Sovraffollamento, l’Italia tra i peggiori dell’Unione europea di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 marzo 2023 In 7 paesi dell’Unione europea il numero di detenuti supera la capienza. Per affrontare un fenomeno così complesso si devono adottare soluzioni differenti, perché troppi detenuti incidono sulle possibilità della struttura di garantire adeguate condizioni di vita. Questo e altro ancora emerge da una ricerca attraverso l’elaborazione dei dati, condotta da Open-Polis in collaborazione con gli altri membri dello european data journalism network (Edjnet). In premessa viene ricordato che il periodo della pandemia ha avuto ripercussioni in vari ambiti della vita quotidiana. Per arginare l’emergenza sono state necessarie delle misure di distanziamento per ridurre i contatti. Questo non è stato possibile in tutti gli ambienti e le carceri sono uno di questi. Si tratta di uno dei potenziali risvolti negativi del sovraffollamento delle strutture detentive. OpenPolis sottolinea che di certo, la sovrappopolazione delle carceri è un problema che riguarda anche alcuni stati dell’Unione europea. Emerge che in 7 paesi dell’Unione Europea i detenuti superano i posti disponibili. Infatti, secondo i dati resi noti da OpenPolis, i paesi in cui il rapporto tra detenuti e posti disponibili è maggiore sono Cipro (145,67 detenuti ogni 100 posti), Romania (123,47) e Francia (114,32). Sono sette gli stati in cui è maggiore il numero di carcerati rispetto allo spazio disponibile. Tra questi figura l’Italia (106,49). I tre paesi che invece registrano un dato minore sono Spagna (73,71), Estonia (66,53) e Lettonia (65,72). Lo studio mette in risalto le soluzioni da adottare per ridurre il sovraffollamento carcerario. Viene sottolineato che su questa tematica si è espresso l’ufficio delle Nazioni unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc). “Una delle questioni sollevate è legata a un corretto reinserimento nella società attraverso soluzioni come percorsi di formazione professionale - ricorda OpenPolis -. È infatti fondamentale per evitare ulteriori condanne e nuovi periodi di detenzione. Inoltre, è auspicabile in alcuni contesti rivedere le pene e valutare per quali è strettamente necessario il carcere e ridurre la detenzione preventiva”. Inoltre - prosegue - “sono da considerare anche la gestione delle risorse e degli spazi a disposizione, oltre al coordinamento più efficace all’interno delle strutture. È necessario per arginare determinate dinamiche sociali che possono esacerbare in un clima di sovrappopolazione carceraria. Si puntualizza ad esempio la necessità di tutelare la salute fisica e mentale dei detenuti e agire per limitare i fenomeni di corruzione”. La conseguenza è che la sovrappopolazione nelle strutture detentive incide direttamente sulla possibilità di garantire adeguate condizioni di vita ai detenuti. “Ad esempio - si afferma OpenPolis -, un eccessivo popolamento delle carceri impatta sul lavoro di chi si occupa del funzionamento delle strutture. Anche l’organizzazione dei lavoratori è un tema da considerare in questo scenario”. Non tutto il personale che lavora all’interno delle strutture detentive si occupa direttamente della custodia dei detenuti. Sono ad esempio assunti anche lavoratori occupati nel settore amministrativo e persone che gestiscono le attività di refezione. “Per l’analisi, ci siamo concentrati solo su chi si occupa della sorveglianza diretta dei carcerati”, precisa sempre OpenPolis. Il paese che registra più detenuti per membro del personale è la Lettonia. Si tratta di 26,7 carcerati per ogni lavoratore. Seguono Grecia (7,1), Romania (6,5) e Estonia (5,5). In fondo Italia (1,6), Paesi Bassi (1,6) e Irlanda (1,4). Ricordiamo che la detenzione è già di per sé una condizione problematica e drammatica per le persone che la vivono, sia per ciò che possono subire nelle carceri, a livello mentale e fisico, sia per le gravi difficoltà di reinserimento nella società una volta usciti, che spesso portano a recidive. Il sovraffollamento in questo senso forza i detenuti a condividere uno spazio più ristretto, aggravandone ulteriormente la qualità della vita. In questo senso, il comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti ha dichiara che ogni detenuto deve avere a disposizione uno spazio vitale di almeno 4 metri quadri. Lo scorso Aprile, il comitato stesso ha infatti lanciato una raccomandazione verso gli Stati membri: ovvero quello di affrontare il problema con determinazione, fissando un numero massimo di detenuti da accogliere in ogni istituto penitenziario, da rispettare scupolosamente. Ha esortato quindi i governi a collaborare con legislatori, giudici, pubblici ministeri e dirigenti carcerari per affrontare il sovraffollamento penitenziario con un’azione concertata. Caso Cospito, i servizi segreti: “Non ci sono le prove di legami tra anarchici e mafiosi in carcere” di Francesco Grignetti La Stampa, 1 marzo 2023 Ridimensionato l’allarme lanciato dal governo nelle ultime settimane, ma resta l’attenzione per il fenomeno insurrezionalista a livello nazionale. C’era una volta l’allerta rosso per il pericolo degli anarco-insurrezionalisti. A sentire chi guida i nostri servizi segreti, però, questo allarme va ricondotto alla giusta misura. Che dire dei legami tra anarchici e mafiosi, ad esempio? “Non c’è alcun elemento che confermi questo”, dice con tono particolarmente asciutto il prefetto Mario Parente, l’uomo che da otto anni dirige l’Agenzia per la sicurezza interna, e prima è stato per anni alla guida del Ros dei carabinieri. Eppure sulla saldatura tra anarchici e criminalità, visti i contatti tra Cospito e tre mafiosi che condividevano con lui l’ora d’aria nel carcere di Sassari, sono scorsi fiumi di inchiostro. Era l’assunto di base per l’attacco furibondo al Pd condotto da Giovanni Donzelli, coordinatore nazionale di Fratelli d’Italia e vicepresidente del Copasir. Se però si chiede l’opinione di Mario Parente, quello liquida così questo rischio: “È da ritenere potenzialmente improbabile”. Amen. Va detto che Parente non è mai stato tenero con gli anarco-insurrezionalisti. Li ha sempre considerati un pericolo serio, già quando se ne occupava al Ros vent’anni fa. Anche ieri, parlandone alla conferenza stampa annuale per illustrare la Relazione dei servizi segreti sulla sicurezza, ha ricordato che “noi non abbiamo mai cessato di occuparcene”. Sottinteso: anche quando non andavano di moda. Con Cospito al 41bis, però, e il suo devastante sciopero della fame, il tema ha conquistato le prime pagine dei giornali. Da quel momento è tutto un allarme. Non è passato giorno, nell’ultimo mese, che qualche ministro non abbia messo in guardia dal pericolo degli anarco-insurrezionalisti. L’acme dell’allarme c’è stato il 30 gennaio scorso, quando il consiglio dei ministri si riunì d’urgenza per esaminare il caso Cospito e al termine venne un comunicato stentoreo di palazzo Chigi. “Lo Stato non si fa intimidire da chi pensa di minacciare i suoi funzionari”, furono le parole di Giorgia Meloni. Ecco, ieri, a domanda precisa se ci siano segnali che gli anarchisti vogliano alzare il tiro e seguire l’esempio di Cospito - che finora è stato l’unico a teorizzare e eseguire un attentato diretto alla persona, gambizzando a Genova un manager di Ansaldo nel 2012 - il direttore Parente è stato onesto fino in fondo: “Allo stato delle cose, non abbiamo evidenze. Il monitoraggio è in corso. Allo stato non ci sono elementi in questo senso; il che non può essere una risposta valida per l’immediato futuro”. Questo il suo ragionamento sulla galassia anarchica: “Quella (di Cospito a Genova, ndr) fu un’azione diretta sulla persona, preceduta e seguita da un dibattito lungo ed esteso nell’area. Fu l’azione di un nucleo ristretto di persone che erano in grado di farlo. È un problema di possibilità. Si parla degli anarchici molte volte come di organizzazioni, ma sono più spesso dei singoli”. E allora, alla fine, che cosa resta dell’allarme terroristico? “La minaccia anarco-insurrezionalista - si legge nella Relazione - è nuovamente qualificata come la più concreta e vitale, caratterizzata da componenti militanti determinate a promuovere, attraverso una propaganda di taglio fortemente istigatorio, progettualità di lotta incentrate sulla tipica “azione diretta distruttiva”“. Si è sempre nelle modalità tradizionali degli anarchici, insomma: azioni contro i tralicci, danneggiamento di macchine, incendi dolosi. Azioni distruttive contro banche, società, istituzioni, centri di ricerca. Prima era contro la repressione o a difesa dell’ambiente. Da ultimo ci si è messa la guerra. “L’attivismo “contro la guerra”, strumentalmente alimentato dalla lettura libertaria degli eventi bellici in Ucraina, ha visto gli anarchici impegnati nel riproporre appelli ad attivarsi”, è scritto ancora nella Relazione. Un terrorismo a bassa intensità, endemico, che si trascina da anni. “Il 41bis a Cospito alimenta la lotta degli anarchici”. Parola di intelligence di Valentina Stella Il Dubbio, 1 marzo 2023 La relazione dei nostri Servizi segreti sul caso dell’anarchico in sciopero della fame: “La lotta alla “repressione” evocata dalla galassia anarchica “ha registrato nuovo slancio sulla scia dei pronunciamenti giudiziari emessi nel corso dell’anno”. Ormai l’affaire Cospito ci consegna ogni giorno un bollettino di notizie provenienti da ogni dove. Stamane ne abbiamo tre. La prima: nella Relazione annuale sulla politica dell’informazione per la sicurezza, presentata da direttore dell’Aisi, Mario Parente, si evince come “La lotta alla “repressione” evocata dalla galassia anarchica “ha registrato nuovo slancio sulla scia dei diversi pronunciamenti giudiziari emessi nel corso dell’anno a carico di militanti anarchici e, soprattutto, in relazione all’applicazione del regime carcerario del 41bis al leader della Federazione Anarchica Informale/Fronte Rivoluzionario Internazionale (FAI/FRI) Alfredo Cospito, da ottobre in sciopero della fame”. L’intelligence aggiunge anche che “oltre a numerosi presidi nei pressi di penitenziari e palazzi giudiziari e cortei in centri cittadini, scanditi, in diverse occasioni, da episodi di vandalismo e momenti di tensione con le forze dell’ordine - si legge nel documento di 100 pagine - l’evento ha poi dato avvio a una veemente mobilitazione, sostenuta e animata da numerose sigle, italiane ed estere, che si rifanno, per metodiche operative, alla parabola eversivo-terroristica della FAI/FRI. L’eco della “solidarietà rivoluzionaria” per il noto esponente anarchico detenuto in Italia si è, infatti, “repentinamente irradiata anche al di fuori dei confini nazionali, con molteplici sortite in vari Paesi europei, in Sud America e negli Stati Uniti. Uno scenario che ha avvalorato valutazioni d’intelligence circa l’estensione e l’intensità dei collegamenti internazionali anarco-insurrezionalisti in grado di agire da moltiplicatore delle capacità offensive, non solo in conseguenza dell’effetto aggregante e amplificatorio della rete, ma anche grazie alla rilevata mobilità di militanti anarchici da un Paese all’altro in un’ottica di reciproco supporto in occasione d’iniziative propagandistiche e mobilitative, specie lungo l’asse euro-mediterraneo dell’anarchismo Spagna-Italia-Grecia, storicamente contraddistinto da importanti contatti d’area”. Insomma, paradossalmente, Cospito con il suo digiuno, dall’impenetrabile 41 bis, getta maggiore benzina sul fuoco appiccato dai suoi compagni che stanno fuori. La seconda: piena sintonia invece tra il sottosegretario alla Giustizia Delmastro delle Vedove di Fdi e la corrente più conservatrice dell’Anm, Magistratura indipendente. Il primo in mattinata dirama la seguente nota: “Le clamorose e sanguinarie minacce indirizzate alla magistratura a seguito del provvedimento emesso a carico di Cospito impongono una immediata riflessione sulla necessità di predisporre una tutela. Lo Stato deve agire subito a protezione di tutti i giudici che hanno emesso provvedimenti nei confronti di Cospito. Lo Stato non indietreggia, lo Stato non si fa intimorire, lo Stato difende i suoi servitori”. Poche ore più tardi arriva il comunicato sottoscritto da tutti i consiglieri al Csm di Mi (Paola D’Ovidio, Maria Vittoria Marchianò, Maria Luisa Mazzola, Bernadette Nicotra, Edoardo Cilenti, Eligio Paolini,Dario Scaletta) con cui si annuncia il depositato al Comitato di Presidenza di una richiesta di pratica a tutela dei magistrati del Collegio decidente della Cassazione e di tutti i magistrati che nelle diverse funzioni e sedi si sono occupati della vicenda Cospito. A spingerli a tale richiesta, tra l’altro, dichiarazioni rilasciate dal difensore di Cospito, Rossi Albertini: ““volevano il martire e ora lo avranno. Pensavamo che il diritto potesse tornare ad illuminare questa buia vicenda. Questa decisione dimostra che sbagliavamo” “viviamo la sentenza come una condanna a morte” finendo per definire la sentenza