Bonus alle ditte che assumono detenuti. Ostellari: “Serve a non farli tornare a delinquere” di Andrea Bulleri Il Messaggero, 20 marzo 2023 Il sottosegretario alla Giustizia: “Sgravi e incentivi per chi fa lavorare chi è in cella. Tra quanti imparano un mestiere, soltanto il 2% ritorna a delinquere”. Per grandi fabbriche e piccole imprese sarà più conveniente assumere detenuti. È questo il piano a cui si lavora a via Arenula, sede del ministero della Giustizia: un “maxi-sconto” per chi decide di far lavorare alle proprie dipendenze coloro che oggi stanno scontando una pena detentiva. Con vantaggi sia per i carcerati, “che così imparano un mestiere”, sia per lo Stato, perché “chi riesce a professionalizzarsi ha molta meno probabilità di tornare a delinquere una volta libero”. Ne è convinto Andrea Ostellari, sottosegretario leghista alla Giustizia con delega al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Che anticipa al Messaggero un progetto affinché la “rieducazione” dei detenuti non resti lettera morta, “diversamente da chi finora ne ha soltanto parlato”. Sottosegretario, come mai con tanti giovani che non trovano un impiego, la priorità è mettere al lavoro i detenuti? “Perché più lavoro in carcere significa meno criminalità. Le statistiche lo dimostrano: in sei casi su dieci, chi oggi si trova in un penitenziario c’era già stato almeno una volta. Invece, chi durante la detenzione aderisce a un programma di recupero che contempli l’attività lavorativa, ha solo il 2 per cento di probabilità di ricominciare a delinquere, una volta fuori”. Programmi del genere esistono già oggi, ma sono poco sfruttati. Come si inverte la rotta? “La stragrande maggioranza dei detenuti coinvolti in attività lavorative attualmente è impiegato direttamente dall’amministrazione penitenziaria. Noi intendiamo coinvolgere le imprese. Per questo abbiamo già avviato un confronto con il Cnel, associazioni e fondazioni molto interessate al progetto. Nelle prossime settimane al ministero, attraverso la direzione generale per il trattamento dei detenuti del Dap, partirà una cabina di regia con tutti gli attori coinvolti, col compito di raccogliere proposte ed elaborare la bozza di un provvedimento”. Ma le imprese che convenienza avrebbero, ad assumere detenuti? “Finora sono poche le aziende che hanno portato lavoro nelle carceri, pur se con risultati soddisfacenti. Noi invece puntiamo a rendere ancora più semplice investire in questo senso, con meno burocrazia e incentivi fiscali e contributivi simili a quelli previsti per le cooperative sociali”. E come? “Già oggi la legge prevede uno “sconto” fino a 520 euro sull’Irpef se il contratto di lavoro viene stipulato con un detenuto, oltre a un taglio del 95% dei contributi dovuti all’Inps. Una buona base di partenza che si può migliorare: i maggiori benefici, fino a questo momento, sono andati al Terzo settore. Il nostro obiettivo è ampliare ulteriormente questo ventaglio di opportunità anche per i privati. Sarà la cabina di regia a definire nel dettaglio i nuovi sgravi”. E le risorse? Quanto costerà questa operazione? “Anche questo sarà oggetto di esame. Ma ricordiamoci che oggi ogni detenuto costa 138 euro al giorno. In questo modo invece, il detenuto avrà un suo stipendio, sul quale pagherà le tasse. Dunque un beneficio per lui, per l’azienda che lo assume e anche per lo Stato, perché se chi esce non torna a delinquere, si genera un risparmio sul fronte sicurezza”. Diranno che è uno “svuota-carceri” mascherato... “Nessuno svuota-carceri, né indulto. Quel tempo è finito: chi viene rimesso in libertà senza aver imparato nulla rischia di tornare nel circuito criminale. Le attività lavorative, in base a questo piano, per chi non si trova in semi-libertà sarebbero portate avanti all’interno delle stesse strutture carcerarie. In molti penitenziari, esistono già spazi adeguati”. E dove gli spazi non ci sono? “Per prima cosa, va fatta una verifica nazionale di tutti gli istituti in grado di ospitare attività lavorative. L’idea è quella di adibire a questo fine spazi demaniali in disuso. Un esempio concreto: una vecchia caserma abbandonata accanto al carcere di Arezzo. Prima andrà fatta una mappatura delle strutture, poi potranno essere recuperate. Anche con la collaborazione dei privati”. Non sarà un impegno troppo oneroso, per le imprese? “No, perché saprebbero di avere un ritorno economico e fiscale da questa operazione”. Il suo collega Andrea Delmastro, invece, propone di far scontare la pena ai detenuti tossicodipendenti in comunità. Condivide? “Serve attenzione. La tossicodipendenza non diventi una scappatoia per uscire dal carcere. Il nostro ordinamento, in questi casi, già prevede misure alternative come l’affidamento in prova in comunità: si tratta di applicarle, evitando che spacciatori comuni si dichiarino assuntori solo per convenienza”. Riforma della giustizia: quando arriverà? E quali saranno i punti salienti? “Il nostro obiettivo è presentare un pacchetto di provvedimenti entro l’estate. Si comincerà dalla cosiddetta paura della firma, a partire da un intervento sul reato di abuso d’ufficio”. Sarà eliminato? “Eliminarlo o modificarlo, poco importa. Quel che conta è che sindaci e amministratori devono poter lavorare in tranquillità. E che si sblocchi la paralisi di molte pubbliche amministrazioni”. E le intercettazioni? “Faranno parte del pacchetto, così come un intervento sul segreto istruttorio, che deve restare tale fino all’inizio del procedimento. Voglio essere chiaro: le intercettazioni vanno mantenute, anche per reati come la corruzione. Ma devono essere intese come strumento di ricerca della prova, non come prove esse stesse. O peggio, come strumenti mediatici”. Servono nuove sanzioni per chi le diffonde? “Non credo siano necessarie nuove sanzioni per i giornalisti. Piuttosto, concentriamoci sul rendere lo strumento più utile per chi indaga. E per farlo utilizzare correttamente”. Solo un recluso su tre ha un lavoro, ma quasi nessuno nelle aziende private di Andrea Bulleri Il Messaggero, 20 marzo 2023 Chi lavora, non delinque. O almeno, ha molte meno probabilità di tornare a farlo, una volta rimesso in libertà. A dirlo sono i numeri: secondo le statistiche in mano al ministero della Giustizia, soltanto due detenuti su cento tra quelli che in carcere hanno beneficiato di un contratto di lavoro (quasi sempre siglato con la stessa amministrazione penitenziaria) tornano a commettere crimini, dopo aver finito di scontare la loro pena. Una percentuale che schizza intorno al 60% per chi invece non ha goduto di questa possibilità. Il motivo, secondo molte delle associazioni che si occupano di diritti dei detenuti, è banale: chi torna libero senza aver imparato un mestiere, spesso non ha altra alternativa se non quella di riprendere le vecchie abitudini. Un po’ perché in anni di inattività non ha acquisito nessuna competenza o interesse specifico, un po’ perché sono poche le aziende possono permettersi il rischio di assumere qualcuno senza un curriculum adeguato. Chi invece in carcere ha Imparato un mestiere (dalla calzoleria al tessile, dall’idraulica alla dematerializzazione dei documenti fino alla panificazione, per citare quelli più diffusi) riesce a spendere quelle capacità sul mercato del lavoro. Tanto più se ad assumerlo è stata fin da subito un’impresa privata, che al termine della pena può essere interessata a proseguire il rapporto lavorativo nato in carcere. Ma nonostante dal 2000 esista una legge (la legge Smuraglia, dal nome dell’ex senatore e presidente Anpi Carlo Smuraglia) che già prevede una serie di benefici per le imprese che scelgono di arruolare carcerati tra i propri dipendenti - dentro o fuori le mura dei penitenziari - attualmente sono in pochi a sfruttarla. I dati parlano chiaro: su oltre 56mila persone attualmente detenute nelle carceri italiane, la quota di chi ha firmato un contratto di lavoro si ferma intorno ai 17mila. Meno di un terzo, insomma. E quasi tutti, circa 16mila, risultano alle dipendenze della stessa amministrazione penitenziaria. Soltanto 719 detenuti, al 31 gennaio di quest’anno, erano impiegati da una società cooperativa. Ancora meno quelli che avevano un contratto con un’azienda privata: 250. I motivi di un così debole “appeal” possono essere vari, secondo gli addetti ai lavori. Scarsa conoscenza da parte delle imprese di questa possibilità, scarso interesse a investire tempo e risorse in formazione a fronte di vantaggi non sempre chiari. E poi c’è il capitolo burocrazia: la legge, infatti. prevede che sia la singola azienda interessata a portare attività lavorative nel penitenziario a stipulare un’apposita convenzione con la direzione dell’istituto. Presentando una dichiarazione dl interesse e poi siglando un accordo. Una strada tortuosa, insomma, che il governo intende semplificare. I numeri sulle detenzioni, del resto, hanno fatto scattare il campanello d’allarme a via Arenula. Dove si è deciso di correre ai ripari. A preoccupare, però non sono solo i dati della popolazione carceraria (comunque in sovrannumero rispetto alla capienza delle carceri italiane, con 109,2 detenuti ogni 100 posti disponibili sulla carta). Quanto piuttosto una tendenza: nel 2021, le condanne superiori ai tre anni di detenzione sono state il 4%in più rispetto alla media del periodo 2008-2020. E a crescere sono state anche le condanne per i reati più gravi, quelli che prevedono pene detentive dai dieci ai venti anni di reclusione. Intervenire, insomma, è una priorità. E se la strada scelta è quella del lavoro, l’obiettivo, ora, è riuscirci davvero. “Tossicodipendenti in comunità e svuotiamo le carceri”. Il Terzo Settore teme assist a privati di Thomas Mackinson Il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2023 Il sottosegretario alla Giustizia Del Mastro anticipa un progetto per far scontare la pena direttamente nelle strutture. L’uscita irrita il suo omologo leghista Ostellari e pure Fdi (la delega è a Chigi). Gelo dagli operatori di settore che chiedono da anni di potenziare i servizi. Saletti: (Saman): “L’idea di comunità come ‘luogo di pena’ è vecchia e già fallita”. Così il tentativo di dare un’anima sociale alle riforme sulla Giustizia naufraga insieme all’occasione di fare la cosa giusta. “Tossicomani fuori dal carcere”. L’uscita del sottosegretario alla Giustizia Andrea Del Mastro con le anticipazioni di una possibile riforma sul settore spiazza gli operatori del Terzo Settore che esprimono tutta una serie di dubbi o temono sia solo un fuoco di paglia. Di sicuro è stata l’innesco per nuove tensioni nel governo. Si torna a parlare di quel 30% di carcerati - 20.700 per l’esattezza - affetti da dipendenze che affollano istituti di pena con 5mila detenuti in più della capienza regolare e tutte le conseguenze del caso a partire dalla certezza che la funzione della detenzione ai fini della riabilitazione - come recita l’art. 27 della Costituzione - è una sconfitta quotidiana, certificata dalla condanna della Corte di Strasburgo per il sovraffollamento di celle in cui solo l’anno scorso si sono tolte la vita 84 persone. Ma il primo effetto, è una spaccatura politica tutta interna al centrodestra. È scontro tra Lega e Fdi - Del Mastro illustra la proposta a cui sta lavorando “in accordo col ministro Nordio” al Messaggero. L’uscita ha immediatamente innescato uno scontro politico tra alleati di governo e perfino dentro Fratelli d’Italia. La Lega si mette di traverso. Il partito di Salvini vede il tema come un dito nell’occhio, in base all’assunto per cui i piccoli reati tipici di chi cerca di procurarsi una dose “spaventano i cittadini” e dunque gli elettori. Il bilancino delle poltrone ha fatto sì che alla Giustizia ci siano due sottosegretari, muniti della stessa delega sdoppiata, ora in lotta: a Del Mastro si contrappone infatti il niet di Pietro Ostellari che si dice contrario al “liberi tutti”. I ferri sono cortissimi e il disappunto per la fuga in avanti è un problema nello stesso partito di Meloni. Il terzo incomodo sarebbe il viceministro del Lavoro Maria Teresa Bellucci, che Giorgia Meloni ha delegato al Terzo Settore, ruolo che ricopre in Fratelli D’Italia insieme alle dipendenze. Insieme al sottosegretario a Chigi Alfredo Mantovano, che ha le deleghe per le politiche contro le droghe, ha avviato un dialogo con le comunità terapeutiche. La scorsa settimana l’ultimo tavolo di confronto. Viene però ora superato a destra, con il placet di Nordio, fosse anche per dare un afflato “sociale” alle riforme della giustizia che sta preparando, concentrate sull’interdire l’azione dei magistrati (ritorno della prescrizione, stop all’abuso d’ufficio, niente appello dei pm…) e i diritti a informare dei giornalisti. Il fastidio del viceministro è coperto dal silenzio: l’abbiamo cercata, ma Bellucci ha preferito non commentare. In attesa di capire chi la spunterà, o se la rivalità politica finirà finirà per ricongelare il tema, vediamo di che cosa si tratta. Tra carcere e comunità - Del Mastro punta a modificare la materia sotto sotto il profilo giudico-normativo, ipotizzando non sia più il giudice di sorveglianza a convertire l’esecuzione della pena definitiva in una comunità di recupero bensì direttamente quello di dibattimento davanti al quale viene condotto l’autore del reato connesso alla sua tossicodipendenza. Astrattamente, il principio non fa una grinza: è ormai acquisito che l’ingresso in cella non sia una risposta adeguata ai bisogni dei tossicodipendenti, come indicato da 30 anni nella legge che ancor oggi regola la materia (Dpr 1990) che fa riferimento a “istituti idonei” per programmi terapeutici e di riabilitazione. In concreto, però, si fa anche notare come nell’ordinamento l’affidamento in prova alle comunità esista da tempo (art. 94 del Testo unico in materia di stupefacenti) per chi deve scontare pene fino a sei ani e non abbia dato i risultati sperati per un concorso di cause, tra le quali mancanza di fondi, personale e regole su cui il legislatore non è più intervenuto. Ma la soluzione presenta anche limiti pratici più immediati: sarebbe impossibile, ad esempio, inviare in comunità un soggetto che non ha ancora un Piano terapeutico predisposto dal Sert, per il quale occorrono tempi diversi, in attesa dei quali non è neppure chiaro dove il tossicodipendente soggiornerebbe. Idem per la sorveglianza e le sanzioni in caso di evasione o di rifiuto della terapia. La reazione (imbarazzata) degli operatori - Questo spiega la reazione del Terzo Settore, colto di sorpresa come davanti a un fulmine a ciel sereno. Da una parte perché il confronto finora è avvenuto con il duo Bellucci-Mantovano, dall’altra perché le anticipazioni fornite da Del Mastro ai giornali avrebbero un alto tasso di improvvisazione e un basso livello di conoscenza della complessità della materia, lato comunità, lato fondi, lato cure e così via. Ad esempio quando cita “comunità chiuse stile Muccioli (cioè San Patrignano) per costruire un percorso alternativo alla detenzione”. Perplessità le ha espresse ad esempio il Coordinamento Nazionale Comunità di accoglienza (Cnca) che da 40 anni ha una rete di 300 strutture capaci di farsi carico di 4mila persone l’anno. La presidente Caterina Pozzi sottolinea che “a livello normativo sono già previsti percorsi alternativi, poco usati e non sufficientemente sostenuti. È impensabile tornare a un modello di comunità di alcune esperienze degli anni 80”. Dubbi condivisi dalla Federazione italiana delle comunità terapeutiche (Fict) che su 5.731 utenti ne ha un 20% provenienti dalle carceri, in pene alternative. Il suo presidente, Luciano Squillaci, dice a Il Dubbio: “Giusto garantire percorsi educativi reali, ma a nostro avviso replicare regimi carcerari in strutture alternative o peggio ghettizzare persone con dipendenza con situazioni giudiziarie non rappresenta una soluzione”. Delmastro ha spiegato che l’affidamento del giudice in alternativa alla pena sarebbe condizionato alla permanenza negli istituti per la disintossicazione. “Sarebbe una possibilità secca, non reiterata. Se commetti un reato e torni in carcere da tossicodipendente dopo aver scontato la pena in una struttura di recupero, devi affrontare l’iter normale”. Cioè andare in cella. E in caso di evasione “la comunità sarà controllata 24 ore su 24, se scappi hai bruciato la tua seconda possibilità e sarai perseguito per il reato di evasione”. Qui si vede la crepa nel costrutto (e nella competenza) che il sottosegretario nella sua uscita pubblica quasi rivendica: “Vede sono un giurista basico, incarno l’uomo medio ma è questa posizione che ci fa prendere voti”. La confusione regna sovrana - Con il rischio però di seppellire sotto il peso di soluzioni impraticabili l’occasione di cambiare davvero le cose e per il giusto verso. “In realtà - ricorda l’avvocato Raffaella Tucci di “L’Altro Diritto” - l’esecuzione alternativa della pena in comunità esiste già ma avviene su proposta di parte ed è stabilita dal giudice di sorveglianza per una ragione essenziale: il soggetto deve essere in carico al Sert che fa il piano terapeutico, e nel frattempo deve soggiornare in una struttura che lo segua, che sia sorvegliata etc. Se ce la fanno, benissimo, ma non si fa dall’oggi al domani e al momento, anche attivando tutte le strutture, i posti non sono sufficienti. Inoltre, non si capisce bene cosa succede se il soggetto non vuole entrare in comunità, gli si fa il Tso?”