Cospito, il Comitato di bioetica: “La Dat può essere disattesa per salvargli la vita” di Valentina Stella Il Dubbio, 21 marzo 2023 Il Cnb pubblica i pareri relativi ai quesiti formulati dal guardasigilli. Secondo il gruppo di maggioranza, in questo caso la volontà espressa dal detenuto è utilizzata come “strumento di pressione”. Ma il Comitato si spacca: per D’Avack “il ricorso all’alimentazione forzata è contrario ai principi bioetici e fondamentali”. In diciannove pagine, elencando tre distinte posizioni, il Comitato Nazionale di Bioetica chiude la vicenda di Alfredo Cospito, l’anarchico che dallo scorso 20 ottobre sta portando avanti uno sciopero della fame per protestare contro il 41 bis. E lo fa appunto dando maggiori informazioni, rispetto al comunicato dello scorso 6 marzo. Il parere di maggioranza, che comprende anche la firma del Presidente del Cnb Angelo Luigi Vescovi, da un lato sostiene che “è fuor di dubbio che il detenuto conserva la capacità di autodeterminarsi e di compiere gli atti di stretta rilevanza personale e, quindi, può non solo esprimere assenso o dissenso ai trattamenti diagnostici o sanitari che lo riguardano, ma può anche efficacemente redigere le Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT), ai sensi dell’art.4 della Legge n. 219/2017”, dall’altro lato tuttavia “deve invece ritenersi estraneo al contesto sanitario cui si riferisce quest’ultima disciplina, il caso - contemplato nel quesito ministeriale n. 1 - in cui il rifiuto di trattamenti e di terapie, contenuto nelle Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT), sia subordinato al mancato conseguimento di finalità estranee alla situazione clinica personale, come l’ottenimento di un bene materiale o immateriale. In queste situazioni le cure si rifiuterebbero allo scopo di esercitare una pressione su autorità chiamate ad una valutazione sulla base di altri schemi legali; le DAT diverrebbero così, da strumento per l’esercizio della libertà di cura, strumento di pressione. In particolare, rifiuto e rinuncia di trattamenti sanitari, così come delineati dalla Legge n. 219/2017, anche in forma di DAT, hanno una ratio radicalmente differente rispetto a quella che si pone per una persona che li rifiuta nel corso di uno sciopero della fame. Le due situazioni non sono sovrapponibili: nel primo caso il contesto è quello del rifiuto o rinuncia di un trattamento sanitario ritenuto inaccettabile; nel secondo caso, invece, rifiuto e rinuncia, in quanto forma di protesta e/o testimonianza, non sono ritenute dallo scioperante in sé stesse inaccettabili, tanto che sarebbero oggetto di revoca se chi sciopera ottenesse quanto richiesto”. In pratica, sembra che sia stato lo stesso Ministero della Giustizia ad indicare la strada - preferibile per Via Arenula - al Cnb. Infatti il primo quesito, posto su richiesta di Nordio, si poneva la seguente domanda: “il paziente che rifiuta i (o rinuncia ai) trattamenti sanitari in subordine all’ottenimento di beni diversi (materiali o immateriali) dalla libertà di cura, al fine di modificare una situazione personale, avrebbe espresso la medesima rinuncia in presenza del bene desiderato?”. Nel solco di un bilanciamento tra valori in gioco - libertà di autodeterminazione e tutela della vita - si legge nel primo parere: l’art. 53 del codice deontologico medico (Rifiuto consapevole di alimentarsi), prevede che “il medico informa la persona capace sulle conseguenze che un rifiuto protratto di alimentarsi comporta sulla sua salute, ne documenta la volontà e continua l’assistenza, non assumendo iniziative costrittive né collaborando a procedure coattive di alimentazione o nutrizione artificiale. Tale articolo esclude che il medico assuma iniziative costrittive o collabori a pratiche coattive di alimentazione o nutrizione artificiale, “ma non esclude che possa mettere in opera comportamenti allo scopo di salvare la vita. Ciò risulta in perfetta consonanza con quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 50/2022, secondo cui “Quando viene in rilievo il bene della vita umana…, la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima”“. Il secondo parere - sostenuto anche dal delegato del Presidente dell’Ordine dei medici, Guido Giustetto, e dal delegato del Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Mauro Biffoni - parte da tale presupposto: “Riteniamo un punto cruciale affermare con chiarezza un presupposto che non emerge nelle riflessioni condivise del nostro ragionamento: la tematica dello sciopero della fame della persona detenuta non può essere equiparata a quella del suicidio in carcere”. Secondo il gruppo di minoranza, di cui fa parte anche l’ex presidente del Cnb Lorenzo D’Avack, “sul diritto della persona (informata, libera e ferma nella sua convinzione, consapevole delle conseguenze) a decidere se e quali cure accettare trovandosi in imminente pericolo di vita non incidono né la sede dove ciò avviene (ad esempio, un ospedale con un reparto per detenuti) né il motivo iniziale che ha portato al pericolo di vita (ad esempio, lo sciopero della fame). Quanto alla libertà della scelta della persona in ambito sanitario, va ribadito che tale libertà esula dalle motivazioni che hanno portato il soggetto a tale scelta”. Insomma: non importa, ai fini del rispetto delle proprie Dat, che Cospito o qualsiasi altro detenuto stiano facendo uno sciopero della fame in carcere per ottenere un trattamento penitenziario migliore. Le sue volontà vanno rispettate: punto e basta. Quindi “non vi sono motivi giuridicamente e bioeticamente fondati che consentano la non applicazione della legge n. 219 del 2017 (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”) nei confronti della persona detenuta e, per le ragioni che si sono esposte, ciò vale anche se questa ha intrapreso uno sciopero della fame”. Tra le varie motivazioni addotte c’è la seguente: “Il contrasto con la dignità (artt. 2 e 32 Cost.) di un trattamento sanitario contrario alla volontà della persona interessata, oltre che una totale lesione della sua autodeterminazione, rende il ricorso all’alimentazione forzata contrario ai principi bioetici e fondamentali su cui risulta costruito l’ordinamento italiano. Pertanto, risulta impossibile articolare un dovere di intervenire tanto in capo alle autorità penitenziarie quanto ai medici chiamati a nutrire artificialmente. Del resto, in altre tipologie di casistiche concernenti il rifiuto di trattamenti salvavita, ossia quelle afferenti alle vicende che vedono come protagonisti i Testimoni di Geova (maggiorenni) che in virtù del loro credo religioso rifiutano emotrasfusioni, la Suprema Corte, anche di recente (Cass. civ., Sez. III, 29469/2020) ha espressamente ribadito che il principio di autodeterminazione nell’ambito dei trattamenti sanitari, anche nell’ipotesi negativa del dissenso e a fronte di un reale pericolo di vita, si traduca in un diritto intangibile del paziente e comporti, quindi, un dovere di astensione del medico”. Il terzo parere sottoscritto da Stefano Semplici e Lucetta Scaraffia da una parte sostiene che “diventa difficile evitare la conclusione fissata nel testo del Department of Health inglese pubblicato nel 2002 e intitolato Seeking Consent: Working with People in Prison: l’amministrazione carceraria non ha il potere di imporre l’alimentazione forzata ai detenuti che rifiutano il cibo e questi ultimi possono sottoscrivere una direttiva anticipata per garantire il rispetto della loro volontà anche nel momento in cui non fossero più in grado di ribadirla”; dall’altra parte ricorda che l’art. 1 della legge 219/2017 prevede: “Nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, salvo che nei casi espressamente previsti dalla legge”. In un bilanciamento difficile da compiere e nella ambiguità della norma, i due componenti concludono: “Con un intervento del legislatore si porrebbero, in ogni caso, anche le premesse per arrivare a un giudizio di legittimità da parte della Corte costituzionale, che risolverebbe definitivamente divergenze interpretative che appaiono insormontabili. A salvaguardia, in primo luogo, dei medici e di tutti coloro che sono chiamati a prendere decisioni tanto difficili in questo tipo di circostanze”. Stretta sull’uso illecito dei cellulari in cella, Fdi presenta disegno di legge agi.it, 21 marzo 2023 Il ddl, depositato a palazzo Madama a prima firma del senatore Menia, prevede pene più severe a coloro che forniscono a chi è in carcere qualsiasi tipo di dispositivo elettronico “in grado di consentire la connessione sulle reti internet e di poter effettuare operazioni finanche bancarie”. Una stretta sull’utilizzo dei telefoni cellulari in maniera illecita da parte dei detenuti ma anche pene più severe a coloro che forniscono a chi è in carcere qualsiasi tipo di dispositivo elettronico “in grado di consentire la connessione sulle reti internet e di poter effettuare operazioni finanche bancarie”: è quanto prevede un disegno di legge di Fdi depositato a palazzo Madama a prima firma del senatore Menia. “Bisogna con ogni urgenza intervenire legislativamente nel sistema penitenziario italiano, al fine di contrastare e sanzionare più efficacemente l’uso illecito di telefoni cellulari”, si legge nella premessa del testo che richiama “le vibrate richieste d’intervento legislativo che provengono dal mondo degli operatori penitenziari, in particolare, dagli appartenenti al Corpo della polizia penitenziaria”. Anche se si riesce “a individuare e sequestrare i dispositivi cellulari telefonici illecitamente tenuti dalle persone detenute” non si può - questa l’analisi - “di fatto contare su una rigorosa risposta sanzionatoria, sia penale che disciplinare, adeguata al possibile vulnus che viene perpetrato nei confronti della credibilità del sistema penitenziario e giudiziario, non essendovi, a oggi, alcuna esplicita previsione in tal senso e risultando il tutto lasciato, in verità, alla creatività di quanti eventualmente giudicheranno sia sul piano giudiziario che amministrativo”. Mancano “esplicite e tassative disposizioni in materia”, la denuncia, non c’è “una previsione di sanzioni penali e disciplinari”. E ancora: “Le continue notizie, inoltre, che provengono dalla stampa, soprattutto quella locale, in merito a tali illeciti, inducono l’opinione pubblica a ritenere, non senza ragione, che attraverso i cellulari, i tablet et similia, i detenuti di fatto continuino a curare non solo i meri rapporti familiari, ma soprattutto, prima di tutto, i loro loschi affari, mantenendo le fila del controllo di gruppi criminali e di traffici”. Il ddl di Fdi ricorda “il contenuto dell’articolo 650 del codice penale il quale, avendo natura contravvenzionale, appare obiettivamente inefficace”. Da qui l’urgenza di un intervento “anche al fine di evitare un ulteriore rischio”, ovvero che “pubblici ufficiali o addetti a servizi pubblici, o comunque persone autorizzate ad accedere all’interno degli istituti penitenziari, semmai perché minacciati, oppure per trarne profitto, si prestino a introdurre illecitamente dispositivi telefonici o altri strumenti od oggetti che consentano ai detenuti di poter comunicare con l’esterno”. I numeri parlano di un fenomeno in crescita: nei primi 9 mesi del 2020 sono stati 1761 gli apparecchi rinvenuti nelle carceri italiane, requisiti all’interno o bloccati prima del loro ingresso. Nello stesso periodo del 2019 erano stati 1206 mentre nel 2018 se ne erano registrati 394. I detenuti a norma di legge hanno la possibilità di fare una telefonata a settimana, della durata massima di dieci minuti; due al mese se si è al 41 bis. Al momento le norme prevedono una pena da 1 a 4 anni per chi introduce o detiene telefoni cellulari o dispositivi mobili di comunicazione all’interno di un istituto penitenziario. “Si applica - è stabilito dal Codice Penale, all’art. 391 ter - la pena della reclusione da due a cinque anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale, da un incaricato di pubblico servizio ovvero da un soggetto che esercita la professione forense. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, la pena prevista dal primo comma si applica anche al detenuto che indebitamente riceve o utilizza un apparecchio telefonico o altro dispositivo idoneo a effettuare comunicazioni”. Con l’art.391 bis è già stabilito che chiunque consente a un detenuto, “sottoposto alle restrizioni” conseguenti all’articolo 41 bis “di comunicare con altri in elusione delle prescrizioni all’uopo imposte è punito con la reclusione da due a sei anni”. E che se il fatto “è commesso da un pubblico ufficiale, da un incaricato di pubblico servizio ovvero da un soggetto che esercita la professione forense si applica la pena della reclusione da tre a sette anni”, la pena prevista “si applica anche al detenuto sottoposto” alle suddette restrizioni. Il ddl a prima firma Menia inserisce un ‘Art.391-quater’: “Fuori dei casi previsti dagli articoli 391-bis e 391-ter, la detenzione indebita all’interno del carcere da parte del detenuto di apparecchi telefonici o altri dispositivi idonei a effettuare comunicazioni è punita con la pena di mesi sei di reclusione”. In caso di accertato effettivo utilizzo dell’apparecchiatura da parte del detenuto “si applica - si legge nel ddl - il terzo comma dell’articolo 391-ter”, nel caso “in cui si accerti che attraverso l’utilizzo illecito dell’apparecchiatura la persona detenuta abbia mantenuto rapporti con appartenenti a organizzazioni criminali, anche se tra questi vi siano familiari e conviventi, la pena è aumentata. “Le pene di cui ai commi precedenti possono, in ogni caso, essere - si aggiunge - ulteriormente aumentate nel caso in cui si accerti che attraverso l’utilizzo dell’apparecchiatura la persona detenuta non ancora condannata abbia cercato di influire sull’andamento del processo, tentato di inquinare le prove o comunicato con persone complici al fine di sottrarre all’acquisizione da parte dello Stato beni personali leciti o beni proventi del reato, o minacciato testimoni o comunque concretamente progettato o posto in essere un tentativo di evasione suo o di altri ristretti”. Inoltre “al pubblico ufficiale e all’incaricato di pubblico servizio di cui al presente comma che operino in ambito penitenziario si applica la pena accessoria della destituzione d’ufficio per infedeltà verso l’amministrazione penitenziaria e comunque, in caso di sospensione della pena e fino a che non siano effettivamente destituiti, la sospensione dal servizio con relativa riduzione stipendiale”. Il disegno di legge si compone di soli tre articoli. “La logica di questo provvedimento - dice Menia - è chiara. Servono misure certe”. “Chi porta un telefonino in carcere - afferma Enrico Sbriglia, presidente dell’osservatorio internazionale della legalità di Trieste ed ex provveditore regionale delle carceri del Triveneto - causa un problema enorme, provoca ulteriori comportamenti dolosi. Con questa legge si puniscono coloro che tradiscono la loro funzione istituzionale e si macchiano del reato di introdurre un telefonino in carcere. E allo stesso tempo si tutela chi fa sempre il proprio dovere”. Giustizia minorile senza risorse di Nuccio Ordine Corriere della Sera, 21 marzo 2023 Invece di tagliare i fondi al Dipartimento di giustizia minorile non sarebbe meglio investire di più per offrire una possibilità di “recupero” a tanti giovani? “E parole indecenti sono anche prigione e prigioniero. Essi sono […] la piaga che puzza, i pidocchi che camminano sul corpo sociale. Chi avrebbe la virtù di parlarne? […]”: i recenti tagli in finanziaria per il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria mi fanno pensare alla denuncia della drammatica condizione dei detenuti apparsa nel 1864 su un glorioso giornale calabrese, “il Bruzio”. “Le prigioni di Cosenza - si legge nell’inchiesta - bastano appena a 500 prigionieri, e nondimeno al momento ne contengono 897. Manca a quegl’infelici l’aria da respirare, il luogo da muoversi, sono legati a mazzi come i dannati dell’inferno, gli uni agli altri sovrimposti come fasci di fieno”. Queste parole di Vincenzo Padula - prete e letterato di Acri, apprezzato da Francesco De Sanctis e Benedetto Croce, e rilanciato all’attenzione della critica negli anni Cinquanta da Carlo Muscetta - sembrano scritte oggi, ma risalgono a più di un secolo e mezzo fa. E la realtà diventa ancora più drammatica quando la scure dei “risparmi” cade sul Dipartimento di giustizia minorile. Già in dicembre, la rocambolesca fuga di sette ragazzi detenuti nell’Istituto Cesare Beccaria di Milano aveva acceso i riflettori sui limiti di una struttura ritenuta “modello”: per l’associazione Antigone, infatti, questo carcere minorile presenta una serie di problemi (sovraffollamento, celle inadeguate, carenza di guardie e di educatori, riduzione delle attività formative) comuni a tanti altri istituti. Con buona pace dell’autore del famoso Dei delitti e delle pene, come si possono “rieducare” dei minori in un contesto così degradato e afflitto dalla piaga dei suicidi? Non sarebbe meglio investire più risorse per offrire una possibilità di “recupero” a tanti giovani? La devianza e la criminalità, si sa, sono figlie anche delle disuguaglianze e della marginalità sociale. L’allarme del Cnf: la riforma