41bis, quei ricorsi di via Arenula anche “oltre” la Cassazione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 marzo 2023 Il 41 bis si differenzia dagli altri regimi, non solo per le sue misure iper afflittive del tutto inutili per lo scopo, ma anche per le continue opposizioni da parte dell’amministrazione penitenziaria alle ordinanze della magistratura di sorveglianza. E questo nonostante siano ordinanze già consolidate dalle sentenze della Cassazione. Di recente, quest’ultima si è dovuta nuovamente pronunciare sul diritto del detenuto sottoposto al carcere duro di usufruire due ore d’aria all’aperto. Sistematicamente il ministero della Giustizia fa ricorso alle ordinanze che difendono tale diritto. Il 15 febbraio scorso, la Cassazione ha depositato la sentenza numero 6358, dove ha trattato il ricorso del ministero della Giustizia contro la decisione del tribunale di sorveglianza di Torino che ha confermato il provvedimento con il quale il Magistrato di sorveglianza della stessa città in data 9 aprile 2021, accogliendo il reclamo del detenuto Francesco Ursino recluso al 41 bis, aveva disposto che quest’ultimo avesse diritto a due ore quotidiane di permanenza all’aria aperta e che l’ulteriore ora al giorno dedicata alle sale destinate alla “socialità” non dovesse essere scomputata dalle due. I giudici supremi, per l’ennesima volta, hanno ritenuto infondato il ricorso. Il motivo? “Il collegio - scrivono i giudici - ritiene dare continuità all’indirizzo giurisprudenziale, che ha ritenuto che sono illegittime le disposizioni della circolare del Dap del 2 ottobre 2017 e dei regolamenti d’istituto che, con riferimento ai detenuti sottoposti a tale regime, limitano a una sola ora la possibilità di usufruire di spazi all’aria aperta, consentendo lo svolgimento della seconda ora, all’interno delle sale destinate alla socialità”. Per quale motivo è illegittimo? “Sia perché la permanenza all’aperto e la socialità - scrivono i giudici - devono essere tenute distinte, in quanto preordinate alle differenti finalità, rispettivamente, di tutelare la salute e di garantire il soddisfacimento delle esigenze culturali e relazionali di detenuti ed internati, sia perché la limitazione da due ad una delle ore di permanenza all’aperto non può essere stabilita, in difetto di esigenze di sicurezza inerenti alla custodia in carcere di per se stessa considerata, da atti amministrativi a valenza generale, ma deve conseguire all’adozione di un provvedimento specifico ed individualizzato della direzione dell’istituto, chiamata a render conto dei “motivi eccezionali” che giustificano la limitazione stessa”. Per spiegare meglio la questione delle ore di socialità, bisogna partire dalla legge del 2009 che limita a due le ore di “permanenza all’aperto”. La circolare del Dap del 2017 che uniforma le regole per tutti i reclusi del 41 bis, ha specificato che queste dure ore sono “da trascorrere all’aria aperta o svolgendo attività ricreative/ sportive, in appositi locali adibiti a biblioteca, palestra e sala hobby”. Ciò significa che secondo la circolare i detenuti dovrebbero decidere se spendere le due ore fuori dalla propria cella all’aperto oppure all’interno delle sale di socialità. Tale interpretazione è stata però decisamente smentita dalle sentenze della Cassazione, le quali - confermando l’orientamento di diversi magistrati di sorveglianza - interpretano “la permanenza all’aperto” come la permanenza all’aria aperta, mentre lo svolgimento delle attività ricreative sarebbe da escludere dal computo delle due ore. Ma non ci sono solo casi riguardanti le ore d’aria. Puntualmente accade anche con il discorso del divieto dei saluti. A gennaio del 2020, la Cassazione ha respinto il ricorso dell’amministrazione contro la decisione della magistratura di sorveglianza che accolse il reclamo proposto da Emanuele Argenti, sottoposto al regime del 41 bis del carcere aquilano, sul presupposto che il saluto rivolto ad altro detenuto non integrasse alcuna forma di comunicazione, implicando tale nozione uno scambio di dati, stati d’animo, sensazioni, non ravvisabile nel semplice saluto. Come se la Cassazione non si fosse mai pronunciata sul punto, nel 2021 è dovuta intervenire nuovamente sulla identica questione: ha respinto il ricorso del ministero della Giustizia nei confronti dell’ordinanza della magistratura di sorveglianza favorevole a Natale Dantese, recluso al 41 bis de L’Aquila e assistito dall’avvocato Vinicio Viol del foro di Roma. Parliamo sempre della sanzione disciplinare per lo scambio di saluti al 41 bis. Per l’ennesima volta i giudici supremi hanno dovuto ribadire che “deve escludersi che si fosse in presenza di una “comunicazione” nel senso indicato, non essendovi stata alcuna trasmissione di informazioni da un individuo a un altro, ovvero un’interazione tra soggetti diversi nell’ambito della quale essi costruivano insieme una realtà e una verità condivisa”. Pertanto, sempre secondo la Cassazione, “correttamente il Tribunale di sorveglianza ha rilevato come tale dichiarazione doveva considerarsi di natura neutra, non potendosi in essa cogliere alcuna particolare informazione e non avendo l’atto, in definitiva, un vero e proprio intento comunicativo”. Ma è accettabile, da parte dell’amministrazione penitenziaria, la continua opposizione alle ordinanze della magistratura? In realtà, come rivelato da Il Dubbio, ad ottobre del 2020 era stata emanata una importante circolare che aveva come oggetto i “reclami giurisdizionali” e comunicava l’orientamento assunto dai magistrati di sorveglianza a seguito dei rilevanti interventi della Corte costituzionale e della Cassazione sul 41 bis. Nello specifico ha chiesto ai direttori delle carceri che ospitano i 41 bis, di conformare l’azione amministrativa ai princìpi e alle ordinanze di accoglimento dei reclami dei detenuti da parte della magistratura di sorveglianza in materia di cottura dei cibi, di eliminazione del divieto di scambio di oggetti tra detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità, di eliminazione delle limitazioni alla permanenza all’aria aperta a una sola ora e di annullamento di sanzioni disciplinari inflitte per condotte consistenti in meri scambi di saluto tra detenuti come motivato da diverse sentenze della Cassazione. La circolare era a firma dall’allora direttore generale Turrini Vita. Ma era stata clamorosamente revocata dopo appena due giorni dall’allora capo del Dap Bernardo Petralia e dal vice Roberto Tartaglia. Che senso ha opporsi ai princìpi costituzionali, già oggetto di sentenze delle corti superiori, quando in realtà l’amministrazione stessa è obbligata ad uniformarsi? Alfredo Cospito colpito da crisi cardiaca: “Rischia danni irreversibili, paralisi a vita” di Antonio Lamorte Il Riformista, 22 marzo 2023 Alfredo Cospito ha sofferto un malore, una crisi cardiaca. A farlo sapere l’avvocato difensore Flavio Rossi Albertini secondo cui l’anarchico potrebbe aver subito danni irreversibili. Cospito, 55 anni, è in sciopero della fame dallo scorso 20 ottobre, è detenuto presso l’ospedale San Paolo di Milano al regime di carcere duro, il 41bis. La difesa sostiene anche che negli ultimi giorni Cospito fatica a camminare a causa di un problema al piede dovuto alla carenza di vitamine. “Poco prima del mio arrivo Alfredo ha avvertito dolore al petto e tremore ad una mano. Ha allertato la guardia e dopo dieci minuti è arrivato il medico urlando dicendo che stava morendo. Dal monitoraggio del cuore hanno visto che c’era un problema. Gli hanno immediatamente somministrato del potassio in vena. Ha avuto una crisi cardiaca. Lui ha visto tracciato del cuore con un grosso sbalzo, poi la situazione si è stabilizzata”. L’avvocato, citato dall’Ansa, ha aggiunto che il suo assistito ieri era stato sottoposto a un esame strumentale e “i medici dicono che rischia paralisi per tutta la vita. Danni irreversibili potrebbero essere già intervenuti”. Le condizioni di salute del 55enne sono successivamente rientrate, fonti mediche citate da Il Corriere della Sera Milano minimizzano quanto accaduto. Da venerdì scorso ha deciso di assumere gli integratori. “Il più grande insulto per un anarchico è quello di essere accusato di dare o ricevere ordini. Quando ero al regime di alta sorveglianza avevo comunque la censura e non ho mai spedito pizzini ma articoli per riviste anarchiche, mi era permesso di leggere quello che volevo, di evolvere. Oggi sono pronto a morire per far conoscere al mondo cosa è veramente il 41 bis. Settecentocinquanta persone lo subiscono senza fiatare”, aveva scritto in una lettera lo scorso 1 marzo. Lo scorso 6 marzo Cospito era stato trasferito all’ospedale San Paolo per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Qualche giorno prima la conferma del carcere duro dalla Cassazione. Il prossimo venerdì 24 marzo si discuterà davanti al Tribunale di Sorveglianza di Milano sulla richiesta avanzata dalla difesa di differimento pena, per motivi di salute, nella forma della detenzione domiciliare a casa della sorella. Se i magistrati dovessero accogliere l’istanza, di fatto verrebbe revocato il regime del carcere duro contro cui l’anarchico sta digiunando dallo scorso 20 ottobre. Ieri nella località Pietrapertusa, sulle alture del Pizzorne, nel comune di Capannori, in provincia di Lucca, era stato scoperto un tentativo di incendio doloso a due tralicci/ripetitori. Sulla cabina elettrica nei pressi di uno dei tralicci, la scritta con vernice nera: “Distruggere la megamacchina, vendetta per Alfredo”. La polizia era intervenuta dopo che alcuni addetti ai lavori avevano notato e segnalato diverse bottiglie di liquido di colore giallo e una sorta di innesco tenuto insieme da nastro adesivo e costituito da diavolina e fiammiferi. Non si è sviluppato alcun incendio. L’esecuzione della pena in gravidanza, la proposta di Ostellari di Francesca Spasiano Il Dubbio, 22 marzo 2023 “La vita nascente va sempre tutelata, ma non può rappresentare un alibi”, dice il sottosegretario leghista. Salvini: “Sì alla casa famiglia protetta al posto del carcere”. Anche il feto dietro le sbarre. È più o meno questa la proposta del sottosegretario leghista alla Giustizia Andrea Ostellari, per fermare la piaga delle borseggiatrici incinte. “La vita nascente va sempre tutelata, ma non può rappresentare un alibi”, ha detto il sottosegretario, convinto che la cronaca dimostri “che numerose borseggiatrici sfruttano il loro stato di gravidanza per sottrarsi all’esecuzione penale”. Tutto questo per Ostellari “è inaccettabile”. Per questo propone “una modifica dell’articolo 146 del codice penale, che consenta al magistrato, qualora debba essere eseguita una sentenza nei confronti di una donna incinta, di intervenire per interrompere un’eventuale catena di reati, assegnando la condannata ad una casa famiglia protetta ovvero ad un istituto di custodia attenuata per detenute madri”. Parole sacrosante per il leader della Lega, Matteo Salvini, totalmente in sintonia con la proposta del suo sottosegretario. “La gravidanza merita massima tutela ma non può essere una scusa per delinquere e sottrarsi all’azione penale - dice Salvini -. Servono buonsenso e realismo: la condannata dovrebbe scontare la pena anche in una casa famiglia protetta, meno pesante del carcere tradizionale ma necessaria per interrompere una catena di reati”. “La mafia può essere sconfitta”: Mattarella ricorda don Diana di Adriana Pollice Il Manifesto, 22 marzo 2023 Giornata in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, il presidente Mattarella l’ha passata a Casal di Principe per ricordare don Peppe Diana, il parroco ucciso dai Casalesi il 19 marzo 1994. La prima tappa, ieri, proprio sulla tomba del sacerdote: venne ucciso nella sagrestia della sua chiesa con 5 colpi di pistola da un killer del sodalizio allora capeggiato dal boss Francesco Schiavone detto Sandokan. La camorra non poteva tollerare un prete che si scagliava apertamente contro il controllo criminale che soffocava Terra di Lavoro al punto da scrivere una lettera manifesto “Per amore del mio popolo non tacerò”, diffusa nel giorno di Natale del 1991 in tutte le chiese della diocesi. Al cimitero Mattarella ha incontrato i parenti di don Diana e il sindaco di Casal di Principe, Renato Natale. Con loro Augusto Di Meo: unico testimone del delitto, denunciò subito il crimine a cui aveva assistito, un coraggio di cui però lo Stato non ha tenuto conto. A Mattarella Di Meo ha consegnato una lettera “per dirgli che dopo 29 anni non sono stato ancora riconosciuto dallo Stato come testimone di giustizia - ha spiegato -. Non è per me ma per questo territorio, perché se non ci fosse stata la mia denuncia oggi non staremmo qua”. In base ai dati di Libera, in Campania sono 215 le vittime innocenti delle mafie, 19 avevano meno di 17 anni. L’ultimo è stato un 18enne ucciso tre sere fa a Napoli da un colpo vagante per un diverbio tra ragazzi che non conosceva finito a revolverate. Altra tappa della visita del presidente della Repubblica è stata all’Its Guido Carli: dopo i selfie con gli studenti, ha ascoltato i racconti di una generazione che spera di essersi messa alle spalle il sistema camorristico. Mattarella ha ricordato le parole di don Diana: “Dopo l’uccisione di un innocente disse: ‘Non in una Repubblica democratica ci pare di vivere ma in un regime dove comandano le armi. Leviamo alto il nostro No alla dittatura armata’. Le mafie vogliono persone asservite. Prostituzione, traffico di esseri umani, di rifiuti tossici, caporalato, commercio di armi, droga, lasciano nel territorio povertà e disperazione”. Le relazioni della Dia raccontano di un clan dei Casalesi che ha deposto le azioni armate eclatanti ma che continua a influenzare la vita economica del territorio, tra attività illegali e zona grigia degli affari. “Non dobbiamo smettere di vigilare - il monito di Mattarella -. La criminalità organizzata è capace di vivere nascosta, pronta a rialzare la testa al minimo sintomo di cedimento. Tutte le amministrazioni pubbliche devono far sentire la loro presenza accanto ai cittadini”. Qualcosa è cambiato: “Nei bunker pieni di lusso dove vivevano, asserragliati, i capi della camorra di Casal di Principe - ha proseguito Mattarella - oggi si trovano attività di assistenza, di volontariato, di creatività, di imprenditoria solidale. La città rappresenta un modello virtuoso di partecipazione civile. La solidarietà, l’inclusività, la cultura, l’allegria sono antidoti alla mentalità mafiosa. Dovete essere fieri di essere nati in questa terra”. Per poi citare Giovanni Falcone: “La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Casal di Principe lo ha dimostrato. L’omicidio di don Peppino Diana è stato un detonatore di coraggio e di desiderio di riscatto. Ha prodotto un’ondata di sdegno, di partecipazione civile, una vera battaglia di promozione della legalità”. Tappa finale la Nco - Nuova cucina organizzata che, nella sigla, fa il verso alla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo ma invece rientra nella galassia di coop che riutilizzano beni confiscati alle mafie convertendoli a uso sociale. A Casal di Principe gestiscono un ristorante in una villa confiscata al camorrista Mario Caterino, a lavorarci sono 7 ragazzi con disagio psichico. Il Sindaco Natale: “Ventinove anni fa centinaia di lenzuola bianche furono esposte dai balconi. Cominciava il lungo cammino di riscatto. Decine i morti ancora contati per mano della camorra. Ma il popolo ha riconquistato trincea su trincea la sua libertà. È stato un lungo e tortuoso cammino fino al giorno in cui è comparso sui muri lo striscione ‘qui la camorra ha perso’. Più di 40 anni di dittatura militare - ha concluso - hanno lasciato macerie che attendono di essere rimosse. Servono uomini e mezzi per dare risposte ai cittadini, se non ci riusciremo daremo modo alla criminalità di recuperare consensi”. Maxiprocesso, fango su Daniela Chinnici: vietato criticare gli abusi dei pm di Tiziana Maiolo Il Riformista, 22 marzo 2023 “Quel libro alla Camera umilia le vittime di mafia”, sentenzia Nando Dalla Chiesa, indignato perché il libro di Alessandro Barbano, “L’inganno”, viene presentato in Parlamento. Custode dell’ortodossia emergenziale l’uno, dissacratore dell’Antimafia fatta di leggi speciali e retorica l’altro, fino a evocare lo spirito di Leonardo Sciascia, cui dedica, insieme ai familiari, il libro. E nelle stesse giornate una forte critica “a rovescio”, quando una docente associata di procedura penale a Palermo, Daniela Chinnici, osa toccare l’intoccabile, il maxiprocesso voluto da Giovanni Falcone. Inutile soffermarsi alla scelta del termine “obbrobrio” scelto per definirlo, quanto entrare nel merito delle argomentazioni usate. Due facce della stessa medaglia. Da una parte il ruolo che tutto quanto il pacchetto-antimafia, che comprende, oltre alle leggi speciali, non solo pubblici ministeri e giudici, ma anche partiti come il Pd e i Cinquestelle, e poi giornalisti, sindacati, associazioni varie e comitati di parenti, è venuto assumendo nel corso degli anni. E dall’altra, il punto di partenza, il maxiprocesso di Palermo, concluso con la famosa sentenza della Cassazione del 30 dicembre 1992. Cui seguirono le stragi di Cosa Nostra, l’omicidio di Salvo Lima e poi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. In due articoli sul Fatto quotidiano (19 e 20 marzo) Dalla Chiesa sparge retorica a volontà, ma soprattutto senza volerlo, offre la migliore recensione e conferma della tesi del libro di Barbano sull’Antimafia, il suo ruolo politico, le sue degenerazioni. C’è quasi un senso di religiosità, nelle parole del sociologo milanese, e non solo perché annuncia una manifestazione organizzata da Libera, l’associazione di don Ciotti che fa parte a pieno titolo del pacchetto-antimafia, nella chiesa milanese di S. Stefano. Perché fa assurgere a ruolo politico dalla parte dei buoni (“la storia siamo noi”) “i familiari delle vittime innocenti di mafia”. E, mettendo dalla parte dei cattivi il libro e di conseguenza il suo autore, sotto sotto cade nella vecchia abitudine di dare del mafioso a chiunque abbia un atteggiamento critico nei confronti di chi, nel nome della lotta alla mafia, pretende di giudicare sul piano morale. E magari altera anche le regole del processo e dello Stato (laico) di diritto. Gli esempi sono tanti e hanno sempre lo stesso presupposto, che vede la mafia come eterna, onnipresente e invincibile, e tutto lo squadrone dell’Antimafia armato fino ai denti pronto a combatterla con ogni mezzo e ogni metodo. Attribuendo a questa parte il ruolo politico di angeli eroici in rappresentanza del Bene in lotta contro il Male. Nando Dalla Chiesa lamenta il fatto che nel pacchetto dell’antimafia militante, proprio quella che Sciascia bollava come “professionista”, nel libro di Barbano sia citata anche l’associazione Libera. Gli racconterò un piccolo episodio che nasconde vanità e arrivismo di certi angeli del Bene. Molti anni fa nella cittadina della cintura milanese di Buccinasco, ingiustamente definita, da quelli che la pensano come Dalla Chiesa, la Platì del