Detenuti in Comunità? Proviamo di Fulvio Fulvi Avvenire, 19 marzo 2023 Per don Raffaele Grimaldi, Ispettore generale dei cappellani penitenziari, permettere di scontare la pena fuori dal carcere a chi è tossicodipendente potrebbe risolvere il dramma del sovraffollamento “ma è necessario un dialogo con il Terzo settore”. Scontare la pena in una comunità terapeutica “chiusa e protetta” oppure in un centro di accoglienza specializzato e proseguire qui, anziché in carcere, il proprio percorso rieducativo. La proposta, avanzata nei giorni scorsi dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Dalmastro è ancora allo studio e riguarderebbe, seppure “entro certi limiti”, i detenuti tossicodipendenti che rappresentano il 30% delle oltre 56mila persone rinchiuse attualmente nei 192 istituti di pena italiani. Potrebbe essere, dunque, una risposta efficace al sovraffollamento che è causa di forti tensioni, disagi e dei numerosi suicidi (sono stati 84 nel 2022) per tutti quelli che sono costretti a vivere, ma anche a lavorare, tra le mura di una prigione. “È un’idea valida ma va vista meglio e, soprattutto, va collaudata: sono anni che si parla di sovraffollamento delle carceri e non si riesce a trovare soluzioni adeguate” sostiene don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei 250 cappellani penitenziari impegnati a portare la speranza tra chi invece non ce l’ha più perché ha perso la libertà. Una missione che il sacerdote campano ha cominciato a svolgere nel 1993, quando ha messo piede per la prima volta in una Casa di reclusione, quella di Secondigliano, in provincia di Napoli, per svolgere il suo apostolato. Lei quindi è d’accordo con la proposta di far uscire dal carcere chi ha problemi di droga per accoglierlo in centri specializzati nell’assistenza e nella cura? Proposte del genere vanno senz’altro incoraggiate. Sarebbe un’azione forte e importante e potrebbe consentire agli istituti penitenziari di respirare meglio. Ma ognuno ha la sua opinione e il governo fa la sua parte. Però, chi dovrà decide di accogliere detenuti tossicodipendenti ha bisogno di dialogo e le Comunità che vogliono essere disponibili devono essere messe nelle condizioni di operare bene. Insomma, serve un dialogo con il Terzo Settore. Ma non va dimenticato che la maggior parte di chi sta in carcere è povera gente, perché non ci sono solo i tossicodipendenti ma anche gli alcolisti, i migranti e i senza dimora, per esempio. E queste fasce deboli vanno sempre accettate e accolte anche dietro le sbarre. Però è difficile accedere e svolgere la propria missione in questi luoghi di sofferenza. Nei primi due mesi e mezzo del 2023 i detenuti che si sono tolti la vita sono stati dieci. Erano stati quindici nello stesso periodo dell’anno scorso. È cambiato qualcosa, secondo lei, dopo il tragico record di morti del 2022? Si è riscontrata una maggiore attenzione alle fasce più critiche, cioè ai più fragili psicologicamente. Ma è pur vero che un suicidio accade all’improvviso e non è certo programmabile. Il carcere rimane comunque un luogo dove si soffre la solitudine, l’emarginazione e l’abbandono e questo rappresenta sempre un terreno fertile per i suicidi. Avere rapporti più stretti con le famiglie potrebbe alleviare la condizione di solitudine. Bastano i sei colloqui al mese previsti dalla legge? Quando si è lontani dai propri cari non si vive serenamente. Poter abbracciare moglie, figli, fratelli, genitori è un grande aiuto psicologico per un detenuto. Un’ipotesi potrebbe essere quella di favorire trasferimenti dai penitenziari del Nord a quelli del Sud, ma non è cosa facile e dipende dai reati commessi, ci sono persone sottoposte a stretta sorveglianza che non è possibile spostare. Ma con la pandemia da Covid si è sperimentato l’uso delle nuove tecnologie, delle videochiamate. Aiutano molto. Che significa, secondo la sua esperienza, essere il “padre spirituale” di un carcerato? Mai come in questo tempo, grazie al magistero di Papa Francesco improntato alla misericordia, la figura del cappellano penitenziario ha avuto tanta risonanza. Il nostro è un lavoro di sostegno anche verso la stessa struttura carceraria, spesso in difficoltà. Siamo un punto di riferimento e di incontro e dialogo per tutti, e non solo per i cattolici o i cristiani. Sono 20mila i detenuti stranieri, una presenza che ha sconvolto nel tempo la nostra pastorale che è sempre più basata su un profondo ecumenismo. Ma per voi cappellani c’è differenza tra un detenuto sottoposto al 41bis, quindi con gravi reati a cui deve rispondere con un regime di carcere duro, e un altro che magari deve scontare pochi mesi o è in attesa di giudizio? Non c’è proprio differenza da un punto di vista umano. Come Chiesa siamo vicini a tutti, senza distinzioni. Non distinguiamo i carcerati in base al reato. “Nessun uomo è il suo errore” diceva don Oreste Benzi. Ci interessa invece la riabilitazione, la rinascita di ciascuno. Ridare speranza a tutti. Stare vicini ai detenuti, parlare con loro, sostenerli nella sofferenza, amministrare i sacramenti a chi li chiede, dire Messa. E poi? Finisce lì il pur delicato e impegnativo compito di un cappellano? Certo che no. Non bisogna dimenticare che aldilà della pastorale all’interno della struttura molti di noi aiutano e collaborano con le Comunità di reinserimento che operano all’esterno, favoriscono l’integrazione sociale, accolgono i volontari, mantengono i contatti e sostengono le famiglie. La detenzione di Cospito al 41bis e le raccomandazioni dell’Onu all’Italia di Loris Marotti napolimonitor.it, 19 marzo 2023 L’approdo del caso Cospito al Comitato dei diritti umani, istituito dal Patto del 1966 sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite, solleva diversi interrogativi in ordine al possibile impatto che l’”internazionalizzazione” della questione potrebbe avere, tanto sulla drammatica vicenda individuale, quanto, più in generale, sulle sorti di un regime, il cosiddetto 41bis, sottoposto, ancora una volta, all’attenzione di organi internazionali. Il 25 febbraio 2023 il caso Cospito è stato oggetto di una “comunicazione individuale” trasmessa dal difensore al Comitato sui diritti umani delle Nazioni Unite. Il 1° marzo 2023 il Comitato ha inviato la comunicazione al governo italiano, invitando quest’ultimo a trasmettere al Comitato eventuali osservazioni circa l’ammissibilità e il merito del ricorso entro il termine di sei mesi. Contestualmente, il Comitato ha indicato “misure provvisorie” allo Stato, chiedendo a quest’ultimo di assicurare che, in pendenza della decisione definitiva sul merito, le condizioni di detenzione di Cospito siano mantenute in conformità agli standard internazionali e siano compatibili con gli articoli 7 (ai sensi del quale “nessuno può essere sottoposto alla tortura né a punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti”) e 10 del Patto (par. 1: “Qualsiasi individuo privato della propria libertà deve essere trattato con umanità e col rispetto della dignità inerente alla persona umana”; e par. 3: “Il regime penitenziario deve comportare un trattamento dei detenuti che abbia per fine essenziale il loro ravvedimento e la loro riabilitazione sociale”). Per comprendere la portata giuridica del ricorso al Comitato, conviene illustrare brevemente i tratti della procedura di cui si tratta. Ai sensi del Patto del 1966, le competenze del Comitato - organo composto da diciotto membri esperti in materia di diritti umani che siedono a titolo individuale, non rappresentando alcuno Stato - sono limitate all’esame di rapporti periodici degli Stati parte (art. 40), nonché, ove una simile procedura sia accettata dagli Stati parte, a comunicazioni interstatali relative a possibili violazioni del Patto (art. 41). Il Protocollo opzionale - che a oggi vincola centodiciassette Stati - ha esteso le competenze del Comitato alla ricezione di comunicazioni direttamente da parte di individui in merito a eventuali violazioni dei diritti umani sanciti nel Patto e commesse da Stati parte. Questa procedura si è rivelata nel tempo particolarmente significativa. Numerose comunicazioni individuali sono pervenute al Comitato (quasi quattromila, dalla sua istituzione a oggi), il che denota la rilevanza che questo organo di controllo riveste nella percezione della società civile a livello internazionale. Con la sua “giurisprudenza”, inoltre, il Comitato ha contribuito all’applicazione, interpretazione e allo sviluppo dei diritti sanciti nel Patto. Si tratta allo stesso tempo di una procedura che presenta dei limiti se osservata dal punto di vista dell’”effettività” della tutela apprestata dal Comitato. Quest’ultimo, infatti, non è un organo giurisdizionale, un tribunale (come, per esempio, è la Corte europea dei diritti umani), il che implica che le decisioni adottate rispetto alle comunicazioni individuali (denominate “osservazioni”) non sono vincolanti per gli Stati. In altre parole, il Comitato si limita ad accertare l’eventuale violazione commessa da uno Stato parte e a “raccomandare” allo Stato le possibili misure da adottare per rimediare alla violazione (risarcimento del danno, rilascio di un individuo ingiustamente detenuto, modifica di atti normativi, e così via). L’eventuale inosservanza da parte di uno Stato delle raccomandazioni del Comitato non costituisce di per sé una violazione del diritto internazionale, per quanto una simile inosservanza possa essere successivamente “registrata” dal Comitato nella valutazione generale sul rispetto dei diritti sanciti dal Patto da parte di uno Stato contraente. Certo, si potrebbe affermare che uno Stato sia tenuto quantomeno a prendere in considerazione le “osservazioni” del Comitato ed eventualmente a motivare l’inosservanza delle conclusioni del Comitato. Le modalità di adempimento di tale dovere sono comunque rimesse agli organi dello Stato (tutti, inclusi quelli giudiziari), sui quali ricade il dovere di buona fede e di cooperazione nell’interpretazione e attuazione di obblighi internazionali. Occorre inoltre tener conto di eventuali misure provvisorie (“interim measures”) che il Comitato può adottare d’ufficio o su richiesta del ricorrente in pendenza del procedimento, ove ravvisi il rischio di un pregiudizio irreparabile per la presunta vittima nelle more dell’accertamento da parte del Comitato. Secondo una posizione consolidata nella prassi del Comitato, l’adozione di misure di questo tipo (si pensi alla sospensione dell’esecuzione della pena capitale nell’ambito di un procedimento in cui si contesta la legittimità di una condanna di quel tipo; oppure alle ipotesi in cui si sospende in via provvisoria l’esecuzione del rimpatrio di uno straniero quando la legittimità di una simile misura è oggetto di accertamento da parte del Comitato), comporta infatti un obbligo per lo Stato destinatario della misura di conformarvisi. Una violazione delle misure provvisorie adottate in pendenza dell’accertamento definitivo avrebbe effetti più dirompenti. Essa andrebbe non solo a incidere negativamente sul diritto degli individui a ricorrere al Comitato (che sarebbe vanificato se uno Stato dovesse pregiudicare la posizione del ricorrente in pendenza del procedimento), ma anche a frustrare le funzioni del Comitato, rendendo l’eventuale accertamento definitivo della violazione del tutto futile. A ogni modo, anche in caso di violazione di misure provvisorie, il meccanismo contemplato dal Protocollo opzionale non contempla sanzioni particolari. In questi casi il Comitato si limita ad accertare e condannare la manifesta violazione da parte dello Stato degli obblighi sanciti dal Protocollo opzionale. Nonostante i suddetti limiti in termini di “effettività”, il successo del Comitato e della procedura di comunicazione individuale appare ascrivibile principalmente a due circostanze. In primo luogo, la procedura consente di portare all’attenzione della comunità internazionale una violazione dei diritti umani sanciti dal Patto e commessa da uno Stato parte. Questo comporta dei costi “reputazionali” per lo Stato autore della violazione sul piano delle relazioni internazionali. È forse soprattutto per questa ragione, e qui risiede la seconda circostanza, che gli Stati tendono a rispettare - o almeno a non ignorare - tanto le osservazioni del Comitato, quanto le eventuali misure provvisorie adottate in pendenza del procedimento. Vi è insomma un buon tasso di osservanza dei provvedimenti adottati dal Comitato. Tornando al caso Cospito, abbiamo visto come alla comunicazione individuale abbia fatto seguito l’adozione di misure provvisorie, con le quali il Comitato ha chiesto all’Italia di garantire in pendenza del procedimento condizioni di detenzione in linea con il dettato degli articoli 7 e 10 del Patto. Si tratta di una misura estremamente generica e non è affatto scontato che ciò importi per lo Stato italiano un dovere di sospendere il regime carcerario cui Cospito è sottoposto. Tuttavia, il fatto stesso che il Comitato abbia adottato una simile misura provvisoria - per quanto generica - è indicativo della percezione da parte dell’organo di una situazione di “urgenza”, in cui sussiste il fondato rischio per la vita di un individuo, sia esso direttamente o indirettamente collegato a una presunta violazione delle norme del Patto da parte dello Stato italiano. Pur nella sua genericità, questa misura non dovrebbe essere ignorata dagli organi giurisdizionali che nelle prossime settimane saranno nuovamente chiamati a pronunciarsi sulla vicenda. La misura dovrà quantomeno essere “presa in considerazione” e informare il processo decisionale dei giudici. Rispetto al merito, non è dato prevedere quale potrà essere l’orientamento del Comitato rispetto alla vicenda Cospito e, più in generale, rispetto al regime del 41-bis. