Il Garante dei detenuti: “La comunità per tossicodipendenti? Può essere la strada giusta” di Luca Cereda vita.it, 18 marzo 2023 Secondo i dati di febbraio del Dap - il Dipartimento di amministrazione penitenziaria - a fronte di una capienza regolare nelle carceri italiane di 51.285 persone, i detenuti sono 56.319. E di questi il 30 per cento sono dipendenti da sostanze. Mauro Palma, garante detenuti: “Spostarli dalle celle alle comunità, come propone il sottosegretario alla Giustizia Delmastro, è una proposta con una sua dignità, dice Mauro Palma. Ma non bisogna confondere i problemi socio-sanitari con quelli penali ed è importante differenziare tra reati”. Non sarebbe una novità per le comunità che ospitano persone in cura dalla dipendenza da sostanze, accogliere detenuti, come propone il sottosegretario Andrea Delmastro, anche per svuotare le carceri. Il sottosegretario alla Giustizia ha detto: “Sto lavorando a un provvedimento che immagina di coinvolgere il Terzo settore, quelle comunità chiuse in stile San Patrignano, per costruire un percorso alternativo alla detenzione”. Alla base dell’idea c’è la volontà di provare a risolvere la questione dell’affollamento dei penitenziari, svuotando le carceri di quel 30 per cento circa di detenuti con dipendenze varie, in particolare modo da sostanze, e appoggiandosi a strutture del privato sociale. Il testo della proposta sarebbe ancora in fase di ultimazione secondo Delmastro, quindi non è ancora possibile definire un crono-programma perché prima bisogna confrontarsi con gli attori in campo, a partire proprio dagli enti del Terzo settore chiamati in causa. “È un percorso da condividere con il mondo del non profit per comprendere appieno la capienza strutturale. E con le Regioni che hanno la delega alla sanità e dovranno certificare le cooperative e controllarne la gestione. Il piano - ha detto Delmastro in un’intervista al Messaggero - funzionerebbe così: il giudice già in sentenza può sostituire i giorni di carcere indicati con un numero uguale presso una comunità protetta. Cioè se vieni condannato a due anni puoi scontarli tutti lì. Se poi impieghi 8 mesi a disintossicarti, per il tempo restante la comunità ti aiuterà a formarti e a trovare lavoro. Ma la comunità sarà controllata 24 ore su 24, se scappi hai bruciato la tua seconda possibilità e sarai perseguito per il reato di evasione. E lo stato, come un buon padre di famiglia, non potrà più fidarsi. Su questo non transigo. Vede sono un giurista basico, incarno l’uomo medio. Ma è una posizione che rivendico perché è questa che ci fa prendere voti”. “Come garante dei diritti delle persone detenute dico che mi sembra strano che un sottosegretario, che ha una funzione governativa, parli da esponente di partito”, ribatte il garante dei detenuti Mauro Palma. Che aggiunge: “La proposta ha una sua dignità. E con alcune necessarie correzioni può funzionare. In linea generale - sostiene - non bisogna mai confondere i problemi socio-sanitari con quelli penali. Non credo sia percorribile la strada delle strutture ibride. Ritengo comunque sia opportuno evitare discorsi da “bianco o nero”: le situazioni dei detenuti con problemi di dipendenza da droghe sono molto diverse, mentre il sottosegretario alla Giustizia Delmastro non sembra fare nessuna differenza. Ci sono persone in carcere per ciò che il comma 5 dell’articolo 73 del testo unico sulla droga definisce ‘spaccio di lieve entità’. Per loro va ripensato completamente il percorso, tirandoli fuori dal carcere. Poi ci sono detenuti con dipendenze rei di ‘piccolo spaccio’: per loro la comunità andrebbe molto bene, purché abbia una connotazione di presa in carico e non sia chiusa e dura. Poi ci sono detenuti con storie di dipendenza, spaccio e altri reati, per i quali serve un dialogo tra comunità e struttura penitenziaria, che è tuttavia inevitabile”. Insomma, il concetto chiave per il garante Palma la differenziazione e la personalizzazione dei percorsi. Lo stesso discorso, vale poi anche per le comunità di recupero che sono un insieme di realtà molto variegate. “Le comunità sono diverse, ce ne sono a maggiore o minore intensità ed è giusto che esistano sfumature e diversità di approccio terapeutico: anche qui, il bianco o nero non funzionano mai”. Il sottosegretario fa bene invece, riconosce Palma, a pensare a un patto con le regioni, che hanno sui territori il dovere di assicurare la salute di tutti, anche dei detenuti, e gli enti del Terzo settore. Ad esempio il 7 marzo, all’interno della Casa Circondariale di Rebibbia Femminile, a Roma, è morta una detenuta con diversi problemi di dipendenza da sostanze. “Si tratta di una persona che era stata in carcere quasi una ventina di volte. Dovremmo chiederci - conclude Palma - che cosa ha fatto per lei il territorio e se anche i servizi sanitari interni all’istituto non avrebbero potuto aprire un dialogo migliore. E dovremmo chiederci che cosa poteva fare il carcere per una persona come lei”. La droga porta dietro le sbarre tantissime persone che in galera non ci dovrebbero stare: “Non secondo me - spiega il dottor Francesco Scopelliti, direttore delle strutture penitenziarie della Asst Santi Carlo e Paolo di Milano -, ma sulla base della legge 309 del 90. Per andare in questa direzione, a Milano 27 anni fa abbiamo creato all’interno del tribunale un’équipe che interviene formulando un programma terapeutico che presentiamo al giudice della sezione direttissima che in questo modo una volta emessa la sentenza può inviare l’arrestato con dipendenze da stupefacenti in luogo comunità o SerD in alternativa alla carcerazione”. La rivoluzione sta nel trasformare il tribunale in un luogo di cura con l’obiettivo di intercettare imputati con problemi di tossicodipendenza e proporre loro un percorso di riabilitazione, grazie al presenza nei giorni di udienza di assistenti sociali, psicologi e medici nell’aula dei processi per direttissima: “Con questo tipo di intervento, che da anni proviamo ad esportare da Milano, - conclude Scopelliti - ogni anno intercettato 600 persone a cui viene data la possibilità di iniziare una cura in modo precoce, aumentando le possibilità di riuscita dell’intervento”. Carceri, discarica sociale. La tossicodipendenza da affrontare fuori di Andrea Nobili* Il Resto del Carlino, 18 marzo 2023 Le carceri, una discarica sociale. I problemi legati alla tossicodipendenza vanno affrontati nelle strutture terapeutiche e non nelle carceri. Una riflessione di buon senso, quella del Sottosegretario alla giustizia, Andrea Delmastro delle Vedove, che ha recentemente proposto di collocare i detenuti tossicodipendenti nelle comunità di recupero. In realtà la normativa vigente già prevede e suggerisce l’applicazione di misure alternative alla detenzione, che può essere sostituita con il c.d. affidamento terapeutico, ad eccezione delle situazioni di particolari gravità. E allora perché i nostri penitenziari “ospitano” un numero spropositato di persone, con condanne non gravi, che versano in una condizione di dipendenza patologica dalle droghe? C’e’ bisogno veramente di una nuova legge? Forse. Nell’attesa, però, si dovrebbe far funzionare il sistema vigente. E invece le cose non vanno, neppure nel nostro territorio: da Ancona a Pesaro, da Fermo a Ascoli. Le carceri sono sempre piu’ una discarica sociale, come diceva il noto filosofo Bauman. Gli operatori delle strutture detentive sono chiamati ad affrontare ogni sorta di problema sociale e sanitario: soggetti ristretti con dipendenze da droga e alcool, moltissimi con gravi disturbi psichiatrici, con tendenze suicidarie e autolesioniste. Non è certo un caso che, nonostante il grande impegno della Polizia penitenziaria, il numero di suicidi e di atti di autolesionismo in carcere sia aumentato in modo impressionante, negli ultimi tempi. Le attività del Servizi dipendenze delle sanità regionali in carcere sono insufficienti, a causa di carenze di personale e di risorse. Detenuti che attendono per riuscire a relazionarsi in modo adeguato con gli operatori del servizio, l’assistenza psicologica ai minimi termini (negli ultimi tempi si è tentato di mettere qualche toppa ma non basta), l’ingresso nelle comunità terapeutiche il più delle volte una chimera. Per non parlare della difficilissima situazione, nonostante l’abnegazione degli operatori, in cui versano le articolazioni territoriali ministeriali dell’Uepe, chiamati dopo le recenti riforme a impegni ulteriori. In pochi luoghi come le carceri il tema della povertà e della diseguaglianza sociale si fa spietato, anche a fronte dell’arretramento del nostro sistema di welfare. Non possiamo permetterci di attendere una nuova legge, occorrono interventi urgenti a livello nazionale e regionale. *Avvocato ed ex Garante regionale dei diritti dei detenuti Sempre più bimbi in carcere, ma la legge Siani non vede la luce di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 marzo 2023 Mancava solo il via libero definitivo dal Senato, ma la proposta di legge per evitare i bimbi e bimbe dietro le sbarre a firma dell’ex deputato Paolo Siani del PD è stata stoppata. Questo perché Fratelli D’Italia, l’otto marzo scorso, in commissione giustizia ha chiesto delle modifiche al testo. Una in particolare, se passasse, in caso di recidiva si rischierebbe di separare i figli dalle madri detenute: di fatto neutralizzerebbe il sacrosanto principio della tutela e valorizzazione del rapporto tra le madri detenute e figli piccoli. La proposta di legge, ricordiamo, fu presentata al Parlamento durante la scorsa legislatura, e approvata con 241 voti favorevoli e soltanto 7 contrari per non avere mai più bambini in carcere. Ma lo stop rischia nono solo di modificare in peggio la legge, ma anche di rimandare l’approvazione a data da destinarsi. Sull’argomento c’è un appello congiunto dell’ex deputato del Pd Paolo Siani e del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Campania Samuele Ciambriello, per garantire l’interesse dei bambini e stimolare la politica ad approvare al Senato tale proposta di legge, non più procrastinabile. “Ci rivolgiamo a quei parlamentari - si legge nell’appello congiunto - che nella scorsa legislatura, con grande senso di responsabilità, votarono una legge a tutela dei diritti delle bambine e dei bambini, affinché senza essere snaturata la legge possa essere approvata in fretta così come è”. Siani e Ciambriello proseguono sottolineando che è necessaria una legge che tuteli quei bambini innocenti che oggi sono rinchiusi in un carcere con le loro mamme. “Vogliamo tutelare quei bambini - affermano nell’appello - che sono costretti a vivere i primi anni della loro vita, quelli decisivi per il loro sviluppo psicofisico in un carcere”. Infine osservano che la proposta di legge, piuttosto avanzata rispetto agli altri Paesi europei, offre uno strumento giuridico per dimostrare che il Parlamento vuole lottare per tutti gli innocenti, iniziando proprio dai bambini. “Vi chiediamo di non rendere vano un lavoro lungo e difficile, durato oltre due anni. e di dare una speranza a questi bambini”, concludono Siani e il garante Ciambriello. La questione è urgente, dal momento in cui, secondo gli ultimi dati del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, crescono nuovamente i bambini dietro le sbarre. È cresciuto da 17 a 24 in Italia il numero di bambini, figli di detenute, presenti al seguito delle loro madri. La proposta di legge si prefigge l’obiettivo di vietare per sempre la custodia cautelare in carcere per detenute madri con prole di età inferiore ai 6 anni. Solo dove sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza il giudice potrà disporre la custodia cautelare in istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam). Quindi solo come extrema ratio. Saranno invece le case famiglia ad essere privilegiate con l’obbligo del ministero della giustizia di individuare le strutture adatte. Il comma 1 modifica l’articolo 275 del codice, sopprimendo al comma 4 la clausola che consente la carcerazione in ragione di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Viene in tal modo attribuita natura assoluta al divieto di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere per donna incinta o madre di bambini di età non superiore a 6 anni con lei convivente (ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole). Secondo la giurisprudenza di legittimità, la ratio del divieto legislativo di applicazione della misura cautelare carceraria in presenza di minori di età inferiore ai sei anni, risiede nella necessità di salvaguardare la loro integrità psicofisica, dando prevalenza alle esigenze genitoriali ed educative su quelle cautelari (entro i limiti precisati), garantendo così ai figli l’assistenza della madre, in un momento particolarmente significativo e qualificante della loro crescita e formazione. Contemporaneamente, il comma 2 dell’articolo 1 della proposta di legge Siani interviene sull’articolo 285- bis del codice di procedura penale, che disciplina la custodia cautelare negli Icam, che hanno caratteristiche strutturali diverse rispetto alle carceri tradizionali, pur restando strutture detentive. Si stabilisce quindi che il giudice possa disporre tale misura cautelare nel caso in cui sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. L’articolo 3 della proposta di legge, infine interviene sulla citata legge n. 62 del 2011. In particolare il comma 1 incide sulla disciplina dell&# 39; individuazione delle case famiglia protette, i cui requisiti sono stati definiti con decreto del ministro della Giustizia 8 marzo 2013, sostituendo il comma 2 dell’articolo 4 della legge del 2011 con due nuovi commi volti a prevedere: l’obbligo (e non più la facoltà) per il ministro della Giustizia di stipulare con gli enti locali convenzioni volte a individuare le strutture idonee a essere utilizzate come case famiglia protette; rispetto al testo vigente viene meno altresì la clausola di invarianza finanziaria; l’obbligo per i comuni ove siano presenti case famiglie protette di adottare i necessari interventi per consentire il reinserimento sociale delle donne una volta espiata la pena detentiva, avvalendosi a tal fine dei propri servizi sociali. Come detto, la proposta di modifica da parte di Fratelli D’Italia sulla recidiva non preserverebbe più il rapporto tra figli minori e i loro genitori in carcere. E va contro il principio della legge del 2011. Così come va in antitesi con la proposta di Legge Siani che è finalizzata a garantire il rapporto tra il bambino e la propria madre in un ambiente non detentivo. Tale ambiente non può che essere la casa famiglia, e purtroppo ne esistono soltanto due in Italia. Una a Roma e l’altra a Milano, grazie soprattutto agli enti privati. Questo perché è escluso qualsivoglia onere a carico del ministero della Giustizia. La proposta della legge Siani, invece, responsabilizza il ministero ad erogare risorse. Le case famiglia hanno la peculiarità di trovarsi in località dove è possibile l’accesso ai servizi territoriali, socio- sanitari ed ospedalieri, e possono fruire di una rete integrata a sostegno sia del minore sia dei genitori. Le strutture hanno caratteristiche tali da consentire agli ospiti una vita quotidiana ispirata a modelli comunitari, tenuto conto del prevalente interesse del minore. L’Icam, l’istituto a custodia attenuata, non è adatto perché prevede restrizioni come un carcere vero e proprio. Non ha le sembianze di un penitenziario, ma è pur sempre una struttura detentiva con tutte le criticità che esso comporta. Il resto dei bambini è in carcere. Di fatto, è impensabile che un bambino libero debba mettere piede dentro un carcere e vivere lì accanto alla madre, in un luogo, che è sempre di detenzione, senza ricevere quei normali stimoli esterni, con il rischio di contrarre malattie. Il