. Il tema delle strutture e dei fondi è centrale in questa sfida, e non è privo di rischi. Del Mastro cita il costo di 137 euro al giorno per ogni detenuto tossicodipendente. E dunque ipotizza un risparmio per lo Stato ma anche per il suo ministero, mentre la sua proposta finisce giocoforza per dirottare quei costi sui Sert che sono regionali, e le regioni di soldi non ne hanno. E allora, come nella sanità pubblica a corto di fondi, spunta il “privato da coinvolgere”. Il privato che avanza - Parola che allerta Achille Saletti, presidente della associazione Saman, che dirige da oltre 10 anni una rete di servizi ambulatoriali e residenziali finalizzati alla cura delle dipendenze: “Dietro chiacchiere da bar, perché per ora di questo si tratta, vedo molti problemi e proprio a partire dalle strutture. Dal 1994 ad oggi gli invii, con una componente in arrivo anche dalle carceri, si sono dimezzati passando da 28 a 13mila e di riflesso le strutture sono passate da 1200 a 600 strutture. Quindi se domani ci fosse un invio massiccio di tossicodipendenti non si saprebbe dove metterli”. A meno che nel richiamo che Del Mastro al privato “non intenda surrettiziamente privatizzare il settore”. Perché credere che un privato prenda un albergo e lo trasformi in comunità dall’oggi al domani “è un’illusione bella e buona, le comunità terapeutiche sono assoggettate a un qualsiasi altro intervento sociosanitario, hanno requisiti ben precisi sotto il profilo sanitario ma soprattutto degli spazi strutturali”. Anche Saletti rileva l’anomalia dell’uscita. “Settimana scorsa abbiamo fatto un tavolo con la Bellucci che ha la delega al Terzo settore e quantomeno ha una competenza specifica sul tema delle tossicodipendenze. Conosce bene le sue problematiche”. Gli esempi si sprecano. “Abbiamo regioni intere come il Lazio, la Sicilia e la Campania che devono ancora regolamentare in termini di requisiti le comunità specialistiche, che sono proprio quelle che accolgono un’utenza che ha una diagnosi di dipendenza e psichiatrica, ma anche ragazze madri. A questo punto siamo”. E dove dovremmo essere invece? “Dovremmo tarare il sistema sui nuovi consumi perché se è vero che non siamo più negli anni Ottanta è anche vero che intercettiamo si e no il 10% dei dipendenti, il 90% ci sfugge completamente. L’idea di comunità come “luogo di pena”? “E’ un’idea vecchia e già fallita. Per evitare disastri io partirei con l’aprire dei centri diurni in carcere, delle sezioni dedicate in cui si fa comunità, con attività vere, strutturate sul lavoro che serve a rielaborare la dipendenza. C’è tanto da fare. Il Tribunale per dire fa una richiesta per un posto in comunità, si fa di tutto per trovarlo ma poi passano i mesi e alla fine quel posto non c’è più perché non lo si può tenere sospeso sottraendolo ad altri. Ecco, quello che dico è che prima di avventurarsi in soluzioni fantasiose e rischiose si faccia funzionare quello che c’è”. Tra le sbarre. A Opera “scopro” l’antimafia che non ha la vendetta al posto del cuore di Nando dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2023 Arianna mi guida con la leggerezza di chi conosce i luoghi a memoria. Le strade che fendono i campi. Scritte minacciose sui muri che le costeggiano. Blocchi di edifici. Inferriate e dispositivi elettronici. Viene qui nel carcere di Opera da sette anni. Per un progetto che in poco tempo ha fatto crescere il numero dei detenuti iscritti alla Statale di Milano da 5 a più di 130. Arianna Zottarel è una delle decine e decine di studenti e dottorandi che ci lavorano volontariamente come tutor, se mai fosse necessario smentire i luoghi comuni sui giovani d’oggi. E se mai fosse necessario, vista la sua storia, smentire l’idea di un’antimafia con la vendetta al posto del cuore. Mi fa da angelo custode salutando educatamente a destra e sinistra, mentre io resto ammirato da quel suo impegno schivo e mai guascone. “Quando c’era il lockdown io ero tra i pochi che potevano venire. Solo che per le tante limitazioni i tempi di permanenza a volte si triplicavano. Che facevo in quelle pause lunghissime? Mi mettevo in un posto e studiavo”. Si inseguono le sale colloqui, lettura, lezioni. In una è riunita la redazione di Cronisti in Opera, “periodico del carcere di Milano Opera”. Dopo alcuni minuti compare il nostro studente. Gli ho già fatto l’esame a distanza. Esito ottimo. Vuole rivedermi dopo uno scambio di lettere. Chissà che gli studi fatti con me non possano andare avanti in altro modo. Il mio studente è abbastanza maturo d’età. Ripara la testa sotto una cuffia di lana. Raffaele, questo il nome di fantasia, ha il forte accento della sua città, dai cui mali si è fatto un tempo risucchiare. Quel che mi affascina di lui è la totale assenza di vittimismo. Non “la colpa è dello Stato”, o “della società”. Anche se l’autobiografia che mi sciorina con passione qualche colpa altrui la illumina di certo. L’adolescenza e la giovinezza come condanne. Un’infilata di cause e di effetti. È ironico e sottile. Vuole raccontarmi della sua grande evasione dal carcere. E mentre mi predispongo a sentire una storia maledetta e avventurosa mi spiega che la sua grande evasione si chiama cultura. Che sono stati i libri a consentirgli di non sentirsi in carcere. E io proprio un libro ho voluto regalargli, quello scritto dopo l’assassinio di mio padre. Sembra gradirlo. Mi chiede la dedica. Non nega alcuna colpa. Mi spiega però che gliene hanno caricata qualcuna di troppo. Fino a infliggergli una condanna proprio per associazione mafiosa, che rifiuta con sdegno sincero. Verso la mafia, non verso i giudici. “Ho sbagliato tanto, ho commesso reati anche gravi, mi sono trovato in situazioni che ancora mi chiedo come sia stato possibile, ma io non sono mai stato un mafioso”. Non voglio e forse non posso raccontarvi il suo sfogo educato. Vi basti che la sua compostezza a volte non si trova nemmeno nei signori. Neppure un’unghia di turpiloquio. Ma un’amarezza palpabile e contagiosa per le ingiustizie che ritiene di avere subito, per le lunghe e incomprensibili sordità sanate dopo anni infiniti. Con la perdita netta - se così si può dire - di un pezzo di vita che indietro non tornerà e non vorrà saperne di farlo. Avverto una sensazione di disagio per la facilità con cui maneggiamo quella parola magica, “giustizia”. Arianna e un altro tutor mi accompagnano verso l’uscita. Lei spiega le funzioni delle sale vetrate. Finché dietro uno di quei vetri compare una figura a me familiare. A un tavolo, intento a parlare con due detenuti, vedo Paolo Setti Carraro. Proprio così, il chirurgo di guerra fratello di Emanuela Setti Carraro, uccisa con mio padre in quella sera del 1982. Ma che ci fa qui a Opera anche lui? Che ci facciamo qui tutti e due all’insaputa l’uno dell’altro 40 anni dopo? Dev’essere l’antimafia con la vendetta nel cuore che ci ha condotto qui. Quante idiozie si dicono se il mondo si trasforma nel regno di Pavlov… “Dal G8, a Lampedusa e ai Regeni: la mia vita sempre dalla parte del torto” di Francesco Rigatelli La Stampa, 20 marzo 2023 Alessandra Ballerini: “Da Genova a Ventimiglia ho vissuto l’abisso dell’uomo, ma anche i valori costituzionali. Chi esercita il potere deve muoversi con cautela. I giudici in molti casi possono cambiare la vita delle persone”. Quando Alessandra Ballerini aprì il suo studio legale con due colleghi a Genova non aveva idea che si sarebbe specializzata in diritti umani e immigrazione. “All’inizio sapevo solo che non avrei voluto occuparmi di sfratti, risarcimenti o recupero crediti. Ho un’idiosincrasia verso le ingiustizie e stare dalla parte del torto è sempre stato il mio posto”. Poi come racconta in “La vita ti sia lieve” (Zolfo) è incappata in Carlos, il suo primo cliente. Come le ha cambiato la vita? “Si trattava di un signore ecuadoriano senza permesso di soggiorno. Aveva ricevuto un decreto di espulsione e mancavano 12 ore alla scadenza del ricorso. Con la fortuna della principiante sono riuscita a vincerlo e lui mi ha riempito lo studio di connazionali, rivelandosi il fondatore della comunità ecuadoriana di Genova”. Poi c’è stato il G8, come l’ha segnata? “È stato un punto di non ritorno perché vidi messo in discussione lo stato di diritto. Con altri colleghi ero lì come osservatrice e come legale di cittadini stranieri colpiti da decreto di espulsione dopo la “macelleria messicana” della Diaz. Abbiamo vinto tutti i ricorsi, la prima vittoria giuridica del G8. Ho difeso anche persone picchiate in piazza, come Marina Spaccini, pediatra volontaria del Cuamm”. Ha vissuto altre esperienze di quell’intensità? “Ho seguito molte espulsioni di massa, anche verso la Libia. I respingimenti verso la Grecia. I naufragi del 3 e 11 ottobre 2013 con centinaia di annegati, che si ripetono ancora oggi perché non abbiamo imparato nulla. In quel caso difesi tre papà di dispersi, che mi chiamarono dall’estero”. Ed è di casa a Lampedusa? “All’inizio ci sono andata per vedere la realtà di cui mi parlavano i miei assistiti e poi per lavorare con Terre des hommes e accompagnare dei parlamentari. In uno spazio per 300 persone a volte ne rinchiudono 3mila in modo disumano”. Lei assiste anche la famiglia Regeni. Com’è iniziata? “Un’amica comune ha dato il mio contatto ai genitori quando Giulio era ancora vivo. Pensavo che l’Italia lo avrebbe salvato. La speranza ora è che si possa fare il processo e si arrivi a una verità processuale”. Questo caso o quello di Mario Paciolla o di Andrea Rocchelli cosa le hanno insegnato? “Che può succedere a chiunque. Si tratta di giovani di talento, che sanno le lingue e che sono andati nel mondo per cercare di migliorarlo. La cosa insopportabile è che il nostro Paese non li difende né da vivi né da morti. E le famiglie non possono fermarsi a piangere perché per avere giustizia devono sacrificare tempo, energia e soldi, a volte combattendoanche contro lo Stato”. Cosa la spinge ad andare avanti? “Il G8, Lampedusa e Ventimiglia sono luoghi di dolore, però anche di forte solidarietà. Lì c’è l’abisso dell’uomo e del potere, ma anche l’incanto di chi crede ancora nei valori della Costituzione”. Da esperta di immigrazione come cambierebbe le regole? “Urgono vie legali di ingresso. Chi chiede asilo esercita un diritto costituzionale, ma non c’è modo di arrivare legalmente nella fortezza Europa. Una fatale ipocrisia. Per chi vuole entrare per lavoro poi i flussi non funzionano e bisognerebbe ricreare la figura dello sponsor. Occorrerebbe inoltre una sorta di sanatoria permanente per chi è già qui. Infine bisognerebbe snellire il ricongiungimento famigliare e i tempi di rilascio dei visti: c’è gente costretta a prendere il barcone per colpa della burocrazia”. Perché non si fa nulla? “Gli irregolari senza diritti fanno comodo a chi li sfrutta, dai cattivi imprenditori alla criminalità. Sono invisibili e ricattabili perché rischiano continuamente di essere espulsi”. Quanto è un tema europeo? “Il regolamento di Dublino sulla competenza dello stato d’arrivo per la domanda di asilo è un ulteriore problema, ma in Italia riusciamo a mettere insieme mafia, burocrazia e sfruttamento”. Avvocato, avvocata o avvocatessa? “Avv. puntato va bene, ma basta Alessandra. Su alcuni temi cavillo sulle parole, mentre su altri no. Non posso sentire “pacchia”, “taxi del mare” o “clandestini”, ma se devo difendere la mia identità sono più morbida. A volte mi chiamano attivista, e tutto sommato è anche vero”. E con i giudici come si trova? “Come tutti gli esseri umani ce ne sono di ottimi e di pessimi. Chi esercita il potere deve muoversi con cautela. I giudici in molti casi possono cambiare la vita delle persone”. Fanno davvero giustizia? “A Genova c’è un buon tribunale, che fa giustizia sulle materie di cui mi occupo”. Una giustizia efficiente? “Lenta e l’attesa spesso crea molti danni. Certo se le persone non dovessero passare da un tribunale per vedere riconosciuti i propri diritti la giustizia potrebbe essere più snella”. “Attenti, la lotta alla corruzione non può diventare caccia alle streghe” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 20 marzo 2023 Giovanni Tartaglia Polcini è uno dei massimi esperti italiani di corruzione. È stato pubblico ministero dal 1996, per quasi vent’anni anni, nel distretto della Corte di Appello di Napoli. È tra i componenti del comitato scientifico dell’Eurispes, forse l’istituto di ricerca italiano che ha compiuto le analisi più originali nel campo della giustizia. Consigliere, il tema della corruzione in passato è stato affrontato in maniera così ideologica da tramutarsi in una vera e propria “caccia alle streghe”? Questa domanda richiede una risposta necessariamente di tipo tecnico, partendo dal lavoro del gruppo anticorruzione del G-20 nel 2014. All’epoca c’era un contrasto forte a livello internazionale sulle modalità di approccio alla corruzione. I membri del gruppo di lavoro anticorruzione del G-20 convennero su un documento intitolato Quali sono le relazioni intercorrenti tra la corruzione e la crescita economica?”. In quel testo si enumerano tutte le conseguenze negative della corruzione, come la corruzione incide sullo sviluppo, sull’esercizio delle libertà fondamentali, sulla possibilità di estrinsecare le normali attività del quotidiano, sull’allocazione delle risorse e sulle performance della Pa. Si tratta di un censimento molto interessante. Va fatta, però, riprendendo la sua iniziale domanda, una precisazione. Quale? Il G-20 fa riferimento alla corruzione in senso stretto. Se noi diamo alla definizione corruzione un altro significato e facciamo riferimento a ogni forma di devianza dell’amministrazione, il discorso cambia. Non possiamo pensare di applicare le disposizioni e le posture di prevenzione e repressione ai fatti di corruzione, intesi in senso stretto e proprio, cioè della devianza dell’azione amministrativa in cambio di un illecito profitto, promesso o assicurato, a qualsiasi forma di patologia dell’azione amministrativa. Questo è il limite di alcuni approcci alla corruzione come fenomeno illecito. Il presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick, ha sottolineato, in un suo recente intervento, il legame tra giustizia ed economia. Si è soffermato sulla ragionevole durata dei processi e sulla ragionevole prevedibilità dell’esito degli processi. Due aspetti che si saldano a vicenda? Non posso che concordare sul fatto che la durata dei processi abbia un impatto sullo sviluppo dell’economia. Nel contempo, io sono un forte propugnatore dei principi dello Stato di diritto. Questi prevedono la totale autonomia e indipendenza di chi è chiamato a giudicare sui fatti umani e sugli accadimenti della realtà umana. L’imprevedibilità dell’esito di una procedura è per me un valore. Così come è un valore la presunzione di innocenza, che, mi permetto di sottolineare, va riaffermata e valorizzata. Non mi piace una certa deriva, non mi riferisco allo scritto del presidente Flick, ma mi ricollego a un concetto che si afferma spesso a livello internazionale e nel lessico, quasi che la lotta alla corruzione sia efficace e dimostrata solo quando si ottengono le condanne. Mi sembra questo un modo di vedere le cose un po’ retrospiciente. Quello che conta è il controllo penale, che, però, può concludersi anche con una piena assoluzione. Una sentenza che fa la ricostruzione della realtà può concludersi con un non riconoscimento di responsabilità. Questo non significa che un sistema è fallace o non contrasta la corruzione. Semmai, è semplicemente un valore aggiunto, che è quello di non avere un approccio eccessivamente settario, un approccio etico, più che di tipo giuridico, dal quale è, forse, sempre il caso di rifuggire. I fenomeni corruttivi hanno diversa connotazione nel Nord e Sud dell’Italia? Non penso vi siano costanti che possano dare la stura a una ricostruzione quasi orientata territorialmente dei fenomeni corruttivi. Sono convinto che la corruzione rappresenti un pericolo di infiltrazione anche del crimine organizzato. Da un lato nell’amministrazione della cosa pubblica, perché l’infiltrazione avviene attraverso la corruzione, dall’altro lato nell’economia legale attraverso il riciclaggio di capitali illeciti. Faccio riferimento alla corruzione come oggetto di un approccio olistico. Una corruzione, cioè, intesa come l’insieme di quelle condotte che portano il crimine organizzato, sotto un certo profilo, a inquinare la nostra società. Il nostro paese ha un ruolo storicamente di pioniere nel comprendere questi fenomeni e nell’affrontarli nel migliore dei modi. Non a caso a livello internazionale ci arrivano richieste sul piano dell’assistenza tecnica. In Italia ci siamo resi conto per tempo di questo fenomeno, abbiamo messo in piedi uno statuto di verifica, controllo e prevenzione. Gli esperti italiani sono i più richiesti a livello mondiale. Nel contempo, però, aggiungerei un’altra cosa. Prego, dica pure… Io rifuggo da tutti gli approcci di tipo percettivo. Nella sua precedente domanda credo che vi fosse una contaminazione legata a quel concetto, che è la percezione della corruzione, che poi è alla base di alcuni indici internazionali dai quali deriva una sorta di classifica dei buoni e dei cattivi. Io ho sempre pensato che approcciare il tema della corruzione solo sulla base di indici percettivi possa dare luogo addirittura a paradossi. Eurispes, nel 2017, ha condotto una ricerca scaturita nella pubblicazione intitolata “La corruzione tra realtà e rappresentazione. Come si può alterare la reputazione di un paese”. In questo volume ci siamo soffermati su quello che abbiamo chiamato il “paradosso di Trocadero”. Consiste in questo: più combatti la corruzione, più la rendi percepibile. Il Paese che più si impegna, per una serie di ragioni, a contrastare un fenomeno e lo fa senza alcun tipo di calcolo da un punto di vista reputazionale, se sottoposto ad un vaglio solo esclusivamente percettivo, è penalizzato. Sulla Commissione Antimafia nutro scetticismo: solo una volta mi ha colpito ma in negativo di Pippo Giordano* Il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2023 Bene! Tra qualche giorno la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche stranieri, sarà operativa. Per quanto mi riguarda che ci sia o non ci sia è indifferente. Da anni nei confronti della Commissione antimafia nutro scetticismo, atteso che non ho mai visto elementi concreti di cambiamento nella lotta alle mafie. Naturalmente è una mia valutazione personale, nata da pregressa attività di lavoro. La legge che istituì la Commissione antimafia fu varata il 29 dicembre 1962. L’anno seguente il 30 giugno 1963 a Ciaculli (Palermo) esplose la Giulietta imbottita di esplosivo, dove morirono sette persone tra carabinieri, poliziotti e militari (io, abitando non lontano dal luogo, udii il forte boato). La notte precedente a Villabate, per uccidere il capo famiglia Giovanni Di Peri, fu fatta esplodere un’autobomba che uccise due ignari cittadini, un terzo rimase ferito. Giovanni Di Peri non fu coinvolto nell’esplosione ma fu poi ammazzato nella cosiddetta strage di Natale del 25 dicembre 1981. Quindi, a Commissione antimafia costituita, si registrarono due tragiche vicende con quasi dieci morti. Cinque anni dopo a Catanzaro il