari. Il testo, in ogni caso, andrà in Aula già lunedì. Domani dovrebbe essere votato il mandato al relatore. FdI, comunque, si dice disponibile a eventuali ritocchi durante la discussione in plenaria. Soddisfatto il presidente della commissione giustizia, Ciro Maschio, di FdI: “Esprimo apprezzamento per il lavoro di confronto e mediazione tra maggioranza e opposizione che avevo favorito e che ha consentito di superare alcune criticità e sbloccare la proposta per l’Aula. Permangono alcune divergenze su cui ci potrà essere confronto in Aula, ma va dato atto alla maggioranza di aver consentito che questa proposta in quota opposizione arrivasse in Aula anziché subire un rinvio”. Bimbi nelle carceri con le mamme, appello alla Camera dei deputati vita.it, 23 marzo 2023 L’iniziativa, sostenuta da 14 associazioni, da 4 garanti dei diritti delle persone private della libertà e dal presidente della Conferenza dei garanti territoriali, è rivolta al presidente e ai componenti della commissione Giustizia, affinché venga ripristinato lo spirito originario della proposta di legge d’iniziativa dei deputati Serracchiani, Costa, Di Biase, Casu e Furfaro. Il modello alternativo? Il sistema delle Case famiglia protette. Liberare i bambini detenuti nelle carceri a seguito delle mamme. È l’appello rivolto al presidente e ai componenti della commissione Giustizia della Camera dei deputati, affinché venga ripristinato lo spirito originario della proposta di legge d’iniziativa dei deputati Serracchiani, Costa, Di Biase, Casu e Furfaro. L’iniziativa è di Cittadinanzattiva e “A Roma Insieme - Leda Colombini”, con la sottoscrizione di altre dodici organizzazioni civiche e di volontariato attive sul tema dei diritti dei detenuti (A Buon diritto Onlus, Bambini senza sbarre Onlus, Ciao Onlus, Conferenza nazionale volontariato giustizia, Conferenza regionale volontariato giustizia Lazio, La gabbianella e altri animali Aps, Associazione Loscarcere, Movimento No Prison, Redazione Ristretti Orizzonti, Associazione Sbarre di zucchero, Terre des Hommes Italia, Associazione 21 luglio), nonché di quattro garanti dei diritti delle persone private della libertà e del presidente della Conferenza dei garanti territoriali. Attualmente la proposta di legge “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e alla legge 21 aprile 2011, n. 62, in materia di tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori” è ferma alla commissione Giustizia della Camera dei deputati, in seguito alla presentazione di una serie di proposte di emendamenti: una situazione, come si legge nell’appello, “estremamente preoccupante, sia perché rischia di aprire una nuova fase di stallo sul provvedimento, sia perché gli emendamenti depositati depotenzierebbero l’intero impianto della proposta di legge, contraddicendone finalità e motivazioni”. La proposta di legge è nata su iniziativa dell’ex deputato Paolo Siani. Nella scorsa legislatura non aveva completato l’iter di approvazione a causa della caduta del Governo Draghi. Ora si inserisce in un percorso “di proficua e positiva collaborazione tra Parlamento ed organizzazioni della società civile, contrassegnato da una grande spinta e valenza civica che non ha mai avuto bandiere”, come sottolinea una nota di Cittadinanzattiva. “Introduce misure efficaci e ragionevoli, rimuovendo anzitutto ostacoli e limiti - di natura economica e giuridica - presenti nella normativa vigente che continuano ad alimentare il fenomeno dell’incarcerazione dell’infanzia e a produrre nuovi ingressi di bambini in carcere al seguito delle madri. Tra le più apprezzabili, le disposizioni rivolte a sostenere e promuovere il sistema delle Case famiglia protette come modello alternativo alle soluzioni detentive di madri e bambini, comprese quelle della detenzione negli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam). Da qui l’appello delle organizzazioni e dei vari soggetti che chiedono ai parlamentari di non fermare questo percorso e di recuperare lo spirito originario affinché il testo completi quanto prima l’esame in Commissione Giustizia, senza modifiche che ne tradiscano l’intento o esulino dalla esplicita finalità: ossia che i bambini e le bambine possano vivere i loro primi anni di vita con le madri, siano esse in attesa di giudizio o in esecuzione penale, in un ambiente non detentivo. Anastasìa: “Servono progetti e programmi di inserimento per le persone con dipendenza” garantedetenutilazio.it, 23 marzo 2023 Nuovi percorsi alternativi al carcere: le comunità di accoglienza s’interrogano sulle ipotesi normative del sottosegretario alla Giustizia Delmastro delle Vedove. Facilitare percorsi alternativi per l’uscita dal carcere, in particolare per le persone con problemi di dipendenza, senza trasformare però le comunità di accoglienza in surrogati degli istituti di pena né in carceri private. Lo ha ribadito il Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) in una conferenza stampa che si è svolta martedì 21 marzo nella sala stampa della Camera dei deputati. Il dibattito è nato dopo le dichiarazioni alla stampa del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, che ha proposto di trasferire i detenuti con dipendenze dalle carceri alle comunità in “stile San Patrignano”. All’incontro, al quale hanno partecipato realtà del terzo settore impegnate sul tema del carcere e delle dipendenze e alcuni parlamentari, è intervenuto anche Stefano Anastasìa, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio e Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali. “Esiste una normativa che prevede già ora l’affidamento in prova terapeutico per le pene fino a sei anni - ha ricordato Anastasìa - e che è pochissimo utilizzato, in modo particolare per chi proviene dalla libertà. Le persone con problemi di dipendenza vi accedono in gran parte dal carcere dal carcere, perché sono tendenzialmente giudicate inaffidabili in fase di prima valutazione dai magistrati che pure potrebbero concedere l’affidamento in prova dalla libertà per pene fino a sei anni. Si tratta, è bene ricordarlo, della carota che accompagnava il bastone della Fini-Giovannardi: c’era l’inasprimento delle pene e la possibilità di affidamento in prova ai servizi sociali. Ora speriamo che nella proposta Delmastro resti soltanto la parte della carota e non compaia solo una maggiore severità penale per chi evidentemente non incontra queste possibilità, riguardo alle conseguenze penali per l’infrangersi della possibilità che viene offerta. Le critiche che vengono mosse mi sembrano diciamo fondamentali ma superabili, riguardo ai percorsi di scelta che vanno fatti per la costruzione di alternative al carcere. Noi tutti vogliamo che le persone con dipendenza non stiano in carcere e siano accompagnati alle pene alternative. Ovviamente servono progetti e programmi di inserimento”. Ciò è stato sottolineato anche dalla presidente della Cnca, Caterina Pozzi. “Sappiamo quanto il carcere sia inadeguato e generatore di recidive - ha dichiarato nel corso della conferenza stampa - E’ dimostrata invece l’efficacia delle misure alternative alla detenzione nel ridurre fortemente la ripetizione di reati. Ma lavoriamo sul campo da oltre 40 anni e abbiamo la responsabilità di fare chiarezza rispetto a una comunicazione pericolosa. In particolare, ci troviamo a dover puntualizzare due aspetti: da una parte, vogliamo ricordare che esistono già normative che permettono pene alternative alla detenzione. C’è ancora tanta strada da fare per ampliare e rendere realmente attuabili tali misure. Inoltre, bisogna investire a livello economico per l’implementazione di queste buone prassi, costruire protocolli d’intesa tra i diversi attori in gioco (magistratura, sistema penitenziario, Serd, enti locali, enti del terzo settore), insomma occorre fare cultura su questo tema, anche con il coinvolgimento dei diretti interessati”. Per Pozzi, “il secondo aspetto è che le comunità non sono surrogati del carcere, ma sono strutture aperte e inserite sui territori. Riprodurre le logiche e l’organizzazione carceraria in strutture private non potrebbe far altro che ripetere e moltiplicare i fallimenti del carcere in questo difficile ambito”. Su circa 15.000 detenuti tossicodipendenti solo circa 3.000 hanno avuto accesso all’affidamento nel 2021, secondo i dati dalla Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia. Per il Cnca non si risolve il problema del sovraffollamento carcerario moltiplicando gli spazi di detenzione. “Educare, non punire, è la strada maestra. La proposta che abbiamo letto, invece, contiene una visione punitiva del tossicodipendente e non affronta le reali difficoltà delle carceri. Il Cnca e le realtà terapeutiche rifiutano il mandato contenitivo e di controllo. Rifiutiamo con forza la trasformazione delle comunità in carceri private. Il modello stile San Patrignano citato dal sottosegretario non ci rappresenta, non rappresenta le comunità terapeutiche, non lo rappresentava negli anni 80 e non lo rappresenta ora. Se la logica sarà solo contenitiva siamo pronti alla disobbedienza civile”, ha aggiunto Riccardo De Facci, consigliere nazionale del Cnca con delega alle dipendenze. Stop “umanitario” al 41 bis: l’ultima debole carta di Alfredo Cospito di Valentina Stella Il Dubbio, 23 marzo 2023 Il tribunale di Sorveglianza valuterà l’istanza venerdì: le condizioni attuali dell’anarchico in sciopero della fame sono compatibili con il carcere? Le condizioni attuali di Alfredo Cospito, in sciopero della fame dal 20 ottobre, sono compatibili con il carcere? È a questa domanda che dovranno rispondere i magistrati di sorveglianza milanesi Di Rosa e Anedda sollecitati da una istanza presentata dall’avvocato Flavio Rossi Albertini per chiedere il differimento della pena per motivi di salute. Il 24 marzo alle 9 ci sarà udienza e i due togati, affiancati da due esperti, avranno cinque giorni di tempo per depositare il provvedimento motivato, su cui si potrà, nel caso, presentare poi ricorso in Cassazione. Il Tribunale di Sorveglianza milanese dovrà prima di tutto valutare la incompatibilità o meno delle condizioni di salute dell’anarchico con il carcere, anche in relazione alle cure che possono essere praticate in regime di detenzione. Sappiamo bene che è possibile concedere i domiciliari anche ad un recluso in regime di 41 bis. Basti pensare alla vicenda di Pasquale Zagaria che fu mandato ai domiciliari durante la pandemia di Covid in quanto la sua patologia grave e qualificata (carcinoma papillifero della vescica) lo metteva in pericolo di vita se avesse contratto il virus. Tuttavia lo scoglio più duro da superare per la difesa di Cospito è il fatto che la situazione clinica in cui si trova sia stata autoindotta, proprio per la sua scelta di andare avanti col digiuno per mesi. E su quest’ultimo aspetto, riferisce l’Ansa, va considerato che la giurisprudenza ha già sancito che l’autoinduzione contrasta col principio del differimento pena. Il riferimento è ad una recente sentenza della Cassazione (Presidente Mogini, Relatore Liuni) del 23 febbraio scorso: “I trattamenti sanitari nei confronti del detenuto sono incoercibili ma, se potenzialmente risolutivi di condizioni di salute deteriori, in forza delle quali il detenuto medesimo chiede il differimento della pena o una misura alternativa alla detenzione, la loro accettazione si pone come condizione giuridica necessaria alla positiva valutazione della relativa richiesta”. Questo principio “risponde ad una evidente esigenza di non strumentalizzare le patologie di cui si sia portatori, in vista del risultato di ottenere il differimento della pena: invero, la condizione di sofferenza autoprodotta dal condannato, realizzata cioè mediante comportamenti come la mancanza di collaborazione per lo svolgimento di terapie e di accertamenti o il rifiuto dei medicamenti e del cibo, non può essere presa in considerazione ai fini del bilanciamento tra esigenze di salvaguardia dei diritti fondamentali ed obblighi di effettività della risposta punitiva, non potendosi pretendere tutela di un diritto abusato ed esercitato in funzione di un risultato estraneo alla sua causa”. Il caso riguardava il novantenne Benedetto Spera, boss di Belmonte Mezzagno, fedelissimo di Bernardo Provenzano che aveva fatto richiesta di differimento pena per le sue condizioni di salute fisica e mentale. La prima sezione della Cassazione ha respinto la richiesta