vicepresidente Csm: “No al trojan anticorruzione, resti solo contro la mafia” di Errico Novi Il Dubbio, 18 marzo 2023 L’avvocato Fabio Pinelli: “La sovranità dello Stato non deve sfociare in controllo indiscriminato dei cittadini”. Ecco: si sono indicati puntuali progetti di riforma che investono presupposti più stringenti per l’adozione delle misure cautelari, l’inappellabilità delle assoluzioni, la proposta Nordio-Delmastro sul trasferimento dalle celle alle comunità di recupero per i detenuti con tossicodipendenze, il ripristino della prescrizione sostanziale, la revisione di abuso d’ufficio, traffico d’influenze e legge Severino. Considerata la mole di lavoro, ti aspetteresti che a ventiquattr’ore di distanza un presidente di commissione annunci il calendario d’esame di una delle riforme, o che il governo si prepari a varare almeno uno fra i tanti ddl che ci si è impegnati a portare a casa. Nulla di tutto questo. Ma se il centrodestra pare sempre un po’ sospeso fra estemporanee fiammate riformiste e un mood quotidiano spesso impalpabile, è vero pure che il quadro generale non è così fermo. Si registra, in particolare, una non scontata presa di posizione del vicepresidente Csm Fabio Pinelli su uno dei dossier più delicati: le intercettazioni e, nello specifico, i trojan. In un convegno sul tema organizzato da Area, la corrente progressista delle toghe, ieri il vertice di Palazzo dei Marescialli ha ricordato, a proposito del virus spia, che “la sovranità dello Stato non deve sfociare in controllo indiscriminato dei cittadini” e che quindi la “limitazione dell’utilizzo di uno strumento così invasivo ai soli delitti contro la criminalità organizzata mi sembra un punto di equilibrio ragionevole tra le opposte esigenze”. Il rilievo mosso dal vicepresidente del Consiglio superiore è garbato ma “pesante”, considerato che una proposta recente di eliminare il ricorso ai trojan per i reati contro la Pa c’è stata: l’ha avanzata il senatore azzurro Pierantonio Zanettin ma, almeno nella convulsa discussione di fine anno sul decretone Rave, la maggioranza ha finito per rispedirla ai box. Di Pinelli è ben nota la chiara ispirazione garantista di avvocato, ed è altrettanto riconosciuta la sua autorevolezza di studioso. Il suo intervento è stato chiuso da un richiamo che suona come una variante della lezione di Sciascia. “È vero che senza le intercettazioni non si potrebbero scoprire alcuni reati, ma è altrettanto vero che, come disse Aharon Barak, giudice della Corte suprema israeliana, “una democrazia matura deve avere il coraggio di combattere il crimine con una mano legata dietro la schiena”, senza cioè disporre di tutti gli strumenti che il potere può attivare, altrimenti al cittadino non resta più nulla”. È un discorso davvero così pericoloso, per il centrodestra, da rivendicare? I rimasugli della Trattativa nelle dietrologie su Messina Denaro di Riccardo Lo Verso Il Foglio, 18 marzo 2023 La cronaca smonta i fuochi di paglia sul boss latitante in grado di ricattare lo stato. Un aggiornamento dell’antimafia militante che continua a indirizzare l’opinione pubblica: ma è ancora credibile chi parla come in un film hollywoodiano? “A oggi i Van Gogh sono due, l’altro fu il 29 novembre 2021”: firmato Matteo Messina Denaro. Il riferimento al pittore dei girasoli per qualcuno ha rappresentato l’ultima occasione, il colpo di coda per rinverdire l’epopea malsana del latitante ormai al capolinea dell’arresto. Un artista tormentato, un padrino in fuga, la possibilità di funamboliche connessioni. Che delusione! Altro non erano che le immagini della copertina del quadernetto su cui il capomafia appuntava ogni cosa, comprese le riflessioni esistenziali e le divergenze di vedute con la figlia. Rapporto conflittuale il loro, a giudicare dagli scritti. Anche questo quaderno, e un altro migliaio di pizzini, adesso è in mano ai carabinieri del Ros che hanno arrestato il capomafia il 16 gennaio scorso all’esterno della clinica La Maddalena di Palermo. Luogo di processione, la struttura sanitaria, per i malati di tumore. Si mettono tutti in fila, siano essi cittadini anonimi o pericolosi latitanti, con la stessa speranza di averla vinta o quantomeno di resistere. La cronaca è uno schiaffo al torpore collettivamente indotto articolo dopo articolo, trasmissione dopo trasmissione, libro dopo libro. È venuta fuori la normalità del boss, se davvero normalità può esserci nella vita di chi ha ucciso uomini, donne e bambini e scappava da trent’anni. Scappava, appunto. Le modalità dell’arresto hanno al momento silenziato (qualche rigurgito di complottismo è sempre dietro l’angolo, mai recitare il de profundis) i retroscenisti di professione. Quelli che sanno tutto prima degli altri. Sapevano che Messina Denaro non veniva cercato, che era meglio non stuzzicarlo perché è il depositario dei segreti d’Italia, della chiave dei misteri della Repubblica. Se fosse stato trattato male avrebbe spifferato ogni cosa, minando le fondamenta del paese. Insomma un ricattatore che tiene per il collo da decenni i rappresentanti delle istituzioni. Che poi, a pensarci bene, chi dovrebbero essere costoro? Il tempo fugge via inesorabilmente per tutti, anche per i cattivi. Per ultimo, quando la caccia è finita, si è fatta strada la tesi che Messina Denaro si sia consegnato in cambio di favori, per se e per gli altri. Misure carcerarie più morbide, niente ergastolo ostativo, magari qualche permesso premio nel contesto di un do ut des maleodorante. Altro non è che un aggiornamento della immarcescibile trattativa fra la mafia e lo stato che ha segnato non solo una lunga stagione giudiziaria, andata a sbattere contro i giudicati delle sentenze, ma anche il modo di leggere le cose. O meglio, di indirizzarle. Prendete Salvatore Baiardo, gelataio di Omegna, in Piemonte, ma di origini palermitane, arrestato tre decenni fa per avere favorito la latitanza dei fratelli Graviano di Brancaccio, stragisti della stessa ala corleonese di cui faceva parte Matteo Messina Denaro. Baiardo è stato invitato nei tribunali paralleli delle televisioni ad annunciare che il boss stava male e presto si sarebbe fatto arrestare. A cose fatte è tornato nei talk-show per incassare, tra lo stupore generale, la patente di credibilità per la profezia avveratasi che gli spalancherà le porte di chissà quante altre ospitate. Tralasciando la sua inattendibilità già processualmente certificata, che Messina Denaro fosse malato si scriveva da tempo (dai problemi agli occhi a quelli renali), poi il destino ha voluto che si ammalasse di tumore. Che lo stessero per arrestare si annunciava un giorno sì e l’altro pure. Prima o poi qualcuno doveva pur azzeccare il ripetitivo pronostico. Si è rivisto Gaspare Mutolo, pentito della vecchia mafia, fuori dai giochi da decenni (in caso contrario sarebbe sì gravissimo), a cui l’arresto di Messina Denaro è sembrato “una messinscena, più un appuntamento” perché “nel governo ci sono le persone più buone d’Italia, ma in mezzo a loro c’è sempre qualcuno… la Trattativa stato-mafia è ancora in corso”. Mutolo di fatti investigativi da raccontare non ne ha più. Gli restano le memorie di una stagione cancellata da arresti e condanne, le sofferenze e i sensi di colpa. Così si addentra nella nebbia dei ricordi che a distanza di decenni nessuno può confermare né smentire, come quelli sull’interrogatorio che Mutolo fece nel luglio 1992 in gran segreto, a Roma, con Paolo Borsellino. Il magistrato ricevette una telefonata e dovette precipitarsi dal ministro dell’Interno Nicola Mancino. Lo stesso Mancino tirato dentro il processo sulla Trattativa con l’accusa di avere mentito e totalmente scagionato. La situazione raccontata da Mutolo era parecchio scenografica. Borsellino tornò dall’incontro ed era infuriato. Per calmarsi dovette “fumare due sigarette insieme”. Poi fece una confidenza al pentito che gli stava seduto di fronte. Fuori dalla stanza del ministro c’era Bruno Contrada (ex numero tre del Sisde). Sapeva dell’interrogatorio segretissimo. Un resoconto che finisce nel limbo delle cose impossibili da verificare. L’ipotesi che Messina Denaro si sia consegnato ha la forza delle idee dei terrapiattisti. Il riferimento non è casuale. Lo ha citato, qualche giorno dopo l’arresto del capomafia, Maurizio De Lucia, il procuratore di Palermo che ha coordinato le indagini assieme all’aggiunto Paolo Guido. De Lucia ha paragonato le opinioni, definite “rispettabili” in uno slancio di magnanimità, a quelle “di chi dice che la terra è piatta”. “Io so come lo abbiamo arrestato”, ha aggiunto rispondendo a chi pontifica in televisione, “che non fa indagini da dieci anni e viene a dirci come si fanno”. Prima ne ha parlato a un incontro con gli studenti e poi ha scelto la pomposità della parata dell’inaugurazione dell’anno giudiziario per provare a mettere un argine alle suggestioni. Una lettura più sottile dei fatti, nei giorni successivi al blitz, l’ha fornita Roberto Scarpinato, ex magistrato antimafia e oggi senatore del Movimento 5 Stelle. L’arresto di Messina Denaro inquadrato come “uno scambio di prigionieri”. Il capomafia detenuto “in cambio” della futura scarcerazione di altri pezzi da novanta sepolti all’ergastolo. “Non è che Matteo Messina Denaro non era più il capo - ha detto Scarpinato - ma c’è una struttura che va al di là di Matteo Messina Denaro che dice ‘è chiusa, è finita, questo è il momento in cui tu ti devi fare arrestare’. E anche Matteo Messina denaro deve obbedire”. Quindi una trattativa c’è stata, ma nella nuova versione tutta interna a Cosa nostra all’ombra del “deep state” (lo stato occulto popolato da traditori), volendo usare le parole usate dallo stesso Scarpinato. Il surreale spettacolo della dietrologia degli opinionisti è andato avanti per quasi due mesi, poi si è capito cosa volesse dire il procuratore con la frase “io so come lo abbiamo arrestato”. Lo scorso dicembre i carabinieri del Ros sono andati a casa della sorella di Messina Denaro, Rosalia, per piazzare una microspia nel bagno, divenuto luogo di incontri. Non era la prima e non sarebbe stata neppure l’ultima cimice se la donna non avesse commesso un errore imperdonabile disattendendo il diktat del fratello di distruggere i pizzini dopo averli letti. E invece la più grande delle quattro sorelle dell’ex latitante li conservava o li ricopiava, compreso il diario clinico del fratello con le operazioni e le cure a cui si è sottoposto. Come si è arrivati all’arresto? Chiedevano i cronisti il giorno dell’affollata conferenza stampa nella caserma che ospita la legione carabinieri di Sicilia e che prende il nome dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, a Palermo. L’evasività delle risposte - non era il momento di svelare dettagli - era stata subito tacciata di fregatura e patti sporchi. Ed invece c’era una ragione investigativa: anche la sorella sarebbe stata da lì a poco arrestata. E il covo, perché non è stato subito perquisito?, chiedeva qualcun altro nel tentativo di imbastire il remake del rifugio di Totò Riina. Ed invece i carabinieri ci sono andati subito, così come negli altri immobili riconducibili a Messina Denaro. La verità è che sono stati bravi, e anche fortunati (audentes fortuna iuvat), i carabinieri a trovare nella gamba di una sedia il pizzino che Rosalia conservava gelosamente sullo stato di salute del boss. Consultando le banche dati ministeriali che raccolgono i codici dei malati di tumore si è arrivati alla cattura. Non c’è trucco e non c’è inganno anche se risulta difficile accettarlo, specie a coloro che hanno costruito l’epopea del latitante. Leader di una holding che vale quattro miliardi di euro. Capo di un impero economico che va dal fotovoltaico alle imprese agricole. Boss giramondo che se la spassava grazie al patto con servitori infedeli di uno stato che fingeva di cercarlo e invece lui aveva in tasca il salvacondotto del ricatto. Non sono bastati i mille arresti, compresi fratelli, sorelle e nipoti. Anzi il fatto che all’appello mancasse solo lui alimentava le dietrologie. La realtà è ben diversa. Non hanno smesso di cercarlo. Al contrario a un certo punto c’è stato un controproducente (involontario) accerchiamento ed è stato necessario regolare il traffico degli investigatori per evitare che si pestassero i piedi. Le piste più concrete andavano salvaguardate. Messina Denaro era un boss braccato, tanto da sentirsi - così scriveva - “perseguitato dallo stato”. Sbraitava quando un’altra sorella, Patrizia, e il nipote Francesco Guttadauro, nel 2013, finirono in carcere. Vittime, anche loro, di uno stato “prima piemontese e poi romano” che ha costruito la bugia che “noi siamo il male e loro il bene”. “Ad ogni nuovo arresto - scriveva ancora il padrino - si allarga l’albo degli uomini e donne che soffrono per questa terra”. Un giorno però “la storia ci restituirà quello che ci hanno tolto in vita”. No, non parla così un uomo che gode della protezione di stato. E non parla così neppure la sorella, suo alter ego. “Fanno schifo, ti insultano, dopo avere arrestato persone a te care, lo fanno apposta”, rincarava la dose Rosalia a cui il fratello smistava ordini e indicazioni su come evitare di essere scoperti. Dagli scritti di Messina Denaro viene fuori la sua attenzione maniacale per proteggere le sue comunicazioni. Dal disegnino con le indicazioni su come appendere uno straccio per indicare un luogo non sicuro da cui girare alla larga ai nomi in codice. E ci sarà stata pure qualche talpa in divisa a fornirgli le dritte giuste per non essere intercettato, ma ciò non giustifica il tentativo di sminuire o, peggio, denigrare il lavoro di chi la divisa la indossa con onore e sacrificio. Nel frattempo i Messina Denaro cercavano soldi. Il titolare di un impero miliardario aveva bisogno di immediata liquidità e così imponeva, probabilmente a un imprenditore, di dargli 40 mila euro per rimpinguare il fondo cassa. Aveva avuto delle spese impreviste. Anche questo è un segno di normalità. Come riusciva a fare circolare i pizzini? Quando i tempi saranno maturi si capirà anche il funzionamento della rete di trasmissione delle comunicazioni e cadrà, c’è da starne certi, pure il tema che giorno dopo giorno sta montando. Qualcuno al momento lo sussurra: com’è possibile che veicolasse migliaia di pizzini a casa sua e nessuno se ne sia mai accorto? Le risposte investigative arriveranno. Un’altra domanda, piuttosto, resterà inevasa: è ancora credibile l’antimafia che ha dipinto la mafia come un film hollywoodiano? L’antimafia che mette in guardia dal “regalino” che stanno per fare ai mafiosi che hanno tradito e fatto arrestare Messina Denaro (c’è anche questa teoria in circolazione): salterà il 41-bis. E allora esulteranno i Bagarella, i Calò, i Graviano e tutti gli altri 238 boss siciliani sepolti al carcere duro dove sono rimasti, fino all’ultimo respiro, capimafia come Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ecco perché non stupiscono il proliferare dei Baiardo di turno e la capacità di fare presa che hanno le idee strampalate. Salvatore Borsellino, ad esempio, ha rilanciato la congettura che esistano più copie dell’agenda rossa trafugata al fratello. Sono finite in mano ai servizi segreti e ai capimafia. Magari ne possiede un multiplo lo stesso Matteo Messina per fare rispettare il patto che lo stragista arrestato ha siglato con lo stato. Della serie: si arrende, ma… Nulla c’è dopo il “ma”. La cronaca ha riportato nell’alveo della “normalità” la vita del capomafia. La realtà cancella il mito che dell’ultimo dei padrini latitanti è stato costruito, a cominciare dalla protezione di stato di cui avrebbe goduto, malgrado i retroscenisti della mafia da cinematografo gorgheggino nei salotti televisivi e si emozionino quando un Van Gogh spunta nella vita “normale” del sanguinario stragista. “Mio papà Enzo Tortora? Sarebbero bastate 48 ore per capire che le accuse dei pentiti erano false” di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 18 marzo 2023 Gaia Tortora, la figlia del popolare giornalista: “Vidi che i suoi occhi non erano più gli stessi. Piero Angela per me fu un secondo papà”. “Ironico ma tagliente, riservato, mai mondano, fumantino. E poi dolce, comprensivo, attento. Ma questo era prima. Il dopo era uguale tranne che negli occhi. Ecco, gli occhi poi sono diventati diversi”. C’è un prima e un dopo nella vita di Gaia Tortora. Il dopo comincia un giorno che non potrà mai dimenticare: 17 giugno 1983. Quel giorno suo padre viene arrestato con l’accusa di traffico di stupefacenti per la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Lei aveva 14 anni. Che cosa ricorda? “Avevo l’esame di terza media e quindi ero andata a scuola a piedi. In casa c’era grande agitazione ma io non ci ho fatto caso. Dovevo essere la sesta e invece mi hanno interrogata per prima. Non capivo, non volevo. E invece ho dovuto farlo. Quando ho finito e mi sono girata ho visto che c’era mia sorella Silvia. Andiamo a casa. Me l’hanno detto quando siamo arrivate: papà è stato arrestato. Non riuscivo a crederci, pensavo a uno scherzo”. Lei ha scritto un libro che uscirà il 21 marzo per Mondadori, “Testa alta, e avanti”. Perché proprio adesso? “Ho sempre tenuto tutto per me. Un giorno sono andata in tv e ho parlato del sistema dell’informazione. Dopo poco mi hanno fatto questa proposta. Mentre ero nello studio televisivo mi sono sentita una marziana. Anche un po’ rompicoglioni e matta. Ho avuto la sensazione di essere fuoriposto o sopportata. E allora ho deciso di accettare”. Lei scrive che per suo padre c’è stata malagiustizia, ma anche malainformazione. Che vuol dire? “Quando mio padre è uscito dalla caserma dei carabinieri con le manette ai polsi erano tutti accaniti. Urlavano, qualcuno l’ha insultato. Ma io mi riferisco soprattutto a quello che è successo dopo. Era chiaro fin dall’inizio che l’inchiesta fosse piena di incongruenze e nessuno ha voluto vedere. Nessuno si è mai posto domande. E allora chiedo adesso: come mai soltanto Vittorio Feltri si prese la briga di leggere gli atti e scrivere che forse la realtà non era come la stavano raccontando?”