gotha mafioso siciliano viene processato e quasi tutti vengono assolti. Il 10 giugno del 1969 anche la Corte d’assise di Bari assolve l’intero clan dei corleonesi compreso Salvatore Riina, Luciano Liggio e Bernardo Provenzano. Giova fare una riflessione: se fossero stati condannati, la storia della mafia sarebbe stata scritta diversamente. Nel frattempo la guerra di mafia continua a mietere vittime a Palermo. Negli anni 70-80 oltre ai mafiosi vengono assassinati magistrati, carabinieri, poliziotti e innocenti cittadini. Negli anni 80 Riina inizia la mattanza per conquistare manu militari il potere su Cosa nostra. Anni 90, la mafia mostra i muscoli con le stragi di Capaci (23 maggio 1992), via D’Amelio (19 luglio 1992), Firenze (la notte tra il 26 e 27 maggio 1993), Milano (27 luglio 1993), basilica di San Giovanni in Laterano e basilica di San Giorgio al Velabro (27 luglio 1993), Maurizio Costanzo (14 maggio 1993). E quindi chiedo agli esperti di mafia: quale apporto ha dato la Commissione antimafia dal 1962 al 1993 nella lotta alle mafie? Io non me ne sono accorto. Ero impegnato a contare i corpi delle persone ammazzate nelle vie e piazze di Palermo. Epperò un gesto compiuto dall’ultima Commissione antimafia ha attirato la mia attenzione: il presidente della Commissione, senatore Nicola Morra, e altri componenti, sono stati immortalati a Catania sul luogo dove il 10 maggio 1996 fu ucciso l’ex mafioso, Luigi Ilardo, che Alessandro Di Battista in un’intervista alla figlia ha definito eroe: bontà sua. Colgo l’occasione per dire ad Alessandro Di Battista che nessun mafioso può essere considerato eroe, neanche Leonardo Vitale, ossia il primo pentito di mafia che il 29 marzo 1973 si presentò spontaneamente alla Squadra mobile di Palermo (fu ascoltato dal dottor Contrada) accusandosi di omicidi e raccontando com’era organizzata Cosa nostra. Fece anche il nome di Salvatore Riina. Non chiese regali o prebende. Il Vitale non fu creduto e lo condannarono a 25 anni di carcere, ma essendo stato considerato pazzo fu rinchiuso in un manicomio criminale per sette anni. Il dottor Giovanni Falcone lo cita negli atti del maxiprocesso: “Scarcerato nel giugno 1984 fu ucciso dopo pochi mesi, il 2 dicembre, mentre tornava dalla messa domenicale. A differenza della Giustizia dello Stato, la mafia percepì l’importanza delle sue rivelazioni e lo punì inesorabilmente per aver violato la legge dell’omertà. È augurabile che, almeno dopo morto, Vitale trovi il credito che meritava e che merita”. Invero, Luigi Ilardo non può essere considerato un eroe: egli è stato un esponente di primo piano della mafia e che per il suo omicidio sono stati condannati all’ergastolo, mandanti ed esecutori con sentenza passata in giudicato. Qualcuno ipotizza che l’omicidio sia scaturito forse anche a seguito della sua volontà espressa ai magistrati di collaborare con la giustizia, oltre che ai moventi in sentenza. E poiché in tanti affermano che l’omicidio Ilardo è “Un delitto di Stato”, mi auguro che si riaprono le indagini per fugare ogni dubbio. La Commissione antimafia ha ritenuto compiere l’omaggio a Ilardo, nulla quaestio anche se non condivido. Ma mi avrebbe fatto immensamente piacere se la stessa Commissione fosse andata sul luogo dove fu strangolato e sciolto nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo e nell’altro luogo dove fu ucciso il piccolo Claudio Domino. Questi due bambini non sono eroi, ma di sicuro martiri della violenza dell’uomo. *Ex ispettore DIA 30 anni di “giustizia sopra le righe”: il diritto penale stressato dalla lotta a mafia e corruzione di Giovanni Maria Flick Il Dubbio, 20 marzo 2023 Riportiamo di seguito la prolusione (testo ridotto) esposta sabato scorso dal presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick in occasione della seconda edizione del Master di II livello in Diritto penale d’impresa e della Pubblica amministrazione organizzato dall’Università Lumsa, seguita dalla presentazione del volume, curato dallo stesso presidente Flick, intitolato “Il filo rosso della giustizia nella Costituzione. Un percorso di vita”. L’eccezione del doppio binario è diventata stabile. Abbiamo sostituito il processo con il sistema, privo di garanzie, delle misure di prevenzione. Abbiamo abusato del 41 bis, della custodia preventiva, di strumenti come il trojan. Pur tra alcune risposte efficaci a Tangentopoli, “Mafiacity” e “Nerolandia”, ha prevalso spesso una babele di nuove norme, di giurisdizioni e competenze, alimentata dalle relazioni pericolose tra magistratura e informazione. Ora ci vuole pazienza e sforzo di comprensione per voltare davvero pagina. 1. Obiettivo: un diritto penale dell’economia che faccia economia di diritto penale; il meno possibile per i suoi numerosi e diversi costi, ma tutto quello necessario per i crescenti e sempre più diffusi valori, principi e interessi in gioco. Il punto di equilibrio fra i due estremi va cercato prima di tutto nella Costituzione, la Carta della nostra convivenza, come per tutte le ipotesi di contrapposizione effettiva o apparente, reale o potenziale, fra valori, principi e interessi diversi. Ma quale Costituzione? Il primo problema: la nostra Costituzione è ancora attuale a 75 anni dalla sua nascita in un contesto profondamente diverso da allora, come molti si chiedono? O essa non è ancora attuata in tutto o in parti significative? Il difetto di attualità ora denunziato è in realtà un alibi per non averla attuata prima. 2. Il secondo problema: quale lettura e approccio per conoscere la Costituzione? Vi sono diverse possibilità: a) un approccio e un approfondimento storico, filosofico e accademico; è essenziale e necessario ma è poco conosciuto, poco diffuso e capito in un contesto di crescente crisi culturale: cancel culture; emoticon; acronimi, scomparsa del libro e della biblioteca…; b) uno nazional popolare: “La Costituzione più bella del mondo” sul cavallo bianco e nel festival, magari con un applauso autorevole che aiuti a sottolinearne l’importanza se viene letto e capito in uno con la successiva presenza del suo autore sulla spiaggia di Cutro di fronte alla tragedia dei migranti; c) uno politico-utilitaristico (il più insidioso): l’utilizzazione e l’eventuale richiesta di modifica della Costituzione in singoli aspetti e frammenti, per finalità di “politica quotidiana” (es. l’Assemblea costituente per “consolidare” in realtà una maggioranza divisa in più parti; la delegittimazione del Parlamento per composizione numerica o per riduzione di competenze; l’autonomia locale/regionale potenziata a discapito dell’unità, indivisibilità e soprattutto solidarietà, in un baratto con un presidenzialismo non meglio precisato nel contenuto e nel check and balance, per compensare la perdita di un garante imparziale della Costituzione e del suo equilibrio, oggi più che mai essenziale e richiesto); d) uno programmatico e al tempo stesso precettivo per la nostra convivenza, nella semplicità e chiarezza del suo linguaggio e della sua “presbiopia”: guarda al passato per vivere il presente della convivenza e dei suoi molteplici problemi progettando il futuro. 7. La libertà di iniziativa economica. Nella scala di valori essa assume un particolare rilievo per il tema del diritto penale dell’economia; trova un limite nel contrasto con la utilità sociale e nel danno alla salute, all’ambiente dopo la recente e importante riforma dell’articolo 9 e dell’articolo 41 della Costituzione, alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. Altrettanto importante è il riferimento dell’articolo 32 alla salute come fondamentale (unico nella definizione) diritto dell’individuo, inteso non solo come assenza di malattia, ma come situazione di benessere. Esso si raccorda con il diritto alla salubrità dell’ambiente e del luogo di lavoro, nonché - negli articoli 36 e seguenti - con la serie dei diritti a tutela del lavoro in tutte le sue forme: dalla formazione alla retribuzione dei lavoratori e lavoratrici e dei minori, alle condizioni di lavoro, alla tutela assicurativa, previdenziale e pensionistica, alla organizzazione sindacale etc. Il diritto del lavoro è stato esplicitamente costituzionalizzato a differenza del diritto civile e di quello commerciale. Esso non può essere sottoposto solo alle logiche del mercato e alle sue indicazioni di delocalizzazione, di modificazione delle prestazioni lavorative senza adeguata formazione, di soppressione dei posti e delle occasioni di lavoro, nella vorticosa espansione, e ora nella crisi, della globalizzazione e nello straordinario e incessante progresso tecnologico che la accompagna. (...) 11. Le riflessioni che precedono assumono un particolare rilievo di fronte al problema della crisi della giustizia e segnatamente di quella penale sotto molteplici aspetti: della legge, del giudice e del suo ordinamento, del processo (penale in specie), della pena. In un percorso più che trentennale dalla riforma del codice di procedura penale c.d. Vassalli, sono stati molteplici gli interventi su quest’ultimo. Essi peraltro sono stati disorganici; sono stati caratterizzati da stimoli particolari e da un confronto aspro tra magistratura ed avvocatura, nonché da un sostanziale assenteismo della politica sino alle ultime iniziative di riforma. Queste ultime sono state accompagnate da un cambio di maggioranza politica e da una serie crescente di pressioni sia in sede di Unione Europea, sia da parte della Corte costituzionale, sia da parte della politica e dell’economia; è urgente adeguare l’ordinamento giudiziario, la normativa penale sostanziale e quella processuale, civile e penale, nonché il sistema delle pene alla realtà del nostro paese. 12. La crisi della giustizia può sintetizzarsi nella incapacità complessiva del sistema di essa, nonostante gli sforzi, di produrre i due frutti che le sono propri e sono fondamentali fra l’altro per il rapporto fra giustizia ed economia: la ragionevole durata dei processi; la ragionevole prevedibilità dell’esito di quei processi. Entrambe queste ultime sono essenziali per gli investimenti nel nostro paese; per le loro influenze sul prodotto interno lordo; per il contesto di legalità, sicurezza e fiducia che deve caratterizzare la convivenza politica, civile, sociale ed economica. Per raccogliere quei due frutti non sono stati necessari leggi e organismi speciali secondo logiche emergenziali. Basta ricordare ad esempio che la sconfitta della criminalità terroristica si è realizzata soprattutto per l’impegno e il sacrificio sia della magistratura che delle forze dell’ordine e di quelle sociali. 13. Per contro si è dovuta registrare una forte espansione della criminalità organizzata, con la sua trasformazione che è culminata nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio a Palermo nel 1992; e che è caratterizzata da una progressiva penetrazione dell’economia illegale in quella legale, attraverso il riciclaggio e con la sua internazionalizzazione. A ciò si è aggiunta la crescita o quanto meno la manifestazione esterna e percepita della corruzione, che è resa evidente dalle note vicende di Tangentopoli e dalla cosiddetta reazione di Mani pulite, nei primi anni ‘90. Si è aggiunta la nascita e poi la proliferazione di una criminalità finanziaria ed informatica che inquina i mercati. Essa è caratterizzata dalla aggressione al risparmio diffuso attraverso nuovi strumenti e prodotti finanziari. È favorita dallo sviluppo e dalla sempre crescente internazionalizzazione dei mercati; dai progressi della tecnologia informatica; dalla confusione legislativa inevitabile in un contesto di multilevel e di pluralità delle fonti governative. 14. Non è stata esaltante la reazione alla crescita e alla progressiva modifica delle forme di aggressione criminale alla sicurezza, alla convivenza e ai loro riflessi sul piano dell’economia, della finanza e dei mercati. Alcuni interventi positivi non possono essere sottovalutati o dimenticati. Penso alla introduzione nel 2001 della responsabilità - ibrida perché definitiva amministrativa, ma a contenuto penale - per le persone giuridiche interessate dal crimine soprattutto economico. Penso alla introduzione nel 2015 della responsabilità penale in materia ambientale. Quest’ultima responsabilità è rivolta fra l’altro alla introduzione di fattispecie di aggressione all’ambiente in una prospettiva più ecocentrica che antropocentrica; alla definizione dell’inquinamento e del disastro ambientale; alla sostituzione delle precedenti sanzioni pressoché bagatellari per l’inosservanza di prescrizioni amministrative del tutto insufficienti. Resta un problema di fondo al di là di numerosi profili tecnici suscettibili di miglioramento in entrambi i settori. È costituito dall’individuazione di ciò che deve punire la fattispecie incriminatrice. Il contenuto di merito (l’individuazione e tutela dei beni giuridici; la definizione delle condotte di loro aggressione) e le sue caratteristiche di metodo (il processo, le sue regole e le relative garanzie) devono essere indirizzati allo scopo di punire fatti attribuibili ad una singola persona e non a fronteggiare - di volta in volta - l’intero fenomeno criminale. Lo impongono i principi della personalità della responsabilità penale (art. 27 co. 1 Costituzione); di legalità nella sua duplice accezione di precisione e determinatezza della fattispecie e di tassatività nell’interpretazione giurisprudenziale; di materialità del fatto (art. 25, co. 2 Costituzione); di tendenza rieducativa della pena (art. 27, co. 3 Costituzione). Il nostro sistema costituzionale penale è costruito su una dimensione personalistica: l’autore del reato; il fatto e la relativa condotta eventualmente seguita da un evento ad essa causalmente legato; la consapevolezza e la partecipazione dell’autore di quella condotta a livello effettivo o potenziale di volontà; la rimproverabilità; le conseguenze del fatto e della responsabilità in tema di pena e di rapporto con la vittima. 15. Con evidenza un simile sistema in primo luogo deve avere come punto di riferimento una persona (o più persone fra loro collegate e “concorrenti”) e uno o più fatti; non un “fenomeno” o un “sistema criminale” che, in quanto tale, giustifica e richiede diversi autori e interventi, limiti e garanzie, soggetti e strumenti di prevenzione e di sanzione. In secondo luogo un simile sistema “personalistico” per sua natura e per tradizione consolidata è caratterizzato da costi elevati in termini di organizzazione e di garanzie; dalla loro complessità; da disciplina nell’acquisizione di prove, contraddittorio e difesa; da coinvolgimento della libertà personale. Deve perciò costituire l’extrema ratio, quando proprio non se ne può fare a meno. Altrimenti fra l’altro si rischia una ennesima “truffa delle etichette”: il ricorso a misure di prevenzione personale o patrimoniale per sostituire la condanna e una pena per un reato difficile da provare. Si rischia altresì la spettacolarizzazione mediatica del processo e la possibilità che questo sia influenzato dalla ricerca del consenso e condizionato dalle attese delle vittime, se non addirittura dalla folla. In terzo luogo la crisi del sistema penale si accentua con riferimento alle sue conseguenze: la pena, le sue modalità di esecuzione, la sua effettività; senza poter entrare in questa sede nel merito dei problemi e delle contraddizioni della esecuzione penale. Quest’ultima deve essere fondata soltanto sulla privazione della libertà personale, nel rispetto del senso di umanità e dei “residui di libertà” compatibili con la “sicurezza” e con una reclusione legittima. 