Il carcere liberale? Non esiste di Giuseppe Losappio* Il Riformista, 17 marzo 2023 “Lavoreremo per restituire ai cittadini la garanzia di vivere in una Nazione sicura, rimettendo al centro il principio fondamentale della certezza della pena, grazie anche a un nuovo piano carceri. Dall’inizio di quest’anno sono stati 71 i suicidi in carcere. È indegno di una nazione civile, come indegne sono spesso le condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria”. Era il 25 ottobre quando la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni pronunciava alla Camera dei deputati il discorso “per la fiducia”. Alla fine dell’anno il “bilancio” dei “morti di pena”, secondo il tragico palindromo di “Nessuno tocchi Caino” è cresciuto di altre 13 vittime: 84 detenuti, 78 uomini e 5 donne, il numero più alto dal 2000 e in percentuale 20 volte superiore a quello che si registra al di fuori del carcere. Nel 2023 i decessi a oggi sono stati 2. Sono dati sconfortanti che sembrano confermare le convinzioni di chi discosta le prospettive del diritto penale liberale da quelle del carcere, perché crede che parla-* re di carcere liberale sia un ossimoro. Il carcere non è liberale per definizione. Il carcere liberale non esiste in concreto come in astratto. Liberale è solo il carcere che viene eliminato. Il messaggio potrebbe essere reso parafrasando la celebre frase tratta dalla Filosofia del diritto di Gustav Radbruch esortando il legislatore e tutti i protagonisti dell’esperienza giuridico-penalistica a non cercare un carcere migliore ma qualcosa di meglio del carcere. Nel breve medio-periodo, sarebbe un obiettivo utopistico se pensassimo nell’ottica di una definitiva abolizione dell’istituzione penitenziaria. Per quanto difficile sia per lo studioso formulare previsioni del futuro, anche in un orizzonte di lungo periodo punire resterà necessario, una quota del bisogno di punizione dovrà essere “soddisfatta” dal diritto penale e una frazione, più o meno consistente del diritto penale, resterà legata al carcere. L’esperienza, tuttavia, sembra dare almeno in parte ragione al pensiero espresso da Rudolf von Jhering, ne Lo scopo nel diritto: la storia della pena, quella capitale e quella carceraria, in particolare, è la storia di una “continua abolizione”. Liberale, dunque, è la prospettiva che non si punisca se non nella misura strettamente necessaria; che il ricorso al diritto penale sia circoscritto ai casi in cui altre sanzioni sono inadeguate o insufficienti, che il ricorso alla pena carceraria sia limitato ai casi in cui altre sanzioni penali sono inadeguate o insufficienti. In ogni caso, la sussidiarietà della punizione, della punizione penale, della pena carceraria dovrebbe essere affermata in astratto e in concreto e, quindi, pensando non solo al legislatore. Occorre ampliare lo sguardo alla fase della comminatoria e dell’esecuzione della pena fornendo al giudice gli strumenti per escludere o far cessare la detenzione quando, ancora una volta, accerti che può dirottare l’istanza di punizione verso qualcosa di meglio rispetto al carcere. È un punto chiave perché l’esperienza dimostra che quella storia di abolizione della pena non si è svolta tanto sul versante delle fattispecie e delle cornici edittali ma su quello delle sanzioni sostitutive, delle alternative al processo o alla pena e soprattutto dell’esecuzione, dalla riforma Gozzini in poi. Spesso si è trattato di un trade off sincrono o asincrono. Più penale in astratto meno penale in concreto, riduzione non di rado generata dalla elefantiasi stessa del sistema. Il penale in astratto resta un penale carcerocentrico. Il penale in concreto lo è meno. Spesso si è fatto - passatemi la gergalità - di necessità virtù, com’è accaduto dopo la sentenza Torregiani. Più che all’utilità di lungo periodo della prevenzione generale si è guardato all’utilità di breve periodo dello svuotamento delle carceri, purtroppo spesso solo transitorio. Le riforme degli ultimi sei o sette anni sembrano segnare una definitiva inversione di tendenza ma forse il periodo non è dei più indicati per avventurarsi in previsioni sul domani del sistema penale. L’oggi, del resto, interpella la coscienza del penalista richiamandolo anche alla consapevolezza che il carcere in Italia è sempre più una discarica sociale, l’espressione più ruvida di quella funzione rimozionale del diritto penale che costituisce una cifra perenne della penalità ma che i circuiti della giustizia penale mediatica catalizzano parossisticamente. Se non dobbiamo rinunciare a progettare qualcosa di meglio del carcere, questo fronte dell’impegno comune non deve farci dimenticare l’urgenza di un carcere migliore. *Ordinario di Diritto Penale, Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” Divieti ottusi e meschini: è questo il 41-bis di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi Il Riformista, 17 marzo 2023 Al dottore di fiducia viene impedito di comunicare con quelli dell’ospedale dove è ricoverato. Divieto senza senso che spiega bene cos’è il carcere duro. Alfredo Cospito ha perso quasi 50 kg, alcuni arti iniziano a non rispondere agli stimoli, le gambe cedono, si sposta in sedia a rotelle. Risulta evidente perché, nonostante l’ultimo e azzardato ritorno in carcere, sia stato portato in ospedale, dove può essere seguito quotidianamente. Ma per l’ennesima volta al suo medico di fiducia è stato impedito di comunicare con i colleghi dell’ospedale San Paolo. Si fa fatica a comprendere quale sia la ragione di tale divieto. A chi chiede: “ma cos’è il 41 bis?” si potrebbe rispondere che esso consiste tutto nell’ottusa superfluità e nella meschina pretestuosità del divieto di comunicazione tra due medici. E nell’irrazionale e violenta gratuità di questo arbitrario potere di punire. Molte delle persone che in questi quattro lunghissimi mesi hanno seguito l’evoluzione dello sciopero della fame di Alfredo Cospito, oggi si stanno chiedendo fino a che punto può resistere un corpo. Il suo ha perso quasi 50 kg, alcuni arti iniziano a non rispondere agli stimoli, le gambe cedono, la deambulazione si è fatta sempre più faticosa e gli spostamenti avvengono in sedia a rotelle. In un quadro sanitario così delicato, risulta evidente perché, nonostante l’ultimo e, diremmo, azzardato ritorno in carcere, Cospito sia stato portato in ospedale. Nel carcere di Opera, del resto, sappiamo che era controllato, di notte, tramite lo spioncino della cella da un poliziotto che passava a distanza di ore. Un monitoraggio evidentemente insufficiente per una condizione di tale gravità. In ospedale, invece, può essere seguito quotidianamente, si può intervenire in maniera tempestiva in caso di crisi improvvisa e, soprattutto, c’è una equipe di medici che può procedere con esami e terapie adeguate. Su quest’ultimo elemento è utile e necessario spendere alcune parole: per l’ennesima volta al suo medico di fiducia è stato impedito di comunicare con i suoi colleghi dell’ospedale San Paolo. Si fa fatica a comprendere quale sia la ragione di tale divieto. Per consentire una seria presa in carico del paziente, il minimo sarebbe quello di permettere al medico di fiducia di confrontarsi, discutere, convergere sulla terapia migliore da seguire, tramite un costante dialogo con i medici curanti del San Paolo. E invece no, il medico visita Cospito una (ora due volte a settimana) e appena prova a interloquire con chi lo vede ogni giorno, tutto si fa complicato e l’autorizzazione non arriva mai. Ed è nella vaghezza delle risposte, nel silenzio della burocrazia, nell’immobilismo della struttura che risiede l’anomalia: se il 41 bis, come non finiremo mai di ripetere, è stato concepito al solo fine di recidere i legami tra il detenuto e l’organizzazione criminale di appartenenza, allora qualcuno deve spiegarci, caro Direttore, quale sia il senso di certi provvedimenti. In questi mesi ne abbiamo elencati alcuni, dalla difficoltà di scorgere un cielo privo di grate all’impossibilità di tenere la foto dei propri cari sulla parete della cella. In altre parole, a chi chiede: “ma cos’è il 41 bis?” si potrebbe rispondere che esso consiste tutto nell’ottusa superfluità e nella meschina pretestuosità del divieto di comunicazione tra due medici. E nell’irrazionale e violenta gratuità di questo arbitrario potere di punire. Pena e cura in un’ottica di genere: sul concetto di salute e benessere per le donne detenute di Rosanna Mancinelli esperienzeconilsud.it, 17 marzo 2023 La detenzione femminile in Italia riguarda il 4-5% della intera popolazione detenuta. Gli Istituti esclusivamente femminili sono solo quattro (Trani, Pozzuoli, Roma-Rebibbia e Venezia-Giudecca) mentre la maggior parte delle donne è ristretta in sezioni all’interno di carceri maschili non sempre idonee ai bisogni di genere. Le detenute godono di scarsa attenzione sia per quanto riguarda i bisogni di salute riguardanti la prevenzione e i trattamenti di varie patologie femminili, sia per quanto riguarda le opportunità di lavoro, studio e formazione che sono disponibili alle donne in misura ancora minore rispetto agli uomini. Inoltre non c’è ancora sufficiente consapevolezza del fatto che il benessere e la salute delle donne sono significativamente influenzati da un complesso di fattori non solo biologici ma anche sociali, etici e di appartenenza culturale che implicano anche il peso dello stigma sociale. Ad oggi, anche nell’Amministrazione penitenziaria sta emergendo sempre più la consapevolezza di questa disparità e la necessità di approfondire le conoscenze in tema di differenze di genere al fine di modulare l’intervento riabilitativo in relazione ai bisogni. In generale le donne sentono più degli uomini il peso della separazione dalla propria realtà sociale e della responsabilità affettiva verso i familiari perciò la forzata lontananza soprattutto dai figli, è una delle cause di maggior sofferenza per le detenute che sono oppresse dal senso di colpa. Dal punto di vista biologico, poiché le donne vivono direttamente i ritmi della vita attraverso la ciclicità delle mestruazioni, la gravidanza e la maternità, l’invecchiamento e la menopausa, risentono più duramente rispetto agli uomini della innaturalità del tempo in carcere che sconvolge anche i tempi del loro corpo. Non a caso i disturbi del ciclo mestruale sono il primo sintomo che compare nello stato detentivo. Le donne sono biologicamente più vulnerabili alla depressione: nella popolazione generale si stima che le donne ne soffrano in misura doppia rispetto agli uomini e l’OMS considera questa malattia la principale causa di disabilità per le donne nel mondo. La detenzione favorisce in modo significativo l’insorgere di tale patologia tra le donne in carcere. D’altro canto però, femminilità non significa sempre e solo vulnerabilità. Le caratteristiche femminili quali empatia, capacità di relazione, resilienza, creatività, energia vitale e attitudine alla cura sono punti di forza su cui intervenire con iniziative genere-specifiche. Ne è esempio emblematico la recente realizzazione della casa-rifugio “M.A.M.A. Modulo per l’affettività e la maternità” dove le detenute madri possono ritrovare un proprio spazio ed un difficile ma possibile equilibrio psico-fisico tra la condizione di madre e quella di detenuta e quindi ottenere un maggiore indice di “benessere”. La formazione, punto cardine per il miglioramento del benessere psico-fisico e quindi della salute della persona, può essere implementata e orientata verso conoscenze e attività più consone alla femminilità ad esempio incentivando le attività artigianali che valorizzano capacità creative e manualità, come pure è possibile promuovere