. Lei che risposta si è data? “Mio padre in quel momento era l’uomo più popolare d’Italia. La sua trasmissione aveva ascolti che oscillavano tra i 28 e i 30 milioni di telespettatori. Un risultato mostruoso, ora vedo persone esultare quando arrivano a un milione di spettatori. Dava fastidio, ma nello stesso tempo parlare di Tortora faceva fare un salto di qualità ai pentiti e all’inchiesta. Per questo dico che c’è stato dolo”. Occuparsi di cronaca giudiziaria vuol dire anche riscontrare le accuse. Non lo hanno fatto i magistrati, non lo hanno fatto i giornalisti... “E invece sarebbero bastate quattro verifiche sulle cose che raccontavano i pentiti e in 48 ore tutto si sarebbe chiarito. Ne cito soltanto due così si comprende bene. Nell’agendina di Giuseppe Puca, uomo di Cutolo, erano riportati due numeri di tale “Enzo Tortona”, che nei verbali diventò “Enzo Tortora”. Eppure nessuno si prese la briga di controllare, di provare a chiamare. Il giorno in cui Gianni Melluso raccontò di aver consegnato a mio padre una scatola di scarpe piena di droga in realtà era rinchiuso nel carcere di Campobasso. Ma questo fu Feltri a scoprirlo, non i magistrati”. Volevano fargliela pagare? “Mio padre non aveva peli sulla lingua, non faceva la vita della tv. Aveva solo tre amici - Piero Angela, Mario Pogliotti e Gigi Marsico - e soprattutto era molto deluso dalla Rai, lo disse pubblicamente. Ma era comunque un soldato e la Rai rimaneva la sua casa, tanto che dopo essere andato via dall’azienda aveva deciso di tornare”. A Melluso che chiese scusa e disse mi inginocchio davanti alla famiglia, lei ha risposto: rimanga pure in piedi. Dopo tanti anni c’è spazio per il perdono? “Lo ripeto a lui e a tutti gli altri come lui: rimangano in piedi”. Com’era suo padre con voi? “I miei genitori si sono separati quando io avevo pochi mesi, però lui c’è sempre stato. Era severo, esigente, ma anche molto tenero. Ricordo che amava andare a letto presto. Non era mondano. Quando facevamo cene con amici alle 21.30 salutava tutti e andava via. Dopo è cambiato tutto. Anche per me. Esci di casa e hai una vita. Torni a casa e tutto è finito. Io ho smesso di parlare, ho ricominciato a respirare dopo ore grazie a Piero Angela”. Andavate a trovarlo in carcere? “Ci scrivevamo lunghe lettere. Soltanto dopo ho capito che in questo modo cercava un dialogo con me, di tenere il filo con una 14enne e non era facile. Lui aveva dato un compito a ognuna di noi e questo ci ha consentito di riorganizzarci nel dolore. A me aveva chiesto di controllare che tutto andasse bene, era gravoso ma mi inorgogliva”. Anni di calvario, poi l’assoluzione... “Purtroppo l’assoluzione non è servita a cancellare il dolore. Anzi, se possibile ha acuito la sensazione di ingiustizia. Del resto nulla avrebbe mai potuto ripagarlo per ciò che aveva subito. Mio padre non è mai più stato lo stesso uomo. È tornato in tv, ha fatto ripartire Portobello con la frase ormai famosa “dove eravamo rimasti”. Ma i suoi occhi velati mostravano bene quel che era accaduto”. Perché decise di tornare a Portobello? “Quello era il suo posto. Berlusconi lo aveva chiamato, gli aveva offerto tantissimi soldi, ma lui voleva ricominciare da dove aveva lasciato”. Come era cambiato? “Nulla era uguale a prima, nonostante tutti provassimo a fingere. Ricordo un viaggio in Africa tutti insieme. Una sera eravamo in un ristorante e mio padre scoprì casualmente che il proprietario era un italiano in fuga dalla giustizia. Chiese il conto e andammo via mentre stavamo mangiando la pizza. Lo avrebbe fatto anche prima, lui era rigoroso, ma la fretta di quella sera mi fece capire quanto fosse diventato importante per lui mettere la distanza da tutto quello che poteva diventare un problema”. Chi vi è stato più vicino? “Piero Angela che poi per me è diventato come un secondo padre. Ancora adesso sua moglie Margherita è presente nella nostra vita. Quando lui e Silvia sono mancati si è aperto un baratro. E poi voglio ricordare quei giornalisti, pochi, che lo hanno difeso. Montanelli, Biagi, Bocca hanno avuto il coraggio di denunciare che cosa avevano fatto i magistrati. Oltre a Feltri che, come ho detto, lo ha fatto quando tutti erano allineati”. Poi è arrivata la malattia... “È durata un anno e poi è morto. Dentro di lui era esplosa una bomba. Tutti noi abbiamo pagato un prezzo altissimo. Mia sorella Silvia ci ha lasciati a 59 anni, proprio come papà”. Nel libro lei racconta per la prima volta i suoi attacchi di panico... “Per anni ho subito in silenzio, ho accumulato. Finché il mio corpo non mi ha dato un segnale e ho capito che dovevo affrontare il trauma. È successo quando avevo 40 anni. Soltanto allora ho cominciato a volermi bene”. La sua decisione di diventare giornalista è stata una rivalsa? “No, una scelta per dimostrare che l’unico modo per fare questo mestiere è porre, ma soprattutto porsi, domande. E seguire l’insegnamento di mio padre che trattava tutti con lo stesso rispetto, al di là dei ruoli e degli incarichi. Mi piacerebbe credere che chi incappa in questo tipo di incubo non si senta solo. Perché la solitudine della battaglia e dell’ingiustizia è un tatuaggio indelebile”. Rapimento Moro, quei complottisti a caccia di fantasmi di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 18 marzo 2023 Sono passati quarantacinque anni esatti dal sequestro di Aldo Moro e dalla strage della sua scorta, ma i dietrologi e gli illusionisti di ogni risma non riescono proprio ad accettare il fatto che a rapire e a uccidere il presidente della Democrazia cristiana furono le Brigate rosse e nessun altro. A quasi mezzo secolo di distanza da quei tragici eventi continuano infatti ad evocare cospirazioni, manipolazioni, regie occulte, disturbati dal pensiero che un piccolo manipolo di operai e studenti di bassa estrazione sociale abbia tenuto sotto scacco lo Stato e i suoi apparati per così tanto tempo. La chiamavano “geometrica potenza” dell Br una bella suggestione letteraria, in altri termini il nome che lo Stato aveva dato alla sua incapacità di comprendere e contrastare il fenomeno brigatista, ma quell’immagine di efficienza militare attribuita dalla politica e dal circo mediatico all’organizzazione comunista armata ha alimentato con enorme successo il filone del complottismo. Non stiamo parlando solamente del flusso di opinione qualunquista e gelatinoso che scorre sui social, dei discorsi da bar o delle ossessioni degli “specialisti” della congiura come Sergio Flamigni o Paolo Cucchiarelli che su questi giochetti di ombre cinesi agitate attorno all’affaire Moro hanno costruito una discreta carriera. La caccia ai fantasmi di via Fani è purtroppo uno sport ancora in voga anche ai più alti livelli politici e istituzionali. Illuminante in tal senso è stato il lavoro della Commissione Moro II con la sua fissazione di voler scovare a tutti i costi il Dna di individui estranei alle Br sul luogo dell’attentato per suffragare l’ipotesi di complotto. Come nel plot twist di un film hollywoodiano i commissari di Palazzo San Macuto speravano di far emergere verità scottanti e inconfessabili, magari illuminando la longa manus dei servizi segreti, o addirittura quella delle centrali di intelligence straniere: la Cia, il Kgb, e persino gli israeliani del Mossad come sostenne l’ex Pubblico Ministero di Genova Luigi Carli in una memorabile audizione davanti alla Commissione. Un fronte di indagine, quello genetico, affidato al Reparto investigazioni speciali dei carabinieri, il celebre Ris, che ha messo a confronto le tracce biologiche rinvenute in via Fani con quelle presenti nel covo brigatista di via Gradoli 96. Le analisi però non confermano nessun sospetto evocato dalla Commissione, al contrario denudano diverse fake news che negli anni hanno tentato di smontare senza successo la “versione ufficiale”. In primo luogo nel covo non è stato ritrovato nessun frammento del Dna di Moro (i quattro profili genetici isolati dal Ris, due maschili e due femminili, non coincidevano con quelli prelevati ai familiari dello statista Dc), il che smentisce chi afferma che il leader democristiano fosse stato imprigionato o comunque avesse transitato anche per via Gradoli: in tutti i 55 giorni del sequestro rimase nella “prigione del popolo” di via Montalcini come hanno sempre affermato i brigatisti coinvolti. Inoltre nei reperti di via Gradoli emerge una “compatibilità biologica” con il l Dna della brigatista Adriana Faranda, un’altra conferma di quanto sostenuto dai protagonisti: nella base avevano vissuto infatti tre coppie, Carla Maria Brioschi e Franco Bonisoli, Adriana Faranda e Valerio Morucci, Barbara Balzerani e Valerio Morucci, questi ultimi proprio durante i giorni del rapimento dopo che l’appartamento di Piazzale Vittorio Poggi in cui vivevano si era “bruciato”. Anche l’inseguimento dei “tabagisti” sulla scena del delitto si è rivelato un flop: le analisi dei 39 mozziconi ritrovati nella Fiat 128 targata corpo diplomatico utilizzata in via Fani per bloccare le automobili di Moro e della sua scorta isolano infatti le tracce genetiche di Nando Miconi, il proprietario del mezzo rubato, su alcuni mozziconi ci sono invece le tracce miste di Miconi e di un ignoto, con ogni probabilità un suo amico o conoscente. Sono soltanto dieci i mozziconi riconducibili a sei ignoti, ma poiché nessuno ha mai visto uscire sei persone dalla Fiat 128 la mattina del 16 marzo 1978, con tutta evidenza le tracce sui mozziconi appartenevano anch’esse a conoscenti del proprietario. Nel 2021 il fascicolo sui tabagisti viene ereditato dalla procura di Roma la quale convoca quei brigatisti che inizialmente si erano rifiutati di fornire alla Commissione i loro profili genetici. Un accanimento che secondo Enrico Triaca, il “tipografo” delle Br “è un tentativo di distrarre l’attenzione dalle vere verità come le torture”. Arrestato il 17 maggio del 1978, otto giorni dopo la morte di moro, Triaca venne in effetti torturato dal funzionario di polizia Nicola Ciocia, il cosiddetto “professor De Tormentis” che lo sottopose al waterboarding, la stessa tecnica utilizzata dalla Cia per far parlare i sospetti jihadisti e proibita da qualsiasi convenzione internazionale Convocazioni pittoresche quelle della procura romana, basti pensare a Corrado Alunni, fuoriuscito dalle Br addirittura nel 1974 o a Giovanni Senzani che non è mai stato un fumatore. In tutto furono una dozzina abbondante gli ex Br convocati, la maggior parte condannati in via definitiva per il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro. Cercando di comprendere l’utilità di simili test, siamo ancora in attesa degli esiti dei nuovi accertamenti genetici visto che l’inchiesta della procura è ancora in corso. Un altro brutto autogol della Commissione riguarda il testimone Alessandro Marini: nessuno aveva sparato contro di lui in via Fani e il parabrezza del suo motorino Boxer Piaggio si era rotto a causa di una caduta dal cavalletto avvenuta nei giorni precedenti. Peraltro, e questo particolare la dice lunga su quanto il furore cospirazionista flirti con il cinismo, il presidente della Commissione Fioroni non hai mai contattato la procura perché avviasse la revisione delle condanne per il tentato omicidio di Marini, tentato omicidio che logicamente non è mai avvenuto. “Niente galera, la sua pena è il dolore per il reato commesso” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 18 marzo 2023 Il giudice chiede alla Consulta di valutare il non luogo a procedere per la morte di un operaio della sua impresa. “Era suo nipote, ha già sofferto troppo”. Il caso giudiziario è delicato e fa emergere questioni di tipo penalistico che non possono prescindere dal legame tra i soggetti coinvolti - un datore di lavoro ed un operaio, nipote del primo, morto dopo una caduta - con un dibattito da parte dei giuristi che si annuncia di estremo interesse. Ecco perché dovrebbe intervenire anche la Corte Costituzionale. La vicenda. Un datore di lavoro è accusato di omicidio colposo per la morte del nipote, operaio deceduto a seguito della rovinosa caduta da un tetto. Il giudice della prima sezione penale del Tribunale di Firenze, Franco Attinà, evidenzia che il datore di lavoro, a proposito della condotta assunta, ha già patito una sofferenza morale proporzionata alla gravità del suo reato, con la conseguenza che una ulteriore pena inflitta con la sentenza di condanna sarebbe sproporzionata. Insomma, argomenta il magistrato, la persona accusata di un reato grave ha già sofferto. I dubbi che arrovellano ogni giurista attento rispetto a quanto succede nel mondo reale richiedono un approccio sensibile e competente. Il giudice Attinà, nelle venticinque pagine della propria ordinanza, depositata il 20 febbraio scorso, chiede che ad occuparsi della vicenda sia la Consulta. La questione di costituzionalità sollevata, come spiega lo stesso magistrato in un articolo pubblicato su “Giurisprudenza penale web”, ha per oggetto l’articolo 529 del Codice di procedura penale. Per la precisione la parte della norma che “per i procedimenti relativi a reati colposi, non prevede la possibilità di emettere sentenza di non doversi procedere, allorché l’agente, in relazione alla morte di un prossimo congiunto, cagionata con la propria condotta, abbia già patito una sofferenza proporzionata alla gravità del reato commesso”. Snodo fondamentale del caso affrontato dal Tribunale di Firenze è la poena naturalis. “Siamo nell’ambito - scrive Attinà nell’ordinanza - di uno dei casi più importanti, forse il più rilevante, di poena naturalis, dovendosi