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha già avuto modo di pronunciarsi in merito a detto regime, escludendo un’incompatibilità a priori con l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (che sancisce il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti). La stessa Corte ha però precisato che l’applicazione e il mantenimento di tale regime deve essere giustificata anche alla luce di circostanze individuali e, in particolare, delle condizioni di salute e dell’eventuale deterioramento delle stesse. Resta da vedere se il Comitato farà proprie queste valutazioni in merito alla condizione specifica di Alfredo Cospito. Parere del ministero dell’Interno sulla riforma Cartabia: “Candidabile chi patteggia” di Dario Ferrara Italia Oggi, 19 marzo 2023 Anche chi patteggia è candidabile. Grazie alla riforma Cartabia chi ha concordato la pena col pm può presentarsi alle prossime elezioni. A condizione, tuttavia, che non vi siano pene accessorie, il che avveniva già prima sotto i due anni e che adesso può avvenire anche sopra con l’eventuale accordo fra pubblico ministero e imputato. Il tutto perché il comma 1 bis dell’articolo 445 Cpp, così come novellato dal decreto legislativo 150/22, ha ridotto gli effetti extrapenali della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ex articolo 444 Cpp: si configura una “abrogazione tacita” dell’incandidabilità prevista dalla legge Severino. Lo conferma lo stesso Viminale, dipartimento Territorio e autonomie locali, in un parere del 13 marzo 2023 che riporta anche l’interpretazione dell’avvocatura generale dello Stato. Nessuna punizione - La novella prevede che se nel patteggiamento “non sono applicate pene accessorie”, ad esempio l’interdizione dai pubblici uffici, “non producono effetti le disposizioni di leggi, diverse da quella penale, che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444 comma secondo, Cpp alla sentenza di condanna”. È l’articolo 15, comma primo, del decreto legislativo 235/12, attuativo della legge 190/12, la Severino, a stabilire che “l’incandidabilità di cui al presente testo unico opera anche nel caso in cui la sentenza definitiva disponga l’applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell’articolo 444 Cpp”. Il ministero dell’Interno si rivolge allora all’avvocatura generale dello Stato. Secondo l’organo di difesa erariale dal dato testuale del nuovo articolo 445 Cpp si ricava che, salvo il caso di applicazione di pene accessorie, non si applicano più tutte le disposizioni legislative non qualificabili come penali che equiparano il patteggiamento alla sentenza di condanna il tutto dal 30 dicembre 2022, data di entrata in vigore della riforma Cartabia. Le misure previste dalla legge Severino, d’altronde, non hanno natura penale: lo certifica la Corte costituzionale nelle sentenze 230/21 e 276/16, escludendone lo “scopo punitivo” sul rilievo che sono state introdotte nell’ordinamento nazionale per assicurare il buon andamento e la trasparenza della pubblica amministrazione, oltre che delle assemblee elettive, e arginare l’infiltrazione criminale nella pubblica amministrazione. Idem vale per la Corte europea dei diritti umani nella sentenza pubblicata il 17 giugno 2021. Senza effetti - Un chiarimento in tal senso arriva dalla stessa relazione illustrativa del decreto legislativo 150/22, secondo cui “per effetti penali si intendono tutti quegli automatismi discendenti ope legis (dunque per effetto di una norma di legge, ndr) da una sentenza irrevocabile di condanna o di patteggiamento secondo una miriade di ipotesi previste dalle leggi speciali” secondo la relazione, la formulazione della novella “ha il vantaggio per cui non vi è necessità di intervenire su tali leggi speciali, che restano in vigore e continuano ad applicarsi ogni volta che alla sentenza di patteggiamento verranno ricollegate pene accessorie”. La riforma Cartabia, fra l’altro, stabilisce l’irrilevanza probatoria della sentenza di patteggiamento in ogni procedimento giurisdizionale diverso da quello penale: quindi davanti al giudice civile, amministrativo, tributario e alla Corte dei conti, quando il fatto storico oggetto del provvedimento può avere rilevanza in quelle sedi. Insomma: secondo l’avvocatura dello Stato l’incandidabilità della legge Severino non produce più effetti e tutti i soggetti che hanno patteggiato la condanna senza pene accessorie possono così “concorrere alle prossime elezioni”. La legge Severino fatta a pezzi: chi patteggia potrà candidarsi di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 19 marzo 2023 Per effetto di una norma della riforma Cartabia, il Viminale dice sì ai politici che ammettono i reati. Il primo caso è al Sud, in Calabria. I politici che saranno condannati dopo un patteggiamento potranno tornare a candidarsi per il Parlamento o nei Comuni e Regioni. Lo ha stabilito il ministero dell’Interno con un parere del Dipartimento per gli Affari Interni ed Enti Locali che risale al 15 marzo. Non è una scelta politica del governo Meloni ma il Viminale ha solo applicato una norma prevista nella riforma Cartabia che è entrata in vigore a inizio anno. In questo modo, dunque, viene smontato il primo pezzo della legge Severino che la destra vuole ulteriormente modificare nelle prossime settimane: il ministro della Giustizia Carlo Nordio e la maggioranza a breve presenteranno un disegno di legge per mantenere in carica gli amministratori locali nonostante una condanna non definitiva (primo grado e Appello), equiparandoli ai parlamentari. Intanto una prima modifica è già entrata in vigore: i parlamentari o i consiglieri regionali/comunali che patteggeranno, potranno tornare a candidarsi. La legge Severino, infatti, impediva ai parlamentari e agli amministratori locali di candidarsi in caso di condanna superiore a due anni. Quel meccanismo che, dopo la condanna definitiva per frode fiscale nel 2013, aveva impedito a Berlusconi di potersi candidare per i sei anni successivi (poi è stato riabilitato nel 2020 e dal 2022 è tornato senatore). Lo stesso, stabiliva l’articolo 15 della legge Severino, valeva anche “nel caso in cui la sentenza definitiva disponga l’applicazione su richiesta” (cioè il patteggiamento). Poi però è intervenuta la riforma Cartabia, ex ministra della Giustizia del governo Draghi. Tra gli obiettivi del suo disegno di legge delega c’era proprio quello di ridurre il numero di processi incentivando l’utilizzo di riti alternativi (come il patteggiamento). Tra le norme, quindi, ne è stata inserita una secondo cui “se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi, diverse da quella penale, che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444 comma 2 del codice di procedura penale (cioè il patteggiamento, ndr) alla sentenza di condanna”. In base a questo, dunque, è stato chiesto un parere al ministero dell’Interno che deve vigilare sulle candidature alle elezioni. Nel testo si legge che il Viminale, per decidere, ha chiesto aiuto all’Avvocatura dello Stato: quest’ultima, rifacendosi alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) e della Cassazione, “ha escluso la natura penale delle misure della legge Severino escludendone lo scopo punitivo”. Recependo questo parere, il ministero dell’Interno sostiene che vada applicata la norma Cartabia spiegando che la norma sull’incandidabilità prevista dalla Severino “non produca più gli effetti” e creando un caso di “abrogazione tacita”. E quindi, conclude il Viminale, “ne consegue che tutti i soggetti, per i quali sia stata pronunciata sentenza di patteggiamento, non incorrono più in una situazione di incandidabilità, potendo così concorrere alle prossime elezioni”. Resteranno incandidabili invece i politici condannati con pene accessorie, come l’interdizione dai pubblici uffici. Dopo il parere del 15 marzo, c’è già il primo caso di un politico che ne potrà usufruire: alle elezioni del 13-14 maggio a Carolei, piccolo paese in provincia di Cosenza, Francesco Iannucci potrà candidarsi sindaco dopo aver patteggiato una condanna a due anni per il fallimento del Cosenza Calcio nel 2011. Come raccontano le cronache locali, nel giugno 2022 la sua lista “Rinascita” era stata ricusata dopo il patteggiamento ma adesso, grazie alla legge Cartabia e al parere del ministero dell’Interno, Iannucci tornerà candidabile. È abbastanza chiaro, dunque, che la nuova normativa incoraggerà i politici sotto processo a patteggiare se vorranno continuare a fare carriera politica. Questo è il primo pezzetto che cade della legge Severino. La maggioranza che sostiene Meloni vorrebbe modificarla profondamente: Lega e Forza Italia nel giugno 2022 hanno sostenuto un referendum (fallito) per abolirla del tutto, Fratelli d’Italia è per cambiarla. La mediazione, per il momento, è quella di eliminare la sospensione per gli amministratori condannati in primo o secondo grado: la decadenza, come per i parlamentari, scatterà solo in caso di condanna definitiva. Contro le mafie servono politiche sociali coerenti. Solo così salveremo la democrazia di Giuseppe De Marzo L’Espresso, 19 marzo 2023 Si svolge a Milano la manifestazione di Libera per la Giornata della memoria e dell’impegno per le vittime innocenti della criminalità organizzata. Un fenomeno che ingrassa nella povertà e nell’assenza di diritti. Ma è possibile cambiare le cose. Giuseppe Montalbano era un medico mazziniano che ha combattuto nella spedizione dei Mille, tra gli artefici della rivoluzione palermitana del 1848. Fu ucciso la sera del 3 marzo 1861 per aver difeso la terra dei contadini ed essersi battuto contro le usurpazioni degli agrari e dei baroni. Giuseppe è il primo morto per mafia. Anna Nocera è invece la prima vittima di femminicidio di mafia. Aveva 17 anni quando scomparve, il 10 marzo 1878, per mano di Leonardo Amoroso. Da allora la lista di nomi di uomini e donne vittime innocenti delle mafie si è drammaticamente allungata. Nomi come Caterina Nencioni, che aveva appena 50 giorni quando è stata uccisa, assieme alla sua famiglia, dalle bombe di via dei Georgofili, a Firenze, il 27 maggio del 1993. O come Antimo Imperatore, operaio ucciso lo scorso anno a cinquantasei anni mentre stava montando una zanzariera a casa del vero obiettivo del killer. O coloro che sono stati uccisi per il loro l’impegno per la democrazia e i diritti costituzionali. Tantissimi i sindacalisti. Come Luciano Nicoletti, ucciso nel 1905 a Corleone per le lotte al fianco dei contadini; come il partigiano Placido Rizzotto, nel 1948, o come Domenico Geraci, nel 1998, che aveva denunciato le infiltrazioni nel suo territorio. L’elenco delle vittime innocenti delle mafie si arricchisce anche di molti cittadini stranieri. Come Derk Wiersum e Peter de Vries, uccisi ad Amsterdam per essere diventati avvocato e consigliere di fiducia di Nabil B., testimone chiave del processo contro Ridouan Taghi, boss della criminalità organizzata marocchino-olandese. Per non parlare delle vittime tra i giovani migranti, uccisi per mano del caporalato nelle campagne pugliesi e della provincia di Caserta. Come Hyso Telharaj, che aveva 22 anni l’8 settembre del 1999, quando è stato ucciso dai caporali per non aver ceduto al loro ricatto a Borgo Incoronata, una frazione di Foggia. Nel lunghissimo elenco delle vittime anche magistrati, come Pierre Michel, attivisti come Luc Nkulula, e molti giornalisti. Nomi e vite che non possiamo e non dobbiamo dimenticare. Perché le storie delle vittime innocenti delle mafie sono indispensabili per ricostruire e mantenere viva la memoria del nostro Paese. Una memoria, invece, che in molti vorrebbero cancellare o annacquare. Perché senza memoria non ci si orienta. Senza memoria non siamo in grado di vivere il nostro presente appieno. E non possiamo decifrare il futuro. È la memoria che costruisce la nostra identità, ricordandoci gli errori per evitare di commetterne altri. Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere, diceva José Saramago. Ma quando il giardino della memoria inizia a inaridire, come sembra raccontare questa fase difficilissima della nostra democrazia, è nostro compito accudire le ultime piante e le ultime rose rimaste con un affetto ancora maggiore. Perché sono la nostra speranza, come ci ricorda Orhan Pamuk. Il prossimo 21 marzo, anche quest’anno, la rete di Libera per accudire e tenere viva la memoria porterà in piazza i nomi, i numeri e le associazioni contro le mafie. Lo farà in quella che è diventata la Giornata della memoria e dell’impegno per le vittime innocenti delle mafie grazie alla legge n.20 del 2017. Lo slogan della manifestazione “è possibile” ricorda a tutti e tutte come in un momento storico in cui le difficoltà sono numerose, con la crisi ambientale, sociale ed economica aggravata dalla pandemia e la vulnerabilità politica internazionale provocata dalla guerra, abbiamo il dovere di indicarci insieme la strada, di dirci dove può e deve portarci il nostro impegno comune. La manifestazione, giunta alla ventottesima edizione, si svolgerà questa volta a Milano, con il corteo della mattina, la lettura dei nomi e i seminari nel pomeriggio. A Milano perché le mafie negli ultimi anni si sono espanse e radicate soprattutto nel Nord, modificando il loro modo di agire, organizzandosi in maniera reticolare. Le mafie oggi sono più forti nel Paese. Non hanno bisogno di spargere troppo sangue come in passato. Si sono adattate continuando a essere il collante della zona grigia, dove si trova la vera forza delle mafie. Perché la forza delle mafie sta nella convergenza degli interessi economici, nella negazione dei diritti sociali, nella povertà culturale e relazionale, nel familismo amorale, nel patriarcato che legittima la cultura mafiosa, nel relativismo democratico, nell’insofferenza per la democrazia, nella cultura della scorciatoia, nella deresponsabilizzazione individuale che sposa l’idea dell’uomo forte al comando. Le mafie hanno sfruttato al meglio le condizioni create dalla crisi sociale e ambientale che ha colpito la maggioranza della popolazione dal 2008. L’aumento senza precedenti nella storia della Repubblica delle disuguaglianze le ha favorite. In assenza di risposte dello Stato, come avviene in troppi territori del nostro Paese, le mafie sono diventate l’unica risposta possibile a chi è in difficoltà. Ci chiediamo come può definirsi libero, democratico e sicuro un Paese in cui negli ultimi 15 anni la povertà assoluta è quasi triplicata (5,7 milioni di persone), quella relativa raddoppiata (9,6 milioni) mentre dispersione scolastica (17,6%) e analfabetismo di ritorno (colpisce un italiano su tre!) hanno raggiunto livelli senza precedenti. Le mafie non nascono dalla povertà, ma di essa si nutrono per sviluppare i loro affari e le loro trame di potere. Attraverso il welfare sostitutivo mafioso penetrano nelle periferie per organizzare eserciti di manodopera di riserva, rubando le vite di centinaia di migliaia di giovani ai quali il nostro Paese non dà futuro. Proprio i nostri giovani sono i più colpiti dalla crisi in Europa. Questo dicono tutti i dati. La colpa è dell’assenza di misure e investimenti adeguati, per il lavoro, la ricerca, la scuola, i servizi sociali. Ai giovani non vengono date opportunità, ma viene proposto solo un futuro peggiore del pessimo presente in cui sono costretti a vivere. E se trovi lavoro quasi sempre finisce presto: 7 su 10 sono i lavoratori precari in Italia. Mentre siamo tra i pochissimi rimasti senza un salario minimo legale. Sfruttamento, precarietà, esclusione sociale sono alleati delle mafie. Anche durante la pandemia sono riuscite a trarre vantaggio. Lo confermano tutti i reati spia (riciclaggio, frodi fiscali, operazioni finanziarie sospette, gioco d’azzardo online, ecc.) in enorme crescita ovunque. Siamo passati dalla pandemia delle disuguaglianze alla variante criminalità. Sono troppi anni che la politica sottovaluta la forza delle mafie. Nelle campagne elettorali ormai è un tema quasi scomparso, o toccato con una semplificazione imbarazzante che dimostra come si stiano smarrendo conoscenze e memoria. La crescita della corruzione conferma come la politica sia spesso inerme o complice. La “normalizzazione” del fenomeno mafioso è il rischio che corriamo. Per le forze politiche sconfiggere le mafie deve tornare a essere una priorità. Perché non basta il lavoro fondamentale di magistratura e forze dell’ordine. Abbiamo bisogno di politiche sociali in grado di aiutare nel contrasto alle mafie. Da tempo chiediamo a chi governa di introdurre anche nel nostro Paese i cosiddetti “pilastri sociali europei”: tra cui il diritto all’abitare, al reddito minimo garantito e a servizi sociali di qualità. Sono strumenti fondamentali per garantire la giustizia sociale e sconfiggere le mafie. Cancellare il reddito di cittadinanza, come fa il governo Meloni, non è solo un’operazione cinica e classista, ma un regalo per le mafie che potranno ricattare ancora di più persone costrette a sbarcare il lunario a causa dell’assenza di politiche sociali e del lavoro idonee a garantire loro diritti e dignità. Come impone la nostra Costituzione. Per sconfiggere mafie e corruzione abbiamo bisogno di politiche e investimenti coerenti, oggi ancora più necessari in un Paese non solo impoverito, ma dove la maggioranza dei cittadini non vota più perché ritiene che i politici siano tutti uguali. Guai ad accettarlo, perché equivarrebbe a dire che è finita la democrazia. Invece, “è possibile” cambiare le cose se partiamo dalla nostra memoria e riprendiamo a camminare insieme seguendo la stella polare della nostra Costituzione. A Milano il 21 marzo “è possibile”! Facciamo Eco! Quel libro alla Camera umilia le vittime di mafia di Nando dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 19 marzo 2023 Metà di mille, dicono a Milano. Per raccontare che c’era un’infinità di gente. Ecco, saranno più di cinquecento i familiari delle vittime innocenti di mafia che domani giungeranno a Milano da tutta Italia per ritrovarsi nella basilica di Santo Stefano. Per ricordare alle 18, in una grande veglia, i nomi dei loro cari e rinnovare la propria domanda di giustizia. E poi partecipare alla manifestazione di piazza Duomo martedì alle 11. Se non ci siete mai stati, sappiate che è difficile immaginare qualcosa di più coinvolgente ed emozionante. Nella basilica di piazza Santo Stefano, accanto all’università, fede e laicità, desiderio di aldilà e voglia di giustizia terrena, sentimento e ragione, si mescoleranno in un’atmosfera irreale, ma radicata in una storia che più materiale non si potrebbe, pur se ignorata dai libri di storia. Quei cinquecento e più familiari rappresenteranno con i loro occhi - ora smarriti ora fieri -, con le foto ingiallite al petto, con la loro andatura - dalla fatica di incedere dei più anziani allo sgambettare dei nipotini - un pezzo sanguinoso, il più largo, il più continuo, del cammino della nazione. I loro volti, le loro biografie, parlano e appartengono a tutti. Dalla strage dei sindacalisti contadini nella Sicilia del dopoguerra ai giornalisti tacitati con il piombo, da chi è caduto per i suoi ideali politici a chi è stato tradito e ucciso per l’idea di Stato che si portava dentro, dai giovani ribelli gonfi di speranza ai bimbi uccisi per strada o su un campetto di calcio. Che la città di Milano si raccolga intorno a questa folla dolente. Che magari scherza come tutti ma la notte sogna spesso cose diverse, da toglierle il fiato. Anche dopo dieci, venti o trent’anni. Partecipi la città, con il suo arcivescovo, il suo sindaco, il suo prefetto, i cittadini memori e i giovani che la memoria la cercano. Senta la veglia come propria. Poiché è della storia di tutti che si parla, anche se qualcuno ne ha pagato il prezzo più di altri. Ci si specchi, nome dietro nome, e provi a riandarne al significato, all’anno, al punto preciso in cui la violenza esplose. Quando fu? Un giorno di una lontanissima estate fitto di muli e di bandiere rosse? O dopo una vittoria ai mondiali di calcio, Paolo Rossi, lo ricordate? O in un inferno salito d’improvviso sulla terra tra Milano e la Sicilia? O in una Napoli impazzita dove si contano morti quanti nella guerra civile irlandese? Grazie a Libera e a don Luigi Ciotti per avere inventato, ventotto anni fa, questa giornata, voluta da familiari meravigliosi che non ci sono più (Saveria Antiochia, Rita Borsellino…). Perciò si resta increduli sapendo che due giorni dopo, alla Camera dei deputati, e con la partecipazione della ex ministra della Giustizia Marta Cartabia (esiste un senso delle cose…), sarà presentato un libro la cui cifra fondamentale è l’attacco alla legislazione antimafia e in particolare a Libera, concentrato di abusi e nequizie di ogni sorta. Già, alla Camera che ospita nel frattempo una mostra dedicata a La Torre e dalla Chiesa, Falcone e Borsellino. Due giorni dopo che lo stesso presidente della Repubblica sarà andato a celebrare la giornata della memoria a Casal di Principe, in ricordo di don Peppe Diana. È lo spirito dei tempi. Che si intensifica. Soffia un vento sinistro sulle leggi antimafia “perché la mafia è cambiata”. Si confonde il 41 bis con l’ergastolo ostativo. La lotta alla mafia è uscita da tempo dalle agende politiche. E Libera, che cerca come può di svolgere una funzione di supplenza, fa da bersaglio per i conformisti travestiti da voci coraggiose, così come accadde con l’antimafia degli anni 80. Com’era bello quando non c’era un’associazione nazionale che difendesse le vittime, o le aiutasse a costituirsi parte civile. Com’era bello quando nelle scuole non c’era la fissa della mafia, con questi ragazzi che d’estate vanno a fare i volontari nelle terre confiscate, forse che non è lavoro nero anche questo? Com’era bello quando nessuno studiava questa materia e si potevano dire fesserie a piacere da qualunque tribuna. Quando il diritto era l’impunità eretta a sistema. Quando Libero Grassi poteva cadere da solo, e i colleghi ne seppellivano la memoria in pochi giorni. E quando nessuno difendeva gli interessi delle vittime di mafia tra ministeri e prefetture, quando “signora mi lasci tutti gli appunti la richiamerò al più presto” e nessuno chiamava. Di ogni organizzazione e movimento, pure del Risorgimento o della Resistenza, si può fare la controstoria e trarne infamie. Il fatto è che per molti non c’è bisogno della contro storia; basta la storia. Mentre quella vera di chi ha pagato e non si è piegato all’ingiustizia somma del potere mafioso sta scritta su quelle facce riunite in veglia. Una dietro l’altra. La storia siamo noi. Napoli. Mare Fuori, nel vero carcere minorile con i ragazzi e le storie che hanno ispirato la fiction di Antonio Crispino e Valentina Panetta Il Messaggero, 19 marzo 2023 Da Carmine a “o’ Pirucchio”, i ragazzi della serie tv del momento esistono davvero. Siamo entrati nel carcere minorile di Nisida per raccontare le storie che hanno ispirato la serie tv. La prima scena dell’ormai celebre serie tv Mare Fuori si apre con un gruppo di ragazzi in barca a vela nel golfo di Napoli: sono detenuti del carcere minorile di Nisida che in questo modo conoscono un’opportunità diversa rispetto a quelle che gli ha fornito la criminalità. Quei ragazzi nella realtà esistono davvero. E anche la barca. Fu confiscata a un gruppo di trafficanti di uomini in Croazia. Quando le forze dell’ordine la intercettarono trasportava 57 migranti provenienti da Siria e Afghanistan. Per viaggiare stipati l’uno sull’altro avevano pagato 5mila euro ciascuno. La magistratura la affidò alla comunità di recupero Jonathan che da circa dieci anni si occupa dei minori di Nisida. Edoardo, Mimmo, o’ Pirucchio che vedete nella foto in questa pagina sono Emanuele, Salvatore e Michele nella foto di destra. In questo switch diventano reali le storie raccontate nella finzione: ci sono persone realmente morte per mano di Edoardo, genitori che davvero hanno denunciato il figlio come Pirucchio o vittime di una rapina per mano del Pino di turno. Mare Fuori, gli alter ego dei protagonisti - Gli alter ego dei protagonisti di Mare Fuori si trovano a Nisida, il vero carcere, mentre nella serie il