frutto di “una scelta politica”“. A ciò si aggiunge anche quanto descritto dai giornali, compresi noi del Dubbio, che abbiamo dato conto dell’atmosfera fuori la Cassazione e in altre città d’Italia: “la sentenza è stata seguita da diffuse espressioni lesive del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione e certamente tali da determinare un turbamento al regolare svolgimento e alla credibilità della funzione giudiziaria (“Fuori è rabbia cieca. Le decine di anarchici riuniti dalla mattina urlano di tutto. “Vergogna” è l’espressione che risuona più delle altre. Un manifestante dice: “sapevamo che erano servi e venduti, ora sappiamo che sono assassini”. Addirittura viene riportata una espressione di Luigi Manconi “leggeremo le motivazioni della sentenza ma fin da ora posso dire che siamo di fronte ad un verdetto iniquo” quale motivazione per chiedere la pratica a tutela. Un manifestante dice: “sapevamo che erano servi e venduti, ora sappiamo che sono assassini”. La terza: intanto “Bisognerà tentare nuove strade che non abbiamo già percorso in precedenza, anche fuori dall’Italia”, ha riferito Rossi Albertini, dopo aver incontrato l’anarchico nel carcere milanese di Opera. Infatti la difesa starebbe valutando un ricorso alla Corte europea per i diritti dell’uomo. Inoltre ha riferito che Cospito “non è assolutamente demoralizzato. È lucido e determinato. Assolutamente convinto delle proprie ragioni. Non arretra. Una persona che è convinta di sé e di quello che sta facendo”. Ma di questo ed altro si parlerà oggi alla conferenza stampa convocata alle 16 del 1 marzo da Rossi Albertini e Manconi alla Sala Nassirya del Senato, a cui parteciperanno diversi parlamentari tra cui Ilaria Cucchi, Riccardo Magi, Gianni Cuperlo, Giuseppe de Cristofaro, Angelo Bonelli. Il boss al 41 bis come Cospito: “Inizio lo sciopero della fame” di Giuseppe Legato La Stampa, 1 marzo 2023 Solo il tempo dirà se diventerà un’onda oppure resterà un’iniziativa personale. Da 24 ore, nel supercarcere Bancali di Sassari c’è un altro detenuto ristretto al 41 bis che ha iniziato lo sciopero della fame. È un boss (presunto) della mafia metapontina: Scansano, Tursi, Policoro, una lingua di mare Jonio incastrata tra la Calabria e la Puglia sulla statale 106 che collega Reggio Calabria a Taranto sulla quale si è abbattuta una sentenza di primo grado definita storica dagli investigatori: la prima per 416 bis in Basilicata. Si chiama Domenico Porcelli, 49 anni, originario di Bitritto (Bari), condannato a giugno a 26 anni e 6 mesi di carcere, non vuole più mangiare. “Ieri lo ha comunicato al personale del penitenziario e oggi - assicura il suo legale Maria Teresa Pintus - chiederà di essere sentito per inviare una comunicazione al tribunale di Sorveglianza e al ministro della Giustizia Carlo Nordio”. Da quando è iniziata la battaglia dell’anarchico Alfredo Cospito contro il 41 bis è il primo uomo di un’organizzazione mafiosa che segue la linea dell’ideologo del Fai (federazione anarchica informale) che pure a Bancali aveva iniziato a rifiutare di alimentarsi salvo essere trasferito per motivi di salute nel reparto assistenza intensiva del carcere di Opera, dove è tornato da 48 ore al termine di un temporaneo ricovero all’ospedale San Paolo di Milano. Porcelli è detenuto dal 2018, ha già trascorso 4 anni in regime di carcere duro e da poche settimane il provvedimento - come da protocollo - è stato prorogato. Nelle relazioni depositate a supporto della decisione “si parla di telefonini e computer in suo possesso”. Ma - ribatte la legale già difensore (tra gli altri) di Alfredo Cospito - non sarebbero “mai state svolte indagini approfondite sul caso”. E poi nella zona di influenza del boss tra i vertici del cosiddetto “clan Schettino” (un ex carabiniere condannato a 25 anni e mezzo di cui Porcelli è ritenuto luogotenente) sarebbero successe cose strane negli ultimi tempi: incendi, atti intimidatori che qualificherebbero la pericolosità sociale del detenuto. “Il mio assistito - racconta la legale Pintus - non c’entra con questa storia, che pare radicata in motivi privati di un uomo mai collegato al presunto clan. Porcelli avrebbe voluto fare una dichiarazione oggi (ieri, ndr) in aula a Potenza dove si celebra il processo a suo carico, ma c’è stato un rinvio e non gli è stato permesso di parlare. Ad ogni modo ha iniziato il suo percorso”. Collegamenti con Cospito? “I fatti di Alfredo sono noti, le notizie vengono apprese dai giornali. Porcelli ritiene che il provvedimento del carcere duro nei suoi confronti sia immotivato”. La sentenza, peraltro ancora non definitiva (Porcelli è detenuto in custodia cautelare dal giorno dell’arresto), è arrivata il 22 giugno: 24 persone sono state condannate, una sola assolta. Per la Dda, una pietra miliare nella lotta alla mafia fin qui senza precedenti. L’avvocato di Cospito: “Tenteremo nuove strade anche fuori dall’Italia”. Si valuta ricorso alla Cedu di Liana Milella La Repubblica, 1 marzo 2023 Le condizioni di salute di Alfredo Cospito, l’anarchico in sciopero della fame contro il 41bis da oltre quattro mesi, sono stazionarie, non necessitano di degenza ospedaliera e non sono allarmanti. Lo si apprende da fonti giudiziarie e ospedaliere in relazione al trasferimento di ieri del 55enne che è stato portato nuovamente nel Servizio assistenza intensificata del carcere milanese di Opera, dopo il ricovero nel reparto di medicina penitenziaria del San Paolo. Da quanto si è saputo, inoltre, fino a ieri, stando all’ultima relazione medica, l’ideologo del Fai ha continuato ad assumere integratori. Ma adesso ha interrotto anche quelli. “Bisognerà tentare nuove strade che non abbiamo già percorso in precedenza, anche fuori dall’Italia”. Lo ha riferito il legale di Alfredo Cospito, Flavio Rossi Albertini, dopo aver incontrato l’anarchico nel carcere milanese di Opera, dove è stato trasferito nuovamente ieri mattina dopo alcuni giorni di ricovero nell’ospedale San Paolo. Il colloquio, durato circa due ore, è stato il primo dopo la sentenza della Cassazione che ha respinto il ricorso della difesa per la revoca del regime di 41bis. “Lucido e determinato, non demoralizzato”. Così l’avvocato descrive lo stato d’animo di Alfredo Cospito che ha incontrato nel carcere di Opera. Il legale conferma però che l’anarchico “non assume più gli integratori e nemmeno lo zucchero” ma solo “acqua e sale”. Del trasferimento dall’ospedale a Opera non si è lamentato. “La sua è stata una presa d’atto” dice “anche perchè lui sa che ci sono detenuti che stanno peggio di lui e che non hanno la possibilità di venire curati in ospedale”. Le ultime relazioni mediche, trasmesse fino a ieri ai magistrati del Tribunale di Sorveglianza di Milano, hanno evidenziato valori sostanzialmente nella norma e un aumento del peso di quasi un paio di kg nel corso del suo ricovero durato poco più di due settimane. Nella relazione con cui è stato deciso il suo rientro nel centro clinico del carcere sono state segnalate condizioni stazionarie, che non necessitano di degenza. Ogni giorno a lui viene ricordato dagli operatori del carcere e dai medici che può interrompere il digiuno in ogni istante e il 55enne risponde che vuole proseguire nella protesta. Il suicidio del detenuto come arma politica di Gianni Pardo Italia Oggi, 1 marzo 2023 Alfredo Cospito è stato riportato nel carcere di Opera, riprendendo la detenzione secondo il regime di 41 bis. Dunque è stato sconfitto su tutta la linea. A questo punto, se avesse buon senso, dovrebbe rassegnarsi e riprendere ad alimentarsi. Ma potrebbe anche lasciarsi morire di fame. Ogni persona perbene spera che ci ripensi e tuttavia, nel caso, che giudizio bisognerebbe dare di lui e dello Stato? Per lo Stato la faccenda è semplicissima. Se dovesse cedere ogni volta che un detenuto attua lo sciopero della fame, tutte le regole andrebbero a pallino. Riguardo a lui personalmente, invece, la faccenda è più complessa. Il suicidio “privato” è il risultato di un malessere esistenziale insostenibile. Per riprendere il dilemma di Amleto, si tratta di scegliere se essere (vivere) o non essere (morire). Ma accanto al suicidio privato, cioè rivolto esclusivamente a sé stessi, c’è quello usato “come arma”, cioè rivolto ad altri: per colpevolizzarli o per minacciarli. Il suicidio può essere una estrema protesta: “Per il male che mi infliggete sono arrivato alla conclusione che è meglio non vivere”. Ed è questo il caso di Ian Palach che protestava contro l’invasione della Cecoslovacchia da parte dei russi, nel 1968. Nel 1981, per protestare politicamente contro Margaret Thatcher, Bobby Sands ed altri nove detenuti irlandesi si lasciarono morire di fame in carcere, e il loro suicidio ebbe questo significato: “Noi non abbiamo alcuna possibilità di agire contro di voi ma, dimostrando di disprezzare la vita, diamo ai compagni l’esempio di una lotta per la quale si deve essere disposti a dare la vita”. Naturalmente la Thatcher non cedette di un millimetro. Certo, bisogna avere rispetto per qualcuno che, in nome di una idea, è pronto a morire. Ma se si è obbligati a rispettare la buona fede e il coraggio del suicida, non per questo bisogna rispettare o ritenere valida l’idea per cui muore. Se un anarchico prova ad ammazzare il re, viene condannato all’ergastolo e poi decide di morire di fame per incoraggiare qualche altro anarchico a ritentare, possiamo levarci il cappello dinanzi alla sua determinazione, ma non possiamo condividere il suo invito ad ammazzare il re. Quell’uomo è un coraggioso perché muore, ma è un criminale per lo scopo abbracciato. Ecco perché non bisogna condannare Margaret Thatcher a scatola chiusa. Una causa non è sicuramente giusta soltanto perché qualcuno è disposto a morire per essa. I piloti suicidi giapponesi furono degli eroi perché non cercavano di affondare barche di pescatori, ma navi da guerra. Viceversa i terroristi che hanno fatto crollare le Torri Gemelle, pur essendo anche loro dei piloti suicidi, non sono degli eroi, perché sono morti per uccidere degli innocenti inermi. Causa che difficilmente può essere dichiarata nobile. Per tutte queste ragioni, anche ad ammirare la perseveranza di Alfredo Cospito, non se ne può stimare la figura e men che meno le idee politiche, perché, per così dire, morirebbe per una causa sbagliata. Anarchia (per quanto ne so) significa assenza di governo. E indubbiamente sarebbe bello vivere in un mondo in cui nessuno commette la minima infrazione, tanto che non c’è bisogno di forza pubblica. Nessuno si comporta male, neanche in buona fede, tanto che non c’è bisogno di un codice civile. Nessuno necessita di indicazioni per evitare incidenti, tanto che si possono abolire i semafori (forme di ordini a colori). Insomma non appena si ipotizza l’anarchia in concreto, ci si accorge che è piuttosto un incubo che una liberazione. Almeno, finché l’umanità sarà composta da persone come quelle che conosciamo. L’anarchia è un ideale totalmente irrealizzabile. Addirittura, se si tenta di realizzarlo, di solito conduce al risultato opposto a quello desiderato: si voleva un Paese non oppresso da un potere democratico e si ha un Paese oppresso da un potere dittatoriale. Infatti, se il massimo argomento politico degli anarchici è la violenza, alla fine prevale il più violento: e costui diviene un dittatore. Gli ideali sono una bella cosa ma basta guardarli da vicino per vedere che essi vanno sposati cum grano salis. La libertà è una bella cosa, ma non si può estendere alla libertà di stupro. L’amore è una bella cosa, ma non se motiva l’uccisione della donna che ci ha lasciati. La gloria è una bella cosa, ma non se serve come motivo per scatenare guerre. Cospito, se ha una tale volontà di influire sul destino del Paese, avrebbe dovuto darsi alla politica normale, adottando programmi normali, e cercando di realizzarli in modo normale. Se invece sceglie la via sbagliata, fino a sacrificarle la vita, c’è da temere che l’avrà sacrificata alla sua disinformazione. Ecco perché, se insiste nella sua determinazione, commette un errore, e sarebbe da sperare che riprenda ad alimentarsi normalmente. Ma se proprio vuole morire non per questo la sua causa diverrà giusta. E sarà morto inutilmente. Caso Cospito, Donzelli sentito in procura dai pm di Giuseppe Scarpa La Repubblica, 1 marzo 2023 Il deputato di Fdi è stato ascoltato come testimone nell’inchiesta per cui è indagato Andrea Delmastro. Il deputato di FdI Giovanni Donzelli è stato sentito ieri come testimone nell’inchiesta in cui è indagato per rivelazione del segreto d’ufficio il collega di partito e sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro. Gli inquirenti hanno interrogato Delmastro a metà febbraio mentre hanno ascoltato Donzelli lunedì. La vicenda è quella in cui è protagonista proprio Donzelli. Il deputato di Fratelli d’Italia i primi di febbraio è intervenuto alla Camera sul caso dell’anarchico Alfredo Cospito. Il parlamentare ha definito l’anarchico “influencer