intendere con tale espressione il male - di carattere fisico, morale o economico - che l’agente subisca per effetto della sua stessa condotta illecita (male che egli si autoinfligge o che gli viene inflitto da terzi, al di fuori della reazione sanzionatoria dell’ordinamento, in ragione della sua condotta)”. L’ipotesi è quella in cui in cui l’autore del reato è anch’egli vittima, direttamente o indirettamente, del reato stesso. Attinà richiama, tra gli altri, i casi della madre condannata per omicidio colposo in relazione alla morte per annegamento del figlio minore, su cui aveva omesso la vigilanza, e quello del nipote condannato per omicidio colposo in relazione alla morte dello zio cagionata nel corso dei lavori di abbattimento di un albero. A questo punto emerge una argomentazione molto profonda con al centro l’imputato. “Tutti casi - commenta il giudice della prima sezione del Tribunale di Firenze - che hanno in comune la tragicità della vicenda, nell’ambito della quale l’autore del reato ha già patito una sofferenza morale, in relazione alla morte del congiunto, tale da rendere sproporzionata e inutilmente afflittiva la risposta sanzionatoria penale in danno di persone già (ben più) gravemente segnate dall’evento letale. Situazioni a fronte delle quali, tuttavia, l’ordinamento non contempla alcuna possibile rilevanza della “pena naturale”, se non nei limiti generali del possibile riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche o nell’ambito della commisurazione giudiziale della pena”. Secondo Paola Pasquinuzzi, avvocata del Foro di Firenze, il provvedimento del giudice Attinà pone all’attenzione una serie di questioni molto delicate. “L’ordinanza del Tribunale di Firenze - dice al Dubbio - va a toccare la sofferenza morale di un soggetto autore di un reato. Il giudice ha fatto un accertamento dibattimentale, affermando alla fine che ci sarebbe stata la prova della configurabilità del reato. Si sofferma però anche sul rapporto di consanguineità con la persona deceduta ai fini della condanna o di una sentenza di non doversi procedere. Il giudice si pone la domanda se astenersi o meno dal comminare una pena, così come è stabilito per legge. Per questo solleva la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 529 del Codice di procedura penale”. L’ordinanza di Firenze è molto innovativa, “nel senso che fino ad oggi nessuno aveva mai preso in esame la pena naturale, in questo caso la sofferenza”. “Il fatto - aggiunge l’avvocata Pasquinuzzi - che un giudice entri nel mondo delle emozioni, del dolore, si parla addirittura di rimpianti, è sinceramente una questione molto interessante. Il caso che stiamo esaminando ha al centro uno zio-datore di lavoro, che rappresentava il punto di riferimento per la vittima e per la sua famiglia”. Un ultimo tema è quello dei margini di manovra del giudice. “La facoltà di astenersi dal condannare - conclude Paola Pasquinuzzi - sarebbe una cosa piuttosto rivoluzionaria, ma lascerebbe una discrezionalità al giudice eccessiva. Quali sarebbero i limiti in cui il giudice potrebbe usufruire di questa facoltà di astenersi? È un tema davvero dirompente, perché va toccare le corde profonde dell’individuo”. Il diritto fondamentale al mantenimento alle relazioni familiari del detenuto sottoposto al 41 bis brocardi.it, 18 marzo 2023 Il reo sottoposto a regime di cui all’art. 41 bis ord. pen. mantiene il diritto al colloquio con i familiari, anche se sottoposti al medesimo regime carcerario. Con la pronunzia n. 48956 del 28 ottobre 2022 (depositata in data 23 dicembre 2022), la Corte di Cassazione, sezione penale, ha ribadito la centralità del diritto del detenuto, sottoposto al regime differenziato di cui all’ art. 41 della l. sull’ordinamento penitenziario al mantenimento delle relazioni familiari, pur se sottoposti al medesimo regime restrittivo. Trattasi, difatti, di diritto fondamentale, espressione della personalità del detenuto, il quale, sebbene tale, resta al contempo cives, e pertanto titolare di diritti. All’interno della sentenza in esame, la giurisprudenza ha nuovamente chiarito che il diritto del detenuto alla preservazione delle relazioni familiari non è sacrificabile sull’altare della prevenzione: in altri termini, non è possibile per mere esigenze preventive (ossia, al fine di evitare condotte delinquenziali reiterate, attraverso l’ausilio dei familiari colloquianti) vietare al singolo detenuto, sebbene in regime carcerario speciale (ex art. 41 bis ord. Pen.), di continuare ad intrattenere le relazioni familiari. Il detenuto in regime speciale mantiene il diritto di vedere ed interloquire con i parenti più stretti, sebbene attraverso modalità di video sorveglianza controllate. Secondo l’ultimo filone della giurisprudenza di legittimità, si afferma la necessità di operare un bilanciamento di interessi tra le esigenze preventive dello Stato e quelle personali del detenuto: in particolare, è comunque possibile sacrificare le esigenze personali del detenuto in nome della sicurezza collettiva; tuttavia, non è possibile dequotare le stesse completamente, a seguito della necessità di garantire la prevenzione della condotta penalmente rilevante (Cass. pen., sez. I, 11 giugno 2021, n. 29007). Alla luce di suddette premesse, si deduce che la Corte di Cassazione, in tal sede, si pone in linea di continuità con un recente orientamento della giurisprudenza di legittimità, il quale ribadisce il diritto del detenuto ex art. 41 bis Ord. Pen. ad intrattenere ogni forma di stretto rapporto familiare, tanto genitoriale quanto parentale (Cass. pen., sez. I, 24 giugno 2022, n. 31634). In particolare, se il detenuto è genitore, ha diritto di vedere e parlare con i figli, specie se minori. In particolare, per questi ultimi l’ordinamento garantisce il diritto di vedere e frequentare (sebbene secondo i limiti della detenzione) la figura genitoriale detenuta, al fine di non coltivare, e non interrompere, i rapporti familiari ([[2Cost]]). Il detenuto conserva anche il diritto di vedere ed interloquire con i soggetti familiari stretti (genitori, fratelli e/o sorelle), sia se questi ultimi siano in stato di libertà, che di detenzione: la giurisprudenza di legittimità, in particolare, ad oggi riconosce il diritto del detenuto ex art. 41 bis Ord. Pen. ad interloquire anche con familiari sottoposti a medesimo regime carcerario, sia per via telefonica che de visu (Cass. pen., sez. I, 12 dicembre 2014, n. 7654). Il riconoscimento del diritto alla continuazione dei rapporti familiari trova giustificazione anche nella voluntas legis, essendo che il paragrafo 16. 2 della Circolare dipartimentale del 2 ottobre 2017, in relazione ai detenuti sottoposti al regime differenziato di cui all’art. 41 bis Ord. Pen., dispone che “eventuali richieste di colloqui telefonici con altri familiari ristretti in regime di 41-bis e non, saranno generalmente accolte, salvo che dal parere non vincolante, richiesto alla competente DDA, emergano concreti e rilevanti elementi che ne sconsiglino l’effettuazione”. Pertanto, secondo la disposizione normativa, la direzione di istituto carcerario può concedere il colloquio dall’internato con i familiari, ovvero negarlo in caso di situazioni di pericolo, ovvero per ragioni special preventive, previo assenso della magistratura di sorveglianza, nonché della Direzione distrettuale antimafia. La giurisprudenza di legittimità, pur riconoscendo, in suddette limitate forme, la continuità dei rapporti familiari dell’internato, pone a questi stringenti limiti procedurali: il detenuto ex art. 41 bis Ord. Pen., difatti, non è completamente libero di frequentare l’ambiente familiare, essendo comunque necessario, per esigenze preventive, controllare e monitorare le conversazioni tenute. In particolare, se avvengono de visu (attraverso incontri ravvicinati), è necessario che nel luogo dei colloqui siano presenti gli addetti appartenenti alle Forze dell’ordine, i quali hanno l’obbligo di intervenire, ovvero informare il Pubblico ministero, in caso di movimenti sospetti e/o conversazioni ambigue. Anche nelle mere conversazioni telefoniche, che si svolgano a distanza, è necessario il controllo vocale della telefonata da parte del soggetto appartenente alla forma dell’Ordine, il quale avrà l’obbligo di comunicare eventuali messaggi in codice intercettati. Roma. Quando il carcere è al femminile, la storia di Maria Luisa di Maurizio Costanzo luce.lanazione.it, 18 marzo 2023 Cresce il numero delle donne dietro le sbarre, in Italia sono 2.425 su un totale di 56.319 reclusi. A Rebibbia 3 docce per 180 detenute. Nelle carceri italiane, secondo i dati aggiornati al 28 febbraio, sono presenti 2.425 donne, su un totale di 56.319 detenuti. Un numero in crescita, visto che al 31 marzo 2022 erano 2.276 le donne presenti negli istituti penitenziari italiani, pari al 4,2% della popolazione detenuta totale. La detenzione al femminile rappresenta uno degli aspetti più complessi e forse anche meno conosciuti del mondo penitenziario. La complessità deriva dai valori propri della donna che, nel contesto detentivo, amplifica aspetti di fragilità e di sofferenza: pensiamo ad esempio alla lontananza, costretta, dalla cura dei figli. Nella terza puntata della serie sulla vita in detenzione Dietro le Barre III, Chicoria ha parlato con Maria Luisa, arrestata insieme al fratello e alla sorella e detenuta prima a Rebibbia e poi ai domiciliari. Maria Luisa è una storica abitante del quartiere di Trastevere, a Roma. Ha un figlio che adora e al momento lavora come badante. Nel 2018 è stata arrestata per spaccio di cocaina, dopo che alcuni clienti avevano fatto i loro nomi alle autorità. La storia di Maria Luisa - “Ho spacciato per un po’, poi mi hanno arrestato e ho chiuso con questa strada - ha raccontato Maria Luisa -. Io non ero una di quelle che stava a spacciare tutto il giorno. Davo la droga a un giro di poche persone, sei, sette, otto al massimo. Capitava che mi arrivavano dieci pezzi e finiti quelli avevo chiuso la giornata. Sono cresciuta in un posto dove si bucavano, ma non mi sono mai interessata ad altre sostanze. Per me la droga è cocaina, fumo e hashish, non ero una di quelle spacciatrici che vendeva in continuazione: io lo facevo solo per campare, perché dovevo mangiare. Ho perso mio marito che avevo 22 anni. È stata dura”. L’arresto - “Sono stata arrestata insieme ai miei fratelli. Avevano fermato delle persone le quali hanno detto che venivano da me a comprare la cocaina. Mi hanno messo il telefono sotto controllo ad aprile del 2017 e sono stata arrestata a ottobre del 2018 con un blitz. Sono stata in carcere dal 18 ottobre 2018 fino al 19 giugno del 2019, e poi agli arresti domiciliari fino a gennaio del 2021. In primo grado ho preso tre anni, in appello mi hanno tolto sei mesi, il resto l’ho fatto tutto”. La detenzione al femminile a Rebibbia: 3 docce per 180 detenute - “Il carcere ha tante cose brutte, che sono di più delle cose belle, che pure ci sono - racconta Maria Luisa -. Rebibbia ti offre tante attività. Certo c’è il degrado: eravamo 180 detenute con tre docce, ci dovevamo lavare a orario. Una notte abbiamo avvertito un boato, era crollato il solaio del bagno del secondo piano. C’è tanta zozzeria e questa è dovuta pure a chi ci lavora: le detenute prendono lo stipendio ma non puliscono. Come se non bastasse siamo invasi dai topi, dicono che c’è la cucina ma non c’è, e se stai male ti devi comprare le medicine”. Insomma, ci sono disuguaglianze anche in carcere: “Se hai una famiglia che ha i soldi ti fai il carcere, altrimenti - sottolinea Maria Luisa - fai la fame. Ho visto cosa significa povertà e ignoranza. È un posto dove ti devi fare i fatti tuoi”. A Maria Luisa è capitato di sentir dire: “Se domani non mi portano la stessa tuta che hanno portato a te, domani scrivo a casa e ordino di menare tuo padre”. La vita in carcere - Come spiega il programma Dietro le Barre, Rebibbia è il carcere femminile più grande d’Europa, con 321 detenute registrate a inizio 2022. E le risse sono all’ordine del giorno. “La maggior parte delle detenute sono tutte ragazze - ricorda Maria Luisa -. Mi sentivo un po’ una mamma per loro. Alle sei della mattina chiedevo cosa volevano per pranzo e mi tiravano i cuscini perché volevano dormire. Le ho tirate su a carbonare, matriciane, cacio e pepe, pasta e fagioli, cannelloni, insomma di tutto e di più. Ho incontrato tentenni che non avevano né padre né madre, c’erano storie terrificanti. Ho incontrato ragazzine arrestate per droga che avevano 23 anni e sulle spalle da scontare ancora 16, rischia che qualcuna si ammazza. Spesso capita che si prendano a botte, ogni giorno ce n’è una, litigano per delle banalità”. La televisione è ammessa, internet no - La vita da detenuti riserva anche momenti sereni. “Il più bello per me era la mattina del colloquio, quando ti alzavi e dovevi sistemarti, come se dovessi andare chissà dove. Avevo colloquio alle 8 di mattina, per prepararmi mi alzavo alle 6”. Nei penitenziari italiani c’è libero accesso a radio e tv, a internet invece si accede solo in spazi preposti per studio, formazione e saltuariamente per comunicare con l’esterno. “Dopo pranzo si guarda la televisione, Beautiful, Barbara D’Urso, Verissimo. Io barattavo per vedere Un posto al sole. Guardavamo Amici, un must sono gli sceneggiati, e tutti, ma proprio tutti, guardano il programma di Barbara D’Urso e La prova del cuoco”. Lo sport nei penitenziari - “Quando sono stata in carcere - ricorda Maria Luisa - ho avuto modo di giocare in una squadra femminile di calcio. È stata una delle esperienze più belle che ho vissuto. Aspettavo il venerdì per allenarmi. È l’unica occasione in cui vieni vista dagli altri e apprezzata, perché lì, per qualunque cosa tu faccia, non sei apprezzata mai”. L’Atletico Diritti è nato nel 2014 per iniziativa di due associazioni, Antigone e Progetto Diritti. Maria Luisa in quella squadra ha vissuto un giorno indimenticabile: “Il 1 giugno del 2019 abbiamo fatto un torneo e lo abbiamo vinto. C’erano le squadre dell’università - racconta - è venuto a guardarci anche il ministro. C’era la Roma femminile e le giocatrici ci ha regalato palloni e altre cose. A volte ci allenavamo anche due volte a settimana, il sabato si giocava sempre in casa, anche quando andavamo in trasferta, perché non potevamo uscire. Abbiamo vinto il torneo e la cosa bella è che hanno giocato anche quelle che non avevano mai visto un pallone. Giocavamo tutte, non solo quelle brave”. Cos’è l’encomio - I detenuti che si distinguono per particolare impegno nel lavoro, nello studio o nell’aiuto prestato agli altri, sono premiati dal direttore con l’encomio o con la proposta della grazia. “Dopo il torneo - aggiunge Maria Luisa - abbiamo ricevuto l’encomio, che fa passare sopra a tante cose che puoi aver fatto, come un errore, uno sbaglio eccetera. Ma a me non è servito, visto che non mi sono stati concessi tre mesi di buona condotta. Avevo avuto un rapporto disciplinare per aver litigato, dovevo uscire tre mesi prima, invece la casa circondariale Rebibbia mi ha rifiutato la libertà anticipata nonostante l’encomio”. Ci sono attività varie che le detenute svolgono fuori dalla cella: “Ho fatto pilates e un corso di psicologia. C’è la biblioteca, ma là le detenute vanno non per leggere ma per incontrarsi, e litigare. Così avviene in chiesa: bestemmiano dalla mattina alla sera, ma vanno lì per incontrarsi”. Riguardo all’omosessualità al femminile, secondo Antigone nei penitenziari italiani “i rapporti tra donne rispetto a quelli tra uomini sono percepiti come meno appariscenti, non legati a pulsioni violente e quindi meno sovversivi”. I rapporti lesbici in cella sono diffusi, ma poi “capita che si ingelosiscono e litigano. Quando due detenute fanno l’amore mettono il palo, due sono fuori a controllare e le