Cartabia ha compresso il diritto di difesa di Giulia Merlo Il Domani, 21 marzo 2023 All’apertura dell’anno giudiziario del Consiglio nazionale forense, la presidente Maria Masi ha detto che “le risorse e le strutture sono inadeguate” e nei processi civili e penali “l’esercizio dell’attività di difesa rischia di diventare ancora più marginale”. “A poche settimane dall’entrata in vigore di gran parte delle norme che regolano il nuovo processo civile, oltre ad essere evidenti i denunciati difetti di coordinamento tra le fonti, è emersa in maniera chiara l’attuale inadeguatezza di strutture e di risorse”, ha detto la presidente, aggiungendo che “La stessa inadeguatezza ancora impedisce l’attuazione delle norme che invece regolano il nuovo processo penale. Nel processo civile l’esercizio dell’attività di difesa rischia di essere e di diventare ancora più marginale, esposta irragionevolmente ad essere giudicata temeraria”. La critica è rivolta soprattutto al legislatore: “In nome di una sovranità, certamente legittima ma eccessivamente astratta, autorevole ma a tratti apparsa autoritaria sono stati imposti limiti, tempi e obiettivi, utilizzando, fin troppo lo strumento certamente poco incline alla concertazione della decretazione d’urgenza che di fatto ha ridimensionato, o peggio contratto, sia la discussione sia una serena valutazione delle conseguenze e soprattutto dei rischi a cui è stata esposta la Giustizia nel suo insieme”. L’errore di fondo, secondo Masi, è stato “il tema ideologico sotteso alle riforme” e che il Cnf ha “rappresentato e denunciato in tutte le occasioni utili”. L’accordo con la magistratura - La critica dell’avvocatura rispetto all’entrata in vigore anticipata della riforma civile non è nuova e il Cnf l’ha immediatamente sollevata al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che ha scelto di inserirla nel Milleproroghe. Su questo, il sentire dell’avvocatura si è allineato a quello della magistratura associata e del Csm, che avevano a loro volta fatto presente la difficoltà strutturale di una anticipazione. Nella sua relazione, infatti, Masi ha ricordato come sia mancata una vera concertazione tra governo e avvocatura e magistratura e che “sia l’avvocatura che la magistratura presente ai tavoli hanno subito il disagio di doversi esprimere su progetti sensibilmente diversi da quelli licenziati dalle commissioni a cui seppur in minima parte avevano dato il loro contributo”. Masi ha aggiunto anche che, con un occhio rivolto solo alla statistica e alla necessità di ridurre i tempi dei processi - obiettivo primario della riforma Cartabia - si minano “sicuramente i diritti dei cittadini”, si “ridimensiona e sacrifica la funzione dell’avvocato”, e si “rischia anche di trasformare il magistrato in burocrate”. I dati dell’avvocatura - Nella relazione, sono stati forniti anche i dati aggiornati sulla professione. Su 244.637 avvocati totali, ci sono 116.342 donne e 128.295 uomini, rispettivamente il 47,56 per cento e il 55,44 per cento degli iscritti. Il maggior numero di avvocati esercita al Sud, seguito dal Nord est, dal Centro e infine dal Nord ovest. In tutte le aree geografiche, inoltre, gli avvocati under 50 sono più numerosi degli over 50, rappresentando oltre la metà degli iscritti. Infine, i praticanti iscritti nell’apposito registro sono oggi 56.057, di cui le donne rappresentano oltre il 60 per cento, con un calo rispetto a marzo 2022 di 3 punti percentuali. La mano tesa di Cassano - “L’avvocato è co-protagonista della giurisdizione, spetta a lui promuovere l’equilibrio tecnico dell’esercizio del potere giudiziario, l’osservanza delle garanzie del processo, il rispetto della regola del ragionevole dubbio nella ricerca della verità”, ha detto la prima presidente della Corte di Cassazione, Margherita Cassano, perché “L’avvocato, al pari del giudice, è inoltre il garante dell’attuazione dei valori fondamentali enunciati dalla Costituzione, a partire dalla promozione e dalla tutela effettiva della dignità e della libertà della persona”. Cassano ha poi citato Piero Calamandrei, ricordando che lui scriveva che “in realtà l’avvocatura risponde a un interesse essenzialmente pubblico, altrettanto importante quanto quello cui risponde la magistratura. Giudici e avvocati sono ugualmente organi della giustizia, sono servitori ugualmente fedeli dello Stato che affida loro due momenti inseparabili della stessa funzione. Qualsiasi perfezionamento delle leggi processuali rimarrebbe lettera morta laddove tra i giudici e gli avvocati non fosse sentita come legge fondamentale della fisiologia giudiziaria la inesorabile complementarietà ritmica, come il doppio battito del cuore, delle loro funzioni”. La risposta di Sisto - Il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, ha replicato indirettamente alle considerazioni di Masi, difendendo la posizione del governo. “Il tema delle riforme trattato dal Cnf con un po’ di severità è un tema che ci è imposto dal Pnrr. Questo va detto con molta chiarezza: le riforme nascono in stato di necessità economica e questo costituisce comunque almeno una attenuante dal punto di vista della loro realizzazione”. Tuttavia, “Un work in progress costante attraverso i decreti correttivi consente la possibilità di intervenire su queste riforme. Questo tranquillizza tutti e dà l’idea della umiltà, del riconoscimento, laddove vi fosse la necessità di intervenire per correggere qualche passaggio che strada facendo meritasse questi interventi”. Sisto ha poi teso un invito alla collaborazione per raggiungere gli obiettivi comuni, ovvero “un processo giusto e rapido” con “il riconoscimento reciproco tra tutti gli attori”. Del resto, ha concluso, “Le istituzioni hanno un senso solo se tracciano insieme un percorso, che è difficile, complicato ma che si chiama democrazia”. Sisto: “Basta scontri, le istituzioni hanno il dovere di tracciare insieme un percorso” di Simona Musco Il Dubbio, 21 marzo 2023 Il viceministro: riforme del processo inevitabili, ora spazio ai decreti correttivi. “Lo Stato, per bocca dei padri costituenti, è uno Stato che difende”. Un dovere che è impresso nel Dna della Costituzione e che è il leitmotiv delle istituzioni, in primis l’avvocatura. E se tutti gli attori della giurisdizione collaboreranno, allora sarà possibile ricostruire quel rapporto di fiducia con il cittadino lacerato da troppi scandali. A dirlo è stato il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, che si è assunto il compito, a nome del governo, di garantire l’ascolto delle istanze dell’avvocatura. “Il discorso della presidente Masi ci impone innanzitutto un obbligo: l’ascolto - ha sottolineato -. Un governo che ascolti le istanze che arrivano da una delle pietre angolari del sistema giuridico nazionale. La presidente Masi apre una finestra di verità quando sottolinea la difficoltà del rapporto di fiducia fra sistema giustizia e cittadini, un rapporto che va ricostruito con l’attenzione e la cura che si deve al diritto, che si deve alla centralità sociale e giuridica dell’individuo, senza il quale la società non può esistere”. Magistratura, politica e avvocati devono dunque confrontarsi, sulla base delle funzioni che a ciascuna componente sono attribuite dalla Costituzione, con l’obiettivo “di tutelare l’unico destinatario dei nostri sforzi: il cittadino”. Il dialogo riguarda soprattutto il tema delle riforme, “trattato dalla presidente Masi qualche volta con un po’ di severità”, ha sottolineando rispondendo alle critiche. Riforme imposte dal Pnrr e, dunque, nate “in stato di necessità economica”, un’attenuante “dal punto di vista della loro realizzazione”. Ma attraverso lo stato di necessità, “si sono perseguiti gli obiettivi di restituire dignità costituzionale ad alcuni passaggi normativi del processo”, ha evidenziato. Si tratta di un “work in progress costante”, dunque le riforme sono passibili di miglioramenti, con un obiettivo finale: “Il 111, un processo giusto e rapido, perché come diceva Satta un diritto ritardato è un diritto negato. E con un giudice terzo ed imparziale”. Per Sisto, “siamo consapevoli di essere tutti parte di un unicum, le istituzioni hanno un senso se tracciano insieme un percorso, difficile, complicato, che si chiama democrazia. Dobbiamo, tutti, avere la reciproca forza di scrivere pagine condivise evitando che la giustizia diventi terreno di scontro - ha aggiunto -. Credo che il cittadino ne abbia abbastanza di assistere a queste inutili lotte intestine che hanno fatto solo male al Paese. Cerchiamo tutti insieme di raggiungere i nostri obiettivi”. Un invito alla collaborazione e al confronto, dunque, per risolvere le “difficoltà nel rapporto fiducia dei cittadini nei confronti della giustizia. Un rapporto che va costruito con l’attenzione che si deve al diritto e alla centralità giuridica del cittadino”. Giornata delle vittime di mafia, Mattarella a Casal di Principe sulle orme di don Diana di Lirio Abbate La Repubblica, 21 marzo 2023 Un segnale diretto ad una popolazione alla quale 29 anni fa è stato ucciso il parroco della loro comunità, impegnato con la chiesa e la sua fede a togliere i ragazzi dalla strada e allontanarli dalla criminalità organizzata. Nel cuore della terra dei fuochi, in quella che è stata la roccaforte della camorra che ha ucciso a Casal di Principe, don Peppe Diana, arriva il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Mai prima di adesso un Capo dello Stato si era spinto fin dentro la provincia di Caserta. È un viaggio carico di grande significato quello che compie oggi Mattarella, perché non è solo un fatto fisico, di presenza istituzionale, ma è soprattutto di sostanza. Un segnale diretto ad una popolazione alla quale ventinove anni fa è stato ucciso il parroco della loro comunità, don Diana, impegnato con la chiesa e la sua fede a togliere i ragazzi dalla strada e allontanarli dalla criminalità organizzata. I sicari del clan dei casalesi lo hanno ucciso nella sacrestia il 19 marzo 1994. Oggi, nella giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, il Capo dello Stato rende omaggio alla memoria di questo sacerdote e lo farà incontrando i fratelli di don Diana, Emilio e Marisa, e la nipote, Iole, che è tra i fondatori del gruppo scout Casal di Principe I, creato qualche mese fa sulle orme di don Peppe, anche lui scout, e che ha appena celebrato la promessa dei capi. “Pur essendo nata nel 1995, zio Peppe ha segnato profondamente con il suo coraggio la vita mia, della mia famiglia e di Casal di Principe, e credo e spero anche un po’ dell’intera Italia, visto il riconoscimento più alto al sacrificio da lui sopportato con l’arrivo del presidente Mattarella”, dice Iole. Con loro è prevista pure la presenza di Augusto Di Meo, testimone oculare del delitto. La visita del presidente proseguirà con gli studenti di due scuole e accanto a loro i parenti di cinque vittime innocenti della camorra: Domenico Noviello, Federico Del Prete e Salvatore Nuvoletta, e quelli di Antonio Petito e Antonio Di Bona. In nome di tutte le vittime di mafia - Nel primo giorno di primavera i luoghi martoriati dalla camorra al Sud si collegano con il Nord, a Milano, dove migliaia di persone sfilano per le strade della città, raccolte dall’associazione Libera di don Luigi Ciotti che da ventotto anni fa vivere questa giornata attorno ai familiari delle vittime innocenti delle mafie. Persone che hanno subito una grande lacerazione “che noi tutti possiamo contribuire a ricucire” come sostiene Libera, “costruendo insieme una memoria comune a partire dalle storie di quelle vittime”. E in piazza a Milano saranno letti i nomi delle persone barbaramente assassinate dalle mafie. Un lunghissimo elenco. Verranno scanditi con cura, perché è un modo, come ha più volte ripetuto don Ciotti “per far rivivere quegli uomini e quelle donne, bambini e bambine, per non far morire le idee testimoniate, l’esempio di chi ha combattuto le mafie a viso aperto e non ha ceduto alle minacce e ai ricatti che gli imponevano di derogare dal proprio dovere professionale e civile, ma anche le vite di chi, suo malgrado, si è ritrovato nella traiettoria di una pallottola o vittima di potenti esplosivi diretti ad altri. Storie pulsanti di vita, di passioni, di sacrifici, di amore per il bene comune e di affermazione di diritti e di libertà negate”. Punto di arrivo e ripartenza - Una giornata che per la rete di Libera costituisce un punto di arrivo e di ripartenza, in cui dare spazio anche alla denuncia della presenza delle organizzazioni criminali e delle connivenze con politica, economia e massoneria deviate. E questa azione è volta pure a cercare dove si annidino mafie e corruzione, anche quando si celano dietro volti apparentemente innocui. “Siamo a Milano per sottolineare quanto mafie e corruzione possano costituire due facce della stessa medaglia, fenomeni criminali volti a depauperare i territori ed arricchire cricche di potere”, scrive Libera. “In questa fase storica assistiamo a un processo di inabissamento delle mafie, che rispetto al secolo scorso hanno scelto una strategia silenziosa, perché ritenuta più proficua”, sostiene l’associazione di don Ciotti. E questo modo di fare ha portato all’inabissamento, al silenzio, a rafforzare l’area grigia: fattori che inducono a percepire i fenomeni criminali come ineludibili, come parte del contesto. E il rischio è l’abbassamento del livello dell’etica pubblica, lo sgretolamento dell’argine che ci consente di difendere il bene comune contro ogni sopruso. Quest’anno ricorrono i trent’anni dalle stragi volute da Cosa nostra a Roma, Firenze e Milano. Qui, in via Palestro, nella notte tra il 27 e 28 luglio 1993 una bomba provocò la morte di un vigile urbano, Alessandro Ferrari, di tre vigili del fuoco, Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, e un migrante, Moussafir Driss. Su questa stagione stragista non si è ancora affermata una verità storica. Anche per questo la giornata di oggi si svolge a Milano, “per ribadire la vicinanza ai familiari delle vittime innocenti in cerca di giustizia”. Le vittime di mafia sono sempre innocenti. Sbagliato dividere di Alberto Cisterna Il Riformista, 21 marzo 2023 Il dibattito asfittico, spesso retorico, tra giustizialismo e garantismo, che ci impedisce di concentrarci sui nuovi santuari del malaffare, dovrebbe partire dal rendere il giusto tributo a tutte le persone uccise. Si celebra oggi la “Giornata nazionale della memoria e dell’impegno per le vittime innocenti delle mafie”. Nel suo nocciolo duro è il ricordo della lunga teoria di 1.069 morti che “Libera” aggiorna da 28 anni; l’occasione per rievocare collettivamente la tragica fine di tanti uomini, donne, bambini (i minori sono 115), caduti per mano di altri uomini, donne e talvolta per mano di altri coetanei neppure maggiorenni. Quell’endiadi “vittime innocenti” segna a tutta evidenza un discrimine, traccia un solco, segna un confine su cui, oggi, bisognerebbe pur sempre riflettere e meditare secondo con uno sguardo meno superficiale e enfatico. Ma perché esistono vittime colpevoli? Sono per caso colpevoli le migliaia di vite sterminate nelle faide, negli agguati, nelle imboscate di mafia? La domanda non vuole essere provocatoria, ma cerca affannosamente un chiarimento se è vero, com’è vero, che a Castelvetrano, patria del boss Messina Denaro, qualcuno solo pochi giorni or sono ha avuto da obiettare sull’intestazione della scuola al piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito a Palermo il 23 novembre del 1993, per indurre suo padre, Santino, ex mafioso a sua volta e collaboratore di giustizia, a fare marcia indietro. Una “vittima” anomala, deve aver pensato qualcuno, essendo quel bambino il figlio di un importante esponente di cosa nostra. È il pretesto, quel dibattito, per tornare su quello spartiacque, su quella divisione che la Giornata di oggi espressamente traccia e declina tra vittime e vittime, tra corpi e corpi, tra sangue e sangue. Distinguere i morti, discernere le responsabilità. Nel corso di una sanguinosa guerra di mafia, un uomo, il cognato di un boss latitante, accompagnava a scuola la nipotina di pochi anni. Era la figlia di sua sorella e lo zio, in mancanza di altri, si incaricava tutte le mattine di passare a prenderla in auto e di lasciarla davanti alla porta dell’istituto che frequentava. Era stato un militare, era un po’ fanatico, aveva una piccola palestra. Venne freddato a colpi di pistola non appena la bambina ebbe varcato l’ingresso della scuola. Lui è stato censito tra le vittime “colpevoli”, la sua parentela lo ha inchiodato a una irredimibile damnatio memoriae. Non può superare il recinto di quell’ideale giardino dei giusti e non è degno di commemorazione oggi, né di un fugace ricordo. Eppure, è solo uno, uno tra i tanti e tanti casi di uomini, donne, ragazzi trucidati per una parentela, per una frequentazione, per una lontana amicizia. Le mafie non hanno tribunali, né sono (come qualcuno si ostina a dire) una onnisciente Spectre. Uccidono per un sospetto, per uno sguardo sbagliato, per il gusto di terrorizzare l’avversario e di piegarlo, per la paura di una vendetta. Chi cade sotto i loro colpi non per questo non è innocente, non per questo merita di essere contabilizzato tra i “colpevoli”, tra quelli - per