nord, c’era uno stabile confiscato alla mafia e quelli di Libera vi avevano messo sopra gli occhi, la chiedevano al Comune per farvi una “pizzeria antimafia”. Il sindaco di allora aveva invece preferito mettere lo stabile a disposizione di una serie di associazioni di giovani, compresi quelli di Libera, che però avevano rifiutato. Perché evidentemente interessava loro, tramite la pizza antimafia, fare propaganda politica e segnarsi una tacca sul cinturone di combattenti. Se tutto ciò si limitasse al mondo della cultura e della politica, non sarebbe grave quanto il fatto che il dogma di emergenza e sospetto spesso paranoico ha contagiato il processo penale. Protagonisti sono i reati associativi e in particolare l’articolo 416-bis del codice penale, l’affastellarsi di leggi speciali costruite a contorno, a partire dal famoso decreto Scotti-Martelli del 1992 che ha introdotto tra l’altro i reati ostativi e incostituzionali. E poi, cosa più grave, il senso di vendetta nei confronti delle stragi mafiose da parte dello Stato che si era esteso anche alle toghe. È davvero obbrobrioso, per usare il linguaggio della professoressa Chinnici, sentir dire “magistrati in lotta”, e lo stesso termine “antimafia” attribuito a chi non dovrebbe essere “anti”, ma freddamente dovrebbe indagare e giudicare ogni singolo reato e di conseguenza ogni singolo indagato o imputato. Giovanni Falcone è sfuggito a questa trappola dell’antimafia? In parte sì, basta leggere i suoi scritti. Era sicuramente un garantista e mostrava di credere nei principi del rito accusatorio del codice del 1989, introdotto un po’ a cavallo del maxiprocesso, una vera contraddizione in termini anche solo per la sua esistenza. Vogliamo dire una cosa impopolare? Il Maxi fu una trappola per Falcone, per l’Antimafia e anche per il Paese. Quando la professoressa Chinnici afferma che l’imputato di mafia deve essere trattato con le stesse regole che si usano per il ladro di auto, dice qualcosa di così vero da essere ovvio. Ma in quei giorni un po’ tutti avevano perso la testa e forse l’aver escluso dalla Cassazione il presidente Corrado Carnevale, che non era affatto amico dei mafiosi, ma certamente un “ammazzasentenze” quando verificava che non si erano rispettate le regole, è stato un errore che si è poi pagato con i tragici eventi che seguirono quella sentenza. “Il fortino di potere dell’antimafia ha paura del libro di Barbano” di Valentina Stella Il Dubbio, 22 marzo 2023 Intervista al leader dei penalisti Gian Domenico Caiazza: “Vogliono intimidire e quindi precludere una riflessione critica e un dibattito su uno strumento giudiziario che senza dubbi è sfuggito di mano a chi lo utilizza”. C’è una sorta di Fatwa, lanciata dal Fatto Quotidiano soprattutto, sul libro del giornalista Alessandro Barbano “L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”. In pochi giorni si sono susseguiti due articoli - uno a firma di Nando Dalla Chiesa e l’altro di Gian Carlo Caselli - che definiscono il testo oltraggioso e offensivo per i parenti delle vittime di mafia. Interroghiamo su questa retorica Gian Domenico Caiazza, Presidente dell’Unione Camere Penali. Può un libro far paura nel 2023? Sì, certo. Questo libro fa paura a chi, secondo la lucida previsione di Leonardo Sciascia, ha trasformato o intende trasformare da tempo l’antimafia in una sorta di fortino e di potere inespugnabile e incontrollabile. La pretestuosità dell’aggressione a questo libro e al suo autore risulta evidente proprio perché il richiamo che viene fatto sia da Nando dalla Chiesa che da Giancarlo Caselli allo strumento della misura di prevenzione patrimoniale per colpire la mafia non ha nulla a che fare col tipo di denuncia contenuta nel libro. Ci spieghi meglio... Esso non mette mai in discussione che i patrimoni mafiosi debbano essere aggrediti ma racconta le mostruose storture che il meccanismo della misura di prevenzione patrimoniale ha determinato e determina nell’esperienza giudiziaria quotidiana, soprattutto fuori dai processi di mafia o con il pretesto di indagini di mafia troppo spesso a carico di persone innocenti. Nando Dalla Chiesa: “Quel libro umilia le vittime di mafia”... L’uso delle argomentazioni in termini di richiamo emotivo al fenomeno criminale mafioso e alle sue vittime è un modo che io considero intellettualmente disonesto di intimidire e quindi precludere una riflessione critica e un dibattito su uno strumento giudiziario che senza dubbi è sfuggito di mano a chi lo utilizza. Tali e tante sono le anomalie e le storture di quei procedimenti che aggrediscono e distruggono patrimoni sulla base di meri sospetti persino a prescindere dai giudizi assolutori, che si sono estesi a tutta una categoria di reati che con la mafia non c’entrano nulla. Un altro aspetto che critica Dalla Chiesa è che il libro venga presentato alla Camera e per di più alla presenza dell’ex Ministra Cartabia... È proprio la Camera dei deputati la sede naturale per occuparsi di questo tema. Noi abbiamo fatto e faremo di tutto come penalisti affinché tale questione venga posta seriamente all’attenzione del Parlamento. Quest’ultimo deve sapere cosa nella realtà accade in merito alle misure di prevenzione. Deve sapere che intorno ad esse si è creata una vera e propria casta ristrettissima di professionisti chiamati ad amministrare le imprese sequestrate e ai quali vengono affidate gestioni di soggetti produttivi anche molto importanti a volte con formidabili ricadute in termini di guadagni ed onorari. Occorre che il Parlamento sappia cioè che il caso Saguto non è la storia di una mela marcia ma esattamente la rappresentazione di ciò che il sistema delle misure di prevenzione può diventare e diventa nella concretezza della sua applicazione. Il libro di Barbano è “scandaloso” perché riesce a dare una documentata rappresentazione di una serie incredibile di patologie del sistema che dimostrano quanto appena detto. Il problema è che non si vuole scardinare questo fortino, luogo di potere formidabile di controllo economico dei territori. Per chi vi incappa è un calvario... Oltre alla impossibilità di difendersi, i tempi sono molto lunghi e quindi, come racconta il libro, anche se alla fine si dimostra che pure la misura di prevenzione era infondata, nel frattempo le aziende sono state sequestrate, amministrate, spolpate, vendute o mandate al fallimento. Secondo Gian Carlo Caselli c’è un “vento’” che vuole modificare la normativa antimafia... In un sistema democratico vero dobbiamo augurarci il vento delle idee. Quello che ci deve spaventare è il tanfo della bonaccia, la morta gora dell’intangibilità di alcune cose alle quali si vuole conferire un valore di sacralità. Per cui chiunque le mette in discussione bestemmia, oltraggia le vittime e il sangue dei magistrati: si tratta di un modo indecente di affrontare i problemi. Si può concordare o meno sui giudizi critici ma qualunque democratico che abbia a cuore le sorti della vita del proprio Paese deve augurarsi il ‘vento’ delle idee. Non le sembra un paradosso che Caselli difenda questa triade - maxi processo, legge sui pentiti e 41 bis - ma poi la mafia esiste ancora? Io vorrei far emergere un altro paradosso. Chi attacca questo libro non spende una parola sulle cose che Barbano denuncia. Se fosse davvero un libro così indegno, intanto sarebbe sommerso di denunce - cosa che non mi risulta - ma soprattutto se si critica un libro bisognerebbe entrare nel merito e dire cosa non è vero. Invece noto che dai critici non arriva nessun accenno al contenuto del libro: dei drammi umani e delle storie di dolore raccontati non c’è traccia in quegli articoli di critica all’autore e alla sua opera. Un libro deve essere messo all’indice se narra delle menzogne e non se dice delle verità. E Barbano le dice e quindi nessuno ha il coraggio di confutare un rigo del libro, nulla sulle distorsioni delle leggi antimafia. Eppure dovrebbe essere un interesse comune, di tutti i cittadini, quello di difendere la legislazione antimafia dove essa funziona e stigmatizzarla dove produce, invece, delle ingiustizie a volte più mostruose di ciò che essa intende combattere. “Gli sputi della folla e la protervia dei pm: vi racconto tutto dell’orrore giudiziario di Enzo Tortora” di Michele Brambilla huffingtonpost.it, 22 marzo 2023 Intervista con l’avvocato Raffaele Della Valle a 40 anni dall’arresto: “La sfilata in manette fu una messinscena per il tg. Al primo interrogatorio era già chiaro tutto, ma nessuno volle ammettere di aver preso un granchio. L’incredibile storia di Enzo Tortona, con la enne. Un trauma che non dimenticherò mai”. Avvocato Raffaele Della Valle, lei dov’era la notte di venerdì 17 giugno 1983? È una notte che non mi dimenticherò mai. Per il trauma che mi ha provocato. Ce la racconta? Ero a casa, a Villasanta, alle porte di Monza. Alle 4,40 circa squillò il telefono. Il fisso, naturalmente: i cellulari non esistevano ancora. Un orario insolito... Ma non per me. Ero abituato a chiamate notturne, visto il lavoro che faccio. E quindi di solito quando suonava il telefono a quell’ora non mi preoccupavo. I bambini erano ancora piccoli: non avevo figli in giro, insomma. Però quella notte mi svegliai angosciato. Avevo un presentimento. Chi rispose? Mia moglie. Mi disse: è Enzo Tortora. Mi stupii. C’eravamo visti pochi giorni prima, al tribunale di Monza, per uno di quei processi per diffamazione a mezzo stampa cui i giornalisti sono abituati. Non capivo perché mi dovesse chiamare a quell’ora. Era lui al telefono, o glielo passarono? Era lui. Aveva la voce rotta: “Raffaele corri, non capisco più nulla, sono all’Hotel Plaza di Roma e mi stanno arrestando”. Arrestando? E per cosa? “Associazione di stampo camorristico e traffico di droga”. Gli chiesi se stesse scherzando. Gli dissi: passami qualcuno di quelli che ti stanno arrestando. “Non è possibile”, rispose. “Vieni al più presto”. Mi vestii in fretta e furia e presi il primo aereo. Non era uno scherzo... Arrivai a Roma verso le otto e mezza. Nel frattempo Tortora era stato portato in una caserma dei carabinieri poco lontana da Regina Coeli. Entrai con il cuore in gola. Attorno alla caserma c’era un sacco di gente. La fecero parlare subito con lui? Assolutamente no. Riuscii solo a vederlo da una stanza all’altra. Lui mi fece un cenno e mi sembrò quasi un po’ rassicurato: ero l’unico volto amico lì dentro. Tortora aveva tutti contro, già da quella notte. Compresa la gente che si era radunata davanti alla caserma, chissà come mai, chissà chi li aveva avvisati. C’era una grande esaltazione. Un carabiniere mi disse: lei vada a Regina Coeli e aspetti là. Lei andò subito? Sì. E una grande stranezza mi colpì. Passavano le ore e Tortora non arrivava. Solo verso l’una, quando il telegiornale stava per andare in onda, Enzo arrivò su un furgone che si fermò a una cinquantina di metri dall’ingresso del carcere. Lo fecero scendere, ammanettato con ferri da tortura medievale. La gente lo insultava, gli sputavano addosso. Era stato arrestato quasi nove ore prima: ma tutto veniva ricostruito per la diretta al tg. Come si spiega una cosa del genere? Se mi si passa il paragone, che per certi versi è improprio, rividi le immagini di piazzale Loreto. Fino alla sera prima Tortora era adorato, e poco dopo umiliato. Ma qualche motivo per insultare Mussolini gli italiani ce l’avevano... Tortora faceva ventisette milioni di spettatori con Portobello. Un altro Enzo, Ferrari, diceva: in Italia ti perdonano tutto ma non il successo... Appunto. L’invidia. Vada avanti con il racconto di quelle ore... Vidi Tortora scomparire dietro il portone di Regina Coeli, inghiottito dal carcere. Lo rividi, e gli potei parlare per la prima volta dal momento dell’arresto solo quattro giorni dopo, per l’interrogatorio. Forse il più assurdo interrogatorio che abbia mai visto. Perché? Perché è raro che al primo interrogatorio emerga subito, in modo così chiaro, che è stato preso un granchio colossale. Ma quello, più che un interrogatorio, fu un esamino ridicolo, direi anzi irridente. Cinque minuti in tutto. Quante domande fecero a Tortora? Tre. La prima: se conosceva Domenico Barbaro, un detenuto, pilastro dell’accusa. Il nome di Barbaro girava già da qualche giorno sui giornali e così avevo fatto in tempo a fare un controllo. Dalla redazione di Portobello saltò fuori una corrispondenza fra l’ufficio legale della Rai e questo Barbaro, che chiedeva 800mila lire per alcuni centrini di seta che aveva mandato per la trasmissione, e che erano andati persi. Quando tirai fuori la prova di quella corrispondenza, il cancelliere diventò bianco come un cencio. Perché? Perché aveva capito che il problema era risolto. Aveva capito quali fossero il vero ‘contatto’ fra accusatore e accusato e il motivo del risentimento. Faccio sempre l’esempio della sala operatoria. Il chirurgo ha appena finito un intervento per il quale ha utilizzato venti ferri. Come da protocollo, chiede all’infermiere quanti ferri veda ora, a intervento concluso, e si sente rispondere diciannove. Fa un’ecografia, e vede che il ferro mancante è rimasto nello stomaco. Problema risolto. Sicuro che sia un paragone che regge con quel primo interrogatorio di Tortora? Sì, perché non c’era altro. Né pedinamenti, né intercettazioni, né soldi trovati. Niente di niente. Lei ha detto però che in quel primo interrogatorio le domande a Tortora furono tre... Esatto. La seconda consistette nel mostrare la foto sbiadita di una donna e di chiedere a Tortora se la conoscesse. Enzo chiese al giudice un’indicazione per aiutarlo a ricordare, ad esempio che mestiere facesse quella donna. Il magistrato gli rispose così: “E che mestiere vuole che faccia? La puttana”. Ecco, così. La terza domanda? Se era mai stato a Ottaviano. E Tortora rispose di no, disse che di Ottaviano aveva forse scritto sul Monello parlando del terremoto dell’Irpinia. Fine dell’interrogatorio. Pensai: adesso lo scarcerano. E invece? E invece cominciarono le indagini per rendere credibili le idiozie dei pentiti Giovanni Pandico, uno schizofrenico, e Pasquale Barra detto ‘O animale: due compari di Barbaro. Si inventarono anche la deposizione di Giuseppe Margutti, un pregiudicato mitomane spacciato per grande pittore. Diceva di aver visto Tortora spacciare droga negli studi di Antenna Tre. Fantasticava di assaggi sulle dita. Raccontò anche di un incontro fra Tortora e il boss Francis Turatello al ristorante La Vecchia Milano... Sì, e qui siamo al delirio. Margutti riferì di una riunione in cui, oltre a Turatello, c’erano anche Roberto Calvi e Flavio Carboni, insomma il banchiere e il faccendiere, con Tortora che srotolava su un tavolo una mappa di Milano. Una scena da film di Francesco Rosi, Le mani sulla città. E gli credettero? Io dissi al pm: andiamo a sentire il proprietario e i camerieri di quel ristorane e chiediamo loro se hanno mai visto Tortora. Sa che cosa fece il pm? Mandò un carabiniere a verificare se esisteva davvero il ristorante La Vecchia Milano. Ottenuta la conferma, considerò di avere riscontrato le parole di Margutti. Io dissi al pm: se le raccontano di un delitto commesso sotto la Torre di Pisa, lei ci crede perché la Torre di Pisa esiste? Poi saltò fuori l’agendina telefonica del camorrista Giuseppe Puca detto ‘O Giappone. “C’è il numero di Tortora su quell’agenda”, disse l’accusa... Nel frattempo si era unito a me, nella difesa, il professor Alberto Dall’Ora. Chiedemmo appuntamento al giudice istruttore per vedere che numero fosse. Ci ricevette al carcere di Bergamo, dove nel frattempo Tortora era stato trasferito per gravi motivi di salute. “L’agendina? L’ho scordata a Napoli”, ci disse il giudice. E voi andaste a Napoli... E finalmente vedemmo l’agenda. Il numero era di un tale Enzo Tortona, con la enne. Uno di Salerno. Nei verbali, Tortona era diventato Tortora e nessuno si era premurato di fare una verifica che avrebbe portato via cinque minuti. Anche qui: problema risolto... E invece, anche qui, niente. Al processo chiamammo a testimoniare Enzo Tortona, il quale confermò: “Quel numero è mio”. Il presidente gli contestò: “Che prova ci dà che quel numero è suo?”. “Dotto’, facite ‘o numero”, rispose il testimone. E niente? E niente. Condannarono Tortora a dieci anni. Ci vollero i giudici d’appello, tre magistrati seri, per ordinare finalmente le indagini e le perizie che noi avevamo chiesto, e per smontare le accuse. Tortora fu assolto dopo tre anni di orrore giudiziario. Ripeto: orrore, non errore. Qual è la differenza? Un errore può succedere. Ma su Tortora si costruì apposta un processo inventato, con pentiti che potevano stare insieme per coordinare le loro calunnie. Ma perché? Può l’invidia essere un motivo sufficiente per costruire un processo contro un cittadino incensurato e innocente? Non sembrano esserci motivazione particolari: né politiche né economiche... E infatti, è anche peggio. Non c’è un complotto preordinato. Ci sono protervia, arroganza, mancanza di umiltà, superbia. Sono andati avanti perché non hanno voluto ammettere di essersi sbagliati? Esattamente. E tutto qui. La precisa volontà di nascondere un ferro che era stato dimenticato nello stomaco, e che si vedeva con l’ecografia. (Ecco, questa è la storia di Enzo Tortora quarant’anni dopo. La ricordiamo affinché chi rivedesse il video di quell’arresto, sappia che fu tutta una scena ricostruita, al fine di far - della giustizia - uno spettacolo. E la ricordiamo anche affinché tutti sappiano che per quell’orrore nessuno ha pagato. Né i magistrati, che furono anzi promossi dai loro stessi colleghi, né i giornalisti i quali - salvo rarissime eccezioni - brindarono alla condanna dell’”imputato antipatico”). Fare l’avvocato - e il giudice - all’epoca di ChatGPT di Ernesto Belisario La Stampa, 22 marzo 2023 Far scrivere sentenze a un’IA che apprende solo dai precedenti rischia di escludere la possibilità di sentenze innovative, che cambiano interpretazioni consolidate e spesso rappresentano un avanzamento per i diritti e le libertà. Nessuno mi avrebbe creduto se, quando sono entrato per la prima volta in uno studio legale per la pratica forense, 23 anni fa, avessi detto che il processo sarebbe stato telematico e che raccomandate e firme con la stilografica sarebbero state sostituiti con Pec e firme digitali. E invece, in pochi anni, avvocati e magistrati - in alcuni casi forzati dalle norme - hanno completamente cambiato gli strumenti di lavoro. La rivoluzione è solo all’inizio però. L’avvento di ChatGPT (e di tutte le altre soluzioni di IA generativa) è l’inizio di un cambiamento ancor più profondo per gli avvocati e, in generale, per il sistema giustizia. Un cambiamento improvviso che consente, anzi impone, a tutti i professionisti del diritto di ripensare il proprio lavoro (e il proprio futuro). Con questi strumenti, chiunque può fare qualsiasi domanda e, in pochi secondi, ottiene una risposta: il testo di una mail, un sonetto, un contratto di locazione o un atto giudiziario. Il risultato è spesso sorprendente: ChatGPT è il sistema più impressionante che ho visto in oltre vent’anni di sperimentazione delle tecnologie in campo giuridico. Gli