perché, tra l’altro, il rifiuto delle cure - è stato lo stesso Spera a spiegare che non ritiene che gli interventi non avrebbero cambiato la qualità della sua vita carceraria - non è, per i giudici, “attribuibile ad ulteriore patologia mentale specifica di Spera, tale da non potersi considerare una scelta consapevole”. Tornando a Cospito, i giudici della Sorveglianza milanese dovranno arrivare nelle prossime ore, prima dell’inizio dell’udienza, i pareri sull’istanza della difesa da parte della Procura generale di Torino e della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, oltre a quello che verrà espresso con un intervento in aula dalla Procura generale milanese. I magistrati hanno chiesto pure approfondimenti sull’ultimo episodio di cui hanno parlato i difensori, ossia una sospetta crisi cardiaca. Qualora Cospito ottenesse il differimento della pena ci sarebbe la sospensione temporanea del 41 bis. In passato il suo legale ha riferito che il suo assistito non avrebbe voluto intraprendere questa strada perché non sarebbe la revoca vera e propria che lui chiede con il digiuno. Tuttavia, ci spiega Rossi Albertini, “Alfredo non sta affatto bene fisicamente. Ha una zoppia, ad esempio, e i medici gli hanno comunicato che non tornerà mai più a correre. A ciò si aggiunge un quadro clinico generale preoccupante. Se all’inizio di questa vicenda mi limitavo a sostenere le ragioni della sua protesta ora provo anche a salvargli la vita. Lui comunque sarebbe libero, qualora la nostra richiesta non fosse respinta, di rimanere ad Opera”. Rimangono in ogni modo valide le Dat che Cospito ha consegnato al suo legale dove sostiene di voler rifiutare l’alimentazione artificiale: “Io ho inviato - conclude Albertini - quelle disposizione all’amministrazione penitenziaria affinché le rispettino nel momento in cui fosse necessario farlo”. “Nordio ossessionato dai pm”: parla il segretario di Magistratura democratica di Ermes Antonucci Il Foglio, 23 marzo 2023 Stefano Musolino, segretario generale di Md, la corrente delle “toghe rosse”, replica alle dichiarazioni rilasciate al Foglio dal ministro della Giustizia: “Solo slogan. C’è tentativo di limitare l’indipendenza dei pubblici ministeri”. “Mi sembra che il ministro Nordio continui a parlare per slogan e che non abbia una visione organica di quella che secondo lui dovrebbe essere un’adeguata riforma del sistema giudiziario e del processo penale”. Così, intervistato dal Foglio, Stefano Musolino, segretario generale di Magistratura democratica, storica corrente delle toghe di “sinistra”, commenta l’intervista rilasciata pochi giorni fa a questo giornale dal Guardasigilli Carlo Nordio. Musolino (pubblico ministero a Reggio Calabria) non crede, innanzitutto, che sia realizzabile quanto proposto da Nordio per rafforzare la segretezza delle indagini (rendere gli atti segreti non più fino a quando l’indagato ne viene a conoscenza, ma fino a quando non viene fatta la richiesta di rinvio a giudizio o comunque non finisce l’indagine). “Un escamotage dialettico”, lo definisce il segretario di Md: “Il ministro Nordio sa bene, per la sua esperienza, che una volta che viene emessa una misura cautelare il controllo delle informazioni è sostanzialmente impossibile. È illusorio pensare che ci sia una norma che possa mettere fine alle fughe di notizie, a meno che non si stabiliscano forti sanzioni per i media che pubblicano questi atti, ma Nordio non ha in alcun modo accennato a questa eventualità. Per questo le sue parole non individuano una soluzione autentica”. “E poi - prosegue Musolino - immagini che in una città di 100 mila abitanti una notte vengano arrestate 10-15 persone. È giusto che nessuno sappia che cosa sia successo? Mi rendo conto che sulla tutela della segretezza un problema c’è, ma vorrei soluzioni che fossero capaci di confrontarsi con la realtà”. Non meno negativo il giudizio di Musolino sulle proposte di Nordio in tema di intercettazioni (limitarne la trascrizione a quelle in cui il reato è in atto). “Una gretta semplificazione”, dice Musolino: “Mi sembra strano che una persona che io stimo molto come il ministro, con l’autorevolezza professionale che lui ha, possa non sapere che tutte le intercettazioni che vengono utilizzate sono funzionali ad accertare il fatto. E un fatto va accertato anche in relazione ad aspetti e profili che non riguardano direttamente la consumazione del reato. L’intercettazione serve a ricostruire storicamente un fatto che è successo prima. Ci può essere, per esempio, qualcuno che parla di un evento, dell’esistenza di una relazione, di elementi che hanno un collegamento, a livello di argomentazione probatoria, con la consumazione del reato”. Non si può negare, però, che in alcune indagini si sia fatto uso di intercettazioni dal contenuto penalmente irrilevante, poi pubblicate sui giornali a danno della reputazione degli indagati. “Non nego che questo sia successo, anzi credo che siano errori che vadano stigmatizzati - replica Musolino - Il problema è che molto spesso non è ancora chiara quale possa essere la rilevanza di alcune intercettazioni, e quindi si tende ad ampliare il materiale probatorio”. Il segretario generale di Md, comunque, non boccia tutte le proposte avanzate da Nordio. Musolino si dice “d’accordissimo” sull’ipotesi di destinare la competenza sulle richieste di custodia cautelare non più al gip, ma a un organo collegiale come il tribunale del Riesame, anche se - sottolinea - “esiste un problema di risorse”. D’accordo anche sul ritorno a un sistema basato sulla prescrizione sostanziale: “L’improcedibilità è un problema peggiore del male. La prescrizione è un istituto sano, poi su quali debbano essere i tempi si può discutere”. “Il problema - afferma Musolino - è che il legislatore negli ultimi anni è stato divorato dalla malattia del panpenalismo, cioè la produzione di un numero clamoroso di reati. Non c’è il coraggio di intervenire con una depenalizzazione decisa, il processo penale diventa lo sfogo di una serie di inefficienze, in primo luogo amministrative, e c’è la tendenza di moltissime forze politiche di creare consenso sulla base delle paure sociali. Con l’illusione che creare più reati o aumentare le pene abbia un effetto inibitore, cosa assolutamente falsa”. Duro il commento, invece, sulle modifiche proposte in tema di valutazione dei magistrati, soprattutto i pm: “C’è una sorta di ossessione sul pubblico ministero, probabilmente perché i principi di autonomia e indipendenza che oggi reggono l’azione del pm sono sofferti da alcuni poteri, e non mi riferisco solo alla politica, ma soprattutto ai poteri economici. Il tentativo di incasellare il pubblico ministero in un segmento che ne garantisca il controllo dell’azione è un’ambizione mai sopita”, conclude Musolino. “Ora la verità!”, grida l’antimafia. Ma i processi han già detto tutto di Tiziana Maiolo Il Riformista, 23 marzo 2023 Se intendiamo parlare di verità storica, ma anche di verità processuale, dobbiamo dire che sulla mafia di Cosa Nostra, ma anche sulla ‘ndrangheta e sulla camorra, si sa ormai tutto. Giovanni Falcone non credeva nel “terzo livello”, e ha avuto ragione. I processi, da quello contro Giulio Andreotti in avanti, hanno dimostrato i limiti politici e culturali proprio di movimenti come la Rete e Libera. Vogliamo la verità sui delitti di mafia. Il grido sale dal corteo che attraversa il centro di Milano per poi concentrarsi in piazza Duomo, dove la voce dei parenti delle vittime di Cosa Nostra cede la voce, e il palco, ai politici di sinistra invitati da Libera, il cartello di associazioni fondato da don Ciotti. Erano tredici anni che non veniva celebrata questa giornata rievocativa. E sono datate a dieci e anche venti anni fa le grandi inchieste sulla criminalità organizzata al Nord condotte dall’ex responsabile della Dda milanese Ilda Boccassini. Inchieste come “Infinito” o “I fiori di San Vito” con le loro alterne risultanze processuali e la costante, purtroppo inutile, denuncia degli avvocati del fatto che nei processi su reati di mafia regolarmente saltano le regole dello Stato di diritto, quelle che in genere governano i dibattimenti “normali”. Più che politica del doppio binario, veri binari morti, per le garanzie degli imputati. Ma siamo a Milano, e si sa quale sia stato, fino a poco tempo fa, il rito ambrosiano, non solo nelle indagini su Tangentopoli. L’anno 2023 segna per il capoluogo lombardo l’anniversario di una data tragica, quella della bomba di via Palestro, il 27 luglio del 1993. Non è chiaro se l’associazione Libera e il suo promotore don Ciotti abbiano scelto questa ricorrenza piuttosto che il 1992 con le uccisioni di Falcone e Borsellino, per scendere in piazza. Ma la connotazione tutta politica, con la presenza, non solo quella doverosa del sindaco Beppe Sala, ma in particolare anche quella di Elly Schlein, presente a Milano due volte di fila in pochi giorni, e gli interventi contro il governo, lasciano intravedere qualcosa di diverso. Lo ha ben intuito Silvio Berlusconi che, con la sua proverbiale marcia in più, si è affrettato a prendere posizione, con un’uscita sincera, ma anche opportuna, e forse preoccupata per una certa piega che stano prendendo certe indagini che corrono da Firenze a Reggio Calabria. Così, con le parole che sono patrimonio di tutti, il “pensiero commosso” per le vittime e i loro familiari e “l’omaggio a due figure emblematiche” come Falcone e Borsellino, compare anche il riconoscimento alle forze dell’ordine e alla magistratura “che ogni giorno rischiano la vita per la legalità e la sicurezza di tutti”. È vero che nel commemorare le due più famose vittime delle bombe mafiose l’ex presidente del Consiglio ha tenuto a distinguere il loro “profondo rispetto delle garanzie e dello stato di diritto”, ma il riconoscimento alla magistratura come corpo in sé, rimane. E va a cadere, non casualmente, sulla manifestazione indetta da Libera, “cartello di associazioni contro le mafie” nato su iniziativa di don Ciotti nel 1994. Non nel 1992 con le sue stragi di Capaci e via D’Amelio, e non nel 1993 con le bombe di Milano Firenze e Roma, ma a pochi mesi dall’insediamento del primo governo Berlusconi. Nasce e diventa da subito un potente partito politico. Il successore naturale della “Rete” di Leoluca Orlando, padre Pintacuda e Nando Dalla Chiesa, con il sostegno forte di un pm di Mani Pulite come Gherardo Colombo. Nemici di Leonardo Sciascia e delle garanzie, cui preferivano il loro credo: “Il sospetto è l’anticamera della verità”. Il gruppo di Libera si è impadronito del prezioso timbro di ceralacca dell’antimafia nella sua veste più ideologica e furibonda, “contro la mafia e la corruzione”, anticipando di molti anni le degenerazioni giuridiche del Movimento cinque stelle e della legge “spazzacorrotti” voluta dal ministro Bonafede. A questa base teorica di chi guarda la realtà in chiave moralistica per dividere il mondo in buoni e cattivi e poi processando questi ultimi in tribunali speciali, Libera ha accompagnato anche un aspetto economico. Favorendo la dissennata politica delle confische fondate sul sospetto più che sulle responsabilità penali, ha cominciato da subito a rivendicare per sé la primogenitura e il “bollino blu” per le assegnazioni ai propri aderenti degli immobili confiscati. Nel nome dell’antimafia, naturalmente, non dell’interesse commerciale. Abbiamo già raccontato quell’esempio di Buccinasco e del sindaco lapidato perché si era permesso di offrire gli spazi confiscati a diverse associazioni e non a una sola. Mancava poco che qualcuno desse del mafioso a quel sindaco, perché aveva preferito un atteggiamento pluralistico nei confronti di tanti piuttosto che far aprire la pizzeria “antimafia”. E la storia pare ripetersi, dopo gli attacchi di Nando Dalla Chiesa e Giancarlo Caselli al libro L’Inganno di Alessandro Barbano, che ha stracciato il velo dell’omertà di chi viola costantemente le regole nel nome di un bene superiore e della lotta a una mafia che viene dipinta sempre come eterna e invincibile. E intanto tutti i magistrati “in lotta” (obbrobrio in uno Stato di diritto) contro il crimine organizzato, dal procuratore calabrese Nicola Gratteri alla responsabile della Dda milanese Alessandra Dolci, si affannano a spiegare che non importa se la mafia non spara più, ma che si è trasformata in comitati d’affari. “Operatore economico e agenzia di servizi”, la