altre due sono dentro. Ma quando si viene scoperte e arriva la punizione, viene assegnata a tutte, a quelle che stanno fuori e a quelli che stanno dentro, e non è giusto. L’ho presa anche io: l’alternativa era parlare, ma io non faccio la spia”. I provvedimenti disciplinari possono includere il richiamo scritto o verbale, l’ammonizione, l’esclusione delle attività per massimo 10 giorni, l’isolamento fino a 15 giorni. C’è poi un altro aspetto che spinge le detenute ad avere rapporti con altre donne: “Anche se è brutto da dire, ma capita che chi ha 20 anni sulle spalle da scontare, e non conosce nessuno, deve inventarsi un posto di lavoro. C’è una graduatoria in base ai lavori per cui fai richiesta, la cucina è pagata bene ed è la più ambita”. Dunque per trovare un impiego nel penitenziario, molte donne decidono di vendere il proprio corpo. Maternità e detenzione - Racconta Maria Luisa: “Le donne che hanno bambini fino a tre anni scontano la pena in un reparto diverso. Noi non avevamo rapporti con questi bambini, che hanno giochi e spazi a parte, e non li vedevamo mai. Li incontravamo solo in chiesa. Nel periodo in cui sono stata io in carcere di creature ce n’erano tre, non di più. Erano in pochi perché nell’agosto del 2018 è avvenuta una disgrazia”. Una detenuta, già segnalata per gravi problemi psichici, aveva ucciso i due figli piccoli gettandoli dalle scale del reparto nido di Rebibbia. Reinserirsi nel mondo del lavoro - Maria Luisa ha parlato anche della necessità di ampliare le occasioni di lavoro nelle carceri, spiegando che sarebbe bene che il detenuto non fosse abbandonato a se stesso, ma sostenuto anche fuori, partendo dalle reti sociali di riferimento. “Vorrei dire ai giovani di stare lontani dalla strada, perché non regala niente a nessuno, dà solo tanti dolori e disgrazie. La vita ora per me è diversa, lavoro come badante, un impiego che ho trovato grazie a delle persone che conoscevo io. In carcere ho partecipato a dei progetti, mi facevano lavorare 5 ore al giorno per 300 euro al mese: ma perché, mi chiedo, la gente deve essere sfruttata? Se ho sbagliato, perché devo continuare a sbagliare? Dopo quei mesi che ti fanno fare, non c’è futuro. A volte è quello che c’è fuori che ti fa continuare a sbagliare”. L’articolo 15 dell’ordinamento penitenziario indica il lavoro come uno degli elementi della rieducazione, tuttavia, come spiegato durante la puntata di Dietro le Barre, meno del 30% dei detenuti italiani lavora e solo il 4% svolge lavori spendibili anche fuori. Treviso. Sindacati dal prefetto: “Il carcere minorile è vecchio e pericoloso, stop alla riapertura” di Nicola Rotari Corriere del Veneto, 18 marzo 2023 A distanza di un anno dalla sua chiusura, avvenuta il 12 aprile 2022 dopo una rivolta in cui alcuni giovanissimi detenuti appiccarono un incendio che portò all’evacuazione della struttura, il carcere minorile di Treviso si appresta a riaprire i battenti: la data di termine dei lavori è stata fissata il 21 marzo e quindi entro fine mese, su decisione del ministero, la struttura di via Santa Bona vecchia, adiacente alla casa circondariale, tornerà attiva a tutti gli effetti. I sindacati che tutelano i lavoratori della struttura si oppongono alla riapertura e ieri mattina sul tema si è svolto un incontro con il prefetto di Treviso, Angelo Sidoti, per presentare i motivi di questa contrarietà. In primis il livello di sicurezza, sempre precario nonostante i lavori eseguiti, che non corrisponderebbero ad una ristrutturazione ma al massimo ad una risistemazione quasi solo estetica. “Alla Prefettura e al Dipartimento di Giustizia minorile abbiamo spiegato le preoccupazioni dei lavoratori del carcere minorile” ha sottolineato Marta Casarin, segretaria generale del sindacato Fp-Cgil di Treviso. “Una struttura fatiscente e non adatta ad accogliere i detenuti dopo i fatti dello scorso aprile. La nostra richiesta è quella di non riaprire il carcere. Il prefetto ci ha ascoltato e abbiamo concordato di inviare una nota al ministero della Giustizia per esprimere le nostre preoccupazioni e sollecitare un intervento per bloccare la riapertura del penitenziario dal momento che non garantirebbe tutele adeguate a detenuti e lavoratori”. La delegazione che ha incontrato il prefetto Sidoti era composta anche da Ines Bernacchia di Usb e Giovanni Vona del sindacato di polizia Sappe. “La riapertura del penitenziario sarebbe un fatto gravissimo e siamo contenti che le sigle sindacali siano unite su questo tema” hanno sottolineato. “La struttura dovrebbe ospitare una dozzina di minori ma in passato i detenuti sono arrivati anche a 28. Il problema è nato lo scorso 12 aprile con la rivolta dei detenuti che hanno distrutto la struttura, sfiorando un’evasione di massa. Rischio che, secondo noi, potrebbe tornare ad esserci in caso di riapertura. Il fenomeno riguarda non solo Treviso ma diversi penitenziari minorili in Italia. C’è poi il problema del personale sottodimensionato ancor prima della chiusura del penitenziario. Una nuova struttura minorile è prevista a Rovigo per il prossimo anno, per noi sarebbe ideale che i detenuti un tempo a Treviso venissero spostati lì”. Bologna. Il Partito Radicale visita l’Ipm: “Troppi maggiorenni e manca personale” di Francesco Mazzanti Corriere di Bologna, 18 marzo 2023 “La situazione è più o meno la stessa della nostra ultima visita fatta nel dicembre 2021. C’è qualche peggioramento dovuto al fatto che invece di diminuire, i detenuti sono aumentati perché ci sono troppi maggiorenni”. Monica Mischiatti, consigliera generale del Partito Radicale, ha appena concluso la visita all’Istituto penale minorile di via del Pratello, organizzata ieri dal partito con l’obiettivo di verificare le condizioni della struttura, dei detenuti e dei lavoratori dell’istituto. Mischiatti ha aggiunto che “da una capienza di 36 detenuti si è arrivati a 40, metà maggiorenni e metà minorenni, divisi su piani diversi”. La consigliera generale ha poi spiegato che all’interno dell’istituto sono in corso lavori di imbiancamento delle pareti e di pulizia e ha sottolineato di non aver trovato condizioni igienicosanitarie preoccupanti. Tuttavia, per Mischiatti persiste la carenza di personale sanitario, educativo e penitenziar io: “Gli educatori, ad esempio, sono sette quando ne servirebbero 13”, ha aggiunto. “La battaglia del Partito Radicale sulle carceri minorili è per la loro definitiva chiusura - ha concluso Mischiatti. Le pene possono essere scontate in altri modi”. In che modo? Per Mischiatti servono “delle strutture non carcerarie, delle case famiglia, delle case che tra l’altro ci sono già, dove le persone possono rimanere sotto controllo, ma in una struttura di maggiore libertà e crescita senza detenzione per dei reati che a volte sono davvero minori. Servono delle comunità dove poter occuparsi di questi ragazzi con una socialità diversa e non con una struttura carceraria. Si tratta di avere strutture, anche fisicamente, più leggere” di un carcere. Con lei era presente anche Gemma Gasponi, avvocata e consigliera generale del Partito radicale, la quale ha spiegato convinta che “l’opportunità di eseguire in ambito penitenziario anche le pene dei minori dovrebbe essere dimenticato dalla nostra società civile”. “Per me i reati possono essere contrastati con qualcosa di diverso dal carcere - ha concluso - e, anche per un reato gravissimo, il carcere non aggiunge nulla al percorso che la società chiede a chi ha sbagliato per uscire dalla devianza”. Reggio Calabria. Le scuole abbracciano le vittime innocenti di mafia. Riuscita manifestazione strill.it, 18 marzo 2023 Il lancio verso il cielo dei palloncini colorati, che ha concluso l’evento il ricordo lascia il segno, è stato un modo che i ragazzi delle scuole reggine hanno scelto per dire alle vittime innocenti di mafia che sono a loro vicini e che non vogliono dimenticarli. Sono stati tantissime le scuole che hanno accolto l’invito delle associazioni Agape, Pesce Rosso e Libera a vivere un momento di memoria collettiva di persone che hanno pagato con la vita la violenza mafiosa. Le prime a raccogliere l’appello sono state l’istituto comprensivo Galilei Galilei ed il convitto Campanella, i più vicini anche geograficamente allo spazio di piazza castello dedicato ad alcune vittime calabresi attraverso delle opere in legno che sono state restaurate. A seguire il De Amicis, lo Spanò Bolani, i Licei Vinci e Tommaso Campanella, il Panella Vallauri, il Carducci, Lazzarini, il Piria, il Fermi Boccioni. Lucia Lipari vive presidente di Agape dopo avere ringraziato le forze dell’ordine presenti, ha ricordato che la giornata della memoria che vede la lettura dei nomi delle vittime innocenti di mafia è nata su input di quei familiari che non accettavano che i loro congiunti fossero definiti in modo anonimo come” uomini della scorta” del magistrato ucciso, senza che avessero un nome ed un riconoscimento del loro sacrificio. Mimmo Nasone di Libera ha chiesto ai ragazzi di continuare ad approfondire assieme ai loro insegnanti la conoscenza delle storie di chi ha perso la vita per mano mafiosa, un dovere da onorare per diventare uomini che rifiutano le logiche dell’omertà e della indifferenza. Stefania Caracciolo, vice prefetto, ha sottolineato che la grande partecipazione dei ragazzi a questo evento è un segno di speranza che le cose possono cambiare se le nuove generazioni si sentono protagonisti nella lotta contro questo male che soffoca la nostra terra scoraggiando anche gli imprenditori ha investire per creare lavoro. Il momento più importante è stato quello della lettura dei nomi delle vittime calabresi da parte dei ragazzi delle scuole partecipanti e da Adriana Musella figlia dell’imprenditore caduto nella guerra che mafia ha dichiarato a chi si oppone ai suoi disegni criminosi. Un minuto di silenzio è stato dedicato alle vittime del naufragio di Cutro, anch’essi vittime di un sistema criminale che li sfrutta e che non garantisce accoglienza e integrazione. Quasi cinquecento i ragazzi che hanno partecipato portando una ventata di freschezza a questo momento di memoria che diventa impegno con la scuola che li aiuta a vivere con gli occhi aperti il loro cammino formativo educandoli alla cittadinanza ed alla responsabilità. San Severo (Fg). Con l’associazione “Per Aspera Ad Astra” presentato il libro “Al di là delle sbarre” immediato.net, 18 marzo 2023 La Casa Circondariale di San Severo ha aperto le sue porte per ospitare la presentazione del libro “Al di là delle sbarre” (Edizioni del Rosone, 2022) di Luigi Talienti. L’incontro, organizzato da Giorgio Ventricelli, Responsabile alla Comunicazione e alle Relazioni Esterne di Per Aspera Ad Astra ETS Associazione Culturale, si è tenuto mercoledì 15 marzo alla presenza di tantissimi detenuti. Luigi Talienti è dirigente scolastico dell’IPEOA “Michele Lecce” di San Giovanni Rotondo. Ha iniziato ben venti anni fa la sua attività di volontario in carcere a Foggia, toccando anche le realtà di Lucera e San Severo. Dopo aver abbandonato la carriera di bancario, si è dedicato all’insegnamento e alla carriera di avvocato. Queste sue anime - l’insegnante, l’avvocato e il volontario - hanno tracciato inesorabilmente il percorso di vita di Luigi, il quale non si definisce uno scrittore ma una persona che vuole raccontare agli altri l’umanità che si cela dietro le sbarre di un istituto penitenziario. Al di là delle sbarre è un libro-mosaico, condotto su più piani: è la storia di un incontro basato sull’umanità delle persone, ma anche di professionalità che si relazionano e si mettono a disposizione di chi ha bisogno. È un percorso che orienta le future generazioni verso la consapevolezza che nasce dall’incontro con chi soffre; è testimonianza di formazione personale che trasmette grande spessore educativo. “Bisogna analizzare le cause per lenire il dolore degli effetti. La platea di persone detenute nella Casa Circondariale di San Severo è stata unica: attraverso gli sguardi, hanno detto tanto. Dai loro occhi traspariva emozione, hanno condiviso con molta attenzione le nostre parole. L’incontro è durato quasi due ore e nessuno è andato via. Tutti, hanno ascoltato con interesse - racconta Luigi Talienti, che continua - la condivisione delle esperienze è reciproca. Se oggi posso raccontare venti anni di volontariato lo devo alle persone detenute in carcere. Ognuno di loro è un pezzo della mia vita. Ho insegnato, organizzato eventi e realizzato progetti. Ho praticato la professione di avvocato spendendomi nel mondo carcerario. Posso dire di essere testimone di tante belle storie”. Da cosa nasce cosa o, come direbbe Luigi Talienti, un ponte si è creato. Il dirigente scolastico e volontario ha subito preso la palla al balzo per dare un suo contributo. Ha infatti protocollato una richiesta per organizzare un torneo di calcio a 5, all’interno della Casa Circondariale di San Severo. All’incontro ha partecipato anche Patrizia Adrianello, direttrice della Casa Circondariale di San Severo, oltre all’educatrice Alexa Campanaro. “L’ascolto è una fase importante nel nostro lavoro. L’articolo 27 della Costituzione dice chiaramente che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. La Casa Circondariale di San Severo è disponibile ad accogliere chiunque da fuori voglia proporre progetti o iniziative, che possano dare ai detenuti un momento di svago o di formazione per imparare un mestiere o un’attività. La presentazione del libro di Luigi Talienti è stata una grande occasione per far capire a chi è recluso che c’è chi li considera con rispetto, vuole aiutarli ad avere una opportunità per rilanciare la propria vita”, dichiara Patrizia Adrianello. “Anni fa, andai nel carcere di Foggia per uno spettacolo teatrale. Ai tempi, mi occupavo di giornalismo teatrale, passione nata negli anni in cui ho vissuto a Milano. Ho avuto modo di vedere attori di livello. Quella volta a Foggia, sul palco, c’erano cinque interpreti che hanno messo in scena un lavoro davvero ben fatto. Pensai a quanto la società non è sempre capace di tirare fuori il meglio da ognuno di noi. Alle possibilità mancate. Tutti abbiamo un talento - racconta Giorgio Ventricelli, promotore dell’incontro letterario, che continua - il libro di Luigi Talienti mi ha folgorato. Lo conosco per la sua attività di dirigente scolastico, ho avuto modo di intervistarlo più volte e di collaborare anche con lui. È un persona fantastica, capace di trasferire armonia negli altri. Organizzo eventi da tanti anni, ma l’attenzione che ho avuto dalle persone lì presenti nella Casa Circondariale di San Severo non la dimenticherò mai. Ho letto sui loro volti interesse, curiosità, voglia di apprendere. Emozione. Quando si è parlato del rapporto padre e figlio alcuni di loro hanno trattenuto le lacrime, come del resto io. Sono entrato in empatia. Non sapevo cosa mi aspettasse. Non credevo di trovare così tanta umanità. Di fronte a me c’erano persone da ascoltare, non detenuti da evitare. La cultura è uno strumento forte. Non pensavo che un libro avesse una tale capacità di penetrazione dell’animo”. Vigevano (Pv). I detenuti del Piccolini si prenderanno cura del verde a Gambolò di Umberto Zanichelli Il Giorno, 18 marzo 2023 Alcuni detenuti del carcere vigevanese dei Piccolini si occuperanno della manutenzione del verde pubblico a Gambolò e di altri piccoli interventi di manutenzione. È il frutto della convenzione che il Comune ha stretto con la Direzione della casa di detenzione di Vigevano. Inizialmente a essere impiegate sul campo saranno due o tre carcerati, con l’avvio del progetto previsto per le prossime settimane. L’accordo, siglato dal sindaco del centro lomellino Antonio Costantino e dal direttore del carcere Davide Pisapia, avrà inizialmente un accordo della durata di due anni. Ma la convenzione tra Gambolò e i Piccolini