utilizzi in ambito legale sono molteplici: già oggi queste tecnologie possono generare bozze di contratti utili e parti di atti giudiziari. In tutto il mondo si moltiplicano i casi di utilizzo nel settore legale. In Colombia, ChatGPT è stato usato nella stesura di una sentenza. Alcuni accademici statunitensi lo hanno testato sugli esami della facoltà di giurisprudenza: il test è stato superato e l’IA ha scritto saggi giuridici su diversi argomenti. Sempre in Usa c’è chi ha portato un “avvocato robot” in tribunale per decidere la strategia difensiva. Ovviamente, non mancano le critiche di chi sostiene che queste soluzioni facciano ancora troppi errori. Vero, ma non va dimenticato che si tratta di una versione sperimentale. Insomma, l’IA non può fare altro che migliorare. Velocemente. Molto presto per attività come la prima stesura di un documento o il confronto tra atti e sentenze, ChatGPT sarà migliore di un praticante avvocato. Questo apre almeno tre scenari. Il primo è legato ai clienti dei servizi legali. Oggi, per chi non si fida delle ricerche su Google o non ha un “cugino” avvocato, non c’è alternativa al rivolgersi a un professionista. Ma cosa succederà quando - tra poco, ormai - i clienti potranno rivolgersi a sistemi di IA per scrivere contratti, rispondere a quesiti e dare pareri? Al momento, ChatGPT pare addestrata per consigliare sempre di consultare un professionista (vista anche la sua natura sperimentale), ma è facile immaginare che si moltiplicheranno servizi specifici che sicuramente saranno più convenienti di una consulenza tradizionale. Per evitare che questi servizi danneggino gli utenti, dando consigli sbagliati, dovranno essere sviluppati coinvolgendo (umani) professionisti del settore e dovranno fornire garanzie in termini di responsabilità in caso di danni prodotti da una consulenza sbagliata. Il secondo scenario è legato all’uso negli studi legali. Nelle scorse settimane Microsoft ha annunciato l’integrazione di GPT (tecnologia alla base di ChatGPT) con Word, il programma più usato negli studi legali per scrivere i documenti. Ciò significa che presto parte dei testi sarà generata, su input dell’avvocato, direttamente dall’IA. Ma è verosimile che l’intelligenza artificiale rivoluzionerà il modo in cui viene fatta la ricerca della giurisprudenza alla base della stesura di atti e pareri: non più per sentenze ma per tesi difensive. Inoltre, soluzioni di IA potrebbero essere usate per consentire agli avvocati, sulla base delle pronunce dei tribunali, di conoscere la probabilità di successo di un’azione giudiziaria, in modo da fornire al cliente un’informazione trasparente sui rischi del contenzioso. Il terzo modo in cui l’intelligenza artificiale potrebbe rivoluzionare il mondo del diritto è legato al lavoro dei giudici. Esistono già diverse sperimentazioni di soluzioni di IA che consentano ai giudici di scrivere le motivazioni delle sentenze, ma questa è una delle applicazioni più critiche di tutte. Le soluzioni di IA lavorano sui precedenti, dai quali apprendono. Ciò significa che difficilmente la sentenza scritta da un’IA sarà innovativa, le sentenze “artificiali” saranno ripetitive di quanto affermato in pronunce passate. Invece, il mondo del diritto è fatto anche di sentenze “rivoluzionarie” che cambiano interpretazioni consolidate e spesso rappresentano un avanzamento per i diritti e le libertà, adeguando ai tempi e alle esigenze della società l’interpretazione di norme dettate in un diverso contesto storico. L’intelligenza artificiale può semplificare la vita di chi lavora nel sistema giustizia, ma non potrà mai sostituirsi alle intuizioni delle donne e degli uomini impegnati a difendere i diritti e le libertà. Veneto. Zaia: “Mandiamo i bulli a fare lavori socialmente utili nelle case di riposo” di Martina Zambon Corriere del Veneto, 22 marzo 2023 Dopo gli ultimi casi-choc del pestaggio delle baby bulle a Padova, del ragazzino sfregiato in un incidente e bullizzato a scuola fino ai pallini di gomma sparati in classe a un’insegnante del Rodigino, ministro e presidente della Regione spiegano le loro ricette contro la piaga del bullismo. Valditara cita anche uno studio della Fondazione Veronesi, su dati Usa, secondo cui la prolungata esposizione a vessazioni in giovane età porta a incrementare la possibilità di sviluppare patologie tumorali. Se per il ministro la sospensione dei bulli da scuola rischia di essere controproducente è Luca Zaia a completare il ragionamento logico: “Non possiamo accettare gli atti di bullismo in incremento. Le famiglie non possono dire che l’educazione deve essere demandata alle istituzioni scolastiche. L’educazione, specie quella al rispetto, deve essere impartita a casa”. E, ancora, sempre più duro, “Non dobbiamo ragionare di manette o di carcere, dobbiamo prendere i ragazzi colpevoli di bullismo e con il contrappasso dantesco mandarli a fare lavori socialmente utili nelle case di riposo, nei centri per disabili e nei luoghi in cui sono ospitate le donne vittime di violenza. Così potranno capire la violenza e abbandonarla”. Certo, resta il dato di fatto, come nel caso del ragazzino veronese costretto a lasciare la sua scuola senza riuscire, denunciano i genitori, a trovarne una che lo accolga a marzo inoltrato. Lo conferma Zaia: “Spesso è il ragazzo bullizzato a dover cambiare scuola e non i suoi compagni violenti, questa non può essere la strada”. Il tema è più complesso di quanto si possa pensare. Valditara affida l’eventuale soluzione a un tavolo “che vede riuniti tutti gli attori coinvolti, non solo le scuole ma anche le associazioni dei genitori e degli studenti”. Insomma, parola agli esperti. Ma il ministro ha la sua idea ben chiara in mente: “Per quanto mi riguarda, farò di tutto perché nelle scuole si affermi la cultura del rispetto nei confronti delle persone e dei beni pubblici. Bisogna contrastare qualsiasi forma di violenza e quel fenomeno del bullismo che produce danni gravi, psichici e fisici, a chi lo subisce. Ma se noi sospendiamo un ragazzo autore di atti di bullismo, non lo recuperiamo. Tenendolo a casa per mesi, se quel ragazzo ha frequentazioni cattive o brutte amicizie, rischiamo di perderlo definitivamente. Avevo proposto a suo tempo i lavori socialmente utili, perché mettendosi a servizio della comunità, un ragazzo può maturare e rendersi socialmente utile ma su questo dovranno parlare soprattutto gli esperti”. A testimoniare l’attenzione del ministero Valditara spiega che, come nel caso della prof di Rovigo, “è stata messa a disposizione del personale della scuola l’avvocatura dello Stato perché è ingiusto che un insegnante fatto oggetto di violenza debba pagarsi le spese legali. Non vogliamo che gli insegnanti si sentano soli”. Altro capito affrontato è stato quello della lotta alla mafia che deve partire dalle scuole. Perché, ha specificato Zaia, “anche in territori ritenuti immuni, i tanti processi in corso, incluso quello in cui sarò audito come parte civile il 4 aprile (il processo ai Casalesi di Eraclea, ndr), dimostrano che immuni non sono”. “La lotta alla mafia deve partire dalle scuole: dobbiamo insegnare ai ragazzi il senso dello Stato, la cultura dei doveri e della responsabilità”. Infine, Zaia ha parlato di autonomia e scuola: “Con l’autonomia differenziata la scuola sarà tailor made. In alcune regioni l’obiettivo è lottare contro la dispersione scolastica ma in altre, come la nostra, ora abbiamo invece il mantra di insistere di più sulla seconda lingua. Con l’autonomia avremo un’istruzione fatta su misura per le diverse esigenze”. Torino. Morto in carcere inalando il gas delle bombolette di Massimiliano Peggio La Stampa, 22 marzo 2023 ?Un detenuto di 27 anni è morto ieri sera, poco prima delle 21, nel carcere di Torino dopo aver inalato probabilmente del gas da alcune bombolette, utilizzate in genere in cella per preparare il caffè o cucinare vivande sui fornelli da camping. Il compagno di cella è stato trovato privo di conoscenza, soccorso dagli agenti della polizia penitenziaria, è stato portato da un’equipe del 118 in ospedale, al pronto soccorso del Maria Vittoria ma non in pericolo di vita. Al momento non è chiara la dinamica dei fatti, se i due detenuti abbiamo cercato di stordirsi con il gas, oppure abbiano cercato di togliersi la vita insieme inalando il contenuto delle bombolette. Stando ai primi accertamenti il giovane sarebbe stato stroncato di un arresto cardiaco: i soccorritori del 118 hanno tentato invano di rianimarlo. Il secondo detenuto è stato ricoverato temporaneamente nella notte e riportato in carcere. Napoli. Morire senza un perché: le regole sempre più violente dei ragazzi di Roberto Saviano Corriere della Sera, 22 marzo 2023 La “faida della minigonna”, le risse per uno sguardo: a Napoli guardare in faccia qualcuno significa entrare nel suo territorio. Futili motivi. Morire per futili motivi. In realtà, non esistono futili motivi laddove ogni atto, ogni gesto, rientra in una semantica simbolica precisa, pericolosa, che va a descrivere potenti e sottomessi in una gerarchia continua dove se non rispondi o se rispondi, dove se ignori o se ingaggi, puoi essere definito socialmente un perdente o al contrario pronto a difendere il tuo onore. Una domanda inevasa, una risposta solerte, una non risposta possono decretare il proprio ruolo sociale. Oggi si muore per un piede calpestato involontariamente su scarpe appena comprate. È così che l’altra notte è morto a Napoli Francesco Pio Maimone, 18 anni. Siamo a Mergellina, davanti agli chalet, il luogo delle birre e dei taralli, in una Napoli diventata un lunapark per turisti e ragazzi, che vivono la perenne quinta che è diventata la città. La vicenda non lo riguarda, nella calca qualcuno pesta involontariamente le scarpe (altra versione è versa del vino) a un ragazzo, che come reazione tira fuori una semiautomatica e fa esplodere diversi colpi. L’obiettivo dei proiettili scappa e tre colpi colpiscono Francesco Pio, che sente un forte bruciore al petto, si accascia, e prima di spegnersi dice solo “non respiro”. Il presunto assassino sembra un giovane guaglione di camorra di Barra, ma il tema, anche se si tratta di un malavitoso, è: si può sparare perché qualcuno ti ha sporcato le scarpe? Le regole della criminalità organizzata sono altre. Uccidere quando necessario, su ordine dell’organizzazione. Non esporsi inutilmente. Eppure non è sempre così, soprattutto quando si tratta di giovani in strada. Nella semantica delirante fondata sul maschio - ostentare e difendere la propria inviolabilità - tutto diventa minaccia e onorabilità affrontata. L’ansia di questi guaglioni è di essere considerati deboli, esposti allo sfottò. Vogliono essere temuti. E se viene pestata una sneaker nuova, chi l’ha fatto va punito. Sono terrorizzati dal perdere la capacità di intimidazione: per loro significa perdere soldi, il potere vero, l’aura di ferocia e guasconeria. Devono reagire sempre. Da ragazzino mi sarò trovato in decine di risse che partivano solo da una frase: “Oh, ma m’ha guardat?”. Guardare in faccia qualcuno significa entrare nel suo territorio e per farlo devi essere autorizzato. Se non è un tuo amico o un tuo parente, significa che gli stai entrando in casa e lui può decidere se autorizzarti o pestarti. Spesso a innescare questa violenza è l’alcol, la coca, una pallina da dieci euro. Strafatti di bamba o ubriachi e armati di pistola, sparano, accoltellano, ammazzano per un pestone su un paio di scarpe. Voleva fare il pizzaiolo, Francesco Pio Maimone. Sul suo telefono l’ultimo messaggio chiedeva di essere assunto come muratore per guadagnare qualcosa. Non era in nessun giro di malaffare, lavorava. È morto mentre era con degli amici davanti al mare di Napoli. Ma il passaparola della stampa locale, pur in presenza di prove della totale estraneità di Francesco Pio alla dinamica dell’alterco, parla del padre pregiudicato (e allora?, lui ha colpe?) e di una sua amicizia con uomini del narcos Antonio Gaetano. Perché lo fanno? Perché a Napoli si rassicura la borghesia della città e la politica locale e nazionale con il “si ammazzano tra di loro, state tranquilli che a voi succede niente”. È così che si fonda l’omertà e l’ignoranza, spingendo sempre altrove il problema e lasciando credere che la violenza riguardi i violenti. In una città complessa, quando nasci in un quartiere misero è ovvio che cresci con pregiudicati. Francesco Pio era di Pianura, quartiere povero con una camorra ferocissima. Viveva in via Escrivà, roccaforte del clan Esposito Calone Marsicano, in queste ore in pieno subbuglio per una guerra per il controllo dei gadget del Napoli Calcio. La camorra di Pianura un tempo viveva intorno alla discarica che è stata per anni terreno di scontro politico. Non era nemmeno nato Francesco Pio quando nella discarica della sua zona smaltirono una balena: sì, proprio una balena spiaggiata in Liguria, rifiuto speciale costoso da smaltire, che la camorra sversò lì assieme a una valanga di rifiuti velenosi provenienti da ogni parte d’Italia. Quello che è accaduto a questo ragazzo di 18 anni non è il primo caso. La paranza dei bambini, il gruppo di camorristi minorenni che egemonizzò il centro storico di Napoli per anni comandato da Emanuele Sibillo, uccise Maurizio Lutricuso davanti a una discoteca a Pozzuoli. Maurizio aveva chiesto una sigaretta e quando questi ragazzi non gliel’avevano data lui aveva risposto a tono. Battute tipiche: “Hai una sigaretta?”, “Non fumo”, “Quando inizi?”. Battute del genere scatenarono la rissa dove il paranzino Salvatore, detto Tore ‘o malign, ancora minorenne all’epoca dei fatti, che non sembrava avere la meglio e allora decise di sparare e ammazzare Maurizio. Una vicenda simile si verificò nel 2006. Durante la festa dei mondiali vinti in Germania, un giovane con l’asta della bandiera tra le mani colpì per sbaglio la testa di un minorenne, fratello più piccolo di due camorristi, Luigi e Nicola Torino. Questo aggredì Michele Coscia, che reagì, e allora andò a chiamare i fratelli, lo indicò tra la folla, e loro lo ammazzarono sparandogli al petto. I Torino non sono una famiglia qualsiasi, sono una famiglia mafiosa vicina al clan dei Lo Russo di Secondigliano, e Michele Coscia, sventolando quella bandiera, aveva colpito la testa del fratello minore di Luigi e Nicola Torino. Michele Coscia, invece, era il fratello di Alberto Coscia, un camorrista loro rivale che era stato ucciso nel 2004. Quindi il suo gesto, compiuto davanti a tanti tifosi, assumeva un significato che Michele era ben lontano dal voler mandare. Per cose del genere si scatenano persino guerre. Una delle più feroci della storia della criminalità organizzata è la “faida della minigonna”. Tutto ebbe inizio quando in un luogo non troppo distante da dove è stato ammazzato Francesco Pio, un ragazzo avvicinò una ragazza e iniziò a ballarle vicino. Gennaro Romano, del rione Monterosa a Secondigliano, non sapeva che quella ragazza era di un territorio avversario, Masseria Cardone, e che non le era permesso nemmeno di accettare o rifiutare le sue avances. Un gruppo intervenne e pestò Romano, il quale dopo due ore, con altre persone al seguito, cercò di ammazzare qualsiasi affiliato del clan Licciardi, solo per lanciare un messaggio. Ammazzarono Brancaccio, che era uno dei migliori amici del Principino Vincenzo Esposito, 21 anni, erede al trono di Secondigliano, e lui a quel punto decise di vendicare l’amico, ma sarà a sua volta ammazzato. La faida proseguì per quasi venti anni e portò a 86 morti. Fu chiamata “della minigonna”, in perfetta logica sessista, incolpando l’indumento che aveva eccitato un guaglione sbagliato. Potrei andare avanti all’infinito raccontando episodi simili, e qualsiasi commento come barbarie o sottosviluppo andrebbe bene, ma non ci aiuterebbe a comprendere che queste dinamiche ci appartengono. Ma tanto che importa? Teniamo il golfo più bello, no? L’Aquila. Matteo Messina Denaro: “Mi uccido, non morirò di cancro” di Roberto Raschiatore Il Centro, 22 marzo 2023 Scatta l’allerta dopo il ritrovamento di un pizzino che l’ex capo di Cosa Nostra aveva indirizzato alla sorella Rosetta. Il Gruppo operativo mobile delle Costarelle si mobilita: cella sorvegliata 24 ore, rasoio e fornellino da restituire dopo l’uso. “Mi uccido, non morirò di tumore”. Le volontà di Matteo Messina Denaro, in un pizzino trovato in possesso della sorella Rosetta, hanno fatto salire ai massimi livelli l’allerta nel supercarcere aquilano delle Costarelle. La vigilanza attorno al superboss stragista, su disposizione del ministero della Giustizia, è stata potenziata nell’arco delle 24 ore. Vigilanza affidata al Gruppo operativo mobile (Gom), il reparto specializzato della polizia penitenziaria cui la legge demanda la custodia dei detenuti sottoposti al regime speciale del 41 bis. Messina Denaro si trova rinchiuso nel penitenziario abruzzese dalla metà di gennaio. A lui è “dedicato” un settore delle Costarelle dove ci sono sei piccole celle: tre oggi sono vuote (in una in passato pare fosse stata rinchiusa la compagna dell’anarchico Alfredo Cospito), una è occupata dal boss mafioso, una è stata allestita come ambulatorio a servizio del detenuto, malato di tumore, e in una terza c’è l’impianto di videoconferenza nel caso Messina Denaro volesse testimoniare nei processi in cui è coinvolto. Tutta l’area è sorvegliata da diverse telecamere, mentre gli agenti del Gom si alternano per il controllo del detenuto, al quale sono stati tolti oggetti o strumenti che potrebbero indurlo a gesti autolesionistici. Il rasoio per la barba, ad esempio, va restituito, così come il fornellino con cui si fa il caffè. Anche tutti i pasti vengono verificati attentamente prima di essere serviti. Ma che cosa c’era scritto nel biglietto sequestrato dai carabinieri? “Non morirò di tumore. Appena non ce la faccio più mi ucciderò a casa”. È quanto rivelato da Repubblica. Un testo che risale al 10 maggio 2022 ed è stato scritto da Matteo Messina Denaro per la sorella Rosetta, arrestata lo scorso 3 marzo a Castelvetrano, in Sicilia. Dopo essere sfuggito alla cattura delle forze dell’ordine per quasi trent’anni, il boss di Cosa Nostra aveva iniziato a pensare alla sua morte. Ma voleva essere lui a decidere quando e come andarsene. Il documento in cui Messina Denaro rivela i suoi piani è soltanto uno dei quasi mille pizzini ritrovati dai carabinieri del Ros tra l’appartamento di Campobello di Mazara e il casolare di campagna dove Rosetta andava di tanto in tanto. “Ho capito, anche se già lo sapevo, che ho una forza di volontà stupefacente, invidiabile. Non cammino col fisico, cammino con la forza di volontà. Io mi fermerò appena morirò, non prima”, ha scritto il boss di Cosa Nostra nello stesso pizzino del 10 maggio scorso. Ed è proprio per queste dichiarazioni che Messina Denaro viene sorvegliato giorno e notte all’interno del carcere dell’Aquila. Proprio per evitare che, approfittando dell’assenza di guardie, possa provare a togliersi la vita. Dai pizzini ritrovati a casa della sorella Rosetta sembra che il superboss siciliano stesse pianificando un’uscita di scena plateale, al