definisce la dottoressa Dolci. Senza mai spiegare, né lei né i suoi colleghi, perché ancora esista nel codice penale quell’articolo 416 bis che pone l’assoggettamento e il controllo del territorio come requisiti fondamentali perché un certo comportamento possa rivelare l’esistenza di un’associazione criminale di tipo mafioso. Ma il retroscena delle manifestazioni “antimafia” sono le inchieste giudiziarie sul passato, sugli anni Novanta. Che cosa significa, al di là dei sentimenti dei parenti delle vittime, cui va sempre rispetto, quel grido “vogliamo la verità”? Se intendiamo parlare di verità storica, ma anche di verità processuale, dobbiamo dire che sulla mafia di Cosa Nostra, ma anche sulla ‘ndrangheta e sulla camorra, si sa ormai tutto. Giovanni Falcone non credeva nel “terzo livello”, e ha avuto ragione. I processi, da quello contro Giulio Andreotti in avanti, hanno dimostrato i limiti politici e culturali proprio di movimenti come la Rete e Libera. E la natura vera di inchieste come quella che ha portato al processo “‘ndrangheta stragista” di Reggio Calabria e le forsennate (e già fallite nelle tre versioni precedenti) indagini fiorentine su Berlusconi e Dell’Utri come mandanti di stragi. In questo modo non si cercano né verità né giustizia, ma capri espiatori al fine di prolungare all’infinito il ruolo dell’antimafia. “C’è anche un’antimafia laica e garantista che però l’antimafia del dogma bolla come complice” di Valentina Stella Il Dubbio, 23 marzo 2023 Parla Giovanni Fiandaca, emerito di diritto penale all’Università di Palermo: “Il Nordio ministro ha non poco contraddetto il Nordio editorialista. Certo, in parte è fisiologico e al suo posto io non avrei ad esempio accettato di fare il ministro o mi sarei già dimesso”. Professor Giovanni Fiandaca (emerito di diritto penale all’Università di Palermo e Garante dei diritti dei detenuti siciliani), in un colloquio con il Foglio il Ministro Nordio ha detto: “è ovvio che il Nordio editorialista non potrà mai essere uguale al Nordio ministro. Ma fidatevi: non vi deluderemo”. Secondo lei in questi ultimi mesi chi ha prevalso? Il Nordio ministro ha, come sappiamo, non poco contraddetto il Nordio editorialista. Pretendere di farli coincidere del tutto significherebbe ignorare che la politica concreta è per lo più poco sensibile ai principi astratti ed è spesso pronta a sacrificarli sull’altare di compromessi contingenti o per calcoli elettorali. Certo, esiste un problema di coerenza personale e vi sono limiti di accettabilità delle soluzioni compromissorie. Al posto di Nordio io non avrei ad esempio accettato di fare il ministro o mi sarei già dimesso. Cosa ne pensa della proposta del sottosegretario di Fdi Andrea Delmastro delle Vedove di mandare i tossicomani in quelle “comunità chiuse in stile Muccioli” per svuotare le carceri? L’idea di contribuire ad un decremento della popolazione carceraria con una collocazione in comunità degli autori di reato tossicodipendenti non è di per sé cattiva; non poco dipende però da come verrà tradotta e specificata in concreta proposta normativa. Il vice presidente del Csm Pinelli ha detto in un convegno a proposito di trojan: “limitarne l’uso ai reati di criminalità organizzata credo sia un punto di equilibrio ragionevole nel rapporto tra autorità e libertà”. C’è anche un ddl del forzista Zanettin che chiede di escludere l’impiego del captatore informatico nei procedimenti per delitti contro la pubblica amministrazione. Lei che ne pensa? Concordo tendenzialmente con il punto di vista espresso da Pinelli. E concordano con lui peraltro anche alcuni magistrati di mia conoscenza sensibili all’esigenza costituzionale di proporzionalità tra il coefficiente di invasività degli strumenti investigativi e il livello di gravità delle forme di criminalità da contrastare. Ma avanzerei qualche dubbio sulla futura compattezza della maggioranza governativa nel sostegno al ddl Zanettin, a causa del timore di essere accusati di voler indebolire la lotta alla corruzione. Una proposta di Nordio è quella di prevedere in presenza di una richiesta di ordinanza di custodia cautelare che la decisione venga presa da un organo collegiale. Secondo lei è fattibile? Condividerei l’esigenza di attribuire ad un organo collegiale la competenza a decidere sulla custodia cautelare. Questa è una esigenza che dovrebbe in teoria essere fatta propria anche dal Partito Democratico, considerata l’enfasi con cui sempre più si erge a paladino dei diritti. Il diritto alla libertà personale non rientra forse tra i diritti più importanti, meritevoli di essere salvaguardati nella maniera più scrupolosa? Che idea si è fatto del caso Cospito e della decisione di Nordio di tenerlo al 41 bis nonostante 3 pareri favorevoli all’Alta sicurezza? Sul caso Cospito ho scritto un lungo articolo pubblicato sul Foglio lo scorso 10 febbraio, in cui mettevo in evidenza i motivi che giustificano una riflessione approfondita e aggiornata sul 41 bis anche come istituto generale, per verificare come oggi esso vada migliorato nei presupposti, nella estensione e nelle modalità applicative. Quanto alla specifica vicenda Cospito, ritengo anche io che la sottoposizione al 41 bis possa risultare eccessiva, esistendo nelle strutture carcerarie italiane circuiti di sicurezza meno rigidi del carcere duro in senso stretto. Secondo lei si arriverà ad ottenere la separazione delle carriere con due Csm separati? Questa è l’impresa più difficile per Nordio Ministro. Considerato come sono andate finora le cose, tenderei ad essere piuttosto scettico. Come sono i rapporti tra politica e magistratura al momento? L’Anm ha ancora il potere di cestinare determinate proposte del Governo? Nonostante gli effetti gravemente discreditanti di vicende scandalose come quella ben nota del caso Palamara, e la conseguente perdita di credibilità che la magistratura ha subìto agli occhi della gente, penso che l’Anm continui a mantenere un rilevante potere latamente politico, anche in forma di interdizione di riforme sgradite. Le polemiche sul libro di Alessandro Barbano e sul dibattito tra Daniela Chinnici e Nino di Matteo portano a pensare che in Italia debba esserci per forza una unica narrazione sull’antimafia... Convivono a tutt’oggi nel nostro Paese diverse antimafia, cioè diversi modi di concepire e praticare l’antimafia sui rispettivi piani politico, mediatico e giudiziario. Semplificando al massimo, anche per esigenze di sintesi, esiste una antimafia che definirei dogmatico-sacrale, che in nome di Falcone e Borsellino, impropriamente elevati a divinità tutelari, respinge come turbatio sacrorum ogni possibile critica ai processi gestiti dai magistrati delle generazioni successive che, a ragione o a torto, fungerebbero da loro eredi, come nel caso delle fondatissime critiche rivolte peraltro non solo da me all’emblematico processo Trattativa. Qual è l’altra antimafia? Quella che proporrei di definire laica, che antepone i fatti alle ipotesi, i ragionamenti in diritto e le verifiche probatorie ai dogmi, i principi costituzionali del garantismo penale al repressivismo più spinto confinante con l’abuso giudiziario. Dal canto suo una parte del sistema mediatico, in particolare quella di orientamento antimafioso più radicale, tende strumentalmente ad esasperare la suddetta contrapposizione polarizzata, soggiacendo persino alla tentazione di rappresentare come ideologicamente filo-mafiosi gli esponenti dell’antimafia cosiddetta laica. Emblematica in questo senso la recentissima polemica sollevata con toni scandalistici da Repubblica a proposito della professoressa palermitana di giurisprudenza Daniela Chinnici, rea di avere nella sostanza riproposto, sia pure con espressioni poco felici per il loro estremismo, le stesse critiche che i più qualificati studiosi di diritto processuale rivolgono ai maxi processi. E che il maxi processo presenti diverse criticità è una verità che non sfuggiva neanche a Giovanni Falcone, come emerge da diversi suoi scritti tecnici pubblicati nel decennio 1982-1992. Concluderei dunque: tanto rumore per nulla. Un piccolo scandalo artificioso creato da un tipo di giornalismo che, anziché guardare alla sostanza dei problemi realmente sul tappeto, preferisce insistere nell’alimentare una improduttiva contrapposizione tra una presunta antimafia vera e una presunta antimafia fittizia. Infine rilevo che, al di là di qualche eccesso polemico e di qualche imprecisione, anche la recente critica di Alessandro Barbano delle misure di prevenzione pone l’accento su criticità reali. Per cui, anziché demonizzarlo, questo libro andrebbe valorizzato nelle parti in cui prospetta problemi reali. Ancora una volta evitando il facile e dannoso gioco della contrapposizione tra antimafiosi doc e antimafiosi apparenti. Torino. Le detenute: “Vi preghiamo, non negateci almeno la dignità” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 marzo 2023 Nella lettera delle recluse torinesi a Nessuno Tocchi Caino l’appello alla politica per far approvare la proposta di Giachetti. Il sovraffollamento cresce, i suicidi in carcere hanno ripreso il sopravvento. Finita la parentesi della pandemia, si è ritornati all’affettività negata di prima. Le telefonate sono tornate a 10 minuti a settimana, così come sono state ridotte le videochiamate. Nel silenzio più totale, si fanno risentire le detenute del carcere Le Vallette di Torino. Sabato è andata a farvi visita la delegazione di Nessuno Tocchi Caino, composta da Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti, il presidente della Camera penale di Torino Roberto Capra, Cesare Burdese, Davide Mosso e la Garante di Torino Monica Gallo. Le detenute hanno consegnato una lettera, chiedendo di divulgarla perché loro non si arrendono. Rita Bernardini osserva che le ricordano il detto pannelliano “il più grande crimine è starsene con le mani in mano”. La lettera spiega benissimo perché sia necessario l’aumento delle telefonate, dei colloqui e soprattutto la necessità di far approvare la proposta di legge a firma del deputato Roberto Giachetti di Italia Viva in materia di liberazione anticipata. Qui la pubblichiamo di seguito. *** Carissima Rita, questa lettera è per te e per tutti coloro che fanno parte di Nessuno tocchi Caino; ti chiediamo di renderla pubblica così che possa arrivare a più persone, perché per noi è necessario che le nostre voci e le nostre esperienze giungano al di là delle mura del carcere. Scriviamo dalla sezione femminile del carcere di Torino e vorremmo unirci all’appello perché rimangano attive le videochiamate e vengano concesse le chiamate straordinarie; in realtà l’obiettivo è quello che vengano aumentate una volta per tutte per rafforzare la possibilità di tenere vivi i nostri contatti affettivi, per non sentirci soli. Sentire che c’è qualcuno che tiene a noi, è il primo passo per non cedere durante la carcerazione, oltre che una motivazione forte che può aiutare il cambiamento di ognuno di noi. Ovviamente questo vale per chi ha la fortuna di avere delle persone vicine presenti, nonostante i vincoli stringenti che regolano e stabiliscono che solo 72 ore all’anno siano dedicate ai colloqui e 10 minuti a settimana alla telefonata (ovviamente per i detenuti comuni, chi è in alta sicurezza ancor meno; chi è sepolto al 41 bis quasi non ha diritto ad essere amato o ad amare). L’aumento delle ore dei colloqui e delle telefonate sarebbe un primo ma importante passo per rendere meno afflittiva la detenzione. Dal 2018, anno in cui la proposta del ministro Orlando è stata affossata, le cose nelle carceri sono peggiorate fortemente; tutti lo sanno. Si istruiscono commissioni ma poi di concreto nulla e così noi reclusi e chi in carcere ci lavora (quindi tutta la comunità penitenziaria) ne paghiamo le conseguenze ritrovandoci come una barca in un bosco. Nel 2020 è arrivato il covid…. che ci ha blindato ulteriormente… nessuno di quelli che come noi erano detenuti è stato risarcito in termini di liberazione anticipata per le afflizioni che ha subito. Di anno in anno aumentano i suicidi nelle carceri e si moltiplicano gli ingressi di poveracci e malati psichiatrici. Il 2022 si è chiuso con 84 suicidi; nel 2023 se ne contano già 10: non è una situazione critica, di più!!! In Italia è tutta un’emergenza, ma l’unica che non si affronta con prontezza è quella che ci riguarda, come se noi non fossimo persone e onestamente è difficile