del 41 bis” e ha accusato la sinistra di “stare con i terroristi” riferendosi alla visita del 12 gennaio di quattro deputati dem a Cospito e l’atteggiamento del partito di minor fermezza dinnanzi alla conferma del 41 bis. Il deputato nell’attaccare la sinistra ha citato colloqui in carcere avvenuti tra Cospito e boss della mafia. Le prove di questi colloqui secondo il Pd sarebbero in alcune intercettazioni trascritte in documenti riservati e non a disposizione dei parlamentari. Per questo il Partito Democratico ha chiesto le dimissioni di Donzelli. A fornire queste informazioni riservate a Donzelli era stato prorpio Delmastro, ad oggi l’unico indagato. Nei giorni scorsi sono stati ascoltati, come persone informate sui fatti, il capo del Dap, Giovanni Russo, l’ex direttore del Gruppo operativo mobile (Gom) della penitenziaria, Mauro D’Amico e l’attuale capo, Augusto Zaccariello. L’inchiesta in procura è partita dopo la denuncia presentata dal deputato dei Verdi, Angelo Bonelli, con il suo avvocato Antonio Andreozzi. “Il Csm difenda le toghe dalle critiche sull’anarchico Cospito” di Frank Cimini Il Riformista, 1 marzo 2023 Levata di scudi di Magistratura Indipendente. Nel giorno in cui l’avvocato Flavio Rossi Albertini dichiara, dopo un colloquio con Alfredo Cospito, che tenterà molto probabilmente la strada del ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo succede che la corrente di Magistratura Indipendente chiama in causa proprio il legale dell’anarchico in sciopero della fame insieme all’ex senatore Luigi Manconi perché con i loro giudizi sulla recente decisione della Cassazione avrebbero delegittimato i giudici. La richiesta di Mi è quella al Csm di aprire una pratica a tutela delle toghe che avevano deciso di rigettare il ricorso della difesa contro il Tribunale di Sorveglianza di Roma confermando l’applicazione del 41bis. Secondo Flavio Rossi Albertini il carcere di Opera, dove Cospito è stato riportato dall’ospedale San Paolo, è meno sicuro perché il suo assistito non è più monitorato con strumenti che valutavano battiti cardiaci e eventuali fibrillazioni. “Ma Cospito - aggiunge il legale- non voleva restare in ospedale perché è consapevole della condizione di altri detenuti al 41bis che avrebbero più necessità di cure e nonostante questo rimangono in prigione”. L’avvocato conferma che Cospito ha interrotto l’assunzione di integratori e zucchero limitandosi ad assumere acqua e sale. “Alfredo è lucido e determinato, assolutamente convinto delle proprie ragioni, non arretra, è una persona che è convinta di sé e di quello che sta facendo”, sono le parole del difensore. Fonti ospedaliere e penitenziarie riferiscono che i valori del detenuto Cospito sono nella norma e che il ritrasferimento a Opera dal San Paolo è stato deciso perché non comporta problemi di allarme per la salute. Tornando al Csm, secondo la corrente di Mi le parole dell’avvocato Albertini “volevano il martire e lo avranno, pensavamo che il diritto potesse tornare a illuminare questa vicenda” e quelle di un altro legale Caterina Calia, “una condanna a morte”, rappresentano “una denigrazione generica e generalizzata dell’intera attività giurisdizionale penale con il risultato di determinare presso la pubblica opinione una delegittimazione diffusa e indiscriminata dell’attività della Cassazione”, Nella giornata di oggi la difesa di Cospito con una conferenza stampa alla Camera dei Deputati ribadirà le proprie ragioni e fornirà ulteriori elementi sul possibile ricorso alla giustizia europea. Si tratta comunque di una strada non certo caratterizzata da tempi brevi. L’iter non può essere certo considerato compatibile con le condizioni di salute di un detenuto in sciopero della fame da oltre quattro mesi e che potrebbe crollare da un momento all’altro. “Tutelare tutti i giudici che smentiscono i verdetti del processo mediatico” di Errico Novi Il Dubbio, 1 marzo 2023 “Siamo chiamati a molte sfide. Tra le più urgenti c’è la tutela di tutti i giudici, che decidono secondo coscienza e senza lasciarsi condizionare dal sentire comune, dalle aspettative dell’opinione pubblica”. Marcello Basilico è una figura di rilievo nel panorama della magistratura associata e istituzionale: presidente della sezione Lavoro al Tribunale di Genova, ora togato al Csm, è esponente di Area, corrente progressista delle toghe, e ha fatto parte del direttivo Anm. Sa bene che il nuovo corso di Palazzo dei Marescialli, di cui fa parte, sarà impegnativo, non foss’altro per gli sguardi severi con cui è osservato. Il che non vuol dire che le correnti, nel Consiglio superiore, debbano essere messe al bando: “Possono esserci diverse idee, nella magistratura, sul nuovo modello di giudice, ed è utile che possano confrontarsi. Che affrontino, innanzitutto, il nodo delle reazioni suscitate a volte dalle sentenze dentro e fuori le aule di tribunale”. Partiamo dal rapporto fra voi magistrati e il vostro ormai ex collega Nordio: può essere condizionato dai giudizi spesso severi che l’attuale ministro esprimeva quando era in toga, soprattutto su Csm e Anm? No, non credo che il passato di Nordio possa incidere sui giudizi relativi alla sua attuale azione da ministro. Penso davvero di poterlo affermare a nome della gran parte dei colleghi. D’altronde in passato abbiamo visto figure che hanno rivestito cariche nell’ambito della giustizia e che hanno rivelato inclinazioni assai diverse da quanto si potesse immaginare, soprattutto riguardo alla capacità di rappresentare l’ordine giudiziario. E lei dice che i vecchi contrasti fra Nordio e i vertici della magistratura non faranno innalzare la tensione sulle riforme, per esempio sulla separazione delle carriere? Direi proprio di no. Anche perché, a maggior ragione se parliamo di riforme costituzionali, eventuali critiche della magistratura non potrebbero appuntarsi solo specificamente sul ministro: entrerebbero in gioco l’intero governo, il Parlamento. Basti pensare a quanto accadde all’epoca della Bicamerale, quando il conflitto fra l’ordine giudiziario e la politica fu aspro e certo non si concentrò sulla sola figura del ministro. Si può fare anche l’esempio della riforma Cartabia: un conto è stata la proposta della guardasigilli, altro è il punto di caduta a cui ha condotto il dibattito parlamentare e che abbiamo appunto criticato. Ora che le cosiddette degenerazioni del correntismo vanno archiviate, servono ancora le correnti, al Csm? Intanto c’è un nuovo modello di magistrato da definire in base alle riforme da poco introdotte, alle aspettative che ne derivano in termini di efficacia della risposta di giustizia. Ma pesa anche una società mutata da cui emerge la richiesta di nuove tutele, recepite e segnalate al Parlamento dalla Corte costituzionale. Rispetto a tutto questo è importante eccome che la magistratura si confronti al proprio interno, tra le sue varie componenti. Pensiamo soltanto alla invadenza presente e futura della tecnologia nella giustizia, agli algoritmi e alle sollecitazioni della cosiddetta predittività. E poi c’è una questione ancora più delicata delle altre. Quale? A volte manca, nella politica, la consapevolezza che il magistrato deve sapersi distaccare dalle aspettative dell’opinione pubblica. Cioè la politica “tifa” per la sentenza del processo mediatico anziché per i giudici veri? Noi come magistrati ci misuriamo di continuo con la complessità, e siamo chiamati a dare risposte complesse. Il punto è che non sempre la società moderna è pronta ad accettarle. È necessario che a tutti i livelli istituzionali si sia disposti a rispettare la decisione di un giudice anche quando non coincide con quella che il sentire comune sollecitava. E far passare questo messaggio è una sfida per le correnti? Certamente compito della magistratura associata è far comprendere che le risposte di giustizia, nella loro complessità, non possono assomigliare a un tweet, a un lapidario messaggio sui social. Magistratura indipendente, in una nota diffusa poche ore fa, chiede tutela per tutti i giudici che si occupano del caso Cospito. Non sarebbe giusto invocarla anche per il giudice aggredito a Rigopiano mentre leggeva la sentenza? Condivido in pieno l’idea che tutti i magistrati esposti in vario modo a forme di reazione incontrollata da parte dell’opinione pubblica meritino lo stesso grado di tutela. E credo che il discorso valga a maggior ragione quando si tratta di un giudice monocratico, come a Pescara. Il magistrato non decide per il popolo ma in nome del popolo, e lo fa in base alla propria coscienza e agli elementi acquisiti nel processo. Sono questi i suoi riferimenti, non un’aspettativa pubblica di condanna o assoluzione. Poi, a verificare se la sua pronuncia è corretta o sbagliata, potranno essere i successivi gradi di giudizio. Ma sarebbe bello se, sul rispetto di questa idea basilare, tutti gli organi dello Stato facessero quadrato. Si riferisce anche al tweet diffuso da Matteo Salvini dopo la sentenza su Rigopiano? Semplicemente, mi aspetto che le istituzioni dello Stato, di qualsiasi grado, si conformino all’unisono a questi principi. In tempi recenti o meno recenti ci sono stati diversi esempi di distrazione. Caso Sinatra: è giusto, intanto, che nella miriade di chiacchiere intercorse fra magistrati, debba essere incolpata proprio una pm donna che si sfoga per aver subito una molestia, considerato che quelle conversazioni tra lei e Luca Palamara avrebbero dovuto restare segrete, sul piano processuale? Premessa: mi astengo da qualsiasi commento sulla sentenza disciplinare in questione. Faccio parte dello stesso Csm che l’ha emessa e comunque non ho elementi per stabilire se si tratta di una decisione giusta o sbagliata. Riguardo l’imponderabile meccanismo che finisce per far emergere una certa notizia criminis fra tante condotte, va detto che questa è una dinamica inevitabile, e che ad essere determinante è il comportamento portato, seppur in modo casuale, in evidenza. Cosa risponde a chi considera paradossale che proprio dalla magistratura sembra arrivare, con la sentenza sulla dottoressa Sinatra, un segnale dissuasivo per tutte le donne che denunciano molestie o violenze di genere? Si deve ricordare, innanzitutto, che nel caso specifico la molestia non era stata denunciata. E che dunque la vicenda va ricondotta ai suoi connotati effettivi. Anche nel senso di segnalare come non si sia trattato di una molestia consumata all’interno del rapporto di lavoro, cioè tra un procuratore e una sua sostituta: lo dico perché nell’opinione pubblica sembra essere passata un’idea diversa. Detto questo, è inevitabile, su un piano generale e astratto, che una persona vittima di una molestia o di una violenza sia chiamata a rispondere nel momento in cui commette a propria volta un’azione illecita non scriminata dalla legge. In altre parole, un illecito va perseguito comunque, ma certamente la storia di quel fatto rileva rispetto all’entità della sanzione, cioè sul piano delle attenuanti. Nella violenza di genere, è indispensabile tutelare la vittima in modo che sia restituita alla dignità della propria esistenza, ma non nel senso di giustificare eventuali comportamenti illeciti successivi. Cassazione, oggi la storica nomina di Margherita Cassano di Simona Musco Il Dubbio, 1 marzo 2023 In magistratura dal 1980, è la prima donna al vertice della Suprema Corte. Fino ad oggi è stata la numero due di Curzio. Quella di oggi, al Csm, sarà una giornata storica. Perché per la prima volta, una donna sarà nominata primo presidente della Corte di Cassazione. La commissione per gli incarichi direttivi del Consiglio superiore della magistratura ha infatti votato nelle scorse settimane all’unanimità Margherita Cassano, attuale presidente aggiunto della Suprema Corte, per l’incarico che sarà lasciato da Pietro Curzio, che sta per andare in pensione. Il voto avverrà alla presenza del capo dello Stato, Sergio Mattarella e realizza un obiettivo sfumato dieci anni fa, quando il posto che oggi verrà assegnato a Cassano per un soffio non finì in mano a Gabriella Luccioli, presidente del Collegio che ha pronunciato la sentenza numero 21748 del 2007 in tema di alimentazione e idratazione forzata nel caso Eluana Englaro. Nel frattempo, tra il 2013 e il 2023 la poltrona di presidente è stata occupata solo da uomini. E ora tocca a Cassano compiere un ulteriore passo nella conquista della parità di genere, entrando nella storia così come Marta Cartabia, prima presidente donna della Corte costituzionale. Nata nel 1955 a Firenze, ma di origini lucane, Cassano è figlia di un alto magistrato, Pietro Cassano, che ha presieduto molti processi negli anni di piombo, compreso quello che ha portato alla condanna di Renato Curcio. In magistratura dal 1980 e addetta al settore penale, dal 1981 al ‘98 è stata pm a Firenze, dove si è occupata di importanti indagini su associazioni di stampo mafioso e traffico internazionale di stupefacenti. Dal 1998 e per quattro anni è stata togata di