essere chiari e duri - in fondo in fondo se la sono cercata e che ora brucino nella Geenna degli impuri. Molti di coloro che scontano pene rigorose, che vivono negli anfratti carcerari del 41-bis hanno visto cadere parenti, amici, familiari sotto il piombo delle mafie e sanno bene che nulla di male quelli avevano commesso; sanno bene che nelle faide il sangue chiama il sangue; che tante sono state le vittime collaterali di guerre d’odio che, troppe volte, lo Stato non ha saputo evitare e reprimere lasciando che si consumassero mattanze feroci. Uno Stato che stilava bollettini di guerra in cui, per sopire la propria impotenza, si compiva l’ulteriore scempio di incasellare quel corpo martoriato nell’una o nell’altra delle fazioni in lotta, quasi che quella macabra contabilità rendesse meno bruciante il fallimento degli inquirenti. Per fortuna il cupo clangore delle armi mafiose si è diradato, le cosche hanno riposto quasi ovunque i kalashnikov e preferiscono banchettare nei salotti della corruzione sistemica. Il paese ha un disperato bisogno di verità anche sugli anni della lotta alla mafia; ha necessità di comprendere se, prima o poi, tra le vittime innocenti delle mafie siano da contabilizzare anche tutti coloro che hanno subito ingiusti processi, ingiuste persecuzioni mediatiche, ingiuste condanne in nome della lotta ai clan. Ha bisogno il paese di sapere se questa umanità dolente di accusati, di linciati, di archiviati, di assolti sia da mettere o meno in conto allo stato d’eccezione che le mafie hanno imposto dopo il 1992 e se, tutte quelle vite spezzate, siano il prezzo di una decennale, complessiva inefficienza e, talvolta, connivenza dello Stato con le cosche. Quando il velo sulle mafie è stato squarciato alla falce delle armi mafiose e delle sue bombe, tante volte ha fatto da contraltare (con punti di analoga asprezza e durezza) la scure repressiva delle istituzioni che quella sfida esiziale dovevano vincere a qualunque costo nell’interesse di tutti. Oggi - non a caso c’è da pensare se si pensa alla concomitante Giornata della memoria - esce nelle librerie il libro che Gaia Tortora (Testa alta, e avanti, Mondadori) ha dedicato al martirio del padre; intanto, non senza polemiche, prosegue il dibattito, a tratti infuocato, sul libro in cui Alessandro Barbano (L’inganno, Marsilio, 2022) ha compendiato alcune delle storie della malagiustizia antimafia. Si sa bene da quale parte stia la verità, chi abbia torto e chi abbia ragione, ma il sezionamento morale delle vittime è operazione da condurre con grande prudenza. La violenza mafiosa ha travolto centinaia di vite innocenti, ma ha anche il torto di aver innescato reazioni dello Stato che non sono rimaste prive di gravi conseguenze per la vita di molte, ma molte, persone. Ecco il dibattito asfittico e troppe volte retorico tra giustizialismo e garantismo che affligge il paese e gli impedisce di concentrarsi sui nuovi santuari del malaffare, dovrebbe procedere proprio dal rendere il giusto tributo a tutte le vittime, senza discriminazioni e riserve. Papa Francesco ha pronunciato parole memorabili nella parrocchia di Santa Maria delle Grazie al Trionfale; rivolgendosi ai confessori ha detto loro “per favore perdonate tutto, perdonate sempre, per favore: il sacramento della confessione non è per torturare ma per dare pace; perdonate tutto, tutto, tutto, come Dio perdonerà voi”, ha ripetuto. Una pacificazione con i mafiosi è improponibile, stolta e irraggiungibile, ma di fronte a chi ha perso la vita la livella della morte dovrebbe operare da saggio monito. “Così aiuta la mafia”. Tutti contro la prof che critica i maxiprocessi di Valentina Stella Il Dubbio, 21 marzo 2023 In Italia è ancora possibile criticare le norme antimafia senza creare scandalo? La domanda sorge spontanea dopo aver letto un articolo di Repubblica dal titolo: “Palermo, l’accusa di una professoressa di Giurisprudenza: ‘Il maxiprocesso fu un obbrobrio’. E in facoltà è scontro con Di Matteo”. Il pretesto è offerto da un convegno organizzato la scorsa settimana dall’associazione studentesca ‘ContrariaMente’ nella facoltà di giurisprudenza del capoluogo. A confrontarsi sul tema “Tra riforme e lotta alla mafia: cosa è cambiato dal 1992 all’arresto di Messina Denaro’ ci sono Nino Di Matteo e la docente di procedura penale Daniela Chinnici. “Rischio di essere impopolare” esordisce la professoressa ma “parlerò senza le suggestioni o emozioni di un cittadino siciliano o calabrese”. Il punto centrale che mette in evidenza Chinnici è che “dopo le stragi del 1992 assistiamo ad una svolta inquisitoria del processo, più del precedente rispetto alla riforma del 1989”. Ricordando il pensiero di Paolo Ferrua, Franco Cordero, Glauco Giostra la docente ha sostenuto che per i reati di mafia “è consentito un doppio binario ma solo nelle indagini non durante il processo penale”. Cordero - ha ricordato la prof - “disse che il processo penale non c’era più perché bisognava rispondere alle esigenze della nazione” e ha riaffermato “ben vengano la DDA, la Procura nazionale antimafia, i tempi raddoppiati per le investigazioni di mafia e terrorismo” ma “quando si arriva al processo le garanzie devono essere le stesse per il ladro di macchine e per il mafioso. Il processo deve essere neutro, non deve ricercare né vendetta, né una verità storica, ma solo quella giudiziaria”. Per la Chinnici “non possiamo affidarci ad un solo pentito. Ben vengano i collaboratori di giustizia ma per le indagini”. E sempre citando Cordero: “trovare due dichiaranti che dicono la stessa cosa è troppo facile, difficile è trovare la prova di altra natura”. Per fortuna conclude la professoressa “con la modifica dell’articolo 111 della Costituzione arriviamo al giusto processo. Si dice che nessuno può essere condannato se non esaminato da un giudice terzo e imparziale”. La pietra dello scandalo che ha portato il dibattito all’attenzione di Repubblica è stata l’espressione della Chinnici per cui il Maxi processo del 1986- 1987 è stato un ‘ obbrobrio’ e come gli altri maxi processi ‘eversivo’. Quando arriva il suo turno, l’ex membro del Csm Di Matteo controbatte alla docente: “Nei processi di mafia non c’è stata mai alcuna violazione dei diritti di difesa, lo dicono le tante assoluzioni che pure sono arrivate. È inaccettabile che uno dei pilastri della lotta alla mafia quale fu il maxiprocesso venga definito un obbrobrio. Un insulto alla memoria di Falcone e Borsellino, che avevano il culto delle regole dello stato di diritto’. E sul concetto di eversivo ha aggiunto: “Quei congegni eversivi del sistema hanno consentito non solo il maxiprocesso, ma anche altri processi importantissimi. Ritengo queste parole inopportune, anche per l’estremo sacrificio della vita costato a tanti valorosi servitori dello Stato”. Quello che manca nel pezzo di Repubblica è la spiegazione che ha dato la professoressa del suo pensiero: “quando dico che un maxi processo è eversivo intendo dire che lo è, come costrutto giuridico, rispetto al sistema accusatorio. La responsabilità penale è personale, il processo si deve tarare sul singolo, non su centinaia di imputati. Fino a prova contraria ognuno è presunto innocente”. E poi amareggiata dalla risposta di Di Matteo e della platea a suo sostegno ha detto: “Non capisco perché questa reazione, quando dico queste cose ai miei studenti ci capiamo”. Quello espresso dalla professoressa è un concetto che avevano già affrontato su questo giornale attraverso un dibattito ampio. Lo aveva iniziato Giorgio Spangher che evidenziò come durante gli ultimi decenni il rito accusatorio sia stato snaturato, abbia perso la sua essenza. Poi Giovanni Fiandaca: “La propensione a utilizzare il processo come mezzo di lotta ha, altresì, preso piede nell’ambito delle strategie di contrasto alla corruzione cosiddetta sistemica: come emblematicamente dimostra l’esperienza giudiziaria milanese di Mani Pulite, di cui quest’anno è stato celebrato il trentennale, anche in questo caso l’obiettivo principale preso di mira dai magistrati inquirenti è finito col consistere, più che nell’accertare singoli episodi corruttivi, nel colpire e disarticolare il sistema della corruzione come fenomeno generale”. Infine Alberto Cisterna: “l’ortodossia e il conformismo culturale sono, al momento, la minaccia più grave nel contrasto ai fenomeni criminali organizzati; la dilatazione del doppio binario (pena/ misure di prevenzione) verso fattispecie sideralmente lontane dalla mafia (persino lo stalking), non rappresenta la dimostrazione dell’espansione inevitabile di uno strumentario ritenuto efficiente, quanto la prova della preoccupante incapacità di procedere a elaborazioni alternative, alla costruzione di modelli di investigazione che sappiano davvero leggere il moderno poliformismo della minaccia criminale per poterlo intercettare in modo non velleitario”. Difendiamo le conquiste dell’antimafia, dal vento che vorrebbe cancellarle di Gian Carlo Caselli La Stampa, 21 marzo 2023 La giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti di mafia che si celebra ogni 21 marzo (oggi a Milano) ha un nome: don Luigi Ciotti. Che va ringraziato per tutta la sua vita, ma decisiva l’idea di creare “Libera” e di raccogliere le firme (un milione!) per l’approvazione della legge 109/96 sul riutilizzo sociale e istituzionale dei beni mafiosi confiscati. La galera i mafiosi la sopportano. Ma non digeriscono che si tocchino i piccioli (soldi), motore e sostegno del loro potere. Questa verità elementare è stata “scoperta” soltanto nel 1982, quando l’omicidio di La Torre e ancor più di Dalla Chiesa risvegliarono le coscienze e portarono ad approvare una legge che (insieme all’art. 416 bis, che punisce il fatto stesso di partecipare a un’associazione mafiosa) consentiva sequestro e confisca dei piccioli come per il provento di ogni reato, ma con una novità assoluta: i beni del condannato per associazione mafiosa sono automaticamente confiscati se il mafioso non ne prova la provenienza lecita. Ma c’era un problema. I beni confiscati restavano inutilizzati, a coprirsi di polvere. E il mafioso poteva sollecitare la “sindrome del faraone”, sostenendo che prima quei beni producevano ricchezza per lui ma pure per gli altri (in realtà briciole per tenerseli buoni). E c’era spazio per la bestemmia che la mafia dà lavoro. È qui che intervengono Libera e Ciotti, con l’iniziativa che porta alla legge 109/96. Una legge di importanza storica per l’antimafia, grazie alla quale una parte del “mal tolto” che la mafia ha rapinato viene restituito alla collettività perché possa trarne profitto. Così, alla repressione si affianca l’antimafia sociale che offre opportunità di lavoro, creando cittadini titolari di diritti, alleati dello Stato e non più sudditi della mafia. Un’antimafia che parla di dignità e libertà, un baluardo della democrazia contro i ricatti e le umiliazioni dei mafiosi. Un “fiore all’occhiello”, che ci consente di rivendicare che l’Italia è sì, purtroppo, un Paese con problemi di mafia, ma anche e soprattutto il Paese dell’antimafia che fa scuola all’estero. Ma c’è qualcuno cui queste conquiste nell’interesse del bene comune danno fastidio. È il caso del libro “L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene” di Alessandro Barbano, che nei prossimi giorni sarà presentato alla Camera con l’ex ministra Cartabia. In un intervento sul Fatto del 19 marzo, intitolato “Quel libro alla Camera umilia le vittime di mafia”, Nando dalla Chiesa osserva che “la cifra fondamentale (del libro) è l’attacco alla legislazione antimafia e in particolare a Libera”, additata come “concentrato di abusi e nequizie di ogni sorta”. È “lo spirito del tempo” con cui “i conformisti travestiti da voci coraggiose soffiano come un vento sinistro sulle leggi antimafia”. Condivido il giudizio e aggiungo che dello stesso “vento” si nutrono coloro che, a trent’anni dalle stragi, vorrebbero modificare la normativa antimafia, perché la situazione è cambiata e l’emergenza è finita. Questa tesi soffre di un limite culturale: percepire la mafia come un problema esclusivamente di ordine pubblico, cogliendone la pericolosità soltanto quando adotta strategie sanguinarie e trascurando i rischi delle strategie “attendiste”; dimenticando così la straordinaria capacità di condizionamento che di un’associazione criminale ha fatto un vero e proprio sistema di potere. Sostenere poi che quel che andava bene dopo le stragi del ‘92 oggi va cambiato per ripristinare lo Stato di diritto, oltre che sbagliato è addirittura oltraggioso. Stiamo parlando di un “tridente” antimafia: 1) la fine della impunità mafiosa, sancita nel gennaio ‘92 dalla Cassazione con la conferma definitiva del maxiprocesso di Falcone e Borsellino; 2) la legge sui pentiti del ‘91, fortemente voluta da Falcone e Borsellino; 3) il 41 bis varato con la morte di Falcone, poi insabbiato e approvato solo dopo la morte di Borsellino. Dunque, per un verso o per l’altro il tridente è “targato” Falcone-Borsellino e intriso del loro sangue. Ecco perché è quasi oltraggioso parlare di necessità di recuperare lo Stato di diritto. Ma andiamo al concreto. Il tridente ha funzionato e funziona. Perché io mafioso, che prima la facevo sempre franca, ora so che posso essere condannato; so anche che mi aspetta un carcere di giusto rigore (non più “aragoste e champagne” come prima del 41 bis); infine so che la legge aiuta chi collabora. Risultato? Il tridente dopo il 1992 produce una slavina di pentiti, collaborazioni preziose che ci salvano dall’abisso in cui Cosa Nostra voleva seppellirci. E oggi? La mafia ha preso e prende duri colpi, ma non è certo finita. Rinunciare a un sistema di difesa collaudato per inseguire le fantasie pseudo garantiste di qualcuno sarebbe follia. Tanto più che il cosiddetto “doppio binario” (di cui 41 bis e legge sui pentiti sono parte) non è contro la Costituzione. Si basa infatti sulla specificità della mafia - riconosciuta dalla Consulta - rispetto a ogni altra organizzazione criminale. Specificità che può appunto giustificare un diverso regime. Concludo con un altro esempio del “vento” anti-antimafia. Una docente di procedura penale di Palermo pochi giorni fa ha liquidato il maxiprocesso come “un obbrobrio”, perché il processo deve essere il più possibile modellato sulla persona, deve accertare le responsabilità del singolo e non fare vendetta. Senonché, è verità storica che il maxi - capolavoro di Falcone e Borsellino - ha posto fine, nel rispetto assoluto delle regole, alla vergogna della maxi impunità della mafia che da sempre impestava il nostro Paese. Che lo neghi ora una docente, Daniela Chinnici, con un cognome così “impegnativo”, è doppiamente sconvolgente. Veneto. Il Tar condanna il ministero della Giustizia a pagare di più i detenuti-lavoratori di Angela Pederiva Il Gazzettino, 21 marzo 2023 Il sottosegretario padovano Andrea Ostellari l’ha ribadito anche ieri: “Scontata la pena, la gran parte degli ex condannati ricomincia a delinquere. Mentre il 98% di chi ha trascorso la detenzione imparando un mestiere, senza guardare il soffitto, esce dai circuiti criminali e smette di compiere reati. I numeri parlano chiaro: più lavoro nei penitenziari significa meno criminalità nelle nostre città”. Per questo il ministero della Giustizia sta studiando un piano di incentivi per le aziende che assumono i detenuti. Ma intanto proprio il dicastero ora guidato dal ministro trevigiano Carlo Nordio è stato condannato a pagare quanto dovuto ai carcerati che hanno prestato servizio per l’amministrazione penitenziaria: con due sentenze, infatti, il Tar del Veneto ha accolto i ricorsi di dieci reclusi al Due Palazzi. Si tratta di cittadini sia italiani che stranieri, i quali stanno scontando (o hanno finito di scontare) condanne di diversa entità per i reati più vari; qualcuno è anche ergastolano. Tutti hanno in comune il fatto di aver svolto attività lavorativa, durante il periodo di detenzione, a favore della struttura carceraria. Fra loro ci sono addetti alle pulizie, alla distribuzione dei pasti e al magazzino, ma pure elettricisti, manutentori e giardinieri. “A prevedere il loro impiego sono le norme dell’ordinamento penitenziario, in applicazione del principio costituzionale che sancisce la finalità rieducativa della pena”, spiega l’avvocata Marta Capuzzo, che assiste i ricorrenti insieme al collega Giancarlo Moro. “Da anni si è però venuta a verificare una situazione kafkiana aggiunge la legale per cui i detenuti-lavoratori vengono pagati con importi che stanno al di sotto dei minimi salariali previsti dalla normativa, che già sono inferiori di due terzi rispetto ai contratti collettivi di riferimento. La colpa non è certo della direzione del carcere di Padova, ma del mancato aggiornamento delle tariffe da parte dell’apposita commissione ministeriale, che le ha “congelate” dal 1993 al 2018. Le cause sono state avviate per chi ha lavorato in quegli anni e non ha ricevuto la giusta retribuzione. Per alcuni si parla di differenze pari anche a 15.000 euro”. Le loro richieste sono state accolte dal giudice del lavoro e i verdetti sono già passati in giudicato, in quanto non sono stati impugnati. Ciononostante il ministero della Giustizia non ha mai corrisposto le somme dovute, malgrado sia