imparare la legalità e il senso civico chiusi dentro ad una istituzione inetta. Ti chiediamo, vi chiediamo, di promuovere in tutti i sensi la proposta di legge di Roberto Giachetti in materia di liberazione anticipata. Ci definiscono criminali fuorilegge - sociopatici, ma pur volendo noi affrancarci da questa condizione è difficilissimo farlo in un contesto criminogeno come questo e, soprattutto, quando dalle istituzioni non ti vengono riconosciuti i diritti ma solo gli obblighi. Il vero crimine è stare con le mani in mano. Ancor più criminale è continuare a prendere in giro noi e la società, perché tenerci detenute in queste condizioni non ci restituirà migliori di quando commettevamo reati. Anzi, forse peggiorati. Siamo tantissimi e le opportunità non ci sono per tutti, anche in carcere le disuguaglianze la fanno da padrone, ma il carcere è lo specchio della realtà esterna sebbene si tenda a nascondere costantemente la polvere sotto il tappeto. Non ci disperiamo, siamo sempre presenti a noi stesse e alla voglia di migliorare questa condizione certe di trovare in voi un supporto stabile e forte. Abbiamo sentito l’ultima proposta del sottosegretario Del Mastro, cioè di svuotare le carceri rimandando le persone che hanno delle dipendenze in comunità; sarebbe una svolta. Ma quanto tempo ci vorrà, visto che attualmente non ci sono i luoghi e i mezzi? E fino ad allora, come si continuerà a stare in queste celle? Cosa dovrà succedere ancora? Per quanto ancora dovremmo pagare i nostri crimini in un luogo che viola la Costituzione? Aumentare la liberazione anticipata non sarebbe un regalo ma un atto di civiltà, il minimo per un sistema che produce troppi fallimenti e sprechi di risorse umane. Ci restituirebbe dignità. (Le ragazze di Torino) Roma. “Mio fratello ucciso da medici criminali perché era un immigrato tunisino” di Romina Marceca La Repubblica, 23 marzo 2023 La rabbia della sorella di Wissem. Dopo la svolta nelle indagini sulla morte del giovane avvenuta mentre era legato a un letto del servizio psichiatrico dell’Asl 3 di Roma, la famiglia chiede risposte e giustizia. Rania e la sua famiglia aspettano di conoscere la verità da quasi un anno e mezzo sulla fine di Wissem Ben Abdel Latif. Adesso che in Tunisia è arrivata la notizia della svolta dell’indagine con quattro indagati per la morte del fratello nel Servizio psichiatrico dell’Asl 3 legato a un letto, Rania non trattiene più la rabbia: “Sono criminali, lo hanno ucciso perché era un migrante tunisino”. La sorella di Wissem ha 22 anni e adesso chiede all’Italia “tutta la verità, i responsabili devono pagare per quello che hanno fatto deliberatamente a mio fratello”. Dopo un anno e quattro mesi ci sono i primi indagati. Cosa si aspetta adesso? È soddisfatta? “Ora la verità è chiara dopo tutto questo tempo. La morte di mio fratello è stata una fine molto triste, una morte intenzionale. Non sono soddisfatta. Ci sono molte domande ancora senza risposta. Perché gli hanno fatto questo? Avevano il diritto di eseguire un sequestro di persona e di legarlo a un letto uccidendolo deliberatamente? Abbiamo aspettato un anno e quattro mesi per una notizia come questa”. L’autopsia ha rivelato che a Wissem era stato iniettato un sedativo non prescritto e nessuno lo ha riportato nel registro clinico. Perché pensa che sia successo? “In questo ospedale ci sono dei criminali che gli hanno fatto questo. La salute di mio fratello era buona, non soffriva di nessuna malattia. I due medici e i due infermieri indagati per me fanno parte di una gang” Cosa chiede all’Italia? “Chiedo all’Italia che vengano rispettati i diritti di mio fratello che è stato ammazzato. Solo così i nostri cuori potranno risposare in pace. Noi vogliamo che tutti quelli che hanno causato la sua morte siano dichiarati responsabili. C’è stata oppressione e ingiustizia contro Wissem. Non ci arrendiamo fino a che non gli sarà resa giustizia”. Secondo lei suo fratello non è stato ucciso per uno sbaglio medico? “E quando lo hanno messo in un letto legato per tre giorni, è anche questo un errore medico? Mio fratello è stato ucciso volontariamente. Era emigrato per lavorare in Francia, c’era un mio zio che lo aspettava per lavorare con lui. Wissem voleva migliorare la sua vita. Invece in questo ospedale ci sono delinquenti, criminali che l’hanno ammazzato così”. E perché lo avrebbero ucciso? “Lo hanno ammazzato perché era un migrante tunisino e perché non voleva ingerire le medicine che gli davano. L’immigrato non ha alcuna protezione internazionale”. Secondo lei c’è dell’altro nella storia di suo fratello che è ancora da accertare? Bastano questi quattro indagati? “Forse hanno fatto altre cose su di lui che ancora non sappiamo. Per me tutti i colpevoli sono nell’ospedale in cui ha trascorso gli ultimi giorni”. Come state vivendo la fine di suo fratello? Come stanno i suoi genitori? “Dopo la morte di mio fratello tutte le nostre vite sono diventate tristi. I miei genitori sono sotto shock. Non riesco a immaginare come si sia spento Wissem perché mi rattrista. Io e l’altro mio fratello eravamo i suoi piccoli, lui occupava di noi”. Due giorni prima di morire i valori del sangue di Wissem evidenziavano un’anomalia. Nessuno tra i medici se ne accorse. “Questo non lo sapevo. Quello che noi abbiamo sempre saputo è che Wissem è rimasto in ospedale legato giorno e notte a un letto”. Suo fratello aveva problemi psichici? “No, mio fratello era in buona salute, in piena capacità mentale. La prova è che Wissem, quando è arrivato al confine con l’Italia, è stato portato su una nave quarantena e non in un ospedale. Poi ha fatto delle foto quando era in prigione, al Cpr, e c’è un video in cui parla del posto brutto in cui si trovava e chiedeva aiuto. Lui stava bene, protestava”. Reggio Emilia. Morto in carcere a 39 anni, l’appello della zia: “Dopo un anno non c’è nemmeno l’autopsia” di Ambra Prati Gazzetta di Reggio, 23 marzo 2023 Giuseppe Convertino è deceduto alla Pulce il 10 aprile 2022: era stato arrestato 24 ore prima. I familiari sospettano che sia stato fatale un farmaco. L’avvocato: “Aspetto la relazione”. “Mio nipote è morto in carcere, dov’era arrivato meno di 24 ore prima. È passato un anno: il 10 aprile sarà l’anniversario del decesso. E ancora non sappiamo nulla: non abbiamo nemmeno l’esito dell’autopsia. Vogliamo sapere perché è morto: ci basta questo”. Lorenza Incerti è la sorella gemella di Lorena, madre di Giuseppe Convertino, morto a 39 anni il 10 aprile 2022 nel carcere reggiano. “Giuseppe è stato prelevato dalla polizia il sabato pomeriggio. La domenica sera ci hanno chiamato dalla Pulce per comunicarci che era morto. Dopo essere passato dall’infermeria si trovava in una cella provvisoria, in attesa di essere assegnato alla sezione; secondo il compagno di cella era tranquillo, chiacchierava, guardava la tv. Dopo che è passato il carrello delle terapie ha iniziato a rantolare e a sbavare sulla branda: secondo i medici del 118 ha ceduto il cuore”. L’esistenza travagliata di Giuseppe, con problemi di dipendenze dall’alcol e dalle droghe sintetiche, ha avuto un epilogo terribile. “Abbiamo potuto fare il funerale solo dopo settimane. Abbiamo passato un calvario che solo chi ha vissuto esperienze del genere può capire - spiega la zia -. Non nascondo che Giuseppe aveva un fisico debilitato dalla tossicodipendenza: da anni era seguito dal Sert, andava e veniva dal carcere, faceva furti, su di lui pendevano Daspo e Codice rosso. Mia sorella, però, aveva solo lui: ora è sola”. Le sorelle hanno fatto tutto il possibile per fare luce sulla vicenda. “Ci siamo presentate il lunedì in carcere, abbiamo parlato con la direttrice, siamo state ricevute dal pm titolare Giacomo Forte, abbiamo pagato di tasca nostra un medico legale. Ma finora è stato come scontrarsi contro un muro di gomma: vieni liquidato con due parole. Quello che non comprendiamo è perché, a distanza di tanto tempo, nessuno ci sappia dare una spiegazione”. La zia precisa che non accusa nessuno. “Né la polizia (ci hanno aiutato tante volte), né il magistrato che ci è parso coscienzioso, né gli agenti di polizia penitenziaria. Può essere stato un semplice malore: vorremmo però avere in mano i risultati dall’autopsia”. I familiari si sono rivolti all’avvocato Angelo Russo, che spiega: “Non è un caso alla Stefano Cucchi: abbiamo assistito all’autopsia e il corpo non aveva alcun segno di violenza. Il sospetto è che per Giuseppe, che nell’ultimo periodo non assumeva farmaci, possa essere stata fatale la somministrazione di una medicina”. Subito dopo il decesso l’avvocato Russo ha presentato un esposto alla procura chiedendo l’autopsia: è stato disposto un accertamento tecnico, eseguito alla presenza sia del consulente del pm sia del medico legale di parte. Nel frattempo l’indagine “classica” è andata avanti: sono stati ascoltati il medico del carcere, il compagno di cella, gli agenti intervenuti. “Il consulente della procura ha disposto un supplemento di esami istologici per approfondire il caso: e lì siamo rimasti, in attesa della relazione del Ctu”. Un anno per l’esito dell’autopsia? “Sì - conferma il legale -. Teniamo conto che la sanità pubblica ha tempi lunghi. Comprendo il dolore dei familiari. Una volta depositata la relazione il pm potrà decidere se archiviare o meno. Attendiamo fiduciosi gli sviluppi”. Lorenza Incerti prosegue la sua battaglia. “Siamo persone semplici, è vero, ma vorremmo rispetto e verità. Diteci perché è morto”. Santa Maria Capua Vetere. Processo per le torture in carcere, stop a pubblicazione registrazioni udienze casertanews.it, 23 marzo 2023 I giudici dispongono una sospensione su eccezione degli avvocati: “Rischio violazione diritto difesa”. Radio Radicale non potrà pubblicare sul proprio sito la registrazione audio dell’udienza del processo per le violenze ai danni dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, in cui sono imputate 105 persone, tra agenti penitenziari, funzionari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e due medici. Una sospensione disposta dalla Corte d’Assise del tribunale di Santa Maria Capua Vetere (presidente Roberto Donatiello), che riguarda solo l’ultima udienza in attesa di una decisione nel corso della prossima udienza sull’istanza presentata dall’avvocato Carlo De Stavola, difensore di più imputati, cui si è associato l’avvocato Claudio Botti, che insieme a Sabina Coppola difende l’ex provveditore campano alle carceri A.F.. I legali hanno sollecitato la Corte a disporre il divieto di pubblicazione dell’audio dopo ogni udienza, come Radio Radicale fa dall’inizio del processo agli agenti (e come peraltro fa da anni per numerosi importanti processi) e di prevedere che la pubblicazione delle registrazioni avvenga alla fine del processo. Ciò, ha spiegato il legale, per non inficiare la genuinità delle dichiarazioni rese in aula dai testimoni e per evitare rischi di violazione del diritto di difesa, in quanto la pubblicazione dell’audio dopo l’udienza, a detta del legale, potrebbe permettere a testimoni non ancora sentiti di ascoltare le parole dette da altri testimoni, e dunque in teoria di decidere cosa dire e in che modo in aula, e anche le domande poste dai difensori, e in tal guisa comprendere la strategia difensiva adottata. Intanto nel corso dell’udienza le difese hanno contro-esaminato E.M., all’epoca dei fatti comandante della compagnia di Santa Maria Capua Vetere. Nel mirino delle domande delle difese ancora le chat tra gli agenti. Si torna in aula la prossima settimana quando sul banco dei testimoni verranno sentiti il garante regionale per i detenuti Samuele Ciambriello e il magistrato di sorveglianza Marco Puglia. Monza. Primo carcere in Italia connesso al sistema bibliotecario di Fabrizio Radaelli ilcittadinomb.it, 23 marzo 2023 Quello di Monza è il primo carcere in Italia ad aver attivato un servizio di connessione ad Internet per prenotare e accedere all’intero patrimonio di Brianza Biblioteche, che è di un milione e trecentomila volumi. Una svolta per la casa circondariale, un primato destinato a fare scuola che è già stato richiesto da altri istituti (Bollate compreso). Un lavoro durato un anno e mezzo e che è stato presentato ufficialmente mercoledì mattina proprio nella biblioteca di via Sanquirico, alla presenza della direttrice, Maria Pitaniello, del sindaco di Monza, Paolo Pilotto, dell’assessore alle Biblioteche e presidente