pari di quella del padre Francesco, stroncato, forse da un infarto, il primo dicembre 1998. Quel giorno, la polizia lo trovò disteso a terra, nelle campagne di Mazara del Vallo, con le mani giunte e un abito elegante, con tanto di cravatta. “Con la morte ho un rapporto particolare”, scriveva anni fa Messina Denaro all’ex sindaco di Castelvetrano Tonino Vaccarino, noto per aver intrattenuto una corrispondenza coperta dai servizi segreti proprio con il boss latitante. “Da ragazzo la sfidavo con leggerezza, da incosciente, da uomo maturo la prendo a calci in testa perché non la temo”, aggiungeva Messina Denaro. Il decorso della malattia, però, sembra aver guastato i suoi piani. Il 13 novembre 2020 Messina Denaro si è dovuto sottoporre a un intervento chirurgico e iniziare un ciclo di chemioterapia. Poi, a metà del 2021, una seconda operazione. Un andirivieni dall’ospedale che lo ha costretto a uscire allo scoperto e abbassare la guardia, fino al fatidico giorno dell’arresto, il 16 gennaio. Roma. Due medici e due infermieri indagati per l’omicidio di un giovane migrante di Romina Marceca La Repubblica, 22 marzo 2023 “L’hanno ucciso a forza di sedativi”. Dallo sbarco in Sicilia fino alla “contenzione” legato sul lettino al reparto psichiatrico del San Camillo. E spunta anche l’ipotesi sequestro di persona. I primi quattro indagati nella storia del migrante Wissem Abdel Latif, morto a 26 anni nelle mani dello Stato italiano il 28 novembre del 2021, arrivano insieme a un esito shock dell’autopsia. Il paziente “troppo agitato” doveva essere sedato per farlo stare tranquillo. Al Servizio psichiatrico dell’Asl 3, ospitato al San Camillo di Roma, qualcuno gli ha iniettato dosi di un terzo farmaco, oltre ai due sedativi prescritti. Una medicina che nessuno ha annotato in cartella. È questo che ha scoperto il medico legale che ha consegnato la consulenza alla procura di Roma. Un principio attivo diverso dai due già somministrati al paziente. Quel farmaco trovato nei tessuti di Wissem Ben Abdel Latif, mischiato agli altri due, Talofen e Serenase, è stato micidiale. Wissem Ben Abdel Latif è morto per quel mix di sedativi. Le accuse per due medici e due infermieri sono omicidio colposo e falso per omissione nella cartella clinica. Perché quel sedativo non è stato riportato sul diario clinico? E soprattutto, chi lo ha somministrato? Saperlo, dagli esami svolti durante l’autopsia, non è stato possibile. Per questo motivo finiscono sul registro degli indagati i due medici e i due infermieri che erano di turno nei tre giorni che il migrante, arrivato dalla Tunisia su un gommone nell’estate del 2021, ha trascorso al San Camillo, l’ospedale dove poi è morto. Solo, legato a un letto addossato a un corridoio. Wissem era arrivato il 25 novembre al Servizio psichiatrico per schizofrenia psicoaffettiva. Aveva già trascorso altri due giorni al Grassi di Ostia. Ancora prima era stato rinchiuso al Cpr di Ponte Galeria dove si era ribellato alle condizioni in cui vivevano i migranti destinati a essere rimpatriati. “Per me non siamo più nel campo dell’omicidio colposo ma di quello volontario con dolo eventuale”, commenta così la svolta nell’indagine l’avvocato Francesco Romeo, che assiste la famiglia di Wissem. Lunedì scorso il legale ha anche depositato una denuncia di sequestro di persona nei confronti dell’ospedale Grassi e del Servizio psichiatrico dell’Asl 3. “Non si può tenere continuamente legato un paziente a un letto”, è la sua convinzione. Per 72 ore il migrante che sognava una nuova vita in Francia ha vissuto un inferno che adesso trova una prima risposta nelle indagini della procura di Roma, dopo un anno e 4 mesi. Wissem che sognava l’Italia come trampolino per arrivare in Francia, Wissem che aveva sfidato le onde su un gommone insieme a altri 80 per toccare le coste siciliane, Wissem che si è battuto dentro al Cpr di Ponte Galeria per ottenere un trattamento migliore. È lì che viene dichiarato un soggetto ingestibile, arriva all’ospedale di Ostia ma per la sua patologia viene richiesto il ricovero al Servizio psichiatrico di Roma. Da quel momento saranno urla, sedazioni continue, elettrocardiogrammi mai eseguiti, esami del sangue nemmeno letti. È tutto nella cartella che è stata esaminata nell’audit della Regione Lazio. Tutte queste immagini saranno state, probabilmente, l’ultima parte del film della vita di Wissem che sono passate davanti ai suoi stessi occhi. Mentre accanto a lui come mostri sbucati dal più orribile dei sogni si muovevano medici e infermieri che gli iniettavano in vena tutto il possibile per non sentire i suoi lamenti. Prigioniero di una contenzione perenne, si sarà sentito come dentro una bolla insonorizzata in cui qualsiasi grido d’aiuto veniva ignorato. Perché Wissem urlava frasi che nessuno capiva visto che nessuno gli ha mai mandato un mediatore culturale in ospedale per sforzarsi di comprendere cosa aveva da dire quel ragazzo. Roma. Iscrizioni triplicate di studenti detenuti, Roma Tre diventa terza in Italia Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2023 L’ateneo capitolino preceduto solo da Statale di Milano e Napoli Federico II. Previste tasse esentate dalla Regione Lazio e borse di studio. Per numero di detenute/i iscritti l’Università Roma Tre si colloca al terzo posto in Italia tra tutte le Università che hanno un Polo Universitario Penitenziario (preceduta soltanto da Milano Statale e da Napoli Federico II) ed è quindi la prima in assoluto tra le università di pari grandezza. Nell’A.A. 2022-2023 gli iscritti detenuti all’Università di Roma Tre sono 90. In tutta Italia sono circa 40 le Università dotate di un Polo Universitario Penitenziario, con oltre 1450 studenti/sse detenuti/e. Questa realtà è rappresentata dalla Conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari (Cnupp) nata nel 2018 come organo di rappresentanza della Crui. Il convegno “missioni possibili” - Questi sono stati i temi affrontati nel corso del convegno svoltosi presso Roma Tre dal titolo “Missioni possibili. Roma Tre e il carcere”. Un’occasione per fare il punto su questa esperienza di avanguardia condotta dall’ateneo romano sul fronte della inclusione, tra cultura della pena, opportunità di studio e di riscatto per la popolazione privata della libertà.Sono intervenuti tra gli altri il rettore dell’Ateneo, Massimiliano Fiorucci, il direttore generale, Pasquale Basilicata, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, il delegato del rettore per la formazione universitaria negli istituti penitenziari, professor Giancarlo Monina, il professor Marco Ruotolo, docente di Diritto costituzionale. Tra gli interventi anche la testimonianza di un ex detenuto, laureatosi a Roma Tre durante il periodo di detenzione, Andrea Cecchetto.Nella sessione del pomeriggio, presso il Teatro Palladium, un focus sull’esperienza condotta di “teatro in carcere”, con la testimonianza di Fabio Cavalli, docente, regista e fondatore del Teatro Libero di Rebibbia. Iscrizioni triplicate - Si deve evidenziare come questa speciale popolazione studentesca sia caratterizzata da un alto tasso di abbandono (trasferimenti, regimi alternativi, fine pena e rinuncia agli studi ecc.). Nel corso degli ultimi sette anni accademici si è registrato un forte aumento delle iscrizioni, quasi triplicate.Sono coinvolti 7 Dipartimenti e 15 Corsi di Laurea, di cui due Magistrali. il 40% degli iscritti è concentrato nei corsi di laurea afferenti al Dipartimento Filosofia-Comunicazione-Spettacolo, seguono il 16% a Giurisprudenza, il 13% a Economia e gestione aziendale, il 13% a Lingue e Letterature; il 10% circa a Scienze della Formazione, il 5% a Scienze politiche, il 3% a Studi umanistici. Le concentrazioni più alte di studenti detenuti nella regione si trova presso Casa di Reclusione Roma Rebibbia (22), presso Casa Circondariale di Viterbo (17), presso CC di Velletri (16) e nei due Istituti - CR e CC - di Civitavecchia (16). Presenze si registrano anche alla CC di Frosinone (3), alla CC Rebibbia (2) al Femminile di Roma Rebibbia (2). Si registrano infine singole presenze, causa trasferimento, alle case circondariali di Benevento, Bologna, Parma e al femminile di Sollicciano (Firenze). Gli aiuti della Regione Lazio - La concentrazione degli iscritti all’Università Roma Tre negli istituti di pena del Lazio, oltre che per motivi di geografici, si spiega anche per il fatto che la Regione Lazio esenta le/gli studenti detenuti dalla tassa universitaria regionale e finanzia l’acquisto di libri di testo. Dal 2020 la Giunta regionale eroga contributi a Roma Tre per assegni di tutorato e/o borse di collaborazione studentesche espressamente dedicati. Per l’anno 2022 la Giunta regionale ha inoltre finanziato il progetto digitale “Didattica a distanza di Roma Tre” a favore degli studenti detenuti. L’Università Roma Tre mette a disposizione le proprie strutture e il lavoro vivo del personale docente e amministrativo, rimborsa inoltre le spese di missione ai docenti e ai tutor. Esenta le/gli studenti detenuti dal pagamento delle tasse accessorie.Le attività di formazione universitaria per le persone private della libertà personale si svolgono nel quadro della Convenzione tra l’Università Roma Tre, il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Prap) e il Garante regionale per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Sottoscritta nel 2016, la Convenzione, di validità triennale, è stata rinnovata nel 2019 e nel 2022. Una sezione universitaria a Rebibbia - Condizioni ambientali, culturali, tecniche e logistiche rendono difficile garantire in carcere il diritto allo studio. L’assenza o la limitata presenza di ambienti e di strumenti adeguati, nonché le difficoltà di comunicazione e di interazione con l’esterno, rappresentano un ostacolo enorme alla carriera universitaria degli studenti detenuti. Per ovviare a queste problematiche, una strada da percorrere è quella della costituzione all’interno degli istituti penitenziari di vere e proprie sezioni dedicate dove riprodurre, per quanto possibile e in piena sicurezza, spazi di vita universitaria. Sezioni dove siano garantiti, oltre a un comfort ambientale, un ciclo della quotidianità secondo orari e impegni favorenti le attività didattiche, di studio e di apprendimento; la sistemazione in stanze di pernottamento adeguate; aule per lezioni, biblioteca, spazi per la socialità; la disponibilità di strumenti didattici necessari, cartacei e digitali; l’accesso e la presenza in spazi idonei di docenti, tutor e altro personale (anche amministrativo) che svolgano funzioni di supporto alla didattica universitaria e curino il percorso di studi degli iscritti.Inoltre, l’implementazione di collegamenti Internet al fine di agevolare i contatti tra le/gli studenti detenuti e docenti, tutor o personale amministrativo autorizzato prevedendo lo svolgimento tramite modalità digitali di lezioni, esami, incontri per la preparazione di prove e di tesi, colloqui di orientamento, espletamento di pratiche amministrative. È di prossima inaugurazione la Sezione universitaria di Roma Tre presso la Casa di Reclusione Roma-Rebibbia. Una nuova piattaforma per la Dad - Le attività didattiche in presenza rappresentano una risorsa irrinunciabile della formazione universitaria in carcere per il loro inestimabile valore relazionale in termini umani, educativi e rieducativi. Nondimeno gli strumenti della comunicazione digitale sono molto preziosi per ovviare ai tanti vincoli logistici. Un opportuno finanziamento erogato dalla Regione Lazio per progetti digitali a favore degli studenti universitari detenuti ha consentito nel corso del 2022 di realizzare l’importante progetto della “Didattica a Distanza del Polo Universitario Penitenziario”. Roma Tre ha realizzato una infrastruttura digitale che consente alle studentesse e agli studenti detenuti di accedere da remoto a contenuti formativi e informativi e di utilizzare strumenti di interazione. Elementi del sistema sono: • Il sito-portale del Polo Universitario Penitenziario Roma Tre (accesso libero) • Il portale delle studentesse e degli studenti detenuti (accesso riservato) • La piattaforma di e-learning (accesso riservato) • Il repository delle lezioni registrate (accesso riservato). Gorgona (Li). Gli animali che salvano l’anima: così l’isola-carcere è diventata unica di Giovanni De Peppo Il Tirreno, 22 marzo 2023 I detenuti chiedono di risparmiare dal macello i capi che accudivano. Il direttore del carcere accoglie la richiesta: nasce un’esperienza incredibile. Alcuni anni or sono, nel carcere di Gorgona qualche detenuto, che provvedeva ad accudire gli animali dei vari allevamenti, della colonia penale agricola, provò a chiedere al direttore di risparmiare dal macello chi era stato a lui vicino ogni giorno, per tanti giorni e che aveva chiamato ormai per nome. Il direttore Carlo Mazzerbo, uomo di grande esperienza e straordinaria visione per un carcere capace di non reprimere il meglio delle persone ristrette, sostenuto dal veterinario Marco Verdone, comprese il messaggio e concesse la grazia e la vita per quegli animali sospendendo la “pena capitale” che regolarmente veniva eseguita in un carcere per degli esseri viventi e senzienti. Quel gesto, improbabile per la burocrazia penitenziaria, aprì una luce su quell’articolo 27 della Costituzione che ci raccomanda che la pena del carcere deve tendere alla rieducazione del condannato e quella scelta coraggiosa del direttore, dava forza a quel sentimento che chiamiamo empatia che rende tutti noi migliori. Oggi gli animali, a Gorgona, come in una favola, vivono la loro vita senza il terrore della morte e i detenuti continuano ad avere cura e relazione con loro sentendosi diversi e migliori. Da allora sono passati diversi anni, ma grazie alla capacità e alla sensibilità di un Sottosegretario alla giustizia e alla caparbietà di alcuni, oltre che naturalmente al direttore Carlo Mazzerbo, che hanno creduto che in quella scelta c’era una potenzialità straordinaria di riabilitazione delle persone ristrette, quella scelta si è consolidata. Responsabilità, empatia e cura verso gli altri, sia pure trattandosi di “altri” animali e, da allora in poi, si sono realizzate una molteplicità di attenzioni e interessi che hanno arricchito e reso ancora più preziosa quella scelta di “non violenza”. Il coinvolgimento della LAV che da subito ha compreso il valore di Gorgona, una grande Associazione antispecista e dalla parte degli animali che ha concretamente partecipato al progetto che ha visto anche l’interesse della Università Bicocca di Milano, che con la Facoltà di Giurisprudenza e il corso di Diritto Penitenziario, ha coinvolto ricercatori e studenti al progetto. La LAV, con la convinta e appassionata partecipazione del presidente Gianluca Felicetti, ha reso possibile una strategia sull’isola che ha esaltato l’opportunità che, l’ultima isola carcere, possa diventare un modello di istituto penitenziario in cui etica e ambiente possano essere i parametri e le coordinate capaci di trasformare una obsoleta colonia agricola in un luogo in cui i detenuti diventano protagonisti di una trasformazione che possa vedere l’obiettivo per Gorgona di isola dei diritti e delle buone prassi. Auspicata la diminuzione degli animali anche dal Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano e la necessità che la maggioranza di questi, ancora sull’isola, possano essere trasferiti e destinati in “santuari” dove vivranno la loro vita in pace e secondo le loro caratteristiche etologiche. Pochi rimarranno, in equilibrio ecologico con la piccola e fragile isola con una funzione finalizzata alla relazione con i detenuti e non solo. Gorgona può e deve diventare una occasione di riflessione per pensare che, quei 220 ettari di superfice possano essere una opportunità per far si che quel pezzetto di Toscana immerso nel Parco dell’Arcipelago Toscano e del santuario dei cetacei, possa diventare un esempio di come dobbiamo trattare il nostro pianeta e di come possiamo ripensare al carcere e alla pena. Tra i tanti progetti, sbocciati come fiori in un giardino assolato dalla passione di tanti, la misurazione e la comprensione in termini scientifici della preziosa relazione con gli animali ha fatto si che, una equipe di psicologi e esperti di Interventi assistiti con gli animali, abbia elaborato un progetto curato dalla Associazione Doremiao e poi si sono concretizzati i laboratori di scrittura creativa tenuti da Prita Grassi. “Animali che salvano l’anima” e “Il lavoro in carcere e fuori” sono due libri pubblicati dalla casa Editrice Carmignani scaturiti proprio da quei laboratori di scrittura, attraverso un lungo e prezioso lavoro elaborato dai detenuti in mesi di appassionante lavoro fatto di riflessioni, discussioni confronti agiti in gruppo. Il primo pubblicato dalla LAV e il secondo promosso e pubblicato da Collecoop. L’incrocio di collaborazioni tra la Direzione del Carcere di Gorgona, la LAV e Collecoop, dinamica e innovativa cooperativa sociale di Collesalvetti, si è concretizzata da una parte nella capacità di Collecoop di inserire al lavoro detenuti già protagonisti dei progetti di Gorgona e di collaborare con LAV al fine di finalizzare, con il sostegno della associazione che, con i contributi dei soci, offre sostegno consistente per il mantenimento degli animali e lavoro sull’isola grazie proprio alla collaborazione con la cooperativa sociale. Particolare, preziosa e davvero innovativa, la collaborazione tra una grande Associazione e una cooperativa sociale e una Istituzione dello Stato, al fine di rendere possibile i percorsi di inclusione sociale dei detenuti, ma tutti insieme per pensare ad un modello di welfare generativo in cui ciascuno è capace di fare la sua parte, ripensando al ruolo di soggetti istituzionali, economici e del terzo settore, capaci di produrre cultura, salvaguardia degli ecosistemi, cura e rispetto partendo dagli ultimi, proteggendo la “nostra casa” testimoniando con i fatti che chi era un problema, diventa una risorsa. Torino. Kento, il rapper delle carceri minorili: “Trovo il talento anche nei ragazzi analfabeti” di Irene Famà La Stampa, 22 marzo 2023 A Torino all’Hiroshima il concerto di Francesco Carlo: la sua musica nasce dal laboratorio con i ragazzi detenuti, “Porto sul palcoscenico le loro vite e pure le storie di criminali (in)vincibili”. “Se tutti gli ostacoli all’uguaglianza sostanziale fossero rimossi, le carceri minorili sarebbero vuote”. Kento nome da rapper, Francesco Carlo all’anagrafe, propone una sfida. Che nasce nei penitenziari per ragazzi con il laboratorio “Crisi come opportunità” e approda venerdì a Biennale Democrazia, nell’evento “Ai confini della libertà”. Parlare di libertà in un carcere minorile non è una contraddizione? “Le rispondo con una serie di domande che sono solito porre ai ragazzi. A loro dico che sono in carcere, ma la mente è libera. E chiedo cosa fanno per alimentare questa libertà. C’è chi mi risponde con lo sport, la musica, l’arte. E questa riflessione, mi creda, vale per tutti”. Anche per chi sta fuori? “Soprattutto per chi sta fuori. Quali gabbie ci impone la società? E quali ci imponiamo? Le gabbie mentali sono più stringenti di quelle fisiche”. Alla libertà dovremmo esercitarci tutti. L’ha imparato nei laboratori nelle carceri minorili? “Ho incontrato giovani detenuti di Roma, Airola, Santa Maria Capua Vetere, Catania, Catanzaro, Acireale, Torino e altri: è stato e continua ad essere un percorso arricchente anche per me. Non è possibile lavorare in carcere e non porsi domande”. Portare il rap dietro le sbarre. Come si fa? “Il rap è efficace. Prima di tutto non devo spiegare ai ragazzi di cosa si tratta, già lo sanno. E non mi servono strumenti, un impianto audio. Mi basta un pc e una cassa. E, cosa più importante, non serve saper leggere o scrivere”. Basta pensare? Vivere? “Alcuni ragazzi sono analfabeti eppure fanno ottimo rap. Un sedicenne che ho incontrato reppa in tre lingue e ne conosce cinque. Le ha imparate in strada ed è analfabeta in tutte e cinque. Sa perché?”