potrà essere rinnovata automaticamente per un periodo altrettanto lungo di altri due anni. “Quella che avvieremo ora non è un’iniziativa isolata - commenta il sindaco di Gambolò, Antonio Costantino - Già in passato il nostro impegno sociale è stato tangibile con l’apertura del negozio di alimentari gestito dall’associazione Madre Amabile nelle ex scuole della frazione Remondò per cercare di offrire un’occasione di riscatto a persone in difficoltà e, al tempo stesso, fornire ai residenti un servizio che ormai non esisteva più. E un altro importante progetto, con al centro i giovani, ha interessato piazza Bellazzi con spazi sportivi e aggregativi gestiti dalla Pro loco”. I detenuti del carcere vigevanese inizieranno la loro attività con l’inizio della primavera, quando erano già stati programmati gli interventi al verde pubblico. “Tra i compiti che assolveranno - spiega ancora Costantino - ci sarà anche quello di ritinteggiare il muro del campo sportivo. Inizialmente saranno impiegati due carcerati ma il loro numero sarà modulato in relazione alle esigenze e alla disponibilità organizzativa del carcere”. Secondo l’accordo di volta in volta il Comune dovrà inviare un programma degli interventi, specificando gli orari, il luogo dove i lavori verranno effettuati e i referenti ai quali fare riferimento. Lo scopo finale del progetto è offrire opportunità a chi sta per rientrare nella società da uomo libero, nell’ottica di una futura collocazione professionale. La soluzione dei conflitti passa dal valore della riconciliazione di Mauro Gambetti Il Sole 24 Ore, 18 marzo 2023 “A me però importa assai poco di venire giudicato da voi o da un tribunale umano; anzi, io non giudico neppure me stesso, perché, anche se non sono consapevole di alcuna colpa, non per questo sono giustificato” (1 Cor 4,3-4). Mi hanno sempre colpito queste espressioni dell’apostolo Paolo, che trovo efficaci ed esistenzialmente vere. L’esercizio della giustizia, ancor prima che dalla assennatezza delle leggi, dipende dalla qualità dei giudizi che siamo in grado di formulare. In tal senso, una buona valutazione dipende fondamentalmente dalla conoscenza dei fatti e dalla finalità dell’azione giudiziale. Queste due condizioni sono dirimenti e, anche solo limitandoci ai dati relativi alla pratica della giustizia in Italia, pare che in diversi casi non siano soddisfatte. Come padre Occhetta saggiamente annota nel suo “Le radici della giustizia”, sono molti - dal giustizialismo che permea l’opinione pubblica globale alla qualità delle leggi, dalle lungaggini della macchina giudiziaria allo stato di salute dei sistemi carcerari - i segnali inequivocabili di un modello ormai in crisi. Come gestire le risorse del pianeta, come creare condizioni di sviluppo alla portata di tutti i popoli, come abbandonare un modello sociale che grava con disparità e violenze sulla metà femminile del mondo e far fiorire la pari dignità di tutte le persone. Come garantire questa dignità in tutte le condizioni e i tempi della vita, specie quelli di sofferenza e di disagio. Come togliere i bambini e i giovani dall’ultimo gradino della scala sociale, dove il mondo adulto li ha relegati, e restituire loro il diritto di partecipare ai processi decisionali che tracciano il futuro. Come rendere efficiente e umano il sistema giudiziario, perché la distribuzione della giustizia non sia l’espressione di una vendetta di Stato ma la via pratica che permette a tutta la collettività, a cominciare dai rei, di riparare il male inferto alle vittime.Come far sì che l’esperienza del carcere sia un laboratorio di cittadinanza. Come riformare le istituzioni perché tornino a rappresentare e riconnettere esperienze e territori, dalle piccole comunità alla comunità internazionale. Sono tutte questioni attuali, che hanno a che fare con la giustizia personale, sociale, politica. Cercare di dare una risposta chiede ai soggetti coinvolti nella definizione e nell’esercizio della giustizia un’appropriazione delle proprie dinamiche conoscitive. A tal proposito, può essere utile un breve affondo sul giudizio, che propongo sulla scorta dell’itinerario tracciato dal grande filosofo canadese Bemard Lonergan nel suo Insight. Per raggiungere una conoscenza sufficiente alla enunciazione di un giudizio sono necessari diversi atti completi di significato, che conducano dal livello esperienziale della registrazione dei dati al livello intellettuale della loro comprensione, per poi giungere al livello razionale in cui si giudicano le realizzazioni che emergono dai precedenti stadi. Quest’ultimo passaggio è decisivo ai fini della giustizia. Se non sono soddisfatte tutte le condizioni affinché le ipotesi formulate offrano la spiegazione dei legami tra gli avvenimenti, non è possibile raggiungere un carattere di assolutezza che garantisca la corretta interpretazione della realtà. Inoltre, qualora si giunga a una qualche assolutezza di giudizio, rimane il compito di valutare le responsabilità - oggettive e soggettive - per stabilire il da farsi. Si può pertanto comprendere l’attualità dell’espressione paolina: io non giudico neppure me stesso. Il raggiungimento della conoscenza oggettiva è un lungo percorso che non potrà mai dirsi del tutto completato, in particolare quando concerne l’agire umano e le ragioni che lo hanno determinato. C’è in gioco la libertà dell’uomo, cifra insondabile della dignità della persona e della sua capacità di decidersi per il bene o per il male. Se il primo obiettivo da conseguire concerne la conoscenza oggettiva dei dati e delle loro cause, l’orizzonte verso il quale tendere riguarda l’emergere alla coscienza della domanda decisiva per l’esercizio della responsabilità: “Cosa devo fare?”. E uno stadio determinante, morale, che si persegue tramite l’intensificazione della presenza a se stessi. Senza una soggettività autentica non si dà conoscenza oggettiva, ma senza una conoscenza oggettiva non si dà vita autentica, ovvero segnata dall’attuazione del bene. A questo livello, in cui il politico scrive una legge, l’avvocato disegna la sua arringa e il giudice emette la sentenza, si giocano le sorti della giustizia, le sorti della vita, propria e altrui. La giustizia è completa solo se ha come fine il bene capitale di tutte le persone, dei rei come dei giusti, cioè la salvaguardia della dignità personale nelle relazioni d’amore reciproco che siamo chiamati a costruire. D’altra parte, ritengo indispensabile cercare l’umiltà insieme alla giustizia. Questa disposizione dell’anima è imprescindibile per poter aspirare all’esercizio virtuoso della responsabilità, perché senza umiltà è minata alle radici l’abilità umana del conoscere e quindi dell’amare. Una declinazione di questi princìpi la si può vedere applicata al macrotema del conflitto. Nel mondo odierno, l’idea prevalente di giustizia è caratterizzata dagli schemi della competizione e del potere: è giusto che vinca il migliore, è giusto che il più forte prevalga, è giusto che chi sbaglia “paghi”. In fin dei conti, siamo disposti a normalizzare le ingiustizie che lacerano il quotidiano pur di salvare un disegno di convivenza che ci fa competere anziché cooperare. Invero, tale idea di giustizia è fallace e inefficace, e non riesce a dare soddisfazione agli aneliti dei cuori. Come ha lasciato intendere padre Occhetta, le domande di giustizia chiedono fraternità lì dove regna il conflitto. La fraternità è ontologicamente superiore al conflitto. Se è vero che nei fatti essa può esserne umiliata, in tutte le possibili forme di violazione che il conflitto realizza nella storia, non può però mai essere negata una volta per tutte. Il fratello ucciso, insegna la vicenda di Caino e Abele, è privato della vita ma, anche morto, non smette di essere fratello. La soluzione ai conflitti non sta nell’ergersi a giustizieri, ma nel nutrire la volontà con il desiderio di riconciliazione e decidendo di muovere i propri passi su vie di pace. Né la giustizia può fiorire dalla restituzione del male ricevuto o da una solitaria lotta prometeica che, per quanto nobile, risulterà sempre vana: la verità è che da soli non ce la facciamo, e l’umiltà è la prima lezione che la fraternità ha da offrirci. Chiunque abbia in cuore di praticare la riconciliazione e di cooperare al di sopra del conflitto può trovare nell’enciclica Fratelli tutti un vero vademecum spirituale, che papa Francesco ha consegnato al mondo. A noi spetta far diventare cultura la fraternità e scegliere la cooperazione come metodo affinché le relazioni che ne nascono possano strutturarsi e abbiano reale possibilità di incidere nella storia del mondo. Occorre rifiutare il dogma della competizione e scegliere di cooperare, accettando che nella prospettiva altrui possa risiedere una promessa di speranza per risolvere insieme i conflitti e le crisi dei nostri giorni. *Cardinale, vicario generale di Sua Santità per la Città del Vaticano e presidente della Fondazione Fratelli tutti Addio a Franco Rotelli. Quando con Basaglia disse: “Distruggiamo i manicomi” di Angela Azzaro Il Riformista, 18 marzo 2023 Pubblichiamo un’intervista di qualche anno fa al protagonista della riforma psichiatrica. Oggi i funerali nella città dove viveva e dov’era molto amato. Insieme al padre della legge 180 è stato artefice di una grande stagione culturale e politica. Ci ha creduto fino alla fine. Ci mancherà. Franco Rotelli, morto giovedì a Trieste all’età di 81 anni, è stato uno dei protagonisti della riforma psichiatrica italiana, uno dei giovani che negli anni Settanta insieme a Franco Basaglia, di cui era il braccio destro, costruisce qualcosa di straordinario: cambiare completamente l’idea che si ha della psiche, della normalità e della malattia. Un salto culturale e sociale che, con tutti i limiti, è ancora vivo. Questa intervista è stata realizzata qualche anno fa. E ricostruisce quella meravigliosa storia che ha portato nel 1978 alla legge 180: si aboliscono i manicomi in Italia. Ancora oggi quella legge e quell’esperienza sono un modello in tutto il mondo. Rotelli, quando incontra Basaglia? Lo ho conosciuto nell’ospedale psichiatrico di Parma, mi ero appena laureato. Nel ‘ 71 Basaglia vince il concorso a Trieste come direttore dell’ospedale psichiatrico provinciale. Viene chiamato dal primo presidente di centrosinistra, Michele Zanetti, che vuole effettivamente cambiare le cose. Io lo seguo. Quale situazione trovate? Trieste sconta in quegli anni il problema degli esuli istriani, trecentomila persone che erano scappate dal loro Paese: un conto era vivere nelle campagne istriane negli anni Quaranta un altro vivere in città negli anni Cinquanta. Arriviamo in un manicomio con 1300 persone in una città che avrebbe dovuto averne molte di meno. Le immagini che ci troviamo davanti sono quelle terribili, immortalate nelle fotografie dell’epoca. Sbarre, contenzione, elettroshock. I famigerati manicomi: quale legge li regolava? Era in vigore la legge del 1904, che stabiliva condizioni oggi impensabili: prevedeva che tutte le persone internate in un ospedale psichiatrico fossero da considerarsi pericolose. Non era tanto un giudizio di valore, quanto un principio giuridico: se uno di questi veniva trovato per strada veniva processato. Era considerato come un prigioniero. C’era una presenza, oggi non più pensabile, della magistratura e della questura. Che cosa decidete di fare? Cambiare non era facile. Ma a nostro favore c’era l’esperienza di Gorizia, precedente a quella di Parma, che aveva assunto molta importanza a livello nazionale e il successo del libro di Basaglia, pubblicato nel ‘ 68, L’istituzione negata. Zanetti, che era democristiano, dà a Basaglia carta bianca. Si verifica qualcosa di impensabile fino ad allora, qualcosa di irripetibile. La carta bianca viene presa sul serio da Franco che ottiene 30 borse di studio per psicologi e psichiatri. Il clamore mediatico è tale che da tutta Italia arrivano studiosi e volontari. Tanti giovani, tutti molto motivati. C’è un legame con i movimenti anti autoritari e studenteschi che in quegli anni stanno cambiando la società italiana? Succede che da un luogo chiuso, oppressivo come il manicomio, nasce un’ondata liberatoria: una delle poche ondate di energia duratura del ‘68. Quella generazione di scalmanati riesce a cambiare la realtà dei manicomi, assumendosi grandi responsabilità. Si aprono i reparti, si mescolano uomini e donne, si apre l’ospedale all’esterno. Si modifica lo statuto giuridico delle persone ricoverate. Una piccola legge del ‘ 68 consentiva di poter entrare volontariamente nell’ospedale. Questo voleva dire una cosa ben precisa: che se entravi volontariamente, potevi uscire liberamente. Non eri più costretto a stare, come se fossi un prigioniero. Si crea la figura dell’ospite, che - anche se ricoverato - dal punto di vista giuridico resta un cittadino libero. Un fatto passato alla storia è quella di un gigantesco cavallo di legno e cartapesta che viene portato in corteo da ospiti, medici, volontari. Si rompe il muro di separazione tra interno ed esterno. Ricorda quel giorno? Marco Cavallo, questo è il suo nome, viene costruito da Vittorio Basaglia e Giuliano Scabia insieme alle persone che partecipano ai laboratori nati all’interno dell’ospedale. Nel ‘ 73 si attraversa la città: è la rappresentazione scenica del cambiamento che si sta attuando. La città reagisce con interesse, ma le resistenze non sono poche. Il quotidiano Il Piccolo scrive contro di noi articoli molto violenti. Il Pci vuole e non vuole, approva e non approva quello che stiamo facendo. Allora il Pci a Trieste contava molto, era il partito di Vidali con migliaia di iscritti. Questo dissenso crea una battuta d’arresto? Assolutamente no. Noi andiamo avanti. C’è un clima da “liberazione”: ogni giorno leviamo qualche vincolo, combattendo contro la paura delle gente e contro le regole. E costruiamo una forma di welfare artigianale: nascono le prime cooperative sociali di persone ricoverate. Fino a quel momento, lavoravano ma senza essere retribuiti. Gradualmente si crea un sistema di protezione sociale. Le persone iniziano a uscire, a trovare casa, a farsi una vita anche senza avere una famiglia. Qual è la sfida a quel punto? Alla fine del ‘73 non era chiaro se si dovesse riformare l’ospedale psichiatrico - umanizzandolo, abbellendolo e rendendolo più civile - o farlo fuori. Questa opzione fu chiara alla fine del ‘ 74. Pensammo: va distrutto. Altrimenti l’esclusione sarebbe rimasta come elemento fondante. Era un periodo di grandi discussioni, di un lavorìo intellettuale oggi forse incomprensibile. Ricorda altre querelle? Un altro dibattito riguardava “il dopo”. Secondo alcuni la malattia mentale non esisteva, era solo una conseguenza del malessere sociale. Noi eravamo convinti che i manicomi andassero chiusi, ma che si dovessero costruire servizi sufficientemente forti nel territorio: servizi che aiutassero le persone a curarsi e a vivere una vita dignitosa. Non volevamo buttare la gente per strada. Volevamo buttare via i manicomi. Dicevamo: le persone vanno curate, assistite, in un altro modo, con un altro paradigma, ma vanno aiutate! In California, negli stessi anni, chiudono i manicomi e le persone finiscono per strada senza alcun sostegno. Oggi fanno i conti con quella scelta e sono venuti da noi a studiare cosa è stato invece fatto in Italia. Arriviamo così al 13 maggio del 1978, giorno in cui viene approvata la legge 180 che abolisce i manicomi. Che cosa succede? Il gruppo originario che lavorava con Basaglia, non si muoveva solo in ambito psichiatrico. L’idea era quella di cambiare in generale la qualità della vita, la democrazia di questo Paese, di allargare le sue regole. La sfida era quella di spostare i confini della cosiddetta normalità. Quando arriva la legge che consente di chiudere i manicomi è un passo importante. Ricordo