di Brianza Biblioteche, Viviana Guidetti e Laura Beretta, coordinatrice di Brianza Biblioteche che ha seguito l’intero iter progettuale. Tra il pubblico presente c’erano anche i nove detenuti che, adeguatamente formati, si occuperanno attivamente della biblioteca: dal rilascio delle tessere ai detenuti alla catalogazione. Sono i primi “detenuti bibliotecari” formati e che avranno accesso al sistema gestionale di Brianza Biblioteche. “Oggi non si inaugura la biblioteca - ha precisato la direttrice - ma si rilancia un servizio, quello dell’accesso alla cultura, che è un diritto costituzionale. La prevenzione sociale, che è il nostro mandato istituzionale, parte proprio dentro il carcere anche attraverso la promozione della cultura”. Di fatto quella del carcere sarà la settima biblioteca del sistema bibliotecario urbano e la trentaquattresima della provincia. Due le nuove postazioni informatiche che sono state collocate: una sarà collegata direttamente (ed esclusivamente) al sito di Brianza Biblioteche. Qui i detenuti potranno accedere all’intero catalogo delle trentaquattro biblioteche del territorio. Il secondo computer servirà a catalogare i libri in entrata e a smistarli perché siano consegnati a chi ne ha fatto richiesta. Ogni settimana (e non più ogni quindici giorni come avveniva prima) il mezzo del Comune passerà dal carcere per lasciare i volumi richiesti e ritirare quelli restituiti. “Si tratta di un sistema unico in Italia, mai utilizzato da nessun altro istituto penitenziario”, ha ribadito Beretta. Un nuovo importante traguardo per il carcere di Monza che sempre di più intende utilizzare la cultura come strumento di formazione e promozione delle persone detenute. Ma non solo. Essendo a tutti gli effetti entrata a far parte del sistema delle biblioteche del territorio, anche la biblioteca del carcere sarà utilizzata per proporre incontri ed eventi aperti anche al pubblico esterno. “Già in occasione del prossimo Festival delle storie provvederemo a creare eventi che potranno svolgersi anche all’interno del carcere”, ha confermato l’assessore Guidetti. La presentazione della “nuova” biblioteca è stato anche l’ultimo atto ufficiale della direttrice Pitaniello, che a breve lascerà l’incarico: “Qui lascio una grande squadra, qui è stato fatto un grande lavoro e sono certa che continuerà nel tempo”. Campobasso. Scuola Edile del Molise, partito il corso di formazione per 25 detenuti quotidianomolise.com, 23 marzo 2023 Oggi, con la conferenza stampa tenutasi presso la Casa Circondariale e Reclusione di Campobasso, sita alla via Cavour n. 52, si è dato ufficialmente avvio al corso di formazione denominato “Recuperando & riqualificando”. A comunicarlo, sono il Presidente e il Vicepresidente della Scuola Edile del Molise Ing. Massimiliano del Busso e Massimiliano Rapone in rappresentanza del consiglio di amministrazione dell’Ente da loro rappresentato. In seguito della sottoscrizione di un protocollo d’intesa tra il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria per il Lazio, Abruzzo e Molise e l’Associazione Nazionale Costruttori Edili (Ance) in data 16 marzo 2021 e sollecitati dall’Ance Acem Molise, la Scuola Edile del Molise ha aderito al progetto; “Il lavoro riveste un ruolo di assoluta centralità in ogni percorso riabilitativo finalizzato al reinserimento sociale del detenuto, migliorandone l’impegno e la responsabilità; il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, nel quadro degli scopi previsti dall’ordinamento penitenziario, è da tempo impegnato sul fronte della promozione dell’attività lavorativa in favore della popolazione detenuta, da solo o in collaborazione con strutture pubbliche e private, al fine di dare concreta attuazione al mandato costituzionale di cui all’art. 27 della Costituzione;” La Scuola Edile, in seguito di riunioni di tecniche di concertazione tenute nel corso dell’anno 2022 con la Casa Circondariale, ha elaborato e trasmesso uno specifico progetto denominato “Recuperando & Riqualificando” che è stato ritenuto valido. Il corso di formazione, riservato a 25 detenuti, avrà la durata 80 ore di cui 20 ore da dedicare alla formazione teorica e indirizzo e 60 alla formazione pratica. Durante la pratica il progetto prevede un vero e proprio cantiere scuola per la riqualificazione di alcuni spazi interni alla Casa Circondariale e bisognosi di manutenzione e recupero edile. Milano. Sold out lo spettacolo “Noi che da oggi...”. I detenuti si ispirano a Pirandello di Roberta Rampini Il Giorno, 23 marzo 2023 Sold out per lo spettacolo teatrale “Noi che da oggi…” liberamente ispirato a Uno, Nessuno e Centomila di Luigi Pirandello, in scena oggi, domani e sabato nel teatro del carcere di Bollate. Gli interpreti sono i detenuti della casa di reclusione che fanno parte del laboratorio di teatro promosso dal 2020 dalla Società cooperativa Le Crisalidi, di Serena Andreani e Beatrice Masi. Una ventina di detenuti-attori che da settimane si preparano al debutto. Per quasi tutti è la prima volta in scena di fronte a un pubblico. “Lo spettacolo tocca un tema delicato, ma centrale nella società di oggi, la ricerca continua della propria identità e la necessità di scardinarsi dal pensiero che gli altri hanno di noi - spiega Serena -. La verità, portata in luce dallo scrittore siciliano, è che gli altri ci vedono diversamente da come ci vediamo noi stessi e questo, inevitabilmente, innesca una serie di interrogativi e di riflessioni sul proprio essere. In una rivisitazione che parte dai racconti e dagli scritti dei detenuti della compagnia teatrale, la cui condizione di reclusione spesso diventa sinonimo di analisi personale, si sceglie di mettersi a nudo scomponendo e ricomponendo pezzi di un’esistenza che, talvolta, sembra essere naufragata, arrivando alla consapevolezza e all’accettazione di essere individui imperfetti”. Gli spettatori sono invece gente comune, che viene da fuori e che, proprio grazie al teatro, conosce la realtà del carcere. Per chi crede nel progetto avere sold out per tre sere di fila, vuole dire aver vinto la sfida di abbattere barriere e pregiudizi su carcere e detenuti. “Inventario lessicale. Le parole della Giustizia Riparativa”, a cura di Isabella Mastropasqua e Ninfa Buccellato Ristretti Orizzonti, 23 marzo 2023 Pubblicato nella collana “I numeri pensati” del Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, “Inventario lessicale. Le parole della giustizia riparativa”, curato da Isabella Mastropasqua e Ninfa Buccellato ed edito da Gangemi Editore. Con 86 voci le curatrici raccontano le parole oggi in uso nelle pratiche della giustizia riparativa e come scrive Grazia Mannozzi nella prefazione al volume “un inventario suona come un work progress... un percorso da coltivare da coltivare impegnandosi quotidianamente ad essere artigiani di pace”. Link alla scheda del libro sul sito dell’editore: https://www.gangemieditore.com/dettaglio/inventario-lessicale/9511/6 “Incontri troppo ravvicinati. Polizia, abusi e populismo nell’Italia di oggi”, di Vincenzo Scalia recensione di Gianni Alati Il Dubbio, 23 marzo 2023 Il G8 di Genova del 2001 è stato il trauma di una generazione nel rapporto con la politica e con le istituzioni, rappresentate sul campo dalle forze di polizia in abito da combattimento contro civili inermi o resi inoffensivi. Quelle vicende restano una macchia sulla credibilità delle istituzioni repubblicane e delle forze di polizia in particolare. Da allora abbiamo imparato a riconoscere con maggiore consapevolezza il rischio dell’abuso di polizia, sia in danno di singoli sia nelle dinamiche collettive, dalle proteste di piazza a quelle in carcere, come nel più recente caso di Santa Maria Capua Vetere. Non che queste cose nascono oggi, o ieri, a Genova. La polizia, come ci ricorda Vincenzo Scalia in questo libro, esercita su delega di altre istituzioni il monopolio della violenza che lo Stato rivendica per sé. E nella storia dell’Italia unita non sono mancati episodi e momenti in cui la dimensione violenta del potere di polizia si è slatentizzata, manifestandosi in pratica repressiva degli oppositori, politici o sociali. Così è stato nella repressione del brigantaggio meridionale, in quella delle sollevazioni popolari a cavallo tra Otto e Novecento, nella condiscendenza al regime fascista, nella repressione delle manifestazioni popolari nel secondo dopoguerra del secolo scorso. Ma il conflitto sociale e politico degli anni Settanta, che - tra le altre cose - ha portato con sé la smilitarizzazione del corpo di polizia e progetti di community policing sul modello anglosassone, trent’anni fa sembrava aver aperto una nuova stagione, che appariva del tutto coerente con l’enorme fiducia popolare riposta nelle forze di polizia come braccio destro della magistratura nelle inchieste sulla corruzione politica dei primi anni Novanta e, soprattutto, nella repressione della criminalità organizzata stragista. Nonostante non siano mancati episodi e denunce di senso contrario, una generazione di attivisti ha scoperto a Genova, sulla propria pelle, il braccio violento della legge. Importante è, quindi, come fa Scalia in questo libro, tornare a studiare la polizia, scegliendo di mettere alla prova delle acquisizioni della letteratura scientifica anglosassone alcune vicende specifiche che hanno segnato la storia italiana recente, dalle morti di Federico Aldrovandi e di Riccardo Magherini, alla gestione degli ordini di confinamento durante la prima fase del Covid in Italia. Come ci ricorda Scalia, gli studi sulla polizia in Italia sono stati principalmente studi della istituzione nei suoi rapporti con la storia nazionale e con quella delle altre istituzioni pubbliche. È mancata, invece, una produzione scientifica paragonabile a quella di altri Paesi sulla cultura e le prassi diffuse delle forze di polizia. E allora serve studiare, come fa Scalia, nelle cronache e negli eventi le caratteristiche e gli stilemi dei saperi di polizia, in modo da sottrarre “il caso” al suo farsesco destino di “mela marcia”, per riconoscerne le disfunzioni istituzionali e la possibilità della loro contestazione. Resteranno, anche alla fine, il rischio e la pratica dell’abuso, intimamente legati alla natura del potere di polizia. Se da una parte il potere di polizia non può che servire classi e opinioni dominanti, dall’altra consiste proprio nella capacità di tracciare linee di demarcazione tra ciò che in concreto merita di essere perseguito e di ciò che no. In questa discrezionalità al servizio del potere dominante c’è sempre il rischio dell’abuso. La conoscenza scientifica verso cui ci accompagna Scalia è la prima condizione per riconoscerlo e, per ciò stesso, limitarlo. “Che errore affrontare la pandemia di Covid con il diritto punitivo” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 23 marzo 2023 Angela Della Bella, professoressa associata di diritto penale nell’Università di Milano “La Statale”, è l’autrice di un interessante libro intitolato “Il legislatore penale di fronte all’emergenza sanitaria. Principi penalistici alla prova del Covid-19” (Giappichelli, pp. 288, euro 39). Si tratta del primo studio che affronta, in maniera sistematica, con lo sguardo acuto del giurista, il periodo della pandemia, le sue conseguenza nella vita di tutti noi, senza trascurare la presenza di alcuni vuoti normativi. Della Bella evidenzia come nell’emergenza sanitaria il diritto penale sia entrato in campo nel momento in cui gli Stati hanno deciso di impiegarlo, “più o meno ampiamente, per garantire l’osservanza delle misure di contenimento del contagio, nella consapevolezza che tale osservanza è essenziale per tutelare i soggetti più fragili, la cui vita sarebbe esposta a grave rischio laddove il contagio si diffondesse liberamente”. Professoressa Della Bella, lei parla nel suo libro di “diritto punitivo pandemico”. Di cosa si tratta? Con l’arrivo della pandemia, la maggior parte degli Stati, compreso il nostro, hanno utilizzato in maniera più o meno ampia sanzioni punitive per i casi di inosservanza delle misure di contenimento del contagio. Nel libro cerco perciò di interrogarmi su quali siano le condizioni e i limiti che si impongono al legislatore nel momento in cui ritenga di utilizzare il diritto penale, o più in generale il diritto punitivo, a tutela della vita e della salute della collettività in un contesto di emergenza sanitaria. Si pensi ai