. Mi dica... “Perché nessuno si è mai seduto vicino a lui a insegnargli qualcosa, a valorizzarlo”. La diffusione della criminalità giovanile è responsabilità degli adulti? “I ragazzi riflettono i disvalori della società che è ferocemente consumista, superficiale e sessista”. Spesso si dice che il rap è diseducativo. Che ne pensa? “Il rap è uno specchio realistico della società. Una delle cose che in carcere mi ha stupito e sorpreso è la speranza che questi giovani hanno del futuro. Tutti dicono che tra 10 o 15 anni vogliono essere sposati, dei bravi papà, avere un lavoro e una casa. Descrivono la famiglia del Mulino Bianco ed è spiazzante, desiderano ciò che a loro è mancato. A questi pensieri danno forma con il rap”. Cosa cantano? “La loro vita e i legami con l’esterno. In ogni laboratorio c’è sempre qualcuno che sta in disparte e ti guarda con aria criminale, come se volesse accoltellarti. Poi si avvicina e ti chiede di aiutarlo a scrivere una canzone per la sua ragazza che sta fuori, ma non deve saperlo nessuno. E quando gli chiedi com’è lei, ti risponde sempre che è bellissima”. Quali valori si possono trasmettere con la musica? “Le faccio un esempio. Ho conosciuto un adolescente molto bravo a fare rap, ma i suoi testi raccontavano tutti di criminali invincibili. Gli ho fatto notare che un’etichetta discografica difficilmente gli avrebbe fatto un contratto. Perché gli invincibili sono antipatici, come Gastone. E soprattutto non esistono. Nessuno è invincibile. Allora ha scritto un testo che raccontava sì di un criminale, ma al quale una ragazza spezzava il cuore”. Come rapportarsi ai ragazzi? “Parlando di meno e ascoltando di più”. Porterà i loro testi venerdì all’Hiroshima, con il concerto “Portami là fuori. Rap fuori le s(barre)”... “Ho grandi aspettative per quest’evento, e una grande ammirazione per Torino, che con l’hip hop ha sempre avuto un legame particolare, dai tempi in cui nel cortile del Regio c’erano i primi breaker. Torino città magica non è un luogo comune. È davvero così”. Il successo di Mare Fuori e la vera realtà delle carceri minorili in Italia di Antonio Lamorte linkiesta.it, 22 marzo 2023 La serie tv ambientata in un Istituto di Pena Minorile a Napoli ha superato le 105 milioni di visualizzazione oltre il 40 per cento del pubblico è formato da giovani under 25. Ma le condizioni dei giovani detenuti non sono sempre come quelle descritte. “No, non doveva andare così”, canta Raiz in un pezzo della colonna sonora. E no, non può andare così, non può finire così per i fan che da settimane scandagliano le scene, indagano i fotogrammi per scovare dettagli rivelatori. C’è chi ipotizza che addosso, sotto i vestiti, Rosa Ricci nasconda qualcosa; altri osservano morbosamente delle foto di scena di Ciro che potrebbero rivelare un’altra verità; qualcuno sostiene che di un personaggio non si veda l’ombra. E si lanciano ipotesi, a tanto così dal complotto. A dare la misura della “Mare Fuori Mania” è soprattutto l’hype che si è generato attorno agli ultimi minuti, gli ultimi secondi dell’ultima puntata della terza stagione, che andrà in onda domani sulla Rai ma che è già disponibile da tempo su Raiplay. Da giorni circola la teoria secondo cui domani, in onda, l’ultima puntata sarà più lunga di qualche minuto rispetto a quella disponibile online: è il noir, il giallo di un altro finale di Mare Fuori 3. Su tutti i media la corsa è a spiegare e razionalizzare il fenomeno record di questa serie tv ambientata in un Istituto di Pena Minorile a Napoli. Qualcosa che è esploso letteralmente tra le mani della Rai. La sceneggiatrice Cristiana Farina che ha ideato e scritto il soggetto con Maurizio Careddu ha raccontato a Tv blogo che il progetto era nato 15 anni fa, dopo un seminario nel carcere minorile di Nisida con l’aiuto di testi e attori di Un posto al sole, e lasciato in qualche cassetto per oltre un decennio. La serie, prodotta da Rai Fiction e Picomedia, ha debuttato nel gennaio 2020 su Rai2. Racconta le vicende degli adolescenti reclusi in un carcere minorile ispirato all’Istituto sull’isola al largo di Posillipo ma ambientato al Molo San Vincenzo, quartier generale della Marina Militare, dove ormai arrivano i fan a scattarsi i selfie. Non solo: dopo tre anni dalla prima messa in onda gli attori non possono letteralmente camminare per strada a Napoli, la canzone della sigla è arrivata a Sanremo ed è suonata nelle discoteche, l’Istituto di Nisida è sommerso dalle richieste dei giornalisti, secondo il portale di viaggi online per effetto della serie le ricerche di voli per Napoli sono cresciute nientedimeno del 21% dal 15 al 28 febbraio scorsi. Dati Rai: a febbraio la serie ha superato le 105 milioni di visualizzazioni, oltre il 40 per cento giovani con meno di 25 anni. E giù a sproloquiare, editorialisti e critica, a chiedersi il perché e a spiegare questo fenomeno che ragiona intorno alle logiche dell’appartenenza, di amici geniali incrociati dietro le sbarre, figli di camorristi e innocenti messi in mezzo, piccoli e brutali delinquenti. Quando lo spettatore si crea un pregiudizio, quando giudica quanto sia terribile e irrecuperabile e senza speranza un personaggio, l’intreccio spiega con una formula diventata virale: ecco Tonino (per esempio) qualche ora prima dell’arresto, ecco perché è finito dentro. Cantava Fabrizio de André: “Se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo”. Alle 16:30 del 25 dicembre 2022: carcere di Beccaria, Milano, sette ragazzi detenuti che si trovavano nel campo da calcio approfittano dei lavori in corso, sfondano una protezione di legno del cantiere, salgono sulle impalcature e si calano da un muro più basso. Gli aggiornamenti sull’evasione di Natale finiscono il 29 dicembre, quando gli ultimi due in fuga, un diciassettenne e un diciottenne, vengono ritrovati. Di carceri minorili e dei suoi detenuti se ne parlò con morbosità e costanza in quei giorni. Stando ai dati aggiornati al 15 dicembre 2022, sono 14.211 i giovani in carica al servizio sociale minorile in Italia, 6.400 sono campani, 400 sono detenuti presso 17 istituti penitenziari minorili - a Pontremoli, in Toscana, ce n’è uno esclusivamente femminile -, 201 sono stranieri. Meno della metà sono minorenni, la maggior parte hanno tra 19 e 24 anni. Quelli diventati maggiorenni durante l’esecuzione della pena possono rimanere in Ipm fino a 25 anni. Nisida è il carcere che ne ospita il maggior numero: 55, il 60 per cento italiani, sezione femminile chiusa di recente. Sono 27 quelli accusati di omicidio volontario - 8 hanno tra i 14 e i 18 anni - , 80 di tentato omicidio. La maggior parte sono accusati di reati contro il patrimonio: furti e rapine. Sotto i 14 anni i minori non sono imputabili. Il Codice del processo penale minorile risale al 1988. I suoi principi ricalcano con maggiore fedeltà l’articolo 27 della Costituzione - “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” -, puntano alla riparazione e alla ricostruzione prima che alla punizione, è raro che un minore che ha commesso un crimine finisca in carcere. La messa in prova, che sospende il processo per favorire un percorso psico-riabilitativo personalizzato, dal 2014 è stata estesa anche alla Giustizia ordinaria, agli adulti. ““e non faremo in modo che chi esce dal carcere sia migliore di come è entrato, sarà un fallimento per tutti. E se non ci arriviamo per civiltà, umanità e per rispetto dell’articolo 27 della Costituzione, arriviamoci per egoismo. Conviene a tutti che quel rapinatore, quello spacciatore, una volta fuori cambi mestiere”, ha detto nel suo monologo sugli IPM a Sanremo Francesca Fagnani. Ma quanta gente si sarà interessata al tema grazie alla fiction? “È bello che questa serie abbia messo al centro il tema delle carceri minorili, però ho sempre l’impressione che allo stesso tempo i ragazzi che sono dentro vengano dimenticati, abbandonati a loro stessi. Non è vero che c’è il comandante che ti prende a cuore, che ti segue quando esci con la direttrice, come in una famiglia: questo a Nisida non c’era”, racconta Raffaele Criscuolo che ha 28 anni e all’IPM napoletano c’è stato due volte, per uno scippo e per una rapina a mano armata. A Nisida ha cominciato a farsi le canne ma anche corsi da pizzaiolo, da barman, di ceramica. Oggi fa il pizzaiolo. “La serie l’ho vista tutta, l’ho fatta vedere anche a mio figlio. Si avvicina in molti casi a quello che si vive in carcere. All’IPM si diceva: ‘Meglio Poggioreale che Nisida’, perché ogni giorno c’era un ragazzino che si svegliava e si atteggiava a Raffaele Cutolo, che voleva comandare, che vuole farsi notare. E quindi succedevano le tarantelle. Certo c’erano delle risse, dovevi imparare a farti rispettare per non diventare il fesso della situazione, ma non tutte quelle coltellate, non tutti quei permessi, le celle non sono aperte così spesso come può sembrare dalla fiction, anzi quasi mai, non si potevano incontrare le ragazze così spesso. C’è tanta realtà ma ovviamente c’è anche tanto romanzo”. Il romanzo dunque: in tutta la storia di Nisida, dalla fine degli anni ‘80, ci sono state quattro evasioni; soltanto nella serie ce ne sono tre. Appare inverosimile che dopo certi eventi ci siano poche o nulle conseguenze nel carcere, quasi allettante l’atmosfera con tutti questi ragazzi e ragazze insieme da mattina a sera che sfocia nel mélo di amori shakespeariani, Giulietta e Romeo dei Quartieri e di Forcella. C’è il sangue, c’è il sesso, ci sono i soldi che mancano o che si guadagnano in ogni modo possibile. E ci sono poi questa Napoli cool e anti-Gomorra - perché qui c’è la speranza - e queste canzoni nella colonna sonora curata da Stefano Lentini diventate tormentoni. Mare Fuori è un teen drama, genere esploso con prepotenza negli ultimi anni. Forse per il lockdown, che ha portato ognuno a riflettere sul suo passato, i propri traumi, in un labirinto che porta sempre lì, all’adolescenza se non prima. Come ha detto Fran Lebowitz in un’intervista a Il Corriere della Sera: “Il problema della vita è che sei sempre alle superiori: conta tantissimo quanto sei popolare, qualunque lavoro tu faccia”. Mare Fuori è anche un prison drama, un sempreverde: da Prison Break a Orange Is The New Black. A segnare il passo del successo è stato lo scorso giugno l’approdo delle prime due stagioni su Netflix, un marchio di qualità, più trendy rispetto alla Rai. Servizio pubblico che non può dimenticare il suo ruolo: e infatti ci sono i pipponi, le prediche da servizio pubblico - da Un posto al Sole a Un Posto al Fresco insomma. Qualche mese prima i diritti erano stati acquisiti da Beta Film per la distribuzione internazionale, a marzo 2022 la stagione era stata rinnovata per una terza e una quarta stagione. Quando un fenomeno diventa così pervasivo l’impressione però è che niente possa bastare a spiegarne il successo. Per resistere alla FOMO chiedere a Maria Franco, la maestra che per oltre trent’anni ha insegnato a Nisida. Ai giornalisti che l’hanno contattata ha risposto che lei la serie non l’ha vista, e non per pregiudizio o snobismo. Forse la vedrà, forse no. Con molte probabilità torneranno a vederla domani sera i più accaniti, tutti quelli che l’hanno già vista su RaiPlay ma che non ce la fanno ad aspettare un anno almeno per la quarta stagione, che non sono convinti da quel finale, che non ci stanno, che subodorano il giallo di Mare Fuori 3. Su TikTok era diventato virale nelle settimane scorse il video di una ragazza che telefonava alla Rai per chiedere conto del mistero dei minuti aggiuntivi. A Viale Mazizni non ne sapevano niente. “Mare fuori? Quando ero detenuto a Nisida era peggio della fiction” di Antonio Lamorte Il Riformista, 22 marzo 2023 La serie fenomeno del momento e l’esperienza in carcere: “L’ho vista tutta e si avvicina alla realtà che si vive all’interno del carcere. Anzi non si vede proprio tutto, Nisida è anche peggio”, racconta Raffaele Criscuolo che nel carcere di Nisida c’è stato. Due volte, una volta per uno scippo e un’altra volta per rapina a mano armata. Due anni e mezzo tra Nisida, comunità e domiciliari. Ci aveva raccontato in un’altra intervista di un’infanzia difficile, del senso di abbandono che ha vissuto, figlio di un padre che non lo voleva e di una madre giovanissima che non riusciva a mantenerlo. La prima rapina per gioco, poi per non chiedere soldi alla famiglia. Di Nisida aveva parlato come di una “scuola criminale” più che di un istituto, “brutte amicizie, persone poco raccomandabili”. Pizzaiolo, ha 28 anni, un figlio con cui ha visto la serie. La guardavano insieme e al piccolo spiegava quello che succedeva nella fiction. Su Raiplay, a febbraio, Mare Fuori ha superato 105 milioni di visualizzazioni, oltre il 40% una platea composta da giovani con meno di 25 anni. “Piace un po’ a tutti, io mi sono anche appassionato. Per noi ragazzi che abbiamo vissuto una realtà come Nisida in una serie del genere verrebbe naturale recitare una parte, noi l’abbiamo vissuta quella situazione e in qualche modo la viviamo ancora oggi”. Lui ha sempre sognato di fare l’attore, è stato selezionato a un provino un per corto che si girerà in autunno. Coltiva quel desiderio ma prima partirà per l’America perché qui, a Napoli, non c’è spazio per lui. Le è piaciuta la serie? L’ho vista tutta. Si avvicina per tanti aspetti alla realtà che ho vissuto nel carcere di Nisida. Certo non c’è tutto, posso dire che è anche peggio. Io lì dentro ho cominciato a fumare marijuana. Mare Fuori bene o male racconta quello che succedeva all’Ipm. Ogni giorno tarantelle, gli schieramenti, il gruppo di ragazzi che voleva comandare. Sa come si diceva? ‘Meglio Poggioreale che Nisida’. E come mai? Perché a Poggioreale ci sono adulti, persone mature che portano rispetto, nel senso: ‘io mi faccio la galera mia e tu la tua’. A Nisida invece si atteggiavano tutti a Professore e’ Vesuviano. Ogni giorno c’era qualcuno che si svegliava e decideva che era il Raffaele Cutolo della situazione. E tu che pensavi: da dove è uscito mò questo? Era quello un po’ il problema, una continua esibizione: volevano farsi vedere, farsi notare. Rispetto ad altre fiction a sfondo criminale le è sembrata più fedele alla realtà? Sì. I soprannomi, le affiliazioni, i laboratori, i corsi di pizzaiolo e di restauro. Questo sì. Personalmente feci un corso di Turtle Point, ci prendevamo cura delle tartarughe, le nutrivamo, le accudivamo fino a quando non stavano bene e le rilasciavamo in mare. È stata un’esperienza bellissima che mi ha dato molto. Cos’è che non torna nella serie? I ragazzi erano molti di più. Ovviamente la fiction è romanzata, si deve dar modo ai personaggi di evolvere. E i permessi non erano così frequenti. Nella serie quando escono invece si ammazzano pure, invece spesso neanche potevi uscire, dovevi rimanere ai domiciliari. E dentro le celle non erano aperte così frequentemente, anzi quasi mai. Non incrociavamo così spesso le ragazze, le riuscivamo a vedere da un punto ma era impossibile incontrarle. E non c’erano tutte quelle coltellate. Spesso scoppiavano le risse, quello sì. Così spesso? Ogni giorno ti svegliavi e dovevi farti rispettare perché purtroppo lì è così. Non puoi mostrarti debole altrimenti diventi il “soggetto” del carcere, il fesso della situazione. “T fann a’ bott” come diciamo a Napoli, ti bullizzano, ti mettono sotto. Mare Fuori è un successo clamoroso. Pensa possa aiutare a far conoscere e a capire il contesto delle carceri minorili? È una bella cosa tutto questo successo però, allo stesso tempo, penso che i ragazzi nelle carceri vengono dimenticati, abbandonati a loro stessi. Non è vero che lì c’è il comandante che ti prende a cuore, che quando esci ti segue per non farti fare guai. Nella serie c’è il comandante, c’è la direttrice che seguono i ragazzi e alla fine sembrano come se fossero una famiglia. Questo a Nisida non c’è. Lei dopo la prima detenzione è stato arrestato di nuovo... Non sono stato seguito, sono finito di nuovo per strada. Quando uscii chiesi di poter frequentare il corso da barman che avevo cominciato dentro e mi dissero che non era possibile. Se metti in carcere un ragazzo, gli fai fare cento corsi e poi lo lasci solo, non cambia nulla, non serve a niente. Dopo qualche mese ero di nuovo a Nisida. Ha visto la serie con suo figlio... L’ho messo accanto a me e gli spiegavo quello che succedeva. È una serie che arriva un po’ a tutti. Gli dicevo che gli orari, l’organizzazione era più militaresca, era quasi come se fossi un soldato. Si evitava anche di giocare a pallone perché da un fallo nasceva uno schiaffo e da uno schiaffo una rissa. Gli ho detto che è un posto in cui bisognava stare attenti, starsene sulle sue, capire come interagire con gli altri e con gli ambienti. Per esempio il personaggio del Chiattillo (uno dei protagonisti, figlio della Milano bene, ndr) viene da un contesto completamente diverso a quello della criminalità e deve imparare necessariamente ad affrontare persone e discorsi per difendersi e farsi rispettare. A mio figlio ho fatto capire che quei ragazzi si trovano lì perché hanno sbagliato nella vita e che in carcere non sconti soltanto la pena, non affronti l’esperienza e basta. È una continua lotta, tutti i giorni. Lei ha cambiato vita, fa il piazzaiolo. Però ha deciso di lasciare Napoli, perché? Avevo aperto la mia pizzeria ma a causa del covid ho dovuto chiudere. Ho deciso di partire per la California, San Francisco, anche se mi rattrista tanto. Purtroppo le condizioni a livello lavorativo sono troppo precarie, i contratti non reggono. Si parla tanto dei migranti che arrivano in Italia ma non di emigranti. Tanti ragazzi di Napoli sono costretti a partire, è piuttosto triste per i giovani che per realizzarsi devono decidere di andare all’estero. Cosa le ha lasciato Nisida? Ancora oggi mi porto delle conseguenze dentro, addosso. Soffro un po’ di ansia, di insicurezza. Parto per l’America anche per crescere personalmente, per affrontare i miei obiettivi e migliorarmi. Più volte avevo avuto quest’occasione ma non ce l’avevo mai fatta, non ero mai riuscito a partire. Ora ho deciso, ci provo. Quella vita ti lascia delle conseguenze serie, dure da farci i conti. Le vittime di tutto questo non