l’attività motoria e sportiva per trovare un nuovo e migliore rapporto con il proprio corpo e con la propria immagine. Anche imparare a mangiare in modo sano e acquisire abitudini salutari possono essere strumenti positivi per il benessere e la cura di sé e degli altri: ad esempio sapere che l’uso di bevande alcoliche può essere nocivo per la salute femminile molto più che per l’uomo, e che l’alcol è un teratogeno assolutamente da non consumare in gravidanza per evitare al nascituro gravi ed irreversibili danni da esposizione alcolica fetale, può motivare la donna ad assumere ed insegnare ai suoi cari comportamenti più salutari. Oggi alla luce delle conoscenze scientifiche in tema di differenze di genere sia dal punto di vista fisico che psicologico, è possibile ripensare in un’ottica di genere gli interventi strutturali all’interno nella popolazione detenuta per favorire il cambiamento, utilizzare il tempo della pena come tempo della cura e restituire alla libertà uomini e donne più consapevoli di sé e del proprio ruolo all’interno della famiglia e della società. Una nuova stagione per i giornali realizzati in carcere di Marco Giovannelli varesenews.it, 17 marzo 2023 Tante esperienze in Italia e fino a dieci anni fa anche nel Varesotto con Mezzo Busto. Un elenco di realtà prodotte all’interno di diversi istituti. Negli Stati Uniti c’è un rifiorire di giornali realizzati in carcere. Secondo il Prison Newspaper Directory appena lanciato dal Prison Journalism Project, ci sono 24 giornali carcerari in 12 stati. Almeno quattro dei giornali sono stati lanciati nell’ultimo anno. “Il primo studio sui giornali carcerari nel 1935 - racconta NienamLab - ha rilevato che c’erano almeno 100 pubblicazioni carcerarie e quasi la metà di tutte le strutture penitenziarie statunitensi ne pubblicava una. Quel numero ha raggiunto il picco di 250 pubblicazioni nel 1959 e poi è precipitato nei decenni successivi. Nel 1998, il libro di James McGrath Morris “ Jailhouse Journalism: The Fourth Estate Behind Bars “ riportava solo sei pubblicazioni attive. Ora che ci sono almeno 24 pubblicazioni note che stanno pubblicando attivamente e archivi digitali di altri che hanno smesso di pubblicare, McQueen ha affermato che la directory può essere un punto di partenza per i giornalisti per avere un’idea migliore di com’è l’incarcerazione nelle loro strutture locali”. Anche in Italia c’è una situazione interessante con alcune esperienze storiche ormai più che ventennali. Anche nella casa circondariale di Busto Arsizio nel 2007 aveva preso via un progetto dal titolo Carcere 2.0 e che aveva anche un carattere editoriale coordinato da Enaip con la collaborazione di Varesenews. Si chiamava Mezzo Busto ed è rimasto un archivio del blog realizzato con i detenuti. Il progetto è terminato nel 2013. Ristretti Orizzonti - La Rivista “Ristretti Orizzonti” è il giornale dalla Casa di Reclusione di Padova e dall’Istituto di Pena Femminile della Giudecca. Ha iniziato le sue pubblicazioni nel 1998. “Perché “Ristretti”? A chi sta in carcere il termine è tristemente noto. Per chi sta fuori serve invece una spiegazione: “ristretto”, nel linguaggio burocratico carcerario, significa “detenuto”. Abbiamo scelto di chiamare così il giornale perché è certo che “dentro” si sta davvero stretti, ma in queste “ristrettezze” fisiche e spirituali vogliamo cercare di parlare mantenendo più viva che mai l’ironia”. In-Oltre Gli Occhi - In-Oltre gli Occhi è un giornale quadrimestrale femminile. Nato dalla voce delle detenute del carcere di San Vittore a Milano è portato avanti grazie al lavoro volontario di persone che credono nel progetto. In ogni numero viene affrontato un tema differente con il quale le detenute si confrontano. Il primo numero è dell’estate 2017 e aveva come tema Coraggio. L’ultimo e dell’autunno scorso ed era dedicato alla Cura. Il giornale è diretto da Renata Discacciati. “Noi, che lavoriamo dietro le sbarre, le chiavi, le mura, alla più libera delle opportunità, la stampa, crediamo in questa piccola, ma feroce impresa che offre un modo di espressione in grado di liberare ciascuno dai cassetti in cui è rinchiuso. Voci Di Dentro - “Voci di dentro” è un periodico quasi interamente scritto da alcuni detenuti delle Case circondariali di Chieti, Pescara e fino al 2013 di Vasto e Lanciano. È editato dall’associazione di volontariato Voci di dentro iscritta al registro delle Onlus, nata per promuovere la cultura della solidarietà e come scopo ha l’inserimento sociale delle persone in stato di disagio, detenuti e ex detenuti, ed è nata a Chieti nel 2008. Attualmente esce mensilmente ed è diretto da Francesco Lo Piccolo. L’Oblò - L’Oblò è il periodico che raccoglie articoli e riflessioni dei detenuti ospitati al reparto La Nave del carcere San Vittore. Nato nel 2002 pochi mesi dopo l’apertura del reparto, viene pubblicato grazie al contributo dell’Editore Feltrinelli nelle cui librerire il giornale viene distribuito gratuitamente. La Via Libera - La rivista editata dal Gruppo Abele non si occupa specificatamente di carcere, ma dedica un ampio spazio a questi temi. “La rubrica curata dall’osservatorio Antigone, che ogni ultimo venerdì del mese ci racconterà cosa succede dietro le sbarre”. Bambini senza sbarre - Non è una rivista, ma è importante conoscere l’attività di questa realtà. “L’Associazione Bambini senza sbarre Ets è impegnata, in Italia e all’estero, nella tutela dei diritti dei bambini, in particolare dei figli di persone detenute. Lavora da 20 anni per dare sostegno psicopedagogico ai genitori detenuti e ai figli, colpiti dall’esperienza di detenzione di uno o entrambi i genitori. Il suo lavoro si articola, ad oggi, in 15 azioni dentro e fuori gli istituti penitenziari, impegnandosi anche nella comunicazione, advocacy e sensibilizzazione a livello nazionale e internazionale. II 21 marzo 2014 ha firmato con il Ministro della Giustizia, l’Autorità Garante dell’Infanzia e dell’adolescenza, la prima “Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti” in Europa”. Agricoltura sociale nelle carceri. Riscatto e inclusione con progetti sostenibili di Florinda Ambrogio buonenotizie.it, 17 marzo 2023 Connettersi con i cicli della natura, entrare in relazione con i compagni di cella con una modalità differente da quella che è la quotidianità, dimenticarsi per qualche ora del cemento e delle sbarre, evadere mentalmente e riassaporare un po’ della libertà perduta è quello che alcuni detenuti possono fare all’interno delle carceri grazie all’agricoltura sociale, un progetto collaborativo, sostenibile e di inclusione utilizzato come strumento educativo. Nel 1975, con la riforma dell’ordinamento penitenziario si è affermato il diritto al lavoro dei detenuti, lavoro che deve essere remunerato. Per i soggetti svantaggiati però, oltre alla gratificazione economica, è importante fare qualcosa che abbia davvero un senso, che li faccia sentire realmente utili, che permetta a ognuno di avere uno scopo. Secondo i dati DAP, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, aggiornati al 30 giugno 2022, le persone detenute negli istituti di pena sono più di 62.000, a fronte di una capienza regolamentare di 50.000 posti, con un tasso di affollamento ufficiale che in alcune aree supera il 120%. Tra il secondo semestre del 2019 e il primo del 2020, sempre dati pubblicati dal DAP, si era registrato un calo del 70% del numero di iscritti ai corsi professionali attivati in carcere, passando da oltre 2.000 partecipanti a poco meno di 800. Nel tentativo di ristabilire situazioni di normalità e di umanità e per evitare che il disagio da individuale possa, un domani, diventare sociale, qualcosa di positivo si sta verificando. Progetti in sinergia con la natura - Il ruolo della formazione professionale nelle carceri è uno strumento efficace sia per l’ingresso nel mondo del lavoro che per la riduzione delle recidive, con un positivo impatto sulla collettività. A confermarlo è una ricerca del febbraio 2023 effettuata dal Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) e pubblicata dal Sole 24 Ore: “2% è il tasso di recidiva tra i 18.654 detenuti che hanno un contratto di lavoro, 68,7% è il tasso complessivo medio stimato su una popolazione carceraria che si attesta a 56.107, confermando in questo modo lo strumento del lavoro come il più efficace per centrare l’obiettivo della sicurezza sociale”. Oltre ai prodotti di artigianato come manufatti di riciclo e alimenti confezionati, che sono entrati da tempo a far parte dell’economia solidale, sta crescendo, all’interno delle mura delle prigioni, la passione per l’agricoltura. Vedendo crescere delle piante alle quali si hanno destinato cure e attenzioni, si è anche incoraggiati a provare gratitudine e pazienza nei confronti di qualcosa che altro da sé e di cui si è responsabili. “Le piante ti aprono la testa. Venire in serra, trafficare nella lamponaia è un distacco dal cemento. Siamo cementati anche durante l’ora d’aria. In mezzo alla natura invece respiriamo”, raccontano i detenuti della casa circondariale di Viterbo in un’intervista rilasciata al mensile Terra Nuova. Reinserimento lavorativo. Il ruolo delle cooperative sociali - L’idea di impegnarsi all’interno di un penitenziario è nata per dare respiro a un sistema dove, a causa del sovraffollamento, non sempre si riesce a garantire ai detenuti un autentico percorso di reintegrazione. Il lavoro agricolo all’interno delle carceri va a colmare le carenze della riabilitazione delle persone svantaggiate unendo, nel contempo, inclusione sociale e tecniche di produzione biologiche che permettono di recuperare terre marginali o sottratte alla criminalità organizzata. Numerose sono le cooperative che, grazie anche all’aiuto di volontari provenienti dal servizio civile nazionale e da ex detenuti, sono impegnate nella formazione di persone in situazioni di fragilità. Insieme riescono a sviluppare azioni sostenibili sia per la società che per l’ambiente, realizzando filiere di produzione etiche guidate da principi di inclusione e dignità grazie al lavoro nei campi. Con la cooperativa sociale “L’uomo e il legno”, all’interno del carcere di Secondigliano a Napoli, ad esempio, è nata un’impresa agricola: grazie al progetto “campoAperto” vengono sfruttati gli spazi inutilizzati dati in comodato d’uso dal Ministero di Grazia e Giustizia dando, in questo modo, la possibilità di fornire un impegno stabile ai detenuti e una formazione professionale in vista di un reinserimento nella società. Nel carcere femminile della Giudecca a Venezia, alcune donne hanno scelto di occupare il loro tempo nell’orto dell’istituto gestito dalla cooperativa Rio Terà dei Pensieri. In questi seimila metri quadri si coltiva un po’ di tutto, rigorosamente senza l’utilizzo di sostanze chimiche. Il risultato del lavoro delle detenute viene in parte utilizzato nella mensa del carcere, altro viene venduto ad un mercatino che le stesse detenute gestiscono, e altro ancora viene distribuito ai gruppi solidali della zona. La cooperativa “O.r.t.o”, nel carcere di Viterbo, con il progetto Semi liberi organizza percorsi di formazione in serra e in campo aperto, arrivando a distribuire i prodotti su scala locale per negozi di alimentazione bio e ristoranti. Molte sono le cooperative sociali in Italia che contribuiscono, grazie a numerosi altri corsi di formazione, a tenere lontani i detenuti dall’apatia, dall’isolamento psicologico e dalla depressione dovuta alla reclusione. Cospito, il Riesame di Perugia riapre la partita per l’anarchico di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 17 marzo 2023 I giudici hanno annullato l’ordinanza di