16. Un ulteriore problema merita di essere richiamato, a proposito del rapporto fra criminalità organizzata e criminalità contro la pubblica amministrazione (Mafiacity e Tangentopoli). La pericolosità di entrambe è fuori discussione, ma sotto profili assai diversi: nel primo caso è l’omertà come frutto della violenza e della intimidazione; nel secondo caso è l’omertà come coefficiente essenziale delle trattative illecite e quindi della loro necessaria clandestinità. Non vi è dubbio che può esservi (e spesso vi è) sinergia fra criminalità organizzata e criminalità corruttiva. La prima, nel suo percorso di infiltrazione dalla economia illegale a quella legale, spesso e volentieri ricorre alla corruzione quando può non fare uso di violenza, o per accentuare con il metus dell’intimidazione la proposta corruttiva. Ma ciò non vuol dire una comune identità, tale da giustificare una sorta di doppio binario rispetto alla “criminalità comune” (penso all’obbligo di collaborare sia nei reati di criminalità organizzata che in quelli di corruzione, posto a base dell’ergastolo ostativo per entrambi e solo recentemente rimosso). L’emergenza della violenza può entro certi limiti giustificare l’eccezionalità legata alla peculiarità della organizzazione criminale; ma non può giungere ad assimilare fra loro due realtà ontologicamente diverse come l’organizzazione e una trattativa bilaterale a due, inserendo quest’ultima in un sistema. Ho sentito parlare per la prima volta di “necessità di smantellare il sistema corruttivo rendendo inaffidabile per esso il soggetto che collabora” a Milano, in occasione delle indagini di Mani pulite. Solo successivamente quel concetto è stato recepito a Palermo e poi in via legislativa generale per la criminalità organizzata: una “singolare” inversione di metodo che ha finito per trasformare una libertà (di collaborare) in una sorta di obbligo per non subire un carcere più “duro”. Fatto tenue, non punibilità d’ufficio di Andrea Magagnoli Italia Oggi, 20 marzo 2023 Qualora il fatto di reato presenti una particolare tenuità la speciale causa di non punibilità prevista dall’art 131 bis c.p. applicabile in tale caso potrà essere rilevata anche d’ufficio in sede di giudizio di Cassazione. Lo afferma la Corte di cassazione con la sentenza n. 9466/2023 depositata il giorno 7 marzo 2023. Il caso di specie trae origine dalla condanna da parte del Tribunale di Forli dell’imputato per il reato previsto dall’art. 624 cp (furto) confermata in secondo grado da parte della Corte d’appello di Bologna. Ricorreva allora il legale dell’imputato deducendo in apposito motivo di ricorso la nullità della sentenza di merito, rappresentava sul punto, nella propria tesi difensiva l’evidente vizio di nullità della decisione dovuto alla mancata applicazione della speciale causa di non punibilità previsto dall’ art. 131 bis cp dato l’evidente carattere bagattellare della condotta ascritta al suo assistito. Il procedimento dopo aver compiuto il proprio corso giungeva all’esame dei giudici della Corte di cassazione. La questione, di carattere processuale, riguarda i limiti di applicabilità dell’esimente di cui sopra nel giudizio di Cassazione anche in assenza di un’istanza della parte interessata. Gli ermellini, con la sentenza qui in commento, riprendono la soluzione offerta in precedenza dalla Sezioni Unite (ad esempio sentenza n. 13681 del 25 febbraio 2016) circa gli aspetti sostanziali e processuali della causa di non punibilità. All’esimente della speciale tenuità è stata sempre attribuita una natura di carattere sostanziale che determina ben precise conseguenze circa i limiti temporali della sua applicazione. Essa infatti ai sensi dell’art 2 comma 4 c.p. sarà applicabile anche ai fatti commessi antecedentemente all’entrata in vigore della disposizione che la prevede. Circa le modalità per la sua rilevabilità, invece ai sensi dell’art 609, comma 2 cpp vi si potrà dare corso anche d’ ufficio tanto da conseguirne nel caso di accertamento positivo ai sensi dell’art. 129 cpp, l’annullamento senza rinvio della sentenza oggetto del ricorso. Napoli. Le lettere dei detenuti ai figli: ora siamo lontani da voi ma torneremo migliori Il Mattino, 20 marzo 2023 Il 19 marzo è la Festa del Papà. Lo sappiamo da quando siamo piccoli e a scuola ci facevano fare lavoretti e imparare a memoria le poesie. La Festa del Papà è una ricorrenza dolce, felice e bella per alcuni bambini ma per altri no, non lo è. C’è chi, sin da piccolo, il padre non lo ha mai conosciuto o chi lo ha perso e magari proprio durante questo periodo. E poi c’è chi ha dovuto mettere sul volto del proprio padre la maschera di una bugia che pesa, pesa tanto e a tutti: “Papà è partito, lavora all’estero”. Questa frase è, spesso, proprio quella maschera di bugie che sono costretti a mettere sul volto di noi detenuti i nostri figli. Questo pensiero fa male. Mia figlia mi ha detto: ““Papà ma non lo sai che i fidanzati non lasciano mai le loro fidanzate per viaggiare? Va beh dai questa volta ti perdono!” Sono il suo principe, e il solo pensiero mi riempie di lacrime, mi riempie d’orgoglio, ma poi penso che un giorno, tra anni, non saprò mai raccontarle di quel viaggio in Francia che non ho mai fatto. La mia Parigi è Poggioreale. Tuttavia, quest’anno c’è qualcosa che ci ha permesso di vedere e vivere le cose in modo un po’ diverso, in un modo meno triste e forse in un modo carico di speranza. Il 21 marzo il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, andrà a Casal di Principe per omaggiare don Peppe Diana il sacerdote ucciso dalla camorra 29 anni fa proprio il 19 marzo, proprio il giorno della Festa del Papà, il giorno del suo onomastico. Non è necessario che parta da qui, da queste mura, o meglio da questo luogo fatto di sbarre, un discorso elogiativo di quel grande uomo e non perché non ne saremmo capaci o degni. Anzi pensando alla sua vita, forse don Peppe Diana vorrebbe proprio che lo facessimo noi un discorso in sua memoria. Tuttavia, sappiamo bene che c’è già chi lo farà, tutto qui. Quello che però da qui vorremmo dirvi, cari lettori, è solo una cosa. Don Peppe Diana era un uomo generoso, onesto, pronto a dare la vita per il suo popolo e quella vita poi al suo popolo l’ha consacrata e regalata. Mentre se ne parlava, durante il giorno delle nostre “parole in libertà”, è stato inevitabile pensare alle parole dette da alcuni di noi detenuti mentre parlavamo della Festa del Papà: “Io non sono padre, ma quando mia nipote mi svegliava la notte per abbracciarmi, mi faceva scucecà (impazzire) tutti i pensieri”, oppure “Mi devi credere mio figlio per me è tutto, lui cade e io mi faccio i lividi”. Anche don Peppe Diana non era padre, ma per i suoi figli, ogni notte, siamo sicuri, si faceva scucecà tutti i pensieri. Questo ci ha fatto pensare che anche se ora per i nostri figli non possiamo essere come i nostri padri che ci aspettavano a casa dopo una uscita e, anche se ormai grandi, continuavano a dirci “Ma a quest’ora ti ritiri? Che hai fatto?”, comunque forse un giorno potremmo chiedere perdono ai nostri figli ed essere perdonati. La vita e il sacrificio di don Peppe Diana fanno capire che la possibilità di fare scelte giuste e coraggiose per il solo fatto di amare i propri figli e il prossimo, sono possibili. Si può tornare indietro? Si può ritirare quella mano che ha rubato? Si può ritirare quel pensiero che ci ha fatto diventare detenuti? No, non si può. Ma si può fare un’altra cosa. Si può scegliere di essere persone migliori, persone che sbagliano e lo riconoscono. Persone che portano in faccia i pesi dei propri errori, partire da qui per diventare persone che sanno chiedere perdono, che sanno segnare un punto da cui ricominciare per amare meglio i propri figli, persone che vogliono recuperare. Se per noi la vita di don Peppe Diana è un modello di vita in cui le scelte sono state sempre e solo dettate dall’amore, vuol dire che c’è la speranza che imitando le sue scelte giuste potremmo un giorno tornare a essere un modello di vita per i nostri figli e quel giorno allora, e da allora ogni giorno, per noi sarà davvero una grande Festa del Papà. La più bella. Reparto Firenze, carcere di Poggioreale Dove lavoro? Su una nave il suo nome è “Speranza” e presto mi porterà da te Oggi c’è una data per ogni festa, o meglio una giornata dedicata a qualunque cosa. Forse, nel tentativo di ricordare mettendo la data simbolo si corre il rischio di volare troppo alti, e perdere il contatto con le cose più vere e concrete della vita. Ieri era il 19 marzo, San Giuseppe, data simbolo per la cristianità e per i papà, anche giustamente, perché San Giuseppe è il padre per eccellenza. Quindi, ieri, tutti i bambini hanno festeggiato i loro papà. I papà però dovrebbero essere festeggiati ogni giorno, soprattutto dai figli un po’ cresciuti che spesso relegano ad altri il compito di accudire i loro genitori ad istituti di accoglienza per anziani, cosa che in genere si fa con i figli. I papà sono una figura importantissima nella vita dei figli: cercano di guidarli e aiutarli, magari, a non commettere gli errori che loro stessi hanno commesso, cercano sempre di capirli in ogni decisione che in solitudine prendono anche se non la condividono. I figli dovrebbero capire che fare il genitore è un mestiere troppo difficile e perdonare quando un papà commette degli errori. Ricordarsi, poi, di onorarli tutto i giorni e non solo il 19 marzo. Questa volta, però, ti scrivo io, figlio, e cambio le tradizioni delle ricorrenze. Se per la festa del papà è il papà a scrivere ad un figlio, e se a farlo è un papà detenuto, la cosa è inusuale. Ho un figlio di due anni e mezzo, si chiama Nathan, e crede che io sia lontano da lui perché lavoro su una nave. L’ultima volta che è venuto a trovarmi nel centro penitenziario mi ha chiesto come si chiamava questa nave; io non ho risposto subito, ma ho deciso di farlo scrivendogli una lettera, utilizzando proprio la festa del papà per cogliere l’occasione di esprimere un sentimento che parte proprio da quella domanda, “il nome della nave?”. Cercando un po’ dentro me stesso ho trovato la risposta. Quella nave si chiama Speranza. È una nave grande, piena zeppa di naufraghi, un po’ rovinata. Grigia, con un po’ di ammaccature, ma si tiene a galla. È una nave sicura, ci sono porte e finestre di ferro e uomini in divisa che fanno in modo che nulla di male accada. Sono convinto che la nave Speranza un giorno approderà in un posto non troppo lontano, dove scenderò, e voltandomi vedrò Speranza allontanarsi, augurandomi che lasci qualcuno scendere, in un altro porto, e che io mi senta più vicino a te. Un padre detenuto scrive a un figlio nella festa del papà per scusarsi, per far sapere ad un bimbo di poco più di due anni che non esiste giustificazione per non essere presente, per non poterlo accompagnare a scuola la mattina, o per un caldo abbraccio nel momento del bisogno. Perché in questa nave le emozioni sono chiuse dentro sé stessi, e molte volte sono difficili da mostrare nel poco tempo a disposizione quando ci si può incontrare, e quello che rimane, prima di dividersi nuovamente, è il ricordo di una vocina dolce, o di una piccola manina che ti lancia un bacio mentre quella porta si chiude. Allora figlio mio, scrivo io a te per ringraziarti, perché invece tu ci sei, sempre, e anche se nel tuo cuore ora c’è solo una debole l’eco, tu sei l’unico in grado di riempire ogni attimo del mio tempo. Dal carcere di Secondigliano Latina. Giovani Democratici: “Una politica coraggiosa tratta anche temi scomodi” latinatoday.it, 20 marzo 2023 L’incontro “Parliamo di carcere” organizzato a Latina. Vanzini: “Abbiamo voluto provare a non dare risposte ma a suggerire domande, per stimolare le persone ad avere uno sguardo diverso su questioni molto spesso colpevolmente dimenticate”. “Una politica coraggiosa tratta anche temi scomodi”: con queste parole il segretario provinciale dei Giovani Democratici di Latina Stefano Vanzini commenta “Parliamo di carcere”, l’evento organizzato nei giorni scorsi nel capoluogo pontino nello spazio Latinadamare con diversi tavoli tematici: “Carcere e droga”, “Chi vive il carcere?” e l’ultimo “41-bis = Mafia (?)” “Parliamo di carcere è stato un successo - ha dichiarato Vanzini -. Il nostro impegno è appena iniziato, e sicuramente avrà un seguito: Latina si è dimostrata attiva e propositiva, a testimonianza che questa città è pronta per una politica diversa. L’abbiamo sempre pensato. Preziosissimo il contributo di Mauro Pescio e delle tantissime associazioni. Hanno aiutato tantissimo le parole e i ragionamenti di Luigi Manconi, Federica Graziani, Alessandro Capriccioli e di tutti coloro che hanno partecipato. Ognuno di loro ha saputo portare il proprio sguardo particolare”. “Abbiamo voluto provare a non dare risposte ma a suggerire domande, per stimolare le persone ad avere uno sguardo diverso su questioni che molto spesso vengono colpevolmente dimenticate - ha aggiunto il segretario provinciale Giovani Democratici di Latina -. Crediamo fortemente che la politica possa farsi anche al di fuori delle istituzioni, per raccogliere le storie degli ultimi e costruire insieme delle soluzioni. Dobbiamo riuscire a immaginare una politica diversa, che non ha paura di scontrarsi con i temi più complessi”. Enrico Sbriglia descrive il mondo delle carceri con “Captivi”, edito da Edicusano adnkronos.com, 20 marzo 2023 Si intitola “Captivi” la nuova opera di Enrico Sbriglia, edita da Edicusano, la casa editrice dell’università Niccolò Cusano. Ispirato alla moltitudine di “prigionieri” incontrati, l’autore inventa un personaggio, il direttore del penitenziario Cesare Sanfilippo, raccontandone i fantastici ricordi scanditi dall’orologio della pena. ‘Captivi’ potrebbe essere un piccolo manuale di diritto penitenziario certamente ‘sui generis’ il quale, invece di citare articoli e commi, racconta di uomini e donne che vivono all’interno della dimensione carceraria. L’autore, in verità, descrive come le leggi fatichino, immancabilmente, ad adattarsi alle persone, perché “l’essere umano è sempre una cosa complessa e con il trascorrere del tempo, inevitabilmente, muta, nel bene o nel male, ma muta”, si legge nelle note editoriali. Enrico Sbriglia, per interposta persona del direttore Cesare Sanfilippo, in realtà “descrive quello che è ancora l’attuale sistema penitenziario italiano, ingessato nei suoi riti e nelle sue regole, mentre il mondo cambia velocemente. A ben guardare, non c’è tema di cronaca nera ed attuale che non venga affrontato attraverso i suoi talvolta inconsapevoli protagonisti: i terroristi, i mercanti di guerra, i cecchini, i pentiti, i tossicodipendenti, le persone transgender, gli sbandati, i folli, i colletti bianchi, gli immigrati irregolari, i ladri, gli assassini”... Queste persone che si incontrano nella quotidianità del carcere “si traducono in storie umane, in personaggi ciascuno con la propria identità, i quali ci raccontano di una umanità all’interno della quale, volenti o nolenti, tutti noi facciamo parte e di cui, in qualche misura, siamo anche corresponsabili, perché tutti uniti, in fondo, da uno stesso destino di comunità”. Edicusano è la Casa Editrice dell’Università Niccolò Cusano, che nel corso degli anni si è specializzata nella pubblicazione di collane universitarie, al fine di diffondere le attività didattiche e di ricerca dell’Università. Dal 2019, è stata introdotta la Collana Relax che raccoglie romanzi e racconti rivolti ad un vasto ed eterogeneo pubblico; la stessa nasce con l’idea di ampliare le prospettive della Casa Editrice Edicusano e per regalare ai lettori un momento di piacevole relax. Quanti abusi in nome della “libertà” di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 20 marzo 2023 È un concetto più volte strumentalizzato nel corso della Storia. Chi esercita il potere può tradurla in oppressione. Subirla significa sperimentare la violenza. Se ne parlerà alla Biennale Democrazia di Torino. La norma della libertà è ignota a me, come a tutti noi. Lo stesso per la giustizia, l’uguaglianza, la democrazia, l’umanità e tante altre bellissime cose. La libertà si invoca contro il male che impedisce al bene di trionfare o semplicemente contro i fastidi che impediscono di vivere tranquillamente nel proprio astuccio privato. Libera nos a malo, dice l’antica preghiera. Si presuppone in questo modo che la vita sia una grande o piccola lotta tra il bene e il male: una lotta che può lasciare indifferenti solo gli ignavi, quelli che non hanno diritto di stare in Paradiso, ma nemmeno all’Inferno. Nella filosofia, nella teologia, nei programmi dei partiti e dei governi, nei convegni e nelle conferenze intelligenti che tanto ci piacciono, nelle strade e nelle piazze, ciascuno ha da dire la sua ma, se ne metti due insieme, capisci che ciascuno, la libertà, la pensa a modo suo. Allora, concetti che ti sembravano universali si rivelano contraddittori, singolari, parziali o addirittura settari. Singolari sì, ma hanno la pretesa di valere per tutti, anche per chi non la pensa come te. Hanno, per così dire, un aspetto bonario, ma la sostanza è aggressiva. Essendo valori assoluti devono valere assolutamente. Siamo tutti per la libertà! Dove ci sono violenza, stupri, arbitri, oppressioni, pregiudizi, conformismo, ignoranza, ossessioni, paure, sfruttamento, schiavitù, s’invoca e si combatte per la libertà. Questo è tanto giusto e ovvio che non ha bisogno di commento. Meno ovvio è che la si invochi anche al contrario, per schiacciarla, la libertà. È una bella parola, a disposizione di tutti. Il marchese de Sade è stato a suo modo un campione della libertà: libertino, si dice, ma il libertinaggio è libertà al massimo grado. Le cose ignobili sono sempre quelle che dovrebbero attirare per prime la nostra attenzione. Prendiamo nota che in nome della libertà, della libera ricerca della felicità, come sta scritto nella Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776, l’immenso West si considerò spazio vuoto a disposizione dei coloni e dell’esercito federale, e lì si consumò uno dei maggiori genocidi che la storia abbia conosciuto, contro la “grande nazione indiana” che popolava l’intero continente. La Libertà, il colosso con la fiaccola in mano, accoglie il viaggiatore che sbarca a Manhattan, ignaro che quella terra fu “acquistata” dagli olandesi per poche perline e cianfrusaglie dalla tribù dei nativi che non conoscevano che cosa volesse dire proprietà. In nome della libertà persero la loro terra e, molti, la loro vita. Che cosa di diverso fecero i conquistadores nel centro e nel sud delle Americhe? Erano alla ricerca dell’oro, ma dicevano d’essere venuti a liberare quei selvaggi dalla superstizione, dai sacrifici umani, dal cannibalismo. Neppure Adolf Hitler diceva d’essere contro la libertà. Al contrario. Le camicie brune e poi le SS erano i difensori della “vera” libertà della Germania e dell’Europa minacciate dal complotto giudaico-bolscevico. Di battaglia per la libertà si parlava nel momento in cui si scatenava una guerra mondiale e si uccidevano milioni di persone nelle camere a gas. Le goliardiche camicie nere nostrane, dal canto loro, promettevano libertà alle “faccette nere belle Abissine” e, intanto, l’esercito spargeva iprite sulle popolazioni dell’Eritrea. Cambiava la miscela politica, ma anche i massacri dei kulaki e “purghe” staliniane si giustificavano con la libertà insidiata dai nemici del popolo. Non dimentichiamo, infine, che non c’è stata alcuna impresa coloniale, del passato e del presente, che non abbia issato la bandiera della libertà. Tutti amano presentarsi come “liberatori” e non c’è invasione o bombardamento che non venga spacciato come un dovere verso la libertà. È facile constatare come questa parola (insieme, ad esempio, la giustizia e la uguaglianza) suona diversamente sulle labbra di chi sta in alto e di chi sta in basso nelle gerarchie del potere, dei potenti e degli inermi. Alto e basso: non c’è parola del lessico politico che si sottrae a questa dialettica di significati. La libertà che serve a chi sta in alto si manifesta in oppressione; per chi sta in basso, la libertà si manifesta in rivolta contro la libertà di chi sta in alto. Chi non distingue non solo fa confusione e intorbida il discorso, ma inganna anche. La norma della libertà ci è, dunque, ignota perché ognuno ha a cuore la sua libertà. A seconda della posizione sociale, quella dell’uno diverge da quella dell’altro e tutte insieme possono confliggere. Non c’è, allora, qualcosa di inoppugnabile? È, forse, tutto relativo? Riflettiamo: se non sappiamo, in generale, che cosa è la libertà, sappiamo invece bene che cosa è il suo contrario nella carne viva degli uomini, delle donne, dei bambini e degli anziani soli, degli stranieri, dei migranti, delle minoranze, degli irregolari, degli emarginati, dei disoccupati, dei poveri. Sappiamo come questo contrario si manifesta sempre e comunque: con la violenza in una delle sue tante forme. Riflettiamo ancora: la violenza è cosa che chiunque conosce e riconosce quando