Magistratura Indipendente al Csm. Rientrata in ruolo dopo l’esperienza a Palazzo dei Marescialli, Cassano dal 2003 ha lavorato in Cassazione come consigliere: ha fatto parte, oltre che delle Sezioni Unite, della prima sezione penale, dove è stata relatrice della sentenza di condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa dell’ex senatore di Fi Marcello Dell’Utri. Dal gennaio 2016 ha presieduto poi la Corte d’appello di Firenze dove è rimasta fino al 15 luglio 2020, quando è stata nominata presidente aggiunto della Cassazione, prima donna a raggiungere un ruolo così importante presso la Suprema Corte. A correre per il posto attualmente occupato da Curzio era stato anche Giorgio Fidelbo, che però ha revocato la domanda. Nella relazione che accompagna la sua proposta di nomina - che verrà illustrata dal consigliere Andrea Mirenda - si evidenzia come nelle valutazioni di professionalità di Cassano “sono sempre stati attestati l’equilibrio, la notevole preparazione professionale, la diligenza, la laboriosità e le rilevanti doti direttive ed organizzative”. L’ultima, quella che porta anche il contributo del predecessore, evidenzia - oltre alle doti professionali - anche le importanti esperienze di coordinamento e quindi di dirigenza. In particolare, Curzio sottolinea la fondamentale esperienza di presidente della Corte d’appello di Firenze, “ufficio dirigenziale complesso che richiede competenze civilistiche, penalistiche e amministrative, in cui ha conseguito risultati di grandissima consistenza e rilievo, unanimemente riconosciuti”. Con il rientro in Cassazione (dove aveva lavorato come consigliere per un lungo periodo) ha sviluppato ulteriormente l’esperienza dirigenziale maturata a Firenze, rivestendo il ruolo di presidente aggiunto della Corte, con delega piena al settore penale, affiancata da numerosi altri compiti di portata generale. Nello svolgimento di tale funzione, tra le altre cose, ha presieduto costantemente le Sezioni Unite penali, ma anche una parte delle udienze delle Sezioni Unite civili, così come ha presieduto in numerose occasioni il Consiglio direttivo. “Nello svolgimento di questi compiti - ha evidenziato il Consiglio direttivo -, ha dato alla Corte contributi fondamentali, come ad esempio, la rielaborazione delle tabelle e la predisposizione dei programmi di gestione”. Il parere si sofferma infine “sulla indiscussa cultura, giuridica e generale, emergente, oltre che da tutta la sua storia di magistrato, anche dalle esperienze, con compiti organizzativi e di propulsione, nell’attività di formazione a livello nazionale e decentrato, nonché nella vasta e qualificata produzione scientifica”. Un percorso professionale “articolato e poliedrico”, fatto di esperienze giurisdizionali e organizzative tra le più complete, associate alla “brillantezza delle soluzioni adottate in ogni settore, la capacità d’innovazione, espressa nel quadro delle regole e del continuo confronto e dialogo con colleghi e operatori, l’attenzione ai profili pratici e deflattivi, ma anche alla valorizzazione dell’insostituibile ruolo nomofilattico della Corte”, che delineano “un profilo di straordinaria rilevanza, che rende la dottoressa Cassano pienamente indicata a svolgere le funzioni direttive apicali di legittimità”. Alla difesa garanzia di accesso agli atti delle intercettazioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2023 La notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari non esaurisce gli oneri a presupposto dell’esercizio dell’azione penale. E tra questi oneri una rilevanza particolare ha la effettiva possibilità di esame da parte della difesa degli atti depositati dal pubblico ministero con il materiale relativo a intercettazioni, come previsto dalla riforma entrata in vigore nel 2020. In caso contrario la richiesta di rinvio a giudizio deve essere dichiarata nulla. A queste conclusioni è approdato il Gip di Varese, con ordinanza del 15 novembre, che si sofferma su un elemento significativo introdotto nel Codice di procedura penale dalla riforma Orlando delle intercettazioni, il comma 2 bis dell’articolo 415 bis. Il provvedimento è intervenuto a valle delle contestazioni avanzate dalle difese che lamentavano come la disponibilità degli atti contenuti nel fascicolo dell’accusa, conseguenza della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, era stata limitata o negata da provvedimenti o comportamenti del pubblico ministero. La premessa, sottolineata dall’ordinanza, è che “la sovrabbondanza captativa, quantunque ritualmente autorizzata e giustificata da natura e oggetto delle indagini, produce inevitabilmente oneri organizzativi con riflessi processuali”. Insomma, la questione va affrontata alla luce, ricorda il Gip, della continua evoluzione delle forme di indagine e dei loro esiti, cristallizzati nella documentazione. Di fronte così a fatti che non risultano smentiti dal Pm, l’ordinanza avverte che la compromissione del diritto di difesa in questo caso coinvolge l’atto introduttivo della fase processuale, conseguente all’avviso di conclusione delle indagini preliminari, “da esso condizionato, ma autonomo”, e cioè la richiesta di rinvio a giudizio. Non è così possibile un intervento “a sanatoria” nel contesto dell’udienza preliminare perché l’effetto di lesione del diritto costituzionale alla difesa si è verificato durante le indagini preliminari. La disposizione in discussione, allora, l’articolo 415 bis comma 2 bis, attribuisce, è la lettura dell’ordinanza, agli indagati e ai loro difensori una facoltà “concretamente attuabile, mediante adeguati provvedimenti organizzativi dell’Ufficio di procura” di prendere visione ed estrarre copia degli atti di indagine. In caso contrario, il deposito del fascicolo deve essere ritenuto solo apparente e scatta la causa di nullità prevista dall’articolo 416, primo comma, del Codice di procedura, perché la richiesta di rinvio a giudizio non è stata preceduta da un avviso coerente con l’esercizio del diritto di difesa. Conclusione che travolge anche la concessione del rito abbreviato concesso all’imputata. Catanzaro. Solidarietà ai familiari del detenuto morto: venga fatta rapidamente luce sull’accaduto arci.it, 1 marzo 2023 Venerdì 17 febbraio 2023 è morto nel carcere di Catanzaro il signor Oleksandr Krasiukov, di nazionalità ucraina, in seguito ad un’emergenza medica, all’età di 43 anni. L’Arci esprime solidarietà e vicinanza alla famiglia e chiede che venga fatta rapidamente luce sui fatti che hanno portato alla morte del loro congiunto. Il sig. Krasiukov era stato arrestato non appena arrivato in Italia per aver condotto una barca di migranti sulle nostre coste (favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, ex art.12 TU sull’immigrazione). Monitoriamo oramai da anni, anche attraverso il lavoro del circolo Porco Rosso di Palermo, i tanti casi di persone accusate di questo reato ingiusto, di cui chiediamo la cancellazione. Le carceri italiane continuano a essere luoghi di negazione del diritto, come confermano tutti i rapporti presentati dalle associazioni e dalle istituzioni pubbliche, per persone sia italiane che straniere. Tra questi ricordiamo la nota dell’osservatorio Antigone, pubblicata qualche giorno prima della morte del sig. Krasiukov, proprio sull’allarmante condizione sanitaria all’istituto catanzarese. Seguiremo nelle prossime ore da vicino questa vicenda e valuteremo - a partire dai risultati dell’indagine che è stata avviata dalla magistratura per accertare le cause della morte ed eventuali responsabilità, anche in capo alla direzione dell’istituto penitenziario - le iniziative da intraprendere perché la verità possa emergere. Sassari. Detenuto morto in cella a Massama, la famiglia richiede l’autopsia di Claudio Zoccheddu La Nuova Sardegna, 1 marzo 2023 L’avvocata Decina: “Non crediamo al suicidio, ci sono troppi aspetti da chiarire”. Stefano Dal Corso aveva intenzione di recuperare la sua vita. Lo aveva confessato alla sua famiglia e lo aveva ribadito alla sua compagna, da cui due anni fa aveva avuto una bambina. Tutto, insomma, faceva credere che il 42enne romano avesse solo voglia di scontare la sua pena e poi, dal 31 dicembre del 2023, ricostruire un’esistenza compromessa dalla detenzione e lo spaccio di droga, che lo aveva portato in carcere, e dalla tossicodipendenza. Invece, il 12 ottobre Stefano Dal Corso è stato trovato cadavere all’interno del carcere di Massama, dove si sarebbe impiccato alla grata della sua cella sfruttando il brandello di un lenzuolo. Suicidio, dunque, come hanno confermato il medico legale e la Procura della Repubblica di Oristano. Una tesi che, però, non ha mai convinto la famiglia di Stefano, che da tempo chiede che venga fatta chiarezza oltre ogni ragionevole dubbio. Perché le perplessità, infatti, non mancano. Le richieste - La famiglia chiede che venga effettuata l’autopsia. Lo chiede da tempo, senza ottenere riposte. La conferma arriva da Armida Decina, avvocata della famiglia Dal Corso, che ha chiesto a più riprese l’esame post mortem, senza ottenere riscontri. “Ho presentato due istanze alla Procura di Oristano. La prima è stata rigettata, sulla seconda ho ottenuto solo una risposta informale dalla Pm Ghiani che ha confermato la prima versione: suicidio”. Eppure, i dubbi resistono. “Nonostante ci siano state fornite poche immagini - continua Decina - tra cui mancano quelle del corpo nudo e quelle che dovrebbero dimostrare la posizione in cui Stefano è stato ritrovato, ci sono tanti elementi che non ci hanno convinto. I primi riguardano le ecchimosi sul lato del collo e non sotto il mento, dove invece dovrebbero essere in un caso come questo, ma anche il colore violaceo della stessa ecchimosi, che indicherebbe tempistiche diverse da quelle indicate dalla direzione del carcere di Oristano, che invece ha dichiarato di aver trovato il corpo di Stefano pochissimo tempo dopo. Le nostre sensazioni sono state confermate dal medico legale di parte a cui ci siamo rivolti insieme alla famiglia”. Ma c’è anche un altro l’aspetto a non convincere la dottoressa Cristina Cattaneo, dell’istituto di medicina legale di Milano, e l’avvocata della famiglia Dal Corso: “Secondo la dottoressa del carcere, Stefano sarebbe morto in seguito alle fratture delle vertebre cervicali. Il nostro medico legale ha sottolineato come sia in realtà impossibile definire questo tipo di frattura senza prima effettuare un’autopsia o perlomeno una tac. Eppure, non sono state fatte. Né una né l’altra”, aggiunge l’avvocata Decina. Gli altri dubbi - Ci sono altri aspetti che non convincono. Il primo riguarda la sistemazione di Stefano: “Ci hanno detto che i detenuti in transito nel carcere Massama, come Stefano che era solo di passaggio nella struttura perché doveva comparire ad un’udienza nel tribunale di Oristano, non vengono assegnati ai reparti ma restano nelle celle dell’infermeria, tutte singole. Ebbene, in una delle foto che ci sono state fornite si vede il letto della cella in cui Stefano si sarebbe impiccato, perfettamente integro. Da dove avrebbe ricavato il brandello di tessuto utilizzato per il cappio?”, domanda l’avvocata. A turbare la famiglia di Stefano, poi, ci sarebbero e alcuni voci provenienti dal carcere che racconterebbero una realtà diversa, con Stefano protagonista di un violento diverbio appena qualche ora prima del presunto suicidio: “Sono voci senza alcun riscontro - taglia corto l’avvocata Decina -. Io mi soffermerei più sulla lettera che aveva inviato alla compagna appena sei giorni prima di morire, dove le scriveva di non vedere l’ora di uscire per ricominciare una vita con lei, sull’incontro che aveva avuto con la figlia due giorni prima di morire. Non sono i comportamenti di un aspirante suicida. E, in ogni caso, basterebbe effettuare l’autopsia per fugare ogni dubbio”, conclude l’avvocata. Cagliari. “Chiudete il carcere minorile di Quartucciu” di Luciano Onnis La Nuova Sardegna, 1 marzo 2023 L’appello di Irene Testa, Garante dei detenuti in Sardegna: “L’istituto ospita 7 ragazzi ed è fatiscente come un canile”. Il “carcere canile” è una struttura ormai obsoleta e fuori dal tempo, e va chiusa. Irene Testa torna a occuparsi del carcere minorile di Quartucciu e stavolta chiede alle istituzioni di porre una pietra tombale sulla struttura che si trova in località Supezzu Mannu. La Garante delle persone provate della libertà in Sardegna nelle scorse settimane, dopo avere visitato il penitenziario, aveva acceso i riflettori sulla situazione di Quartucciu e ora, in un momento assai particolare per quanto riguarda le carceri isolane, torna sull’argomento. La proposta - La Garante descrive così la situazione di Quartucciu: “Sono attualmente soltanto sette i minori detenuti, dei quali solo due residenti in Sardegna”. Queste persone - secondo la sua proposta - potrebbero essere affidate a delle comunità e a quel punto la struttura chiusa definitivamente. “La chiusura del carcere - suggerisce Irene Testa - libererebbe