penitenziario si trova al molo San Vincenzo a Napoli, nel quartier generale della Marina Militare. Ci accompagna Giuseppe Pirozzi, nella serie è Micciarella che in italiano significa piccola miccia, indica chi ha un carattere impetuoso, fumantino, facilmente infiammabile. Il suo personaggio prende spunto dai ragazzi di un quartiere particolare di Napoli, la Sanità. “Se Napoli è un mondo a parte rispetto al resto del pianeta, la Sanità è un mondo a parte rispetto alla stessa Napoli” scriveva Ermanno Rea riferendosi a quel “buco nero pieno di contraddizioni” che si trova nel bel mezzo del centro storico e dove tutti sono chiamati a crescere molto in fretta. La partenza - L’appuntamento è davanti all’istituto professionale “Alfonso Casanova”. Micciarella ha 15 anni e frequenta l’indirizzo tecnico per diventare regista. È figlio d’arte, il padre ha recitato in Gomorra (faceva la parte di Lelluccio, il figlio di Scianel). Mentre camminiamo, decine di ragazzini lo fermano per una foto o una videodedica. Gli chiedono di ripetere una delle sue battute diventate virali su TikTok: “E comm so’ frisc Doberman mi credi? M chiavass solo io”, ossia sono talmente bello che farei l’amore con me stesso. Ci racconta il rapporto con un rione difficile dove spesso l’aggressività è sopravvivenza e spesso il vicino di casa è pregiudicato; in ogni caso si deve lottare contro uno stereotipo che tende a non salvare nessuno. Nella realtà è un ragazzino ponderato, timido, molto riflessivo. Misura ogni parola con attenzione, evita quelle in dialetto. La madre è un paio di passi dietro di noi. Cerca di ridimensionare ogni velleità, teme che il figlio possa restare scottato da una notorietà effimera. Il suo cammino verso il carcere si ferma alle soglie del cancello di Nisida. Micciarella all’interno delle quattro mura ha gli occhi a mandorla, è un ragazzo Italo-thailandese, minuto come lui. Quando entriamo lo vediamo parlare con il comandante, che nella realtà è una donna, si chiama Eleonora Ascione. Lo sta rassicurando perché il giorno prima ha avuto un’accesa discussione con i compagni di stanza e teme un trasferimento di cella. Le risse qui sono reali, l’ultima si è verificata venerdì scorso e ha coinvolto anche alcuni agenti della Penitenziaria. Attualmente ci sono 55 detenuti, il massimo della capienza regolamentare, anche se in passato si è arrivati a 70. Il 60% sono italiani e hanno un’età compresa tra i 16 e i 22 anni. Sono dentro per lo più per rapina aggravata, reati contro la persona, omicidio e spaccio internazionale di droga. La comandante e il fenomeno Rosa Ricci - Non ci sono donne, l’area femminile è stata chiusa di recente. Sono dati che ci snocciola il direttore Gianluca Guida. Mentre ci porta a visitare i laboratori di pasticceria e artigianato presepiale gli viene naturale canticchiare la sigla di Mare Fuori “…nun t preoccupa’ guaglio’, ci sta ‘o mare for, ci sta o’ mar for”. È un grande fan della serie: “Non è come Gomorra che racconta solo il male, c’è la speranza di cambiamento in questa serie tv e in qualche modo dà un senso al lavoro che facciamo qui dentro, cioè cercare di restituire alla società questi ragazzi migliorati”. Non la pensa come lui la comandante Ascione. È la prima donna comandante, ha due figli di 8 e 2 anni. “Sono stata costretta a vedere la serie il giorno che la più grande si è rivolta a me con una battuta ormai celebre della serie: “Uè io sono Rosa Ricci e tu chi cazz si’ per dirmi quello che devo fare?”. Lì capii che dovevo vederla ma con mia figlia accanto per poterle evidenziare i valori che vale veramente la pena seguire”. La preoccupazione principale è che ci sia una banalizzazione del male. E sorprendere che a dirlo non siano tanto gli educatori ma gli stessi detenuti. Chi ha ispirato la serie Mare Fuori - Ce lo dice Agostino, ora ha 19 anni ma è entrato in carcere quando ne aveva 16. È l’alter ego di Pinuccio, che nella serie è interpretato dal bravo Artem Tkachuk. Agostino è stato arrestato dopo una rapina andata male. Voleva rubare un orologio prezioso, un benzinaio poco lontano ha dato l’allarme e lui per vendetta gli ha spaccato la testa. La prima regola che ha conosciuto è stata la sveglia al mattino. Era abituato ad alzarsi dal letto alle quattro del pomeriggio dopo una notte di bagordi con la sua paranza: alcol, droga e devastazione ovunque passava. A Nisida lo choc di svegliarsi alle 7,30, se arriva in mensa un minuto più tardi delle 8,30 non mangia. Accanto a lui ci sono Andrea e Salvatore. Quest’ultimo denunciato dalla mamma, proprio come Pirucchio nella serie. Passava le giornale a drogarsi, rubava i soldi ai genitori e quando la mamma se ne accorse la massacrò di botte. Andrea, invece, è un ragazzo della provincia di Napoli. Una lite con un suo amico all’esterno di una discoteca si è trasformata in rissa, non ci ha pensato troppo a dargli tre coltellate. La call con “Don Salvatore” - Quando sono in comunità li mettiamo in videocollegamento con Raiz, voce storica degli Almamegretta e “don Salvatore” nella fiction, cattivo per definizione, uno che nella vita vera ha visto i migliori amici prendere una strada sbagliata: “Da piccolo volevano che facessi il palo di camorra - racconta ai ragazzi-. Mi sono salvato grazie alla musica. Ora io sono qui e il mio migliore amico è al 41 bis”. Agostino gli replica impassibile: “Don Salvato’ (lo chiama con il nome d’arte) vi posso dire una cosa? Se nella realtà i boss fossero come voi non durerebbero un giorno, i cattivi nella tv sono troppo buoni. E poi io sono passato per il carcere, non esiste da nessuna parte che le celle stanno sempre aperte, che ogni settimana hanno un permesso, che vivono ragazzi e ragazze. Uà, se fosse così farei tutti i giorni reati”. Parla un italiano stentato, lento e premeditato. A scuola non c’è quasi mai andato, anche se è riuscito ad arrivare alla terza media. “La maggior parte di questi ragazzi non sa scrivere in italiano, non conosce il corsivo, ha grosse difficoltà a leggere un testo e persino le lancette dell’orologio - racconta Enzo Morgera della comunità Jonathan -. Li accompagniamo alla licenza media che hanno 19-20 anni. Sono spavaldi con una pistola in mano ma quando escono dal loro rione si perdono. Più di una volta quando sono usciti in permesso premio ci hanno telefonato perché non sapevano come ritornare e siamo stati costretti ad andare a riprenderli”. Nisida e la comunità - Di permessi premio ce ne sono pochissimi a Nisida, appena 6 su 55 detenuti. Chi passa dall’isola alla terraferma è perché ha scontato la pena o viene affidato a una comunità per un progetto di recupero. Di evasioni, come quelle di Chiattillo, Naditza o Carmine Di Salvo ce ne sono state quattro in tutta la storia del penitenziario. Due avvenute recentemente. Erano due ragazzi stranieri di 17 e 18 anni. Avevano trovato il modo di scappare e farsi venire a prendere con un barchino vicino l’isola di Nisida. “Sa come è andata a finire? - racconta il comandante Ascione -. Che dopo due giorni a girovagare sono tornati nelle loro case e si sono fatti arrestare di nuovo, non sapevano che fare e dove andare. Questi ragazzi più che il mare fuori hanno il vuoto dentro”. Napoli. Ipm di Nisida, da baby boss a operai: le storie (a lieto fine) di chi ha cambiato vita di Valentina Panetta Il Messaggero, 19 marzo 2023 Il ruolo-chiave della comunità Jonathan, dove molti di loro vanno per la messa in prova e imparano un lavoro. “Anche mio figlio, come tutti, guarda Mare Fuori e io che a Nisida ci sono stato so cosa significa davvero. Lui però non sa nulla del mio passato, non è ancora il momento, e così quando lo trovo davanti alla tv gli dico solo “stai inguaiato” e lui ride ogni volta”. Biagio Ciambriello, aveva 17 anni, quando capì che i cancelli del carcere di Nisida chiusi rumorosamente alle sue spalle avrebbero segnato l’inizio di una nuova fase della sua vita. Un “dopo” fatto di adulti e confronti con la giustizia che lo avrebbero fatto crescere più velocemente di molti suoi coetanei. “Il fraintendimento” che lo ha portato a rischiare una pena di 18 anni, ancora oggi lo tormenta a quasi venti anni e ottocento chilometri di distanza. La scelta di Biagio infatti è stata quella di andare lontano dalla sua amata Napoli e arrivare a Varese dove oggi lavora in una fabbrica di elettrodomestici Whirlpool e vive con sua moglie e i due figli. Ad introdurlo nel mondo del lavoro è stata la comunità Jonathan nella quale è entrato grazie a una messa alla prova dopo un anno a Nisida: prima l’impiego Indesit a Caserta, poi trasferito in Lombardia. Oggi sono 15 anni che Biagio lavora “in catena” e dovrà sottoporsi a un’operazione al tunnel carpale. “Ho perso la sensibilità. Ma ne vado fiero e mi dispiace non poter andare a lavorare per un po’ perché in comunità mi hanno insegnato che dobbiamo valere come una persona e mezzo”. “Cosa ne penso della serie? A Nisida è tutto diverso, non ci sono agenti amici e molte più regole. Se l’avessi realizzata io avrei raccontato le sofferenze ai colloqui, il passaggio in comunità e il muro che mi ero creato attorno, contro tutti. Poi la parte bella in cui capisco e arrivo fino a dove sono oggi. Sceglierei questo finale”. Lo stesso finale che ha scelto per sé Achraf Bouxib, 24 anni, in comunità dal 2017 al 2019 dopo esser passato per il carcere. Genitori marocchini che all’età di 10 anni lo hanno costretto a raggiungere l’Italia per farlo studiare, ma da lì qualche anno per lui le cose sarebbero andate in modo diverso. “Avevo 16 anni, mi lasciavo trasportare dalle amicizie sbagliate e facevo di tutto: aggressioni, rapine, risse. Dal carcere poi mi portarono in comunità dicendomi: “Se ti comporti male torni qui”. E così io da allora mi sono comportato bene”. Ritrovarsi chiuso all’improvviso ha fatto scoprire a Achraf il valore della libertà. A salvarlo è stata la fotografia, una passione nata durante un corso di formazione nel periodo di detenzione e diventata il suo lavoro. Un drone lo accompagna sempre nei suoi servizi, gli amici che frequentava al tempo ora non ci sono più. Nel tempo libero ora Achraf è un subacqueo. Per le vele bianche della serie televisiva passa la storia di Salvatore di Maio, che dalla barca della comunità ha visto per la prima volta, da fuori, il mare. “In mezzo al mare io non c’ero mai stato, e in quel momento sentii per la prima volta la mia vera natura. Ora quella sensazione mi manca”. Dopo il primo lavoro al fianco dello zio fruttivendolo al carcere di Nisida appena diciassettenne per rapina aggravata. “Lo feci per una questione di amicizia, fino a quel momento non mi era mai mancato niente. Sono stati momenti difficili che non dimenticherò”. “In istituto facevamo corsi insieme a ragazzi e ragazze, questo che si racconta nella serie è vero. L’ho vista anch’io ma non mi piace mai parlare del mio passato. L’unica cosa che mi diverte raccontare sempre è che quando mi dissero che sarei stato mandato a Nisida, dopo l’arresto, ero convinto di dover raggiungere l’isola in traghetto, non sapevo fosse collegata alla terraferma”. Salvatore è tornato in libertà lo scorso novembre. A 19 anni lavora come autista per un’azienda di Napoli. Accanto a lui da prima dell’arresto, la fidanzata Jessica, casalinga. La loro storia è sopravvissuta alle tensioni e alla lontananza del carcere. Si sposeranno a maggio e aspettano un bambino, che nascerà a metà settembre. Tra qualche giorno si saprà il sesso, ma maschio o femmina a lui poco importa. Trani (Bat). “Gratuito patrocinio”, lo Stato non paga da 10 anni: avvocati in rivolta Giuseppe Di Bisceglie Corriere del Mezzogiorno, 19 marzo 2023 Da oltre dieci anni attendono il pagamento dei compensi per il “gratuito patrocinio” ma all’orizzonte sembrano non esserci incoraggianti novità per gli avvocati del Foro di Trani. La protesta delle toghe tranesi è stata raccolta dal nuovo presidente dell’ordine degli avvocati, Francesco Logrieco, che è stato invitato a rivolgersi direttamente al Ministero delle Giustizia per veder riconosciute le spettanze pendenti. “Una lentezza dei pagamenti esasperante che può anche, in taluni casi, superare i 10 anni a causa delle difficoltà di organico sia all’interno del competente ufficio del Tribunale che all’interno del relativo ufficio dell’Agenzia delle entrate”, rilevano gli avvocati tranesi. Quello dei mancati incassi è soltanto uno dei problemi sollevati nel corso della prima assemblea del rinnovato ordine forense. Spaventa, più di ogni altra cosa, la carenza di organico nell’ufficio del Giudice di Pace di Trani che va incontro al pensionamento di tre dei quattro cancellieri attualmente in servizio. Senza i cancellieri