si trovano soltanto sottoterra. Franco Rotelli, la psichiatria come utopia concreta di Stefano Cecconi* Il Manifesto, 22 marzo 2023 Franco Rotelli aveva un pregio assai raro: quello di voler trasformare i sogni in realtà, e il talento di saperlo fare. Certo, non sempre e non tutti i sogni si avverano. Ma se Rotelli è stato definito, anche in questi giorni, un “visionario concreto”, è perché “sognava e agiva”, nei diversi ruoli che ha ricoperto, per migliorare la vita delle persone, i contesti sociali, i servizi e il lavoro del welfare. Lo ha fatto, insieme a Basaglia, e dopo, per distruggere i manicomi: da Castiglione a Trieste fino a Leros. E per costruire le alternative alla non-vita del manicomio: libertà, reddito, casa, lavoro, affetti, e Servizi sempre aperti e accoglienti. Nel suo straordinario lavoro, professionale e politico, nel suo essere promotore del movimento per il diritto alla salute, ci ha insegnato che, per prendersi cura di una persona, occorre prima di tutto garantire i suoi diritti, la sua libertà, rispettarne la dignità. Questo significa agire contro ogni esclusione, contro ogni repressione e discriminazione. Tutto ciò presume che esista un sistema sanitario pubblico e universale, capace di integrare le sue politiche e le sue azioni con tutte le altre componenti del welfare: sociali, abitative, formative, per l’occupazione. Per questo Rotelli diceva spesso: occorre abbattere i muri, non solo del manicomio, ma anche tra Istituzioni, tra Asl e Comuni, tra professioni diverse. Perché la persona, tanto più se malata, esprime bisogni globali, non solo strettamente sanitari o meramente clinici. Perché i determinanti di salute e malattia, le stesse speranze di guarigione, si rintracciano ben oltre i ristretti confini e poteri della medicina tradizionale: reddito, istruzione, ambiente, occupazione, condizioni di lavoro, contesto sociale e familiare, genere, segnano il destino di una persona, persino la sua speranza di vita. È la visione “globale” del concetto di salute dell’Oms, rimasta spesso una mera dichiarazione, che invece con Franco Rotelli è diventata obiettivo possibile da raggiungere. Nel ricordarlo in questi giorni, è stato scritto che le sue intuizioni hanno provocato innovazioni straordinarie nel sistema di welfare socio sanitario, ben oltre Trieste. Ci si riferiva certo al lavoro enorme di de-istituzionalizzazione fatto nell’ex ospedale psichiatrico di Trieste, con l’apertura di centri di salute mentale h24, trovando soluzioni abitative “normali” in città, la creazione delle cooperative sociali per il diritto al lavoro, fino alla radicale trasformazione del parco di San Giovanni, luogo di repressione e dolore diventato un magnifico esempio di rigenerazione urbana. Ci si riferiva al sostegno, sempre lucido e affettuosamente critico, che ha dato alla lotta di stopopg che ha portato alla chiusura dei manicomi giudiziari, e alla campagna contro la contenzione “E tu slegalo subito”. Ci si riferiva alla geniale intuizione delle micro aree, avamposti dei servizi della “Città che cura”, che agiscono in quartieri “difficili” (oggi 14 zone di Trieste), dimostrando che si può cambiare, partendo dal piccolo e nei luoghi più disagiati. Ci si riferiva alla centralità che ha assegnato al distretto socio sanitario, motore pubblico di un sistema di servizi, azioni e professioni integrate per fare salute di comunità, di prossimità, nei luoghi di vita delle persone, anticipando persino alcune riforme del Pnrr. Quello promosso da Rotelli - e da chi con lui ha lavorato in questi anni - è stato uno straordinario percorso di innovazione e cambiamento del sistema di welfare pubblico, fondato sulla deistituzionalizzazione e sulla centralità della persona. Oggi questo modello è messo in discussione dalla maggioranza che governa la Regione (e da un Governo che abbandona la sanità pubblica): impedire che accada non è solo una questione locale, è ragione per riprendere, proprio nel segno di Franco Rotelli, una mobilitazione nazionale. *Osservatorio StopOpg La bussola sui diritti dei bambini di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 22 marzo 2023 Sulla filiazione delle coppie Lgbtq+ si è acceso un aspro confronto. Ma il disaccordo sui principi può essere salutare, purché rispetti la cosiddetta etica della responsabilità. Comunque con la mobilità delle famiglie l’unica strada efficace è la regolazione su scala internazionale. Sui temi spinosi della genitorialità e filiazione delle coppie Lgbtq+, si è acceso un confronto che sta travalicando i confini dell’etichetta democratica. In una società liberale il disaccordo sui principi è inevitabile e persino salutare, purché rispetti la cosiddetta etica della responsabilità. Nella sfera politica, le convinzioni morali non possono essere assolute, indifferenti alle loro possibili conseguenze pratiche, comprese quelle involontarie o non previste. E la disponibilità all’ascolto e alla mediazione dovrebbe ispirare in particolare l’azione di chi ha responsabilità di governo. Sullo sfondo della contrapposizione in corso s’intravede, per fortuna, la convergenza su una priorità: la tutela del superiore interesse dei bambini. È una condivisione importante, soprattutto perché - se presa sul serio - esclude una perniciosa linea d’azione: usare il diniego del riconoscimento legale come arma impropria contro i genitori omoaffettivi. Se si segue questa strada, infatti, bambini già nati e in carne e ossa verrebbero trattati come strumenti per scoraggiare (o punire) il ricorso alla maternità surrogata da parte degli adulti. A partire da Kant, l’etica liberale prescrive di trattare i minori come fini (come soggetti portatori di autonoma dignità) e mai come mezzi. D’altra parte, è vero che la maternità surrogata solleva grossi problemi non solo per le donne gestanti, ma per gli stessi bambini. Si tratta di una pratica che, anche dove permessa, non può in nessun modo avvenire in base alla logica della compravendita. Oltre al rischio di sfruttamento e di degradante asimmetria fra le parti nella relazione di scambio, vi è anche la minaccia all’identità genetica e biologica dei bambini. Nel crescente mercato globale della surroga, non c’è tutela di dati e informazioni preziose sul piano sanitario, psicologico, giuridico e culturale. Come mostra la ricerca sulle adozioni, la possibilità di ricostruire le proprie origini bio-genetiche gioca un ruolo importante nel processo di crescita personale. I diritti da proteggere contro il mercato delle gestioni surrogate vanno a loro volta bilanciati con un altro importante diritto: quello di ogni bambino a vedersi riconosciuti i genitori, anche quelli intenzionali. La condanna morale e il divieto giuridico della maternità surrogata non possono interrompere la continuità del legame parentale, anche nei suoi risvolti legali. Il riconoscimento è previsto nella grande maggioranza dei Paesi Ue. L’adozione step-child (unica soluzione consentita per ora dall’ordinamento italiano) è una procedura lunga, complessa, costosa, programmaticamente intrusiva. C’è poi almeno un altro aspetto da considerare. Le giurisdizioni nazionali hanno perso o delegato il controllo su frontiere e movimenti delle persone. I genitori intenzionali (in maggioranza, per altro, eterosessuali) possono ricorrere alla maternità surrogata all’estero, vanificando così la proibizione dello Stato in cui risiedono. L’unica strada efficace è la regolazione su scala internazionale. La crescente mobilità delle famiglie fra Paesi Ue solleva poi il problema dei riconoscimenti transfrontalieri. Il loro rifiuto viola il diritto alla non discriminazione, tutelato dall’ordinamento europeo, e può comportare il mancato godimento dei molti diritti che derivano dallo status anagrafico (pensiamo al mantenimento, alla successione, alla rappresentanza legale da parte del secondo genitore e così via). Conseguenze serie, che non vanno minimizzate. I ragionamenti potrebbero proseguire a lungo. Il punto da fermare riguarda però il metodo. Il “rimbalzo” fra le diverse posizioni di principio, esaminate sotto il profilo delle conseguenze e nel contesto di un dibattito ragionevole, porta a scartare progressivamente le soluzioni che ledono uno o più aspetti del variegato interesse superiore dei minori. E rende possibile il raggiungimento di un equilibrio “riflessivo” (come lo chiamano i filosofi liberali), ossia un consenso di base frutto della parziale intersezione di punti di vista inizialmente polarizzati. Con la sua proposta di Regolamento sul riconoscimento della filiazione tra Stati membri, la Commissione europea ha fatto un primo passo nella giusta direzione. Chi ha letto con attenzione il testo di questo provvedimento e i documenti che l’accompagnano non può non riconoscerne lo spirito aperto e al tempo stesso rispettoso delle tradizioni nazionali. La netta opposizione a questa proposta espressa in Parlamento dai partiti di maggioranza riflette un arroccamento di principio che è fuori linea rispetto all’etica della responsabilità. La quale suggerirebbe invece di essere disponibili al confronto con le opposizioni, in Italia, e di cercare un punto di equilibrio a livello europeo. Se è vero che la sfida della maternità surrogata richiede collaborazione fra Paesi, il governo italiano potrebbe ad esempio proporre a Bruxelles di uniformarsi ai criteri recentemente suggeriti dall’Unicef in merito ai diritti dei minori in caso di surroga: salvaguardia delle informazioni sulle origini, verifica degli accordi di pre-surroga, divieto di vendita o traffico di minori, sorveglianza delle agenzie di mediazione e altri ancora. Fare una proposta in questa direzione sarebbe l’inoppugnabile conferma di un impegno etico per ora soltanto dichiarato. Quello di usare come unica bussola, su temi così delicati, il ben-essere dei bambini, a prescindere da come e dove sono nati. Droghe: educare, non punire di Denise Amerini* collettiva.it, 22 marzo 2023 Iniziativa di Cnca, cui aderisce anche la Cgil, per ribadire che proibizioni e carcere non funzionano nel prevenire e gestire il problema tossicodipendenze. Nei giorni scorsi si sono succedute due importanti prese di posizione di autorevoli rappresentanti del governo, per quanto riguarda il tema droghe e consumi di sostanze. A Vienna si è tenuta la 66esima sessione della Commissione stupefacenti della Nazioni Unite: in quella sede il sottosegretario di Stato Alfredo Mantovano, che ha la delega alle politiche antidroga, ha dichiarato che il nostro Paese si opporrà a qualsiasi ipotesi di legalizzazione, che la droga “è una minaccia per la salute di ogni persona e per la sicurezza delle nostre comunità”, che non esistono droghe leggere, riproponendo una visione delle persone che usano sostanze come devianti e malate. Il consumo zero è impossibile - Ha riproposto la logica della tolleranza zero e del consumo zero, nonostante anni di studi e di ricerche abbiano dimostrato l’impossibilità di un mondo senza droghe, e di quanto le politiche proibizioniste abbiano prodotto danni alle persone, in termini di patologizzazione e criminalizzazione, senza peraltro ridurre i consumi, tutt’altro. Negli stessi giorni, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro ha dichiarato pubblicamente quali sono le azioni che il Ministero intende portare avanti riguardo ai detenuti tossicodipendenti. Queste si sostanziano nell’affidamento degli stessi in comunità chiuse (parole testuali), in strutture private destinate esclusivamente alla loro accoglienza, che abbiano come unico obiettivo la disintossicazione e l’astinenza. Rischiamo un salto indietro - Le due dichiarazioni assumono un carattere estremamente preoccupante, perché ci riportano indietro di anni, trascurando il grande lavoro, teorico e pratico, che è stato fatto non solo dagli esperti e dagli studiosi, ma anche da tutti quegli operatori che, spesso in condizioni di precarietà, hanno portato avanti servizi e interventi di riduzione del danno nei territori, hanno svolto attività di prossimità, nelle comunità giovanili, nei contesti del divertimento, facendo anche un’importante e fondamentale opera di informazione e prevenzione. Informazione ed educazione - Sappiamo quanto non sia vero che ogni consumo è destinato alla dipendenza, sappiamo quanto invece siano efficaci interventi di informazione con i giovani e nelle scuole, ma si continuano a preferire interventi e misure che creano stigma e distanza invece che partecipazione e consapevolezza. Le dichiarazioni di Delmastro sono quindi, da un certo punto di vista, ancora più preoccupanti. In premessa, si richiama direttamente il terzo settore, senza mai citare il fatto che la salute è un diritto previsto dalla Costituzione che deve essere garantito dal servizio pubblico, anche attraverso l’intervento del privato sociale: in molte realtà esistono percorsi virtuosi di collaborazione, e oggi, con gli strumenti della co-progettazione, abbiamo un modo per poter arrivare a una più compiuta integrazione, sempre però in un’ottica di servizio pubblico. Serve, quindi, rafforzare il ruolo dei dipartimenti per le dipendenze, in termini di personale, professionalità e risorse economiche, non privatizzare le risposte ai bisogni di salute dei cittadini. Il nodo del sovraffollamento - Si sostiene poi che si ridurrebbe così il sovraffollamento nelle carceri. Ora, anche se è vero che oltre il 30 per cento delle persone ristrette lo sono per reati legati alle droghe, se davvero vogliamo risolvere in maniera concreta questo cronico problema dei nostri istituti di pena, sono ben altre le misure che servono, a partire dalla depenalizzazione dei reati minori e dal concreto ricorso alle misure alternative, già previste dalle normative e scarsamente applicate. Le comunità per educare - Ancora più preoccupante è però la trasformazione che tale provvedimento porterebbe rispetto al ruolo, ai compiti e all’organizzazione delle comunità, che non possono trasformarsi (o tornare a essere) in istituzioni totali che, di fatto, riproducono il carcere. Devono invece, come le esperienze di questi anni dimostrano, essere luoghi dove sviluppare percorsi educativi, integrate con il territorio e con tutti i servizi per le dipendenze. Suscita davvero indignazione una visione etica come quella proposta, per cui se ti comporti bene, non cedi mai, allora potrai scontare la pena in maniera lineare, altrimenti “avrai bruciato la tua possibilità… perché lo Stato non potrà più fidarsi”. È di alcuni anni fa il motto, che abbiamo condiviso con molte organizzazioni e associazioni come Cnca e Forum droghe, “Educare, non punire”. Pensiamo sia improponibile tornare ai modelli di comunità chiuse che abbiamo già conosciuto, e non lavorare, invece, per percorsi di cura e di presa in carico che siano il frutto di scelte condivise, responsabili, fondati sulle evidenze scientifiche e sulle esperienze concrete che si sono accumulate in questi anni. Il fallimento della war on drugs - La war on drugs è fallita, ancora più fallimentare è riproporla così. Farebbe bene al sottosegretario, se solo fosse disponibile, parlare con gli operatori dei servizi pubblici e del privato sociale che in questi anni hanno maturato importanti esperienze sul campo, in termini di riduzione del danno, che fa parte dei Lea fin dal 2017, e limitazione dei rischi. È per ragionare di questo che il 21 marzo si tiene nella sala stampa della Camera dei deputati una conferenza stampa promossa da Cnca, organizzazione che rappresenta la più ampia rete di comunità in Italia, alla quale abbiamo aderito come Cgil insieme a Forum droghe, all’associazione Antigone, alla Rete dei garanti, proprio dal titolo: “Educare non punire - le comunità non sono carceri”. *Responsabile dipendenze e carcere dell’area stato sociale e diritti della Cgil Droghe. Cnca: “No alle comunità carcere, così si torna agli anni 80” redattoresociale.it, 22 marzo 2023 Il Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza ha organizzato una conferenza stampa alla Camera. Hanno partecipato le realtà del terzo settore impegnate sul tema e alcuni parlamentari. “Bene applicare le misure alternative, ma le comunità di accoglienza non sono surrogati degli istituti di pena”. Facilitare percorsi alternativi per l’uscita dal carcere, in particolare per le persone con problemi di dipendenza, senza trasformare però le comunità di accoglienza in surrogati degli istituti di pena né in carceri private. Lo ha ribadito con forza il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (CNCA) in una conferenza stampa oggi a Roma, presso la sala stampa della Camera dei Deputati. Il dibattito è nato dopo le dichiarazioni alla stampa del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, che ha proposto di trasferire i detenuti con dipendenze dalle carceri alle comunità in “stile San Patrignano”. All’incontro hanno partecipato realtà del terzo settore impegnate sul tema del carcere e delle dipendenze e alcuni parlamentari. “Noi siamo disponibili a costruire delle alternative. Sappiamo quanto il carcere sia inadeguato e generatore di recidive. E’ dimostrata invece l’efficacia delle misure alternative alla detenzione nel ridurre fortemente la ripetizione di reati. Ma lavoriamo sul campo da oltre 40 anni e abbiamo la responsabilità di fare chiarezza rispetto a una comunicazione pericolosa. In particolare, ci troviamo a dover puntualizzare due aspetti: da una parte, vogliamo ricordare che esistono già normative che permettono pene alternative alla detenzione. C’è ancora tanta strada da fare per ampliare e rendere realmente attuabili tali misure. Inoltre, bisogna investire a livello economico per l’implementazione di queste buone prassi, costruire protocolli d’intesa tra i diversi attori in gioco (magistratura, sistema penitenziario, Serd, enti locali, enti del terzo settore), insomma occorre fare cultura su questo tema, anche con il coinvolgimento dei diretti interessati. Il secondo aspetto che ci teniamo a sottolineare è che le comunità non sono surrogati del carcere, ma sono strutture aperte e inserite sui territori. Riprodurre le logiche e l’organizzazione carceraria in strutture private non potrebbe far altro che ripetere e moltiplicare i fallimenti del carcere in questo difficile ambito. È da valorizzare invece la professionalità e la motivazione etica e di impegno sociale degli operatori che lavorano nei servizi dedicati alle dipendenze; l’innovazione e le sperimentazioni di percorsi di cura brevi e finalizzati all’inserimento sociale e lavorativo delle persone coinvolte” ha sottolineato Caterina Pozzi, presidente del Cnca. Su circa 15.000 detenuti tossicodipendenti solo circa 3.000 hanno avuto accesso all’affidamento nel 2021, secondo i dati dalla Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia. Per il Coordinamento delle Comunità di accoglienza (CNCA) non si risolve il problema del sovraffollamento carcerario moltiplicando gli spazi di detenzione, ma applicando il principio che sancisce la privazione della libertà come extrema ratio e promuovendo il più possibile percorsi di pena alternativi alla detenzione che favoriscano per le persone con dipendenza