personale e denaro dei quali c’è tanto bisogno nelle altre strutture penitenziarie dell’isola”. Le istituzioni - Nella nota diffusa ieri dalla Garante dei detenuti si fa riferimento anche a Luigi Patronaggio. “Ringrazio il Procuratore generale presso la Corte di Appello di Cagliari, Luigi Patronaggio, per l’interessamento che sta mostrando sulla struttura minorile di Quartucciu dopo la visita del Garante all’interno del carcere minorile. Patronaggio ha chiesto una relazione sullo stato della struttura e informazioni sulla gestione della stessa al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale dei minorenni - fa sapere Irene Testa - e ha informato di questa sua iniziativa il Ministero della Giustizia e al Centro per la Giustizia minorile della Sardegna. L’attenzione del dottor Patronaggio è sintomo che le istituzioni, se lavorano insieme, possono, se lo vogliono, far vivere i valori costituzionali e la legge”. Il “carcere-canile” - I riflettori sul carcere minorile di Quartucciu, come detto, si sono accesi un paio di settimane fa, dopo un primo sopralluogo da parte della Garante, freschissima di nomina e chiamata a colmare un vuoto lungo oltre un decennio. “L’istituto è fatiscente e pericolante - aveva detto dopo la visita - un ammasso di ferro vecchio e peggio di un canile. Non è accettabile rieducare i ragazzi in luogo del genere. Siamo di fronte a una situazione talmente grave che costringe non solo i ragazzi ma tutto il personale che lavora all’interno a vivere in uno stato di sofferenza e degrado. L’ultima bolletta della corrente elettrica ha comportato una spesa di 29mila euro. Non ho al momento il dato dei milioni di euro che ogni anno si spendono per tenere in piedi una struttura di questo tipo. In tanti anni che visito le carceri non ricordo di aver mai visto una struttura del genere”. Prima il diritto - Non appena insediata, Irene Testa aveva chiarito la propria posizione su alcune tematiche fondamentali legate alla detenzione. “Il faro da seguire è il diritto - aveva detto -. Se le persone hanno sbagliato che scontino la loro pena e questo deve avvenire secondo la costituzione. Purtroppo nelle carceri italiane molto spesso questo non avviene. Occorre inoltre superare l’idea delle carceri minorili, i giovani detenuti devono stare nelle comunità e non dietro le sbarre”. Convinzioni maturate nel corso di una lunghissima esperienza come attivista sul fronte dei diritti dei detenuti. Irene Testa, già tesoriera del Partito Radicale e conduttrice su Radio Radicale del programma “Lo stato del Diritto”, è anche autrice del libro-denuncia “Il fatto non sussiste - Storie di orrori giudiziari”. Piazza Armerina (En). Lettere dal carcere di Bianca Burgo Vanity Fair, 1 marzo 2023 Una biblioteca, uno spettacolo teatrale, un laboratorio musicale e un progetto di scrittura creativa. I detenuti di Piazza Armerina stanno seguendo un percorso di rieducazione, e ora ci mandano un messaggio importante: in Sicilia c’è un carcere in cui è concessa un’”evasione legale”. A base di arte e cultura. Una luce tremula proviene da una finestra in una casa lontana. La osservo intere ore fantasticando che, al suo interno, il calore di una famiglia unita scaldi i cuori di tutti. Immagino una moglie premurosa che con amore prepara la cena. Riesco a sentire nei miei pensieri le voci dei bambini che giocano, gioiosi di una vita serena. Io non avrò mai niente di tutto questo”. Alessandro spia la felicità altrui attraverso le sbarre di una cella in cui ha passato metà della sua vita. In cui si è abituato, scrive in questa lettera indirizzata al mondo fuori, “a muoversi in piccoli spazi angusti, al ronzio assordante di voci sconosciute, al rumore dei cancelli che si chiudono alle spalle”. I cancelli sono quelli della Casa circondariale di Piazza Armerina, piccola realtà virtuosa sperduta nella campagna di Enna, dove i circa 80 detenuti sono invitati a intraprendere un percorso di rieducazione. L’invito arriva direttamente da Antonio Gelardi, fino allo scorso dicembre direttore del carcere, e dall’operatrice culturale Samantha Intelisano: insieme hanno preso un “non-luogo”, dove i detenuti si limitavano a scontare la pena senza prospettive per il futuro, e l’hanno trasformato in un centro di speranza. L’avventura è partita nel 2019. Seduto sulla sedia a rotelle in cui è costretto da una rara malattia genetica, Gelardi racconta: “Dirigevo il carcere di Augusta, un carcere grande, che conta 5-600 detenuti e stavo per andare in pensione quando è arrivata la proposta di cambiare sede. L’ho accettata, nonostante la fatica che la mia malattia mi procura, e i 146 chilometri che separano casa mia da Piazza Armerina. All’inizio venivo qui solo due giorni alla settimana; dallo scoppio della pandemia, ho aumentato a tre, per stare più vicino ai detenuti”. Con loro, e grazie all’aiuto di Intelisano, ha attuato una vera e propria rivoluzione. Sono partiti dalla costruzione di una biblioteca, per poi aggiungere un corso di teatro, uno di musica, un percorso psicologico e uno “sfogo” di scrittura creativa. “La biblioteca è quel luogo che contiene tutte le parole che vorremmo dire”, racconta Intelisano che, trascorrendo molto tempo con i detenuti, ha cominciato a pensare a un modo per permettere loro di esprimersi. Insieme hanno selezionato monologhi, dialoghi, brani e poesie. Poi, hanno iniziato a leggerli a voce alta, a progettare una sequenza drammaturgica, a disegnare dei cartelloni che fungessero da scenografia. Il titolo dello spettacolo teatrale che stava nascendo è stato tratto proprio dalla frase stampata su un cartello: “Non guardateci così”, appello universale a essere guardati, almeno una volta nella vita, come Alessandro guarda la finestrella illuminata. Con amore. Le prove sono iniziate lo scorso settembre: per tre mesi i detenuti si sono messi in gioco con grande impegno. La mattina uscivano dalle loro celle carichi: alcuni orgogliosi di essere riusciti a imparare a memoria il testo, altri entusiasti, pieni di idee da proporre. La mise en scène, che è durata due giorni, il 21 e il 23 novembre 2022, è stata pensata come un incontro, un’occasione per l’istituto di aprire le porte a un piccolo gruppo di ospiti esterni, accompagnati tra celle, cancelli e corridoi dalla recitazione dei detenuti. Camminando, sentivano declamare i testi scelti, tra brani di Italo Calvino e poesie di Erri De Luca, con gli echi che si sovrapponevano alle immagini, le azioni agli oggetti scenici, le parole urlate da lontano a quelle sussurrate come confessioni. “Dolore nostro - umano. / Voi non sapete come / certe notti ce ne stiamo / schiacciati sotto un peso / che non si vede / e uno scuro, un buio enorme / preme, e allora siamo, il rifiuto / l’animale zoppo che ha davanti la fine”: riecheggia, tra le sbarre, la poesia Caino di Mariangela Gualtieri, primo brano a essere scelto per questo spettacolo che, dopo tanto tempo, ha regalato, a Ciccia, Babba, Piero, Carmelo, Salvo, Damiano e a tutti coloro che vi hanno preso parte, qualche minuto in cui non sentirsi animali zoppi. C’è poi chi, invece, si è riscattato nella sala di incisione del carcere: spazio coordinato dal musicoterapeuta Roberto Mistretta in cui i detenuti hanno potuto scoprire, o riscoprire, la passione per la musica. Tra loro, Raffa, che da bambino si esibiva alle feste dei parenti e sognava una carriera da cantante. La vita, però, l’ha trascinato altrove: prima alla guida di un camion poi, per colpa di “un unico e solo maledetto sbaglio”, qua dentro dove, scrive in una lettera, “la notte diventa più fredda e ancora più buia e speri di fare un sogno che ti porti lontano dalla realtà”. Quando ho cominciato a frequentare Piazza Armerina per realizzare gli scatti che vedete in queste pagine avevo paura. Paura di non essere presa sul serio come fotografa, paura di come si sarebbero comportati i detenuti con me, paura dei loro reati. In realtà, avevo paura semplicemente perché di loro non sapevo niente. È stato facile, invece, scoprire che sono persone come noi. Partendo da questa riflessione, dopo le prove teatrali, ho proposto una nuova attività. Un’”evasione legale”, l’abbiamo chiamata: i detenuti, o meglio i ragazzi, potevano scrivere una lettera aperta al mondo di fuori, per raccontare il mondo lì dentro. Ne sono usciti pezzi della loro storia impressi su carta, confessioni di peccatori pentiti e autoassoluzioni, aforismi e invocazioni a Dio, attestati di speranza e dichiarazioni d’amore alla vita. Damiano scrive dal suo cubo di cemento, cella 8, braccio sinistro, primo piano, e lancia un appello ai giovani che stanno “là fuori”: “Sta a voi scegliere se vivere in un mondo colorato e animato o rimanere al buio, soli, lontani e isolati. Pensateci bene e non fate gli errori che ho fatto io. Perché la vita va vissuta e non sprecata”. Anthony si cimenta con la poesia: “Il tempo non vola / volano le rondini / e i pensieri nel cielo”. Peppe, con le dichiarazioni d’amore in dialetto: “Sì, so geloso. E ‘sti mura ca ta tengono luntano a me ma nun sanno ca ti amo cchiù ‘e me”. Alessandro, mentre osserva la finestrella illuminata, si abbandona ai rimpianti: “Io che ogni errore l’ho pagato caro e non sono mai stato perdonato, se solo ti saresti accorto di me e mi tendevi una mano, non ti avrei deluso. E, forse, mi sarei salvato”. Torino. “Morire di pena”, all’Unione culturale i dubbi su carceri e 41bis di Cinzia Raineri Djerbouh futura.news, 1 marzo 2023 Ieri, l’Unione Culturale Antonicelli ha ospitato l’incontro “Morire di pena”, il primo di una serie di appuntamenti per riflettere sulle carceri e sulle condizioni attuali di queste strutture. E sotto la lente di osservazione è finito, anche, il 41bis, articolo dell’ordinamento penitenziario che prevede il regime carcerario abitualmente definito come “carcere duro”. Michele Miravalle, coordinatore dell’Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione della Associazione Antigone, ha sottolineato che il 41bis nasce in un contesto molto preciso. Nel 1986 viene introdotto come misura d’emergenza in caso di rivolte o di problematiche interne alle carceri. Ma poi arriva il 1992. Muore Falcone e la mafia rappresenta un pericolo concreto per le istituzioni democratiche. Il 41bis viene rivisto, e diventa un modo per evitare che i detenuti mantengano i contatti con le associazioni mafiose. Per questo motivo, è impossibile ridurre questo regime a un provvedimento puramente giuridico. “È uno strumento anche politico, e continua a esserlo”, sostiene Miravalle. Ad oggi, sono circa 800 i soggetti al 41bis. Contando chi è tenuto sotto un regime di alta sicurezza, si raggiungono circa le 10mila persone. I detenuti totali, però, sono 60mila in Italia. “Stiamo concentrando l’attenzione su una parte minoritaria dei detenuti, che è anche ben poco rappresentativa di quella che è la totalità della popolazione carceraria. Questo dà l’alibi per non occuparsi degli altri 50mila”, ha spiegato Miravalle. In più, il 41bis avrebbe, secondo lui, delle funzioni chiare e dichiarate, ovvero l’interruzione dei legami con le associazioni mafiose, ma può nascondere anche una finalità di prevenzione e di definizione del nemico pubblico. In questo senso, il caso di Alfredo Cospito, detenuto al 41bis da maggio, sarebbe emblematico, in quanto rappresentante di un’ideologia nemica dello Stato. L’avvocato Luigi Romano ha sottolineato come, in alcuni casi, si decida di non revocare il regime del 41bis a detenuti che si trovano in carcere da decenni, anche se l’associazione mafiosa di cui facevano parte non esiste più. Il suo collega Gianluca Vitale ha criticato l’applicazione del 41bis e ha rimarcato che ergastolo ostativo, a cui soggiace Alfredo Cospito a causa della recidiva, è cosa diversa dallo stesso 41bis. Lo sciopero della fame cominciato dall’anarchico e da diversi altri detenuti è diventato un modo per cercare di far sentire la propria voce. Una delle tematiche che si stanno sviluppando sempre di più in relazione alle carceri, infatti, è quella legata alla fisicità dei condannati. In un contesto di privazione della libertà, il corpo diventa “l’ultimo spazio simbolico a disposizione delle persone detenute per portare avanti le proprie battaglie politiche o per attirare l’attenzione su sé stessi. Non a caso il 2022 è stato l’anno con più suicidi avvenuti all’interno delle carceri italiane”, ha detto Miravalle. Ciò che emerge è un sistema che non garantisce livelli di salute adeguati, che rifiuta ogni richiesta avanzata dai reclusi - che si vedono negata la possibilità di un regime alternativo o di ottenere un permesso - e che non riconosce ai detenuti la dignità individuale e soggettiva. Questo elemento assume una dimensione ancora più drammatica, se si pensa che a Torino, presso il carcere delle Vallette, l’11% della popolazione carceraria è composta da detenuti nati tra il 1998 e il 2004, come sottolinea Monica Cristina Gallo, garante della Città di Torino per i diritti delle persone