il rischio paralisi dell’attività giudiziaria è altissimo. “Il problema più urgente è senza dubbio quello riguardante lo smaltimento dei fascicoli di parte per l’enorme carenza di personale amministrativo dell’ufficio del Giudice di pace di Trani, dove a brevissimo resterà in servizio un solo funzionario” stigmatizzano gli avvocati in una nota. “Si tratta dell’Ufficio verso il quale convergono tutte le sedi del Giudice di Pace soppresse in occasione della riforma delle sedi giudiziarie. Un imbuto nel quale rischiano di restare intrappolati anche giudizi penali pendenti molto delicati”, ha spiegato il presidente Logrieco. Un esordio complicato per il nuovo presidente dell’ordine forense, eletto alla carica poco più di un mese fa. L’agenda dell’ordine è fitta: gli avvocati saranno impegnati in una serie di approfondimenti sulla riforma Cartabia, nella ristrutturazione e monitoraggio dell’Occ, l’Organismo gestito insieme all’Ordine dei Commercialisti che affronta quotidianamente il tema del sovra-indebitamento, e dell’Organismo della Mediazione Omt, uno dei primi a sorgere in Italia e che affronta le problematiche legate alla riforma Cartabia e alle più moderne forme di svolgimento delle mediazioni. Infine è emersa anche la necessità del rilancio della Scuola forense che “pur essendo da sempre il fiore all’occhiello dell’ordine di Trani, è sempre al passo per migliorare l’offerta formativa, attraverso corsi di formazione sempre più specializzanti e di taglio tecnico pratico”. Viterbo. La sartoria dietro le sbarre di Andrea Tognotti Corriere di Viterbo, 19 marzo 2023 Viaggio nel laboratorio di Mammagialla dove i detenuti realizzano zaini e borse con materiali riciclati. C’è Fabio, 52 anni, Alind, 51, e Fabrizio, 41. Sono detenuti nel carcere Mammagialla, un casermone nella campagna viterbese. Una struttura di massima sicurezza che ha avuto tra i suoi ospiti Totò Riina. Hanno in comune il lavoro nella sartoria dell’istituto di pena, e una grande voglia di rifarsi una vita una volta usciti da lì. Citano l’articolo 21, e lo sprovveduto cronista pensa alla libertà di espressione del pensiero sancita dalla Costituzione. Fuochino. Si tratta in realtà di una delle norme dell’ordinamento penitenziario, che però ha qualcosa a che vedere con la libertà: disciplina infatti il lavoro all’esterno del carcere, che è pur sempre un modo per fare una vita diversa dalla semplice detenzione e allude a ciò che sarà più tardi. Parlano tutti bene della loro esperienza in sartoria. Uno mostra con orgoglio un sacco per le vele che, forte della sua esperienza pregressa nei lavori più diversi, è riuscito a realizzare utilizzando anche una macchina per cucire digitale con tanto di touchscreen, l’unica presente nello stanzone che rappresenta da 5 anni il suo luogo di lavoro. O un beauty case fatto di materiali riciclati tranne la cerniera, che mostra con fierezza: “Ho molta esperienza - dice Fabio - e spero di trovare lavoro in una sartoria quando uscirò”. Tra due anni, chissà, o forse prima se la sentenza della Cassazione gli sarà favorevole. Tutti i detenuti lavorano con materiali da riciclo provenienti dalla MilleniumTech di Prato, realizzando borsoni sportivi personalizzati che hanno già una committenza. Ne ha prenotati 200 l’associazione nazionale dei costruttori edili, Ance, che le distribuirà ai delegati dell’assemblea annuale. Altri ordini stanno arrivando da Pioda Imaging, dal Club Nomentano, da circoli sportivi, aziende e associazioni. A raccogliere le commesse ci pensa l’associazione Seconda Chance, che provvede anche a fare da tramite tra le carceri e gli imprenditori potenzialmente interessati a impiegare manodopera proveniente dagli istituti di pena, i beneficiari - dietro parere del magistrato di sorveglianza - dell’art. 21 di cui sopra. Ne tiene le redini la giornalista del Tg La7 Flavia Filippi, che ieri era nella sartoria assieme ai titolari di MilleniumTech e può vantare i 160 posti di lavoro procurati in un anno con la sua attività. E il fatto che le tante commesse ricevute hanno indotto la direttrice del carcere, Anna Maria Lo Preite, a chiedere al provveditorato il potenziamento del gruppo e l’acquisto di una macchina ricamatrice che permetterà di fare tutto in casa senza ricorrere ad aziende esterne. Poi via, in redazione a svolgere il suo lavoro di sempre nel settore cronaca dell’emittente di Urbano Cairo. Due lavori svolti con passione. Una passione che fa il paio con le aspirazioni di Fabrizio. “Lavorare con le vele fa pensare alla libertà, al mare”. Non subito, ma li avrà. Roma. La dipendenza patologica da sostanze, tra misure restrittive e strategie di recupero di Domenico Alessandro de’ Rossi pensalibero.it, 19 marzo 2023 L’importante Convegno, svoltosi a Roma a fine febbraio, dal titolo “La dipendenza patologica da sostanze, tra misure restrittive e strategie di recupero”, ha avutola sua giusta risonanza presso i Piani alti del Ministero della Giustizia. Il meeting, pensato da Massimo Barra, fondatore di Villa Maraini-CRI, prestigiosa istituzione che da oltre 20 anni salva vite umane piagate dalla droga, in collaborazione con AIGA, l’Associazione Italiana Giovani Avvocati; CESP, il Centro Europeo Studi Penitenziari, ha visto nientemeno che la partecipazione del Senatore Francesco Paolo Sisto, il quale ha portato il suo saluto, spendendo parole particolarmente interessate alla individuazione di possibili soluzioni riguardanti il problema della droga e della carcerazione. In quella occasione il vice Ministro della Giustizia, nell’augurare buon lavoro ai convegnisti, tra le altre cose ha assicurato la disponibilità e l’interesse ad approfondire in futuro la tematica della giornata, sottolineando la necessità di promuovere più rapide soluzioni intorno ai problemi riguardanti il diritto alla salute da un lato che, impropriamente, si collega purtroppo al sovraffollamento carcerario. Dal dibattito è emerso chiaramente che il carcere non è mai stato e non può essere la risposta alle patologie e alle dipendenze da sostanze. I dati purtroppo sono chiari: negli Stati Uniti muoiono circa 90 mila persone all’anno per overdose; in Europa la relazione 2022 dell’Osservatorio Europeo Droghe e Tossicodipendenze comunica che si sono verificati oltre 5.800 decessi per uso di sostanze illecite nel solo 2020. In Italia il Dipartimento Politiche Antidroga nella relazione 2021 indica 293 decessi per droga, evidenziando un trend negativo dovuto alla fase pandemica. Questa strage, sulla quale tuttora poco si riflette, ha fatto emergere in tutta chiarezza il fallimento della cosiddetta “guerra alla droga”, generando morti e inutile sovraffollamento delle carceri. Dagli USA, ha sottolineato il dottor Massimo Barra, giungono nuove strategie come la “deflection” e la “diversion” che permettono, invece, il trattamento terapeutico del soggetto, al di fuori dell’ambiente carcerario, affidandolo direttamente a strutture di cura, prima di tradurlo in carcere, oppure trasferendolo presso di esse qualora fosse già rinchiuso, per rinviarlo all’eventuale detenzione una volta guarito. Il Convegno è pervenuto alla chiara consapevolezza di obiettivi precisi e fattibili: A) dare al tossicodipendente il diritto alla cura ed al recupero sociale, tutelando al contempo il bene pubblico e la società civile da rischi collegati alla patologia; B) avviare un complesso di azioni e strutture sul territorio perché le persone afflitte dalla patologia non commettano o reiterino reati contro il patrimonio e le persone, per alimentare la loro dipendenza; C) aiutare le istituzioni a gestire in modo efficace l’esecuzione della pena, con percorsi alternativi che riducano la recidiva e recuperino il soggetto detenuto; D) sviluppare al più presto forme di collaborazione tra istituzioni, che permettano di attuare nuove strategie volte alla riduzione del fenomeno nel futuro. Grazie anche al qualificato contributo di AIGA e CESP il dibattito ha suscitato inoltre un attento proposito di riflessione riguardante la non secondaria dimensione giurisprudenziale strettamente connessa all’esecuzione penale e alla questione relativa agli spazi e alle speciali caratteristiche degli ambienti destinati all’eventuale separazione e al recupero dell’individuo. È emersa quindi la necessità di una più complessa riflessione scientifica per una collaborazione allargata concernente anche l’approfondimento della giustizia e dell’esecuzione penale nelle loro diverse modalità applicative nel rispetto dei diritti umani, della salute e della sicurezza sociale. Il futuro applicativo dovrà necessariamente essere sostenuto sistemicamente dal concorso di più discipline professionali suggerendo le soluzioni più idonee alle Istituzioni riguardanti le comunità confinate e la deflection in particolare, verso più aggiornati strumenti di comprensione e quindi di scelte, culturali e politiche. *Vice Presidente Cesp Cagliari. Convegno all’Università sul 41bis e il caso Cospito di Ilaria Murgia unicaradio.it, 19 marzo 2023 Il 16 marzo all’Università di Cagliari si è tenuto un convegno con il tema del 41bis, ergastolo ostativo e Sardegna colonia penale partendo dal caso Cospito. Il convegno organizzato dall’associazione Sardinnia Aresti si è svolto nelle aule del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Cagliari. I temi affrontati sono di estrema attualità come il 41bis, l’ergastolo ostativo e la Sardegna utilizzata come colonia penale. Il convegno ha trattato questi temi di estrema attualità con giuristi quali l’avvocata del foro di Sassari Maria Teresa Pintus, l’avvocato del foro di Cagliari Carlo Monaldi e l’avvocato di Alfredo Cospito, Flavio Rossi Albertini. Nel nostro podcast potete ascoltare le voci dei protagonisti del convegno e dell’organizzatrice Francesca Mancosu. Il carcere duro o 41bis - L’ordinamento penitenziario prevede dei regimi temporanei che regolano la permanenza nell’istituto di pena di soggetti definiti particolarmente pericolosi. Il trattamento previsto dall’art. 41bis è rubricato come “Situazioni di emergenza”. La norma originaria entrata in vigore nel 1986 si componeva di un solo comma e prevedeva la facoltà del Ministro della giustizia di intervenire e fronteggiare situazioni di emergenza all’interno dell’istituto penitenziario. Nel 1992 la norma del carcere duro o 41bis è stata integrata con ulteriori commi per garantire una lotta più efficace alla criminalità organizzata. La modifica e l’integrazione della legge del 1986 sono avvenuti nell’anno delle stragi di mafia e l’uccisione dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La modifica del 1992 ha ampliato il potere del Ministro della Giustizia attribuendogli il potere di incidere sul trattamento dei detenuti per motivi di sicurezza e ordine pubblico e dunque per motivi extra penitenziario come la possibilità di influenzare dinamiche esterne. L’adozione di questi sistemi restrittivi ha come fine quello di impedire il contatto con gli altri esponenti della criminalità organizzata, un gruppo terroristico o eversivo. La durata di questa misura restrittiva è di quattro anni prorogabili per successivi periodi di due anni. La proroga deve essere adeguatamente motivata con riferimento alla possibilità del detenuto di avere collegamenti con la criminalità organizzata, un gruppo terroristico o eversivo. Quali sono le restrizioni dei detenuti al 41bis? I detenuti al 41bis non hanno dei compagni di cella, hanno delle limitazioni sul tempo da passare all’aria aperta ma anche il divieto di cuocere cibi. Le restrizioni sono anche una videoregistrazione e controllo audio dei colloqui con persone differenti dal proprio legale ma anche la limitazione dei beni, somme e oggetti ricevibili dall’esterno. Le restrizioni sono anche il divieto di scambio di oggetti con altri detenuti e la sottoposizione a visto della corrispondenza con possibilità di censura. Latina. “Parliamo di carcere”, un successo targato Giovani democratici latinaoggi.eu, 19 marzo 2023 Gli organizzatori: “Abbiamo voluto provare a non dare risposte ma a suggerire domande su un argomento difficile e spesso dimenticato”. “Parliamo di carcere è stato un successo. Il nostro impegno è appena iniziato, e sicuramente avrà un seguito: Latina si è dimostrata attiva e propositiva, a testimonianza che questa città è pronta per una politica diversa. L’abbiamo sempre pensato”. Lo affermano i Giovani democratici di Latina, organizzatori dell’evento, attraverso il segretario Stefano Vanzini. “Preziosissimo il contributo di Mauro Pescio e delle tantissime associazioni. Hanno aiutato tantissimo le parole e i ragionamenti di Luigi Manconi, Federica Graziani, Alessandro