custodia cautelare che era tra gli elementi che avevano contribuito alla conferma del mantenimento del regime del 41 bis. La pronuncia del tribunale del riesame di Perugia potrebbe mettere in discussione il regime detentivo del 41 bis a cui è da tempo sottoposto l’anarchico Alfredo Cospito. La vicenda riguardava alcuni articoli di Cospito pubblicati sulla rivista Il Vetriolo del circolo anarchico di Spoleto. Per i carabinieri del Raggruppamento operativo speciale dell’Arma (Ros) tali articoli si sarebbero inseriti all’interno di una attività finalizzata all’istigazione all’eversione. Con Cospito erano stati raggiunti dalle misure cautelari, a novembre del 2021, altri esponenti di area anarchica, Michele Fabiani, Carlo Rossi e Gianluca Iacovacci. Le difese hanno sempre sostenuto che non ci fosse alcuna attività eversiva ma solo libera manifestazione del pensiero. Tesi accolta dal riesame del capoluogo umbro, presidente Giuseppe Narducci, a latere Lidia Brutti e Emma Avella. Per le motivazioni bisognerà comunque attendere 45 giorni. Il riesame umbro aveva già accolto una prima volta la richiesta di annullamento della misura cautelare, ritenendo mancanti i gravi indizi di colpevolezza. Tale pronuncia era stata quindi impugnata dalla procura di Perugia davanti alla Cassazione che l’aveva annullata con il rinvio per un nuovo esame. I giudici hanno così dovuto nuovamente vagliare la richiesta di annullamento della misura cautelare chiesto dalle difese mentre la procura ne aveva sollecitato la conferma. In uno di questi articoli Cospito scriveva: “Colpire, colpire e ancora colpire... dell’anarchia vendicatrice, non rinunciare allo scontro violento con il sistema, alla lotta armata, costi quello che costi”. Nei suoi confronti il gip del capoluogo umbro aveva, allora, disposto la custodia cautelare in carcere ritenendolo al vertice di un gruppo anarchico-insurrezionalista con riferimento nella Federazione anarchica informale (Fai) e con base a Spoleto. Fabiani è attualmente ai domiciliari. Rossi e Iacovacci hanno l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziari unito all’obbligo di dimora. Cospito, come detto, è invece al 41 bis, il mese scorso confermato dalla Corte di Cassazione proprio sulla base di questi sui presupposti legami con la Fai. Ed è di ieri la notizia di alcuni cavi tagliati a un ripetitore di radiotelefonia sulle alture di Righi, a Genova, in solidarietà a Cospito. La rivendicazione è arrivata su alcuni siti d’area. Sulla vicenda indaga la Digos. La rivendicazione si apre con una frase di Cospito: “La logica che ci comanda è sempre meno il semplice profitto ma l’ancora più spietata logica scientifica; una volta fatta una scoperta scientifica è impossibile tornare indietro, anche se la conseguente innovazione tecnologica ci porta per mano all’autodistruzione”. “In quanto anarchiche e anarchici siamo consapevoli che c’è solo una classe che ha il controllo della società ipertecnologica, e lei sola gode dei suoi benefici, per questo crediamo che non ci sia sabotaggio più concreto che andare a colpire il cuore del futuro e del progresso. Morte allo Stato e alle sue mega macchine, per un futuro libero dallo sfruttamento scientifico. Viva l’Internazionalismo e viva l’anarchia”, si legge ancora nella rivendicazione. Un volantino a firma di “Individualità Anarchiche”, ha rivendicato ieri l’aggressione subita da un esponente di Fratelli d’Italia di Lecco nel dicembre 2019 per mano di un anarchico. Per sabato prossimo è previsto, infine, un corteo a Milano in occasione delle commemorazioni per i 20 anni dell’uccisione di “Dax”, Davide Cesare, attivista del centro sociale Orso ucciso il 16 marzo 2003 da tre simpatizzanti di estrema destra. Il corteo, sotto l’insegna “Antifascismo e anticapitalismo”, dovrebbe partire da piazzale Loreto. È prevista la partecipazione di antagonisti dei centri sociali milanesi ma anche di anarchici, provenienti dalla Spagna, Svezia e altri Paesi europei, che sostengono la causa di Cospito. Quest’ultimo da ormai quasi 5 mesi sta continuando lo sciopero della fame contro il 41bis. Cospito, per il Riesame i suoi scritti sono innocui di Eleonora Martini Il Manifesto, 17 marzo 2023 Niente custodia cautelare per l’istigazione a delinquere. Ma l’anarchico resta in carcere. Annullata la custodia cautelare in carcere cui Alfredo Cospito è sottoposto nell’ambito dell’inchiesta aperta dalla procura di Perugia relativamente ad alcuni articoli pubblicati sulla rivista anarchica Vetriolo che avrebbero istigato alla violenza. Lo ha stabilito il Tribunale del riesame di Perugia che ha annullato l’ordinanza sia per Cospito - il detenuto che ancora persiste nello sciopero della fame iniziato il 20 ottobre scorso ed è ricoverato all’ospedale San Paolo di Milano - che per altri cinque anarchici indagati a vario titolo per istigazione a delinquere, anche aggravata dalle finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico. Alcuni degli indagati erano sottoposti a custodia cautelare ai domiciliari, altri, come Cospito, in carcere. Le motivazioni della decisione del Tribunale delle libertà saranno depositate entro 45 giorni, e comunque Cospito rimane in carcere preventivo perché ritenuto tra i responsabili dell’attentato alla caserma di Fossano e accusato di “strage contro lo Stato”. Ma la notizia è stata accolta dal collegio difensivo coordinato dall’avvocato Flavio Rossi Albertini come “un passo avanti” verso il riconoscimento dell’”innocuità” degli articoli firmati da Cospito o delle sue interviste. Frasi come: “Colpire, colpire e ancora colpire… dell’anarchia vendicatrice, non rinunciare allo scontro violento con il sistema, alla lotta armata, costi quello che costi”, apparsa in una sua intervista su Vetriolo, non sarebbero dunque un’istigazione a delinquere (motivo che è alla base del 41bis cui è sottoposto il detenuto anarchico). “Al limite potrebbero essere considerati propaganda sovversiva, reato però depenalizzato per volontà della Lega”, ricorda l’avvocato Rossi Albertini riferendosi alla norma salva separatisti di San Marco dell’allora ministro di Giustizia Roberto Castelli (Carlo Nordio era nella commissione costituita ad hoc), A.D. 2003. Il Riesame aveva già annullato l’ordinanza di custodia cautelare nel novembre 2021 ritenendo mancanti, per i sei anarchici, i gravi indizi di colpevolezza. Ma la Procura di Perugia aveva presentato ricorso in Cassazione, e questa aveva rispedito gli atti al Tribunale delle libertà chiedendo di vagliare nuovamente la richiesta del pm. Ora, per la seconda volta i giudici del Riesame hanno annullato l’ordinanza. Sta ora al pm riconsiderare l’inchiesta sulla base della decisione confermata. “Noi col guardasigilli. Ma ora Meloni scelga tra manette e garanzie” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 17 marzo 2023 Secondo Lella Paita, senatrice di Italia viva e capogruppo del Terzo polo a Palazzo Madama, “non è accettabile che l’unica categoria a non pagare mai siano i magistrati che sbagliano, proprio coloro che dovrebbero applicare la legge” e spiega che il terzo polo è pronto “a votare la riforma della giustizia e a sostenere Nordio”. Poi si dice si dice d’accordo con la proposta di spostare i detenuti tossicodipendenti in comunità perché “il carcere acuisce il problema della tossicodipendenza e al contempo il sovraffollamento è un problema drammatico”. Senatrice Paita, sono state votate le prime mozioni sulla giustizia: su quali temi in particolare il Terzo polo metterà l’accento nel cammino dei prossimi mesi? Sono tanti i temi per cui ci battiamo e ci batteremo: la mozione del collega Costa approvata nei giorni scorsi segna un preciso cronoprogramma. Continuo poi a pensare che sia centrale rompere il sistema di potere delle correnti all’interno della magistratura. Sia per far prevalere la meritocrazia, sia perché chi sbaglia deve pagare. Non è accettabile che l’unica categoria a non pagare mai siano i magistrati che sbagliano, proprio coloro che dovrebbero applicare la legge. Su alcune questioni, dall’inappellabilità delle assolu- zioni in primo grado all’abuso d’ufficio, sembrate più convinti di certa parte del governo: pensate di caricarvi sulla spalla questa riforma? Noi siamo pronti a votare la riforma della giustizia e a sostenere Nordio. Il problema non siamo noi però, né il ministro. La vera domanda andrebbe fatta a Giorgia Meloni: cosa vuole essere? Un Presidente che apre una stagione nuova e garantista dopo Tangentopoli o restare barricata dietro al giustizialismo che l’ha sempre contraddistinta? Se questa riforma non si farà lei sarà l’unica responsabile. E dovrà spiegarlo al Paese e ai suoi alleati di Forza Italia. Dimostrerebbe di non avere coraggio, perché è chiaro che la riforma produrrà uno scontro forte sia all’interno del parlamento, con le forze giustizialiste, mi riferisco a Pd e M5S, sia con la magistratura stessa. Al contempo si produrrà uno scontro che ritengo essere già in corso all’interno di FdI. Perché la sinistra deve fare i conti con il giustizialismo ma questo riguarda anche la destra. Se non ci sarà la riforma della giustizia non sarà un fallimento di Nordio, ma di Giorgia Meloni. Avete presentato delle proposte anche sul codice degli appalti, che negli anni ha vissuto un vero e proprio travaglio: qual è l’obiettivo del terzo polo e come pensate di raggiungere il risultato? La riforma proposta da Salvini complica anziché semplificare, contraddice la legge delega e il Pnrr stesso. Le nostre proposte mirano a salvaguardare gli interessi pubblici e quelli privati, a garantire omogeneità anche rispetto all’attuazione del Pnrr. Vogliamo lavorare per semplificare le regole affinché le imprese investano e generino occupazione. Noi ci siamo ma basta discorsi a vuoto: si realizzino le opere che servono al Paese. Sfidiamo Salvini a portare cento opere in Parlamento indicando i commissari. Quelle sbloccate finora sono dovute al lavoro che abbiamo fatto con il Governo Draghi. E poi c’è il grande tema del Ponte sullo Stretto: anche lì diamo tutta la nostra disponibilità, ma anziché fare proclami metta a terra i progetti. Al question time avete presentato un’interrogazione sul Mes che ha avuto risposta negativa, ma è stata anche l’occasione per il primo confronto Schlein- Meloni: perché non avete applaudito l’intervento della neo segretaria del Pd sul salario minimo? Il duello di mercoledì è stato il trionfo del populismo: Schlein accusa Meloni di essere responsabile in merito al lavoro povero ma fino a pochi mesi fa il ministro del lavoro era Andrea Orlando, il suo primo sostenitore. Una bella contraddizione. Giorgia Meloni risponde poi come se non fosse lei al Governo, come se fosse ancora all’opposizione pronta a scaricare sulla sinistra i problemi del Paese. Noi veniamo dalla stagione del jobs act, degli 80 euro, di industria 4.0: non ci accontentiamo di vaghi proclami, vogliamo veder succedere le cose. Il massimalista pubblica slogan sui social, il riformista leggi in Gazzetta ufficiale. Abbiamo dato disponibilità a discutere sul salario minimo ma quello che davvero serve al Paese è abbassare le tasse sul lavoro, aumentare la produttività, favorire gli investimenti delle imprese anche attraverso la riforma della giustizia. In questo Paese c’è un non detto: un’idea dell’imprenditore come prenditore, quando invece senza imprese non ci sarebbe lavoro. Da via Arenula è arrivata la proposta di spostare i detenuti tossicodipendenti dal carcere alle comunità: il terzo polo appoggia questo progetto? Sono molto d’accordo: il carcere acuisce il problema della tossicodipendenza e al contempo il sovraffollamento è un problema drammatico. Il carcere