private della libertà. Siracusa. Una convenzione per permettere il lavoro dei detenuti nelle scuole agensir.it, 1 marzo 2023 Una convenzione tra la Casa Circondariale di Siracusa, la Caritas, l’associazione Padre Massimiliano Maria Kolbe Onlus, l’Ufficio locale di esecuzione penale esterna di Siracusa (Ulepe), e due istituti superiori della città per permettere ad alcuni detenuti di svolgere le ore di lavoro esterno nelle scuole. L’intesa sarà sottoscritta domani mattina, mercoledì 1° marzo, nella casa circondariale di Cavadonna. Si tratta di un’attività volontaria e gratuita in favore della collettività svolta da detenuti che si occuperanno di manutenzione ordinaria e delle aree verdi. A sottoscrivere la convenzione saranno il direttore della Casa Circondariale Aldo Tiralongo, il direttore della Caritas don Marco Tarascio, il direttore dell’Ulepe Stefano Papa e i dirigenti scolastici degli istituti superiori “Tommaso Gargallo” e “Luigi Einaudi”, rispettivamente Annalisa Stancanelli e Teresella Celesti. Viterbo. Lo sport scuola di vita, il Coni entra nel carcere di Mammagialla di Ugo Baldi quotidianodipuglia.it, 1 marzo 2023 Lo sport entra nelle carceri, nella Casa Circondariale di Mammagialla a Viterbo si è svolto l’atto finale con un triangolare di calcio. Con tre tempi da 25 minuti è calato il sipario su questo progetto firmato da Coni Lazio e dalla Regione iniziato a novembre sotto la guida del tecnico federale Maurizio Forti. Si tratta di una iniziativa che mira ad aiutare, attraverso il calcio e altre discipline sportive, i detenuti a recuperare il senso della vita, delle regole, dell’impegno e del gioco di squadra al fine di reinserirsi positivamente nel tessuto sociale. Le gare state dirette dagli arbitri della sezione Aia di Viterbo; Francesco Celletti, Silvio Settimi e Fabio Settembre. Presenti anche il presidente Luigi Gasbarri e dal cassiere Perluigi Amodeo. Al termine delle gare c’è stata la consegna dei riconoscimenti da parte del delegato del Coni di Viterbo Ugo Baldi, del responsabile tecnico Adriano Ruggiero e del fiduciario Marco Marcucci ai protagonisti. Omaggi del Coni sono stati consegnati alla dottoressa Natalina Fanti, al direttore Anna Maria Dello Preite a direttore aggiunto Marco Grasselli, al comandante della polizia penitenziaria Dottoressa Mara Foti e al funzionario giuridico dottoressa Teresa Mariotti. “ Il torneo di calcio - ha detto la direttrice di Mammagialla Anna Maria Dello Preite - si colloca nell’ambito delle iniziative promosse dal Coni destinate alla popolazione detenuta e finalizzate a promuovere i valori dello sport come strumento di sviluppo e di inclusione. Se, come spesso si dice, lo sport è una palestra di vita, l’evento rappresenta la conclusione di un percorso di crescita importante, nella misura in cui ha consentito ad ognuno dei partecipanti di acquisire valori significativi quali la costanza, la perseveranza e la solidarietà”“. Il progetto è stato fortemente voluto dal presidente del Coni Lazio Riccardo Viola:”“Quella della rieducazione attraverso lo sport è una sfida impegnativa - ha detto - e passa attraverso questi progetti che mirano al potenziamento dell’autostima, allo sviluppo del potenziale personale, e al recupero di quei valori come la legalità, la lealtà e la cooperazione. Lo sport come sempre è uno degli strumenti più potenti per evolvere e diventare persone migliori”. Napoli. Confesercenti e gli attori di “Mare fuori” insieme per i ragazzi detenuti ottopagine.it, 1 marzo 2023 Si è tenuto ieri pomeriggio, presso la Sala Baroni del “Maschio Angioino” a Napoli, l’incontro-seminario “Gioventù Sospesa”, un focus sulla situazione negli istituti penitenziari minorili. Il presidente Schiavo: “Corsi di formazione, accesso a finanziamenti e assunzioni per i ragazzi che hanno scontato la pena”. Fabrizio Corona: “Bisogna promuovere le pene alternative per rieducare i giovani”. Organizzato da Confesercenti Campania, insieme con lo studio legale MGS, ha voluto porre l’accento, con testimonianze autorevoli, con l’ausilio di professionisti del settore e rappresentanti delle istituzioni politiche e carcerarie, sulla necessità di declinare le pene detentive secondo il loro ruolo costituzionalmente assegnato e cioè di riabilitazione, rieducazione e reinserimento, e non punitivo di vendetta sociale e rivalsa. Insieme al focus il seminario è servito a presentare alcuni progetti, tra cui quello che vede Confesercenti Campania protagonista nel creare strade lavorative e imprenditoriali per ex detenuti e per ragazzi in difficoltà. L’incontro è stato moderato dall’avvocato penalista Maria Grazia Santosuosso, titolare di MGS Studio Legale: “I minori detenuti a fine pena - ha affermato l’avvocato - sono quasi sempre uguali a quando sono entrati in carcere se non addirittura peggiorati nelle loro caratteristiche di adattamento alla società civile. Siamo convinti che sia necessario divulgare nella società un’idea diversa, quella cioè costituzionale, di pena. A Napoli esiste “Il Caffè Sospeso” cioè una consuetudine comunitaria, un’adozione sociale anonima e disinteressata dei bisogni di chi non ce la fa. Pensiamo anche per la “Gioventù”, che è un periodo così delicato della vita di ognuno, la società si debba fare carico di dare sostegno a chi ha incontrato degli ostacoli durante il suo percorso di crescita. Questo incontro pensiamo che sia solo l’inizio di un grande passo, non siamo qui solo per parlare, ma per dare spazio ai fatti. Sono presenti professionisti che si occupano ogni giorno di detenuti e minor, e ringraziamo vivamente Confesercenti, che porterà avanti il progetto di reinserimento o primo inserimento lavorativo per i ragazzi”. In tal senso Vincenzo Schiavo, presidente Confesercenti Campania e vicepresidente Nazionale con delega al Mezzogiorno, ha sottolineato: “Questo incontro è per noi di Confesercenti solo un punto di partenza. Rappresentiamo le imprese, e in tal senso abbiamo il dovere di stare al fianco di coloro che ne hanno più bisogno. Il nostro progetto parte dai ragazzi di Nisida, ai quali intendiamo offrire una strada per il futuro dopo la detenzione. Con i nostri imprenditori faremo corsi di formazione ai ragazzi in carcere e a quelli che hanno scontato la pena, per poter dare loro un domani sicuro. Questi ragazzi hanno bisogno di formazione professionale e di avere un’opportunità dopo la detenzione. Queste opportunità intendiamo fornirgliele noi, non solo con corsi di formazione per diventare commercianti o imprenditori, non solo sostenendoli, indirizzandoli nei finanziamenti, nello start delle loro idee imprenditoriali ma anche proponendoli alle nostre aziende come dipendenti, in modo che possano, se meritevoli, essere assunti. Come del resto già accade, perché alcuni nostre aziende già hanno assunto giovani che hanno scontato la loro pena. Vogliamo dare ai ragazzi che non hanno avuto un passato sereno una possibilità di una vita diversa. Partiamo da Nisida ma poi andremo a preoccuparci anche degli altri ragazzi che perderanno il reddito di cittadinanza e avranno bisogno, anche loro, di certezze per il futuro”. Interessante l’intervento di Fabrizio Corona, imprenditore e con un passato detentivo: “Sento sempre forte il legame con Napoli, specie quando ci sono iniziative del genere, sono qui per raccontare la mia esperienza, con la speranza che possa essere utile ai giovani. Il sistema carcerario ha bisogno di una riforma radicale, a partire da come viene gestita l’esecuzione della pena, che non deve essere per forza scontata dietro le sbarre perché ci sono altri modi migliori e costruttivi, ma ci sono tanti cavilli burocratici che non permettono di accedere alle pene alternative. Bisogna fare in modo che il lavoro alternativo sia la base della concezione di un carcere che serva per rieducare e non per punire, come invece viene spesso fatto nel nostro Paese. Il 41 bis va senza dubbio rivisto, e non serviva lo sciopero della fame di qualcuno per rivisitarlo, andava fatto già prima”. Tra i presenti anche gli attori di “Mare Fuori” Antonio D’Aquino, Gaetano Migliaccio, Agostino Chiummariello. Giovanna Sannino, che in “Mare Fuori” interpreta Carmela, ha affermato: “Credo che il messaggio principale che “Mare Fuori” vuol inviare è che nessuno si salva da solo. Oltre alla speranza di un futuro migliore, interpretiamo storie difficili in cui emerge che è impossibile, per ragazzi che non hanno saputo scegliere percorsi diversi o che non hanno potuto farlo, salvarsi senza l’aiuto di persone, Istituzioni e mondo della cultura. Bisogna farsi aiutare e accettare l’aiuto di chi ha più esperienza di noi, il forte messaggio della serie tv è proprio questo”. Chiara Marciani, assessore alle Politiche giovanili del comune di Napoli, ha invece sottolineato: “Questo incontro è la testimonianza di quanto sia fondamentale la cooperazione tra associazioni, enti e Istituzioni per creare un percorso per i ragazzi in difficoltà o per coloro che hanno commesso errori. In modo che ci sia per loro una concreta possibilità di rinascita anche nella nostra città, si può sbagliare ma insieme dobbiamo far capire ai ragazzi che ci può essere una via d’uscita, come istituzioni siamo presenti ma è fondamentale che ci siano professionisti che possano guidare questi ragazzi, ma anche i ragazzi in difficoltà, verso lidi più sicuri”. Presenti all’incontro anche Luigi Carbone e Gennaro Demetrio Papais (consiglieri comunali di Napoli), Samuele Ciambriello (Garante dei Detenuti in Campania) Gianluca Guida (Direttore Istituto Penitenziario Minorile di Nisida), l’attrice Anna Capasso, il magistrato Nicola Russo, Clelia Iasevoli (docente diritto minorile presso l’Università Federico II), Hilarry Sedu (Consigliere dell’ordine degli avvocati di Napoli), Sergio D’Elia (segretario associazione “Nessuno tocchi Caino”), Cristina Morrone (penalista), Oltre a Fabrizio Corona c’erano anche, di “Mare Fuori” la scenografa Cristina Farina e il Produttore associato Francesco Pinto. “Ingressi per 500mila immigrati regolari”. Lollobrigida rilancia, poi frena: ma si lavora a un piano flussi di Tommaso Ciriaco La Repubblica, 1 marzo 2023 L’idea di 100 mila arrivi regolari l’anno per 4 o 5 anni. Meloni irritata con Piantedosi. L’audio del potente responsabile dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, forse il dirigente più vicino a Giorgia Meloni, è inequivocabile: “Dobbiamo dare l’idea che il metodo di immigrazione illegale non è più quello per entrare in Italia - scandisce a Bruxelles - Dobbiamo lavorare meglio su un piano flussi, finora disatteso. Noi solo quest’anno lavoreremo per far entrare legalmente in Italia quasi cinquecentomila immigrati. Ed è possibile anche con ragionamenti bilaterali o multilaterali con altre nazioni”. Una promessa clamorosa. Capace di scatenare un’enorme attesa, visto che tutto lascia pensare che si tratti dell’annuncio di un imminente - e imponente - decreto flussi. Due ore dopo, il ministro impone una brusca frenata: “Non c’è alcun piano - spiega al telefono - Parlavo della richiesta di forza lavoro che c’è ogni anno in Italia. Solo in Agricoltura, 150 mila”. Basta un attimo, come detto, a smuovere gli equilibri nell’esecutivo. Da settimane Palazzo Chigi preme sul Viminale per ipotizzare un decreto flussi più largo dell’attuale, probabilmente costruito con un meccanismo premiale: quanto minore è l’immigrazione illegale da un Paese, tanto più aumentano le quote legali di accesso per quel Paese. In particolare, si punta sulla Tunisia. Ma la cifra - cinquecentomila in un anno - è talmente alta che ai ritmi attuali basterebbe a coprire sei anni di ingressi. E allora, cosa c’è dietro alle parole di Lollobrigida, che lavora in simbiosi con Meloni? E perché poi ha dovuto rettificare? Al Viminale nessuno conosceva un piano del genere. E comunque, nessuno pensa di poter gestire un flusso simile. Semmai, l’idea è arrivare ad accogliere - o a dire di voler accogliere - centomila (forse anche 125 mila) persone ogni dodici mesi. Si tratterebbe di un piano quadriennale o quinquennale, dunque. Ma possibile che Lollobrigida sia caduto in un errore del genere? Bisogna scavare ancora. E partire da un altro dato: a Palazzo Chigi inizia a farsi largo la consapevolezza che gli slogan elettorali non riusciranno a fermare le dinamiche migratorie con cui hanno dovuto fare i conti i precedenti esecutivi. Per questo, provano a correre ai ripari. Da una parte, chiedendo all’Ue di contribuire a frenare gli sbarchi illegali, offrendo in cambio un allargamento dei flussi giudicati regolari. Un meccanismo che assorba almeno in parte (e in un certo senso “copra” sul fronte dell’opinione pubblica) l’importante flusso di partenze previste in primavera. Come? Il dettaglio non è chiaro, ma l’obiettivo politico sì: mostrarsi paladini dell’immigrazione legale, battere i pugni a Bruxelles per reclamare interventi drastici sul confine Sud dell’Europa. È un progetto di difficilissima realizzazione, sul piano pratico. E