la subisce su di sé e riesce a vedere negli altri. C’è forse qui un nucleo minimo di umanità comune che chiede di essere rispettato. I masochisti amano la violenza, ma solo se sono essi stessi a volerla. La violenza subita ci repelle, prima e indipendentemente di sapere che cosa la libertà è in teoria. L’esperienza dell’orrore della violenza è universale e universale è la sua condanna. C’è una macrofisica della violenza, la guerra, e c’è una microfisica nelle piccole cose quotidiane. Il rigetto della violenza a ogni livello è un contributo alla libertà. La stessa cosa è per la giustizia? Che cosa è la giustizia? Se lo chiediamo in astratto, ci perdiamo. Non ci vuol molto a saperlo, invece, quando sperimentiamo l’ingiustizia nelle grandi come nelle piccole cose. In fondo, libertà e giustizia si tendono la mano. Se vuoi la libertà, cerca di renderti conto di dove nasce la violenza, di dove attecchisce e di come si sviluppa. Questo potrebbe essere il motto di questa VIII edizione di Biennale Democrazia che ha scelto di fermarsi più sulle pratiche e meno sulle dottrine. Per questo non inizierà, per esempio, con “la libertà da e di”, e non terminerà con “la libertà degli Antichi e dei Moderni” e magari dei Futuri, ma con le vittime della guerra a Kiev e con il processo a Siniavskij e Daniel a Mosca. L’Accademia è, sì, buonissima cosa, ma la nostra Biennale vuole diffondere pungoli per scuotere di dosso pigrizie, conformismi e indifferenze non (solo) guardando attraverso concetti, ma anche attraverso le esperienze della libertà, dei suoi amici e dei suoi nemici. La rassegna - Torna a Torino, dal 22 al 26 marzo, in varie sedi, Biennale Democrazia. La rassegna, dal titolo “Ai confini della libertà” ideata e presieduta da Gustavo Zagrebelsky, prevede oltre 100 incontri e più di 220 ospiti italiani e internazionali, tra i quali la giornalista e attivista Ece Temelkuran, la filosofa Rahel Jaeggi,gli storici Mikhail Minakov e Bohdan Shumylovych. Domenica finale con Ezio Mauro alle Ogr con lo spettacolo Mosca 1966. Per informazioni: www.biennaledemocrazia.it. Dobbiamo costruire una Repubblica fondata sulla vita e non sul lavoro di Gabriele Segre Il Domani, 20 marzo 2023 I recenti dibattiti su settimana corta, reddito di cittadinanza, intelligenza artificiale, salario minimo ci dicono che stiamo vivendo una rivoluzione. Al centro di questo cambiamento c’è un processo tecnologico irreversibile che potrebbe portare a un’opportunità: la tecnologia non sostituirà l’uomo nel consumo, ma lo emanciperà lasciandolo libero di concentrarsi sui suoi sogni. Ma dopo millenni di civiltà basata sul lavoro saremo in grado di gestire questo cambiamento? La politica ha il compito di concepire uno spazio di dignità e cittadinanza oltre l’occupazione per costruire una “Repubblica fondata sul vivere”. Che cosa succede a una “Repubblica fondata sul lavoro” se proprio il lavoro non è più così al centro della nostra esistenza? La domanda sembra formulata apposta per soddisfare le utopie dei fannulloni, ma in realtà è uno scenario nel quale abbiamo possibilità concrete di ritrovarci, e non certo per amore dell’indolenza. La settimana corta, guardata con interesse da mezza Europa, la revisione del reddito di cittadinanza, gli allarmi sulle figure professionali messe a rischio dalle intelligenze artificiali e i contrasti sul salario minimo sono tutti segnali di un’evoluzione epocale che non riguarderà solo il mercato del lavoro, ma il suo significato all’interno della nostra cultura civica. Al centro del dibattito - Al centro del cambiamento c’è un processo tecnologico ormai irreversibile, caposaldo di un’economia dove il lavoratore è sempre meno indispensabile. Il dibattito divide chi paventa un futuro pericolosamente dominato dalla tecnica, a scapito di un’umanità privata di un suo carattere essenziale, e chi, invece, coglie in questo processo una potenzialità evolutiva per la nostra specie, superando l’idea che il destino dell’uomo sia quello di intervenire solo là dove la tecnica non può arrivare. Se in un futuro prossimo, le macchine saranno in grado di realizzare sostanzialmente qualsiasi cosa, l’uomo potrà finalmente svincolarsi da esse per dedicarsi a ciò che esula dalle prerogative della tecnica. Senza tecnofobia - Un cambiamento che dobbiamo vivere senza tecnofobia, come spiega il filosofo Maurizio Ferraris, ricordandoci che le macchine non possono sostituire l’uomo nel consumo, né nella facoltà di provare emozioni. Una macchina non ha la volontà per prendere decisioni, non prova stanchezza, desiderio o noia. Produce, ma non fruisce della sua opera. Possiamo programmarla per scrivere, impaginare e stampare un libro. Ma la scelta di goderne della lettura o di usarlo per fare bella mostra di sé in libreria è tutta nostra. A patto che la tecnologia sappia occuparsi anche della distribuzione equa delle risorse che immette sul mercato, per la prima volta nella storia l’uomo potrebbe avere le capacità per liberarsi dall’incombenza di essere anzitutto produttore e concentrarsi sui suoi sogni. Tuttavia, mano mano che le settimane lavorative si accorciano, gli interrogativi sul nostro costrutto sociale sono destinati ad aumentare: come gestiremo tutto questo tempo libero? Sapremo accettare, senza crisi identitarie e sensi di colpa, che il consumo non sia pura dissipazione di risorse o accumulazione di beni, bensì uno spendere qualitativamente la propria esistenza? La cultura del lavoro - È chiaro che in questi termini il problema è, prima di tutto, culturale. Dopo 10mila anni di civiltà basata sul lavoro, al punto che, per secoli, la dignità dell’individuo è stata misurata in base alla sua professione, l’idea che l’uomo non sia più faber ma consumer è totalmente inedita. Per accettarla non basta uscire dalla logica della produttività: occorre sviluppare un’educazione alla libertà del consumo, un’etica che renderà possibile concepire uno spazio di dignità e cittadinanza oltre l’occupazione produttiva. Se si libera l’uomo solo dal lavoro, ma non dalla “cultura del lavoro”, si rischia di produrre consumatori frustrati, a cui la privazione di una qualifica toglie anche l’identità, persone che continueranno ad essere desiderose di dedicarsi a mansioni di cui non vi è più bisogno. È un’emergenza di cui si sentono le prime avvisaglie anche tra chi, pur godendo di un relativo benessere, si sente privo di scopo perché fuori dal mercato. Per i senza fissa dimora il reddito di cittadinanza è una questione di vita o di morte di Agnese Ambrosi* Il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2023 Chi vive sulla strada non è occupabile. Mostafa aveva solo 19 anni. Non è stato il gelo di dicembre ad ucciderlo a Bolzano, ma l’incuria delle istituzioni. La Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora (PSD) prova a tenere il conto delle PSD decedute in conseguenza della condizione di deprivazione, in quella che definisce la “strage invisibile”. Scorrendo l’elenco fatto di nomi, data, luogo, circostanze e causa della morte, nazionalità, si ha la rappresentazione plastica di una umanità privata di ogni diritto di cittadinanza, a volte anche del diritto all’identità. Spesso, infatti, nella casella del nome c’è uno spazio vuoto, a testimoniare che nessuno conoscesse le generalità delle PSD decedute, a tutti gli effetti invisibili. Invisibili - in primo luogo - alle istituzioni, che le hanno uccise per incuria. Quando la tua casa è la strada, non sei occupabile. Puoi avere anche 19 anni ed essere teoricamente nel pieno delle tue forze, ma tutte le tue energie sono drenate in una feroce e disumana lotta per la sopravvivenza. Quando sei fortunato riesci a sopravvivere. L’incertezza e la provvisorietà ti divorano. Il gelo ti consuma. La solitudine ti spezza. Per molte persone senza dimora, il reddito di cittadinanza ha costituito l’unico punto certo da cui poter ripartire. Poter contare su una base sufficiente di reddito senza scadenza permette di interrompere il circolo infernale della morte imminente e pensare ad una programmazione, se pur minima. Un posto letto, un ostello, dove recuperare l’integrità fisica e mentale per poter ripartire per un progetto di vita. A volte questi percorsi sono molto lunghi, anche anni: non si può stabilire a priori una durata, perché l’assenza della dimora è come una malattia che debilita profondamente mente e corpo. Senza questa minima base sicura, però, di certo c’è solo la strada, la marginalità e la disoccupazione. Togliere il reddito alle PSD perché, per il solo fatto di avere tra i 18 e i 65 anni, sono da ritenersi occupabili otterrà il surreale effetto di accrescere le fila di coloro che non saranno più stabilmente occupabili. Così come restringere le maglie della protezione speciale in nome della lotta all’immigrazione irregolare otterrà il paradossale effetto di aumentare la schiera delle persone irregolari. In nome della sicurezza si ingrosserà la marea umana figlia della disperazione, con maggiore insicurezza per tutti, in una surreale eterogenesi dei fini. Noi assistenti sociali, che stiamo “sulla strada”, veniamo in contatto ogni giorno con mondi sommersi, dove brulicano lo sfruttamento, l’illegalità, le violazioni e le violenze, cause di sofferenza inaudita. Più le istituzioni mettono ogni sorta di barriere e di difficoltà, più questa dilagante marea umana sommersa aumenta. Non è vero che le barriere creano sicurezza, solo i diritti la assicurano. Le criminalità gioiscono di avere una schiera di persone a disposizione, ricattabili, invisibili, disperate. Quando invece si danno alle persone diritti e sostegni che permettano loro di sopravvivere, esse transitano naturalmente in percorsi positivi, “regolari”, di fuoriuscita dall’invisibilità, di re-inclusione nella società, con maggiore sicurezza per tutti. Rogers ci insegnava che le persone tendano naturalmente al bene, se inserite in un contesto positivo che dà loro fiducia. Questo lo vediamo ogni giorno nel nostro lavoro. Non ho mai incontrato persone che si grattavano la pancia sul divano. Ho incontrato persone che lottavano ferocemente sotto la pioggia, il vento, nell’inferno, per rimanere attaccate alla vita. Che chiedevano una possibilità, prima che il portone delle istituzioni si richiudesse sulla loro morte, fisica o esistenziale. La nuova misura, che si definisce per l’ “Inclusione Attiva”, sarà questo portone che si chiude per molte Persone senza dimora e avrà il paradossale effetto di aumentare l’esclusione, di far scivolare nuovamente sulla strada persone che stavano faticosamente ricostruendo le proprie vite. E la strada, uccide. Uccide fuori e soprattutto dentro. Il reddito di base dovrebbe essere garantito a tutti, ma sicuramente dovrebbe essere mantenuto per un ammontare sufficiente e senza scadenza per coloro per cui esso diventa, davvero, una questione di vita o di morte. *Assistente sociale, vice presidente Ordine assistenti sociali Toscana e docente a contratto Università di Siena L’omogenitorialità e l’odiosa violenza di quelle parole di Elena Loewenthal La Stampa, 20 marzo 2023 Secondo il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli, se due persone dello stesso sesso chiedono il riconoscimento “e cioè l’iscrizione all’anagrafe di un bambino che spacciano per proprio figlio, significa che questa maternità surrogata l’hanno fatta fuori dai confini nazionali”. Di fronte a un pensiero e a un linguaggio del genere il primo impulso è quello di sgranare gli occhi per la brutalità, per lo scatto di spietata indifferenza verso tutto ciò che significa la genitorialità: cura, fatica, responsabilità, ma soprattutto un amore che non è un cristallo inerte ma cresce e cambia e si fa giorno per giorno. E che ben poco se non nulla a che vedere con l’accertamento di un Dna condiviso. La genitorialità, cammino bello e difficile come nessun altro, chiede innanzitutto un rispetto assente in quelle parole pronunciate, con una disinvoltura che sconfina nella volgarità. Di fronte a quella frase tutti i genitori, uomini e donne, eterosessuali o gay, non possono non indignarsi. Che bisogno ci sarà mai di usare parole del genere? Si può pure non essere d’accordo su un’idea di genitorialità che non sia strettamente legata al genere e all’orientamento sessuale di chi è padre o madre, si può pure. Ma perché lanciare parole del genere, come se per una categoria di persone stabilita dalle preferenze sessuali essere padre o madre fosse, a prescindere da qualunque altra circostanza, un atto criminale pari a quello di smerciare stupefacenti? Espressione di un disprezzo totale, tanto incontenibile quanto incomprensibile, parole del genere offendono tutto ciò che significa diventare ed essere un genitore.Ma le parole del vicepresidente della Camera, onorevole Fabio Rampelli, non solo la malaugurata uscita di un impulso irrefrenabile. Sono anche il fragile segno di una battaglia contro i mulini a vento, una specie di involontaria bandiera bianca. Perché la società progredisce, la famiglia cambia. Essere genitori resta un dono incalcolabile, e finalmente questo dono è, o sta diventando - non senza ostacoli e incidenti di percorso - per tutti. Uomini e donne, eterosessuali o gay. Non c’è nulla da fare, non c’è santo che tenga, per fortuna: dalle battaglie per i diritti non si deve né si può tornare indietro. Verrà un giorno, forse meno lontano di quanto non ci si aspetti e di quanto l’onorevole Rampelli non speri, in cui il sesso e l’orientamento sessuale dentro la famiglia non saranno più una questione politica. Anzi, non saranno più nessuna questione. Migranti. Piano italiano per la Tunisia: fondi americani per bloccare gli sbarchi di Francesco Bechis e Valentina Errante Il Messaggero, 20 marzo 2023 Il pressing per liberare i quasi due miliardi promessi dall’Fmi. Il nodo sono i soldi. Da un lato il prestito di 1,9 miliardi di dollari destinato a sostenere la Tunisia e sospeso dal Fondo monetario internazionale. Dall’altro i fondi Ue, anche quelli bloccati, dopo la svolta autoritaria del presidente tunisino Kais Saied, tra l’altro vicino alla Russia e alla Cina. Con un Paese sull’orlo della bancarotta e un’ondata di migranti che rischia di arrivare sulle nostre coste: le partenze aumentate del 164% in un anno e l’intelligence ha già lanciato l’allarme sulle prospettive future. La questione tunisina, una polveriera che rischia di esplodere da un momento all’altro, è in cima all’agenda del governo. Un cruccio quotidiano per Giorgia Meloni e infatti da settimane si susseguono riunioni a Palazzo Chigi con i ministri competenti e i vertici dei Servizi. Sarà questo dunque il cuore della missione della premier al Consiglio europeo di giovedì: un’occasione per convincere gli Stati membri ad accelerare il sostegno finanziario al Paese nordafricano in dissesto. La stessa missione vede al lavoro il vicepremier e ministro degli Affari esteri Antonio Tajani, che ha in programma tra oggi e domani un colloquio telefonico con Antony Blinken, il segretario di Stato dell’amministrazione Biden, per sciogliere il nodo dei fondi del Fmi. Senza quei soldi, spiegano i nostri diplomatici a Tunisi, il Paese di Saied ha tra i sei e i nove mesi di autonomia prima di finire in bancarotta. L’emergenza sarà affrontata oggi anche a Bruxelles, dove Roma ha ottenuto dal capo della diplomazia Ue, Josep Borrell, la disponibilità per un’azione europea nel Paese nordafricano. Tra le opzioni al vaglio una “partnership operativa”, ovvero una nuova missione navale, per il contrasto ai trafficanti sulle coste tunisine ma anche il lancio di una “talent partnership” per aprire entro l’estate nuovi corridoi di immigrazione legale in Europa per chi voglia e possa lavorare. Al vertice dei ministri degli Esteri, Tajani tenterà di ottenere risposte concrete. E rivendicherà il lavoro della diplomazia italiana per sostenere il mercato del lavoro tunisino. C’è già una prima lista di richieste delle aziende italiane in Tunisia e la disponibilità a inaugurare corsi di formazione professionale per 200 operatori tessili, 100 meccanici, altri 150 tra alberghiero, automotive e calzaturiero, mentre saranno reclutati 300 infermieri per lavorare in Italia. Ma è una goccia nell’oceano. Sul piano finanziario, i negoziati per salvare la Tunisia vanno a rilento. Prima il rinvio del prestito del Fmi a Tunisi, complici le tensioni verso il presidente Saied e la sua stretta autoritaria. Poi le critiche della Banca Mondiale per lo scioglimento del Parlamento tunisino, il bavaglio alle opposizioni, le politiche anti-immigrazione razziste nei confronti dei subsahariani. Il vero nodo però è un altro: Saied non dà garanzie sull’impegno dei fondi. Per Tunisi, che non è riuscita neanche ad approvare una legge finanziaria, rispettare le severe clausole del Fmi è un’impresa improbabile. Le stesse remore del resto hanno spinto l’Ue a bloccare i fondi per il vicino paese nordafricano. Tra il 2017 e il 2020, la Tunisia avrebbe dovuto ricevere da Bruxelles circa 91 milioni di euro nell’ambito dell’Eu Trust Fund. Tra le attività finanziate ci sono proprio la lotta ai trafficanti, la gestione dei confini e il rimpatrio forzato di migranti dall’Europa. Mentre l’ultimo memorandum d’intesa tra Italia e Tunisia prevede uno stanziamento di 200 milioni di euro tra il 2021-2023, di cui 11 milioni per la cooperazione sulla migrazione. Numeri che adesso, se non si sblocca l’impasse tra una sponda e l’altra dell’Atlantico, rischiano di rimanere lettera morta. Migranti. Spalloni e frontiere, quando in fuga erano gli italiani di Franco Corleone L’Espresso, 20 marzo 2023 Nel 1968 uscì il libro delle lettere dal carcere di Ernesto Rossi con il titolo “Elogio della galera”. È proverbiale l’ironia tagliente dell’allievo di Salvemini, ma in questo caso la scelta di una espressione così paradossale ricorda l’Elogio della ghigliottina di Piero Gobetti. Il carcere come scuola di intransigenza e di dignità. Ernesto Rossi uscì da Regina Coeli pochi giorni dopo la caduta del fascismo il 25 luglio del 1943 e subito si recò a Firenze e poi a Milano e Bergamo e infine a Torino. L’8 settembre lo vede parlare alla folla di Bergamo dopo tredici anni dall’arresto in quella città. Le condizioni di salute assai precarie lo costrinsero a passare in Svizzera. Non fu il solo a rifugiarsi nella terra d’asilo per antonomasia, lo fecero tanti