deve essere un luogo di dignità e deve essere garantito per tutti il diritto alla salute. I governi boicottano la legge europea contro le querele temerarie di Francesca De Benedetti Il Domani, 17 marzo 2023 “Il comportamento delle autorità italiane nei confronti di Domani è scioccante. Dimostra quanto sia cruciale la “legge di Daphne”, dice Corinne Vella, che di Daphne Caruana Galizia è la sorella. E ci ha provato, Bruxelles, a proporre una “legge Daphne”, cioè una legge anti slapp, contro le sempre più frequenti querele a scopo intimidatorio verso giornalisti e attivisti. Ma il paradosso è che a dover decidere delle sorti di questa direttiva europea sono i governi, gli stessi che magari attaccano a loro volta i giornalisti via slapp come ha fatto Meloni. Il Consiglio Ue sta sabotando la proposta originaria, nonostante l’Europarlamento avesse dato spinta alla legge, come riferisce il relatore Tiemo Wölken. Chi si occupa di libertà dei media lamenta l’opacità dei governi e il boicottaggio della legge anti slapp. “Il comportamento delle autorità italiane nei confronti di Domani è scioccante. Dimostra quanto sia urgente e necessaria la Daphne’s Law, la “legge di Daphne”“. A parlare è Corinne Vella, la sorella della giornalista maltese Daphne Caruana Galizia, che nonostante le ripetute intimidazioni ricevute anche per via legale ha continuato le sue inchieste finché è stata assassinata. “La vicepresidente della Commissione europea, Věra Jourová, ha proposto lo scorso aprile una direttiva europea anti slapp (querele temerarie). Ma ora il Consiglio, invece di irrobustire quella proposta, la sta scardinando con un testo di compromesso che persegue finalità esattamente opposte a quelle originarie”. Vella si esprime a nome della Daphne Caruana Galizia Foundation, che coordina la coalizione anti slapp (la “Case coalition”). E lancia due messaggi: uno è rivolto a Giorgia Meloni e al sottosegretario Claudio Durigon, perché “chi è al governo ritiri le querele abusive”. L’altro è per tutti i governi europei, perché smettano di boicottare la proposta di legge europea anti slapp. Del resto - come ha fatto notare l’eurodeputata Sophie in’t Veld nella sua interrogazione - il paradosso è che “i governi che attaccano i giornalisti tramite slapp sono gli stessi a dover decidere sulla legislazione Ue anti slapp”. La proposta originaria - “Assistiamo a tantissime procedure civili o penali avviate da chi detiene potere politico o economico contro giornalisti o attivisti (le “slapp”). Penso alla giornalista Caruana Galizia, e alla famiglia che ha ereditato i processi dopo la sua uccisione. Sto lavorando perché ci siano regole vincolanti che riequilibrino i poteri”, come ha detto Jourová stessa a febbraio a Domani. “Propongo che chi è colpito da una “slapp” possa far presente al giudice la natura artificiosa di quel procedimento, volto a mettere a tacere la libera stampa, e che il giudice possa quindi già a uno stadio molto preliminare dismettere il procedimento. Inoltre chi fa una “slapp” deve rimborsare chi la subisce per le spese che sopporta”. Ed è in questa direzione che si articola infatti la proposta originaria della Commissione. Gli attacchi dei governi - Per poter avere una base giuridica e non invadere competenze nazionali, la proposta di direttiva fa leva sul carattere transfrontaliero delle querele temerarie. Bruxelles ha deciso di intervenire perché il quadro normativo attuale è inadeguato e le slapp sono in aumento, anche in Italia: l’effetto è quello di disincentivare la partecipazione della società civile (è il chilling effect, l’effetto inibitorio). Assieme alla direttiva ci sarà anche una raccomandazione agli stati membri, che però non può essere vincolante. È dunque sul carattere transfrontaliero di una slapp che si innesca la legislazione Ue. “In base a quanto è ambiziosa e ampia la definizione di “transfrontaliero”, cambia radicalmente la portata della direttiva”, spiega l’eurodeputato socialdemocratico Tiemo Wölken, relatore sul tema nella commissione giuridica dell’Europarlamento. “Paesi come la Francia, in accordo con Germania, Austria e altri stanno provando a stroncare questo passaggio”. I colpi alla legge anti slapp arrivano da tanti paesi, “non solo Polonia o Ungheria”. Squilibrio di potere - In Europarlamento il piano contro le slapp gode di ampio consenso, e il report presentato da Wölken e Metsola ha avuto voti contrari solo dall’estrema destra di Ecr e Id come la leghista Annalisa Tardino. Il Consiglio Ue invece sta tentando di “ribaltare i rapporti di forza tra i potenti che abusano delle querele, e i giornalisti e attivisti che le subiscono”, dice Camille Petit che segue il dossier per la federazione europea dei giornalisti (Efj). Lo si intuisce dalla bozza di compromesso tra governi che è trapelata, in cui scompare ad esempio il risarcimento delle spese legali per chi è attaccato con una slapp. Anche il ruolo attribuito alla società civile viene stravolto. La proposta originaria della Commissione parte dal principio che “chi difende i diritti ha un ruolo importante in una democrazia”; il Consiglio invece elimina questi passaggi, confermando la tendenza - sempre più diffusa a destra - ad attaccare le ong e i giornalisti. “L’opacità su cosa e come i governi stanno decidendo conferma questo stile”, dice Petit. “Perciò bisogna scongiurare l’eventualità che la direttiva passi nella forma abbozzata dal Consiglio”. Wölken spera che l’Europarlamento nei prossimi mesi possa ripristinare una versione ambiziosa della direttiva. Riforma Cartabia, la procedibilità a querela non prevale sulla inammissibilità del ricorso di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2023 Lo ha chiarito la Corte di cassazione con la sentenza n. 11229 depositata oggi. Continuano i chiarimenti della Cassazione sulla applicazione della riforma Cartabia per l’efficienza del processo penale. Con la sentenza n. 11229, la V Sezione penale, richiamando quanto già statuito dalle Sezioni unite rispetto alla riforma del 2018, afferma, con un principio di diritto, che: “In tema di condizioni di procedibilità, con riferimento ai reati divenuti perseguibili a querela per effetto del Dlgs 10 ottobre 2022, n. 150 ed ai giudizi pendenti in sede di legittimità, deve escludersi che la sopravvenienza della procedibilità a querela, per effetto della novella normativa, sia idonea ad operare come un’ipotesi di abolitio criminis, capace di prevalere sulla inammissibilità del ricorso e di incidere sul c.d. “giudicato sostanziale”. Bocciata dunque la tesi della difesa secondo cui andava pronunciata sentenza di non doversi procedere per difetto di condizione di procedibilità, in conseguenza della nuova perseguibilità a querela del reato di furto, ancorché aggravato, non essendo sopravvissuto, in sede di conversione del Dl n. 162 del 2022, il potere del giudice procedente di dare avviso alla persona offesa della possibilità di proporre querela. Per la Suprema corte posto che la querela non è stata proposta, la fattispecie concreta deve essere risolta “alla luce delle coordinate ermeneutiche sin qui tracciate”. Il ricorso dell’imputato, dunque, “è da valutarsi inammissibile poiché manifestamente infondato, oltre che in parte genericamente formulato, senza confronto effettivo con gli esiti dell’accertamento condotto dalle due sentenze di merito” (conformi relativamente alla dinamica di accadimento dei fatti ascritti all’imputato ed alla configurata sussistenza dell’aggravante della violenza sulle cose, rispetto al tentativo di furto contestato). Di conseguenza, prosegue la decisione, “il mutato regime di procedibilità a querela del reato non determina alcuna possibilità di incidere un ‘giudicato sostanziale’ che si è già formato ed i cui effetti, pur siglati dalla constatazione operata dalla decisione della Cassazione, retroagiscono al momento del mancato instaurarsi di un valido rapporto processuale”. In definitiva, pur nella attuale, parziale diversità normativa tra la novella del 2018 e quella del 2022, derivata dall’eliminazione della necessità di dare avviso, da parte dell’autorità giudiziaria, alla persona offesa, circa il mutato regime di procedibilità, con conseguente previsione di un onere, gravante su quest’ultima, di manifestare, eventualmente, la propria volontà di proporre querela, per la Suprema corte: “Non vi è dubbio che il nucleo centrale delle affermazioni delle Sezioni Unite Salatino rimanga valido: a) sia quanto all’affermazione principale secondo cui la sopravvenienza della procedibilità a querela non prevale sulla inammissibilità del ricorso, poiché, a differenza dell’ipotesi di abolitio criminis, non è idonea a incidere sul c.d. “giudicato sostanziale”; b) sia quanto alla distinzione tra l’ipotesi di “mancanza” della condizione di procedibilità (quale quella che consegue al mancato esercizio del diritto di parte successivo al mutato regime di procedibilità per l’intervento innovativo del legislatore) e quella di “remissione” della querela proposta sin dall’inizio relativamente a reati soggetti a tale regime di procedibilità non officiosa”. Parla la nuova garante dei detenuti di Roma: “Sportelli per le residenze nelle carceri” di Andrea Barsanti romatoday.it, 17 marzo 2023 Eletta dall’assemblea capitolina, Valentina Calderone prende il posto di Gabriella Stramaccioni. Ecco i temi su cui si troverà a lavorare. I primi appuntamenti sono già segnati in agenda: fresca di nomina come garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Valentina Calderone visiterà le carceri romane incontrando direttori e direttrici. Poi si metterà al lavoro con l’assessorato di Andrea Catarci sul tema delle residenze per le persone straniere, con l’obiettivo di uniformare la normativa e istituire dei veri e propri sportelli all’interno degli istituti per garantirne i diritti. “Senza una residenza tanti diritti sono negati o non è possibile esercitarli - sottolinea Calderone a RomaToday - ed è per questo che, anche sulla base del parere del garante nazionale, lavoreremo ad atti di indirizzo per i Municipi interessati”. La questione è delicata, una delle tante che Calderone, direttrice dell’associazione A Buon Diritto e in passato collaboratrice della Commissione per la promozione e la tutela dei diritti umani del Senato, si troverà ad affrontare nel corso del mandato come garante per i diritti dei detenuti. Trentanove anni, laureata in economia a Roma Tre, Calderone dal 2013 è direttrice della onlus presieduta da Luigi Manconi. Nel corso degli anni, con A Buon Diritto ha partecipato ai lavori della campagna Stop Opg, coordinato uno sportello di ascolto sociale all’interno del Centro di permanenza per i rimpatri di Ponte Galeria e promosso la campagna per l’abolizione della contenzione meccanica in psichiatria. Il 14 marzo, con 25 voti, è stata eletta dall’Assemblea Capitolina garante delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, per la prima volta dall’istituzione della figura, nel 2003. “La procedura di nomina è sempre stata diretta da parte del sindaco - conferma - nei mesi scorsi è stato cambiato il regolamento, e la nomina è diventata un’elezione da parte dell’Assemblea Capitolina, cosa che valorizza la collegialità della decisione e ovviamente tutela anche l’indipendenza della figura, che è istituzionale ma deve poi operare in autonomia”. Dottoressa Calderone, quali sono le funzioni che eserciterà come garante? I compiti sono molto vari. Ciò cui si pensa subito, quando si parla del mio ruolo, è che ci si occupi solo di questioni carcerarie, ma il garante ha la funzione di assicurare il rispetto dei diritti di tutte le persone che sono in ogni caso private