Capriccioli e di tutti coloro che hanno partecipato. Ognuno di loro ha saputo portare il proprio sguardo particolare. Abbiamo voluto provare a non dare risposte ma a suggerire domande, per stimolare le persone ad avere uno sguardo diverso su questioni che molto spesso vengono colpevolmente dimenticate. Crediamo fortemente che la politica possa farsi anche al di fuori delle istituzioni, per raccogliere le storie degli ultimi e costruire insieme delle soluzioni. Dobbiamo riuscire ad immaginare una politica diversa, che non ha paura di scontrarsi con i temi più complessi”. Reggio Calabria. Libera, la memoria rende vive le vittime della ‘ndrangheta reggiotoday.it, 19 marzo 2023 Evento pubblico di Libera e Agape in piazza Castello con gli studenti reggini in preparazione della giornata del 21 marzo. Ci sono state anche le vittime del naufragio di Cutro nella memoria della manifestazione “Il ricordo lascia il segno”, organizzata stamattina in piazza Castello da Agape, associazione Pesce Rosso e Libera con la partecipazione di tanti studenti delle scuole reggine accompagnati dai loro insegnanti. L’iniziativa è stata preludio della giornata nazionale della memoria delle vittime innocenti delle mafie del 21 marzo, e ai bambini e ragazzi riuniti nello spazio in cui da dieci anni alcune sagome lignee di fiori ricordano i morti calabresi per mano della ‘ndrangheta, Mario Nasone, presidente del centro comunitario Agape, ha proposto un minuto di silenzio in segno di lutto per i migranti annegati nelle acque crotonesi. “Dedichiamo un pensiero a quegli uomini, donne e bambini che in modo diverso ma anche loro sono vittime della criminalità organizzata”. Il loro destino è raccontato dalle parole scritte su una lapide nel cimitero di Lampedusa, che sono diventate tema di un bel lavoro degli allievi della IV dell’istituto comprensivo Carducci-Da Feltre. Nel cartellone si vedono le onde del mare, una barca e piume fiorite su steli di filo spinato. La giovane studentessa Sara legge con voce chiara e forte: “Questo mare che ci avvolge non è fatto solo di onde ma anche di ferro e acciaio, è un confine che uccide, reso tale dalle leggi e dagli uomini, un mare spinato nel quale restano impigliate piume di libertà, perdendo per sempre respiro e memoria”. Ma sono stati tutti bravissimi gli allievi delle scuole coinvolte nell’evento pubblico: gli istituti comprensivi Galileo Galilei, De Amicis-Bolani e Lazzarino (Gallico), le scuole secondarie di secondo grado convitto nazionale Campanella, istituti tecnici Piria e Panella-Vallauri, liceo classico Campanella, liceo scientifico Da Vinci, liceo delle scienze umane Gullì, Ipsia Boccioni-Fermi. Insieme si sono ritrovati a condividere un momento di riflessione nel sito messo a nuovo, compreso il verde, dalle associazioni promotrici dell’iniziativa grazie ai volontari del servizio civile di Agape con il supporto del settore 5 della città metropolitana diretto da Nuccio Battaglia. Presente nel folto gruppo dei rappresentanti istituzionali e delle forze dell’ordine anche la garante regionale per la salute Anna Maria Stanganelli. La vicepresidente di Agape, Lucia Lipari, ha parlato del forte valore simbolico dell’iniziativa perché “il potere dei segni si contrappone ai segni del potere mafioso”, chiedendo alla comunità di giovani di includere sempre nel ricordo delle vittime delle mafie anche quelle di cui non si conoscono i nomi. Alle scuole va questa consegna di una mobilitazione collettiva delle giovani coscienze come antidoto alla mentalità mafiosa, che ha radici di indifferenza e omertà. La data del 21 marzo è tradizionalmente scandita dalla lettura dei nomi delle vittime della violenza criminale. Nasone si è rivolto ai ragazzi chiedendo un aiuto per dare continuità al lavoro di ricerca sulle vittime fantasma: “Se conoscete qualche storia segnalatela e convidetela con noi in modo che possiamo accertarla, fare le nostre indagini e poi inserirla nella lista di nomi da ricordare. La memoria fa restare in vita le persone che non sono più tra noi, e questo dobbiamo sentirlo come un dovere”. Quello della lettura dei nomi è un rito solenne voluto da don Luigi Ciotti dall’idea di Saveria Antiochia, madre del poliziotto ucciso Roberto. Le associazioni che hanno organizzato l’iniziativa è stato lanciato un appello agli studenti per dedicare nelle loro scuole un’aula a una vittima della ‘ndrangheta, come già è stato fatto da qualche liceo. Alla loro corale risposta affermativa, la promessa è stata sugellata liberando nell’aria i palloncini che i ragazzi avevano con loro. Altri segni che salgono verso l’alto, elevandosi sopra l’odio e la violenza delle mafie. Agostino di Ippona e la giustizia come Imago Dei di Vittorio Pelligra Il Sole 24 Ore, 19 marzo 2023 Il significato di giustizia nel corso dei secoli, dalla Torah al Nuovo testamento passando per Artistotele, Cicerone e Agostino. La giustizia, in ebraico tzedaqah, è secondo la Torah uno degli attributi principali di Dio. È questa giustizia che guida la sua azione nei confronti di Israele, azione volta a riparare gli effetti della malvagità e dell’iniquità degli esseri umani. L’esodo degli ebrei dall’Egitto, la liberazione del popolo oppresso dal giogo della schiavitù, è la prima manifestazione di questo intervento divino nella storia. E agli occhi di Israele, anche una volta liberati, Dio continuerà ad essere considerato, come ci ricorda Enzo Bianchi, “il difensore degli oppressi, dell’orfano, della vedova, dello straniero, di coloro che sono vittime dell’ingiustizia, di coloro i cui diritti vengono violati e negati. La prima azione di Dio è pertanto quella del giudice che interviene per ristabilire la giustizia”. Fare giustizia ed essere giusti - Fare giustizia ed essere giusti significa, in questa prospettiva, dunque, essere e vivere ad immagine di Dio. Solo una vita giusta è una vita di fede che può portare alla vera conoscenza di Dio. Troviamo questa identità tra vita e conoscenza espressa in Geremia, quando il profeta, rivolgendosi al malvagio re Jehoiakim, usa queste parole: “Guai a chi costruisce la sua casa senza giustizia e le sue stanze superiori senza equità, che fa lavorare il prossimo per nulla e non gli retribuisce il suo lavoro, e dice: “Mi costruirò una casa grande con spaziose stanze superiori”, e vi apre finestre, la riveste di legno di cedro e la dipinge di rosso. Pensi forse di essere re, perché sei circondato da cedro? Tuo padre non mangiava e beveva? Ma agiva con rettitudine e giustizia e tutto gli andava bene. Egli difendeva la causa del povero e del bisognoso e tutto gli andava bene. “Non significa questo conoscermi?” dice l’Eterno”. Operare con giustizia - Operare con giustizia soprattutto nei confronti dei più deboli e degli oppressi è, dunque, la via privilegiata per conoscere l’Eterno. Non attraverso riti e osservanze vuote, ma praticando la giustizia, perché “il Signore è giusto”. Nel Nuovo testamento Gesù viene a ribadire questa necessità di dare anima alla Legge e all’osservanza rituale attraverso l’intenzione giusta. “Non pensiate che io sia venuto a sciogliere la Legge o i Profeti; non son venuto per sciogliere, ma per riempire” (Mt 5, 17). E ancora “se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5, 20). “Questo non significa, continua sempre Enzo Bianchi, in una conferenza tenuta qualche anno fa al Consiglio superiore della magistratura, che la giustizia degli scribi dei farisei fosse ipocrita; no, era un adempimento della giustizia prescritto dalla Torah, dalla parola di Dio. Gesù però osa risalire all’intenzione del Legislatore, non si ferma alla norma oggettiva, chiedendone invece un adempimento più radicale e profondo”. L’intenzione - L’accento viene posto ora sull’intenzione quale aspetto essenziale di ogni azione giusta. “Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli. Quando dunque fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa” (Mt 6, 1-2). La giustizia evangelica è una giustizia che sorprende e scandalizza, che interrompe il nesso causale tra il delitto e il castigo, che perdona “settanta volte sette”, che paga l’operaio dell’ultima quanto quello della prima ora, che non condanna l’adultera. Non c’è giustizia senza misericordia sembrano volerci dire tutti questi episodi. L’apostolo Giacomo è ancora più esplicito nell’affermare l’indissolubilità di misericordia e giustizia. “Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo la legge della libertà, perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà fatto misericordia. La misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio” (Gc 2, 12-13). A Roma - Quando questa visione arriva a Roma l’impatto è grande. Come per Aristotele così per Cicerone la dea giustizia non aveva ancora la benda dell’impersonalità calata sugli occhi. Ci vedeva benissimo e faceva valere le differenze. Per Aristotele la giustizia si applicava solo tra pari, e donne, stranieri, lavoratori e schiavi non ne erano degni. Con Cicerone le cose cambiano, ma solo parzialmente. Le differenze non sono più categoriali ma di capacità. Ed è sulla base di queste diverse capacità che dovrebbero essere assegnati i ruoli all’interno della società. Differenze di minore entità rispetto alla visione aristotelica, ma pur sempre differenze che vanificano i requisiti necessari a poter sperare di vivere, tra tutti, relazioni improntate alla giustizia. Cicerone, diversamente da Aristotele sottolinea che non esiste alcuna distinzione categorica tra i gradi di razionalità di cui gli esseri umani sono capaci; eppure, per esempio, continua a giustificare l’esistenza della schiavitù proprio sulla base di una distinzione tra coloro che sono più forti, per ingegno e acume, e coloro che sono, invece, più deboli. Mentre per Aristotele la differenza tra cittadini liberi e schiavi è iscritta nella legge di natura, per Cicerone e per il diritto romano, più in generale, essa appartiene allo jus gentium, ha natura consuetudinaria che viene codificata in prassi. La schiavitù, così come, del resto, la subordinazione delle donne continua a sopravvivere in occidenti fino ai tempi moderni. Eppure, gli anticorpi a questa visione “locale” della giustizia erano stati inseriti nel corpo sociale molti secoli prima. Una società di uguali - È stato il cristianesimo, in particolare, a proporre (imporre?) una visione di società di uguali. Tutti gli esseri umani, non importa quanto umili, sono chiamati figli di Dio e questa comune paternità li rende fratelli. Non contano più le capacità umane se tutti abbiamo pari valore agli occhi di Dio. Il cristianesimo, ma anche il giudaismo, l’induismo, il buddismo e l’islam non promettono la giustizia in questa vita. Tutte le grandi religioni hanno reindirizzato le aspirazioni umane verso l’aldilà. La diffusione e il successo di queste religioni hanno molto a che vedere con la consolazione che esse possono offrire davanti alle sofferenze e alle ingiustizie terrene. Agostino di Ippona fu uno dei principali portavoce di questa prospettiva. Il cristianesimo - Quando opera, nel IV secolo, il cristianesimo era già religione ufficiale dell’Impero e le invasioni barbariche erano già cominciate. Scrive la sua opera principale, La Città di Dio, proprio a seguito del sacco di Roma del 410 ad opera dei Visigoti. Lungo il solco della tradizione aristotelica e poi romana, Agostino accoglie l’idea di giustizia come distribuzione proporzionale, come reciprocità bilanciata in base ai meriti. E qui si inserisce l’elemento trascendente. Chi, infatti, può dire di avere più meriti di Dio stesso? Chi, dunque, merita maggior rispetto ed obbedienza di Lui? Come abbiamo visto poco sopra, la giustizia è per i cristiani la conseguenza della scelta di operare coerentemente con la volontà di Dio. Ma per via del peccato originale questo è possibile solo in parte, solo in modo imperfetto; ne deriva che la giustizia su questa terra non potrà che essere, nel migliore dei casi, imperfetta. Agostino - Nella Lettera 111, Agostino scrive esortando Vittoriano ad accettare con santa sopportazione le sciagure provocate dai Barbari. Sciagure che a causa della nostra incapacità di amare perfettamente Dio, ci siamo, in qualche modo meritati, così come meritano le loro pene anche i più innocenti tra noi. Non esiste dolore innocente. “Ci sono coloro che dicono - scrive Agostino - se noi peccatori meritiamo questi castighi, perché mai furono uccisi dalla spada dei barbari pure tanti servi di Dio e condotte schiave tante serve del Signore? A costoro rispondi, con umile sincerità e pietà, in questo modo: per quanto grande possa essere la nostra santità e l’obbedienza prestata a