percorsi terapeutici, che prevedono un rapporto con il reato commesso dal punto di vista della cultura della giustizia riparativa su cui le comunità stanno già lavorando da anni. “Educare, non punire, è la strada maestra. La proposta che abbiamo letto, invece, contiene una visione punitiva del tossicodipendente e non affronta le reali difficoltà delle carceri. Il CNCA e le realtà terapeutiche rifiutano il mandato contenitivo e di controllo. Un cambio di passo è necessario, serve un ripensamento del sistema dell’equipe sanitaria in carcere, servono spazi di ascolto, momenti di condivisione di gruppo, un’accelerazione nel rilascio delle certificazioni e dei tempi per l’invio in comunità o verso programmi di cura territoriali. Rifiutiamo con forza la trasformazione delle comunità in carceri private. Il modello stile San Patrignano citato dal sottosegretario non ci rappresenta, non rappresenta le comunità terapeutiche, non lo rappresentava negli anni ‘80 e non lo rappresenta ora. Se la logica sarà solo contenitiva siamo pronti alla disobbedienza civile”, ha aggiunto Riccardo De Facci, consigliere nazionale del CNCA con delega alle dipendenze. Secondo il Garante dei detenuti del Lazio e coordinatore dei garanti territoriali, Stefano Anastasia servono progetti e programmi di reinserimento con un investimento sul sistema dei servizi, che non sia solo dedicato alla mera disintossicazione delle persone detenute. Anche per Susanna Marietti di Antigone onlus non è creando un circuito penitenziario privato, affiancato a quello pubblico, che si affronta il tema del sovraffollamento delle carceri. Sulla stessa scia Denise Amerini della Cgil nazionale, che ha ricordato il tema degli operatori e Stefano Vecchio del Forum Droghe, secondo cui bisogna affrontare le storture previste dalla legge e parlare, invece, di depenalizzazione dei reati legati alla droga. Tra i parlamentari presenti, Anna Rossomando (Pd) e Riccardo Magi (+ Europa). Entrambi hanno esortato le realtà del terzo settore a far sentire la propria voce e ad accompagnare la politica per scelte appropriate sul tema per evitare il rischio di pericolosi passi indietro. Ilaria Cucchi (SI) pur non potendo essere presente ha espresso il suo supporto all’iniziativa. Giovanni Orsina: “Per Meloni l’immigrazione è diventato un problema intrattabile” di Federica Fantozzi huffingtonpost.it, 22 marzo 2023 Il politologo: “L’obiettivo è scavallare la l’estate senza troppi danni. Non vedo all’orizzonte soluzioni profonde e strutturali. L’Ue con le sue regole si è infilata in un cortocircuito. Rompiamo l’ipocrisia: i migranti disperati, in fuga dalla povertà, non li vuole nessuno. Ed è un tema elettoralmente letale”. “Gli sbarchi in aumento consistente saranno il fronte estivo del governo. Meloni può ottenere un po’ di quattrini da Bruxelles, ma l’immigrazione si è trasformata in un problema intrattabile. L’Occidente si è infilato in un cortocircuito”. Giovanni Orsina, storico e politologo, direttore della Luiss School of Government, non nutre grandi aspettative sul prossimo consiglio europeo. Né sulla capacità di gestione del fenomeno da parte dell’Ue. Avvisa: “La premier dovrà per forza tenere un approccio misto e pragmatico, rallentare e ridurre i flussi. Rompiamo l’ipocrisia: i migranti disperati, in fuga dalla povertà, non li vuole nessuno. Ed è un tema elettoralmente letale”. Giovanni Orsina, la premier Giorgia Meloni nell’informativa al Senato in vista del consiglio europeo di giovedì ha parlato di “pressione migratoria senza precedenti”. L’instabilità in Tunisia, l’ingovernabilità della Libia, il terremoto in Siria. E il post covid, la guerra. Gli sbarchi saranno il fronte estivo del governo? L’impressione è quella. Guardiamo ai numeri: nel febbraio 2016 sono sbarcati in 3.828, e quell’anno ha visto il picco di arrivi, 180mila. A febbraio scorso sono arrivati in 9.465: due volte e mezzo di più. Su base annuale significherebbe 450 mila migranti. Il Paese esploderebbe. L’Italia non sarebbe in grado di reggerli. È chiaro che è un’estrapolazione dei numeri del tutto teorica: è da vedere che gli scafisti siano in grado di traghettare mezzo milione di persone. Ma rimane l’impressione di arrivi molto consistenti, la nostra intelligence ha stimato che sono in 685mila pronti a partire dalla sola Libia. Meloni ha chiamato in causa Bruxelles, avvisando che non c’è più tempo contro un’emergenza che sta diventando “strutturale”. Ma quanti vertici europei abbiamo visto senza risultati concreti? Tanto più ora che la priorità è la guerra in Ucraina... Ciò che può ottenere Giorgia Meloni da Bruxelles è esattamente ciò che sta ottenendo: un po’ di quattrini sulla gestione dei flussi, ma di certo non abbastanza per affrontare la questione nei Paesi di partenza. Il punto è che l’immigrazione si è trasformata in un problema essenzialmente intrattabile. In che senso intrattabile? Ridotto al nocciolo: o accogli quanti hanno risorse sufficienti per mettersi in marcia oppure violi i loro diritti umani. Chi proviene da paesi in guerra ha automaticamente diritto di asilo, quindi non può essere respinto. Chi fugge “soltanto” dalla fame non può chiedere asilo, ma dal momento in cui si mette in movimento diventa titolare di una serie di diritti ulteriori: non lo si può trattenere in un campo libico, e quando si mette in mare lo si deve salvare e non lo si può riportare sulla sponda sud. Il tema migratorio finisce così, in buona sostanza, per essere “blindato” da una logica giuridica: non c’è possibilità di azione politica, non c’è discrezionalità, c’è da applicare il diritto e basta. Allo stesso tempo, però, è ben evidente che non è possibile far entrare tutti quelli che lo vorrebbero, le nostre democrazie esploderebbero. Il diritto non può che restare sulla carta, allora, avvolto in uno spesso strato d’ipocrisia. L’Occidente si è infilato in questo cortocircuito. Per i singoli Paesi è un cortocircuito. Meloni ha cristallizzato come primo diritto quello di non essere costretti a partire. Ma possibile che l’Europa non trovi un terreno comune tra movimenti primari e secondari, Paesi di prima accoglienza e di redistribuzione? L’Unione Europea ha molto insistito, negli ultimi decenni, sulla propria natura di “potenza normativa”: non armata fino ai denti come gli Stati Uniti, ma capace di comportarsi bene e proporsi su scala globale come esempio di condotte virtuose. A questo approccio i migranti possono adesso rispondere: nel nome del diritto scritto sulla vostra bandiera, noi arriviamo a tutti i costi. L’Europa, però, a quel punto balbetta. Senza parlare di soluzioni, non ha nemmeno un approccio comune. Quali regole di gestione vede? Non mi pare che ce ne siano. Ci sono soluzioni pragmatiche che vengono adottate quando le urgenze si fanno ingestibili e c’è qualcuno che ha sufficiente forza politica da imporle: l’accordo sui profughi siriani fatto da Angela Merkel, ad esempio, che ha finanziato Erdogan per tenerli in Turchia, trattati non si sa come. Anche su questo è piombato il velo dell’ipocrisia. Ci sarebbero tante cose da fare, a partire dalla stabilizzazione di Libia e Tunisia. Ma servirebbero veri soldi, non spiccioli, e soprattutto vera volontà politica. Se vogliamo: la capacità di pensarsi come qualcosa di più di una potenza normativa. Perché l’Ue non riesce nemmeno a convincere il Fondo monetario internazionale a sbloccare il prestito per Tunisi? Uno che conosce la materia come Marco Minniti si sgola da mesi... Lui conosce questi temi certamente meglio di me. Ma se l’Italia chiede agli Usa di fare pressione sull’Fmi viene il dubbio che forse l’Europa non abbia abbastanza forza per agire. Mi pare che questo la dica lunga sugli equilibri geopolitici. La premier sull’immigrazione ha due facce: una dura per il suo elettorato contrario agli sbarchi e una trattativista con gli imprenditori che invocano lavoratori. Cosa ne pensa? Meloni deve per forza avere un approccio misto e pragmatico. I flussi vanno rallentati e ridotti perché se i numeri crescono troppo non saranno più gestibili. Minniti, in definitiva, c’era riuscito. E poi c’è da accogliere chi arriva, cercare di evitare altre Cutro, negoziare con l’Europa e fare accordi con i Paesi di partenza per flussi regolari. Robetta facilissima... Beh, l’ho detto che il problema è intrattabile… È un pot pourri di iniziative, una macedonia. Ma anche qui bisogna essere onesti: l’obiettivo è scavallare la primavera e l’estate 2023 senza troppi danni. Non vedo all’orizzonte soluzioni profonde e strutturali. Italia, Europa e Occidente dopo decenni ancora all’anno zero. È accettabile? Rompiamo le ultime croste di ipocrisia: i migranti disperati, in fuga dalla povertà, non li vuole nessuno. Tranne fasce minoritarie dell’opinione pubblica, nutrite di illuminate opinioni umanitarie e sensi di colpa. Ed è un tema elettoralmente mortale. Ricordiamoci di come ha reagito Macron sulla questione della Ocean Viking. Il blocco di Visegrad è solo la punta dell’iceberg. E i naufragi non sono dannosi dal punto di vista del consenso? Con Cutro non si è aperta una crepa nella luna di miele tra governo e opinione pubblica? Distinguiamo tra media ed elettori. L’opinione pubblica, tra covid e guerra, è sommersa di cadaveri da tre anni, e questo non può che averne anestetizzato la sensibilità. Non so quale sia stato davvero l’impatto di Cutro sull’opinione pubblica, insomma. Per i media è diverso. Per altro, se ostili al governo hanno usato - legittimamente - questi fatti per esercitare una critica politica. Anche gli osservatori non ostili hanno rilevato una catena di errori operativi, strategici e comunicativi da parte dell’esecutivo... Il governo ha commesso vari errori di comunicazione, certo. Ma - ripeto - mi chiedo quanto questa vicenda abbia davvero inciso nella percezione di un’opinione pubblica già satura di drammi. Il calo di Fratelli d’Italia nei sondaggi è minimo. Comunque sì, la strada è molto stretta: se non fermi i migranti scontenti i tuoi elettori, ma i morti sulla spiaggia distruggono la tua immagine. Dopodiché, dipenderà anche dalle dimensioni del fenomeno. Se dovessimo trovarci in una situazione analoga a quella del 2015-2016, con i migranti accampati alla stazione di Milano o nelle piazze dei piccoli centri, con un impatto visibile sotto casa delle persone, credo che gli umori cambierebbero. Significa che la maggioranza dell’opinione pubblica accetterebbe una strage di donne e bambini a 500 metri dalla costa italiana pur di fermare gli sbarchi? È tutto da vedere, s’intende. Ma già non sappiamo come stia reagendo adesso, l’opinione pubblica. Molto difficile immaginare come si modificherebbe, se crescessero notevolmente i flussi e, in proporzione ai flussi, anche gli incidenti. Corsa alle armi: quest’anno la spesa militare aumenterà di 800 milioni rispetto al 2022 di Francesco Grignetti La Stampa, 22 marzo 2023 La “provocazione” di Giorgia Meloni, sul suo governo che aumenterà la spesa militare, ma a viso aperto e non di soppiatto, era chiaramente rivolta a Giuseppe Conte. È successo sotto i suoi governi, infatti, tra il 2018 e il 2021, che le spese militari sono cresciute da 21 a 24,6 miliardi di euro l’anno. Anche se siamo lontani dall’obiettivo della Nato del 2% del Pil. Quest’anno, spenderemo altri 800 milioni di euro più del 2022 sulla base di programmi che questo governo ha ereditato dal precedente. Nel cambio tra il ministro Guido Crosetto e il predecessore Lorenzo Guerini, pur passando a Fratelli d’Italia dal Pd, non c’è stato alcuno strappo. “Non devono esserci dubbi - scriveva infatti Guerini - in merito alla necessità di proseguire nel percorso di crescita del bilancio della Difesa, avviato dal Parlamento con le ultime due Leggi di Bilancio, per affrontare le nuove sfide e per rispettare gli impegni assunti in ambito Nato di raggiungimento della soglia del 2% del Pil nel medio termine, che ne prevede il raggiungimento nel 2028”. Confermava Crosetto qualche giorno fa: “Alla prossima riunione dell’Alleanza atlantica a Vilnius, sul 2% del Pil alla Difesa, alla fine saremo il pierino della Nato”. I freddi numeri dicono infatti che siamo all’1,38% del Pil come spesa militare. E cioè, secondo l’Osservatorio pacifista Milex, “si passa dai 25,7 miliardi previsionali del 2022 ai 26,5 miliardi stimati per il 2023”. Pesa la spesa per il personale, ma intanto l’elenco delle armi che servono alla nostra Difesa è lungo e complesso. Ci sono armi tradizionali come il carro armato, l’elicottero, le navi per la Marina militare. C’è l’F35 per l’Aeronautica. Servono poi le banali munizioni, per armi individuali o per l’artiglieria. A parte il maxi-stanziamento europeo di due giorni fa (1 miliardo di euro per acquisti comuni, da girare direttamente all’Ucraina e per rimpinguare gli arsenali delle nazioni che stanno rifornendo l’esercito ucraino), la nostra Difesa aveva già un programma decennale di acquisto da 2,7 miliardi di euro. Ma poi ci sono anche apparecchiature avveniristiche quali il satellite per le comunicazioni, Sicral 3, dal costo di 315 milioni di euro. Oppure i sistemi anti-drone, spiegati dal Documento programmatico della Difesa 2022-24 come “apparati tecnologici che appartengono ad una nuova tipologia di sistemi di Difesa Aerea e di Force Protection impiegabili in contesti operativi complessi, a protezione delle basse e bassissime quote, anche in ambienti urbani”, per una spesa complessiva di circa 200 milioni di euro in 6 anni. I soldi corrono veloci, quando si tratta di armi moderne. Negli ultimi giorni della scorsa Legislatura, a Camere già sciolte, i parlamentari hanno votato a favore di 10 programmi di acquisizione per cacciamine, elicotteri, carri armati e missili. Unici ad opporsi erano stati quelli del M5S. Impressionanti i volumi finanziari: in un colpo solo, sono stati impegnati 6 miliardi di euro, sia pure spalmati su diversi anni. Spiegava però in Parlamento qualche giorno fa il segretario generale della Difesa, generale Luciano Portolano, già responsabile del Comando operativo interforze, da dove si guidano tutte le missioni militari all’estero: “Il conflitto in Ucraina rappresenta per tutta la comunità internazionale una fonte di lezioni. Ci ha messo di fronte all’importanza del ritorno ai fondamentali di un conflitto, che richiede capacità militari molto più complesse, in termini di dottrina, equipaggiamenti e addestramento, rispetto a quelle sulle quali ci siamo concentrati nel lungo periodo caratterizzato dalle operazioni di peace-keeping o supporto alla pace”. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, infatti, con l’ostentata rottura della legalità internazionale, l’uso della forza indiscriminata contro la popolazione e le infrastrutture civili, ma anche il movimento di enormi masse di soldati in battaglie campali alla vecchia maniera, è stato un brusco risveglio per tutti. Anche per i militari. Il segretariato generale della Difesa si sta concentrando sugli aspetti di carattere tecnico-industriale. “Dobbiamo poter contare - diceva ancora il generale Portolano - su sistemi d’arma tecnologicamente avanzati; su capacità industriali solide e competitive, su una catena di approvvigionamento veloce e sicura”.Tutte e tre le condizioni sono necessarie per avere forze armate all’altezza. La lezione ucraina ha dimostrato che con sistemi d’arma più avanzati, gli aggrediti hanno fermato gli aggressori, che pure avevano numeri molto maggiori. Ma non serve a nulla avere l’aereo migliore del mondo, se poi non arrivano i pezzi di ricambio o le munizioni. E non basta. Bisogna mantenersi all’avanguardia tecnologica. “Siamo consapevoli di avere un potenziale gap rispetto alla velocità dello sviluppo tecnologico. Tra tutti: cyber, spazio e intelligenza artificiale”. Ucraina. La Gran Bretagna fornirà proiettili con uranio impoverito di Piero Sansonetti Il Riformista, 22 marzo 2023 I fatti degli ultimi giorni avevano sollevato l’allarme. Il fastidio occidentale per le mosse di Xi Jinping, e prima ancora l’ammonimento di Washington a Kiev (“non accettate nessuna proposta di cessate il fuoco”). Ieri l’escalation è proseguita. Gli inglesi hanno reagito in modo inconsulto ai colloqui di Mosca: hanno annunciato che forniranno a Kiev munizioni con l’uranio impoverito. Sono armi micidiali, realizzate per sfondare qualsiasi blindato. Sono state in passato usate dagli americani soprattutto in Serbia e in Kosovo. Hanno una grande potenza ma anche un terribile effetto collaterale, e cioè inquinano con veleni all’uranio, mortali per chi li respira e anche per le generazioni successive. Annunciare che saranno consegnate all’Ucraina ha un chiaro valore di “rottura” di ogni possibile clima di negoziato. Infatti Mosca ha reagito immediatamente e il portavoce del ministero degli esteri ha annunciato che saranno prese delle contromisure. Ha anche minacciosamente alluso alla probabilità sempre più vicina e concreta di guerra nucleare. Naturalmente quando si registrano le intemperanze politiche dei governi bisogna stare attenti a distinguere tra intenzioni reali e provocazioni. Il problema è che, talvolta, le provocazioni innescano una serie di reazioni che poi diventa molto difficile disinnescare. È chiaro il motivo dell’escalation di Londra e Washington. Impedire che sia il presidente cinese Xi a prendere in mano la situazione. Tutti gli osservatori avvertono questo rischio. Il modo nel quale Gran Bretagna e Stati Uniti hanno evitato in questi mesi la strada diplomatica ha aperto un varco molto grande alla Cina. E la stessa Ucraina, stremata, evidentemente ha la tentazione di inserirsi in questo varco. Washington e Londra temono che un successo della missione cinese possa rovesciare gli equilibri geopolitici a favore di Pechino. E vogliono impedire che questo avvenga. Anche rischiando la guerra mondiale? Anche. E l’Europa che fa? In questo momento conta quanto la Repubblica di San Marino. La Gran Bretagna fornirà all’Ucraina proiettili con uranio impoverito da utilizzare nella guerra con la Russia. Lo ha detto la viceministra britannica della Difesa, Annabel Goldie. Citata dal Guardian, ha indicato che oltre a fornire i carri armati Challenger 2, il Paese invierà “munizioni, compresi proiettili perforanti contenenti uranio impoverito”. Questo tipo di proiettili, ha aggiunto, è “molto efficace” contro carri armati e blindati. Se le munizioni speciali verranno fornite a Kiev e utilizzate, la Russia sarà costretta a reagire, ha detto il presidente russo Vladimir Putin nelle dichiarazioni alla stampa al termine dei colloqui con il presidente cinese Xi Jinping a Mosca, secondo quanto riferisce l’agenzia Ria Novosti. Immediata è arrivata anche la replica della portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, che ha accusato il governo britannico di voler creare uno “scenario jugoslavo”. “Questi materiali non solo uccidono, ma avvelenano anche l’ambiente e provocano il cancro nelle persone che abitano queste terre”, ha affermato in un messaggio sul suo account Telegram. “È un po’ ingenuo pensare che queste armi causeranno vittime solo tra coloro contro i quali vengono utilizzate. In Jugoslavia, i militari