antifascisti come Cipriano Facchinetti, Giulio e Luigi Einaudi, Altiero Spinelli, Adriano Olivetti, Umberto Terracini, Ernesto Treccani oltre a molti ebrei a rischio di deportazione (clamorosa la vicenda di Liliana Segre), militari, disertori e renitenti alla chiamata alle armi della Repubblica Sociale di Salò. Le ricerche storiche parlano di 5.000 civili e ventimila militari. E questa umanità disperata e terrorizzata come poteva superare la frontiera? Solo con l’aiuto dei contrabbandieri che conoscevano i sentieri tra i boschi per sfuggire ai controlli e ovviamente venivano pagate cospicue cifre. Ernesto Rossi entra clandestinamente in Ticino e racconta: “La discesa sul versante svizzero fu disastrosa, perché sbagliammo strada e dovemmo scendere, di notte, per un burrone sotto l’acqua e la grandine”; Ada Rossi raggiunse Ernesto il 29 settembre e descrisse la sua fuga rocambolesca con queste parole: “Misi un po’ di roba in un sacco da montagna, e poi andai a Lanzo, ma vi giunsi quando già vi erano i tedeschi. Mi accordai con un contrabbandiere che mi accompagnò per qualche tratto poi mi lasciò sola. Credevo di essere già in Svizzera quando sentii parlare in tedesco. Ricomparve il contrabbandiere e mi chiese altro denaro: gli detti tutto quello che avevo”. Le autorità del Canton Ticino non accoglievano tutti i profughi, venivano privilegiati gli ex prigionieri di guerra alleati rispetto ai renitenti alla leva, e gli ebrei subivano trattamenti ostili legati a malcelato antisemitismo. Vi erano campi di internamento e pratiche di respingimento e espulsioni. L’aiuto dei contrabbandieri dopo il rafforzamento della presenza di fascisti e tedeschi, come guide era essenziale. Addirittura il Comitato di liberazione nazionale assoldava i contrabbandieri a tariffe fisse per l’assistenza, dall’altra parte la Rsi valutò la possibilità di deportare le famiglie degli spalloni come ritorsione. Il numero di soggetti impegnati viene stimato intorno al migliaio. In alcuni casi vi furono richieste esose di denaro soprattutto verso gli ebrei. Nessuno si è mai sognato di dipingere questi uomini come criminali dediti alla tratta di esseri umani e trafficanti. La strage di Cutro oltre all’insulto delle parole ciniche del ministro Piantedosi contro le madri afghane, ha prodotto un decreto legge che annuncia la persecuzione degli scafisti nell’intero globo terracqueo (sic!) e pene fino a trent’anni. Demagogia e propaganda nel silenzio assordante del ministro Nordio. Migranti. “Ripristiniamo le missioni europee in mare. I morti di Cutro sono una ferita per tutti” di Tonia Mastrobuoni La Repubblica, 20 marzo 2023 Alla vigilia di un cruciale viaggio in Georgia, la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock (Verdi) accetta di parlare a tutto campo con Repubblica e altri tre giornali europei. In particolare sulla tragedia di Cutro, sull’Ucraina e sulla Cina, ma anche sulla “politica estera femminista”, sulle tensioni in Medio Oriente e la crescente irritazione in Europa per l’erraticità e la perdita di leadership in Germania. Ministra, nel tragico naufragio di Cutro sono morti oltre 80 migranti: 34 erano minori. Il governo Meloni respinge ogni responsabilità e continua a criminalizzare le ong che cercano di scongiurare queste tragedie. Non pensa che bisognerebbe ripristinare le missioni europee nel Mediterraneo? “Se chiunque provasse solo a immaginare di stare su uno di quei gommoni e di assistere alla morte del proprio figlio nel Mediterraneo, non credo che dormirebbe più sonni tranquilli. La morte nel Mediterraneo è la ferita aperta dell’Europa: non siamo riusciti a definire una politica comune dell’immigrazione. Per quanto difficile, continueremo a lavorarci ostinatamente. Non possiamo abbandonare i Paesi ai confini esterni della Ue, né quando salvano gli esseri umani in mare, né quando respingono chi arriva alla frontiera ma non ha diritto all’asilo”. E quindi? “C’è bisogno di responsabilità comune e dobbiamo rafforzare la nostra solidarietà. Perciò per me è così importante che ripristiniamo una missione europea di salvataggio in mare. Significa anche responsabilizzare i Paesi ai confini esteri della Ue a registrare chi arriva. E quelle persone devono essere trattate in modo umano e occorre salvare chiunque sia in pericolo di vita. Infine, la redistribuzione non può essere spontanea, ma espressione di un processo ordinato. Ci vuole umanità e ordine”. Perché, da leader dei Verdi, lei sostiene che essere pacifisti vuol dire sostenere l’Ucraina anche con le armi? “Il pacifismo non vuol dire tollerare le ingiustizie. Ma che nessuno può usare la violenza per ottenere i suoi obiettivi. Se Putin viola brutalmente il diritto internazionale, assale un Paese vicino e più piccolo, uccide a sangue freddo delle persone, dal mio punto di vista abbiamo la responsabilità internazionale di aiutare la vittima. E in questo caso è l’Ucraina e il suo popolo. Perciò abbiamo cercato per l’intero anno scorso di dissuadere Putin anche con i canali diplomatici da questa brutale guerra d’aggressione. Ma la risposta di Putin è stata: attacchi ancora più brutali. Perciò sosteniamo l’Ucraina anche con le armi. Perché una pace imposta con la forza non è una pace. E voltarsi dall’altra parte sarebbe omissione di soccorso”. Pensa che l’Ucraina sia forte abbastanza da costringere la Russia alla ritirata? Che possibilità vede di una pace già entro la fine dell’anno? “Noi lavoriamo giorno e notte per la pace. Finché Putin bombarda degli innocenti, viola il trattato dell’Onu e non ritira le sue truppe, cerchiamo di sostenere l’Ucraina per salvare vite umane. E lo faremo finché sarà necessario. Ma è chiaro che alla lunga la pace non può essere costruita con le armi, né la libertà. Finché Putin tiene una pistola alla tempia dell’Ucraina, ogni negoziato sarebbe un ricatto”. Vede qualche possibilità che i negoziati per l’adesione dell’Ucraina alla Ue inizino già quest’anno? E che ne pensa delle garanzie per la sicurezza chieste da Kiev alla Nato? “Anzitutto chapeau alle riforme intraprese nonostante la guerra per accelerare il processo di adesione alla Ue. Ma per quanto l’Ucraina debba far parte della Ue, non possiamo fare sconti sullo stato di diritto, sulla libertà di opinione e sui valori comuni della Ue. Perciò dipende dallo stato di avanzamento delle riforme. La Nato ha la “politica delle porte aperte” e ognuno può scegliere se aderire. Ma nel caso dell’Ucraina la questione non si pone, per ora. Prima deve finire questa guerra orribile. Ecco perché non smetteremo di supportarla nel suo diritto all’autodifesa e a esistere”. C’è una preoccupazione crescente che anche le ex repubbliche sovietiche Moldavia e Georgia possano essere risucchiate dalla sfera d’influenza russa. Lei che ne pensa? “Parte della strategia russa è quella di destabilizzare le società che si incamminano su un sentiero europeo. E adesso che mancano i successi militari in Ucraina su cui Putin puntava, non credo sia un caso che siano aumentati i tentativi russi di influenzare la Moldavia e la Georgia, che i loro governi vengano sabotati, se combattono la corruzione e se cercano di staccarsi dalla dipendenza russa. E’ il motivo per cui vado ora in Georgia e ho avviato la ‘Piattaforma per la Moldavia’. Con il popolo moldavo condividiamo i valori europei. Il loro desiderio di vivere in pace e libertà lo sosteniamo attraverso la prospettiva di adesione alla Ue”. Sull’attesa nuova ‘Strategia sulla Cina’ sembra ci siano divergenze tra lei e il cancelliere Scholz... “Stiamo riscrivendo la strategia sulla Cina in stretto coordinamento con tutti i ministeri, con la cancelleria e con molte imprese tedesche, grandi e medie. Non si può fare un decoupling da Pechino in un mondo globalizzato. Ma non possiamo più essere ingenui: la nostra società aperta è forte e vulnerabile allo stesso tempo. Le esperienze di molte aziende medie dimostrano che abbiamo bisogno di garanzie per una competizione equa, che abbiamo bisogno di fare in modo che il knowhow delle nostre imprese non venga saccheggiato dalla Cina per essere sfruttato sui nostri mercati contro di noi. La Cina è partner, concorrente ma anche rivale sistemico. Le grandi aziende quotate tendono a guardare ai ritorni sul breve termine sul mercato cinese. Ma noi come governo dobbiamo tutelare gli interessi economici e la sicurezza del paese. In concreto significa che non dobbiamo consentire che nelle nostre infrastrutture critiche finiscano prodotti con cui si spiano i nostri cittadini”. Teme che le tensioni crescenti tra Stati Uniti e Cina possano sfociare in una nuova guerra fredda? “Dalla fine della Guerra fredda il mondo è cambiato. Nuovo protagonisti si sono aggiunti. La Cina è diventata una delle maggiori nazioni industriali al mondo, che purtroppo si distacca sempre di più dalle regole internazionali. Ma anche grandi democrazie come l’India, il Brasile o la Nigeria hanno un ruolo importante. La lotta ai cambiamenti climatici, le pandemie o la crisi alimentare funzionano solo se lo facciamo insieme. Allo stesso tempo non possiamo ignorare il fatto che singoli protagonisti come la Cina e la Russia non condividano più le regole che hanno sempre tenuto insieme il mondo. Le democrazie sono oggi in un conflitto sistemico con le forze autocratiche”. La strategia sulla Cina punta anche a contrastare l’influenza della Cina in Africa. Come? “Noi europei abbiamo creduto per tanti anni a un mondo illusorio, in cui le preoccupazioni degli altri Paesi non ci toccavano. È stato un buco in cui la Cina si è infilata strategicamente per ampliare il suo potere creando dipendenze economiche. Ad esempio con la via della Seta. Non le abbiamo opposto un’alternativa. Nella concorrenza sistemica con la Cina l’Europa deve diventare più attiva, dal punto di vista geopolitico. Non possiamo impedire gli investimenti geostrategici della Cina, ma possiamo fare offerte migliori a quei Paesi: equi accordi commerciali, in cui non si sfruttino solo le materie prime ma in cui una parte della produzione nasca in questi Paesi, e dunque crescita e posti di lavoro. Noi, contrariamente alla Cina, non usiamo problemi di rimborso dei debiti per esercitare pressioni politiche sui debitori e manipolare un voto alle Nazioni Unite”. Che fare con i paesi già iperindebitati con la Cina come alcuni Paesi balcanici o l’Ungheria? “Dobbiamo fare proposte per consentirgli di liberarsi dalla dipendenza cinese. Ecco perché sono andata l’anno scorso, miratamente, nei Paesi che si sono resi indipendenti dalla Cina, per offrire sostegno, in Etiopia ad esempio ma anche in Europa. Ma bisogna anche essere sinceri. E ammettere che ci sono stati Paesi in Europa che durante la crisi finanziaria e la pandemia ci hanno chiesto aiuto invano. E i cinesi sono arrivati al posto nostro. L’Ungheria è un caso a sé. Lì dobbiamo stare attenti agli investimenti cinesi anche in riferimento al rispetto delle regole europee. E dobbiamo essere certi che se aiutiamo certi Paesi a liberarsi dalle dipendenze cinesi, che essi poi non facciano segretamente affari con chi pesta con i piedi la democrazia, lo stato di diritto e i diritti umani. Ecco perché parlo di questi temi in modo così esplicito”. Lei ha annunciato una politica estera “femminista”. Che vuol dire? “Raramente ho ricevuto così tanti feedback sulle proposte: critiche ma anche molti elogi. Sembra che il tema interessi molte persone. Ed è questo l’obiettivo. Arrivare finalmente al punto in cui l’ovvio diventa realtà. Che le donne abbiano pari diritti, pari accesso alle risorse e pari rappresentanza. Perché se si guarda al mondo, l’ovvio - come lo chiamano i critici della politica estera femminista - non è poi così ovvio. Altrimenti, non avremmo solo il 26% di donne tra i nostri ambasciatori. Altrimenti non avremmo ancora negoziati di pace in cui non siede al tavolo nemmeno una donna, anche se le donne sono spesso le prime vittime delle guerre”. L’accordo nucleare con l’Iran rischia di fallire definitivamente. Teheran avrà presto la capacità di dotarsi di armi nucleari. Israele ha il diritto di difendersi militarmente se si sente minacciata dal programma nucleare iraniano? “Secondo la Carta delle Nazioni Unite, ogni Paese del mondo ha il diritto all’autodifesa. Lo diciamo anche a proposito dell’Ucraina. E la sicurezza di Israele fa parte della ragion di Stato della Germania. Purtroppo, nell’ultimo anno il regime iraniano si è già fatto beffe dei colloqui sull’accordo nucleare. Allo stesso tempo, il diritto di autodifesa ha limiti stretti, soprattutto per quanto riguarda le misure preventive. Un’escalation militare in Medio Oriente è uno scenario orribile che dobbiamo scongiurare con ogni mezzo mezzi diplomatico a nostra disposizione. Insieme ai nostri partner internazionali, stiamo dicendo chiaramente all’Iran che deve fermare l’arricchimento dell’uranio”. Quanto la preoccupa la riforma giudiziaria in Israele, che di fatto esautora la Corte Suprema? Non le ricorda la Polonia e la sua svolta autoritaria? “Proprio in virtù dei nostri profondi legami e della nostra amicizia con Israele, ho espresso la nostra grande preoccupazione per la situazione in Israele e anche nei territori palestinesi durante la visita del mio omologo israeliano Eli Cohen. Da molto tempo non si vedevano così tanti morti e così tanta violenza come negli ultimi tre mesi. La forza democratica, l’indipendenza del sistema giudiziario sono sempre stati un fiore all’occhiello di Israele, soprattutto nella regione in cui il Paese si trova. E sono proprio questi valori a unire le nostre società”. In Europa crescono i dubbi sull’affidabilità della Germania. Di recente è stata resa pubblica una lettera dell’ambasciatore tedesco dell’UE al governo, in cui avverte che le spaccature nel governo Scholz ostacolano le politiche europee e minano la credibilità di Berlino... “L’UE è una grande ‘macchina del compromesso’. Su alcune questioni partiamo da punti di partenza diversi. Ma siamo anche uniti dalla consapevolezza che solo insieme possiamo dominare il futuro. Il peso della Germania in Europa si basa sulla nostra affidabilità e sulla fiducia che i nostri partner ripongono in noi. Da questo dipende la possibilità di realizzare i nostri interessi e le nostre idee in Europa. Non dobbiamo mettere a repentaglio questa fiducia in nessun caso, e noi come governo federale ne siamo più che consapevoli”. Il Governo federale ha risposto all’ambasciatore? “Io parlo sempre con il mio ambasciatore” (Ride). Ucraina. Viaggio nel centro di detenzione dove sono rinchiusi i soldati russi catturati al fronte di Carlo Bonini e Fabio Tonacci* La Repubblica, 20 marzo 2023 Quindici minuti di tempo per mangiare, il gelo, i ritratti dei cosacchi, la mappa dell’Ucraina con la Crimea in evidenza, a rimarcare l’identità di un Paese sovrano e invaso. I vinti hanno la faccia al muro e il capo chino perché è così che vanno le cose nella prigione di guerra. Tengono le mani dietro la schiena come legate da manette immaginarie. Non emettono un fiato. È la regola. Lungo un corridoio scuro tagliato da spifferi gelidi, settantacinque uomini in giubba di panno blu e berretto nero fino a un secondo fa marciavano in fila indiana verso il refettorio e d’un tratto si sono bloccati. Senza che nessuna delle guardie proferisse verbo, si sono rivolti verso la parete e ora fissano il nulla rigato di condensa che sta a dieci centimetri dai loro occhi. Sono i soldati catturati al fronte. Sono russi per lo più ma anche ucraini che combattono contro l’Ucraina. Qualcuno appoggia la fronte per stanchezza, per prostrazione, forse per non pensare. Gli è concesso. Si cammina tra loro provando un senso di disagio. Per quanto respirano piano, al buio non se ne avvertirebbe la presenza. E invece sono qui, reali e innocui, in riga, e sono tanti, cristallizzati eppur vivi, galleria di nuche dei silenti che attendono. Hanno l’ordine di rimanere in questa posizione fino a quando il visitatore, che sia un colonnello, un operatore della Croce Rossa internazionale o come oggi un giornalista, non si sarà allontanato. Viene naturale accelerare il passo per togliersi dall’imbarazzo. Il nostro, il loro. Le regole di ingaggio, o di come si sta tra detenuti di guerra che raccontano ma non ammettono - Un martedì di inverno. Il campo dove il governo ucraino custodisce i prigionieri di guerra. Palazzine di mattoni sporchi verniciati di bianco, filo spinato, reti, capannoni, una ciminiera, la bandiera gialla e blu afflosciata sul pennone. Ce ne sono diversi di siti così nel Paese, si dice addirittura una cinquantina, ma questo cui Repubblica ha avuto accesso è uno dei più grandi e popolati. “È la prima volta che lasciamo entrare un italiano”, dicono nella garitta all’ingresso. È un vecchio penitenziario di epoca sovietica, costruito nel 1978 e fino al 24 febbraio 2022 usato per i criminali in regime di media sicurezza. Un anno fa l’hanno svuotato e adattato in fretta al nuovo scopo. Due linee di mura di cinta lo separano da un borgo di case povere e dalle altalene di un parco giochi ricoperto dal ghiaccio. Della sua ubicazione si può dire soltanto che è nella parte occidentale dell’Ucraina. Chiedere quanti detenuti vi siano rinchiusi è una perdita di tempo perché dalle sentinelle si riceve sempre la stessa risposta vaga. “Centinaia...”. Il carcere è gestito dal Gur, il servizio segreto militare di Kiev. Petro Yatsenko, che è il responsabile della comunicazione del Dipartimento trattamento prigionieri di guerra, prima della visita ha elencato le regole d’ingaggio. Servono a evitare l’individuazione del luogo e soprattutto a non violare la Convenzione di Ginevra che tutela i catturati in battaglia anche nei confronti della stampa. “Niente foto al perimetro esterno, niente foto ai dispositivi di sorveglianza, niente foto alle guardie. Intervistare i prigionieri è possibile solo ed esclusivamente con il loro consenso. Abbiamo notizia di uomini che tornati in patria sono stati uccisi dai russi perché avevano parlato coi giornalisti, quindi massima cautela e responsabilità. Alcuni non possono essere avvicinati perché sono sotto inchiesta. Altri non vorranno parlare. Ah, una cosa importante...”