trascorso il termine di 120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo. Anche i solleciti sono caduto nel vuoto. A quel punto sono scattati i ricorsi collettivi di ottemperanza davanti al Tribunale amministrativo regionale, dove peraltro l’Avvocatura dello Stato non si è nemmeno costituita in giudizio. Alla fine i magistrati della seconda sezione (presidente Grazia Flaim, consigliere estensore Marco Rinaldi e primo referendario Elena Garbari) hanno stabilito che “deve essere sancito l’obbligo, per la P.A. (Pubblica Amministrazione, ndr.), di dare piena e integrale esecuzione alle sentenze”. Ora il dicastero dovrà provvedere entro 60 giorni dalla notifica delle motivazioni, depositate giovedì scorso. Come spesso succede in questi casi, se gli uffici ministeriali non dovessero agire, verrebbe nominato un commissario ad acta per esercitare il potere sostitutivo. Non certo un bell’esempio di rispetto della legge, da parte della macchina della Giustizia. Trentino Alto Adige. Intervista alla Garante dei diritti dei detenuti di Miriam Rossi unimondo.org, 21 marzo 2023 Unimondo continua a tenere i riflettori accesi sulle condizioni carcerarie e sull’effettiva capacità del sistema di riabilitare il detenuto. Dopo aver intervistato i docenti che curano la didattica all’interno della Casa circondariale di Trento, la parola passa alla Garante dei diritti dei detenuti del Trentino, Antonia Menghini, Professoressa di Diritto penale all’Università di Trento. Il ruolo di garanzia che lei ricopre in Trentino in quali attività si esplica? La legge sull’ordinamento penitenziario riconosce ai garanti un generale potere ispettivo, consistente nel poter far ingresso nelle strutture di propria competenza senza necessità di autorizzazione e nel diritto di svolgere colloqui riservati con i detenuti, seppur con controllo visivo. Il detenuto può inoltre rivolgere anche al Garante i reclami cosiddetti “generici”. Di fatto la legge non concede poteri autoritativi ai garanti, che si limitano pertanto a segnalare eventuali violazioni alle autorità preposte. È l’art. 9 bis, inserito nel 2017 nella legge provinciale n. 28 del 1982 relativa al Difensore civico, che disciplina compiutamente le prerogative del Garante dei diritti dei detenuti per quanto concerne la Provincia Autonoma di Trento precisando che “il Garante promuove interventi, azioni e segnalazioni finalizzati ad assicurare, nel rispetto dell’ordinamento statale e dell’ordinamento penitenziario in particolare, l’effettivo esercizio dei diritti delle persone presenti negli istituti penitenziari, anche attraverso la promozione di protocolli d’intesa tra la Provincia e le amministrazioni statali competenti”. L’attività del Garante si articola, pertanto, su un duplice piano: all’interno della struttura carceraria, attraverso l’attività ispettiva e di colloquio con le persone detenute (che peraltro viene svolta anche nei confronti dei famigliari e delle persone in misura alternativa), e sul territorio, nell’interlocuzione costante con le istituzioni coinvolte nel reinserimento sociale dei detenuti, nella predisposizione di Protocolli e progettualità specifiche, oltre che nell’attività di sensibilizzazione sui temi del carcere e di partecipazione alle riunioni convocate a livello nazionale dal Coordinamento Garanti territoriali e dal Garante Nazionale. Esiste quindi un organo nazionale di raccordo dei garanti territoriali? Sì, è la Conferenza dei Garanti dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà, l’organismo di rappresentanza istituzionale dei garanti nominati dagli enti territoriali della Repubblica e il luogo di confronto e di condivisione delle loro esperienze. In particolare, tra le prerogative della Conferenza figurano quelle di collaborare con il Garante nazionale, di elaborare linee-guida per la regolamentazione, l’azione e l’organizzazione degli uffici dei Garanti territoriali, di monitorare lo stato dell’arte della legislazione in materia di privazione della libertà, di coordinare la raccolta di informazioni relative alle forme e ai luoghi di privazione della libertà nei territori di competenza dei garanti territoriali, oltre che di esercitare ogni forma di azione ritenuta opportuna per la risoluzione delle problematiche relative alla privazione della libertà. In generale di quali diritti gode il detenuto in carcere? Il detenuto si vede riconosciuti tutti i diritti fondamentali “compatibili” con lo status detentionis. Ciò significa che il detenuto, che pure vede significativamente ridotta la propria libertà personale, ne conserva una parte che è tanto più preziosa - come insegna la Corte costituzionale - proprio perché costituisce l’ultimo baluardo dell’espressione della sua personalità individuale. Al detenuto debbono dunque essere riconosciuti i diritti fondamentali e, prima ancora, deve essere rispettato il principio di umanità della pena e, più in generale, la stessa dignità della persona. È però, fisiologico che i diritti riconosciuti ai detenuti, ad eccezione di quelli intangibili (quali, ad esempio, la vita, l’integrità fisica e il nome), possano soffrire delle limitazioni a fronte del bilanciamento con le contrapposte esigenze di ordine e sicurezza, salvo comunque, ribadisco, il limite del nucleo essenziale dei diritti fondamentali che non può essere intaccato. I detenuti della casa circondariale di Spini di Gardolo quali problemi incontrano (se li incontrano)? Le questioni più frequentemente portate alla mia attenzione riguardano l’accesso alle misure alternative e ai cosiddetti benefici (permessi premio e lavoro all’esterno), la libertà anticipata (sconto di 45 giorni ogni 6 mesi per partecipazione all’attività rieducativa), l’acceso al lavoro, alla scuola, il diritto alla salute, il diritto al vitto, oltre a questioni relative ai colloqui sia de visu che telefonici, alla ricezione di pacchi e posta. I piani formativi gestiti in carcere dai docenti del Liceo “A. Rosmini” di Trento risultano soddisfacenti? E quelli professionalizzanti dell’Istituto alberghiero? L’offerta formativa in carcere è particolarmente qualificata, svolta da personale preparato e dotato di una spiccata sensibilità. Anche i riscontri che ho raccolto dalle persone detenute sono sempre stati largamente positivi e di grande apprezzamento per il lavoro svolto dai docenti. Mi permetto di aggiungere che al momento ci sono 5 detenuti regolarmente iscritti a un corso universitario dell’Ateneo trentino. Quale soluzione suggerisce al problema del sovraffollamento carcerario? Certamente l’implementazione dell’accesso alle misure alternative può essere una delle strade percorribili che comunque passa per la necessità di investimenti che riguardino risorse abitative e possibilità lavorative. Dati alla mano, chi ha avuto accesso alle misure alternative presenta, infatti, un tasso di recidiva significativamente inferiore a quello delle persone che abbiano eseguito interamente la pena in carcere. Inoltre, più a monte, sarebbe opportuna una revisione del sistema sanzionatorio che individuasse nuove pene principali, tenendo l’extrema ratio del ricorso al carcere per i reati più gravi. In quest’ultima direzione si è mossa, ad esempio, la recente Riforma Cartabia che ha ridisciplinato le cosiddette pene sostitutive. In un sistema detentivo ideale ci sarebbero, quindi, meno detenuti per una fascia di criminalità medio-alta e molte più risorse, intese non solo come investimenti per implementare le attività formative, professionalizzanti e lavorative all’interno delle strutture di pena ma anche quali risorse umane, di organico, per poter sostenere adeguatamente il condannato in un percorso rieducativo in cui lo stesso venga ad assumere un ruolo proattivo e non meramente passivo. In un’intervista all’Adige di circa 1 anno fa lei elencava alla ministra Cartabia i problemi del carcere di Spini; oggi restano gli stessi? Certamente il rapporto tra il numero delle presenze - di molto superiore a quello convenuto nell’accordo siglato nel 2008 tra Provincia Autonoma di Trento e Ministero - e l’esiguità degli operatori penitenziari rimane il punto più critico. Rispetto allo scorso anno, se la Direzione della casa circondariale dal giugno di quest’anno è finalmente dedicata e non più a scavalco con quella di Bolzano, critica rimane la situazione dell’organico della polizia penitenziaria e ancor più deficitaria rispetto allo scorso anno è la situazione degli educatori che sono rimasti solo in 2 per circa 350 detenuti. Prospettare l’attuazione dell’offerta rieducativa e dell’attività di osservazione in queste condizioni diventa particolarmente difficile, se non impossibile. Chi sono i detenuti della Casa Circondariale di Spini di Gardolo? A Trento la percentuale di detenuti stranieri risulta rovesciata rispetto alla media nazionale: se nel resto d’Italia i detenuti stranieri sono circa il 30%, a Spini ammontano attualmente al 58% (ma negli ultimi anni abbiamo toccato punte anche del 73%). Questo è un dato con cui è necessario fare i conti, anche nel declinare l’offerta trattamentale che deve tenere in considerazione le specificità di questa fascia di popolazione detenuta, normalmente priva di qualsiasi riferimento sul territorio, caratterizzata da una bassa scolarizzazione e molto spesso da una scarsa conoscenza della lingua italiana. Un caso che le è rimasto particolarmente a cuore? Quello di un detenuto che, a pochi giorni dal suo ritorno in libertà dopo anni di detenzione, mi ha raccontato di avere molta paura di “tutta quella libertà, tutta in un solo momento”. In realtà sarebbe importante “accompagnare” il detenuto attraverso un reinserimento graduale in società che gli riconosca, a fronte di una progressiva responsabilizzazione e di altrettante buone prove di sé, spazi sempre più ampi di libertà, dapprima attraverso la concessione di permessi premio, poi di un lavoro all’esterno e, infine, con la concessione di una misura alternativa. Milano. A San Vittore mai così tanti giovani detenuti affaritaliani.it, 21 marzo 2023 Il progetto del reparto “La Chiamata” per sostenere il loro percorso e fare emergere i talenti. Hamadi ha poco più di 20 anni, è alto, indossa una felpa nera e i pantaloni bianchi. È qui perché’ ha ucciso una persona. Ma è qui anche perché è il “capostipite” del reparto ‘La Chiamata’ di San Vittore, un luogo che non c’è ancora fisicamente e non si sa se un giorno sarà davvero ritagliato nei raggi del carcere ma esiste da un mese, ogni giovedì sera, quando una decina ragazzi tra i 18 e i 25 anni si ritrova per immaginarlo e, di fatto, a costruirlo. A consegnare ad Hamadi il ruolo di ‘primo’ e’ Juri Aparo, lo psicologo inventore del ‘Gruppo della Trasgressione’, un ‘sarto’ visionario che da decenni prova a cucire strappi: quelli tra chi commette reati e chi li subisce e tra i colpevoli per la giustizia e il mondo fuori, a cominciare dalle scuole. I primi frutti della ‘Chiamata’ ancora acerbi ma promettenti sono stati mostrati sul palco della ‘Rotonda’ di San Vittore, la ‘piazza’ da cui si dipanano i raggi della prigione, dove sono arrivati dalle celle Hamadi e i compagni. Il direttore Giacinto Siciliano spiega: “Ci sono tantissimi giovani adulti a San Vittore, siamo al record assoluto e molti sono alla loro prima esperienza in carcere. Ci siamo chiesti: come possiamo esserci?” Ed ecco Francesco Cajani, magistrato che come racconta l’inchiesta di Agi con un sorriso dice di essersi “un po’ stufato di mandare in carcere le persone” che estrae da una borsa gli ‘strumenti’ del giovedì sera per raccontare cosa succede a metà di ogni settimana di pene lunghe o brevi da scontare. Ci sono un leggio di cartone, “per valorizzare i lavori”, uno “specchio magico” “per guardarsi dentro scavando sempre più in profondità la propria buca” e una candela “per fare luce” in tutta quell’oscurità. E i ragazzi uno a uno, affiancati dai volontari di ‘Libera’ e degli scout di Milano e dintorni, hanno portato in dote il loro raccolto poetico. Versi come schegge che tagliano l’aria claustrofobica riempiendola di scintille mentre li declamano. “Me ne fotto del calmante/ e di una vita barcollante/. Non mi basta un’altalena/mano buona sulla schiena. /Vorrei l’alba chiara e un fiore/al posto del dolore/. “Delinquo e quindi sono, non mi servono/catene/. Ho ammesso i miei reati e il carcere non mi appartiene”. Aparo ha scelto Hamadi come ‘primo’ perché in lui scorge “la mostruosa polarità tra l’intensità della sua intelligenza e quello che ha fatto”. E lui non si tira indietro: “Attraverso un percorso psicologico ho acquisito la conoscenza di me stesso e preso le mie responsabilità. Nel reparto della ‘Chiamata’ il mio compito sarebbe quello di aiutare i giovani detenuti”. Le richieste dei giovani detenuti di San Vittore - Ai ragazzi spetta mettere in fila le richieste per il Reparto al direttore Siciliano, al magistrato Cajani, alla comandante della polizia penitenziaria Michela Morello, alla presidente della Sorveglianza Giovanna Di Rosa, al cappello del carcere minorile ‘Beccaria’, don Burgio, che ha vissuto la rivolta di qualche mese fa. Sono tutti in ascolto nella ‘Rotonda. Hamadi lo sa: “Io vorrei che l’offerta culturale non fosse un optional e che si potesse dialogare per conoscersi e farsi conoscere”. Di Rosa osserva che “il denominatore comune” nei primi incontri “è la ricerca di una guida e poi anche il bisogno di dare un ‘senso’ al reato’”. Nella borsa dei giovedì c’è anche una moneta: “la moneta dei talenti”, se la gira tra le mani con cura Cajani perché è la carta che può cambiare il destino. Oggi si sono visti brillare tanto da ricevere il ringraziamento dei familiari di tre vittime della mafia che, il giorno prima della giornata in memoria dei caduti, hanno sentito nelle loro giovani voci la speranza, semplice ma enorme, “di un mondo migliore”. Piacenza. Carenze di organico in carcere, Delmastro: “Assunzioni e formazione” liberta.it, 21 marzo 2023 “Il carcere di Piacenza non soffre il problema del sovraffollamento che è una delle piaghe del sistema penitenziario italiano. Ci sono però carenze di organico alle quali abbiamo dato una risposta attraverso la Finanziaria con 1000 extra assunzioni per la polizia penitenziaria e corsi di formazione per circa cinquemila persone nei prossimi anni”. Sono queste le prime dichiarazioni del sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove al termine dell’incontro al carcere delle Novate con i rappresentanti delle organizzazioni sindacali della Polizia penitenziaria e la dirigenza della casa circondariale guidata da Maria Gabriella Lusi. Il sottosegretario è stato accompagnato dal parlamentare piacentino Tommaso Foti. In merito all’allarme lanciato dal Garante dei detenuti relativo ai suicidi, Delmastro ha spiegato che “il sovraffollamento è un problema invisibilizzante, ovvero nasconde altri problemi. Io sono convinto che per un trattamento degno di questo nome dobbiamo avere il pieno organico degli uomini e le donne della polizia penitenziaria e con questo si contrastano i disagi che ci sono all’interno dei circuiti detentivi”. Proprio nella giornata di oggi è uscita l’intervista del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari che per contrastare il sovraffollamento propone un bonus per le aziende che assumono detenuti. “È una proposta da compulsare con attenzione - commenta il sottosegretario Delmastro -, io prima di tutto penso a italiani che cercano lavoro e che non hanno commesso reati. Noi abbiamo un’altra proposta in campo, quella per i detenuti tossicodipendenti che potrebbero espiare la pena in comunità terapeutiche protette. Abbiamo affinato la proposta legislativa e interloquiremo con il terzo settore. Noi vogliamo consentire una vera rieducazione che per le persone tossicodipendenti parte dalla disintossicazione”. Il sottosegretario indica nel lavoro la via da seguire e parla di esempi positivi che arrivano proprio dal carcere di Piacenza. “Qui c’è un ottimo call center - ha dichiarato - il lavoro è la prima forma di rieducazione”. Le organizzazioni sindacali della Polizia penitenziaria, in generale in Emilia-Romagna hanno fatto presenti altri problemi. “Ho garantito che entro dicembre avremo direttore e comandante per ogni istituto - ha spiegato Delmastro -. Stiamo definendo i protocolli per gli eventi critici. Sulle rivolte, stiamo preparando gruppo di pronto intervento con un mediatore e dotazioni e formazione specifica come in Francia, abbiamo scoperto che questo modello ha abbattuto le rivolte. Per le dotazioni abbiamo già ordinato abbiamo scudi e kit antisommossa e guanti antitaglio”. Il sottosegretario ha fatto sapere che grazie all’interessamento dell’onorevole piacentino Tommaso Foti entro il 2023 verrà depositato un progetto da un milione di euro per l’efficientamento energetico del carcere di Piacenza. “È stata una visita positiva - ha aggiunto Foti - le osservazioni delle organizzazioni sindacali sono pertinenti e vi è stata collaborazione. Il sovraffollamento è rientrato in una questione fisiologica”. Gennaro Narducci, segretario regionale di Upps ha espresso soddisfazione sull’esito dell’incontro. “Ci siamo soffermati su una problematica importante - ha aggiunto - quella delle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Le strutture sono sature