della libertà, e le modalità in cui può accadere sono moltissime: i centri di permanenza per il rimpatrio, i servizi psichiatrici di diagnosi e cura dove vengono portate le persone in trattamento sanitario obbligatorio, gli istituti penali per i minorenni. Poi ci sono le ispezioni in caserme, posti di polizia e in generale in ogni luogo in cui si può trattenere legalmente una persona. C’è poi la parte che riguarda la promozione in generale della cultura dei diritti, e il compito di spiegare alla cittadinanza quello che avviene intorno a questi luoghi e alle questioni della privazione della libertà. Il garante ha il compito di lavorare con assessorati e istituti comunali per creare servizi strutturati finanziati che ruotano intorno alle persone che in questi posti vivono e da cui dovranno uscire, ed è molto importante un confronto costante in questo senso con l’area sanitaria e i servizi sociali. Non si tratta soltanto della garanzia di una singola persona, ma di un intero sistema. Quando si parla di carceri e istituti di pena vengono in mente due macro-problematiche: il sovraffollamento e i suicidi. Qual è il suo approccio alle due questioni? Quella dei suicidi in carcere è una questione fondamentale. Il 2022 si è chiuso con il più alto numero di suicidi dal 2000, anno in cui si è iniziato a tenerne conto. Da questo conto sono derivati protocolli di prevenzione, un intervento normativo che ha coinvolto anche le Asl. Negli ultimi 23 anni sono state apportate moltissime modifiche per provare a rilevare i momenti peggiori o di maggiore fragilità, come il primo ingresso, le notizie dal punto di vista giudiziario, come per esempio una condanna, o dal mondo esterno, cose cioè che succedono ai familiari fuori e cui, dal carcere, non si riesce a rispondere o a reagire. In questo momento c’è, a mio parere, anche la questione della gestione della pandemia e le difficoltà aggiuntive che ha comportato. Il mio compito è anche collaborare per valutare e vedere in che modo si possano abbassare i numeri, se vi siano carenze e in che modo si possa prevenire questi eventi. E sul fronte del sovraffollamento delle carceri? Il Lazio è tra le regioni più sovraffollate e tra quelle con maggiore percentuale di persone straniere, quindi il tema interessa moltissimo Roma. Ovviamente la soluzione non può e non potrà mai essere costruire nuove carceri, ma la chiave è semmai provare a rendere ancora più funzionali tutte le modalità che portano le persone a starne fuori. Il tema si intreccia saldamente con quello delle persone straniere: è fondamentale dotarsi di maggiori strumenti anche per ricorrere alla detenzione domiciliare. Gli stranieri senza documenti o famiglia che li possa ospitare non possono esercitare i loro diritti, ed è importante potenziare le possibilità esterne, che vanno fornite dalle istituzioni e dai servizi per far sì che anche chi ha uno svantaggio dal punto di vista delle relazioni familiari venga supportato. Su questo lavoreremo con l’Assemblea Capitolina: più si riesce a creare possibilità che siano vere alternative di trattamento, più si contribuisce a risolvere il problema del sovraffollamento. A proposito di regimi carcerari e pene detentive, impossibile non fare un accenno al caso di Alfredo Colpito. Roma è diventata una piazza estremamente significativa per le proteste contro il 41 bis... Mi auguro a titolo personale che questo sia un caso che possa lasciare il segno. Auspico che si possa parlare delle grandissime questioni che Cospito ha sollevato non in modo ideologico, ma costruttivo. Cospito, con il suo sciopero della fame, punta i fari non solo sulla sua condizione, ma anche sulla contestazione di due regimi che dovrebbero essere rivisti, l’ergastolo ostativo e il 41 bis. Per noi operatori è un’occasione per poterne finalmente parlare, e ci piacerebbe farlo in modo un po’ più sereno. Se è in pericolo la sua vita le due cose dovrebbero essere necessariamente disgiunte. Personalmente ritengo che sia stata spropositata la decisione del 41 bis a monte, questa è una questione che ha qualcosa che non funziona, ma il sistema generale dovrebbe essere aggiornato, e bisognerebbe provare ad avere la lucidità di parlarne e di mettere in discussione istituti che hanno preso una deriva molto lontana dagli obiettivi che avevano in origine. Torino. Dopo le rivolte via i migranti dal Cpr di Giulia D’Aleo Il Manifesto, 17 marzo 2023 Gli ultimi sei trasferiti a Trapani, Potenza e Macomer. Due anni fa nel centro si tolse la vita un giovane originario della Guinea, Si è svuotato il Cpr (Centro per il rimpatrio) di Torino, chiuso per la prima volta, seppur temporaneamente, in quasi 25 anni di storia. Nell’ultimo mese una serie di rivolte scoppiate all’interno della struttura ne avevano progressivamente reso inagibili gli spazi e avevano costretto al trasferimento delle persone trattenute. Gli ultimi sei migranti rimasti, da giorni in sciopero della fame, sono stati portati via il 2 marzo e smistati, come gli altri, tra i Cpr di Trapani, Potenza e Macomer. Adesso restano solo le forze di polizia, stanziate a presidio del centro perché ritenuto un obiettivo nel mirino della “galassia anarchica del territorio”. E mentre l’ultimo decreto Meloni punta a snellire le pratiche necessarie a costruirne di nuovi, lunedì il Consiglio comunale ha approvato un ordine del giorno per chiedere al governo la chiusura definitiva del Cpr. Nella notte tra il 4 e 5 febbraio, quando è esplosa la prima protesta, le persone presenti nel centro erano 121. Alcune di loro hanno appiccato degli incendi in diversi padiglioni, dimezzando la capacità di accoglienza della struttura. Dopo la repressione della rivolta, in 79 sono stati sistemati in luoghi di fortuna per le successive 48 ore e poi spostati altrove. Caricati su dei pullman con destinazione il sud Italia, a nessuno di loro era stato comunicato dove fossero diretti. Il 20 febbraio, le poche decine di persone rimaste hanno dato alle fiamme la parte ancora agibile dell’edificio, imponendone la chiusura. È solo l’ultima - e la più riuscita - delle rivolte interne ed esterne che periodicamente investono il Cpr di Torino, di cui attivisti e garanti denunciano da tempo le condizioni disumane di trattenimento. Un luogo impermeabile, ulteriormente isolato dalle restrizioni imposte dalla pandemia, che ha regolamentato la pratica del sequestro dei cellulari all’ingresso. “Il Cpr di Torino è una struttura fatiscente, composta da camerate non abbastanza grandi per il numero di persone che contengono, da bagni senza porte e da un unico spazio di socialità: un cortile circondato da reti metalliche” racconta Lorenza Della Pepa, attivista della rete informale Osservatorio Cpr, nato dopo la morte di Moussa Balde, il 22enne guineano che a maggio del 2021 si è tolto la vita all’interno del centro. Sul Cpr pende un’indagine volta ad accertare le responsabilità del suo suicidio, avvenuto dopo il confinamento “nell’ospedaletto” - una zona di isolamento sanitario, normativamente inesistente e chiusa in seguito alla sua morte - in uno stato psicologico visibilmente compromesso. Ma le condizioni di disagio estremo a cui sono sottoposte le persone bloccate in questo “limbo giuridico”, persino più restrittive che in carcere, fanno sì che la percentuale di persone con problemi psichiatrici, spesso prive di assistenza, sia sempre molto alta e che le valutazioni di idoneità al trattenimento siano generalmente sbrigative. “C’era questo ragazzo che piangeva a dirotto - racconta Della Pepa - perché i suoi genitori erano morti e lui voleva tornare in Tunisia, ma non si riusciva a rimpatriarlo per problemi di identificazione. Più volte ha manifestato insofferenza con gesti autolesionistici e tentato il suicidio, ma dall’ospedale continuavano a rimandarlo al Cpr”. Delle persone trattenute, ogni anno più del 50% sconta poi una detenzione che non si conclude con il rimpatrio. “Nei giorni precedenti alla rivolta, dall’1 al 5 gennaio, su 122 ingressi ci sono stati solo 35 rimpatri effettivi - spiega al manifesto la garante dei detenuti di Torino, Monica Gallo. - Su Torino il numero delle espulsioni è talmente basso che il centro non avrebbe ragione di esistere”. Numeri che rendono il centro, oltre che luogo di violazione dei diritti, anche un “investimento a perdere - commenta l’assessore alle Politiche sociali Jacopo Rosatelli -. Chiuderlo sarebbe, inoltre, il vero gesto di riparazione verso Moussa Balde e i suoi familiari”. Di un “fallimento su tutti i fronti” parla, invece, Marco Grimaldi, parlamentare di Verdi e Sinistra, sostenendo che la posizione trovi d’accordo “anche chi pensa che la politica dell’identificazione e dell’espulsione sia centrale nel nostro sistema. Un reato amministrativo non dovrebbe essere sanzionato con la privazione della libertà”. Ma il ministero dell’Interno non sembra voler perdere tempo. Così, sospeso il contratto con Ors Italia - la società svizzera che aveva in gestione la struttura e che si occupa anche dei Cpr di Roma e dei Cas di Milano e Monastir - già dalle prossime settimane si procederà a una stima dei danni e dei fondi necessari alla sistemazione, che al momento si ipotizzano essere intorno a un milione di euro. E poi via al bando per gli interventi, così che il Cpr possa tornare attivo nel più breve tempo possibile. “Penso che gli investimenti siano appena sufficienti a risanare i danni alla struttura, non credo che ci sia l’idea di ripensarne l’architettura - commenta la garante -. Eppure bisognerebbe riflettere sul senso di questo edificio, concepito in modo mortificante, con unità abitative simili a delle gabbie. In Cpr poco dignitosi come questo, gli eventi critici saranno sempre inevitabili”. Parma. Cesare Battisti: “Aggredito dagli agenti in carcere, hanno rotto il mio pc” today.it, 17 marzo 2023 L’ex terrorista estradato dal Brasile ha presentato un reclamo al tribunale di sorveglianza. Cesare Battisti, ex militante dei Proletari armati per il comunismo (Pac), rinchiuso nel carcere di via Burla a Parma dopo l’estradizione dal Brasile e condannato all’ergastolo per quattro omicidi, ha presentato un reclamo al tribunale di sorveglianza di Reggio Emilia. Nel documento, di cui dà notizia l’agenzia Agi, scrive che il 2 marzo “alle 8 del mattino un assistente capo in servizio con aria spavalda e fare minaccioso, supportato da un nugolo di agenti dalle impressionanti prestanze fisiche faceva irruzione nella mia cella con la manifesta volontà di voler provocare reazioni inconsulte, aggredendo verbalmente e fisicamente il sottoscritto”. L’ex militante dei Pac sostiene di aver subito “un trattamento selvaggio”, si legge nel foglio manoscritto di tre pagine, e lamenta la mancanza di privacy che non verrebbe rispettata “nemmeno quando vado in bagno”. Secondo l’ex terrorista inoltre il suo pc avrebbe subito “gravi danni”. “Un trauma” scrive Battisti, “per me è uno strumento di lavoro come scrittore ed editor di ‘Artisti dentro, e l’unico mezzo per mantenere un equilibrio psichico in circostanza tanto avverse”. Avellino. “Essere genitori in carcere”, il resoconto dell’iniziativa irpinia24.it, 17 marzo 2023 Il 7 e 13 marzo 2023 si sono tenute due giornate di approfondimento sul tema “Essere Genitori in Carcere”, organizzate dai docenti dell’ITG D’Agostino, sezione carceraria, coordinati dalla referente, professoressa Claudia Di Franza, per le quali si ringrazia il Dirigente Scolastico, ing. Pietro Caterini. Teatro dell’evento è stata la Casa Circondariale di Bellizzi Irpino (AV). Gli incontri si sono articolati in due giornate, dedicate, rispettivamente, ai detenuti dell’Alta Sicurezza ed ai detenuti della Sezione Comune. Alla