. Pausa. “Diranno di non essere mai stati in prima linea, di non aver sparato a nessuno, di essere cuochi o semplici addetti alla logistica...mentono, mentono tutti”. Il muro degli etmani, dove i russi imparano che l’Ucraina ha una storia. E non è quella che hanno studiato - Si entra che sono da poco passate le dieci di mattina, tra colpi di tosse provocati dai tre gradi sotto zero. Il cielo è plumbeo ma almeno ha smesso di nevicare. “Seguiremo lo stesso percorso che fanno i prigionieri”, annuncia Petro. Una volta alla settimana arrivano bus scortati dall’esercito che scaricano russi a gruppi di cinquanta, a volte cento, con ancora addosso le mimetiche con lo stemma della Federazione e la toppa del battaglione di appartenenza. Ciò che li attende, superato il cancello e prima della cella dove si spogliano delle divise di Mosca, non è affatto casuale. Sulla barriera di calcestruzzo che sovrasta una statua d’angelo con le ali innevate sono riportati i 30 articoli della Dichiarazione universale dei diritti umani. Poco più avanti, a rimarcare l’ovvio, è appesa la mappa dell’Ucraina. La Crimea è compresa nei confini e dipinta di giallo. Si fanno cinque passi e appare il muro degli etmani. Fissati alla parete con quattro chiodi ciascuno i ritratti dei capi della comunità militare che abitava questa terra prima che diventasse Unione Sovietica, prima dell’invasione nazista, prima anche delle lotte dei nazionalisti per l’indipendenza. Venti cosacchi di un’altra epoca osservano severi la sfilata dei vinti. Ecco Petro Konashevych-Sahaidachyy, il barbuto, etmano dal 1570 al 1622, ecco il suo successore, l’elegante Dmytro Vyshnevetskyy-Baida dalla veste rossa arabescata che pare un lord inglese, il piglio del combattente nato sulle rive del Dnipro, pettinature estrose da cosacco di Zaporizhzhia, baffi a manubrio. Come quelli dell’ultimo degli etmani, Pavlo Skoropadskyy, dimessosi nel dicembre del 1918 un attimo prima che l’ondata bolscevica spazzasse via tutto. “È il nostro modo per ricordare ai russi che abbiamo una storia nostra, originale e secolare”, mormora Petro. “E che l’Ucraina non è una loro proprietà”. I ritratti sono le uniche macchie calde in un ambiente desolato di colori freddi: il grigio del cemento, l’argento ossidato del filo spinato, il bianco della neve, il blu spento dei giacconi dei prigionieri. Il wagneriano riluttante, o dell’ex galeotto sieropositivo che sogna un’altra possibilità - I settantacinque uomini sono ancora fermi, con la faccia al muro. Evitare lo sguardo del visitatore, muti, aspettare, è la regola. Disagio. Il corridoio porta al blocco mensa e il turno del pranzo sta per cominciare, ma finché non ce ne andremo staranno così, in piedi uno accanto all’altro, disposti sui gradini di due rampe di scale, agli angoli del passaggio, a sinistra e a destra. È il caso di procedere oltre, i soldati hanno fame e poco tempo per mangiare. Mentre alle nostre spalle si sente il rumore della marcia che riprende, l’attenzione cade su un’ombra che, nella semioscurità, non segue gli altri e non stacca il volto dalla parete. Gli occhi sono chiusi, come se stesse pregando un Dio distratto. “Mi chiamo Timur, sono nato a Perm, ho 37 anni e sono un miliziano della Brigata Wagner. Io non ho ucciso nessuno, non ero in prima linea...”. Certo Timur, siete tutti innocenti qui dentro. “Accetto di parlare con Repubblica. Sì, mi sento libero di farlo. No, nessuno mi ha istruito su cosa dire”. L’intervista avviene in una stanza chiusa senza guardie ucraine o ufficiali del Gur ad ascoltare. Timur si è tolto il berretto, ha la testa rasata e delle ferite in fase di cicatrizzazione. Al polso destro spuntano due braccialetti, uno bianco e uno rosso. “Quello bianco è perché ho l’epatite. Quello rosso è perché ho l’Hiv. Sa, un tempo facevo il trafficante di cocaina, però da due anni e mezzo sono pulito. Nella Wagner ci sono finito perché mi hanno promesso 194 mila rubli al mese per arruolarmi e mi hanno detto che Putin cancellerà la mia condanna a 10 anni”. Timur è stato catturato il 4 febbraio a Bakhmut (“non mi sono arreso, ho finito le munizioni”) dove assolveva il ruolo conferito dal fondatore della Wagner Evgeny Prigozhin a tutti coloro che ha raccattato nei penitenziari russi: la carne da cannone. Il wagneriano racconta di un’organizzazione su tre linee: “La prima è il fronte, dove si spara. La terza è dove conserviamo le munizioni”. E la seconda? “È dove operano le squadre che minacciano di morte chi si rifiuta di combattere e vuole tornare a casa”. Le mani sono ruvide, le unghie nere. “Ho capito che sarebbe stato un disastro già durante le due settimane di addestramento nel campo di Lugansk: eravamo 93 galeotti incapaci di comunicare gli uni con gli altri. Attaccare l’Ucraina è stato il più grande errore politico degli ultimi vent’anni. Ma non sono un disertore, la prego lo scriva: non sono un di-ser-to-re...”. Scandisce con premura ed è comprensibile: i disertori restituiti alla Wagner finiscono con la testa avvolta col nastro adesivo su un ceppo di pietra. E il commilitone che alza un martello in aria è l’ultima cosa che vedono. “Le guardie ucraine ci trattano bene e la cosa mi stupisce. Nessuno mi ha picchiato. La sveglia è alle 6, abbiamo dieci minuti per lavarci il viso e i denti, alle 7.30 la colazione, poi ci mettiamo a lavorare fino al tardo pomeriggio. Abbiamo tre pause per le sigarette, la domenica le pause sono cinque. A volte mettono l’inno nazionale ucraino”, dice il russo Timur. “Spero di essere scambiato presto, in modo che la Wagner possa trovarmi un lavoro tranquillo in un ufficio a Mosca. Ho un figlio di 15 anni e, sì, forse la mia vita ha ancora un futuro”. Cosa si prova ad uccidere in battaglia, Timur? “Ripeto, grazie a Dio non ho sparato a nessuno”. Il tempo di proprietà dei prigionieri, dove si racconta dei 15 minuti in cui si mangia e si ringrazia - Sono le 12.45 e il primo turno del pranzo è terminato. Sta per cominciare il secondo per i settantacinque uomini, poi seguirà il terzo turno e il quarto, altre squadre di giacconi blu che si trascinano verso la mensa. A parte il riposo serale, il tempo che appartiene ai vinti sono quindici minuti a colazione, quindici a pranzo, quindici a cena. Un quarto d’ora per completare le seguenti operazioni: prendere il vassoio, ricevere due scodelle con la zuppa di patate nella prima e la pasta con un pezzo di carne lessa nella seconda, afferrare due fette di pane e l’acqua, sedersi al tavolo, mangiare in silenzio, alzarsi, ringraziare in coro, tornare in cella. “Le calorie che assumono sono le stesse che offriamo ai nostri soldati col rancio d’ordinanza”, dice chi ha il compito di affondare il mestolo sul fondo del pentolone e riempire le scodelle. Odore di zuppa, mescolato agli afrori di corpi che non si lavano da un po’. Timur si è seduto e scopre la testa rasata, non ce la fa proprio a mangiare col berretto. I tavoli sono dodici da otto posti, su ognuno una tovaglia di plastica a fiori. Il blocco mensa è un salone con finestre senza sbarre e fasci di tondini d’acciaio accatastati sul fondo. Frotte di uomini mangiano ingobbiti sui vassoi. Il primo tavolo ora ha finito e la danza può cominciare. Otto russi si alzano tutti insieme, su ordine di una guardia. Le mani dietro la schiena. “Siamo grati per questo pasto!”, urlano. Uno dei prigionieri ha raccolto i vassoi e butta i resti nel secchio. Il gruppo si dispone in fila davanti alla porta. Tocca al secondo tavolo, altri otto si alzano. “Siamo grati per questo pasto!”, e si mettono in seconda fila. “Siamo grati per questo pasto!”, si è alzato il terzo tavolo. A otto per volta, si forma un quadrato. Col capo chino e le mani dietro la schiena, al segnale della sentinella tornano in cella. Perché così funziona, nella prigione di guerra. Una telefonata al mese, o del privilegio minimo che in Russia non hanno - La mensa si affaccia su un campetto da calcio, che potranno utilizzare per un paio d’ore alla settimana a primavera, quando la neve si scioglierà. Accanto alla vasca battesimale in granito di una chiesa cattolica greca (“i russi ci vanno anche se sono ortodossi, un prete viene a dire la messa”) una comitiva di sette giacconi blu privi di guanti sbuffa e carica sabbia su carretti di legno. I depositi del cibo sono lì dietro. Hanno finestre senza vetri che fungono da naturale sistema di conservazione per quintali di pomodori, cetrioli, rape, barbabietole, zucche, sacchi di patate, cipolle, cavoli, carne in scatola, lattine di sardine, farina, zucchero, mais. Nella dispensa pende da un gancio il termometro: sei gradi. Le camerate contano venti letti ciascuna, sono tiepide e pulite. C’è una stanza con una trentina di sedie davanti a un televisore che la sera, dalle otto alle nove e mezzo, trasmette anche documentari sulla storia ucraina e sulla città di Mariupol. L’antenna prende canali in ucraino e in russo. “Guardano spesso Freedom Tv, nata dopo il 24 febbraio”. E non si capisce se sia realmente una loro volontà oppure se gli sia imposto. Nel locale attiguo, un tavolo con una scacchiera. “I prigionieri lavorano otto ore al giorno e hanno diritto a fare una telefonata al mese”, spiega Petro, l’accompagnatore. “I nostri soldati detenuti in Russia questa possibilità non ce l’hanno”. È palese l’ansia degli ucraini di mostrarsi trasparenti e archiviare la vergognosa pratica in stile sovietico di trascinare i prigionieri in conferenza stampa costringendoli a cantare un rosario di offese contro Putin e di scuse al popolo invaso. Lo facevano nel primo mese di conflitto. Adesso vogliono apparire diversi anche nel trattamento dei nemici. In questo campo la Croce Rossa ha accesso, mentre le prigioni russe sono blindate alle organizzazioni umanitarie. Non si sa nemmeno dove si trovino. In quali condizioni siano tenuti i catturati ucraini lo si capisce solo al rimpatrio: alcuni arrivano dimagriti anche di venti chili, sulla pelle i segni dell’“accoglienza”, nella mente le torture, le umiliazioni, la privazione. Sinora i servizi segreti militari di Kiev sono riusciti ad ottenere il rilascio di 1.863 soldati tramite scambio. Lo scorso novembre un dossier dell’Alto commissario Onu per i diritti umani, scritto sulla base di interviste a centinaia di prigionieri, tra cui venti donne, ha denunciato casi di abuso sia da parte russa (la maggior parte) sia da parte ucraina. Con la differenza, però, che Zelensky ha consentito agli emissari delle Nazioni Unite di parlare coi detenuti nei campi di internamento, Putin no. “Noi siamo diversi, stiamo trattando in modo umano e dignitoso chi è venuto a sterminare il nostro popolo. E curiamo i loro feriti”. Vladyslav il dimenticato, ovvero di come un 21 enne di Donetsk da 10 mesi aspetta uno scambio che non avverrà - Nella stanza numero uno dell’infermeria, da un paio di mattine un venticinquenne biondo non si alza dalla branda. Come l’Ivan Denisovic nel gulag siberiano del romanzo di Solzenicyn, rimugina dentro di sé una scusa per rimanere lì ed evitare di andare al laboratorio a intrecciare le poltrone di vimini, a incollare borse, o, peggio, a spalare la sabbia fuori. Le stampelle che i dottori gli hanno portato le usa poco. Sul comodino ha il Decamerone di Boccaccio in cirillico. “Bel libro. Ma non voglio parlare con voi”. Passare oltre, alla stanza due. “I prigionieri in media rimangono nel campo un paio di mesi prima di essere scambiati”, spiega Petro. “Il governo di Mosca ci dà la lista di chi rivuole, e abbiamo capito che le loro priorità sono chi ha famiglia con un reddito buono, gli ufficiali e i piloti”. I meno preziosi, per i russi, sono gli ucraini delle autoproclamate repubbliche del Donbass. Sono gli ultimi, li scambieranno un giorno, forse o forse no, ma non gli interessano davvero, se ne dimenticano. Sono ucraini, in fondo. Come Vladyslav, 21 anni, nato a Donetsk e mobilizzato dai separatisti il giorno stesso dell’invasione. “Rifiutarsi era impossibile”. L’hanno preso a Kharkiv dieci mesi fa e i russi non l’hanno reclamato. “Non gli frega niente di me, sono un soldato semplice, una ruota minuscola del grande ingranaggio. Solo mia madre vuole riportarmi a Donetsk, ma le autorità di là le dicono che gli ucraini lo impediscono. Non so più a chi credere, so solo che mi hanno abbandonato”. Il ragazzo di Donetsk che studiava Economia all’università alza le spalle quando si citano i diritti del prigioniero. “Questo non è un parco giochi, lo so bene. Come vengo trattato dipende dalle guardie: alcune sono più incazzate perché sono ucraino, altre capiscono che se fossero nate nel Donbass potrebbero essere al mio posto. È cominciato tutto nel 2014, quando avevo dodici anni: la maggior parte della mia vita l’ho trascorsa in un mondo che era russo. E infatti mi sono dimenticato di essere nato in Ucraina”. Finché Vladyslav rimane in infermeria non è obbligato a fissare il muro quando passa un estraneo. Vladyslav, che nel campo dei vinti è il più sconfitto. *Ha collaborato Stanislav Yablonsky Iraq. 20 anni senza un perché di Domenico Quirico La Stampa, 20 marzo 2023 L’invasione americana e inglese del 20 marzo 2003 si basava su prove false e ora sappiamo che menzogna e propaganda sono anche “democratiche”. Le guerre sono quasi sempre mancanza di un perché, non hanno alcun significato, sono soltanto confusione e paura. Venti anni fa (le 23.30 ora di Washington, le 5. 30 ora di Baghdad), iniziò la invasione dell’Iraq da parte degli americani e degli inglesi. Il perché era semplicemente, desolatamente una gigantesca deliberata, pianificata, bugia. A ingannarci non fu Saddam, il dittatore, solo l’ultima delle canaglie psicopatiche del Novecento. Da lui con mani e sogni sporchi di sangue che altro potevamo aspettarci? Eravamo vigili, sospettosi con lui. Ci ingannò una democrazia, anzi la Democrazia, e ci incamminammo verso la peggiore delle catastrofi, la catastrofe morale. Con l’America eravamo fiduciosi, inermi, anche ad avere nari sottili non sentivamo odore di zolfo. Una avvelenata propaganda ci corruppe. Siamo entrati da allora in una epoca di liquidazione, di dissoluzione. Quella guerra ha distrutto molto, uomini sentimenti valori, non siamo stati in grado di ricostruire granché. E dopo venti anni siamo di nuovo in guerra. Incapaci di distinguere ormai verità e bugie. Erano passati solo pochi minuti dalla scadenza dell’ultimatum: il presidente Bush aveva dato poche ore di tempo a Saddam Hussein per lasciare l’Iraq. In perfetto orario gli aerei americani iniziarono a colpire Baghdad per mostrare a Saddam, subito, che non era più invulnerabile. Guardavamo la Cnn: ecco un’altra delle città che si smembrano davanti a noi, nei loro mattatoi. Poche ore dopo missili iracheni colpirono a caso il territorio del Kuwait. I soldati americani indossarono frettolosamente le maschera antigas e i completi per la guerra chimica. Già. L’angoscia per le micidiali armi chimiche del Rais... Precauzione inutile. Nessuno dei comandanti aveva spiegato loro che l’esistenza di quelle armi faceva parte della Grande Bugia. Sugli schermi delle televisioni irachene apparve il dittatore: arrogante, violento come al solito. Per promettere “la vittoria” e “la gloria”, inveendo contro “gli invasori diabolici” e “i sionisti. L’operazione si chiamava “Libertà per l’Iraq”. Bush in un discorso alla nazione disse: “Ai soldati americani che vanno a combattere per noi dico buona fortuna e che dio vi protegga”. Venti anni dopo che serve rievocare quella guerra: le avanzate rapide verso Bassora, Baghdad, Tikrit, le colonne dei soldati di Saddam in fuga calcinate dalle bombe al fosforo, la statua del dittatore trascinata al suolo con la faccia verso il cielo, qualche teppista iracheno che si avvicina, incerto, per sputare sul simbolo del dittatore e ingraziarsi i marines, tutti gli altri che osservano da lontano? Restano in silenzio. Un sintomo. Un segno. Ciò che si deve rievocare, scrupolosamente, bugia dopo bugia, senza dimenticar nulla è come ci ingannarono. Bush e i suoi sgangherati apostoli del Nuovo Ordine Globale. Che cosa era? Un violento, immorale, ipocrita imperialismo del caos, fatto di invasioni illegali, prepotenze diplomatiche, saccheggi economici, menzogne umanitarie. Ripensiamo al tempo che precedette quel 30 marzo: le torri che crollano, i tre aerei trasformati in missili Cruise dal genio terrorista e suicida di Bin Laden, il patriottismo americano che vibra, in tutte le città le bandierine che sventolano senza posa dai finestrini di tutte le auto, dalle radio ossessiva la canzone di Tom Keith, il peana dei marines che prendono a calci nel sedere i cattivi di tutto il mondo: “... Perché è così che siamo fatti/così sono gli americani... “. E ancora: sul New York Times , la bibbia quotidiana dei “liberal”, i bugiardi servizi di Judith Miller sulle armi di distruzione di massa irachene “pronte all’impiego nel giro di 45 minuti!” diamine! È provato... lo giura anche Blair, il servizievole maggiordomo inglese. Thomas Friedman, a colpi di editoriali, garantiva che perfino la pace “impossibile” in Medio Oriente sarebbe arrivata come effetto collaterale, miracoloso alla fine di quella guerra. Ah! Se avessimo ascoltato l’undici settembre, le torri ancora fumavano di morte, Rumsfeld al Pentagono già annunciava che bisognava attaccare non solo l’Afghanistan ma anche l’Iraq: “Quanto risulta dagli attentati alle torri gemelle deve consentirci di colpire oltre che Bin Laden anche Saddam. Dateci dentro di brutto, raccogliete tutto. Indicazioni che si legano agli attacchi ma anche quelle che non vanno bene”. E sì, si diedero proprio da fare di brutto. Cheney, il vicepresidente, a garantire che in Niger c’erano le prove dell’acquisto dell’uranio da parte di Saddam per costruire l’atomica. Confermava, guarda guarda, Rasmussen premier danese: a Baghdad hanno l’atomica. Paziente passò all’incasso nel 2009: segretario generale della Nato. Vien da pensare a qualcun altro... fu la macchinazione perfetta, sfrontata, selvaggia di come anche in una democrazia si può inventare una guerra ancor più efficacemente che nelle tirannidi. Al segretario di Stato Colin Powell spettò la recita finale, in una seduta del Consiglio di sicurezza. Annunciò che avrebbe comunicato ciò che gli Usa sapevano sulle armi di distruzioni di massa e sulla partecipazione dell’Iraq ad attività terroristiche. Poi brandì davanti alle telecamere una provetta piena di polverina bianca. Presiedeva la seduta il ministro degli Esteri tedesco Joscha Fischer. Lui sapeva che quella prova era