a livello nazionale, in Emilia Romagna ne abbiamo solo tre. Abbiamo chiesto di valutare la possibilità di avere una Rems a Piacenza perché abbiamo un reparto con detenuti psichiatrici di difficile gestione. Abbiamo evidenziato che il personale non ha formazione per contenere detenuti violenti. C’è stata la promessa di valutare altre aperture di Rems”. Macomer (Nu). Un appello per dare voce ai detenuti nei Cpr osservatoriorepressione.info, 21 marzo 2023 Sono passati ormai venticinque anni dall’introduzione nell’ordinamento italiano dello strumento della detenzione amministrava e, quindi, dalla creazione di campi in cui sono privati della libertà personale gli stranieri che non possiedono un documento che consente loro di entrare o restare regolarmente nel territorio italiano. Per la prima volta da allora, almeno a nostra memoria, una persona che ha vissuto tale esperienza ha scritto una lettera a una Prefettura ringraziando per “l’ospitalità” ricevuta. Questo è accaduto pochi giorni fa. In riferimento al CPR di Macomer, in Sardegna, è arrivata una lettera in risposta a un comunicato di “Campagna Lasciatecientrare” e “Assemblea No Cpr Macomer” che annunciava l’ampliamento, anzi il raddoppio, della struttura, insieme a diverse criticità riportate da chi attualmente vive la detenzione. Lettera, il cui testo è disponibile al seguente link e che merita un commento, perché, contrariamente a quanto fa intendere il titolo dell’articolo che la contiene, non solo questa non è in contrapposizione con quanto affermiamo insieme a diverse realtà della società civile impegnate nella difesa dei diritti dei migranti e contro una gestione delle migrazioni discriminatoria e razzista, ma anzi, non fa che confermare quanto sosteniamo da anni. Innanzitutto, partiamo dal fatto che persino per le realtà quotidianamente impegnate nella difesa dei diritti dei migranti è difficile riuscire a ottenere una testimonianza sulla esperienza del CPR, perché generalmente, una volta liberi/e non ne vogliono più parlare. Per tanti e tante è un evento traumatico, in cui si perde la voglia di vivere per via della condizione di abbandono in cui ci si trova. In cui ci si lascia andare, in cui si smette di lavarsi perché l’acqua è troppo gelata, oppure si perde la voglia di mangiare e si dimagrisce 10 o 20 chili. Riguardo la lettera pubblicata qualche giorno fa, la persona che riporta la sua testimonianza dichiara di essere un richiedente asilo. E per chi non lo sapesse un richiedente asilo è una persona perfettamente in regola, allora ci chiediamo: perché è stato rinchiuso illegittimamente in un CPR? Oppure, nel caso in cui avesse presentato la richiesta di asilo dall’interno del CPR, rendiamo noto che in questa ipotesi, secondo una norma discriminatoria si corre il rischio di restare in detenzione fino a 12 mesi. Riguardo poi, la presenza nel Centro di Macomer di operatori che si sono dimostrati “umani” con i detenuti, ribadiamo che ciò che si contesta è la disumanità di un sistema, non delle singole persone. Le testimonianze da noi raccolte descrivono un meccanismo discriminatorio e violento, riferiscono di operatori che a volte li trattano come “animali” e di altri che dimostrano un minimo di comprensione e di umanità: offrendo loro una sigaretta, oppure ascoltando le loro storie, oppure portando loro del cibo cucinato da casa. Ma tutto questo non fa che confermare quanto il sistema sia sbagliato. E quanto sia ostacolata la volontà di dare una mano dall’interno, perché il sistema non lo consente. Perché, oltretutto, si tratta di un centro di privazione della libertà gestito da un operatore economico privato, che ha vinto una gara d’appalto al ribasso, per cui se vuole guadagnare deve tagliare il costo dei servizi (per i trattenuti) e quello del lavoro. E allora dovremmo chiederci se ci sono abbastanza mediatori, operatori, infermieri, medici, quali sono i turni, tipi di contratto, ecc. Se l’ospitalità è così “umana” perché i telefoni personali sono sequestrati all’ingresso della struttura? Perché non si possono mostrare immagini di questo luogo? Dai pochi CPR in cui è consentito l’utilizzo dello smartphone provengo testimonianze terribili. Ecco, per esempio, il link a un video proveniente dal Cpr di Gradisca d’Isonzo gestito dalla stessa società che dal marzo 2022 gestisce anche Macomer. Si noti che il CPR di Macomer è stato operativo fino al 2014 come carcere di massima sicurezza, di conseguenza gli spazi a disposizioni dei detenuti sono molto più ristretti di quelli visibili nel video del centro friulano. Pensiamo davvero che alcune persone di buona volontà possano fare la differenza in un sistema simile? In poche righe non è possibile spiegare cosa è un CPR ed elencare tutte le criticità e le illegittimità che qui si verificano. Appare chiaro, però, che tante realtà associative, gruppi informali e non, giornalisti, ricercatori non riescono a ottenere una autorizzazione per accedervi. La campagna LasciateCIEntrare è nata quasi 12 anni fa proprio per fare luce su quanto accade in queste strutture e per questo motivo invitiamo gli operatori e le operatrici dell’informazione a presentare richieste di accesso alla Prefettura di Nuoro per poter finalmente riportare le voci dei detenuti e per testimoniare, in modo non distorto, le condizioni in cui vivono. Modena. Il giurista Elia Minari incontra i detenuti: la legalità conviene di Roberta Barbi aticannews.va, 21 marzo 2023 In occasione della Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie istituita dall’associazione Libera, la testimonianza del giurista trentenne che da qualche mese vive sotto protezione a causa del suo impegno civile. Nel carcere di Modena ha incontrato un gruppo di detenuti per parlare di mafia e legalità. Abbandonare la retorica e il moralismo; affrontare il tema che ha a cuore più di tutti - la legalità - in modo semplice e diretto, che è poi l’unico che si può adottare davanti a un pubblico di ristretti: con questi obiettivi il giurista reggiano Elia Minari ha incontrato qualche giorno fa una sessantina di detenuti della casa circondariale di Modena nell’ambito della presentazione della mostra “Artisti dietro le sbarre. Una fuga per la legalità” nel corso della quale i detenuti artisti gli hanno donato l’opera “Guardare la mafia negli occhi”, titolo tratto dall’omonimo libro inchiesta di Minari pubblicato nel 2017. Si parte dalle cose semplici per capire le grandi verità: “Ho cercato di far capire a queste persone che la legalità conviene a tutti, è delinquere che non conviene - riferisce Minari a Vatican News - e ho cercato di spiegare i danni che le mafie, al nord come al sud, arrecano all’economia italiana, ai lavoratori che vengono sfruttati e all’ambiente che viene sporcato. Ognuno di noi può fare qualcosa: migliorando se stessi, mettendosi in discussione si migliora la società; il mio modo per farlo è iniziato con queste inchieste nel 2009 e anche se è stata dura scoprire certe cose, è anche stato utile”. Le inchieste condotte da Elia Minari a partire dal 2009 sono servite, infatti, a denunciare le infiltrazioni della ‘ndrangheta nel nord Italia e sono state utilizzate in almeno cinque indagini e citate nel maxi processo “Aemilia”, ad ora il più grande mai realizzato al nord che ha condotto, tra l’altro, allo scioglimento del Comune di Brescello. La giustizia: un concetto enorme e spesso frainteso - Anche la giustizia è un tema da approfondire con i detenuti: “Spesso loro vedono il sistema giudiziario da una parte sola, quella che li ha condannati, invece il concetto è naturalmente molto più alto e meritevole di essere approfondito - continua Minari - ad esempio va considerato il tema dell’investimento su se stessi, in formazione e lavoro, che i detenuti possono fare già all’interno del carcere e che ci fa tornare alla questione del migliorarsi, ma anche dell’immaginare un mondo oltre le sbarre, un mondo possibile e anche, perché no, più giusto, da costruire e in cui vivere in futuro”. Guardare la mafia negli occhi: un dovere che fa male al cuore - Da ottobre scorso Elia Minari, a causa del suo lavoro, vive sotto protezione: “È stata disposta questa misura per la mia sicurezza in seguito a un’intercettazione in carcere - racconta - per questo l’incontro con i detenuti è stato ancora più commovente e la mia testimonianza in questo contesto l’ho sentita come un dovere, urgente, per far capire che comunque il mio lavoro prosegue”. Minari nel 2009 ha fondato anche un’associazione, Cortocircuito, attiva nel territorio di Reggio Emilia ma non solo, che si occupa di sradicare la cultura mafiosa e proporre un’alternativa. Il giurista, in questi ultimi anni, ha ricevuto diversi riconoscimenti importanti, tra cui ricordiamo il primo e l’ultimo in ordine cronologico: nel 2014 il Premio Scomodo conferitogli dall’allora Presidente del Senato Pietro Grasso in occasione del 20.mo Vertice Nazionale Antimafia, nell’ottobre 2022 in Calabria, infine, ha ricevuto il premio intitolato al giornalista Peppino Impastato ucciso da Cosa Nostra, e al politico Giuseppe Valarioti ucciso dalla ‘ndrangheta. Milano. Prevenzione senza barriere, nel carcere di Bollate check-oncologico per le detenute di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 21 marzo 2023 Un camper-laboratorio mobile con ecografo e mammografo per controlli e seminari informativi per una settimana. Il progetto pilota rivolto anche al personale femminile del penitenziario. Un camper entra nelle mura, proprio davanti al reparto femminile del carcere di Bollate - è un ambulatorio di 10 metri con a bordo ecografo e mammografo, un invito alla prevenzione e alla cura di sé che in Lombardia non si era mai visto. Lilt (Lega italiana per la lotta contro i tumori) in collaborazione con la Asst Santi Paolo e Carlo e con il sostegno di Europe Assistance porta per la prima volta in una casa di reclusione una iniziativa di questo tipo: “Prevenzione senza barriere” offre alle donne che vivono recluse un check-up oncologico completo e seminari informativi importanti. “Ci sensibilizzano sul bisogno di controllare la nostra salute come gesto di rispetto verso noi stesse e verso le persone che fuori dal carcere ci aspettano”, spiega Susanna, 54 anni, tra le promotrici e le prime a rendersi conto di quanto preziosa sia questa occasione. Il mezzo sosterà per tutta la settimana, fino al 24 marzo, all’interno della struttura, e l’adesione ha superato le attese: hanno accettato i controlli con domande e racconti intimi dentro al camper l’80 per cento delle detenute tra i 20 e i 70 anni e il 90 per cento del personale femminile del penitenziario. “All’inizio, quando abbiamo cominciato a parlare dell’iniziativa tra le celle, molte ospiti erano prevenute e timorose. Nessuno aveva mai chiesto loro di prendersi cura della salute in modo attivo. Avendo confidenza con loro nel reparto mi sono fatto promotore dell’iniziativa, pian piano abbiamo trovato consensi e fiducia e alla fine, quando abbiamo chiesto chi tra tutte volesse fare da testimonial per parlare ai giornalisti, nessuna si è tirata indietro, anzi”, racconta il sovrintendente Roberto Capras. “Ci sono luoghi dove la prevenzione fa molta fatica ad arrivare, il carcere è uno di questi - riflette Marco Alloisio, presidente di Lilt Milano Monza Brianza -. L’ambulatorio mobile attrezzato con apparecchiature di ultima generazione ci consente di abbattere barriere e resistenze soprattutto psicologiche”. Il direttore di Bollate Giorgio Leggieri auspica che la collaborazione sia duratura: “Può essere un progetto pilota da replicare anche in altri contesti dove si incontrano fragilità umane e sociali - dice -. È anche con progetti come questi che si lavora sull’inclusione e non a caso abbiamo coinvolto sia donne che vivono in libertà ristretta, sia operatrici e agenti che vivono la loro quotidianità qui dentro, esattamente come le altre”. Non è solo prevenzione ma anche sensibilizzazione, fa notare Matteo Stocco, direttore dell’Asst Santi Paolo e Carlo: “Prima dell’emergenza Covid c’era maggiore mobilità e le detenute prendevano parte ai programmi di screening oncologici regionali, con le complicazioni della pandemia c’è stata una battuta d’arresto ma non si devono perdere le buone abitudini. La finalità rieducativa della pena consiste anche nel promuovere welfare e tutela dei diritti umani e sociali” Nella Casa circondariale sono detenute circa 100 donne (a fronte di circa 1.250 uomini), in un unico reparto ove sono impiegate circa trenta unità di Polizia Penitenziaria femminili per assolvere ai servizi istituzionali. Un dato che rispecchia le percentuali a livello nazionale dove le donne rappresentano il 5% dell’intera popolazione carceraria. Sono relativamente poche ma necessitano della massima attenzione, come dicono anche i dati. Negli ultimi anni, complice la pandemia, i Italia le nuove diagnosi di tumore sono passate da 376.600 nel 2020 a una stima di 390.700 per il 2022. In questi casi la prevenzione precoce è cruciale: come dice Susanna, “il torpore sul letto non aiuta nessuno. Gli anni in carcere possono essere “Kayros”, tempo opportuno per imparare nuove cose. Ad esempio, a prendersi cura degli altri e in parallelo, di sé”. Napoli. Cristiana Farina: ho inventato “Mare fuori” dopo una visita nel carcere di Nisida di Mirella Armiero Corriere del Mezzogiorno, 21 marzo 2023 Cristiana Farina, capo sceneggiatrice: l’idea mi venne vent’anni fa, nella quarta stagione grandi novità. Cristiana Farina si gode il momento. E ne ha tutti i motivi. C’è lei, con la sua tenacia, dietro il successo esplosivo di “Mare fuori”. Sua l’idea, nata tanto tempo fa e mai abbandonata. Con Maurizio Careddu, è capo sceneggiatrice della serie da record (domani sera su Raidue le ultime due puntate della terza stagione, su Raiplay e Netflix gli episodi precedenti) ed ora è alle prese con la scrittura della quarta stagione, che si girerà a maggio. Ci dobbiamo aspettare colpi di scena? Saranno tagliati personaggi? “Qualcuno andrà via ma sarà per esigenze e scelte personali”. Niente spoiler, ovviamente. A parte il fatto che ci saranno nuove location. Ma la scena che gira sui social, con Ciro (redivivo) sullo sfondo della Piscina Mirabilis? È attendibile? “Non so proprio come si sia diffusa e da chi sia stata realizzata. Di certo nella sceneggiatura non c’è”. Più di tanto Cristiana Farina non si sbottona, dunque se del futuro della fiction non si può parlare allora guardiamo indietro. Come e quando è nata l’idea? “È una lunga gestazione, risale a vent’anni fa. Lavoravo a “Un posto al sole” e mi capitò di essere invitata nel carcere minorile di Nisida per tenere un corso di educazione all’immagine. Un progetto che mi prese molto, ho conosciuto tanti ragazzi, vedevamo film insieme, siamo andati anche a mare insieme. Da allora sono diventata amica del direttore dell’istituto, Gianluca Guida. E in particolare mi legai a un ragazzo che ho continuato a sentire per anni. Poi purtroppo ha sbagliato ancora, so che oggi è a Poggioreale. Ma in generale con tutti il rapporto era forte, loro hanno uno spasmodico bisogno dell’attenzione degli adulti, vogliono piacere. Il lavoro degli educatori è quasi eroico, la possibilità di riuscita è molto bassa. È importante però aprire altre finestre sulla vita per questi ragazzi. Quando escono fuori spesso trovano il nulla. Gli investimenti per loro sono ancora pochi. Per questo vorrei lanciare un appello accorato”. Quale? “Agli imprenditori (napoletani o no) affinché diano una mano a riportare in vita il teatro di Eduardo De Filippo a Nisida. Oggi è chiuso per infiltrazioni, andrebbe ristrutturato. Ci sono state richieste su richieste di fondi da parte dell’istituto, ma non è accaduto nulla. Io credo fermamente che la cultura sia un’ancora di salvezza. Il teatro è catarsi. Quella sala serve”. In attesa che qualcuno si faccia avanti, torniamo alla serie. Qual è il segreto di questo successo così trasversale, che ha coinvolto giovani e adulti? “Devo dire che siamo molto ispirati. La fiction ha un’anima collettiva, da chi fa il casting (Marita d’Elia) fino ai registi e agli attori. Abbiamo un grande amore nei confronti dei personaggi, che abbiamo creato noi ma che si sono arricchiti grazie agli attori. Nel piatto hanno messo la loro verità, ci hanno sorpreso con le loro visioni e interpretazioni. La macchina ha funzionato, tutti ci hanno messo serietà e dedizione. E il pubblico ci ripaga. Ho visto che addirittura si fanno i tour nei luoghi di Mare fuori”. Effettivamente basta passare davanti al Molo San Vincenzo, che nella serie è la sede dell’Ipm, per trovare a ogni ora del giorno gruppetti di giovanissimi fan, spesso ragazze, che immaginano di veder spuntare Carmine o Eduardo. “Sì, sono quasi fenomeni di fanatismo. Hanno sbalordito anche me. Credo dipenda da un bisogno di speranza, dal messaggio positivo della fiction che trasmette l’idea che chi sbaglia può trovare un’altra strada. Del resto, al di là dell’ambientazione in carcere, le storie dei protagonisti spesso sono vicende adolescenziali, legate a un’età in cui ci si sente persi, si desidera una libertà che spesso non si sa gestire”. Le differenze con “Gomorra”? “Lì si mette a fuoco il male, un grande prodotto creativo, ma la storia non offre speranza”. Eppure, anche