Dio, potremmo forse essere migliori dei tre giovani gettati nella fornace di fuoco ardente, per aver voluto rispettare la legge di Dio? Ciononostante leggi quello che dice Azaria, uno dei tre, il quale prendendo la parola in mezzo al fuoco esclamò: Sei benedetto, Signore, Dio dei nostri padri, e degno di lode; e il tuo nome è glorioso in eterno; poiché tu sei giusto riguardo a tutte le cose che hai fatte a noi e tutte le tue opere sono verità e retta è la tua condotta e giusti sono i tuoi giudizi; giudizio conforme a verità hai fatto nel far cadere sciagure su di noi e su Gerusalemme, la città santa dei nostri padri, poiché con verità e giustizia le hai fatte cadere su di noi a causa dei nostri peccati, avendo noi peccato e disubbidito alla tua legge e non avendo dato ascolto ai tuoi precetti promulgati per il nostro bene; tutti i castighi che ci hai inflitti ce li hai inflitti con perfetta giustizia. Ci hai inoltre consegnati nelle mani dei nostri peggiori nemici, uomini iniqui e prevaricatori, di un re iniquo, anzi il peggiore che sia su tutta la terra. Ed ora non potremmo neppure aprir bocca, divenuti oggetto di vergogna e di ludibrio per i tuoi servi e per coloro che ti adorano. Erano in mezzo alle tribolazioni - continua Agostino - dalle quali peraltro vennero risparmiati perché le stesse fiamme non osavano toccarli; eppure, confessavano senza alcuna reticenza i loro peccati, in pena dei quali riconoscevano d’esser umiliati come meritavano e con giustizia”. Dove nasce l’ingiustizia - L’ingiustizia nasce dunque dall’incapacità naturale dell’Uomo a aderire pienamente alla volontà di Dio ed è questa mancata adesione che giustifica il dolore e le sofferenze anche dei più giusti e santi. L’ingiustizia che diventa, paradossalmente, giusta, perché semplicemente la giustizia vera non è di questo mondo sembra affermare Agostino. E una volta inserito questo elemento ultraterreno, le rivendicazioni della giustizia distributiva su questa terra perdono importanza. La fede in un grande Dio onnisciente e moralizzatore modifica la metrica con la quale misurare il giusto e l’ingiusto. Come sostiene Mathias Risse “La giustizia diventa un ordine che si dispiega su una scala molto più ampia. Si valuterebbe quindi il dovuto a ciascuno non sulla base delle cose umane ma con riferimento ad un mondo più vasto di cui le realizzazioni umane costituiscono solo una piccola parte” (On Justice. Philosophy, History, Foundations. Cambridge University Press, 2000). Su questo punto le differenze tra Cicerone e Agostino non potrebbero essere maggiori. Continua sempre Risse: “Per Cicerone, ciò che ogni persona merita è valutato nell’ambito del nostro contesto sociale. Per Agostino, questo compito è impossibile. Per Cicerone, la giustizia terrena è un concetto rigoroso. Per Agostino la giustizia limitata agli affari terreni è importante, ma solo nel suo contesto ristretto; essa perde di importanza davanti a considerazione di carattere divino. Infine, per Cicerone, la presenza di un essere divino onnipotente non complica la questione relativa all’applicazione della giustizia. Per Agostino, invece, il fattore divino è il fattore cruciale”. Così cruciale da avere degli effetti non solo su una città, neanche solo sull’Impero; la giustizia divina diventa un concetto illimitato nella sua applicazione, un concetto universale a cui ogni uomo è soggetto. Migranti. Una politica coordinata di soccorso e di prevenzione di Giovanni Salvi* Corriere della Sera, 19 marzo 2023 Non bastano l’aumento delle pene per il traffico di esseri umani e la perseguibilità anche quando il reato è commesso al di fuori del territorio dello Stato. Il decreto-legge del 10 marzo prevede un nuovo delitto per traffico di migranti, con un severo aumento delle pene per condotte già oggi punite; se ne prevede la perseguibilità anche quando commesso al di fuori del territorio dello Stato.La giurisdizione italiana in acque internazionali contro i trafficanti di migranti è stata in passato esercitata sulla base delle norme esistenti, ad esempio da Palermo e Milano; ciò ha portato alla punizione di organizzatori e manovalanza, anche per violenze consumate fuori del territorio nazionale. Pioniera in questo percorso fu la Procura di Catania, quando dovette occuparsi in tragica successione di gravissimi naufragi, tra cui quello del 15 aprile 2015, nel quale morirono circa 800 persone. Il gruppo di lavoro, costituito dopo il naufragio del 10 agosto 2013 sulle spiagge catanesi, molto simile alla tragedia di Cutro, utilizzò le Convenzioni sul soccorso in mare e sulla disciplina dell’Alto Mare, unitamente ai Protocolli contro il traffico di migranti e di esseri umani della Convenzione di Palermo sul crimine organizzato. La Corte di cassazione, con un orientamento ormai consolidato, ritenne fondata quella costruzione giuridica e fu quindi possibile sequestrare le navi-madre e arrestare i trafficanti (dunque non solo gli scafisti) anche a 200 miglia dalla costa italiana. L’intervento normativo recepisce ed estende questa interpretazione ma non risolve i molti problemi che si posero. Affermare la giurisdizione non è sufficiente. Qualunque Stato può farlo. Il problema è esercitarla effettivamente, in uno spazio condiviso con la sovranità di altri Stati e sottoposto al diritto pubblico internazionale e alle Convenzioni che lo disciplinano. Quando fu chiesta l’estradizione dei capi di una pericolosa organizzazione, l’Egitto la rifiutò perché non aveva mai dato esecuzione alla Convenzione sul crimine organizzato transnazionale. I nostri sforzi sembravano vani, ma non lo furono del tutto. L’emozione causata dalle centinaia di vittime del naufragio del 15 aprile 2015 e del processo che ne seguì portò la Procura e il Tribunale di Catania a rappresentare all’Assemblea degli Stati parte della Convezione di Palermo le difficoltà incontrate. Ciò contribuì in maniera decisiva all’approvazione del Meccanismo di Revisione, che giaceva da anni tra interminabili discussioni nelle sedi delle Nazioni Unite e che è volto a verificare l’effettivo rispetto degli obblighi che gli Stati hanno assunto firmando la Convenzione. Aumentare le pene serve davvero a poco, se quelle pur severe esistenti non possono essere applicate nei confronti degli organizzatori del traffico, che operano nei Paesi di partenza e di transito dei flussi. Se poi si finisce per punire con pene draconiane il solo scafista, la punizione “esemplare” finisce per essere contraria a principi di giustizia. Un secondo problema che si dovette affrontare fu quello delle dichiarazioni dei sopravvissuti. Essi erano testimoni e dunque pienamente legittimati a rendere deposizione davanti al giudice, oppure indagati di reato collegato, perché responsabili della contravvenzione prevista dall’art. 10 bis del Testo Unico sull’immigrazione? La questione aveva riflessi processuali significativi. Il pool giunse alla conclusione che la contravvenzione in questione non si applicava ai casi di soccorso al di fuori delle acque territoriali. Dinanzi alla Commissione Giustizia della Camera rappresentai le conseguenze che potevano derivare quando i migranti fossero giunti autonomamente all’interno delle acque territoriali: il reato contravvenzionale sarebbe stato consumato e dunque la nostra costruzione non avrebbe potuto reggere. In tali casi i sopravvissuti avrebbero assunto la veste di indagati. Conseguenza paradossale, per un reato punito con un’ammenda, la cui forza di intimidazione è pari allo zero. La situazione è rimasta quella del 2015. Durante l’operazione Mare Nostrum il soccorso in mare era condotto direttamente dalla Guardia Costiera e dalla Marina Militare. Esse coordinavano anche i mercantili, impegnati nel soccorso. Al tempo stesso, questa azione, volta al soccorso, permetteva di raccogliere importanti informazioni e seguire sin da molto lontano le grandi imbarcazioni, consentendo poi alla Guardia di Finanza di intervenire. Perseguire con determinazione la punizione dei trafficanti è fondamentale, ma ciò può essere addirittura meglio realizzato se contemporaneamente si assolve al dovere del soccorso in mare. Questo dovere deve essere condiviso: il caicco naufragato a Cutro navigò per giorni nelle acque greche senza alcun intervento, né di polizia né di soccorso, mentre Malta continua ad essere inattiva. Frontex non coinvolge di fatto navi militari di altri Paesi, nel canale di Sicilia e nelle acque del Mediterraneo centrale. È dunque necessaria una politica coordinata, di soccorso e di prevenzione, che porti alla condivisione degli oneri e che promuova, anche sotto egida delle Nazioni Unite, accordi seri ed efficaci di cooperazione di polizia e giudiziaria con i Paesi di origine e di transito. *Ex Procuratore Generale presso la Corte di cassazione Papa Francesco: “Assurda la corsa ad armarsi: cerco ancora la pace” di Giampiero Gramaglia Il Fatto Quotidiano, 19 marzo 2023 “La guerra è il fallimento della politica, e ci fa toccare con mano l’assurdità della corsa agli armamenti e del loro uso per la risoluzione dei conflitti”. Le parole di Papa Francesco fanno breccia nel gruppo di profughi arrivati in Europa con i corridoi umanitari - molti sono ucraini - che le ascoltano, ma non scalfiscono i muri contrapposti a Mosca e a Kiev. Agli ucraini presenti, Francesco dice: “Il Papa non rinuncia a cercare la pace, a sperare nella pace e a pregare per la pace. Lo faccio per il vostro Paese martoriato e per gli altri che sono colpiti dalla guerra”. Francesco fa pure l’elogio dell’accoglienza: “Ogni storia d’accoglienza è un impegno concreto per la pace”. Gli echi che vengono da Kiev e da Mosca non sono incoraggianti. Il presidente ucraino Zelensky, in video-conferenza con il consigliere Usa per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, il segretario alla Difesa Lloyd Austin e il capo di Stato Maggiore interforze, generale Mark Milley, chiede più armi e più munizioni. E manda messaggi alla sua gente, dà per imminente la liberazione dei territori occupati: “Continuiamo a lottare. La liberazione di tutti i nostri territori sta andando avanti”. Le cronache sul terreno non convalidano l’affermazione. La scorsa notte, ci sono state diverse ondate di attacchi russi: le forze ucraine avrebbero intercettato 11 droni kamikaze su 16. Fra le località colpite, c’è Zaporizhzhia, raggiunta da missili S-300. Esplosioni di cui s’ignora la natura e l’esito sono state udite a Sebastopoli, in Crimea. La Russia, dal canto suo, si dice aperta a proposte “serie” per risolvere la crisi ucraina, ma respinge gli “ultimatum”. La portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova chiosa ndichiarazioni del ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba sulla “formula di pace” proposta da Zelensky: “Un altro tentativo di fuorviare la comunità internazionale e lo stesso popolo ucraino”. Gli Stati Uniti confermano che munizioni cinesi sono state utilizzate in Ucraina e pensano che siano state sparate dalle forze russe, ma non è ancora chiaro se esse siano state fornite dalla Cina o siano arrivate in Russia per vie traverse. La presa di posizione molto cauta del Dipartimento di Stato è connessa all’arrivo a Mosca domani del residente cinese Xi Jinping. L’intelligence britannica sostiene che la Russia ricorrerà a una nuova leva, spostando l’età dell’arruolamento a trent’anni. Fonti ucraine parlano di esercitazioni condotte nel Lugansk per ‘coprire’ una nuova mobilitazione. Il capo dei mercenari del Wagner, Ievgheni Prigozhin annuncia entro metà maggio 30 mila nuove reclute, “migliori dei detenuti che abbiamo già arruolato”. Nei giorni scorsi Prigozhin aveva fatto sapere che centri di reclutamento Wagner sono stati aperti in 42 città russe, dove sono arruolate tra le 500 e le 800 persone al giorno. I Wagner hanno subito di recente pesanti perdite, specie nei combattimenti per prendere Bakhmut. A gennaio, gli Usa valutavano che Wagner aveva circa 50.000 combattenti in Ucraina, inclusi 40.000 detenuti che Prigozhin aveva reclutato dalle carceri russe con la promessa della grazia se fossero sopravvissuti sei mesi. Fonti ucraine sostengono che circa 30.000 mercenari hanno disertato o sono stati uccisi o feriti. Il premier ucraino Denys Shmyhal opererà un rimpasto di governo la prossima settimana: dovrebbero dare le dimissioni il ministro delle Industrie strategiche Pavel Ryabikin e quello dell’istruzione e della Scienza Serhiy Shkarlet. Alle industrie strategiche potrebbe andare Oleksandr Kamyshin, già presidente delle ferrovie Ukrzaliznytsia, considerato in patria un eroe della resistenza che coi suoi treni è riuscito a portare lontano dalla guerra due