presenza della direttrice della casa circondariale, dott.ssa Concetta Felaco, e dei docenti, gli esperti Laura Criscitiello, psicologa e psicoterapeuta familiare, Deborah Gemelli, psicologa e psicoterapeuta familiare e Gennaro Romei, avvocato esperto in Diritto di Famiglia, si sono alternati negli interventi, illustrando la tematica e rispondendo ai numerosi quesiti posti dai detenuti. La tematica della “Genitorialità in Carcere” ha suscitato vivo interesse nella platea, essendo i detenuti fortemente impegnati nel tentativo di riuscire a svolgere il ruolo di genitore. Nel corso degli incontri sono emerse le difficoltà nell’esercitare il ruolo di genitori e, in diversi casi, il timore che tale ruolo non venga in alcun modo percepito dai figli. E, del resto, nel corso degli anni, intere generazioni di padri hanno vissuto e tutt’ora vivono momenti di indubbia difficoltà, incapaci di comprendere quale ruolo esercitare, lasciando che le decisioni per la vita dei figli vengano prese esclusivamente dalla madre. Nel corso dei dibattiti è emerso che mantenere, una “buona relazione” di comunicazione e affetto con i propri figli non risulta sempre semplice. Eppure ciascuno dei detenuti ha evidenziato come l’incontro con la famiglia, con i figli, sia in presenza che mediante le videochiamate, scandisce e vivifica ciascuna settimana trascorsa in carcere. Rappresenta un momento atteso e desiderato dove si riversa la volontà di non abdicare al proprio ruolo genitoriale. Il colloquio con i propri figli è vissuto con sentimenti, talvolta contrastanti, laddove il senso di responsabilità ed il senso di colpa si accavallano, rendendo, talvolta, la comunicazione complicata. E un’altra criticità emersa è rappresentata dal luogo in cui avvengono i colloqui, non sempre contrassegnato da quell’intimità e da quel silenzio indispensabili per una maggiore efficacia delle relazioni. Durante gli incontri i detenuti si sono disposti in circolo, e ciascuno ha effettuato la propria presentazione, illustrando il proprio vissuto inerente la genitorialità, ponendo domande agli esperti in un clima di totale serenità e disposizione all’ascolto, senza pregiudizi. Nel corso dell’incontro è stato illustrato il Protocollo d’Intesa sottoscritto tra il Ministero della Giustizia, l’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza e l’associazione Bambinisenzasbarreonlus”, in data 16 dicembre 2021. Tale Protocollo, secondo le intenzioni dei sottoscrittori, comporta il raggiungimento della ambiziosa meta “mai più bambini in carcere”. Il suindicato Protocollo, all’avanguardia e riferimento per i 47 paesi del Consiglio d’Europa, ha tra le sue linee guida la riduzione della ‘distanza dagli affetti’ provocata dalla detenzione. Tutti i figli hanno il diritto di conservare un rapporto costante con i genitori, anche se reclusi. Assicurare la continuità dei legami familiari incide, inoltre, positivamente sul detenuto, nella prospettiva costituzionale della pena volta alla rieducazione. E, del resto, l’esercizio della potestà genitoriale durante la detenzione aiuta sia il percorso rieducativo, sia risulta fondamentale per evitare che i minori intraprendano percorsi di vita di “devianza”. Secondo la statistica sono all’incirca 100.000 i bambini che in Italia hanno almeno uno dei due genitori detenuti. La detenzione per un minore non deve significare perdita di riferimento e di legame con ambedue le figure genitoriali. I percorsi di sostegno alla genitorialità, attivi attualmente in Italia, sono molteplici e affrontano la tematica con modalità differenti, concentrando l’attenzione su numerosi aspetti. Dalla “stanza dell’affettività” allo “spazio giallo”, dalla ludoteca alle aree verdi, dal “gruppo di parola” alla “scuola dell’accoglienza”, ogni progetto proposto da varie Associazioni si impegna a preservare e garantire il diritto di essere padre e quello di essere figlio. Al termine degli incontri alcuni detenuti hanno chiesto di potersi confrontare con gli esperti mediante colloqui individuali e gli stessi si sono svolti in un clima di grande serenità ed empatia. Latina. Le voci dal carcere ascoltate dai ragazzi, tra dolore e speranza di Marianna Vicinanza latinaoggi.eu, 17 marzo 2023 C’è Tonino, il corpo a Rebbibia, ma la mente e il cuore rimaste insieme ai suoi figli, che un giorno ha ricominciato a sorridere perché è riuscito a perdonarsi. C’è Luciano che poteva e doveva farcela, ma sentiva troppo grande il peso del dolore e si è suicidato il giorno del suo 50esimo compleanno. C’è Federico, 27 anni e laureato, che si occupa di tutti con umiltà, ma non riceve alcuna gratitudine, e sa dire: “Non è colpa loro, è colpa mia, non ci metto abbastanza volontà. A me il carcere sta dando tanto, quando uscirò sarà un uomo diverso”. Speranza e paura, dolore e rassegnazione, ma anche tanto coraggio e una profonda umanità nelle storie raccontate tutte d’un fiato che arrivano come un pugno allo stomaco nell’aula magna del Mattei di Latina. I ragazzi ascoltano in silenzio, sono lontani da quell’indifferenza a ciò che li circonda di cui spesso li si accusa ingiustamente e dopo la testimonianza di un ex detenuto della nostra provincia, che chiameremo Antonio per rispetto del diritto all’oblio della sua vicenda, si accendono di domande e della voglia di sapere. Segno di una iniziativa, quella di stamattina dal nome ‘Non tutti sanno, la voce dei detenuti di Rebibbia’ a cura di suor Emma Zordan, moderata dal giornalista Roberto Monteforte e organizzata dall’Istituto professionale Einaudi Mattei, che colpisce nel segno mostrando come delle realtà carcerarie si debba parlare per far conoscere una realtà spesso negata dal pregiudizio e dall’indifferenza. L’incontro con suor Emma - I ragazzi delle classi quarte e quinte hanno incontrato suor Emma Zordan, che da 9 anni opera come volontaria nel carcere di Rebibbia ed è la curatrice del libro “Non tutti sanno che - la voce dei detenuti di Rebibbia” nell’ambito del progetto presentato dalla professoressa Rina Valentini dal nome “Memoria carceraria e ripensamento della pena per la dignità della persona”. “Nel leggere il libro ho avuto modo di scorgere - ha spiegato ai ragazzi il dirigente scolastico Costantino Forcina - attraverso le testimonianze dei ristretti e dei loro familiari, la forte umanità che si nasconde dietro le sbarre, il pentimento dei reclusi, ma anche il desiderio di riscatto e il diritto al futuro e alla dignità. Le pene, recita l’articolo 27 della nostra Costituzione, non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Ma nel mondo del carcere questa finalità è apparentemente irraggiungibile e la rieducazione sembra essere, la semplice giustificazione di una realtà incancellabile, piuttosto che un obiettivo realmente perseguibile. Mi auguro, quindi, che questo incontro aiuti ognuno di noi a crescere, a maturare e a sensibilizzarsi verso una realtà molto spesso ignorata ma parte fondamentale del nostro Stato”. Monteforte ha spiegato le coordinate di questo viaggio all’interno del carcere frutto di un laboratorio di scrittura creativa attraverso il quale i detenuti si sono raccontati mostrando una realtà diversa, lontana dai preconcetti. Gli stessi che aveva suor Emma il primo giorno che è entrata a Rebibbia. “In quei corridoi lunghi - dice - in quelle celle piccole e sporche dalle finestre basse avevo paura di incontrare i loro sguardi, ma poi giorno dopo giorno ho scoperto la loro realtà così dura e che fa i conti ogni singolo momento con il reato che hanno commesso. Non tutti sanno quello che soffrono per diventare diversi, per cambiare, eppure sono ragazzi che nonostante la libertà tolta riescono ad essere solidali, si privano delle loro cose per darli ai loro compagni, sono capaci di sorridere nonostante il dolore, che hanno pazienza e resilienza di cui noi spesso non siamo capaci. Il loro lockdown è stato un carcere nel carcere, privati di volontari, psicologi, educatori, spesso inascoltati dalla società, il loro percorso porterà sempre il marchio della detenzione anche una volta che avranno raggiunto la libertà. Io imparo da loro”. Il suicidio e quelle realtà invisibili - Suor Emma racconta di Luciano, che aveva commesso un delitto. “Non posso dimenticarlo, il suo sguardo mi pesava tanto e anche la sua impassibilità. A un certo punto ha cominciato ad aiutare gli altri, era un punto di riferimento e aveva pochi anni da scontare. Si era iscritto all’ultimo colloquio prima di uscire, ma a quell’appuntamento non è arrivato, si è impiccato nella sua cella”. Il suicidio è una delle note dolenti del carcere, Monteforte spiega che lo scorso anno ci sono stati 84 suicidi negli istituti di pena in Italia, persone affidate allo Stato che si sono tolte la vita per la disperazione e per la solitudine, e che quest’anno da gennaio a marzo i suicidi sono già dieci. La storia di Antonio - Infine nell’aula magna del Mattei la testimonianza più toccante è quella di Antonio, un ex detenuto di Rebibbia, finito dentro per tre anni per una rapina. “Ero laureato, avevo due figli e non trovavo lavoro, ho perso la testa - racconta - sono entrato in carcere ed è stata durissima, ho trovato la forza di reagire per i miei figli e per mia moglie. A Rebibbia ho trovato tanta umanità e tanta fratellanza, e l’impegno come lavorante di sezione mi ha salvato. Mi sono messo a disposizione dei disabili e di chi aveva problemi, ma il pensiero di fuori mi mangiava, di mia moglie e del rapporto con mio padre, che non riusciva più a guardarmi. Piano piano mi sono riscattato, la libertà non me la ridà nessuno, e anche oggi è difficile trovare lavoro con questo marchio addosso, ma io vado avanti e non mi arrendo”. “A voi ragazzi dico - spiega ancora Antonio - di stare attenti alle dipendenze perché vi rovinano la vostra vita e quella di chi vi è vicino, e imparate a perdonarvi e a parlare dei vostri problemi. Chiedere aiuto non significa essere deboli”. Non tutti sanno che il carcere può essere un luogo di arricchimento dell’anima. Ma, oggi, tanti ragazzi dell’Einaudi Mattei lo hanno imparato. Forlì. A Savignano il carcere raccontato agli studenti delle superiori corriereromagna.it, 17 marzo 2023 Il tema carcerario entra a scuola: oltre 100 studenti a lezione di legalità. All’istituto “Marie Curie” un incontro voluto dal dirigente scolastico Mauro Tosi e dalla professoressa Roberta Ortis. L’inconsueto appuntamento, rivolto agli studenti sui temi della legalità e sicurezza sociale, era promosso dall’impresa sociale Altremani srl e dall’ente di formazione Techne, con il contributo della casa circondariale di Forlì. Altremani è la prima società nata in provincia con lo scopo di lavorare sui temi dell’esecuzione penale, offrendo lavoro ai detenuti e promuovendo sul territorio attività educative finalizzate a diffondere nei giovani la cultura della legalità e della tolleranza in un’ottica di prevenzione del reato. Oltre 100 ragazzi di 5 classi del “Marie Curie” hanno seguito le testimonianze della direttrice della casa circondariale di Forlì, Palma Mercurio, dell’ex detenuto Antonio Semeraro, dell’ex vice comandante ora in pensione, Maria Teresa D’Agata e del direttore generale di Techne, Lia Benvenuti. Messaggi forti e domande - Agli studenti si è proposta l’importanza di riconoscere i comportamenti “illegali” per prenderne le distanze, ma anche di conoscere la vita “dentro” con il malessere e le limitazioni dovuti alla perdita della libertà dietro le sbarre. I ragazzi sono stati attenti e hanno posto molte domande, dimostrando interesse e curiosità per un mondo poco conosciuto. Posti anche interrogativi spinosi, facendosi raccontare la vita carceraria, i suoi tempi e