c’è anche altro da valutare. C’è la profonda irritazione di Meloni per la gestione che Matteo Piantedosi ha avuto della tragedia sulle coste calabresi. Una debacle sul fronte della comunicazione, innanzitutto. Senza sottovalutare un altro aspetto: la ricostruzione degli eventi che hanno portato all’incidente. In questo senso, non è sfuggita la richiesta di chiarimenti su eventuali lacune nella catena di salvataggio che il meloniano Alberto Balboni ha avanzato ieri in Parlamento a Matteo Piantedosi. Un quesito che chiama in causa anche Matteo Salvini, che gestisce la Guardia Costiera. Strage di Cutro, perché il piano del governo sui migranti è fallimentare di Luigi Manconi La Repubblica, 1 marzo 2023 Fino a questo momento sono sessantaquattro i morti, tra cui 15 minori e 21 donne, e oltre quaranta i dispersi del naufragio avvenuto nella notte tra il 25 e il 26 febbraio nelle acque davanti a Cutro, sulle coste calabresi. Orlando Amodeo, ex funzionario di polizia, medico e soccorritore, ha detto: “Questa tragedia si poteva evitare. È come se sia quasi voluta. Se io so dal primo giorno che una nave è in difficoltà, le vado incontro. Perché non è stato fatto? Noi abbiamo imbarcazioni che tranquillamente affrontano il mare a forza 7, io c’ero, ero lì, ho visto il mare” (il Fatto Quotidiano, 27.02.2023). Matteo Piantedosi, ministro dell’Interno, ha dichiarato: “Si devono bloccare le partenze”. Se c’è un nodo - un dato, un fatto, una circostanza - sul quale il fallimento, più ancora che della politica, della ideologia del governo di Giorgia Meloni è palese, è quello rappresentato dagli sbarchi di migranti e profughi sulle coste italiane. Mettetevi nei panni di un elettore di destra, nutrito per anni dalla propaganda contro “l’invasione” degli stranieri, dalle invettive sempre truculente e spesso volgari contro l’ex ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, dalle promesse mirabolanti di Matteo Salvini (“d’ora in poi sbarchi zero”) e dagli impegni reiterati dell’attuale titolare del Viminale, e confrontate tutto ciò con i dati di realtà. Nel periodo tra il primo gennaio e il 27 febbraio del 2021 sono sbarcate sulle coste italiane 4.887 persone; nel medesimo periodo del 2022, 5.474; tra l’inizio dell’anno e il 27 febbraio del 2023, 14.437. Avete letto bene: con il governo di Giorgia Meloni gli sbarchi si sono molto più che triplicati rispetto allo stesso periodo del 2021 e più che raddoppiati rispetto allo stesso periodo del 2022. Degli oltre 14mila migranti sbarcati in Italia quest’anno, la gran parte sono di nazionalità guineana e gli altri provengono da Costa d’Avorio, Pakistan, Tunisia, Egitto, Bangladesh, Eritrea, Camerun, Siria, Mali, a cui si aggiunge il dato del 43 per cento di persone provenienti da altri Stati o per le quali è ancora in corso la procedura di identificazione. Tra i naufraghi dell’ultimo fine settimana, queste sono le nazionalità più ricorrenti: afghana, pakistana, iraniana, somala e palestinese. La tragedia di domenica 26 febbraio è successiva di appena pochi giorni al provvedimento assunto dal ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture e dalla Capitaneria di Porto di Ancona nei confronti della nave Geo Barents, che fa riferimento a Medici Senza Frontiere: 20 giorni di fermo e una multa tra i 2mila e i 10mila euro, per non aver fornito tutte le informazioni richieste dalle autorità italiane riguardo l’ultima missione che si è conclusa lo scorso 17 febbraio con lo sbarco di 48 persone. Così Medici Senza Frontiere: “ci viene contestato di non aver condiviso i dati del VDR (Voyage Data Recorder), richiesti a Geo Barents subito dopo l’assegnazione del porto di Ancona. Mai prima di questa occasione ci era stata rivolta questa richiesta e il Comando della nave ha sempre fornito tutte le altre informazioni relative alla missione (come il diario di bordo)”. Infatti, i dati VDR hanno lo scopo di fornire, in una forma sicura e sempre disponibile, informazioni riguardanti la posizione, il movimento, lo stato fisico, il comando e il controllo di una nave nel periodo che precede e segue un incidente marittimo. In questo caso, non si era verificato alcun incidente. Il che dimostra quanto sia stato arbitrario il provvedimento preso nei confronti della nave della Ong. Cosa c’entra tutto questo con il naufragio davanti alle coste calabresi? In apparenza nulla ma - a ben guardare - c’è una relazione diretta tra i due fatti: se la strategia generale del governo è quella di “bloccare le partenze”, è ovvio che dissuadere le Ong dallo svolgere la propria attività è componente essenziale di tale piano. E il piano si rivela fallimentare, come i dati relativi al 2023 - vigente e potente il governo Meloni - dimostrano. La smentita più inequivocabile alle parole del ministro dell’Interno e alla politica dell’esecutivo si trova nelle parole della poetessa keniota Warsan Shire: “Nessuno mette i suoi figli su una barca, a meno che l’acqua non sia più sicura della terra” (come ricorda Oscar Nicodemo su Gli Stati Generali). Migranti. Mancati soccorsi, è scontro tra Frontex e Guardia costiera di Giansandro Merli Il Manifesto, 1 marzo 2023 Il buco nero di Crotone. È scontro tra Frontex e Guardia costiera italiana. L’agenzia europea: “Abbiamo avvisato che c’era un barcone con 200 persone”. Ma l’operazione di soccorso non sarebbe mai partita. Il ministro Piantedosi non chiarisce. Le vittime salgono a 66. Che nel naufragio di Steccato di Cutro qualcosa non tornasse si era capito subito. Ieri però, mentre i cadaveri salivano a 66, i dubbi sulla gestione dei soccorsi hanno preso forma con lo scontro a colpi di comunicati tra guardia costiera (Gc) e Frontex. Alle 16.08 la Gc scrive che la sera di sabato 25 febbraio un velivolo Frontex ha avvistato un barcone nello Ionio. “L’unità risultava navigare regolarmente, a 6 nodi e in buone condizioni di galleggiabilità, con solo una persona visibile sulla coperta”, si legge nel comunicato. Passano appena 49 minuti e un lancio Ansa da Bruxelles riporta la posizione dell’agenzia Ue per il controllo delle frontiere. La descrizione delle condizioni del mezzo coincide, ma i numeri no: “La barca trasportava circa 200 persone”. Del resto è difficile credere che il pilota Frontex non abbia notato la presenza sottocoperta: è prassi controllare la “linea di galleggiamento”, cioè la distanza tra superficie del mare e ponte della barca. Se questa è sovraccarica diminuisce sensibilmente. La GC aggiunge poi un altro particolare importante: “Il velivolo Frontex inviava la segnalazione al punto di contatto nazionale preposto per l’attività di law enforcement, informando, tra gli altri, per conoscenza, anche la Centrale Operativa della Guardia Costiera di Roma”. È quello che sospettavano in molti: il barcone in pericolo è stato trattato come un caso di immigrazione illegale e non un evento di ricerca e soccorso (Sar). Non è un dettaglio linguistico. Alle due circostanze, che l’Italia inizia a distinguere nel 2019, corrispondono procedure, mezzi e perfino “culture” di intervento diverse. La classificazione di law enforcement spiegherebbe perché a cercare il target siano state le fiamme gialle (senza coordinamento della Gc). Queste, hanno dichiarato, sono dovute rientrare a causa delle difficili condizioni del mare. Le operazioni Sar sono invece il compito principale della Gc che ha in dotazione le motovedette classe 300 e 800. Mezzi in grado di affrontare qualsiasi mare, praticamente inaffondabili. Ma chi classifica l’evento: il mezzo presente sulla scena, cioè il velivolo Frontex, o le autorità che ricevono la notizia a terra? “Le autorità a terra. Il mezzo sulla scena deve offrire loro dettagli particolareggiati affinché si rappresentino bene la situazione”, spiega Vittorio Alessandro, ammiraglio in congedo della Gc. Per questo i numeri sono decisivi: una piccola barca sovraccarica, soprattutto in un mare che ha costretto due navi militari a tornare indietro, non può che essere in pericolo. Caso Sar, dunque. Il cuore della vicenda è chi a terra ha scelto di attivare le fiamme gialle e non la Gc, che nel comunicato citato sostiene di aver ricevuto le prime segnalazioni di pericolo solo alle 4.30 di domenica. Non si può escludere che esista anche una responsabilità superiore a GdF e Gc (che dipende dal ministero delle Infrastrutture del quasi silente Matteo Salvini). Dopo l’introduzione dei decreti del leghista, suggeriscono fonti ben informate, il Viminale è diventato una specie di “supercoordinatore” di sbarchi e soccorsi dei migranti. Presto il ministro Matteo Piantedosi potrebbe essere chiamato a spiegare l’accaduto al parlamento. A chiarirlo dovrebbe essere soprattutto l’indagine del procuratore di Crotone Giuseppe Capoccia. Per ora indaga sulle responsabilità degli scafisti, ma dopo le rivelazioni di ieri potrebbe aprire un filone per omissione di soccorso. La storia rischia di diventare un terremoto per la maggioranza e in particolare per Piantedosi che fino a ieri è stato attaccato soprattutto per le parole sui migranti, “la disperazione non può giustificare viaggi pericolosi per le vite dei figli”. Sulla macchina dei soccorsi il Viminale ha mostrato nervosismo già dalle prime ore successive al naufragio. Domenica, nella conferenza stampa a Crotone, Piantedosi ha declinato le domande sulla gestione del caso, invitando a evitare “fascinazioni particolari”. Poche ore dopo dal suo ministero è partita la minaccia contro il medico Orlando Amodeo che dalla spiaggia di Cutro aveva denunciato mancanze da parte delle autorità. “Segnaleremo le sue dichiarazioni all’Avvocatura dello Stato”, ha fatto sapere il Viminale. Ancora ieri in audizione Affari costituzionali del Senato Piantedosi ha sostenuto che ad accertare le responsabilità sarà la magistratura ma lui ha massima fiducia nei soccorritori. In serata, poi, ha dichiarato: “Il barcone non ha chiesto aiuto”. In Commissione era sembrata aprirsi una prima crepa nella maggioranza quando il presidente Alberto Balboni (FdI) ha affermato: “non lasciamo la richiesta di chiarimenti alle opposizioni. Siamo i primi a farla perché non si può lasciare una nave piena di bambini in balia delle onde ma rifiutiamo la strumentalizzazione politica”. Più tardi la rettifica del capogruppo FdI alla Camera Tommaso Foti: la richiesta “serve semplicemente a evitare le cose dette nei giorni scorsi”. La guerra alla droga fa rima con corruzione di Marco Perduca Il Manifesto, 1 marzo 2023 Il 21 febbraio scorso, dopo un processo di quattro settimane e tre giorni di riunioni a porte chiuse, una giuria di Brooklyn ha ritenuto Genaro García Luna colpevole di aver preso milioni di dollari dal cartello della droga di Sinaloa mentre era segretario di stato per la sicurezza pubblica e responsabile della guerra del Messico contro le sue narcomafie in stretto rapporto con la DEA statunitense. García Luna è stato condannato per traffico di cocaina e per aver preso tangenti da chi avrebbe dovuto assicurare alla giustizia: tra questi anche Joaquin Guzman, “El Chapo”. Paragonato a J. Edgar Hoover, il primo direttore dell’FBI, dal 2001 al 2005 Garcia Luna ha guidato l’agenzia federale messicana delle indagini per poi coordinare la guerra alla droga rilanciata dal Presidente Felipe Calderon dal 2006 al 2012 in obbedienza ai desiderata di Washington e in stretta collaborazione con la Dea. La mobilitazione dell’esercito aveva causato l’escalation della violenza nel conflitto con i cartelli, provocando oltre 100.000 vittime, fra morti e desaparecidos. Nel 2013 Forbes lo aveva incluso nell’elenco dei “10 messicani più corrotti”, a sua difesa García Luna aveva scritto una lettera di fuoco a Steve Forbes accusando l’articolo di esser basato su bugie e ricordando che, tra le altre cose, era l’autore di “Contro il crimine: passato, presente e futuro della polizia in Messico” in cui aveva esposto i concetti del nuovo modello di polizia per il Messico, ponendo l’accento sull’importanza del ruolo dell’intelligence e “El Nuevo Modelo de Seguridad para México” in cui delineava una nuova visione per la sicurezza nazionale. Le accuse del coinvolgimento di García Luna con il cartello di Sinaloa emersero per la prima volta durante un processo contro “el Chapo” - condannato all’ergastolo più 30 anni nel 2019 - quando Jesus “Rey” Zambada, ex membro del cartello, aveva testimoniato di aver consegnato milioni di dollari in pagamenti all’ex ministro messicano. Il caso contro Garcia Luna è stato costruito sulla testimonianza di altri otto testimoni che hanno iniziato a cooperare con la giustizia degli Stati uniti. Garcia Luna ha preferito non prendere la parola durante il processo mentre la moglie Linda Cristina Pereyra ha rigettato tutte le accuse rivolte al marito e al loro stile di vita. Pereyra Gálvez ha anch’ella un procedimento in corso in Messico per entrate economiche di provenienza illecita. I conti che le erano stati congelati per sospetto di compartecipazione alle attività illecite del marito