vincoli che derivano al legislatore penale dal principio di legalità, messo in grave torsione nelle situazioni di emergenza. Ma si pensi anche al principio di proporzionalità, in ossequio al quale il legislatore nel realizzare gli obiettivi che si propone deve assicurare il minor sacrificio possibile della sfera individuale dei cittadini: un principio con il quale le scelte punitive in questa materia devono evidentemente misurarsi, posto che l’obiettivo del contenimento del contagio a tutela della vita e della salute della collettività si realizza “a costo” di gravi limitazioni dei diritti e delle libertà del singolo. Nel nostro ordinamento manca una definizione normativa di “emergenza sanitaria”? Si, in effetti manca. Diciamo che la definizione può ricavarsi dalla Delibera del Consiglio dei ministri del 30 gennaio 2020, con cui si è dato inizio allo stato di emergenza nazionale nel nostro Paese. In sostanza ciò che caratterizza una “emergenza sanitaria” è la presenza di un “rischio sanitario”, così come definito dal regolamento dell’OMS, ossia un rischio per la vita e la salute della collettività, determinato dalla diffusione di una malattia che si caratterizza per la sua spiccata capacità di propagazione e per la gravità delle patologie che può trasmettere. Una situazione, dunque, nella quale lo Stato è chiamato ad intervenire attraverso misure di contenimento del contagio a tutela della vita e della salute dei cittadini. Quale “lezione” ha dato la pandemia al legislatore? La pandemia ci ha colto totalmente impreparati. Direi, dunque, che, volendo fare tesoro dell’esperienza, la principale lezione riguarda la necessità di attrezzare l’ordinamento in vista di nuove e, purtroppo, non improbabili, evenienze epidemiche. Su questo fronte la sfida principale che attende il legislatore è certamente rappresentata da un serio sforzo di riorganizzazione del sistema sanitario e, nello specifico, da una regolamentazione organica del sistema di prevenzione e gestione degli eventi pandemici che sia in linea con le indicazioni provenienti dalle normative sovranazionali. Ritengo, però, e questo sostengo nel mio libro, che all’interno di questo ampio progetto di riforma, debba trovare posto anche la costruzione di un sistema razionale di illeciti amministrativi e penali a tutela della salute pubblica ed in particolare a tutela della funzionalità del sistema sanitario, che, come abbiamo tutti potuto constatare, viene sottoposto a grandissimo stress durante le crisi pandemiche. Si tratterebbe cioè di un sistema di illeciti che sia “pronto all’uso”, nel momento in cui venga in essere una situazione di emergenza sanitaria. Che caratteristiche dovrebbe avere il sistema al quale lei fa riferimento? Nel libro cerco di delineare la fisionomia che potrebbe assumere tale sistema. In estrema sintesi, mi immagino un sistema scalare, caratterizzato cioè da una progressione sanzionatoria corrispondente ai crescenti livelli di offensività delle condotte. Un sistema in cui al primo livello siano collocati gli illeciti derivanti dalla violazione delle misure di contenimento. Ad esempio, gli illeciti per chi viola gli obblighi di isolamento domiciliare nel periodo di lockdown, piuttosto che l’obbligo di indossare la mascherina. Illeciti che dovrebbero essere concepiti come illeciti amministrativi e non penali e ciò anche alla luce delle criticità del ricorso alla sanzione penale, che erano emerse all’inizio della pandemia quando il legislatore pandemico aveva optato per questa soluzione. L’inchiesta della procura di Bergamo porterà, secondo lei, alla condanna di chi ha gestito l’emergenza sanitaria e viene accusato di epidemia colposa e omicidio colposo? Non ho evidentemente gli elementi per esprimermi con cognizione di causa, però a pelle concordo con chi ha espresso l’opinione che molto difficilmente sarà un processo che si concluderà con delle condanne. Sia circa la difficoltà di accertare nel processo che, se si fossero adottate determinate condotte, si sarebbe evitata la diffusione del contagio e conseguentemente il surplus di decessi, sia per i dubbi sulla reale configurabilità di un rimprovero colposo in quel drammatico contesto. Giovanni Fiandaca ha parlato, a proposito dell’inchiesta di Bergamo, di una “metamorfosi giudiziaria” con il prendere corpo del “processo riparatorio, dove il dolore conta più dei reati e dove il potere dei pm non ha limiti”. Cosa ne pensa? Certamente il bisogno delle vittime di sapere come sono andate le cose, di avere una forma di riconoscimento, non necessariamente monetaria, delle loro perdite è legittimo e merita una risposta. Ma, come dice il professor Fiandaca, occorre poi chiedersi se sia il processo penale il luogo giusto nel quale rispondere a tali aspettative. Lavoro sottopagato tra precarietà, orari ridotti e contratti pirata: in povertà quasi 6 milioni di lavoratori di Luca Monticelli La Stampa, 23 marzo 2023 Un dipendente su tre non arriva a guadagnare 12 mila euro lordi l’anno. Abbiamo imparato il significato di “working poor” vent’anni fa con i film di Ken Loach, venendo a conoscenza di una grande massa di lavoratori che non guadagnano abbastanza da superare la soglia della povertà. Un fenomeno che adesso sembra diventato tipicamente italiano, visto che il nostro è l’unico tra i Paesi Ocse ad aver registrato un valore negativo (-2,9%) nella variazione dei salari medi tra il 1990 ed il 2020. In Francia, solo per fare un esempio, in questi ultimi trent’anni le retribuzioni sono aumentate del 31%. Secondo uno studio commissionato dal precedente ministro del Lavoro Andrea Orlando ad un gruppo di esperti, un quarto dei lavoratori italiani è a rischio povertà. Se gli occupati in Italia sono oltre 23 milioni, ecco che ci troviamo di fronte a una platea di 5 milioni e ottocentomila persone in grande difficoltà. Precari, immigrati, part time, personale a servizio della gig economy, giovani del Sud e donne: sono loro gli “ultimi” che fanno fatica ad arrivare a fine mese. L’economista Ocse Andrea Garnero, che ha partecipato allo studio del ministero di via Veneto, spiega: “Il lavoro povero deriva dai bassi salari, ma soprattutto dal fatto che molti dipendenti sono costretti a lavorare meno ore di quante vorrebbero. L’Italia ha il dato più alto dei Paesi Ocse di part time involontario. A questo bisogna aggiungere il precariato”. Un anno fa si cominciò a parlare di salario minimo a 9 euro e 50, tuttavia l’allora governo Draghi non riuscì a mettere in piedi una proposta sostenuta da tutta la maggioranza, e la premier Giorgia Meloni la settimana scorsa è andata al congresso della Cgil per ribadire il suo no al salario minimo. Collaboratori e Partite Iva - Mezzo milione di lavoratori, soprattutto giovani e donne, non solo fanno fatica a vivere dignitosamente, ma non avranno neanche una pensione sufficiente. L’indagine sui redditi dei parasubordinati, realizzata da Nidil Cgil e Fondazione Giuseppe Di Vittorio, porta alla luce una vera e propria emergenza sociale. Il reddito medio di 211 mila collaboratori nel 2021 è stato di 8.500 euro lordi, 11 mila per gli uomini e 7 mila per le donne, che costituiscono il 60% del totale. La fascia di età fino a 34 anni rappresenta il 48% e guadagna in media 5.700 euro, mentre gli adulti da 34 a 64 anni sono il 49% e guadagnano 11 mila euro lordi all’anno. I senior, oltre i 65 anni, sono poco più del 2% e hanno un reddito lordo annuo di quasi 15 mila euro. Ci sono poi 341 mila professionisti che hanno portano a casa 15.800 euro lordi: 18.400 euro gli uomini e 13.200 le donne, che sono circa la metà. Le partite Iva under 34 sono il 33% e guadagnano mediamente 12.300 euro lordi l’anno, quelli tra i 35 e i 64 anni hanno un reddito lordo medio di 17.600 euro. Gli over 65 sono il 3% del totale e dichiarano circa 18.300 euro. I dipendenti - “Il 30% dei lavoratori dipendenti guadagna meno di 12 mila euro lordi all’anno”, evidenzia Elena Granaglia, docente di Economia di Roma Tre e membro del coordinamento del Forum Disuguaglianze e Diversità, che aggiunge: “Il grosso del lavoro povero si riscontra in settori come il turismo, ma anche nei servizi alla persona. È molto grave che attività così importanti come quelle svolte da chi assiste bambini, anziani e disabili vengano svalorizzate. E anche quello che sta facendo il governo con la riforma del reddito di cittadinanza non aiuta”. Nel rapporto che Granaglia ha curato insieme a Michele Bavaro e Patrizia Luongo si legge che l’incidenza dei bassi salari tra le donne è molto più alta che tra gli uomini, sia in termini di salario annuale che settimanale. Sebbene in Italia l’occupazione femminile sia stata in aumento negli ultimi decenni (seppure ancora sotto le medie europee), è la diffusione dei contratti part-time a penalizzare le donne rispetto agli uomini. Inoltre, i giovani (tra i 16 e i 34 anni) hanno un’incidenza di bassi salari quasi doppia rispetto al gruppo più anziano (tra i 50 e i 65 anni). I contratti pirata - Michele Faioli, docente di diritto della Cattolica e consigliere del Cnel, ricorda che su mille contratti depositati ce ne sono 800 pirata: “Sempre più datori di lavoro puntano al ribasso, oltre al problema della retribuzione mensile questi contratti sono più deboli per quel che riguarda gli straordinari, la malattia, la maternità e in generale le tutele legate alla persona”. Equo compenso - Si avvicina il via libera definitivo delle norme sulla giusta remunerazione dei professionisti, orfani dal 2006 delle tariffe abolite con le “lenzuolate” di Bersani. Dopo l’ok del Senato di ieri sarà necessario un terzo passaggio alla Camera. Il provvedimento prevede che banche, assicurazioni e aziende con più di 50 dipendenti, o con un fatturato di oltre 10 milioni, debbano versare al professionista a cui affidano un incarico un compenso “equo”. Gli accordi per pagamenti al ribasso saranno considerati nulli. Gli ordini e i collegi potranno sia sanzionare gli iscritti che accettano di incassare somme al di sotto di quelle fissate dai parametri ministeriali, sia promuovere una “class action” per difenderli. Famiglie arcobaleno, basta con i pregiudizi di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 23 marzo 2023 Voglio parlare di diritti dei bambini. Non di maternità surrogata. I bambini non devono essere discriminati anche se figli di coppie dello stesso sesso. Una coppia formata da un uomo e una donna si sposa o vive insieme, perché decide di farlo, si ama. Una coppia formata da due donne o due uomini non può sposarsi anche se si ama, ma può fare una unione civile. Già emerge la prima differenza. Se un uomo e una donna sposati hanno un figlio lo registrano in anagrafe molto velocemente al momento della nascita. E così il bimbetto o la bimbetta ha due genitori fin da subito, che compaiono a tutti gli effetti sui documenti. Il diritto del bambino ad avere i due genitori è pienamente applicato. Con una procedura semplicissima. E soprattutto istantanea. Che succede nel caso di una coppia formata da due donne? E non a caso scelgo di parlare di due donne, perché in questo caso non c’è maternità surrogata. Conta chi ha partorito. Lei viene riconosciuta come madre. La compagna può procedere solo con l’adozione speciale. Quindi, deve fare la domanda al Tribunale dei minori, che farà i suoi controlli tramite gli assistenti sociali. E il tempo passa. E ci sono costi, esami. E perché questo esame non si fa per il padre delle coppie eterosessuali? Perché c’è una credenza di fondo assolutamente non dimostrata. Anzi, la psicologia dice con chiarezza che l’unica garanzia di benessere dei bambini sta nel loro essere destinatari di protezione, cura, amore e sostegno per tutta la crescita. Si tratta di pregiudizi a favore delle coppie etero e a sfavore di quelle omo. Ma torniamo al caso della coppia di due donne. La madre che ha partorito deve dare l’autorizzazione all’adozione, ma può anche ritirarla se nel frattempo le due donne si separano e così il bimbo o la bimba perde qualunque rapporto in caso di separazione con la seconda madre. Nell’attesa la seconda mamma non potrà avere rapporti con insegnanti se non con delega, e così con i medici, e non potrà portarlo fuori Italia. Ma che forche caudine sono mai queste? Che cosa devono scontare queste donne in nome dell’amore tra loro e nei confronti del loro bambino? E perché mai deve essere considerata madre solo la donna che ha partorito anche se ha