le sue modalità, analizzando due prospettive: quella del detenuto e quella degli agenti penitenziari. “Che reato hai commesso?”, “Come si trascorre il tempo in carcere?”, “Le celle hanno la tv?” Sono alcune delle tante domande che gli studenti hanno posto ai relatori. L’ex carcerato - “Il tempo in carcere non passa mai - ha sottolinea Antonio Semeraro - È tutto tempo sprecato, si perdono anni di vita e spesso resta solo una grande solitudine. L’esperienza carceraria talvolta allontana familiari e amici che prendono le distanze con il rischio per il detenuto, una volta uscito, di trovarsi in una situazione molto difficile senza gli affetti più cari”. L’ex vice comandante - “L’amministrazione penitenziaria prevede diverse attività per riempire le giornate del detenuto - ha spiegato l’ex vice comandante Maria Teresa D’Agata - proponendo percorsi scolastici per chi non è scolarizzato, corsi professionalizzanti e soprattutto attività lavorative. Il lavoro rappresenta il vero strumento per responsabilizzare il detenuto offrendogli una concreta possibilità di reinserimento sociale”. La direttrice del carcere - “Raccontare i fatti e rispondere alle domande dei ragazzi - ha sottolineato la direttrice Palma Mercurio - mettendoci la faccia è un grande esempio che speriamo serva agli studenti per capire un po’ di più la vita detentiva e quali sono gli errori da evitare”. L’associazione - “Obiettivo di questa iniziativa - ha chiarito la presidente di Altremani srl, Daniele Versari - è contribuire alla sicurezza sociale del territorio, favorendo l’educazione alla legalità anche attraverso incontri con i giovani che frequentano le scuole secondarie. Visto l’entusiasmante riscontro dei ragazzi del “Marie Curie” siamo certi di essere nella direzione giusta, per mettere in calendario tante nuove giornate come questa”. Venezia. Con “Muri invalicabili” detenuto vince premio di poesia dell’Associazione Icaro di Andreina Corso Ristretti Orizzonti, 17 marzo 2023 Quando si alza una voce nel buio, si rischiara una zona del nostro sentire inesplorato e stupiti riconosciamo che il sentimento, la Poesia abitano dovunque, anche dentro un carcere. Ad alimentarlo, L’Associazione Il Granello di Senape, l’Associazione di Volontariato Penitenziario, che nell’ambito delle numerose attività svolte nella biblioteca del carcere maschile cittadino di Santa Maria Maggiore. comunica che N.N. una persona ristretta, ha vinto con “Muri invalicabili” il Terzo Premio di Poesia, organizzato dalla Associazione Icaro Volontariato Giustizia di Udine. Solitudine Eppure anche solo, tale non sono / c’è quel libro aperto che si fa raccontare/ e buona musica che avvolge e ricorda. Non sono solo in compagnia delle nuvole, / le osservo nel cielo osservare un confine, / quaggiù percezione, lassù, infinito, / svaniscono negli occhi, accecate dal sole. Non c’è solitudine, / ascolto il gabbiano / sorvola la mia cella di buon mattino, / volteggia stridendo, mi sussurra una storia, / caccia abbondante, / libertà infinita. Non c’è solitudine, / ascolto il gabbiano / sorvola la mia cella di buon mattino / volteggia stridendo, / mi sussurra una storia, / caccia abbondante, / libertà infinita. Non c’è solitudine se lascio correre i miei sogni / si librano alti oltre il filo spinato, / il tempo, lo spazio annullati e reversi / sul foglio bianco che freme d’inchiostro. Non c’è solitudine se oltre quel muro /dispiego le ali e inizio a volare. Ad Aprile le sue poesie saranno lette all’inaugurazione di un evento della Biblioteca Civica di Udine. Grande, la soddisfazione del premiato, delle volontarie e dei volontari del Granello di Senape, che ogni giorno e da tanti anni operano affinché le persone ristrette possano esprimersi e far sentire la loro voce nelle numerose attività e forme. A dire e a dirci che ogni essere umano, ha sempre qualcosa da dire e da dare e niente, neppure le sbarre o le celle possono cancellare questa umana tensione. Muri invalicabili Si stagliano immensi, orgogliosi, impotenti / ad eroica difesa di una misera libertà / confinata e protetta dal filo spinato. Quanti muri innalziamo giorno su giorno? / Quanti muri incrociamo sul nostro cammino? / Muri innalzati a difender la razza. / Muri innalzati a distinguere i sessi. /Muri innalzati a distinguere un credo. / Muri innalzati a salvar la bandiera. / Muri innalzati perché c’è un perché. Con voci potenti tuoniamo dai muri / arroccati a difendere una fangosa trincea / e mille motivi si spargono intorno, faville nel vuoto. / L’incide è il dito cresciuto di più / che può giudicare, indicare, vagliare, / accovacciati al riparo del nostro lucido muro / cogliamo il riflesso dell’errore dell’altro. Ed un coro vibrante si innalza dai muri / e grida si indigna, si strappa le vesti, / neppure si accorge che su tutti noi giusti / piove a dirotto l’universo in frantumi. A pensarci, ogni terra si può seminare se a curarla è un contadino attento alla pioggia a ‘dirotto dall’universo in frantumi’. Quella battaglia di Mariateresa contro carcere e pena di morte di Davide Grittani Corriere del Mezzogiorno, 17 marzo 2023 Ricordando Mariateresa Di Lascia, militante e scrittrice, nei 30 anni di “Nessuno tocchi Caino”. Fateci caso, uno degli intercalari cui ricorriamo con maggiore frequenza è “speriamo marcisca in galera”. Così come quando la rabbia tracima in vendetta e una delle affermazioni che più ci sembrano adeguate per manifestare tutta l’indignazione è “chiudetelo in cella e gettate via la chiave”. In barba a secoli di Umanesimo e alle radici stesse della nostra Costituzione, non riusciamo a emendarci dalla percezione afflittiva della detenzione, spesso così denigratoria (si pensi all’espressione “avanzo di galera”) che la riabilitazione rimane retorica più che obiettivo. Ecco perché il dibattito sulla detenzione di Alfredo Cospito ha spaccato in due il Paese, riproponendo con violenza il tema delle condizioni in cui vivono 55 mila detenuti in Italia. Sia Amnesty International che Nessuno tocchi Caino si sono pronunciati sul caso dell’anarchico (detenuto per aver gambizzato l’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi), tuttavia ai più sembra sfuggito che questa vicenda coincide coi 30 anni dalla nascita dell’unica organizzazione italiana contro la pena di morte. Nessuno tocchi Caino nacque nel 1993 su iniziativa della scrittrice e attivista radicale foggiana Mariateresa Di Lascia. C’è la sua firma (oltre a quella del marito Sergio D’Elia, ex dirigente radicale e della formazione terroristica Prima linea) sullo statuto con cui fu fondata come “lega di cittadini e di parlamentari per la moratoria delle esecuzioni capitali, in vista dell’abolizione della pena di morte nel mondo”. Così come c’è la sua firma su tutte le proteste di piazza cui riuscì a partecipare, fino a quando un male incurabile se la portò via (10 settembre 1994) senza darle il tempo di assistere all’uscita del romanzo Passaggio in ombra (Feltrinelli, 1995) con cui vinse il premio Strega (unica assegnazione postuma insieme a quella di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo). Ai tempi nessuno gli attribuì molta importanza, ma la presenza di Mariateresa Di Lascia in Nessuno tocchi Caino era più forte e simbolica della “sola” militanza radicale. La Puglia era stata la regione in cui avevano rinchiuso Antonio Gramsci e Sandro Pertini (a Turi), la regione del confino riservato agli omosessuali durante il regime fascista (isole Tremiti), la regione dotata di una sezione idonea al regime più severo previsto dal nostro ordinamento (41 bis, a Bari) e infine la regione in cui sono attualmente detenute oltre 4500 persone mentre il limite consentito sarebbe di 2000. Insomma una origine non casuale, che evidentemente Mariateresa - così come dicevano i parenti di Rocchetta Sant’Antonio, suo paese natale - voleva “onorare intellettualmente”. Per motivare il suo impegno per Nessuno tocchi Caino, si potrebbe ricorrere a uno dei passi più toccanti proprio di Passaggio in ombra: “Quando aveva pensato a cosa sarebbe stata la sua vita, a quale forma si sarebbe piegata ad avere, se mai ne avesse avuta una, aveva sentito qualcosa ribellarsi dentro sé, come per una insopportabile imposizione. Allora aveva avuto un solo desiderio: conservare il più a lungo possibile, forse per sempre la libertà di non avere nessuna forma”. A cui varrebbe la pena aggiungere lo storico saluto di Marco Pannella, quando lo informarono della morte dell’attivista foggiana: “Aveva un’idea della libertà personale molto alta, come una specie di condizione poetica da cui nemmeno il peggiore degli assassini al mondo poteva essere spodestato. Lei sapeva fare distinzione tra necessità della pena e condizione della pena, perché quello che si dimentica troppo spesso è che le condizioni in cui vivono i detenuti non possono indurre a nessuna redenzione… se non a incarognirli ulteriormente contro la vita e contro la nostra società”. Oggi come allora Nessuno tocchi Caino si batte per le stesse cause, ma forse a 30 anni dalla fondazione sta venendo meno quello spirito radicale che in breve tempo la impose come l’organizzazione non governativa tra le più attive (al mondo) in favore dell’abolizione della pena di morte e delle torture durante la detenzione. La presiede Rita Bernardini, mentre Sergio D’Elia (condannato a 12 anni per banda armata e concorso morale in omicidio) ne è segretario, tuttavia sono in molti a ritenere che “lo spirito di Mariateresa Di Lascia sia andato perduto per sempre”. Il caso Cospito rimette al centro della discussione l’uomo oltre i propri reati, la dignità oltre la consistenza (e la necessità) delle pene. Chissà che ne avrebbe pensato Mariateresa, alla memoria della quale da anni ormai dovrebbe essere dedicata una struttura per la detenzione femminile con all’interno una sezione per infanti e bambini, ma arrivati sul più bello le procedure s’incagliano sempre su quello stigma malcelatamente taciuto. In fondo sono “avanzi di galera”. Franco Rotelli, lo scardinamento del manicomio di Maria Grazia Giannichedda Il Manifesto, 17 marzo 2023 Il ritratto. Muore all’età di 81 anni lo psichiatra che ha lavorato con Franco Basaglia e, dopo di lui, all’ospedale di Trieste. Ha sempre cercato di vedere oltre, di mantenere saldo pensiero e sguardo critico, e di creare realtà che li facessero vivere. Sua ultima creatura, avamposto della “città sociale”, le “microaree”. Se n’è andato ieri mattina a 81 anni Franco Rotelli, che con Franco Basaglia e dopo di lui, e all’interno di un movimento di inusuale ampiezza e durata, ha smontato il manicomio e inventato un nuovo tipo di istituzione, che ha dimostrato di saper funzionare ma che ha vita sempre più difficile, specie da quando in tanti hanno scelto di scardinare la sua base, il servizio sanitario nazionale. Questo nuovo tipo di istituzione, insieme sanitaria e sociale - concetti consumati dall’abuso quanto poco praticati -, Rotelli ha cercato di costruirla da ruoli diversi: operatore sul campo e dirigente di servizio nell’ospedale psichiatrico di Trieste, direttore del Dipartimento di salute mentale da quando nel 1979 Basaglia era andato a Roma, direttore generale dell’azienda sanitaria di Trieste e poi di Caserta, infine nel 2013 consigliere regionale e presidente della commissione sanità del Friuli Venezia Giulia. Il primo lavoro di Rotelli era stato nel manicomio giudiziario di Castiglione delle Stiviere, ed era stato il suo primo tentativo di disobbedire e fare altro. Così era arrivato a Parma nel 1970, durante la breve, faticosa, complicata esperienza di Basaglia con l’amministrazione di sinistra dell’ospedale psichiatrico di Colorno. A