in “Mare fuori” chi si redime può andare incontro alla fine, come accade a Gaetano... “La sua è una storia esemplare, lui fa un sacrificio estremo, ha talmente risolto il suo nodo interiore che accetta di morire pur di non mettere in pericolo i suoi genitori”. Con “Mare fuori” è cambiata anche la fruizione della fiction. “I ragazzi non guardano la tv, su Raidue abbiamo avuto un risultato medio. Su Raiplay i risultati sono stati altissimi. Si deve tener conto del fatto che molti ragazzi guardano la serie sul cellulare. Netflix poi ha intercettato un pubblico diverso”. Con tutte queste aspettative dei fan, come farete a girare la quarta stagione? “Non faccio parte della produzione, ma non vorrei essere nei loro panni. Io stessa sono stata all’Università Roma III con Serena De Ferrari, l’interprete di Viola. Siamo state prese d’assalto”. Con un compagno napoletano, Cristiana Farina in città è di casa. “Vengo spessissimo e trovo la città ancora autentica, nonostante l’impatto del turismo. Forse crea confusione, ma è un fenomeno che porta un’energia meno cupa e forse maggiore sicurezza. Io sono stata scippata tre volte negli anni passati. Ora mi pare vada meglio”. “La leggenda del santo ergastolano” di Giuseppe Bommarito recensione di Gaetano Gianluca Geraci Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2023 Nel libro di Giuseppe Bommarito la storia di Rocco Russo, il mafioso che, dopo il suo arresto per crimini efferati, decide di non collaborare con la giustizia. Dopo l’uccisione del padre da parte di una cosca mafiosa rivale, Rocco Russo, sull’onda emotiva della vendetta, decide di entrare nella famiglia mafiosa di Giuseppe Giacomo Gambardino, boss del feroce clan di San Lorenzo, di cui divenne presto braccio destro lasciando dietro di sé una scia di sangue e di violenza che terminerà con la sua cattura e con la condanna alla pena dell’ergastolo. L’ergastolo ostativo - È Giuseppe Bommarito, nel libro “La leggenda del santo ergastolano”, a raccontarci la storia dell’uomo e del mafioso che, dopo il suo arresto per crimini efferati, decide di non collaborare con la giustizia condannandosi così al “fine pena mai”, l’ergastolo ostativo. L’autore esplora il tema attualissimo dell’ergastolo perpetuo, pena che definisce “senza fine e senza speranza, una pena di morte a lento rilascio”, destinata a tutti quei condannati che, per vari motivi, non vogliono collaborare con la giustizia. Lo scrittore si interroga su come una pena, destinata a finire solo con la morte del detenuto, possa essere rieducativa, così come sancito dalla costituzione. Il cronista, nella seconda parte del libro, molto più intima, di tipo epistolare, racconta in modo travolgente la vita carceraria di Rocco Russo, il totale disprezzo nei suoi confronti del figlio che lo definisce “il santo ergastolano”, da qui il titolo del libro, e la lontananza dalla moglie che non abbraccerà mai più. Per l’autore l’ergastolo perpetuo sembra non avere la finalità di infliggere una pena ingiusta o di far soffrire i detenuti, ma esclusivamente quella di non permettere che la mafia comandi dal carcere. Non si tratta quindi di una tortura gratuita, ma è chiaro come, per quei detenuti, la dimensione del tempo diventi priva di significato. Da qui la domanda su come un mafioso - che ha deciso di non collaborare con lo stato, che non ha mai preso le distanze dall’organizzazione criminale, che ha permesso in tal modo ad altri malviventi di restare in libertà, di commettere altri crimini terribili e di mantenere in vita quel fiume di fango chiamato cosa nostra - possa aver maturato un reale cambiamento. Non si tratta solo del rispetto per chi ha subito orrendi crimini, il vero contrappeso di un approccio unilaterale sul tema dell’ergastolo ostativo è anche il pericolo che corrono i cittadini innocenti. Non si può correre il rischio, la cronaca ce lo insegna, che una falsa redenzione riporti in libertà uomini ancora capaci di compiere azioni criminali. A seguito delle pronunce della Corte costituzionale, in relazione alla concessione dei benefici carcerari ai condannati al carcere duro, recentemente recepite dal legislatore, bisognerebbe allora auspicare che si formi una giurisprudenza rigorosa, capace di distinguere i casi di ravvedimento autentico dai tentativi di eludere le norme sul reinserimento e la rieducazione, per evitare che altri innocenti possano essere vittime, questa volta non della mafia, ma dello stato. A Bommarito il merito di aver affrontato un tema difficile in modo obiettivo, nel rispetto dei detenuti ma anche delle tante vittime innocenti. “La leggenda del santo ergastolano” di Giuseppe Bommarito, Affinità Elettive Edizioni, € 16,00, 256 pagine. I diritti civili e sociali nel paese che cambia di Luigi Manconi La Stampa, 21 marzo 2023 Chi erano i partecipanti alla manifestazione di sabato scorso, a Milano, per la tutela dei figli delle coppie omogenitoriali? Chi erano sotto il profilo degli interessi rappresentati, della mentalità espressa e della collocazione all’interno dell’organizzazione sociale? Non era una folla radical-chic e nemmeno una congrega di ceti privilegiati, come vorrebbe una certa subcultura di destra che si condanna a non capire. E sarà pure significativo che, non solo nel dibattito politico e mediatico ma anche nella discussione domestica quotidiana, il tema delle coppie omosessuali e omogenitoriali sia tanto presente e sentito. È un errore madornale pensare che, in tempi di inflazione, i cittadini si preoccupino esclusivamente “del proprio portafogli”. Il che rivela anche un sottile sentimento razzistico: quasi che problematiche così dense di implicazioni esistenziali e morali non fossero alla portata degli strati sociali meno abbienti, ridotti a “rude razza pagana”, secondo la definizione degli operaisti di un tempo. Si sottovaluta, così, il fatto che il corpo sociale sia attraversato da una forte tensione morale in genere sotterranea, sopita e silenziosa, ma pronta a emergere quando se ne ha l’occasione; e quando questioni “di vita e di morte” interpellano la coscienza di ognuno, sollecitandone il giudizio, in base alle proprie convinzioni profonde e alla propria visione del mondo. Come spiegarsi altrimenti i risultati referendari dei primi anni ‘70 e dei primi anni ‘80 intorno a temi squisitamente “civili” (divorzio e aborto) eppure capaci di mobilitare le grandi masse? E, all’epoca, gli oppositori e gli scettici, trattavano quegli obiettivi con la stessa sprezzante volgarità di oggi, attribuendoli esclusivamente all’area dei beni superflui, appannaggio di una borghesia già pienamente soddisfatta nei suoi bisogni e nei suoi interessi. Oggi come allora, si pensa che l’operaio, la lavoratrice precaria, lo studente in cerca di occupazione, rimpiccioliti a figure a una dimensione, abbiano a cuore solo i diritti sociali (lavoro, salute, abitazione); e si ignora che proprio il perseguimento di questi obiettivi, rafforzando l’identità individuale e l’autonomia della persona, induce a una maggiore sensibilità nei confronti delle garanzie proprie del soggetto. Lo confermano, tra l’altro, i risultati di un sondaggio dell’istituto Demos che certifica da anni i crescenti consensi per una legge a favore dell’eutanasia, rilevati nel nord-est: in una terra, dunque, di forti tradizioni cattoliche e di larga egemonia del centro-destra. In poche parole, la volontà di autodeterminazione individuale si afferma proprio grazie all’incontro tra diritti collettivi e diritti del soggetto, dal momento che “le due categorie hanno in comune la derivazione dal diritto al rispetto della dignità di tutte le persone” (Vladimiro Zagrebelsky, La Stampa, 8 marzo scorso); e quel bisogno di autodeterminazione si rivela tanto più forte quando sono in gioco concetti fondanti l’identità personale: il nascere e il morire, il dolore e la procreazione, il rapporto con il corpo e con la natura. Tutto questo, finora, non ha trovato una adeguata traduzione pubblica e politica per una ragione storica ben precisa: le forze del progresso, a partire da un secolo e mezzo fa, impegnavano tutte le energie e le risorse nella conquista dei diritti elementari negati alle grandi masse (dal salario all’istruzione) e su questo, innanzitutto, formavano la propria cultura e il proprio programma politico. Fu negli anni ‘70 del secolo scorso che si crearono le condizioni per una felice combinazione tra diritti civili e diritti sociali che produsse grandi risultati in entrambi i campi (dal nuovo diritto di famiglia all’obiezione di coscienza, dallo Statuto dei lavoratori all’abolizione dei manicomi). Ma nei decenni successivi si tornò a quella contrapposizione che non favorì né l’una né l’altra famiglia di diritti: il risultato è stato che nel periodo più recente si è registrato un notevole deficit delle garanzie collettive così come di quelle individuali. Per questo la mobilitazione intorno a quello che può apparire come un dettaglio burocratico-amministrativo (la trascrizione anagrafica dei figli delle coppie omogenitoriali) è così significativa simbolicamente e materialmente. In primo luogo perché afferma come, nelle società contemporanee, quella “sovranità su di sé e sul proprio corpo”, enunciata da John Stuart Mill oltre un secolo e mezzo fa, sia più che mai attuale; e sia vissuta come irrinunciabile. In secondo luogo perché le questioni all’ordine del giorno, dalla procreazione assistita alla gestazione per altri, dai matrimoni paritari alla transizione di genere, sono strettamente legate alle trasformazioni economico-sociali e culturali, alle nuove forme di lavoro e di impiego del tempo libero, all’organizzazione delle città e dei consumi, alle problematiche della demografia e dei flussi migratori. Altro che questioni “sovrastrutturali”, come ritiene una destra che ricorre agli stereotipi della più logora vulgata marxista. Altro che interessi “da Ztl”, secondo l’ultima scurrilità lessicale dei reazionari, che, poi, abitano tutti proprio nelle zone a traffico limitato. Siamo alle prese con questioni decisive per il futuro delle società sviluppate. Basti tenere presente che il tema dell’interruzione volontaria della gravidanza sarà cruciale per le prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti e ha già un qualche peso nella discussione pubblica italiana. L’anno prossimo sarà il sessantesimo anniversario della pubblicazione de L’uomo a una dimensione, di Herbert Marcuse. Il grande filosofo e sociologo tedesco non ha avuto il tempo di vedere come proprio in quegli anni stesse nascendo e formandosi la personalità umana “a più dimensioni”: quella (forse) più ricca e dotata di complessità di tutti i tempi. Maternità surrogata, senza una legge tutto è in mano ai giudici di Giulia Merlo Il Domani, 21 marzo 2023 Per l’ordinamento italiano la gestazione per altri è un reato. Ma in molti stati esteri è legale e, senza una legge sulla trascrizione dei certificati, i bimbi nati così hanno meno tutele. In alcuni paesi, come la Russia e l’Ucraina e alcuni stati degli Stati Uniti, è legalizzata sia in forma altruistica che retribuita. In altri, invece, è possibile solo in forma altruistica. Una coppia italiana può decidere di portare avanti la gpa all’estero e fa registrare nel paese dove è consentito l’atto di nascita del bambino con i nomi dei genitori “legali”. Ma, rientrando in Italia, deve ottenere la trascrizione all’anagrafe italiana. La cosiddetta maternità surrogata o gestazione per altri (Gpa) è una tecnica particolare di procreazione medicalmente assistita. Prevede che una donna porti avanti il parto per conto di una terza persona single oppure di una coppia, che poi saranno legalmente il genitore o i genitori del nascituro. Può avvenire in due modi: la donna può essere completamente esterna al concepimento, oppure può mettere a disposizione il suo ovulo e quindi essere madre biologica. Questo tipo di pratica è diffusa soprattutto tra coppie eterosessuali che non sono in grado di procreare naturalmente. Questo tipo di pratica è legale in molti stati del mondo. In alcuni, come la Russia e l’Ucraina e alcuni stati degli Stati Uniti, è legalizzata sia in forma altruistica che retribuita. Nella maggior parte dei paesi, invece, è possibile solo in forma altruistica e quindi senza un pagamento alla donna che porta avanti la gravidanza, ma solo il saldo delle spese mediche. È il caso tra gli altri di Regno Unito, Olanda, Danimarca, Grecia, Portogallo, Canada e India. Il reato - In Italia la gestazione per altri è vietata e punita penalmente: l’articolo 12 della legge 40, che disciplina la procreazione medicalmente assistita, prevede che “chi realizza, organizza o pubblicizza” la commercializzazione di gameti o la surrogazione di maternità è punito “con la reclusione da 3 mesi a 2 anni e la multa da 600mila a un milione di euro”. Questo orientamento è stato ribadito anche dalla Corte costituzionale in una sentenza del 2017, in cui si legge che la maternità surrogata offende “la dignità della donna”. Il reato, però, si configura solo se commesso entro i confini italiani. Per questo, una coppia italiana può decidere di portare avanti la Gpa all’estero e fa registrare nel paese dove è consentito l’atto di nascita del bambino con i nomi dei genitori “legali”. Poi, rientrando in Italia, ne chiede la trascrizione all’anagrafe italiana. Il problema sorge quando gli ufficiali di stato civile dei comuni rifiutano la trascrizione integrale del certificato di nascita ma si limitano a indicare il nome del genitore biologico. In questi casi, le famiglie devono procedere in via giudiziale, appellandosi ai giudici civili. Inoltre, alcune procure hanno aperto indagini nei confronti di coppie che avevano chiesto la trascrizione dell’atto di nascita estero, contestando il reato previsto dall’articolo 567 del codice penale, di alterazione dello stato civile del neonato “mediante false attestazioni”. La giurisprudenza della Cassazione ha stabilito che il reato in questi casi non si configuri perché il certificato si è formato correttamente nel paese in cui la Gpa è consentita. Tuttavia, la stessa Cassazione ha anche stabilito che qualsiasi riconoscimento di atto straniero vale solo se è esclusa la presenza di maternità surrogata. Altrimenti, la trascrizione del genitore non biologico è vietata perché la surrogazione della maternità è contraria all’ordine pubblico e questo impedisce all’atto di nascita estero di produrre effetti nel nostro ordinamento. L’assenza di una legge - Questo accade perché manca una legge che disciplini in modo chiaro la questione e la giurisprudenza non è univoca. Ad aprire nuovi spiragli è stata la Corte costituzionale con due sentenze del 2021, in cui afferma che è necessario in questi casi “tutelare l’interesse del minore al riconoscimento giuridico del legame con coloro che esercitano di fatto la responsabilità genitoriale”. Per prassi, tuttavia, la strada fino ad oggi adottata dalle coppie che non hanno ottenuto la trascrizione integrale del certificato è quella del ricorso all’adozione in casi particolari, prevista dall’articolo 44 della legge del 1983. Questa è la via privilegiata per le coppie eterosessuali, per quelle omogenitoriali invece è più complicato perché l’accesso del secondo genitore a questo tipo di adozione non è previsto dalla legge, ma solo dalla giurisprudenza. Inoltre, si tratta di un percorso che prevede controlli anche invasivi sull’idoneità genitoriale, con valutazioni affidate a psicologi e assistenti sociali. Proprio questa via, però, è stata indicata dalla Corte costituzionale come una tutela “insufficiente e inadeguata” e ha intimato al legislatore di trovare nuove soluzioni legali per tutelare questi bambini. Il risultato di questa carenza legislativa è che le famiglie possono fare affidamento solo sui giudici, con esiti diversi a seconda delle corti. Negli anni, si è formata una giurisprudenza progressista soprattutto nei tribunali di merito e sulla base di questo alcuni comuni - prima della presa di posizione del Viminale dei giorni scorsi - avevano iniziato ad effettuare le trascrizioni. Più restrittiva e orientata al diniego, invece, la Cassazione. I due casi più recenti riguardano due coppie pugliesi eterosessuali, sostenute dal team legale dell’associazione Luca Coscioni, che si erano viste rifiutare la trascrizione integrale del certificato di nascita dei loro figli nati con gpa in Ucraina. I legali la hanno ottenuta per via giudiziaria appellandosi alla legge 40, che stabilisce che “tutti i nati sono figli legittimi della coppia che ha usato le tecniche di procreazione medicalmente assistita”. “Peggio dei pedofili”. La destra vuole il carcere per i genitori gay di Andrea Carugati Il Manifesto, 21 marzo 2023 Da Fdi una legge per arrestare chi ricorre alla gpa all’estero. Zan: frasi abominevoli, Meloni prenda le distanze. Rampelli parla di “figli spacciati per propri”. Roccella di “mercato dei bambini”. “Punirli come i pedofili”, dice Mollicone, poi ritratta. Il ministro della Salute Schillaci: “Abbassare i toni”. Non bastano gli insulti omofobi contro le famiglie arcobaleno. La destra risponde alla piazza per i diritti di Milano con una accelerazione su una proposta di legge che punta a mettere in galera le coppie che utilizzano la maternità surrogata all’estero. Non