condiviso con l’altra fin dall’inizio il progetto di maternità? È giusto che il bambino abbia il genitore di serie A e quello di serie B? Il caso delle coppie di donne mette in luce l’assurdità dell’attuale situazione che non ha a che vedere con la maternità surrogata. Esiste una discriminazione dei bambini perché figli di due lesbiche. Così come esiste quella verso i figli di due gay. La Corte Costituzionale nella sua sentenza ha cercato uno strumento di tutela nell’ordinamento, l’adozione a fini speciali. Ma sono d’accordo con Gabriella Luccioli. Non basta. Non a caso la stessa Corte ha sollecitato il Parlamento a legiferare. Bisogna trovare soluzioni di sistema. L’amore è sempre amore, sia tra persone dello stesso sesso che di diverso sesso. La paternità e la maternità sono una nobile aspirazione per gli uni e per gli altri. Bisogna legiferare per garantire una tutela immediata dei diritti dei bambini, anche se figli di coppie dello stesso sesso e anche in presenza di maternità surrogata all’estero. I bambini non devono pagare il prezzo di una guerra ideologica come quella in atto. E se proprio il governo vuole combattere la maternità surrogata come dice, la prima cosa che dovrebbe fare è estendere la possibilità di adozione alle coppie di gay e di lesbiche. I bimbi hanno bisogno di amore a prescindere dal sesso dei loro genitori e hanno il diritto di avere genitori che li amino, siano essi omosessuali o eterosessuali. E tante coppie dello stesso sesso hanno la nobile aspirazione a diventare genitori. Perché mai dovremmo avversarli? La fabbrica di bombe? La Sardegna dice no e vince il ricorso di Paola D’Amico Corriere della Sera, 23 marzo 2023 Inappellabile la sentenza del Consiglio di Stato. In base al Codice dell’ambiente europeo non si può ampliare lo stabilimento frazionando i nuovi interventi senza una Valutazione di impatto ambientale. I comitati in lotta dal 2015 tornano a chiedere la riconversione dell’area. Stop all’ampliamento della fabbrica di bombe tedesca che si trova nel sud della Sardegna, fra le località di Matt’e Conti a Domusnovas e San Marco a Iglesias. Lo stabilimento di Rwm Italia (gruppo tedesco Rheinmetall) progetta, produce e vende sistemi d’arma subacquei, mine marine, sistemi di sicurezza e armamento, bombe e testate di guerra. Armamenti destinati alle forze armate nazionali e straniere in base a licenze di esportazione rilasciate di volta in volta dal governo italiano. Da anni è oggetto della protesta di attivisti tra i quali la sezione locale di Italia Nostra che chiedono un piano di riconversione, per allontanare definitivamente le produzioni di morte dalla zona. Nei giorni scorsi è arrivata la decisione del Consiglio di Stato che ha confermato in via definitiva e senza possibilità di appello che l’ampliamento dello stabilimento RWM di Domusnovas-Iglesias è del tutto abusivo in quanto l’iter autorizzativo seguito per il rilascio delle autorizzazioni non ha rispettato le leggi e le norme vigenti. Che è poi quanto associazioni, comitati, sindacati e cittadini sostengono da sei anni. La storia - Nel 2015 grazie alle testimonianze di alcuni attivisti sul campo, all’intervento di alcuni parlamentari in seguito a una inchiesta di Avvenire si scoprì che gli ordigni assemblati in Sardegna finivano a equipaggiare i caccia della coalizione saudita che combatte nello Yemen, con bombardamenti che spesso hanno preso di mira obiettivi civili. Il ricorso al Consiglio di stato era stato depositato da Italia Nostra, Unione Sindacale di Base per la Regione Sardegna e “Assotziu Consumadoris Sardigna onlus”. Inoltre, nel 2021 il Parlamento italiano, dopo una lunga battaglia, ha sospeso l’autorizzazione all’export delle bombe in direzione dei sauditi, che tuttavia si erano approvvigionati con ingenti commesse. Se vorrà proseguire col suo progetto di ampliamento nel territorio di Iglesias, la fabbrica di bombe Rwm Italia di Domusnovas dovrà chiedere nuove autorizzazioni e ricominciare tutto da capo. Il Consiglio di Stato ha parzialmente riformato una sentenza pronunciata nel 2020 dalla prima sezione del Tar Sardegna e giudicato illegittimi e annullato due atti, come richiesto da un gruppo di associazioni ambientaliste che l’avevano impugnata. La sentenza - Con la sentenza n. 03014/2022 del 21-02-2023 il Consiglio di Stato ha rigettato la richiesta di revocazione presentata dalla RWM Italia avverso la sentenza emessa dallo stesso Consiglio nel 2019 con la quale accoglieva le ragioni di Italia Nostra, Unione Sindacale di Base per la Regione Sardegna, Assotziu Consumadoris Sardigna sulla obbligatorietà della Valutazione di Impatto Ambientale dell’intero stabilimento: vecchie e nuove strutture produttive. La sentenza odierna ribadisce “il divieto di artificioso frazionamento del progetto per evitarne la sottoposizione a Via (Valutazione di impatto ambientale)” e pertanto “il progetto di ampliamento dello stabilimento attraverso la realizzazione dei due nuovi reparti R200 ed R210 che quello relativo alla realizzazione del Campo Prove 140, avrebbero dovuto essere sottoposti a Via obbligatoria, sulla base di tutta una serie di argomentazioni”. In particolare, il riferimento è al codice dell’ambiente, alla normativa europea e al principio di precauzione, anch’esso di derivazione europea. Battaglia sui migranti, Meloni sfida l’Europa: “Subito i fondi a Tunisi” di Marco Bresolin La Stampa, 23 marzo 2023 Oggi al Consiglio Ue di Bruxelles non è prevista alcuna discussione sui profughi. La premier: “Faremo sentire forte la nostra voce, l’Italia non sarà lasciata da sola”. Per Giorgia Meloni il Consiglio europeo che si apre oggi a Bruxelles sarà uno snodo cruciale “nel contrasto all’immigrazione illegale”. Aspirazione che non trova al momento corrispondenza nell’agenda dei lavori. Come ribadito anche ieri da un alto funzionario Ue, “non è previsto un dibattito sul tema immigrazione, ma soltanto un aggiornamento di Ursula von der Leyen e della presidenza svedese”. La divergenza sull’ordine del giorno del summit è tale che se ne può uscire, è la convinzione di Palazzo Chigi, solo alzando i toni. E così, quando la presidente della Commissione avrà terminato il suo intervento, Meloni chiederà di prendere la parola per insistere sulla necessità di una maggiore incisività nel contrasto dei flussi di migranti. Non sarà semplice convincere gli altri leader, molti dei quali credono che quanto deciso all’ultimo Consiglio sia sufficiente e che non occorra dover ricominciare la discussione. Meloni la vede molto diversamente: le conclusioni del summit del 9-10 sono una base di partenza alla quale ora occorre aggiungere misure concrete. Sarà durissima aprire un varco, insomma. E non è un caso che la premier abbia deciso di anticipare a ieri l’arrivo nella capitale belga, così da poter studiare con più calma i dossier sul tavolo dei Consiglio che si apre oggi alle 11.30. I contatti con i leader in vista del summit sono iniziati già lunedì, con una telefonata con Von der Leyen e con il cancelliere tedesco Olaf Scholz, forse uno dei meno interessati ad aprire la discussione sui migranti, anche per ragioni interne. Le riunioni telefoniche sono proseguite ieri con il premier polacco Mateusz Morawiecki. Ai partner europei, ad esempio, Meloni dirà che va bene rafforzare gli strumenti a disposizione di Frontex, come previsto dal piano della Commissione, ma occorre arrivare a soluzioni pratiche sulla gestione dell’accoglienza, sulla quale non bastano le raccomandazioni agli Stati. L’intervento si concentrerà in particolare sulla Tunisia e sulla richiesta di giocare un ruolo per sbloccare l’accordo tra Tunisi e il Fondo monetario internazionale. Se necessario - dirà Meloni - anche coinvolgendo gli Stati Uniti. Per l’Italia questo è una priorità assoluta, condivisa dalla Farnesina e dai Servizi. A ottobre il Fmi aveva trovato un accordo preliminare per la concessione di un maxi-prestito da 1,9 miliardi di dollari per far fronte alla grave crisi economica, in cambio di una serie di riforme. Ma i fondi non sono mai arrivati a causa della svolta autoritaria imposta dal presidente Kais Saied. Senza quei soldi non si possono più pagare gli stipendi pubblici e la crisi è ora una delle prime cause del notevole incremento dei flussi di migranti dal Paese nordafricano verso l’Italia. Nei prossimi giorni è prevista anche una missione del commissario europeo Paolo Gentiloni in Tunisia, con l’obiettivo di sbloccare l’accordo. Ma tra i Paesi europei ci sono ancora parecchi dubbi sulla figura di Saied. L’Italia condivide l’analisi, ma non la ricetta: secondo la Farnesina l’attuale presidente è al momento l’unico interlocutore possibile e quindi sta spingendo per sbloccare i fondi, visto il concreto rischio che il Paese resti in mano a bande di criminali, sul modello della Libia. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani avrà nelle prossime ore un colloquio con la direttrice del Fmi Kristalina Georgieva, decisivo poi sarà quello con il Segretario di Stato Usa Antony Blinken. La soluzione che l’Italia appoggia è un finanziamento condizionato alla realizzazione delle riforme. Tajani in questi giorni ha cercato di cercare alleati in giro per l’Europa, Slovenia, Croazia e Austria, e ha stretto i contatti con l’Algeria. Ci sono altri due temi sui quali la premier intende tenere il punto: il primo riguarda il piano per l’industria a impatto zero previsto dalla Commissione, il secondo la riforma del Patto di Stabilità che l’Italia vuole tenere collegati. La premier intende sollevare alcuni interrogativi sugli strumenti messi in campo dalla Commissione nell’ambito del Green Deal e in particolare su quelli del pacchetto “FitFor55”, che secondo il governo italiano andrebbero rivisti perché presentati in un’epoca precedente alla crisi energetica. Ci sarà poi il pressing sul fronte dei finanziamenti. Visto che l’annunciato Fondo sovrano è ancora lontano e visto che l’allentamento delle regole sugli aiuti di Stato favorisce i Paesi con maggiori margini di bilancio, Meloni insisterà su due punti: la massima flessibilità nell’utilizzo dei fondi Ue già esistenti (in realtà già sancita dal Consiglio europeo di febbraio) e un più stretto legame con la riforma del Patto di Stabilità per consentire lo scorporo delle spese utili alla transizione ecologica. La guerra si ferma con la politica non con il diritto penale di Franco Ippolito* Il Manifesto, 23 marzo 2023 L’ordine di arresto della Corte penale interazionale (Cpi) nei confronti di Vladimir Putin per la deportazione in Russia di bambini ucraini è stato accolto con apprezzamenti positivi, talvolta trionfalistici, da parte dei governi e di molti opinion makers. Non pochi giuristi, però, avanzano perplessità sugli effetti di tale atto, che può creare più problemi di quanti ne risolve. Fermo restando che l’aggressione russa ha commesso e sta commettendo crimini non solo in danno dei bambini ma più in generale crimini contro l’umanità. Il provvedimento limita notevolmente la libertà di circolazione di Putin, giacché ognuno dei 123 paesi che hanno ratificato la Convenzione del 1998 è obbligato ad arrestarlo, mentre non hanno obbligo, ma facoltà, i Paesi che non l’hanno ratificata (Cina, India, Pakistan, Israele, Turchia, Stati Uniti, oltre alla stessa Russia). Al di là dell’aspetto simbolico, certamente penalizzante per l’immagine interna e internazionale del capo del Cremlino, l’atto del procuratore dell’Aia non sembra destinato a modificare di molto la possibilità di movimento del presidente russo, già drasticamente ridotta dalla guerra in atto. L’interrogativo principale è quello che Daniele Archibugi ha posto su questo giornale il 18 marzo, evidenziando la peculiare tempistica di questo provvedimento adottato prima della conclusione della guerra: quale può essere il ruolo della giustizia penale in questo conflitto? Quale concreto effetto avrà il mandato di arresto sulla guerra di aggressione russa all’Ucraina? Il rischio rilevante è che questo astratto esercizio di potere giurisdizionale aumenti l’indisponibilità di Putin verso qualsiasi negoziato, sia per speculare simmetria con gli Stati uniti e la Nato che hanno bocciato la proposta cinese senza neppure discuterne i contenuti, sia perché l’eventuale partecipazione alle trattative di pace aumenterebbe il pericolo di facilitare l’esecuzione dell’arresto. Fonti russe hanno già avvertito che nessun negoziato potrà