milioni e mezzo di cittadini. Il Papa mediatore umanitario fra Kiev e Mosca: così fa liberare i prigionieri di Giacomo Gambassi Avvenire, 19 marzo 2023 L’intellettuale Myroslav Marynovych ha portato in Vaticano il grido delle famiglie con parenti detenuti di guerra. La visita nelle due capitali? “Per un pastore è auspicabile. Sulla scia della crisi di Cuba”. Quando papa Francesco era entrato nella saletta di Casa Santa Marta dove aveva scelto di ricevere la delegazione informale appena arrivata dall’Ucraina per un incontro “non ufficiale” sulla guerra, la sua prima frase aveva sorpreso tutti. “Possiamo parlare quanto ci occorre”, aveva esordito. Parole che fin da subito testimoniavano inequivocabilmente come il Papa intendesse comprendere le peculiarità del conflitto e quale fosse la percezione ucraina di ciò che era, ed è, ancora in corso”, ricorda Myroslav Marynovych. Intellettuale di fama internazionale, attivista dei diritti umani fin dai tempi dell’Unione Sovietica, cofondatore del Gruppo di Helsinki in Ucraina, studioso dei rapporti fra religione e società, esperto di ecumenismo e di dialogo interreligioso, il vice-rettore dell’Università greco-cattolica di Leopoli era stato citato da Francesco nella conversione con i gesuiti in Kazakistan, pubblicata su La Civiltà Cattolica, in cui aveva svelato il suo ruolo di mediatore fra Kiev e Mosca per il rilascio dei detenuti di guerra finiti nelle mani del nemico. E durante l’incontro era stata consegnata al Papa una lista di nomi ucraini per operare uno scambio che avrebbe aperto un canale di “diplomazia umanitaria” ancora attivo e prolifico. “Gli sforzi di Francesco in questo ambito sono stati e restano enormi - spiega il docente ad Avvenire. E sono ipocriti i politici che attribuiscano a se stessi il merito principale della liberazione dei prigionieri. Giustamente il Papa tace. Ma il suo ruolo è ben conosciuto dalle madri e dalle mogli dei nostri concittadini catturati dai russi che spesso si rivolgono al Pontefice per chiedere il suo intervento. Francesco agisce secondo quanto ha chiesto Cristo nel Discorso della montagna, ossia senza “suonare la tromba, come fanno gli ipocriti”. E sono certo che il “Padre che vede nel segreto” lo “ricompenserà”“. Professore, lei ha raccontato al Papa il conflitto. Come? Impossibile elencare tutti gli argomenti toccati durante la nostra conversazione. Abbiamo parlato, tra l’altro, del fatto che la Russia usa non solo le armi ma anche le false informazioni. L’Ucraina è stata a lungo vista attraverso il prisma russo, anche in Vaticano. Pertanto è giunto il momento di sviluppare una prospettiva sul nostro Paese che non derivi da quella di Mosca. Poi abbiamo accennato al fatto che molti europei commettono l’errore di ritenere i russi non responsabili dell’invasione. Sì, la colpa è della leadership al Cremlino. Ma gli attacchi in Ucraina sono compiuti dai soldati russi e il popolo russo approva in gran parte la guerra. Ecco perché amare i russi significa rivelare loro la vera portata dei crimini commessi, favorendo un sincero pentimento. E al termine abbiamo discusso dei concetti di “guerra giusta” e “pace giusta”. Il Papa ha convenuto che un chiarimento sia necessario. E ha rivelato di aver già incaricato alcuni cardinali di approfondire il tema. In questo anno di invasione Francesco ha lanciato oltre cento appelli a favore del “popolo martoriato” dell’Ucraina… Fin dall’inizio della guerra il Papa è stato animato dal desiderio di riconciliare due popoli che in Occidente vengono definiti “fraterni” e che litigano a causa di influenze esterne. Gli ucraini, storditi dalle atrocità del conflitto, non hanno potuto fare a meno di percepire tale atteggiamento come idealistico, dietro il quale c’era un malinteso sui motivi della guerra. E dire che il Papa porta veramente su di sé le sofferenze della nostra gente. Con il passare del tempo i media nazionali hanno cominciato ad amplificare affermazioni fuori contesto di Francesco mentre certi moniti pontifici sono stati ignorati. Come è accaduto per Lettera del Papa agli ucraini dello scorso novembre che contiene messaggi molto importanti. Il Papa ha ribadito di voler andare a Mosca e Kiev. Può fare da mediatore? È naturale per un pastore cercare di riavvicinare le due parti in conflitto. Allora una visita nelle due capitali sembra auspicabile e giustificata, tanto più che nella storia della Santa Sede c’è stata la gloriosa pagina della mediazione nella crisi di Cuba del 1962. Tuttavia, a mio parere, vanno considerati alcuni elementi. Quali? In primo luogo, il conflitto russo-ucraino è a somma zero: appare impossibile conciliare, da un lato, il desiderio ucraino di preservare la propria libertà e la propria statualità e, dall’altro, l’ambizione russa di porre fine a tale statualità e di far rivivere un impero dissolto. In secondo luogo, la Russia moderna vive secondo una logica orwelliana dove le parole assumono un significato opposto rispetto a quello fattuale. L’aggressione voluta da Putin è “autodifesa”; i crimini contro l’umanità “la necessaria eliminazione dei nazisti”. Ne deriva che la “pace” sia concepita solo come una tregua temporanea per riassettare le forze in vista di una nuova guerra e che la “riconciliazione” equivalga alla completa sottomissione degli ucraini. È possibile negoziare con queste premesse? Tuttavia, il Papa ci insegna che serve scrutare l’orizzonte per scorgere possibilità ancora non visibili o esplorate. L’aiuto degli immigrati e l’Inghilterra smemorata di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 19 marzo 2023 Una mostra a Londra ricorda i molti stranieri che hanno contribuito allo sviluppo del Paese, eppure c’è chi vorrebbe chiudere le porte. Prima volta a Londra senza la Regina, prima volta dopo il Covid. Al principe Andrea il fratello ha tolto il rimborso per l’istruttore di yoga; nel palazzo dell’Economist in St. James’s la nuova proprietà affitta uffici con vista; al Reform Club non è più richiesta la cravatta e hanno messo un ascensore fino al terzo piano, al posto di quello cigolante di legno, donato da un socio di Chicago intorno al 1880. Tornare è un modo di allenarsi a invecchiare. Incontro amici inglesi e parliamo di calcio, tivù, giornali e migrazioni: tutti d’accordo che l’argomento più urgente sia quest’ultimo. Uno di loro suggerisce di visitare la mostra sull’immigrazione al Lewisham Shopping Centre. Una mostra in un centro commerciale? Perché no, dice lui. Cinquanta minuti di metropolitana e DLR (Docklands Light Railway), e ci siamo. “Moving Stories”, storie in movimento, ma anche storie commoventi: la mostra si chiama così. I ragazzi di Lewisham hanno lavorato sulle memorie materiali dell’immigrazione. Hanno ricostruito un corner shop, un negozio di barbiere, un take-away. E hanno aggiunto qualche pro-memoria. Da dove venivano Madame Tussaud (museo delle cere) e Eugene Rimmel (cosmetica)? Francia. Chi ha ispirato “Liberty” di Regent Street? Altea McNish (Trinidad), studentessa d’arte. Chi ha portato in Inghilterra il gelato? Carlo Gatti, svizzero italiano, nel 1847 (fino ad allora era un lusso per ricchi). Motociclette Triumph? Un tedesco di Norimberga, Sigfried Bettmann. Travelodge? L’italiano Charles Forte, partito coi milk bars. Easy Jet? Un greco-cipriota, Stelios Haji-Ioannu. Deliveroo? Un taiwanese, Will Shu. Just Eat? Un danese, Jesper Buch. Eccetera. L’attuale premier britannico, Rishi Sunak, è figlio di genitori indiani arrivati dall’Africa Orientale, così la ministra dell’interno, Suella Braverman. La mamma del ministro degli esteri, James Cleverly, è della Sierra Leone: lui è nato proprio a Lewisham, dove lei faceva l’infermiera. E questo governo vorrebbe negare il diritto di asilo a chi ne ha diritto? E propone espulsioni di massa verso il Ruanda? C’è qualcosa che non quadra. Se la regola è “Chi è dentro, è dentro. Chi è fuori, è fuori”, basta dirlo. Di certo, non è una bella regola. Tunisia. Migliaia abbandonati nel deserto del Niger. Piano Ue contro i trafficanti di Paolo Lambruschi Avvenire, 19 marzo 2023 Allarme di Msf: profughi respinti dall’Algeria in Niger, lasciati senza assistenza. Su Tunisi si muove l’Europa, l’ipotesi di ampliare le vie legali d’ingresso. Sono migliaia i dannati del “Point zero” nel Sahara e sono ormai allo stremo. Quasi 5mila migranti sono stati respinti dai primi di gennaio dall’Algeria in Niger, in base a un accordo del 2014. Abbandonati nel deserto. Donne, bambini, minori, uomini, sia nigerini che di diversi Paesi dell’Africa subsahariana occidentale - accomunati dalla medesima grande povertà - sono bloccati ad Assamaka, la Lampedusa del Sahara nigerino, in condizioni di estrema insicurezza, senza accesso ad assistenza sanitaria, protezione, riparo e beni di prima necessità. Un’emergenza mai vista in nove anni di respingimenti. È l’allarme lanciato ieri da Medici Senza Frontiere che chiede alla Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Ecowas) di fornire protezione immediata. Come hanno spesso denunciato i “whistleblower” (quelli che “fischiano”, che suonano l’allarme, ndr) di Alarm phone Sahara, l’organizzazione che sorveglia le rotte migratorie del deserto utilizzando come sentinelle chi percorre le piste di sabbia da secoli, le deportazioni di africani irregolari dall’Algeria continuano in maniera violenta e su larga scala, provocando a volte la morte di immigrati scaricati in piena notte nel nulla, incapaci di orientarsi verso Assamaka, la prima città nigerina dove si trova l’ambulatorio di Msf e un centro di transito dell’Oim. Molti spariscono. Alarm phone Sahara: tanti poi scompaiono nel nulla. Su Tunisi si muove l’Europa, l’ipotesi di ampliare le vie legali d’ingresso Le sentinelle hanno dichiarato ad esempio che, dei 1.124 deportati al “Point zero” la notte del 29 ottobre 2022, solo 818 sono stati registrati ad Assamaka. Resta un mistero la sorte delle 306 persone mancanti all’appello. Ed è rimasta senza nome la persona morta nel deserto durante la deportazione del 3 novembre. Nel 2022 sono stati respinti in tutto 24.250 migranti dall’Algeria secondo Alarm phone Sahara che, sommati a quelli dei primi mesi del 2023, fanno quasi 30 mila persone. L’Algeria, grazie alle risorse energetiche, è diventata da anni una calamita di flussi. Ma chi non è in regola viene rastrellato durante i raid della polizia nei luoghi di lavoro, nelle abitazioni o in strada e poi derubato, maltrattato e stipato in camion che trasportano i malcapitati al “Point Zero”, dal quale devono poi raggiungere Assamaka a piedi percorrendo una ventina chilometri. “La gravità degli abusi è indiscutibile. Le testimonianze dei nostri pazienti e le loro condizioni fisiche e mentali dimostrano l’inferno passato durante l’espulsione”, ha denunciato Jamal Mrrouch, capo missione di Medici Senza Frontiere in Niger. Il Centro di salute integrata supportato da Msf ad Assamaka è sovraffollato, con migliaia di persone che cercano riparo nella struttura per sfuggire agli oltre 40 gradi delle ore diurne e al freddo serale. Dormono ammassati in ogni angolo, comprese le zone di scarico, rischiando malattie e infezioni cutanee e mangiando cibo pieno di sabbia. “Una situazione senza precedenti che richiede una risposta umanitaria urgente della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale, da dove proviene la maggior parte di queste persone - conclude Mrrouch -. È nostro dovere portare l’attenzione su questa grave mancanza di assistenza e sui rischi per la salute dei migranti, compresi i bambini, abbandonati nel deserto di Assamaka”. Intanto in Tunisia l’Ue ha deciso di “raddoppiare gli sforzi” per contrastare l’immigrazione illegale esplosa nel 2023, tanto da portare la Tunisia a rimpiazzare la Libia come Paese di prima partenza (il 60% degli arrivi in Italia proviene da lì). Lo sostiene un report del Servizio di Azione Esterna dell’Ue rilanciato dall’Ansa, che finirà sul tavolo dei ministri degli Esteri al consiglio di lunedì. Il documento propone una missione contro i trafficanti, l’aumento della cooperazione per la gestione delle frontiere, per i rimpatri volontari, per migliorare le capacità nelle operazioni di ricerca e salvataggio (Sar) nonché l’ampliamento delle vie d’ingresso legali. Il documento menziona con “preoccupazione” la retorica del presidente Saïed contro i migranti. Quattro organizzazioni per i diritti umani - Amnesty International, Euromed Rights, Human rights watch e Icj Mena - hanno chiesto ai ministri degli Esteri dei 27 di fare pressione sul governo tunisino per invertire la rotta antidemocratica che ha portato all’arresto di oppositori e giornalisti incentivando le partenze.