solo dunque la destra non vuole che entrambi i genitori siano riconosciuti, ma ha deciso per la criminalizzazione paragonando le coppie che utilizzano la Gpa ai “pedofili”. Fratelli d’Italia ha deciso dunque di mandare avanti alcune delle sue proposte di legge più reazionarie. In particolare si tratta di una proposta di legge che modifica l’articolo 12 della legge 40 in materia di perseguibilità del reato di surrogazione di maternità commesso all’estero. Oggi alla Camera sarà chiesta la calendarizzazione in commissione Giustizia del testo a prima firma Carolina Varchi, che ricalca i contenuti di quella presentata dalla premier Giorgia Meloni nella scorsa legislatura. Una proposta analoga è stata presentata in Senato da Lucio Malan ed Isabella Rauti. “La pretesa degli “omogenitoriali” è privare il piccolo di uno dei genitori e poi imporgli ciò che non esiste: i “2 papà” o le “2 mamme”“, l’affondo di Malan. Il primo a dare il “là” alla crociata omofoba è stato Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera, subito dopo la manifestazione del 18 marzo a Milano per il diritto alla registrazione di entrambi i genitori delle coppie Lgbt stoppata dal Viminale. “Due persone omosessuali spacciano per loro il figlio che vogliono registrare all’anagafe”, ha detto, per poi fare gli auguri domenica a “coloro che, impossibilitati ad avere figli perché amano un altro uomo, tengono per sé il loro desiderio e non compiono scelte egoistiche a danno delle donne e dei bambini”. Poi è toccato alla ministra per la famiglia Roccella che ha parlato di “mercato dei bambini”. Ieri è toccato al presidente della commissione Cultura della Camera, Federico Mollicone, sempre di Fdi: “L’utero in affitto è un reato grave, più grave della pedofilia. Siamo di fronte a persone che vogliono scegliere un figlio come la tinta di casa”, ha detto su La7. Per poi fare retromarcia: “Sono reati giuridicamente non comparabili. Il mio pensiero è stato distorto. Ma ritengo che la maternità surrogata debba diventare un reato universale, da perseguire in tutto il mondo”. Le reazioni delle opposizioni non sono mancate. “C’è la volontà della destra di criminalizzare le famiglie arcobaleno e la comunità Lgbtqia+, una vera e propria campagna d’odio per inquinare il dibattito con fake news vergognose”, attacca Alessandro Zan del Pd. “Dalla destra frasi abominevoli da cui Giorgia Meloni deve prendere le distanze e che deve condannare. Strumentalizzano la gestazione per altri per negare ogni straccio di riconoscimento a più di 150mila bambini discriminati: il linguaggio d’odio che parte dalle istituzioni può avere effetti devastanti nella società”. “Da Mollicone parole gravissime che suscitano sdegno”, la reazione di Chiara Appendino del M5S. Riccardo Magi di +Europa ricorda la sentenza della Corte costituzionale del 2021 che ha ricordato come sia violato con le attuali norme il diritto dei bambini ad essere riconosciuti e ha invitato il Parlamento a provvedere. “Al governo e alla maggioranza non frega nulla di questi bambini: vogliono invece punire i genitori. E si sono inventati questa fesseria giuridica del reato universale sulla gestazione per altri”. Elisabetta Piccolotti di Sinistra italiana ricorda i paesi in cui la Gpa è consentita, dagli Usa al Regno Unito, Danimarca e Belgio. “Ne dobbiamo dedurre che il governo li considererà come stati canaglia e li denuncerà per violazione dei diritti umani?”. Nella maggioranza c’è anche qualcuno che tira il freno. “Sarei per placare i toni. Credo che affrontare problemi come questo con calma sia nell’interesse di tutti”, dice il ministro della salute Orazio Schillaci. E Giorgio Mulè di Fi: “Sediamoci intorno a un tavolo, discutiamo, ripartiamo dal ddl Zan. Prima però liberiamoci del pregiudizio per cui da un lato c’è chi è a favore dei diritti, dall’altro gli omofobi. Ma i figli di madri surrogate sono un delitto contro le donne”. Nel Pd il fronte cattolico frena. Enrico Borghi invita Schlein a non accelerare sulle proposte di legge a favore delle famiglie arcobaleno “prima di aver parlato con i gruppi parlamentari”. E Orlando: “Sulla gpa ho delle riserve, mi piacerebbe approfondire e confrontarmi. Il sindaco di Milano Sala spera che il Parlamento affronti il tema “evitando semplificazioni”. “La gpa non è un problema delle coppie omosessuali, anzi, statisticamente è più un problema delle coppie eterosessuali, però si sta buttando il tema addosso al mondo lgbtq”. Aperta la caccia ai genitori gay: “Imprigionateli” di Aldo Torchiaro e Filomena Gallo Il Riformista, 21 marzo 2023 Oggi potrebbero chiedere la calendarizzazione della proposta di legge per istituire il reato universale. Le opposizioni: oscurantisti, usano la gestazione per altri per criminalizzare i figli delle coppie gay. Il tema dei nuovi diritti - a partire da quello delle famiglie arcobaleno e monogenitoriali - è al centro dei primi interventi di Elly Schlein, prima alla Camera e poi sabato scorso, in piazza a Milano. Sulla scia dei temi sollevati da quella partecipata manifestazione Lucia Annunziata è sbottata, conducendo domenica la sua Mezz’ora in più: lo sfogo della sua esclamazione in diretta (“E che cazzo!”), davanti al muro di gomma della ministra della famiglia Eugenia Roccella, ha contribuito a evidenziare la distanza non solo tra posizioni politiche ma tra paese reale e paese legale. Le opposizioni, dal Pd ad Alleanza Verdi e Sinistra, al Movimento Cinquestelle, accusano la destra di oscurantismo. “La cosa che trovo disonesta sul piano politico e intellettuale è che la destra non ha il coraggio di dire le cose che pensa. E ho trovato disumano oltre che disonesto aver trasformato un dibattito che riguarda i diritti di migliaia di persone” in un dibattito “sull’utero in affitto e la maternità surrogata”, ha osservato Francesco Boccia, coordinatore della mozione Schlein. Ne è la riprova il tentativo di alzare i toni da parte di Federico Mollicone, deputato di Fdi, secondo il quale la maternità surrogata è un “reato più grave della pedofilia”. “La destra è da sempre contro il divorzio, l’aborto, le unioni civili. Ora per loro la Gpa (gestazione per altri, ndr) è peggio della pedofilia ed è da reato da codice penale. Una visione reazionaria del mondo. Da Fratelli d’Italia un attacco gravissimo sia ai figli che ai padri”, gli risponde il capogruppo dell’Alleanza Verdi e Sinistra Peppe De Cristofaro a Palazzo Madama. Rincara la dose il deputato Pd Alessandro Zan, che riepiloga il dibattito: “C’è la volontà della destra di criminalizzare le famiglie arcobaleno e la comunità Lgbtq+, una vera e propria campagna d’odio per inquinare il dibattito con fake news vergognose. Prima il vicepresidente della Camera Rampelli che ha accusato le coppie omosessuali di “spacciare bambini” e la ministra Roccella che ha parlato di “mercato”, ora il presidente della commissione Cultura di Montecitorio Mollicone che ha definito la maternità surrogata più grave della pedofilia, con un accostamento pericoloso e criminale. Frasi abominevoli da cui Giorgia Meloni deve prendere le distanze e che deve condannare”. Lo dice il deputato del Pd Alessandro Zan. “La gestazione per altri in Italia è vietata, la destra e il governo strumentalizzano questo tema per negare ogni straccio di riconoscimento a più di 150mila bambine e bambini che oggi sono discriminati e hanno meno diritti dei figli di Meloni e Salvini. Siamo di fronte a un linguaggio d’odio che parte dalle istituzioni e può avere effetti devastanti nella società”, aggiunge. Uguale accento da parte dei Dem che avevano sostenuto Bonaccini, come il sindaco di Firenze, Dario Nardella: “Dobbiamo guardare all’interesse dei bambini ad avere una famiglia che possa prendersi cura di loro, della loro educazione e del loro sostentamento. Se non li riconosciamo, danneggiamo i bambini più che i loro genitori. Altra cosa - precisa - è la maternità surrogata che è vietata in Italia. E ci mancherebbe, sono contrario a pagare delle donne con la maternità surrogata”. Sulla stessa lunghezza d’onda è Andrea Orlando: “Quelle di Rampelli sono dichiarazioni incommentabili”, dice. E sulla gestazione per altri si dice perplesso: “C’è una discussione aperta, su questo ho delle riserve, mi piacerebbe approfondire e confrontarmi. Non si possono dare risposte perentorie su temi così complessi”. Ma al centrodestra questa bandiera serve. Fa gola. E così, a quanto si apprende, Fratelli d’Italia sarebbe decisa a chiedere già oggi la calendarizzazione, nella commissione Giustizia di Montecitorio, della proposta di legge di modifica dell’articolo 12 della legge 19 febbraio 2004, numero 40, in materia di perseguibilità del reato di surroga di maternità commesso all’estero. Il provvedimento, presentato lo scorso mese di febbraio dalla deputata di Fdi Carolina Varchi, consta di un solo articolo e prevede che “le pene stabilite dal presente comma si applicano anche se il fatto è commesso all’estero”. Un reato molto difficile da rilevare, date le diverse legislature vigenti nel mondo, ma utilissimo per lanciare una nuova crociata. I migranti e l’Europa più unita di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 21 marzo 2023 Non si sa se la democrazia su scala continentale possa funzionare, finora il Parlamento europeo non ha dato grandi prove Fine dello Stato nazionale? C’è una ragione a favore dell’integrazione europea a cui i suoi sostenitori non avevano fin qui pensato. Si è sempre detto che l’unificazione è giustificata dal fatto che gli Stati nazionali europei non hanno più la taglia per fronteggiare i problemi che incombono. Ma forse c’è un’altra e più importante ragione a favore dell’unificazione: la probabile fine, nel giro di pochi decenni, degli Stati nazionali europei. È una questione collegata ai flussi migratori. Le proiezioni demografiche lasciano pochi dubbi. Al miliardo e mezzo di persone che popola oggi l’Africa potrebbe aggiungersene un altro miliardo nel giro di un ventennio. Fosse pure questa una valutazione sbagliata per eccesso, la crescita demografica africana (ma anche del Medioriente) metterà in moto milioni di persone. Come è sempre accaduto, quei milioni si sposteranno dalle aree della povertà verso i territori ove si concentra la ricchezza. Se i demografi non si sbagliano, quelli che arrivano ora sulle nostre coste e si sparpagliano nel Vecchio Continente sono le avanguardie. I conflitti nostrani fra destra e sinistra sulla questione dell’immigrazione sembrano oscurare, agli occhi dell’opinione pubblica, il fenomeno. Né la politica dei porti chiusi, né il (chimerico?) “governo dei flussi” auspicato dalla destra, né la politica dell’accoglienza perorata dalla sinistra e dalla Chiesa, sembrano risposte all’altezza della sfida. Chi sarà in grado di governare una pressione migratoria che si annuncia così imponente? Ciò che dobbiamo mettere in conto è che, in capo a pochi decenni, plausibilmente, la faccia dell’Europa cambierà radicalmente, crescerà sensibilmente la presenza di gruppi con altre lingue, altri costumi, altre tradizioni. Gli Stati nazionali (nati in Europa) verranno sostituiti progressivamente da Stati multi-etnici nei quali una etnia dominante ma in declino dovrà stabilmente confrontarsi con etnie di minoranza ma in crescita. Un processo lento e regolare di immissione di nuovi arrivati potrebbe essere governato: gli immigrati potrebbero essere assimilati. Ma un processo rapido e massiccio come quello che si annuncia non è controllabile. In breve tempo culture assai differenti si troveranno a convivere in uno stesso territorio. L’omogeneità culturale verrà sostituita dall’eterogeneità. Con inevitabili conflitti: non solo fra membri dell’etnia dominante e nuovi arrivati ma anche fra i diversi gruppi di immigrati (culturalmente diversi fra loro). È facile profezia dire che sarà la scuola la prima ad essere investita, ovunque in Europa, dalle tensioni e dai conflitti che sorgono nella transizione verso la multi-etnicità. Come è noto, la Francia sta già facendo da battistrada. Con i suoi professori nella veste di parafulmini di fronte a comunità (nel caso specifico, islamiche) ostili ai tradizionali valori repubblicani francesi. Oltre a ciò, nei prossimi anni crescerà sempre più il numero di politici eletti, figure istituzionali, membri delle professioni, eccetera, espressi dalle minoranze. A poco a poco una nuova Europa andrà a sommarsi in modo sempre più visibile alla vecchia. Con problemi crescenti, di cui ci sono già mille segnali, dovuti alla montante eterogeneità culturale. Le dinamiche elettorali, le strategie dei partiti, le agende dei governi e delle opposizioni ne verranno condizionate. Checché se ne pensi lo Stato nazionale non è una costruzione antica. Anche se alcune nazioni sono molto più vecchie, lo Stato nazionale si afferma quando il principio di nazionalità si diffonde in Europa dopo la rivoluzione francese, nel corso dell’Ottocento. Come tutte le cose umane è destinato a finire. Fino a poco tempo addietro non si immaginava una fine imminente. Una rapida transizione alla multi-etnicità, se non si trovano soluzioni adeguate, mette a rischio la convivenza civile. E minaccia la tenuta dei regimi democratici. Ma se il passaggio alla multi-etnicità non è governabile entro i singoli Stati può esserlo, o così si spera, su scala sovranazionale, europea. Tra i molti argomenti usati dai critici dell’integrazione europea solo due, a giudizio di chi scrive, hanno sempre avuto un certo valore. Il primo è l’argomento di chi dice che un tratto qualificante della civiltà europea (e che la distingue, ad esempio, da quella cinese) è la divisione, la disunità. Sostituite la divisione con l’unità e la civiltà europea perderà un aspetto essenziale della sua storica identità. Il secondo argomento è che è difficilmente immaginabile una democrazia ben funzionante a livello continentale senza nemmeno il beneficio di una lingua comune (la Svizzera è troppo piccola per essere un modello rilevante). Entrambi gli argomenti perdono valore però se gli Stati europei si trovano di fronte a sfide non più gestibili dai loro governi. La pressione minacciosa delle grandi potenze autoritarie è una di esse. Ma un’altra potrebbe essere presto rappresentata dalla crescente ingovernabilità di società a lungo nazionalmente omogenee. Allargare l’arena entro cui si definiscono i rapporti fra vecchia e nuova Europa e spostare verso l’alto il luogo ove si prendono le decisioni sulle regole di convivenza necessarie per governare l’aumentata eterogeneità culturale possono diluire le tensioni e disinnescare i conflitti meglio di quanto potrebbero fare i governi dei singoli Stati europei. C’è, purtroppo, un problema quando si perora un corso di azione e se ne difende la razionalità. Il fatto che sia razionale rafforzare l’unità europea a causa della fine imminente degli Stati nazionali non garantisce affatto che quella strada verrà imboccata. Le resistenze sono e saranno potentissime. La principale delle quali, come è noto, è che se i governi cedono potere decisionale a una istanza superiore (europea) si privano di strumenti preziosi, necessari nella competizione politica interna. Non sappiamo se una democrazia su scala continentale possa funzionare. Fin qui l’istituzione elettiva europea, ossia il Parlamento, non ha dato grandi prove, non è un precedente brillante. Ma il suo ruolo potrebbe cambiare in un diverso contesto, in presenza di un governo europeo legittimato dal voto popolare. Quanto detto, ovviamente, non riguarda la politica qui ed ora. È soltanto un monito. A futura memoria. L’idea è che, quando si parla di migrazioni, bisognerebbe evitare di concentrare l’attenzione solo sul dito. Prima o poi bisognerà guardare anche la luna. Luigi Ferrajoli: “Guerra, Abu Ghraib, Guantanamo. Così muore la civiltà del diritto” di Giansandro Merli Il Manifesto, 21 marzo 2023 Hanno fatto un deserto. Vent’anni fa Stati Uniti e alleati commisero l’errore di rispondere con un’azione bellica a un atto di terrorismo, riflette il giurista. Oggi che la guerra è tornata nel cuore dell’Europa e la minaccia nucleare è stata normalizzata è sempre più urgente una Costituzione della terra per la pace, il disarmo, la protezione dei beni naturali e artificiali, il contrasto al cambiamento climatico. “Il futuro della democrazia e la sopravvivenza stessa dell’umanità sono minacciate da quello che Eisenhower chiamava apparato militare-industriale - afferma Ferrajoli - La guerra è naturale, la pace è artificiale e va istituita. Bisogna abolire gli eserciti e le armi. Il monopolio pubblico della forza non ha bisogno di carri armati o bombe” “Ci comportiamo come se fossimo l’ultima generazione che vivrà sul pianeta. Occorre fare un salto di civiltà, verso la Costituzione della terra”. Nella sua casa a due passi dall’università La Sapienza, a Roma, Luigi Ferrajoli parla circondato dai libri. Una cinquantina li ha scritti lui. Discute con il manifesto tra un’intervista che sarà trasmessa in Mali e la preparazione di un viaggio che lo porterà in Messico e poi a Cuba. Ha 82 anni e guarda al mondo con una solida convinzione: l’unica ipotesi realistica e razionale è invertire completamente la rotta. Serve una Costituzione della terra che garantisca i diritti fondamentali e limiti la foga distruttrice di Stati