una menzogna spudorata. Perché la fonte americana aveva solo un nome: il dottor ingegner Rafid al Janabi, un iracheno che per ottenere rifugio in Germania aveva fatto sensazionali rivelazioni ai servizi tedeschi: che in Iraq c’erano truppe già pronte a impiegare le armi chimiche nascoste alle ispezioni dell’Onu. I servizi avevano facilmente accertato che era un bugiardo, per di più un bugiardo mediocre. Berlino aveva avvertito gli americani. Ma “Cuverball”, il suo nome in codice, era la principale fonte delle rivelazioni di Powell. Attese il 2005 il segretario di Stato per dire che quella recita lo “addolorava ancora”. Non tutti si fecero ingannare. Chirac rifiutò di partecipare ritagliandosi un posto onorevole nella Storia. Le piazze si riempirono di manifestanti contro la guerra americana. E fu, purtroppo, l’ultima volta. Il 24 marzo furono consegnati gli Oscar e vinse, con metafisica indifferenza alla tristezza dei tempi, una commedia dal titolo “Chicago”. Molte star si vestirono austeramente di nero, qualcuno esibì perfino la spilla con la colomba della pace. Il regista Michael Moore accusò Bush di raccontar bugie: “Si vergogni!”, gridò. Il primo maggio sul ponte della portaerei Lincoln Bush proclamò la vittoria. Un anno dopo molti dei soldati che avevano “vinto” erano di nuovo in Iraq: cadevano nelle imboscate, venivano bombardati feriti mutilati uccisi come se nulla fosse accaduto. A Washington intanto annunciavano che in un anno il Paese sarebbe stato ricostruito. Mentire alla fine ti lega come una corda sempre più stretta. Non ti puoi fermare. Saddam è stato impiccato, i mediocri e pericolosi ideologi della semplicità manichea dell’impero americano sono degli ex in pensione o sono morti. Ma da quella bugia è balzato fuori il disordine in cui viviamo, il califfato totalitario in Iraq e la guerra in Ucraina. Dopo il 2003 non è più possibile dare un limite cronologico alle guerre, fissare un inizio con la sua proclamazione e la fine con la vittoria e la sottomissione dello sconfitto. La guerra in Iraq era iniziata sotto Bush padre, sospesa con l’embargo sotto Clinton e ripresa sotto Bush junior e non è ancora finita. Se un tempo la pace era lo scopo della guerra la bugia ci ha fatto scoprire che la guerra è diventata lo scopo della pace. Infettati dalla constatazione che menzogna e propaganda sono anche democratiche, è ormai impossibile dire: non possiamo immaginare che... Iraq, 20 anni dopo: che cosa resta del pacifismo che invase le piazze del mondo nel 2003 di Enrico Franceschini La Repubblica, 20 marzo 2023 Il 15 febbraio milioni di persone marciarono per chiedere ai governanti di scongiurare il conflitto che incombeva. Solo alcuni governi condivisero le istanze dei manifestanti. Qualcuno lo ricorda come il giorno in cui il mondo disse no alla guerra. Un’esagerazione, perché naturalmente non tutto il pianeta scese in piazza in nome della pace: ma il 15 febbraio di venti anni fa si svolsero in decine di Paesi enormi manifestazioni di protesta contro il conflitto che minacciava di scoppiare e che ebbe poi inizio, nonostante l’opposizione di milioni di dimostranti, poco più di un mese dopo. Oggi, nel ventesimo anniversario dell’invasione dell’Iraq, quelle marce vengono ricordate come il momento più vitale per il movimento pacifista internazionale dal tempo della guerra del Vietnam in poi. Cosa rappresentarono esattamente? Come divisero l’Europa? E che eredità hanno lasciato al pacifismo, mentre sul fronte europeo infuria la guerra in Ucraina? Quanti erano i manifestanti - Le cifre sono discordanti, come quasi sempre in questi casi perché per manifestare non c’è bisogno di acquistare un biglietto o registrarsi da qualche parte, ma è certo che il 15 febbraio 2003 vede una protesta senza precedenti per numero di partecipanti e per nazioni coinvolte. Secondo la Bbc, tra 6 e 10 milioni di persone prendono parte alle manifestazioni contro la guerra in Iraq in almeno sessanta Paesi. Secondo gli organizzatori, le marce vedono addirittura 110 milioni di dimostranti sfilare nelle strade di ottanta nazioni. Per il Guinness Book of World Records, il Libro dei Primati, la manifestazione di Roma raccoglie da sola tre milioni di oppositori della guerra, diventando così il più grande raduno pacifista della storia, seguito al secondo posto dalla dimostrazione che ha luogo a Madrid nello stesso giorno con un milione e mezzo di persone. Per altri resoconti, la manifestazione più grande è stata invece a Londra, con un milione di partecipanti. In quali paesi manifestarono - Ci sono marce in Austria, di circa 30 mila manifestanti, in Slovenia (3 mila), in Belgio (100 mila), in Olanda (70 mila), in Bosnia (100 persone), in Croazia (10 mila), a Cipro (500), nella Repubblica Ceca (1000), in Francia (tra 100 mila e 200 mila a seconda delle stime), in Germania (tra 300 mila e 500 mila), in Grecia (150 mila), in Ungheria (60 mila), in Irlanda (90 mila), in Italia (650 mila per la polizia, 3 milioni per i promotori), in Norvegia (60 mila), in Danimarca (30 mila), in Svezia (35 mila), in Polonia (10 mila), in Portogallo (35 mila), in Russia (400), in Serbia (200), in Slovacchia (1000), in Spagna (tra 660 mila e 2 milioni), in Ucraina (2 mila), nel Regno Unito (tra 750 mila e un milione), in Canada (100 mila), negli Stati Uniti (100 mila manifestanti a New York, altrettanti a San Francisco, Los Angeles e in altre città), in Messico (10 mila), in Argentina (50 mila), in Israele (2 mila), in Sud Africa (10 mila), in Australia (150 mila), in Nuova Zelanda (10 mila) e su scala minore in altri Paesi. Praticamente in tutto il mondo democratico, i pacifisti agitano bandiere e gridano slogan contro l’invasione. “Le manifestazioni contro la guerra di questo fine settimana - scrive il New York Times - ci dicono che sulla Terra potrebbero essere rimaste due superpotenze: gli Stati Uniti e l’opinione pubblica mondiale”. Come si divisero i governi occidentali - Una particolarità di quella grande giornata di protesta contro la guerra è che in alcuni paesi l’opposizione all’invasione viene condivisa dal governo, in altri no. L’Europa dei governanti esce infatti spaccata dal conflitto. Nel Regno Unito, il premier laburista Tony Blair dà il suo pieno appoggio al presidente repubblicano George Bush, con la controversa decisione di inviare truppe britanniche in Iraq accanto a quelle americane. Anche la Polonia partecipa attivamente alla forza di invasione, al di fuori della Ue l’Australia invia un distaccamento di suoi soldati a combattere. Un appoggio in un primo tempo soltanto politico, con assistenza militare e disponibilità all’uso di basi, arriva in diversa misura da Spagna, Italia, Olanda, Danimarca e Kuwait. Dal mese di luglio del 2003, terminata l’invasione, il nostro Paese invia carabinieri e truppe speciali a sostegno del rafforzamento della pace, subendo nel corso del tempo decine di perdite in quella che fu chiamata Operazione Antica Babilonia: 18 vittime nell’attentato della base di Nassirya, due decine di morti in altri attacchi, incidenti e attentati fino al 2006. In Europa, la Germania e la Francia rimangono schierate con fermezza contro la guerra. Il cancelliere tedesco socialdemocratico Gerard Schroeder afferma senza mezzi termini, schierandosi con i pacifisti: “Il Medio Oriente ha bisogno ha bisogno di pace, non di guerra. Sotto la mia guida, la Germania non parteciperà ad azioni di guerra contro l’Iraq”. Parole profetiche vengono pronunciate dal suo ministro degli Esteri, il leader dei Verdi tedeschi Joschka Fischer: “Riteniamo altamente rischioso e dagli effetti imprevedibili il tentativo di rovesciare il regime di Saddam Hussein con mezzi militari. Ho un forte timore che mosse non abbastanza meditate possano portare non a più sicurezza in Medio Oriente, ma al suo contrario. Ciò condurrebbe a un nuovo ordine nella regione, di cui gli Usa dovrebbero assumersi la responsabilità per anni se non decenni. La preoccupazione principale è che i conflitti regionali mediorientali possano saldarsi con il terrorismo internazionale”. La guerra civile in Siria, l’ascesa del terrorismo con l’Isis, l’espansione dell’influenza dell’Iran a Damasco e a Beirut, sono soltanto tre degli sviluppi che hanno confermato i timori di Fischer. Il summit di chi voleva la guerra - Le marce per la pace non si esauriscono nella giornata del 15 febbraio, ma proseguono fino alla vigilia della guerra. Un’altra giornata campale di dimostrazioni pacifiste è il 15 marzo, in coincidenza del vertice alle isole Azzorre tra il presidente americano Bush, il premier britannico Blair e il primo ministro spagnolo Aznar, i tre leader occidentali più favorevoli all’invasione, che si incontrano per coordinare le strategie diplomatiche e militari in vista di una nuova risoluzione discussa all’Onu per lanciare un ultimatum di disarmo all’Iraq. “No alla guerra di Bush” è il grido che risuona contro il summit nelle piazze d’Occidente. Chi erano i pacifisti - In occasione delle proteste per fermare l’invasione si vede emergere una coalizione che unisce forze profondamente differenti: gruppi politici di estrema sinistra, partiti della sinistra tradizionale e sindacati, movimenti religiosi cattolici. Preti e suore marciano al fianco di giovani con la kefya palestinese in testa e di altri che sventolano bandiere rosse. E’ una coalizione variegata, normalmente su posizioni distanti su altre questioni, ma che sul pacifismo, in particolare riguardo alla guerra in Iraq, rimane compatto sino alla fine. Un’alleanza per la pace differente da quella che negli anni Settanta marciava contro la guerra in Vietnam e che tornerà in seguito a unirsi rispetto ad altri conflitti futuri. Le differenze con il pacifismo di oggi - Anche davanti alla guerra in Ucraina si tengono manifestazioni pacifiste in molti paesi occidentali. Pur senza raggiungere i numeri delle marce contro l’invasione dell’Iraq, anche queste rappresentano una parte considerevole dell’opinione pubblica occidentale. Ma appaiono anche profonde differenze fra le due guerre, come sottolineato dal convegno del febbraio scorso a Roma intitolato “Disertare la terza guerra mondiale”. Come ha detto nel suo intervento Chris Nincham, portavoce di Stop the War Coaltion: “Allora il movimento pacifista si trovò in connessione con la maggioranza della popolazione mondiale, proponendo un’analisi condivisa della realtà e un chiaro rifiuto della guerra. Un contesto molto diverso da quello attuale in cui l’analisi sulla guerra in Ucraina produce pareri contraddittori e comunque non c’è la coscienza che l’Occidente stia perseguendo una politica di guerra spacciata per lotta di liberazione”. Una critica che è stata mossa ai pacifisti odierni è che le loro dimostrazioni rischiano di apparire talvolta come un sostegno implicito alla Russia o venire strumentalizzate per diminuire o interrompere gli aiuti occidentali all’Ucraina. Un’altra critica emersa anche in passato nei confronti dei movimenti pacifisti è che le manifestazioni raccoglievano un sostegno di massa quando si trattava di attaccare l’America, vista come baluardo imperialista, molto meno o per nulla verso l’Unione Sovietica o il suo erede legale, la Russia. Petraeus: “Paragonare Iraq e Ucraina è follia. Ma a Baghdad abbiamo fatto errori” di Paolo Mastrolilli La Repubblica, 20 marzo 2023 Parla il generale americano che comandò la forza multinazionale, ex direttore della Cia. “Non c’è paragone”. Sobbalza l’ex direttore della Cia David Petraeus, quando gli ricordi la versione dei putiniani, secondo cui la Russia sta facendo in Ucraina quanto gli Usa fecero in Iraq: “Io c’ero, fummo accolti da liberatori. Errori massicci furono commessi dopo e sono pronto a riconoscerli, ma la maggior parte degli iracheni voleva rovesciare il brutale regime di Saddam, mentre la maggioranza degli ucraini combatte Putin”. Lei era il comandante della forza multinazionale in Iraq durante la “Surge”. Perché la ordinò? “La Surge (l’aumento di truppe contro la guerriglia irachena, ndr) ha funzionato, facendo scendere la violenza di oltre l’85% in 18 mesi, perché abbiamo cambiato strategia, puntando sulla sicurezza delle persone, vivendo con loro, presidiando e riedificando le aree. Abbiamo ricostruito le forze di sicurezza irachene, dopo aver rimosso i leader settari violenti; promosso la riconciliazione tra la manodopera dei gruppi ribelli e della milizia sciita; perseguito senza sosta i leader di Al Qaeda, i rivoltosi e i miliziani estremisti; riformato le nostre operazioni con i detenuti; integrato gli aspetti civili e militari della campagna. La continuazione della strategia dopo la Surge ha portato a un’ulteriore riduzione della violenza nei successivi 3 anni e mezzo, fino a quando gli ultimi soldati americani hanno lasciato l’Iraq a dicembre 2011”. Cosa pensa del modo in cui si ritirò la Forza Multinazionale? “I risultati raggiunti durante la Surge sono stati mantenuti e persino migliorati nei successivi 3 anni e mezzo. Dopo i miei quattro anni in Iraq come generale a due stelle, tre stelle e quattro stelle, ho avuto il privilegio di osservare gli ulteriori progressi come capo del Comando centrale Usa, e poi comandante in Afghanistan e direttore della Cia”. La fine della missione ha aperto la strada all’Isis? “Avrei preferito una presenza duratura delle forze combattenti, come gli addestratori rimasti in Iraq, ma si è rivelato impossibile. Indipendentemente da ciò, a invertire i progressi e innescare una nuova spirale di violenza settaria non è stata la partenza delle forze Usa. Piuttosto sono state le azioni intraprese alla fine del dicembre 2011 dal premier sciita Nouri al-Maliki a infiammare la popolazione sunnita, quando ha seguito la strada delle accuse legali contro la più importante figura politica sunnita, il vicepresidente Tariq al Hashemi, il principale membro sunnita del gabinetto, il ministro delle Finanze, e un alto leader del Parlamento. Ciò ha scatenato enormi manifestazioni sunnite, represse violentemente dalle forze di sicurezza in gran parte sciite, infiammando ulteriormente la situazione. Così il tessuto della società, che avevamo faticato a ricostruire, è stato nuovamente lacerato. Nel mezzo di tutto ciò, quando le forze di sicurezza irachene hanno distolto lo sguardo dallo Stato islamico, l’Isis è stato in grado di ricostituirsi, ottenere potere e risorse in Siria, e quindi stabilire il califfato. Ciò ha richiesto il nostro ritorno, ovviamente, per consentire alle forze irachene e siriane di eliminare il califfato e distruggere l’Isis come esercito, sebbene elementi ribelli e terroristici siano ancora presenti in piccolo numero”. Due argomenti erano stati usati per l’operazione in Iraq: le armi di distruzione di massa e il fatto che la strada per la pace e la democrazia in Medio Oriente passava attraverso Baghdad. Le armi non sono state trovate, e anche dopo la Primavera araba la democrazia non è fiorita in Medio Oriente. Pensa ancora che l’invasione fosse giustificata? “È facile porsi simili domande col senno di poi, ma tale chiarezza non c’era nel 2002/03. Ho scritto troppe lettere di condoglianze alle madri e ai padri dei nostri soldati per rispondere a questa domanda. Riconosco i massicci errori commessi lungo la strada. Il più significativo è stato licenziare l’esercito iracheno, senza dire come avremmo consentito di provvedere alle loro famiglie, e la de-ba’athificazione senza una politica concordata di riconciliazione. Queste due decisioni dell’ambasciatore Bremer, nel maggio 2003, sono state disastrose e ci hanno riportato indietro di molti anni, fino a quando non abbiamo condotto la riconciliazione nazionale come parte della Surge. Lungo il percorso sono state apprese dure lezioni, fino a quando non abbiamo sviluppato il manuale sul campo per la controinsurrezione; migliorato la preparazione delle nostre unità, i leader e l’organizzazione per il dispiegamento delle forze; implementato la giusta strategia con la Surge. Spero che non dimenticheremo queste lezioni, perché anche se ora stiamo spostando l’attenzione su Indopacifico ed Europa orientale, continuiamo ad assistere i partner locali che combattono ribelli e terroristi, in Iraq e nel nord-est della Siria. Infine, non dimentichiamo che ci sono state cinque transizioni pacifiche in Iraq dal governo ad interim del 2004. Sebbene ci sia stata ripetutamente una governance inadeguata, corruzione, nepotismo, servizi insufficienti e periodiche sfide alla sicurezza, ci sono anche la libertà e una vivace società civile, rare in quella regione”. Non teme che l’Iraq diventi un satellite dell’Iran? “Sono moderatamente ottimista sul fatto che sotto il nuovo premier ci saranno miglioramenti e azioni intraprese per colmare le carenze che ho appena notato. L’ho incontrato a febbraio alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco e ne sono rimasto colpito. Ha scelto di mantenere le forze americane in Iraq e ha descritto gli Usa come partner strategico. Deve avere una relazione con l’Iran, ma non vuole che Teheran raggiunga l’obiettivo di “libanizzare” l’Iraq, cioè stabilire una forza molto potente nelle strade tipo Hezbollah, e ottenere un veto per bloccare il Parlamento”. Da Abu Ghraib alle elezioni presidenziali del 2008, quale effetto ha avuto la guerra in Iraq sulla società americana? “È stata un ammonimento per gli Usa e i politici. Chiaramente gli ambiziosi obiettivi in Iraq non sono stati tutti raggiunti, come in Afghanistan o Libia. Quindi queste esperienze temperano le ambizioni di Washington. Detto ciò, l’impressionante risposta degli Usa all’invasione dell’Ucraina ha dimostrato che siamo ancora la nazione indispensabile”. Alcuni affermano che non c’è differenza tra l’Iraq e l’Ucraina... “Non c’è paragone. Gli iracheni hanno applaudito e festeggiato quando abbiamo rovesciato il regime brutale, omicida e cleptocratico di Saddam Hussein. Ero lì e l’ho visto. Ero parte dell’invasione, come generale al comando della 101ma Divisione aviotrasportata, e siamo stati accolti molto calorosamente dal popolo. Questo non è stato il caso della brutale e ingiustificata invasione dell’Ucraina. In effetti, nessuno ha fatto di più per la causa del nazionalismo ucraino di Vladimir Putin. La grande ironia è che proponendosi di rendere la Russia di nuovo grande, ha effettivamente reso di nuovo grande la Nato”.