Nato, soprattutto italiani, sono stati i primi a pagarne le conseguenze”, ha sottolineato. Intanto un alto funzionario ucraino ha dichiarato alla Cnn che sono in corso discussioni con la Cina per organizzare una chiamata tra il leader cinese Xi Jinping e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky per discutere della proposta di Pechino per un piano di pace per l’Ucraina. Tuttavia, “non è stato programmato nulla di concreto”, ha precisato il funzionario. “L’Ucraina è contraria ad un cessate il fuoco perché ciò significherebbe protrarre il conflitto”, precisa il portavoce di Zelensky, Podolyak, nel corso del summit tra Putin e Xi. Ucraina. Proiettili all’uranio impoverito, lo spettro delle armi tossiche che seminano malattie di Gianluca Di Feo La Repubblica, 22 marzo 2023 Sfondano le corazze dei carri armati, ma sono un fantasma velenoso sospettato di avere trasmesso patologie a militari e civili. Forse sono l’arma più perversa mai inventata, una sintesi di scienze fisiche convertite alla pratica bellica e circondata da un’aurea nefasta di gran lunga superiore alla sua efficacia in battaglia. I proiettili a uranio impoverito uniscono il sinistro futuro delle guerre nucleari agli antichi calcoli balistici dell’artiglieria, concependo una munizione presentata come la pallottola d’argento dei fumetti horror: l’unica in grado di sfondare qualsiasi corazza. Anche la sua origine ha una doppia motivazione. Sfrutta infatti gli scarti della produzione del combustile per le centrali atomiche e delle testate per le bombe dell’Apocalisse: un enorme quantità di materiale a bassa radioattività ma che pone comunque problemi di stoccaggio. Ed ecco l’idea nata al Pentagono negli anni Settanta: poiché ha una densità altissima e basso prezzo, perché non trasformarlo nel dardo per crivellare i tank sovietici? Le prove hanno dimostrato che era più efficace del tungsteno e meno costoso. E così si risolveva pure lo smaltimento delle scorie. Nel tramonto della Guerra Fredda si è cominciato a trasformarlo in proiettili, destinati a un numero selezionato di cannoni. In particolare, a quelli dei carri armati Abrams e agli Avenger - Vendicatore - ossia le micidiali armi a canne rotanti degli aerei A-10. In quella stagione di segreti, nessuno si è preoccupato della tossicità: gli eserciti vivevano preparandosi a combattere negli scenari radioattivi dei conflitti nucleari. Ma è stato impiegato solo dopo la caduta del Muro, in situazioni molto diverse. L’esordio è avvenuto nella campagna per la liberazione del Kuwait, con i tank di Saddam Hussein trapassati da queste munizioni, sparate a migliaia da terra e cielo. Poi i reduci hanno cominciato ad ammalarsi e sono iniziati gli interrogativi: non sarà colpa dell’uranio impoverito? Il dubbio è stato riproposto dopo le operazioni nei Balcani, quando sindromi misteriose e devastanti hanno colpito pure i militari italiani mandati nelle zone dove gli A-10 statunitensi avevano distrutto i blindati serbi. L’arma di questo aereo ha un volume di fuoco pauroso: 4.200 colpi al minuto. In genere la raffica - accompagnata da un suono simile a un urlo - dura due secondi e scaglia 120 ogive lunghe 17 centimetri. L’impatto delle pallottole genera nuvole con schegge e microparticelle di uranio che, per quanto “impoverito”, continuano a lungo ad emettere radiazioni malefiche. Un fantasma velenoso, invisibile ma persistente intorno alle carcasse delle battaglie della Bosnia e del Kosovo. Che, come già in Iraq, è sospettato di avere trasmesso patologie alla popolazione. Molti studi hanno negato un legame tra i proiettili e le malattie. Una ricerca del Commissario Ue alla Salute pubblicata nel 2010 sostiene che i livelli di contaminazione riscontrati in Kosovo sono “molto al di sotto della soglia di pericolo”: soltanto dove c’è stato un impatto diretto, ad esempio il relitto di un tank, il rischio è più elevato. Allo stesso tempo, però, la quantità di pazienti con sindromi che non hanno trovato una spiegazione clinica continua a tenere viva la paura per le munizioni radioattive. L’aspetto forse più raccapricciante è che non sono mai state messe al bando, neppure quando le missioni contro il terrorismo jihadista le hanno rese inutili, e colossi come General Dynamics le offrono ancora in catalogo. Solo nelle batterie Phalanx, usate per difendere le navi dai missili, risultano essere state rimosse dal servizio. Nemmeno il governo britannico, stando alle dichiarazioni, si è liberato delle munizioni - chiamate Jericho - costruite per i tank Challenger, e oggi starebbe per consegnarle all’Ucraina. Una scelta che apre tantissimi interrogativi. E che potrebbe non essere l’unica. Negli ultimi mesi è stata ventilata più volte la possibilità che gli Stati Uniti donino a Kiev i caccia A-10: aerei che impiegano esclusivamente i proiettili tossici. Israele. Sciopero della fame dei detenuti palestinesi contro Ben Gvir di Michele Giorgio Il Manifesto, 22 marzo 2023 Il ministro israeliano, leader dell’estrema destra, ha ordinato misure restrittive senza precedenti nelle carceri per porre fine a quella che definisce la “comoda detenzione” dei palestinesi. Le misure sempre più restrittive imposte nelle carceri israeliane dal ministro della Sicurezza Itamar Ben Gvir, alla fine hanno spinto i prigionieri politici palestinesi verso una protesta di massa. Ieri sera alcuni dei detenuti più noti, tra i quali Marwan Barghouti, Nael Barghouti e Mohammed al Tus (in prigione dal 1985), hanno cominciato un digiuno di protesta in anticipo sullo sciopero della fame che dovrebbe scattare oggi per gran parte degli altri prigionieri palestinesi (circa 5mila, centinaia dei quali non hanno mai subito un processo) mentre comincia il mese di Ramadan. La protesta - “Vulcano della libertà o del martirio” - è una risposta diretta alla decisione di Ben Gvir di “mettere fine” a quelle che per il ministro, uno dei leader dell’estrema destra israeliana, sarebbero le buone condizioni di vita, simili a un “campo estivo”, di cui avrebbero goduto sino a qualche mese fa i prigionieri palestinesi. Ben Gvir ha ordinato di effettuare ispezioni continue nelle celle, controlli capillari, la chiusura dei forni che producevano pane per i detenuti e la revoca di altre misure che, sempre a suo dire, garantivano ai palestinesi una “comoda detenzione”. Lo sciopero della fame, come è già accaduto per proteste simili nelle carceri, sarà accompagnato dalla mobilitazione di attivisti, forze politiche e famigliari dei detenuti. Già ieri si sono tenuti raduni seguiti da veglie notturne in diverse località cisgiordane. Nel frattempo, la Knesset controllata dalla maggioranza di estrema destra religiosa che sostiene il governo Netanyahu, ha approvato lunedì notte un emendamento ad una legge del 2005 relativa al ritiro israeliano dalla striscia di Gaza e da quattro piccoli insediamenti coloniali nella Cisgiordania settentrionale, nelle vicinanze di Jenin. In base a questo emendamento, sarà lecito per i coloni israeliani tornare nelle aree dei quattro insediamenti abbandonati. Di fatto è l’annullamento del disimpegno (ritiro) israeliano dalla Striscia di Gaza voluto nel 2005 dal premier di destra Ariel Sharon, che includeva anche l’evacuazione e distruzione delle quattro piccole colonie. Un ritiro molto limitato - imposto dalla impossibilità per Israele di mantenere il controllo e la sicurezza delle sue colonie a Gaza durante la seconda Intifada palestinese - ma che la destra più radicale ha sempre chiesto di revocare. “Adesso - ha proclamato l’altra sera la deputata ultranazionalista Limor Son Har Melech - dobbiamo riedificare quei quattro insediamenti e anche tornare a casa nel Gush Katif”, ossia nell’area di colonizzazione ebraica che fino al 2005 si trovava nel sud della Striscia di Gaza. L’Unione europea ha condannato l’approvazione dell’emendamento da parte della Knesset. “La decisione di abrogare alcuni articoli della legge sul disimpegno del 2005 nel Nord della Cisgiordania è controproducente per gli sforzi volti a ridurre le tensioni e ostacola la possibilità di perseguire misure di rafforzamento della fiducia e creare un orizzonte politico per il dialogo. La decisione della Knesset è un chiaro passo indietro”, ha protestato Peter Stano, portavoce dell’alto rappresentante Ue per la politica estera, Josep Borrell. Gli insediamenti, ha aggiunto, “costituiscono un grave ostacolo alla pace e minacciano la fattibilità della soluzione dei due Stati”. Iran. la lotta di Farideh DI Stefania Miccolis La Stampa, 22 marzo 2023 Il racconto dell’iraniana che ha sfidato prima lo scià e poi gli ayatollah: “In prigione sono stata frustata, mi facevamo stare sveglia di notte”. Il ricordo di Mahsa Amini: “È stata la scintilla che tutti aspettavamo”. Questa è la storia di una donna iraniana, Farideh Guerman, una combattente politica che ha impegnato - “ha dato in pegno” - la sua vita nella lotta in un credo politico, e “a sostegno”, dice lei, “dell’essere umano”. Ma non vuole essere ricordata, “voglio essere pioggia sulla mia terra e scomparire nell’oceano sconfinato dell’esistenza”. Vuole fare qualcosa per l’umanità: “Un sogno troppo grande”. È dall’età di otto anni che lotta: “Capivo i discorsi che facevano i miei fratelli più grandi sul Comunismo. Speravo di poter entrare nel partito comunista, il Tude”. Oggi fa parte della organizzazione politica Ranjbaran. Le domandiamo: ma non sei arrivata ad un età in cui vuoi riposarti?; “Ma come faccio, tutta la mia vita è stata una lotta per il bene comune, non posso fermarmi ora, non avrebbe senso tutto quello che ho fatto e che ho passato”. Per comprenderla basterebbe il suo libro su Teresa Noce, “Rivoluzionaria professionale”: tradotto nei suoi anni di clandestinità in Iran e pubblicato solo nel 2016, l’8 marzo. “Teresa Noce, una donna che pensava con la sua testa: dovevo farla conoscere, se infondeva coraggio a me, lo avrebbe infuso anche alle donne iraniane: dovevano prendere coscienza di loro stesse e della loro situazione”. Ma la sua vita è molto più rocambolesca da raccontare: è intrisa di passione, violenza e amore, produce in chi la ascolta per non essere sordo impotenza e disagio, superficialità e ipocrisia, e induce a una profonda riflessione. Un romanzo sulla sua vita lo ha già scritto e pubblicato: in italiano il titolo sarebbe: “Alla luce dell’amore, le sofferenze della vita svaniscono”. Una storia che arriva solo fino al 1978, “anno in cui Khomeini prende il potere e tradisce tutti”. “È stato peggio dello scià. Lo scià ha torturato e ammazzato tanti uomini e donne, compreso il mio primo marito”. Era il 1976, poco dopo cominciò la rivoluzione. “Tutti credevamo che con la caduta dello scià avremmo vissuto in un mondo libero e invece Khomeini ha detto solo bugie. Cominciò prima con il velo alle donne, e noi non avevamo capito, pensavamo solo a lottare contro l’imperialismo americano; ma poi le ronde iniziarono ad attaccare violentemente le sedi e le organizzazioni comuniste”. Il libro racconta di quando Farideh si iscrisse ad architettura in Italia, alla Sapienza (è appassionata di Bruno Zevi, ne ha tradotto due libri, ha cercato di sviluppare e di far comprendere ai suoi alunni in Iran “il senso dell’architettura come spazio”) dove studiava anche il suo primo marito. Ricorda come fosse entusiasta: “Nel 1964, appena sono arrivata, ho partecipato alle riunioni della Cisnu, Confederazione per la lotta democratica studentesca iraniana in tutto il mondo, ed ero contenta che tutti potessero lottare liberamente. Ho conosciuto mio marito, che divenne uno dei fondatori dell’organizzazione rivoluzionaria che si scisse dal Tude, diventandone l’ala combattente”. Il marito non finì gli studi per “fare la rivoluzione in Iran” e viveva lì in clandestinità. Non riuscivano quindi a comunicare, “la sua ultima lettera, che conservo insieme alle a tante altre, era in bianco, non capii cosa fosse nascosto fra le righe. Dopo tanti giorni di silenzio finalmente riuscimmo a sentirci, ci salutammo. Lo presero e dopo una settimana lo torturarono e morì”. Lo dice con voce sospirante, abbassa gli occhi mentre ricorda. Farideh invece viene messa in prigione sotto Khomeini nel 1982: “Da quando c’era Khomeini tutto era orribile, la religione islamica, che le persone all’inizio non riuscivano a capire, ha tolto ogni libertà”. Si trovava in Iran in clandestinità con documenti falsi e la presero mentre partecipava ad una riunione coi suoi compagni. “In prigione ero bendata, cominciarono a ridere e a dire le mie vere generalità. Mi fecero scendere le scale e messa su una tavola di legno cominciarono a frustrarmi le piante dei piedi e così continuarono per giorni: mi erano anche cadute le unghie di piedi. Non sapevo più come fare. Intanto pensavo, pensavo sempre a cosa dire o inventare e sapevo che non potevo fare nomi. La mia fortuna fu una agendina nella mia borsa con dentro luoghi e date, ma non nomi. Mi credettero. Agli interrogatori non riuscivo a stare in piedi, ma in ginocchio, mi facevano stare sveglia tutta la notte. Sono uscita dopo quasi quattro anni: con un processo regolare, mi liberarono. Non so ancora il perché, forse mio marito, che aveva lottato contro lo scià, era considerato un martire e non mi uccisero. Uscita di prigione sapevo di essere sorvegliata, non incontrai più nessuno. Tante erano le domande che mi ponevo e i perché. Pensavo alla nostra organizzazione, alle nostre linee politiche…”. Farideh ora è in Italia, partecipa a tante riunioni qui col suo partito. “In Iran è impossibile, né posso tanto parlarne; le organizzazioni politiche sono tutte in clandestinità. Quello che sta accadendo c’è sempre stato, è tremendo. La situazione per le donne non è peggiorata, la polizia morale è sempre esistita. Ma la ragazza che è stata uccisa, Mahsa Amini, ha scatenato la scintilla. Lei è stata la scintilla che tutti aspettavano; la gente lotta, non ne può più. Tanti giovani, tanti studenti parlano, discutono…la situazione per la sinistra sta migliorando. Il figlio dello scià vuole ritornare, ma noi comunisti non vogliamo questo, siamo contro l’imperialismo, non vogliamo compromessi. Basta, abbiamo già provato con queste cose. Ma capiamo che non possiamo contrastarli: diciamo, fate! Devono andare avanti, è la democrazia, il popolo deve decidere, deve prendere coscienza”. Farideh ha già scritto il secondo libro autobiografico, ma nessuno è disposto a pubblicarlo in Iran. Donna, vita, libertà, è un motto importantissimo: “La donna è sempre stata sottomessa, due volte più dell’uomo, non solo in Iran, in tutto il mondo. Si deve continuare a lottare. Se non c’è la donna non c’è la vita. Non credo riuscirò a vivere tanto per vedere la libertà nel mio Paese”. Afghanistan. Chiudono le poche scuole ancora aperte alle donne di Giuliano Battiston Il Manifesto, 22 marzo 2023 Dopo la pausa invernale, il diktat talebano è diventato assoluto. Le pressioni internazionali cadono nel vuoto. Ma l’Emirato resta spaccato in due. In Afghanistan ieri sono state riaperte le scuole dopo la pausa invernale. Per gli studenti, di ogni ordine e grado, porte aperte. Per le studentesse, solo fino alla scuola primaria. Per le ragazze più grandi infatti vige ancora il bando informale del marzo 2022. Quando, con un testacoda indicativo delle divisioni all’interno dei Talebani, il ministero prima ha annunciato la riapertura delle scuole, per poi lasciare a casa le studentesse adolescenti. Da allora, sempre a casa, tranne rari casi. L’Afghanistan rimane dunque l’unico Paese al mondo in cui il diritto all’istruzione è negato alle adolescenti. “Con l’inizio del nuovo anno scolastico in Afghanistan, ci rallegriamo per il ritorno di milioni di bambini e bambine nelle aule della scuola primaria. Tuttavia, siamo profondamente delusi di non vedere anche le ragazze adolescenti tornare nelle loro aule”, ha dichiarato Fran Equiza, rappresentante dell’Unicef in Afghanistan, l’agenzia dell’Onu che, come molte altre organizzazioni, fatica a trovare i modi per convincere i Talebani a cambiare rotta. La decisione, parte di un più ampio pacchetto normativo che consolida l’apartheid di genere, non è stata presa a Kabul, sede dei ministeri, ma a Kandahar, sede dell’Amir al-muminin, la guida dei fedeli Haibatullah Akhundzada. Che con il suo entourage detta la rotta, diversa da quella di altri Talebani più pragmatici. Consapevoli che, intorno ai diritti delle donne, si gioca non solo una partita interna, con una società insofferente alle discriminazioni, ma anche internazionale, con quella comunità diplomatica da cui dipendono aiuti umanitari, aiuto allo sviluppo, la tenuta del sistema-Paese. A Kandahar sono convinti, sbagliando, che “l’autarchia è la via maestra, il popolo è con noi”. A Kabul l’ala più pragmatica cerca di rassicurare gli stranieri. Ormai senza pazienza. Come le studentesse afghane. Le uniche novità sono negative: ora le scuole sono chiuse anche nelle poche aree in cui, grazie alla capacità di negoziazione delle comunità locali, erano rimaste aperte prima della pausa invernale, come nelle province settentrionali di Kunduz e Balkh. “Quest’anno le scuole sono aperte alle ragazze fino alla sesta classe, stiamo aspettando altre notifiche sulle classi superiori”, ha dichiarato all’agenzia Reuters Mohammed Ismail Abu Ahmad, a capo del dipartimento dell’educazione di Kunduz. Che le scuole sarebbero rimaste chiuse era chiaro già nei giorni scorsi, a dispetto delle pressioni crescenti per rivedere le norme discriminatorie, inclusa quella del dicembre 2022 con cui si nega alle studentesse anche l’accesso all’università. Le pressioni provengono anche dai governi islamici, oltre che dall’Organizzazione della cooperazione islamica, il cui segretario Hissein Brahim Taha di recente ha ribadito che la questione non è chiusa. Pochi giorni fa, a margine di un incontro con una delegazione di religiosi provenienti dagli Emirati arabi, il ministro di fatto degli Esteri dell’Emirato, Amir Khan Muttaqi ha dichiarato: “La scuola per le ragazze non è haram, non è proibita dall’Islam, bloccarne l’accesso non è una questione religiosa, ma nazionale. Il governo ci lavorerà, ma ci vuole tempo”. Il tempo trascorso è già troppo, secondo i membri dello Special Procedures, il più significativo gruppo di esperti del Consiglio per i Diritti umani Onu. In un comunicato scrivono che “le autorità di fatto Talebane non hanno alcuna giustificazione per negare il diritto all’educazione, né in termini religiosi, né tradizionali”. Da qui l’appello a “riaprire immediatamente tutte le scuole superiori e gli istituti educativi per le ragazze e le giovani donne”. Per Catherine Russell, direttrice esecutiva dell’Unicef, “questa decisione ingiustificata e miope ha stroncato le speranze e i sogni di oltre un milione di ragazze e rappresenta un’altra triste pietra miliare nella costante erosione dei diritti delle ragazze e delle donne a livello nazionale”. Dall’Italia Daniela Fatarella, direttrice generale di Save the Children Italia, chiede che “il divieto di accesso all’istruzione per le ragazze venga revocato immediatamente, per il loro futuro e quello di tutto il Paese”.