mai avviarsi senza la revoca del mandato di arresto. Condizione evidentemente improponibile: l’azione penale, dopo il concreto avvio con l’incriminazione e l’ordine di arresto di Putin, non è negoziabile se non al prezzo della totale perdita di credibilità della Cpi. Va infatti ricordato che la Corte processa individui e non Stati e quindi l’accertamento dei fatti e la responsabilità degli accusati non può mai costituire oggetto di negoziato politico. Qualcuno ha osservato che, in caso di reale possibilità di avvio di trattative, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite potrebbe utilizzare - con il consenso di tutti i 5 componenti permanenti (Russia compresa) - il potere di sospendere il processo per un anno, sospensione rinnovabile (articolo 16 Statuto Corte). L’inconsistenza di tale soluzione è lampante: Putin dovrebbe prestare il suo consenso “al buio”, senza poter avere alcuna certezza né speranza di chiusura del processo. Per dare un senso al provvedimento del Procuratore dell’Aia (volendo scacciare il malizioso sospetto che l’anticipazione dell’atto sia originato dall’intento di impedire ogni possibilità di negoziato), si può ipotizzare che essa costituisca una pressione sulla dirigenza della Federazione russa per la sostituzione di Vladimir Putin (precedente Karadzic, ex presidente dell’Entità serbo-bosniaca), sempreché possa avere fondamento la speranza che il sostituto non abbia la stessa visione nazionalista e imperialista. La verità è che non possiamo e non dobbiamo illuderci che la guerra possa essere fermata dalla Corte penale. Appaiono esercizio di vuota retorica le dichiarazioni del presidente statunitense Biden sulla necessità di processare Putin “criminale di guerra”. Più credibili sarebbero quelle parole se accompagnate dalla ratifica del trattato istitutivo della Cpi da parte degli stessi Usa che, oltre a non avere ratificato quel trattato, non hanno perso occasione per ostacolare l’attività dei giudici dell’Aia. Il diritto penale sanziona i crimini già commessi, riaffermando il valore delle regole di convivenza internazionale. Ma oggi è urgente porre fine alle immani sofferenze sopportate dal popolo ucraino e dai giovani militari russi mandati al macello da Putin. Alla fine della guerra non si può giungere con la propaganda e tanto meno con le minacce, ma operando per dare nuova credibilità alle istituzioni internazionali e per promuovere, senza pretesa di egemonia, accordi multilaterali capaci di infrenare le rispettive pulsioni bellicistiche e realizzare intese di pace, a cominciare dal mantenimento della sicurezza nucleare. È urgente la cessazione immediata delle atrocità in atto e dello scontro armato. Ogni giorno che passa aumentano le difficoltà, perché crescono le sofferenze, si moltiplicano le atrocità, si accumulano gli odi reciproci che continueranno a covare anche a guerra finita, mettendo le premesse per nuovi conflitti e nuove guerre. La guerra va fermata subito con la politica. Se ne convincano i governanti e lavorino per questo obiettivo. *Presidente della Fondazione Basso Ucraina. Con i proiettili all’uranio Londra ravviva la brace di Domenico Quirico La Stampa, 23 marzo 2023 Il Regno Unito non vuole sentire parlare della pace se non si traduce in “vittoria”, ma così rischia di contribuire a trascinare il conflitto verso un orizzonte nucleare. Lenin lo definiva l’imperialismo dei pezzenti. Perfetto. Sono coloro che non hanno i mezzi ma vorrebbero, quelli che fanno la voce grossa con slogan brodosi e di facile impegno ma hanno arsenali e borsellino vuoti, i bluffatori, i rospi della politica internazionale che si gonfiano per sembrare più grossi. Li riconoscete subito. Perché fanno chiasso con superlativi esuberanti e deliranti. Gli imperialisti veri, quelli di zecca, quelli con la Roba, sono silenziosi, colpiscono, occupano, distruggono. Putin per esempio. Come gli invadenti americani: lo potrebbero testimoniare popoli interi, a partire dai messicani nel 1846 quando i “gringos” appena sbocciati alla primavera del Destino Manifesto, li alleggerirono con una guerra di aggressione sporchissima di metà del territorio. Nella orribile mischia ucraina, scontro tra imperi veri o verosimili, spuntano rospetti da un anno impegnati a gonfiarsi a dismisura. Purtroppo contribuendo scalino dopo scalino, tacca dopo tacca a far ascendere il conflitto verso orizzonti sempre più vasti e foschi. Perché gli imperialismi di riporto, di modesta pecunia, sono convinti che soltanto se la guerra si fa grossa, al riparo di una potenza vera, loro avranno spazio e diritto a ritagliarsi sciacalleschi bocconcini della vittoria. Devo a Boris Johnson, primo ministro di Sua Maestà nella prima fase della guerra, una doverosa riparazione. Pensavo che il fervore bellicista, le sbandierate passeggiate da moschettiere a Kiev insieme all’amico Zelensky che hanno fatto scuola costringendo anche gli altri leader occidentali a imbarazzati pellegrinaggi nella aggredita Gerusalemme ucraina, fosse tutta opera sua. Non era la doverosa, obbligatoria scelta dell’aggredito di fronte alla prepotenza dell’aggressore. La infarinava con qualcosa di più, officiava patriarcalmente sulla successiva resa dei conti, sulla vendetta. Se qualcuno nella Nato esitava il micro Churchill dell’era del tweet inveiva, fulminava la pavidità degli indecisi, faceva saltar fuori come un prestigiatore da un sacco senza fondo munizioni bombe cannoni, era sulle barricate della Terza guerra mondiale che per lui aveva un solo difetto, di non esser ancora dichiarata, esplicita, combattuta sul campo. Perfino gli americani arrancavano dietro la linea rossa, un po’ zizzagante, di difendere l’Ucraina e non oltre; ma al Numero Dieci già eran pronti a caricare di nuovo a Balaclava, a marciare su Mosca e chissà fin dove. Ho pensato fosse solo il bluff di uno sgangherato Falstaff bellicista che non aveva epurato dalla biblioteca i libri di Kipling profumati con il redditizio fardello dell’uomo britannico. Infatti gli stessi inglesi lo hanno licenziato bruscamente, sepolto da un cumulo di bugie e incompetenza. E invece mi sbagliavo. Due primi ministri dopo, Londra guida sempre l’avanguardia della guerra contro la Russia a tutti i costi, con tutti i mezzi, in ogni luogo, non hanno affatto smarrito il lessico di Boris. Munizioni contraerea missili obici anticarro siluri carrarmati istruttori: non basta? No! É il momento dei proiettili insaporiti all’uranio, per nuocer di più e lasciar tracce velenose e su tutti, buoni e cattivi. Gli europei stanno entrando in guerra camminando all’indietro, rinculando, ripetendo ad ogni passetto in più verso la catastrofe dell’impegno diretto sul campo la giaculatoria dell’esser pacifisti, di non veder l’ora di imboccare il boulevard della pace. Come se questi due estremi non fossero degli opposti che si elidono, e l’una uccide l’altra. Facendo finta di non sapere che la pace su questa via è possibile solo se si chiama resa senza condizioni del nemico. E quella bisogna ottenerla, accettando di pagare un prezzo diretto e non solo versando cambiali agli altri. Il Regno Unito no: della pace non vuol sentir parlare, coniuga la parola solo se si traduce con vittoria. Sono sempre un passo avanti, gli inglesi, incitano, eccitano, soffiano e quando la brace sembra meno vispa trovano il modo per ravvivarla provocando e aumentando la posta. Come accade gettando sul campo i proiettili all’uranio. Un tempo operavano in proprio, dalle guerre dell’oppio alla strage degli zulu alla più domestica Irlanda. Facevano scuola di imperialismo: nel 1952 in Malesia, messi alle strette dalla guerriglia comunista, irrorarono le selve con l’acido. Gli americani vi trassero proficua ispirazione per ammansire con i defolianti i Vietcong. L’ultima impresa imperiale autonoma fu Suez, 1956. Una figuraccia, una umiliazione per di più proprio per mano americana che voleva sfilare all’Impero agonizzante il vicino oriente. In quel momento i politici inglesi compresero che il mondo era diventato troppo grande per un made in England lillipuziano, decrepito e fatiscente e hanno scelto le meste attrattive della subordinazione istituzionale e sistemica agli americani. Sì. erano loro ad aver bisogno degli americani per contare ancora qualcosa nel groviglio polimorfo del mondo nuovo e non il contrario. Tutti i premier inglesi, laburisti e conservatori, hanno fatto a gara a chi era il maggiordomo più efficiente e laborioso di Washington. Erano passati nel palazzo imperialista dal piano nobile alla soffitta della servitù. Poco male, l’importante era restare nel palazzo, raccogliere mance e briciole dalla potenza dei nuovi padroni di casa. Come fu per il micro revival coloniale delle Falkland regalato da Reagan alla Thatcher con pecore e ottusi golpisti argentini. L’unico primo ministro che cercò davvero un’altra via fu il conservatore Heath, un volenteroso europeista che sperava in una sponda per non doversi appollaiare sempre sulle spalle del presidente americano di turno. Parentesi senza seguito. La perfezione ancillare fu raggiunta con Blair, inventore della formula dell’imperialismo postmoderno, diceva lui, informale e filantropico. Una bugia come quelle, assai formali, che pronunciò per appoggiare l’invasione americana dell’Iraq. Nel 1997 l’ambasciatore inglese a Washington, appena nominato, ricevette queste istruzioni da Jonathan Powell capo gabinetto di Blair: “Attaccati al culo della Casa Bianca e resta lì”. Blair parlava più pudicamente di “camminare spalla a spalla” con la democrazia americana. Son cambiati i governi, le guerre, le bugie. Gli inglesi sono sempre fermi lì. Uganda. Ergastolo e pena di morte per i gay di Michele Farina Corriere della Sera, 23 marzo 2023 Su 389 deputati solo due voti contrari. Alla legge manca ora solo la firma del presidente Museveni. Tutti meno due: l’intero parlamento dell’Uganda ha approvato una legge che prevede ergastolo e pena di morte per le persone omosessuali. Ci aveva già pensato nel 2014, ma allora il provvedimento fu bocciato dalla Corte Costituzionale per “un vizio di forma”. Questa volta manca solo la firma del presidente-autocrate Yoveri Museveni, che si è sempre schierato contro i diritti della comunità Lgbtq+. L’altra sera su 389 deputati hanno votato “no” solo due membri del partito di governo, che vale la pena di ricordare per nome: Fox Odoi-Oywelowo e Paul Kwizera. La legge capestro è stata presentata da un collega dell’opposizione, Asuman Basalirwa, con “l’obiettivo di proteggere i valori tradizionali della famiglia”. In almeno una trentina di Paesi africani l’omosessualità è fuorilegge. L’Uganda si pone all’avanguardia di questa schiera omofoba. Proibito anche dirlo: chi si dichiara Lgbtq+ rischia 20 anni di carcere. La pena capitale è prevista per i casi di quella che viene definita “omosessualità aggravata”, quando vi è il coinvolgimento di minorenni o di persone malate di Aids. La “legge anti-omosessualità” ha provocato reazioni sdegnate dentro e fuori il piccolo Paese africano, quello che vanta la popolazione più giovane del mondo (età media 16 anni) . Dagli Stati Uniti il segretario di Stato Antony Blinken ha parlato di “una chiara violazione dei diritti fondamentali di tutti gli ugandesi” e ha invitato il governo a non promuoverla. L’Uganda è storicamente alleata degli Usa, anche se Museveni (e sua moglie Janet, ministra dell’Istruzione) hanno spesso giocato sulla “contrapposizione culturale” con l’Occidente per giustificare la crescente oppressione degli omosessuali (per esempio nei confronti di Sexual Minoritties Uganda, la maggiore ong di militanti Lgbtq+). Tuonano organizzazioni internazionali, da Amnesty International a Human Rights Watch. Attivisti celebri in Uganda, come Frank Mugisha e Kasha Jacqueline Nabagesera, hanno fatto sentire la loro voce: “Sono orgogliosa di essere ugandese - ha detto Kasha al Guardian - e la nostra battaglia contro questa legge comincia ora”. A soffrire di più sono le persone comuni, come i 110 individui che a febbraio hanno denunciato (non alle autorità, ma alle ong) di essere stati vittima di violenze, abusi, svestizioni in pubblico perché “colpevoli” di essere omosessuali. Il 16 marzo uno sprezzante Museveni ha proclamato in tv che “i Paesi occidentali dovrebbero smetterla di cercare di imporre le loro pratiche devianti al resto del mondo”. A quando una visita trionfale del ministro russo Lavrov a Kampala?