tre anni fa sono stati recentemente sbloccati, i suoi problemi legali sono adesso negli USA dove è citata davanti a un tribunale civile in Florida per un presunto furto di 745,8 milioni di dollari all’erario messicano trasferiti a Miami. “García Luna ora vivrà il resto dei suoi giorni come un traditore del suo paese e dei membri onesti delle forze dell’ordine che hanno rischiato la vita per smantellare i cartelli della droga” ha detto Breon Peace, procuratore per il distretto orientale di New York. La decisione della giuria di Brooklyn potrebbe aprire nuovi procedimenti o provvedimenti disciplinari negli Stati Uniti perché per una decina d’anni Garcia Luna è stato il referente principale della Drug Enforcement Administration, l’FBI, la Cia e il Department of Homeland Security nella lotta contro i cartelli messicani. García Luna è stato trovato colpevole di tutti e cinque i capi d’imputazione, compreso il traffico di droga e il proseguimento di un’impresa criminale e accusato d’aver ricevuto circa 274 milioni di dollari in tangenti. Secondo l’accusa, con l’aiuto di García Luna, il cartello di Sinaloa ha contrabbandato più di 50 tonnellate di cocaina negli Stati Uniti tra il 2002 e il 2007. Tra il 2002 e il 2008 altre 53 tonnellate di cocaina sono state contrabbandate a New York e Chicago. Il 27 giugno la sentenza: rischia una pena da 20 anni all’ergastolo. Medio Oriente. “Ai leader dico: combattete il razzismo e l’antisemitismo” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 1 marzo 2023 “I discorsi d’odio che prolificano soprattutto sui social possono tradursi in atti di violenza contro le minoranze in generale”, avverte l’Ambasciatore di Israele in Italia. Israele tra una pace che non c’è e lo spettro insanguinato di una terza intifada. E ancora: un “nuovo” antisemitismo che ha come elemento fondante la demonizzazione dello Stato ebraico. Sono i temi di stringente attualità al centro dell’intervista concessa a Il Riformista dall’Ambasciatore d’Israele in Italia Alon Bar. Signor Ambasciatore, gli attentati a Gerusalemme, gli scontri a fuoco in Cisgiordania. E’ scoppiata la terza intifada? Mi auguro di no. Ma nell’ultimo anno abbiamo assistito a un crescente numero di atti terroristici all’interno di Israele, a Gerusalemme, e il livello di tensione è molto alto. Rispetto al passato, ci sono differenze: in questa fase, non vediamo sostegno all’intifada da parte dell’Autorità Palestinese e assistiamo a una forte demonizzazione di Israele, la qual cosa potrebbe portare a ulteriori tensioni e violenza. Gli orribili attacchi terroristici ad Hawara e l’omicidio dei due fratelli israeliani, e gli altri attentati avvenuti in precedenza a Gerusalemme, sono il diretto risultato della deliberata e premeditata istigazione pianificata e compiuta dalle organizzazioni terroristiche che agiscono direttamente per conto dell’Iran. Gli interventi delle forze di sicurezza israeliane contro i centri del terrorismo a Nablus e Jenin sono finalizzati unicamente alla prevenzione di imminenti attacchi terroristici. Le forze israeliane compiono sforzi enormi per individuare e colpire esclusivamente i terroristi senza fare del male a civili innocenti, per quanto possibile. I terroristi, al contrario, ambiscono a generare il maggior numero possibile di vittime innocenti da entrambe le parti. A tal fine, mettono deliberatamente a rischio la popolazione civile palestinese, utilizzandola come vero e proprio scudo umano. Ci avviciniamo al mese del Ramadan e, alla luce del terrorismo e delle tensioni del periodo, Israele ha partecipato ieri, insieme a funzionari degli Stati Uniti, dell’Egitto e dell’Autorità Palestinese, a colloqui in Giordania finalizzati ad arrestare l’escalation. Nella cornice dell’impegno israeliano contro le tensioni, s’inserisce la visita del primo ministro Netanyahu in Giordania, dove ha incontrato il re Abdullah. Mi auguro di poter vedere concreti tentativi di de-escalation da parte dell’Autorità Palestinese, dato che il nostro primo ministro ha immediatamente chiesto a tutti gli israeliani di non farsi giustizia da soli. Da più parti si sostiene che non esistono più spazi per un negoziato di pace fondato sulla soluzione “a due Stati”. Siamo a un vicolo cieco? Non credo che l’accordo negoziato sia impossibile. Ma la soluzione “a due Stati” è stata sostenuta principalmente dalla comunità internazionale e non necessariamente a sufficienza da israeliani e palestinesi. Quando ci sono state opportunità per concordare la soluzione “a due Stati”, abbiamo visto reazioni negative da parte dell’Autorità Palestinese e di Abu Mazen, e la popolarità di quella soluzione sta diminuendo in entrambe le comunità, israeliana e palestinese. Non so se, in questa fase, potrà emergere un’altra formula per fare progressi. Al momento, il livello di credibilità di Abu Mazen è così basso e la divisione tra Hamas a Gaza e l’Autorità Palestinese in Cisgiordania è così forte, che non credo sia possibile tenere un serio negoziato. Ed è anche vero che parti del governo israeliano hanno espresso una forte opposizione a tale soluzione. Come risponde all’accusa che Israele ha instaurato un sistema di apartheid nei territori palestinesi? Respingo fermamente questa accusa e credo che sia sostenuta da persone che vogliono demonizzare Israele e trasformarlo in uno stato illegittimo. In realtà, le ragioni della violenza e dello scontro non risiedono nella discriminazione razziale, ma nel terrorismo e nello scontro nazionale. Quei musulmani, cristiani, palestinesi e arabi che nello Stato di Israele rappresentano il 20% della popolazione e che non minacciano il Paese con la violenza, partecipano alla pari alle attività economiche, politiche e culturali d’Israele. Abbiamo buoni rapporti con diversi Paesi arabi e non ci sono argomenti per sostenere un parallelismo tra ciò che accade in Cisgiordania e la situazione storica in Sud Africa. Signor Ambasciatore, in Europa c’è preoccupazione per il nuovo governo israeliano di cui fanno parte forze politiche di estrema destra. Cosa può dire al riguardo? Il governo di Israele è il risultato di un processo democratico supportato dalla maggioranza degli israeliani e deve anzitutto rispondere ai cittadini che lo hanno scelto. Non temo affatto che il dibattito pubblico israeliano possa perdere vivacità e democraticità. Del resto, anche in questi giorni vediamo che si mantiene effervescente. La politica di destra, che piaccia o meno in altri Paesi, non è illegittima e, fintantoché godrà del sostegno democratico, il governo la porterà avanti. Sono certo che cercherà di farlo in modo da non creare minacce o instabilità in Israele e nella regione. Cosa teme di più dell’antisemitismo che ancora marchia l’Europa? Da un lato, mi preoccupa il fatto che le persone usino sentimenti antisemiti per demonizzare Israele; dall’altro, che utilizzino informazioni parziali o distorte su ciò che accade in Israele e in Medio Oriente per promuovere sentimenti antisemiti in Europa. Questo potrebbe portare molti ebrei in Europa a sentirsi in difficoltà nel dichiarare apertamente la propria identità religiosa, e in alcuni casi è già successo. Credo che questa sia una grave minaccia per la cultura e la società europee e, come abbiamo visto in passato, quando queste tendenze si rafforzano, si crea una forte instabilità nel Vecchio Continente. Credo sia importante che i leader combattano il razzismo in generale e, specificamente, l’antisemitismo, nei campi dell’istruzione, legale e dei social media, i quali sono spesso luoghi di prolificazione di per dichiarazioni antisemite e discorsi d’odio. Ignorare questi ultimi è rischioso perché sentimenti del genere potrebbero tradursi in azioni violente contro le minoranze in generale, non necessariamente solo contro gli ebrei. Cosa si sente di chiedere all’Italia? Mi auguro di vedere Italia e Israele rafforzare le relazioni su temi di interesse comune, come acqua, energia, sicurezza e cyber-sicurezza. Auspico che l’Italia e il popolo italiano vedano in Israele il giusto partner per affrontare con successo queste sfide. Mi auguro che l’Italia sia in prima linea tra i Paesi amici di Israele in Europa e nel mondo, in termini politici, economici, commerciali e culturali. Intendiamo celebrare in Italia i 75 anni dalla nascita dello Stato di Israele, intrattenendo molteplici collaborazioni a livello regionale, nazionale, in Parlamento e nella società civile, perché c’è davvero molto da festeggiare. Salvador. L’inferno dei detenuti nel carcere più grande del mondo di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 1 marzo 2023 La struttura sorge a Tecoluca (70km) dalla capitale e ospita quarantamila carcerati. Con le leggi speciali anti-criminalità è il “fiore all’occhiello” del presidente Bukele. In fila indiana, le mani legate tra loro, le teste e i corpi completamente tatuati, coperti solo da un paio di boxer, tutti uguali. Così sono stati fatti sfilare la settimana scorsa i circa duemila arrestati al termine di un’unica operazione, appartenenti alle bande criminali che spadroneggiano in Salvador. Nel tentativo di fermare lo strapotere dei cartelli il presidente salvadoregno Nayib Bukele, nel marzo dello scorso anno, ha dato il via alla cosiddetta guerra alle bande istituendo lo stato di emergenza. Lo scopo sarebbe quello di eradicare completamente il fenomeno attraverso misure che vanno ben al di là delle garanzie costituzionali e confinando tutti gli arrestati in una nuova mega prigione. La struttura, denominata Centro di confinamento antiterrorismo, si trova a Tecoluca a settantaquattro chilometri a sud est della capitale San Salvador. Un penitenziario monstre (il piu grande del Latinoamerica e probabilmente del mondo) che una volta terminato conterrà fino a quarantamila detenuti. Ogni palazzina (otto in totale) ospita trentadue super celle di circa cento metri quadrati per un numero analogo di internati. Il presidente Bukele ha salutato con grande enfasi la costruzione della prigione considerandola una parte fondamentale della sua strategia. Attraverso twitter ha dichiarato che: “questa sarà la loro nuova casa (dei criminali arrestati ndr.), tutti insieme, incapaci di recare ulteriori problemi alla popolazione”. I duemila mostrati alla gente in un’esibizione propagandistica saranno però solo i primi ospiti del Centro di confinamento antiterrorismo. La popolazione carceraria infatti dovrà per forza allargarsi perché gli arresti massicci sono giornalieri. Da quando è iniziata la guerra alle gang sono stati catturati dalle forze speciali fino a sessantaquattro mila persone su circa 6,5 milioni di abitanti del Salvador. L’azione anti crimine si è concentrata soprattutto nei confronti delle bande piu grandi e famose, l’MS- 13 e Barrio- 18 ad esempio hanno arruolato decine di migliaia di affiliati e sono responsabili di omicidi, estorsioni e traffico di droga. La direzione dichiarata dunque, anche se sembra abbastanza improbabile, e quella di arrestare tutti, ciò ha già sollevato le critiche delle organizzazioni per i diritti umani che sostengono come siano state arrestate moltissime persone innocenti che hanno subito trattamenti crudeli e degradanti. Le misure contenute nel decreto dello stato di emergenza consentono alla polizia di arrestare i sospetti senza mandato aumentando il numero delle detenzioni arbitrarie. Per capire come agiscono le forze di repressione anti crimine basta citare il caso di Soyapango, una delle più grandi città di El Salvador con una popolazione di oltre duecentonovantamila persone. Il centro urbano è notoriamente conosciuto come uno dei luoghi dove le gang sono attivissime. Ad aprile dello scorso anno diecimila soldati hanno circondato la città. Tutte le strade sono state bloccate e sono state perquisite le case alla ricerca di membri delle bande. Nonostante le evidenti storture dei provvedimenti repressivi presi dal governo, il presidente Bukele sembra godere di un notevole favore da parte della popolazione. Un recente sondaggio condotto dalla Central American University (UCA) ha rilevato che il 75,9% dei salvadoregni approva lo stato di emergenza. Non una sorpresa però perché il giro di vite è scaturito dal numero impressionante di omicidi il cui picco si è registrato il 26 marzo scorso con sessantadue vittime in sole 24 ore, una carneficina che non si ricordava dai tempi della guerra civile terminata nel 1992. Il parlamento dunque ha accolto la proposta di leggi speciali che oltre alla possibilità di arresti senza l’autorizzazione di un magistrato puntano a controllare le comunicazioni. Molti degli omicidi sarebbero stati ordinati da dietro le sbarre e così nei penitenziari si attuano periodici blocchi dei colloqui e delle telefonate. Qualcosa di simile era già successo nel 2020, mentre il coronavirus si diffondeva nel paese, il presidente Bukele impose un blocco di cinquanta giorni per i membri delle bande imprigionati dopo che più di quaranta persone erano state uccise in 72 ore.