nazionali e mercati selvaggi. È l’unico modo per assicurare la pace e scongiurare la distruzione nucleare. Vent’anni fa aveva già descritto la serie di problemi che lo avrebbero portato a questa conclusione in un articolo pubblicato sulla rivista del Manifesto. Il titolo era “Strage preventiva”, mancavano due mesi all’invasione statunitense dell’Iraq. Scrisse che “l’effetto più grave della guerra, oltre le vittime e le devastazioni, è il crollo del diritto internazionale”. Com’è andata? La guerra contro l’Iraq è avvenuta sulla scia della strage delle Torri Gemelle. La cosa più irresponsabile è stata considerare un atto di guerra quello che era stato un atto criminale e terroristico. È servito a legittimare una risposta che ha avuto come vittime principali persone innocenti. Non si va a bombardare un paese, prima l’Afghanistan e poi l’Iraq, per reagire al terrorismo. Contro un atto terroristico si devono usare le regole del diritto penale, investigando, trovando i responsabili. Ovviamente è una risposta molto più difficile e meno demagogica. Ma è l’unica razionale. Viceversa con la risposta militare abbiamo fatto divampare il terrorismo e la logica del nemico. Paradossalmente dopo la fine dell’Urss e della guerra fredda i pericoli bellici sono aumentati. Anziché il disarmo e lo scioglimento delle alleanze militari, che non servono a niente, si è avviata una corsa al riarmo. Non credo sia secondario il ruolo di quello che Eisenhower chiamava l’apparato militare-industriale. Alla fine del suo mandato il presidente Usa, che da generale fu vincitore della seconda guerra mondiale e primo comandante in capo della Nato, disse che il futuro della democrazia nel mondo era minacciato dall’apparato militare-industriale. Non bisogna dimenticarlo oggi che la guerra è tornata a essere normale. Nello stesso ciclo bellico, dopo l’attacco all’Afghanistan, gli Usa di Bush introdussero il Patriot act e aprirono Guantanamo. Misure emergenziali diventate ordinarie... Il Patriot Act è un testo vergognoso perché prevede sanzioni disumane e gravissime senza regolare processo e rispetto delle garanzie. Nei confronti del terrorismo la risposta più efficace è quella asimmetrica. La grande forza delle istituzioni è l’asimmetria tra l’inciviltà del crimine e la civiltà del diritto. Altrimenti si abbassano al livello della criminalità o alzano la criminalità al livello delle istituzioni. E così hanno già perso. Non penso solo a Guantanamo, ma anche ad Abu Ghraib e ai bombardamenti dei civili. Queste operazioni fanno il gioco del terrorismo. Attivare la logica del nemico come fattore di coesione sociale intorno ai governi bellicisti è sempre estremamente pericoloso. Lo vediamo anche oggi: qualunque dubbio viene stigmatizzato come filo-putinismo. È il segno del clima bellicista che assume la logica del nemico come logica propria della politica. Così si fa il gioco di chi vuole le guerre. Il parlamento italiano ha votato l’invio di armi all’Ucraina sostenendo che l’art. 11 della Costituzione non vale per il sostegno a un popolo che si difende. Nemmeno in occasione della guerra d’aggressione all’Iraq, però, quella norma impedì la partecipazione alla “coalizione dei volenterosi” e all’occupazione del paese. Perché? È il segno della debolezza del nostro ceto politico e della nostra Costituzione, purtroppo. La Costituzione è tramontata dall’orizzonte della politica. Il rifiuto della guerra fu pensato dai costituenti come la forma più drastica e radicale di impegno pacifista. Viceversa l’azione dei governanti si caratterizza per irresponsabilità e demagogia. Questo atteggiamento aprioristicamente filo-atlantico non è altro che un segno di demagogia. È chiaro che bisogna essere solidali con l’Ucraina aggredita, ma bisogna anche trovare una soluzione. Nell’interesse stesso dell’Ucraina. O vogliamo che sia devastata fino all’ultimo abitante? Solidarizzare con l’Ucraina significa affiancarla in una trattativa di pace. Non lasciarla sola di fronte a Putin. Per esempio sostenere un’assemblea generale dell’Onu riunita in seduta permanente fino a quando trovi una soluzione. Incluso l’ingresso della Russia nella Nato. Lo dico in maniera provocatoria, ma l’obiettivo dovrebbe essere ricostituire le condizioni della pace, rifondare l’Onu e rispondere al problema delle armi. Siamo dotati di 15mila testate nucleari quando ne bastano 50 per distruggere l’umanità. È una questione di sopravvivenza. Nel 2003 l’Onu non riuscì a impedire la guerra, stavolta non riesce a farla finire. Cosa non funziona? La carta dell’Onu e le tante carte dei diritti sono fallite e si sono trasformate in pura retorica perché non sono dotate di tecniche e istituzioni di garanzia. Per questo occorre un salto di civiltà, con la Costituzione della terra o con più trattati su pace, riscaldamento climatico, disuguaglianze, salute, su un demanio pubblico globale a tutela dei beni naturali e artificiali. Ci stiamo comportando come se fossimo l’ultima generazione che vive sul pianeta. La catastrofe è già in atto. Abbiamo poco tempo. Nel libro “Per una costituzione della terra” descrive la guerra come un “crimine di sistema”. Di che si tratta? Nello statuto della Corte penale internazionale la guerra d’aggressione è prevista come un crimine. Però produzione di armamenti, riscaldamento climatico, accumulazione di armi nucleari, crescita delle disuguaglianze, mancata attuazione dei diritti fondamentali non sono fenomeni che possono essere affrontati con il diritto penale. Dobbiamo emanciparci dalla tesi secondo cui tutto quello che non è trattabile penalmente è permesso. È l’odierna banalizzazione del male, che ci sta portando al disastro. Perché ci impedisce di leggere questi fenomeni come crimini, evitabili e dovuti alle inadempienze della politica. Anche se, bisogna dirlo, non è il problema di questo o quel governo. Nessuno Stato da solo è in grado di affrontare tali problemi. L’unica possibilità è mettersi insieme e rifondare il patto di convivenza. Sembra un’utopia, ma in realtà è l’unica ipotesi realistica. Altrimenti arriverà la catastrofe. Questa rivoluzione non è contro qualcuno - la borghesia, l’aristocrazia - ma nell’interesse di tutti. Anche per i ricchi e i potenti questo è l’unico pianeta a disposizione. Intanto Putin è stato incriminato dalla Corte dell’Aja... Russia, Usa, Cina, Israele e tutti gli Stati più potenti non hanno sottoscritto lo statuto della Corte penale internazionale. Quindi questa incriminazione è giuridicamente infondata. Non è possibile processare Putin. Considero Putin un criminale, ma questa iniziativa serve solo a buttare benzina sul fuoco. E segnala una non volontà di arrivare alla pace, di rifiutare qualsiasi tentativo di negoziato. Sembra che questa guerra non debba finire mai, ma ciò significa mettere in conto la sua degenerazione nucleare. Il solo fatto di prendere in considerazione questa possibilità è una follia, ma mostra dove siamo arrivati. Citando Kant lei scrive che “la guerra è naturale, mentre la pace è artificiale e dunque va istituita”. Quali istituzioni globali di garanzia servirebbero ad attuarla? Kant scrive che la guerra è un fenomeno naturale mentre è artificiale la costruzione della convivenza pacifica sulla base di un patto di non aggressione che deve essere istituito e non sottoscritto. Anche la democrazia è artificiale. È naturale la legge del più forte, sono artificiali quelle leggi dei più deboli chiamate diritti fondamentali. Invocare la natura è sempre reazionario. Per garantire la pace bisogna abolire gli eserciti e le armi sotto l’egida dell’assemblea generale dell’Onu. Il monopolio pubblico della forza non ha bisogno di carri armati, aerei, bombe atomiche. L’abolizione delle armi è anche la principale garanzia della vita contro la criminalità. La maggior parte dei circa 480mila omicidi che avvengono ogni anno sono concentrati nei paesi dove le armi da fuoco sono più diffuse. Russia. “Con il mandato d’arresto del tribunale internazionale Putin sarà leader dimezzato” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 21 marzo 2023 “Il trasferimento di individui viene considerato un comportamento che lede un bene giuridico, cioè il diritto delle popolazioni civili a continuare a vivere all’interno della propria comunità”. Parte da questo ragionamento Giuseppe Paccione, esperto in diritto internazionale e capo redattore dell’Osservatorio di politica internazionale PrPChannel, nell’analizzare l’iniziativa della Camera preliminare II della Corte penale internazionale, che il 17 marzo scorso ha emesso i mandati di arresto per Vladimir Putin e Maria Lvova- Belova. L’accusa nei confronti del presidente russo e della commissaria per i diritti dei bambini è gravissima: deportazione illegale di bambini e trasferimento illegale dalle zone occupate dell’Ucraina alla Russia. Dottor Paccione, nei mesi scorsi abbiamo parlato della possibilità di un processo a carico del presidente russo Vladimir Putin. Pochi giorni fa il mandato di arresto della Cpi. Il cerchio si stringe? È una possibilità, direi, abbastanza concreta. Ha come fine quello di perseguire penalmente il principale responsabile di una guerra assurda contro un paese sovrano e indipendente. Non a caso da un anno si sta delineando un “Tribunale speciale ad hoc” contro Putin e contro tutti coloro che hanno dato avvio all’aggressione ai danni dell’Ucraina. Ma nell’intervento della Camera preliminare II della Corte penale internazionale, che ha accolto la richiesta del Procuratore di emettere un mandato di cattura internazionale nei riguardi di Vladimir Putin e Maria Lvova- Belova, si parla di soli crimini di guerra che rientrano nella competenza della Cpi, poiché la sua giurisdizione è limitata ai crimini più gravi che possono allarmare l’intera comunità internazionale. A questo punto la libertà di movimento di Putin diventa sempre più limitata. La dichiarazione del presidente della Cpi, Piotr Hofmanski, è entrata nella storia? Le parole di Hofmanski vanno ascoltate con attenzione. Il presidente della Cpi ha dichiarato che il mandato di arresto è stato emesso per crimini di guerra contro le uniche persone di Vladimir Putin e di Maria Lvova- Belova, commissario per i diritti dei bambini presso l’Ufficio del Presidente della Federazione Russa. Hofmanski fa riferimento al tema delle deportazioni, trasferimenti, detenzioni illegali dalle zone occupate dell’Ucraina alla Russia di bambini ucraini, ricordando che il trasferimento, diretto o indiretto, ad opera della potenza occupante di parti della sua popolazione civile, in questo caso di cittadini ucraini, nei territori occupati al di fuori del territorio ucraino viene reputato illecito. Una condotta illecita rientrante nella sfera del crimine di guerra, sancito dallo Statuto di Roma, che, a sua volta, è disciplinato anche dalle quattro Convenzione di Ginevra in merito al trasferimento forzato e alla deportazione di persone. Il trasferimento forzato di persone è vietato qualunque ne sia la ragione, come pure la deportazione, che viene a configurarsi come il movimento non volontario di individui costretti a lasciare la loro residenza abituale. Mosca ostenta sicurezza e disprezzo verso l’azione giudiziaria della Corte penale internazionale. È giustificabile questo atteggiamento? Deriva dalla mancata adesione da parte della Russia allo Statuto di Roma? Anche se Mosca ha considerato tale mandato come una “ricetta” de jure nulla, la sua condotta non la esclude dalla responsabilità di aver violato il diritto internazionale con l’atto di aggressione, vietato dalla stessa Carta della Nazioni Unite, ma anche l’aver violato altri strumenti internazionali che concernono il conflitto internazionale armato. Mi riferisco alle quattro Convenzioni di Ginevra e ai due Protocolli addizionali. È vero che la Russia non ha stipulato e ratificato lo Statuto di Roma, tuttavia ciò non la esime dall’obbligo di rispettare la sovranità, l’indipendenza politica e l’integrità territoriale dell’Ucraina. Vige anche per la stessa Russia l’applicazione della regola “pacta sunt servanda”, enunciato nella Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati del 1969. Teoricamente e tecnicamente chi potrebbe consegnare Putin alla Corte penale internazionale? Su questo punto va precisato che Putin potrebbe essere arrestato e tradotto dinanzi ai giudici penali internazionali dell’Aia nel caso in cui viaggiasse in uno degli Stati membri della Corte stessa. Ergo, il mandato d’arresto internazionale ha una sua limitazione e validità solo per quei paesi che hanno ratificato lo Statuto di Roma. Ad esempio, se mettesse piede sul nostro territorio, le autorità italiane avranno il dovere di trarlo in arresto e consegnarlo ai giudici dell’Aia, poiché l’Italia ha ratificato lo Statuto di Roma. Cosa potrebbe cambiare sul versante della guerra in Ucraina con questo mandato di arresto? Per ora nulla, per la semplice ragione che le parti in conflitto attualmente sono concentrate l’una a respingere l’occupante, l’altra a non cedere. Tuttavia, il mandato di arresto internazionale resta e potrebbe avere un tempo indeterminato. Si sa che, ormai, Putin è considerato un criminale di guerra e come tale il mandato di cattura resta con il suo “fumus persecutionis”. La presenza di Putin, ad esempio, nella città di Mariupol e in Crimea è stato un forte segnale che egli ha voluto lanciare alla comunità internazionale, alla Cpi e, infine, al governo ucraino per dimostrare la sua non intenzione di tirarsi indietro nel restituire quei lembi territoriali che ha occupato manu militari. Territori che reputa ormai parti integranti della Russia. Spagna. Tutte le “banche armate” che finanziano i controlli di frontiera di Marco Santopadre Il Manifesto, 21 marzo 2023 Sono 44 e hanno investito 13,5 miliardi di euro in tre anni. “Sostengono la militarizzazione della società”, denuncia il Centre Delàs d’Estudis per la Pau di Barcellona. La militarizzazione delle frontiere rappresenta un grande affare e quella del Mediterraneo non fa eccezione, come rivela uno studio pubblicato dal “Centre Delàs d’Estudis per la Pau” di Barcellona. L’istituto di ricerca rivela che, negli ultimi tre anni, 44 entità bancarie operanti in Spagna hanno investito 13,5 miliardi di euro per finanziare le imprese del comparto bellico alle quali i governi europei affidano la blindatura delle frontiere meridionali e orientali del Mare Nostrum. In cima alla lista delle “banche armate” spagnole figurano i due maggiori gruppi del paese, il Bbva e il Banco Santander, che dal 2020 al 2022 hanno investito rispettivamente 4,7 e 4,5 miliardi. Seguono, a notevole distanza, le catalane CaixaBank e Banco Sabadell con finanziamenti per 171 e 90 milioni. Alle imprese i soldi arrivano sotto forma di crediti o prestiti, oppure attraverso l’acquisto di azioni e obbligazioni dagli istituti finanziari. A chi sono andati questi ingenti fondi? Soprattutto al consorzio europeo Airbus, specializzato nella fabbricazione di aerei e missili, che si è accaparrato ben 5,3 miliardi di euro, seguita da Boeing con 3,5 miliardi. “Airbus è uno dei fornitori principali di velivoli che servono a pattugliare le frontiere terrestri e marittime dell’Europa” sottolinea il centro di ricerca. Aerei ed elicotteri realizzati dal consorzio in collaborazione con altre imprese - come l’italiana Leonardo - sono stati utilizzati per operazioni come la Poseidón in Grecia, a causa della quale l’ex direttore dell’agenzia europea Frontex, Fabrice Leggeri, si è dovuto dimettere l’anno scorso per alcuni casi di respingimenti illegali. Naturalmente, spiega il rapporto, a beneficiare degli investimenti delle banche spagnole ci sono anche imprese locali, come Eulen, che ha ricevuto numerosi appalti per gestire i Centri di permanenza temporanea dei migranti (Ceti) di Ceuta e Melilla, le enclavi di Madrid nel nord del Marocco, all’interno dei quali, secondo varie testimonianze e denunce di internati e Ong, si commettono sistematiche violazioni dei diritti umani. Ancora più grave il caso di Indra, il cui azionista di maggioranza è il ministero delle Finanze di Madrid, che ha ricevuto circa 43 milioni. Indra è tra le imprese che si è aggiudicata la maggior parte degli appalti per l’installazione di barriere e sistemi di videosorveglianza che il governo Sánchez ha commissionato per blindare la propria frontiera meridionale. Per scavalcare o aggirare a nuoto quelle barriere alte parecchi metri, corredate di fossati e difese con violenza dai gendarmi marocchini e spagnoli, negli ultimi anni sono morti decine di disperati provenienti da tutta l’Africa nord-occidentale. Indra coordina anche il progetto “Perseus”, al quale partecipano anche Airbus e Boeing, finanziato con 47 milioni per rafforzare il sistema di vigilanza denominato Eurosur, e ha sviluppato il programma Sea Horse Network, una rete Ue di vigilanza in Mauritania, Marocco, Capo Verde e Senegal che si occupa del monitoraggio e dello scambio di informazioni con le autorità locali al fine di bloccare le partenze dei migranti verso nord. “È fondamentale smettere di essere clienti di banche, assicurazioni e istituzioni finanziarie che sostengono le imprese che alimentano la militarizzazione delle nostre società e delle frontiere” spiega Edu Aragón, tra gli autori del rapporto.