che quando fu approvata fummo sorpresi anche noi, non ce l’aspettavamo che potesse arrivare. Lo stesso Basaglia fu sorpreso dalla velocità con cui fu approvata. Moro era stato da poco ucciso. Questa drammatizzazione portò a una accelerazione impensabile fino a quel momento. Quando arriva la 180, noi abbiamo ancora 500 persone nell’ospedale psichiatrico. Fu molto bello, anche perché eravamo giovani. Si sfida il potere... Pochissimi mesi prima dell’approvazione della legge, andammo a occupare una casa. Basaglia non era d’accordo. Ci fu uno scontro all’interno dell’equipe tra chi voleva affrettare le cose sul piano concreto e Franco che temeva ripercussioni negative. Diceva: “State fermi, non rompete troppo, e non estremizzate delle pratiche che rischiano di creare fratture politiche”. Aveva capito che la legge stava per essere approvata. Tutto era messo in discussione: le carceri, le case di riposo, le politiche per i minori - all’epoca c’erano gli orfanotrofi - le classi speciali. Si mettono in discussione anche i concetti di normalità e di malattia… La parola malattia applicata a queste questioni è una forzatura, questo non vuol dire che non esista qualcosa che si possa definire malattia, ma solo se diamo un valore relativo a questa parola. Non esiste lo schizofrenico, esistono persone che hanno disturbi schizofrenici. E non è la stessa cosa. Perché se una persona ha dei disturbi schizofrenici, tu puoi parlarci, vedere che cosa puoi fare. Se invece hai davanti lo schizofrenico, hai davanti una totalità che aggredisci riempendolo di farmaci o usandogli violenza. Dire schizofrenico è quindi un semplicismo, ma lo è anche negare che esista un problema di salute mentale. Un disturbo mentale grave comporta un degrado sociale, una distanza dagli altri, un isolamento, una stigmatizzazione, la perdita del lavoro. Se non contrasti tutto questo insieme non risolvi granché. Si deve fare in modo che le persone non precipitino: si deve cioè garantire loro una socialità invece che bombardarli di farmaci. Difesa delle famiglie arcobaleno, prove di unità a sinistra di Angelo Schillaci Il Riformista, 18 marzo 2023 Non solo tante cittadine e cittadini si stringeranno attorno alle coppie omogenitoriali e ai loro figli ma, in maniera più significativa che nel passato, parteciperanno le forze politiche di opposizione. Non è la prima volta che la comunità e il movimento Lgbtqi+ scendono in piazza, assieme alle persone alleate, per chiedere il riconoscimento di pari dignità sociale. Succede ogni anno nei Pride e nella Giornata in ricordo delle vittime di transfobia; è accaduto durante l’iter di approvazione delle unioni civili e dopo la mancata approvazione del ddl Zan. Nella presenza di corpi ed esperienze in alleanza, si rinnova una battaglia che ha come orizzonte solo e soltanto la piena garanzia di quel che Costituzione impone: pari dignità sociale, nella valorizzazione delle differenze e nel rispetto dei diritti. Oggi pomeriggio a Milano, in piazza della Scala, succederà però anche qualcos’altro. Non solo perché tante cittadine e cittadini, assieme alle associazioni e a chi ha promosso la manifestazione, si stringeranno ancora una volta attorno alle famiglie arcobaleno e alla Associazione che da diciotto anni le riunisce e le rappresenta. Ma perché, con nettezza e intensità ancora maggiori rispetto al passato, saranno presenti - al massimo livello - rappresentanti delle principali forze politiche di opposizione. Sarà presente una delegazione del Partito democratico, guidata da Elly Schlein, e saranno presenti il Movimento 5 Stelle, Sinistra italiana, +Europa e le forze della sinistra democratica. Un fatto importante, che si pone in continuità con quanto accaduto il 16 marzo scorso al congresso nazionale della Cgil: un ulteriore banco di prova di convergenze possibili tra le opposizioni attorno a temi concreti e alla difesa dei diritti delle persone - civili e sociali insieme - messi a rischio dall’azione del Governo e della maggioranza. Questo è l’orizzonte a cui può guardare la mane nifestazione di oggi, che si svolge al termine di una settimana difficile e dolorosa, nella quale è tornata in primo piano - si spera, stavolta, per non sparirne - la questione della tutela delle bambine e dei bambini con genitori dello stesso sesso. Dapprima, il Comune di Milano ha comunicato l’interruzione delle registrazioni anagrafiche, a causa dell’intervento del Prefetto e dell’annunciata intenzione della locale Procura della Repubblica di procedere all’impugnazione delle registrazioni effettuate, cui hanno già fatto seguito le prime notifiche. Dopo poche ore, in Commissioni Politiche Ue al Senato, la maggioranza ha dato parere negativo sulla proposta di regolamento europeo in materia di mutuo riconoscimento della filiazione: un provvedimento importante, che vuole solo assicurare alle bambine e ai bambini europei la possibilità di circolare senza perdere uno dei due genitori alla frontiera. Vicende diverse, che la destra ha accompagnato con il messaggio secondo cui alle famiglie con genitori dello stesso sesso non può essere riconosciuta pari dignità. E dunque, alle loro figlie e figli sono sottratti, sistematicamente, riconoscimento e diritti. Così, bambine e bambini che nella vita quotidiana hanno due genitori, per la legge ne hanno uno solo, con tutti i disagi e i rischi che ne derivano (basti pensare al caso, tragico ma purtroppo possibile, della morte del genitore legalmente riconosciuto). Questo è il vero tema del contendere, nella sua crudezza: non si ritiene che due madri o due padri siano in grado di assicurare alle loro figlie e figli adeguate condizioni di benessere. E questo non solo in contrasto con la realtà, ma anche con decenni di ricerche che dimostrano, dal punto di vista scientifico, che non esistono differenze in termini di benessere tra bambine e bambini con genitori dello stesso sesso e di sesso diverso. Quel che è accaduto in questa settimana segna un cambio di fase. La giurisprudenza ha chiuso i pochi spiragli che si erano aperti, lasciando in piedi solo la strada dell’adozione in casi particolari: una strada non prevista dalla legge (dunque precaria) e fondata su penetranti controlli di idoneità genitoriale, dunque impervia e - soprattutto - in linea con la stigmatizzazione che ancora segna in profondità il dibattito pubblico su questo tema. Questo non vuol dire, ovviamente, che la battaglia nelle Corti si fermerà. Può aprirsi però con decisione il tempo della politica. A partire da oggi, a partire da Milano, la sfida è quella di mantenere il tema al centro dello spazio pubblico, come segno di contraddizione nelle politiche della destra e, soprattutto, grande battaglia di civiltà che può unire larga parte delle opposizioni, come dimostrano i progetti di legge largamente convergenti presentati dal Movimento 5 stelle e da Pd e Avs (che hanno recepito la proposta elaborata da Famiglie Arcobaleno e Rete Lenford). Nel suo intervento di qualche giorno fa alla Camera, criticando l’azione del Governo anche su questo fronte, Elly Schlein ha usato una parola che interroga: insensibilità, verso concrete esperienze di vita e altrettanto concrete domande di eguaglianza e giustizia. Da questa consapevolezza può nascere, tessendo alleanze larghe in Parlamento e nella società, una politica che metta al centro anzitutto sensibilità e cura, favorendo processi che avvicinino sempre più le leggi alla vita. Migranti. L’ammiraglio della Guardia Costiera: “A noi i politici non danno ordini” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 18 marzo 2023 L’ammiraglio Giuseppe Aulicino, classe 1964, è a capo del Reparto Piani e Operazioni della Guardia costiera. Dipende da lui tutto ciò che è operativo. Dopo il naufragio di Cutro del 26 febbraio e dopo la barca rovesciata (il 12 marzo) al largo delle coste libiche, parla per la prima volta. Per difendere i suoi uomini e per dire che “non abbiamo niente di cui rimproverarci”. Due naufragi nel giro di pochi giorni, 86 morti nel primo, 30 nel secondo. Ammiraglio, c’è mai stata un’interferenza politica, un’indicazione sui vostri interventi? “Non scherziamo. Il livello politico non ha mai dettato nemmeno una virgola ai nostri centri operativi. Assolutamente mai. Le sale operative prendono le decisioni sapendo che di ogni singola decisione si è poi responsabili penalmente, e tenendo presente sempre la cosa più importante, cioè che la salvezza delle vite umane ha la precedenza su ogni cosa. Rispondiamo alle norme, alle convenzioni internazionali, non a qualcuno”. Sicuro che il clima politico non vi condiziona? “Sarò più chiaro: non è mai successo che un ministro, Salvini o i precedenti, abbia chiamato per dire di fare o non fare qualcosa”. Eppure siete finiti sotto attacco... “Io ho quasi 40 anni di servizio, sono abituato a vedere sulla mia testa giochi politici, nel senso di strumentalizzazioni. So che possono attaccare noi per attaccare la politica. Ma forse stavolta siamo andati un po’ oltre. E, guardi, non lo dico per me. Lo dico per i ragazzi, per chi lavora ogni giorno in mare e sul territorio. Mi dispiace per loro che ci mettono l’anima, ogni giorno, per salvare persone in mezzo al mare e che poi vengono messi alla berlina, o chiamati “assassini”. Non so come la vede lei, io dico che parole così ingiuste fanno male”. Cominciamo dal punto più critico: il fatto che la Guardia costiera, la notte di Cutro, non ha attivato un’operazione Sar, cioè di soccorso in mare. Il mare era grosso, la Finanza è andata a cercare la barca segnalata da Frontex ma è tornata indietro per le condizioni meteomarine. Perché non aprire una operazione di soccorso? “Frontex aveva già fatto una prima valutazione, come sappiamo. Il suo report non segnalava una situazione critica. Si vedeva una sola persona a bordo, la barca navigava a 6 nodi con mare 4. I sensori termici dell’aereo ipotizzavano la possibile presenza di persone sottocoperta ma certezze non ce n’erano; non c’erano gli elementi per ritenere tutto questo un evento Sar”. Le condizioni meteo non erano di per sé un elemento di pericolo possibile? “Quando è stata avvistata la barca non navigava in difficoltà. E non c’erano le chiamate di richiesta d’aiuto a noi o a organizzazioni come Alarm Phone. Né hanno chiamato i parenti a terra di qualcuno dei migranti, come capita spesso. Ora sappiamo che gli scafisti avevano un sistema per inibire l’uso dei cellulari, mai finora utilizzato; in quelle ore non lo sapevamo. Le informazioni che avevamo e le considerazioni che abbiamo condiviso con la Guardia di finanza riguardavano - ripeto - non un caso Sar ma sicuramente un caso da investigare, tant’è che si è mossa la Guardia di Finanza, che è in grado di fare valutazioni ed eventualmente agire”. Parliamo del secondo naufragio. Allarme di Alarm Phone l’11 marzo, la barca si rovescia il 12, dopo ore in balia delle onde. Le Ong dicono: “lasciati morire deliberatamente”. “Stiamo parlando di acque Sar libiche, il barchino era a 100 miglia dalle coste della Libia, lontanissimo da noi. Le ricordo che un Paese è responsabile delle sue acque Sar. Quando abbiamo ricevuto la segnalazione da Alarm Phone abbiamo immediatamente mandato verso il barchino il mercantile più vicino. Che poi: domandiamoci anche perché i migranti chiamano Alarm Phone e non le nostre centrali operative...”. Per quella barca vi ha chiamato anche Sea-Watch, dice che avete riattaccato... “Sì, il famoso “ciao, ciao” del nostro operatore. Non abbiamo riattaccato, l’audio lo dimostra. Il “ciao ciao” era un saluto, non una scortesia. E poi ricordo che non siamo tenuti a dare informazioni a chi ci chiama. Sea-Watch ci stava chiedendo informazioni operative, eravamo impegnati a salvare vite in mare. Va immaginato anche il contesto di quella chiamata...”. Torniamo alla barca in mezzo al Mediterraneo... “Le operazioni all’inizio le ha condotte la Libia, responsabile Sar di quel tratto di mare. Noi eravamo troppo lontani per mandare una delle nostre Classe 300 (i mezzi di soccorso più adatti, ndr) che non avrebbero poi avuto autonomia sufficiente per operare e tornare indietro. Avevamo le nostre navi già impegnate in attività di soccorso. Quando la Libia ci ha chiesto aiuto abbiamo mandato verso il barchino le unità navali più vicine che, ricordo a tutti, sono obbligate a intervenire o commetterebbero omissione di soccorso”. Lei ha parlato con i suoi uomini che la mattina della strage sono intervenuti a Cutro? “Sì. Ho accompagnato il comandante generale, l’ammiraglio Nicola Carlone, a Crotone, dove ha voluto incontrare i suoi uomini all’indomani della tragedia. Erano giorni difficili. Volevamo che sentissero la vicinanza di tutti noi”. Gran Bretagna. Rifugiati afghani in Ruanda, tutte le contraddizioni di un Paese definito “sicuro” La Repubblica, 18 marzo 2023 Ma l’idea di spedirli laggiù mette tutti d’accordo. La proposta del premier inglese Rishi Sunak: spedire nel Paese africano tutti i richiedenti asilo che attraversano la Manica. E’ lì che si tende ad inviare i profughi afghani quando non restano bloccati altrove. Almeno 250 ragazze di una scuola di Kabul erano già state trasferite a Kigali via Doha ad agosto 2021 dopo il ritorno dei talebani. Ma il governo del Paese africano utilizza i ricollocamenti per farsi scudo delle accuse di violenze anche fuori dai propri confini. Nel Golfo detenuti migliaia di profughi afghani in condizioni disumane. Il Ruanda è diventato uno dei Paesi dove gli Stati occidentali preferiscono inviare i rifugiati afghani quando questi non restano bloccati in Paesi terzi o rispediti indietro, come fanno Turchia e Iran. Sempre più richiedenti asilo sono ricollocati in Africa (anche grazie al sostegno delle agenzie delle Nazioni Unite), ma in Stati che non sono immuni da critiche sulle violazioni dei diritti umani. Gli afghani in Ruanda. Subito dopo il ritorno dei talebani, nell’agosto 2021, circa 250 studentesse del collegio femminile School of leadership Afghanistan (SOLA), già evacuate a Doha, in Qatar, erano state trasferite a Kigali perché potessero continuare a studiare, visto che da due anni le ragazze rimaste in Afghanistan non possono più farlo. Nello stesso periodo anche l’Uganda aveva accolto oltre 2 mila profughi afghani su richiesta del governo degli Stati Uniti. Vietato chiedere asilo in Gran Bretagna. L’idea di mandare i profughi afgani in Ruanda ora viene nuovamente ventilata anche dal primo ministro britannico Rishi Sunak. A inizio mese infatti il Premier ha annunciato un disegno di legge per impedire ai migranti che attraversano il Canale della Manica di chiedere asilo nel Regno Unito. Londra intende ricollocare i richiedenti asilo in Ruanda o in un “Paese terzo sicuro” allo scopo di “contrastare l’immigrazione illegale”, ha detto il Sunak. E questo nonostante nel 2022 una persona su cinque arrivata via mare nel Regno Unito fosse afghana, nazionalità a cui nel 98 per cento dei casi viene concesso l’asilo politico a causa delle persecuzioni e delle violazioni dei diritti umani da parte dei Talebani. Il Ruanda è un Paese sicuro? Anche senza entrare nelle trame giuridiche che distinguono i vari tipi di protezione internazionale dall’immigrazione irregolare e senza valutare se la decisione del governo britannico violi o meno le Convenzioni sui rifugiati di cui Londra è firmataria, risulta difficile incasellare il Ruanda (assieme a Uganda, Sudan e Somaliland, tutte nazioni africane che si sono offerte di accogliere i profughi afghani) nel novero dei “Paesi sicuri”. La minaccia di Paul Kagame. In passato, il presidente ruandese Paul Kagame aveva minacciato di espellere i rifugiati già presenti nel Paese se la comunità internazionale avesse criticato le attività del suo governo, guidato dal Rwandan Patriotic Front, salito al potere dopo il genocidio del 1994. Attualmente nel Paese si contano 127 mila rifugiati, secondo i dati forniti dall’UNHCR. Gli abusi dei diritti. Human Rights Watch ha criticato la campagna condotta dal partito contro gli oppositori politici, spesso detenuti arbitrariamente e torturati. Ma le azioni violente del governo ruandese si estendono anche oltre i propri confini, colpendo dissidenti e membri della diaspora anche all’estero e sostenendo sul piano militare il gruppo ribelle M23, che combatte contro il governo della Repubblica democratica del Congo soprattutto nella regione del Nord Kivu. La soluzione temporanea per gli attivisti. Shabana Basij-Rasikh, insegnante, attivista per i diritti delle donne e fondatrice di SOLA, ad agosto 2021, documentando su Twitter il ricollocamento delle studentesse afghane, lo aveva definito un “reinsediamento non permanente”, una sorta di “semestre all’estero” prima di poter tornare a casa in Afghanistan. L’idea che mette d’accordo tutti. Le cose però sono andate diversamente e alla fine quella di spedire i profughi afghani in Ruanda è una soluzione che mette d’accordo tutti: le ragazze afghane possono continuare a studiare, gli Stati Uniti possono sentirsi meno in colpa per aver abbandonato il Paese ai talebani dopo venti anni di guerra e i governi africani possono ripulirsi l’immagine agli occhi della comunità internazionale sperando che per l’aiuto umanitario di cui si stanno facendo carico non vengano imposte loro sanzioni o restrizioni. Gli afghani nel Golfo. La questione dei rifugiati afghani si ripropone poi in maniera simile nel Golfo: 2.700 persone sono da 15 mesi parcheggiate negli Emirati Arabi Uniti, dove non hanno possibilità di accedere a percorsi legali per ottenere lo status di rifugiato. Rispondendo anche in questo caso alla richiesta del Dipartimento di Stato americano di accogliere i richiedenti asilo prima che questi vengano reinsediati negli Stati Uniti, le autorità di Abu Dhabi hanno rinchiuso i profughi in un luogo chiamato Emirates Humanitarian City, che secondo le testimonianze è però sovraffollato, fatiscente e infestato da insetti. Un rapporto di Human Rights Watch sostiene inoltre che la maggior parte dei detenuti soffre di depressione. In Afghanistan. Le cose continuano a peggiorare, e non solo dal punto di vista umanitario: in base a un rapporto del Global Terrorism Index uscito nei giorni scorsi il Paese è per il quarto anno consecutivo quello con il più alto numero di attentati al mondo. L’ultimo, sferrato di recente dal ramo locale dello Stato islamico (Is-K), ha colpito un gruppo di giornalisti a Mazar-i Sharif, capoluogo della provincia di Balkh, nel nord del Paese: i talebani hanno confiscato i cellulari e trattenuto i sopravvissuti, forse per dare l’impressione di avere la situazione sotto controllo ed evitare che la notizia venisse diffusa anche all’estero. Russia. La Corte dell’Aja. “Deportazione di bimbi”, mandato di arresto internazionale per Putin di Nello Scavo Avvenire, 18 marzo 2023 L’annuncio dalla sede dell’Aja. Contestati la deportazione e il trasferimento illegale di bambini dall’Ucraina alla Russia. Mandato d’arresto anche per la Commissaria russa per i diritti dei bambini. La Corte Penale Internazionale ha emesso il mandato d’arresto per Vladimir Putin e Maria Lvova-Belova. Sono accusati di crimini di guerra, in particolare della deportazione illegale di bambini ucraini. Il presidente Putin secondo l’accusa sarebbe responsabile del crimine di guerra di deportazione illegale bambini dalle aree occupate dell’Ucraina alla Federazione Russa. I crimini sarebbero stati commessi nel territorio occupato dall’Ucraina a partire dal 24 febbraio 2022. “Ci sono ragionevoli motivi per ritenere che Putin abbia una responsabilità penale individuale per i suddetti crimini - spiega una nota della Corte -, per aver commesso gli atti direttamente, congiuntamente con altri e attraverso altri”, oltre a non avere esercitato “un controllo adeguato sui subordinati civili e militari che hanno commesso gli atti, o hanno permesso la loro commissione, e che erano sotto la sua effettiva autorità e controllo”. Anche Maria Alekseyevna Lvova-Belova, Commissaria per i diritti dei bambini presso l’Ufficio del Presidente della Federazione Russa, è ritenuta responsabile del crimine di guerra di deportazione illegale di bambini e di trasferimento illegale minori. La Camera preliminare del Tribunale dell’Aja ha ritenuto, sulla base delle richieste della procura depositate il 22 febbraio, “che vi siano ragionevoli motivi per ritenere che ciascun indagato sia responsabile del crimine di guerra di deportazione illegale di popolazione e di trasferimento illegale in pregiudizio dei bambini ucraini”, spiega la Corte. Inizialmente i giudici avevano deciso di mantenere il segreto sui mandati di cattura per proteggere le vittime e i testimoni e per salvaguardare la prosecuzione delle indagini. Ma non si tratta di reati commessi e non più reiterati. “La condotta oggetto della presente situazione - spiega il presidente del Tribunale Piotr Hofma?ski - è presumibilmente in corso e che la conoscenza pubblica dei mandati può contribuire a prevenire l’ulteriore commissione di crimini”. La Russia non riconosce la giurisdizione della Corte dell’Aja. Come abbiamo documentato, il primo anno di inchiesta della Commissione internazionale indipendente sull’Ucraina ha concluso il suo primo anno di indagine con una relazione che parla di “crimini di guerra che includono uccisioni volontarie, attacchi a civili, reclusione illegale, torture, stupri, trasferimenti forzati e deportazione di bambini”. Per quella che viene definita “ipotesi di genocidio”, condensata in 18 pagine, corredate da centinaia di allegati fotografici, filmati, esami balistici e di medici legali. In una lunga nota il procuratore capo Karim Khan ha spiegato cosa ha condotto il suo ufficio a chiedere l’arresto di Putin. “Sulla base delle prove raccolte e analizzate nell’ambito delle indagini indipendenti, la Camera preliminare ha confermato che esistono ragionevoli motivi per ritenere che il Presidente Putin e la signora Lvova-Belova - spiega Khan - siano responsabili penalmente della deportazione e del trasferimento illegali di bambini ucraini dalle aree occupate dell’Ucraina alla Federazione Russa”. Gli episodi identificati includono la deportazione “di centinaia di bambini prelevati da orfanotrofi e case di accoglienza. Molti di questi bambini, secondo noi, sono stati dati in adozione nella Federazione Russa. La legge è stata modificata nella Federazione Russa, attraverso decreti presidenziali emanati dal Presidente Putin, per accelerare il conferimento della cittadinanza russa, rendendo più facile l’adozione da parte di famiglie russe”. All’epoca dei trasferimenti forzati “i bambini ucraini erano persone protette dalla Convenzione di Ginevra”, ricorda Khan. In altre parole, la loro identità e i loro legami non erano “a disposizione” per le adozioni all’estero senza prima verificare l’effettiva esistenza di familiari o altri adulti di riferimento o ancora la disponibilità delle autorità ucraine a farsene carico. Non si tratta di episodi, ma di un piano con modalità e ordini precisi. “Nella nostra richiesta abbiamo anche sottolineato che la maggior parte degli atti di questo schema di deportazione - aggiunge il procuratore capo - sono stati effettuati nel contesto degli atti di aggressione commessi dalle forze militari russe contro la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina, iniziati nel 2014”. Le ricadute di questi crimini e “l’impatto umano è emerso chiaramente anche durante la mia ultima visita in Ucraina. In quell’occasione - ricorda -, ho visitato una delle case di accoglienza da cui sarebbero stati prelevati i bambini, vicino alle attuali linee del fronte del conflitto. I racconti di coloro che si erano presi cura di questi bambini e i loro timori su cosa ne fosse stato di loro hanno sottolineato l’urgente necessità di agire”. Non sarà facile processare Putin, che non potrà mettere piede in decine di Paesi del mondo che, avendo aderito alla Corte penale dell’Aja, avrebbero l’obbligo di arrestarlo. Tuttavia “dobbiamo garantire che i responsabili dei presunti crimini siano chiamati a rispondere delle loro azioni e che i bambini siano restituiti alle loro famiglie e comunità. Come ho dichiarato all’epoca - rièete Karim Khan -, non possiamo permettere che i bambini vengano trattati come se fossero un bottino di guerra”. Stati Uniti. San Quintino cambia faccia: da gabbia infernale a carcere modello di Matteo Persivale Corriere della Sera, 18 marzo 2023 Il governatore della California ha annunciato che uno dei peggiori penitenziari d’America sarà trasformato in una struttura di riabilitazione. Via il braccio della morte.vLa foto più famosa è del febbraio 1969, Johnny Cash che suona per i detenuti di San Quintino e con la Gibson a tracolla guarda malissimo il fotografo, il suo amico Jim Marshall, che gli ha appena chiesto: “John, abbiamo qualcosa da dire al direttore del carcere?”. Cash mostra immediatamente all’obbiettivo il dito medio: clic. La “pantera nera” e Charles Manson - È un’immagine-simbolo, un capolavoro: il “man in black” della musica americana che interpreta lo spirito ribelle, indomito, degli anni Sessanta che stanno finendo. San Quintino da luogo infernale dove mandare i peggiori detenuti d’America - Charles Manson, la “pantera nera” Eldridge Cleaver, tanti serial killer - e unico carcere californiano con il braccio della morte diventerà però ora un carcere modello. Gavin Newsom, azzimato governatore californiano, proprio ieri dribblando in scioltezza le polemiche per il salvataggio della banca SVB nella quale, si è scoperto, avevano il conto tre delle sue aziende vinicole, ha illustrato il progetto. Detenuti torturati - Il carcere nato sulla baia di San Francisco a metà Ottocento, ai tempi della febbre dell’oro, per rinchiudere i numerosi criminali di quell’era senza legge, ora sarà tutto dedicato alla riabilitazione del detenuto: proprio San Quintino, che poco dopo la fondazione scandalizzò l’opinione pubblica americana - generalmente severa con i criminali - per le numerose vicende legate a detenuti torturati con l’acqua e le botte, il lavoro forzato, e le evasioni troppo facili. Una moratoria alle esecuzioni - La ricetta è semplice e radicale: E-T-R. Education, training, rehabilitation. Istruzione e riabilitazione. La struttura sarà ribattezzata “San Quentin Rehabilitation Center” e i detenuti condannati a morte (668) saranno trasferiti altrove perché Newsom l’anno scorso ha dichiarato una moratoria alle esecuzioni. “Oggi, facciamo il passo successivo nella nostra ricerca di una vera riabilitazione, di vera giustizia e comunità più sicure attraverso questo investimento, creando un nuovo modello per la sicurezza e la giustizia, il Modello California, che sarà di riferimento per tutta la nazione”, ha detto Newsom. Iran. Detenzioni forzate, e violenza sessuale contro bambini durante la repressione delle proteste La Repubblica, 18 marzo 2023 Amnesty International: i bambini in Iran sono stati sottoposti a “orribili atti di tortura” da parte delle forze di sicurezza, a sei mesi dall’inizio delle proteste. L’intelligence e le forze di sicurezza iraniane hanno commesso orribili atti di tortura, percosse, fustigazioni, scosse elettriche, stupri e altre violenze sessuali persino contro bambini di appena 12 anni per reprimere il loro coinvolgimento nelle proteste. Lo ha denunciato e documentato Amnesty International. A sei mesi dalla rivolta popolare, scatenata dalla morte in custodia di Mahsa Amini, l’organizzazione espone i metodi di tortura che le Guardie Rivoluzionarie, le forze paramilitari Basij, la Polizia di Pubblica Sicurezza e altre forze di sicurezza e di intelligence hanno usato contro ragazzi e ragazze in custodia per punirli, umiliarli ed estorcere confessioni. Bambini rapiti e torturati. I bambini arrestati, come gli adulti, sono stati inizialmente portati in centri di detenzione. Dopo giorni o settimane di isolamento, sono stati trasferiti in carcere. Agenti in borghese ne hanno rapito altri dalle strade durante o subito dopo le proteste, li hanno portati in luoghi non ufficiali come magazzini e li hanno torturati prima di abbandonarli in luoghi remoti. Molti bambini sono stati trattenuti insieme agli adulti, contrariamente agli standard internazionali, e sottoposti agli stessi schemi di tortura e altri maltrattamenti. Un ex detenuto adulto ha raccontato ad Amnesty International che, in una provincia, gli agenti hanno costretto diversi ragazzi a stare in fila con le gambe divaricate accanto agli adulti e gli hanno somministrato scosse elettriche nella zona genitale. Confessioni forzate. La maggior parte dei bambini arrestati negli ultimi sei mesi è stata rilasciata, a volte su cauzione, in attesa delle indagini o del rinvio a giudizio. Molti sono stati liberati solo dopo essere stati costretti a firmare lettere di “pentimento” e aver promesso di astenersi da “attività politiche” e di aderire solo a manifestazioni filogovernative. Prima di rilasciarli, gli agenti li hanno minacciati che li avrebbero fatti perseguire con accuse che comportano la pena di morte o che avrebbero arrestato i loro parenti se avessero sporto denuncia. In almeno due casi documentati da Amnesty International, nonostante la minaccia di rappresaglie, i familiari delle vittime hanno presentato denunce ufficiali alle autorità giudiziarie, ma nessuno è stato indagato. La testimonianza. “Mio figlio mi ha raccontato che lo hanno appeso al punto che si sentiva come se le braccia stessero per strapparsi. E’ stato costretto a dire quello che volevano perché lo hanno violentato con un tubo. Gli hanno preso la mano e gli hanno preso le impronte con la forza”, ha raccontato una madre ad Amnesty. Bambini sequestrati e poi abbandonati. Diversi studenti sono stati rapiti per aver scritto su un muro lo slogan “Donna, vita, libertà”. Un parente di una delle vittime ha raccontato ad Amnesty che agenti in borghese hanno portato i ragazzi in un luogo non ufficiale, li hanno torturati e minacciati di stupro, e poi li hanno scaricati in stato di semi-coscienza in una zona remota ore dopo. “Mi hanno dato scosse elettriche alla schiena, mi hanno colpito in faccia con il dorso di una pistola, mi hanno picchiato sui piedi e sulle mani con i manganelli. Hanno minacciato che se lo avessimo detto a qualcuno, ci avrebbero arrestato di nuovo e avrebbero fatto ancora peggio per poi consegnare i nostri cadaveri alle famiglie”, ha raccontato uno dei bambini. Torture psicologiche e umiliazioni. “Ci hanno detto di fare il verso dei polli per mezz’ora, fino a “deporre le uova”. Ci hanno costretto a fare flessioni per un’ora. Ero l’unico bambino lì. In un altro centro di detenzione, hanno messo 30 di noi in una gabbia fatta per cinque persone”. La madre di una ragazza che è stata arrestata dalle Guardie Rivoluzionarie ha detto ad Amnesty International: “L’hanno accusata di aver bruciato il velo, di aver insultato il Leader Supremo e di voler rovesciare la Repubblica islamica. Le hanno detto che sarebbe stata condannata a morte. L’hanno minacciata di non dirlo a nessuno... L’hanno costretta a firmare e a prendere le impronte sui documenti. Ha gli incubi, non va più da nessuna parte. Non riesce nemmeno a leggere i libri di scuola”. Mancato accesso alle cure. I bambini sono stati inoltre tenuti in condizioni disumane, tra cui sovraffollamento, scarso accesso ai servizi igienici e ai lavabi, privazione di cibo e acqua potabile, esposizione a freddo estremo e isolamento prolungato. Le ragazze sono state trattenute da forze di sicurezza esclusivamente maschili senza alcun riguardo per le loro esigenze specifiche. Ai bambini sono state inoltre negate cure mediche adeguate, anche per le ferite riportate sotto tortura.