Trieste, invece, Basaglia aveva trovato nell’amministrazione democristiana, o meglio nel presidente Michele Zanetti, una complicità sostanziale ed erano iniziati anni ricchissimi e litigiosi, sui quali si è depositata una memoria generica incentrata sui simboli (Marco Cavallo, il volo, le feste e i concerti) che sottovaluta un dato essenziale: tra il 1972 e il 1978, anno di approvazione della “legge 180”, a Trieste erano già nati, con tanto di dispositivi amministrativi, quelli che saranno poi i pilastri del servizio di salute mentale comunitario. Penso alla prima cooperativa che mise al lavoro persone con sofferenza mentale; alla figura di “ospite”, cioè persona che aveva perso tutto con l’internamento e a cui la Provincia forniva “asilo non pagato al prezzo dei diritti”, per usare parole dell’epoca, attraverso il servizio di salute mentale che organizzava piccole convivenze, l’”abitare assistito” per usare parole di oggi; il centro di salute mentale aperto ventiquattro ore su ventiquattro, con posti letto, infrazione grave all’imperante medicina del binomio ambulatorio e posto letto ospedaliero. Franco Rotelli ha avuto il grande merito di dare un corpo solido a tutto lo sperimentare degli anni Settanta, di portarlo a compimento, di metterlo a sistema e di proteggere la sua vitalità tra i marosi del dopo riforma, che accumulavano in Parlamento disegni di legge per cancellarla. Quegli anni furono particolarmente pesanti a Trieste, con l’arrivo sulla scena politica già nel 1978 di una prima forma di leghismo, il partito della “Lista per Trieste”. Rotelli fu tenace e paziente con i nuovi arrivati, e poi con le diverse amministrazioni che si susseguivano, spiegando, convincendo, cercando e mostrando il consenso della città, facendo accettare agli operatori dei servizi le visite delle associazioni di familiari che volevano vedere cosa fosse possibile, dei gruppi di operatori e amministratori di tutto il mondo, curiosi e scettici in gran parte ma non poche volte conquistati da ciò che vedevano a Trieste. Ma rotelli non è stato solo un buon amministratore del patrimonio. Ha sempre cercato di vedere oltre, di mantenere saldo il pensiero e lo sguardo critico, e di creare realtà che li facessero vivere. La sua ultima creatura, la sua ultima critica pratica della medicina, è l’esperienza delle “microaree”, luoghi di approdo e operatori in movimento che quartiere per quartiere cercano di conoscere gli abitanti e i loro bisogni di salute e di vita, con l’obiettivo di realizzare una medicina territoriale che non sia solo filtro per l’ospedale ma avamposto di quella “città sociale” che Rotelli prefigurava in un testo di qualche anno fa, una “città che cura” e che a maggior ragione “nella crisi che stiamo attraversando può essere una prospettiva concreta”. A condizione che “si impari a superare i confini tribali fra discipline e ambiti di intervento, a far leva sul capitale sociale delle comunità locali, a connettere le risorse delle persone con quelle delle istituzioni”. Migranti. Lunica preoccupazione dell’Ue è che non arrivino in Europa di Pietro Bartolo e Cornelia Ernst Il Domani, 17 marzo 2023 L’Europa non può limitarsi a guardare impotente le persone in movimento che muoiono in mare. Serve una politica migratoria che metta al centro i diritti delle persone. L’orribile naufragio del 26 febbraio al largo di Cutro, nel sud Italia, ha causato la morte di oltre 70 persone, mentre quasi 60 sono ancora disperse. Un duro promemoria di come il Mediterraneo rimanga la rotta migratoria più mortale conosciuta al mondo. Le morti - Dal 2014, oltre 26mila persone sono scomparse nel Mediterraneo, secondo i dati raccolti dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Le bare delle persone morte nel naufragio rendono palese la politica migratoria fallimentare dell’Europa. Recenti rivelazioni sui media suggeriscono anche che questa tragedia avrebbe potuto essere evitata. In un gioco senza senso, le autorità italiane e l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera - Frontex - continuano a sottrarsi alle proprie responsabilità per il mancato intervento Sar di ricerca e soccorso. Secondo Frontex, le autorità italiane hanno ignorato i suoi avvertimenti, basati su segnali di ricognizione e “risposta termica” della barca, che indicavano che il caicco trasportava un gran numero di persone. Le autorità italiane non hanno classificato la comunicazione di Frontex come “emergenza” e hanno mobilitato una “operazione di polizia” invece di un’operazione di ricerca e soccorso. A peggiorare le cose, mentre le attività di ricerca e soccorso e di sbarco non sono attualmente coperte da un quadro giuridico comune dell’Ue, le operazioni di ricerca e soccorso condotte dalle Ong sono pesantemente criminalizzate dagli Stati membri. All’inizio di febbraio la Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (Libe) del Parlamento europeo ha inviato una lettera alla commissaria per gli affari interni Ylva Johansson, esprimendo forti preoccupazioni per le nuove norme restrittive applicate alle navi civili di ricerca e soccorso introdotte dal Governo italiano di estrema destra. Non è passato neanche un mese e cadaveri di uomini, donne e bambini si riversano sulle coste italiane. Ogni volta che si verificano tragedie come questa, l’ondata di ipocrisia politica è difficile da digerire. In una lettera inviata in risposta al premier italiano, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, scrive che “la migrazione è una sfida che fatichiamo ad affrontare e che richiede soluzioni fondamentali e globali. Soluzioni che possono essere raggiunte solo agendo insieme”. Von der Leyen si dice “profondamente rattristata dal terribile naufragio” sui suoi social media, eppure ha colto l’occasione per spingere le sue proposte sulla migrazione: il Patto su migrazione e asilo e il piano d’azione sul Mediterraneo centrale. Nel frattempo, il suo gruppo politico, il Partito popolare europeo e molti Stati membri dell’Ue stanno raddoppiando i loro sforzi per rafforzare la Fortezza Europa, chiedendo fondi dell’Ue per costruire muri e recinzioni al confine dell’Ue e conducendo una crociata contro le Ong, criminalizzando il loro lavoro salvavita. Questo non è ciò che intendiamo per “agire insieme”. Dobbiamo dirlo forte e chiaro: il Mediterraneo sta diventando il cimitero dell’Europa non a caso o per una sfortunata circostanza. È il risultato di scelte politiche deliberate, perseguite ad ogni costo, compresa la vita delle persone. L’unica preoccupazione - Quando si tratta di politica migratoria, l’unica preoccupazione dell’Ue è impedire alle persone in movimento di raggiungere in sicurezza l’Europa. Che si tratti di stringere accordi con paesi terzi con dubbie violazioni dei diritti umani per impedire le partenze, coprire i respingimenti illegali o portare avanti una politica migratoria che mina sistematicamente i diritti fondamentali, in particolare il diritto di asilo. Cercare sicurezza dal conflitto o dall’oppressione e cercare una vita migliore per sé e la propria famiglia è normale. Ma finché non avremo percorsi semplici, sicuri e legali verso l’UE, le persone non avranno altra scelta che imbarcarsi su barconi, affidarsi nelle mani dei trafficanti e iniziare uno dei viaggi più pericolosi del mondo. Le persone hanno diritto all’asilo. È una questione di diritti fondamentali e dignità umana. È giunto il momento che i leader dell’UE interrompano i giochi politici che costano innumerevoli vite e agiscano: serve una politica migratoria dell’UE umana che garantisca rotte sicure e legali in modo che le persone possano venire in Europa con dignità, senza rischiare la vita. Non facciamo naufragare l’umanità. Migranti. “Naufragi fantasma”, centinaia di morti lontano dai riflettori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 marzo 2023 La strage di migranti avvenuta al largo delle coste della Calabria, in particolare a Cutro, ha sconvolto l’opinione pubblica. Ma è quella che vediamo. In realtà è la punta di un iceberg visto che avvengono i cosiddetti “naufragi fantasma”, dimenticati e ignorati dalla comunicazione mediatica. Basti pensare al memorandum tra Italia e Algeria dove grazie ai nostri finanziamenti, le imbarcazioni militari tunisine intercettano e bloccano i migranti nel tentativo di partire verso l’Italia. Tale muro sempre più invalicabile, però, non fermano i migranti. Il risultato? Ormai da due anni, al largo delle coste tunisine, si moltiplicano i naufragi e le sparizioni di imbarcazioni di persone in fuga che cercano di raggiungere l’Italia. Secondo i dati del FTDES (Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali) solo tra gennaio e novembre 2022, oltre 575 persone sono morte durante la traversata. Morti fantasma, lontano dai nostri occhi. Questi dati li troviamo nel rapporto 2022/ 2023 di Mem. Med Memoria Mediterranea - Mémoire Méditerranée che sintetizza non solo il lavoro annuale ma decennale nell’ambito della ricerca e identificazione delle vittime delle frontiere del Mediterraneo e nelle azioni di memoria e richiesta di giustizia, ad opera delle realtà costituita da Borderline Sicilia, Cledu, Carovane Migranti, Lasciate-CIEntrare, Rete Antirazzista Catanese, Watch The Med AlarmPhone. L’impegno di Mem. Med è quello di supportare le famiglie e le comunità di origine nella ricerca di verità e giustizia per le vittime della frontiera, anche attraverso la costruzione di una contro narrazione di quello che i dispositivi europei di frontiera rappresentano e delle ricadute violente che la priorità della “sorveglianza e protezione dei confini” comporta. Tanti morti fantasma, senza identità, senza una degna sepoltura. Il tutto, senza alcuna copertura mediatica. Il caso in esame è la rotta dalla Tunisia: dal rapporto di Mem. Med emerge che tra gennaio e ottobre 2022, 30.604 persone (ovvero il 38% in più rispetto all’anno precedente, nonché un numero sei volte superiore rispetto al 2018) di varia origine sono state intercettate e bloccate lungo la costa tunisina dalle imbarcazioni militari nazionali nel tentativo di partire verso l’Italia. Una militarizzazione della frontiera che è supportata a livello logistico ed economico dall’Europa. Infatti, tra il 2011 e il 2022, lo Stato italiano ha destinato alla Tunisia 47 milioni di euro per il controllo delle frontiere e dei movimenti migratori. Inoltre, tra il 2018 e il 2023, 30 milioni di euro del Fondo fiduciario di emergenza dell’UE per l’Africa sono stati donati alla Tunisia per sviluppare un sistema di “sorveglianza integrata” delle frontiere marittime. La Guardia Nazionale Marittima tunisina è stata a questo scopo addestrata, equipaggiata e finanziata dall’Ue. La maggior parte di questi fondi è stata dedicata alla fornitura e manutenzione di motovedette e pattugliatori destinati alla Guardia costiera tunisina per bloccare le partenze. Questi dispositivi si aggiungono ad un accordo di riammissione tra i due Paesi che consente all’Italia di espellere i cittadini e cittadine tunisine al ritmo di due - fino a quattro - voli charter a settimana. Con l’obiettivo di contrastare l’immigrazione si è dunque instaurata una cooperazione con il ministero dell’Interno tunisino allo scopo di ridurre gli arrivi e creare in mare un muro sempre più invalicabile. Il rapporto di Mem. Med, rivela che, ormai, da due anni, al largo delle coste tunisine si moltiplicano i naufragi e le sparizioni di imbarcazioni di persone in fuga che cercano di raggiungere l’Italia. Secondo i dati del Ftdes (Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali) solo tra gennaio e novembre 2022, oltre 575 persone sono morte durante la traversata. Le ricercatrici di Mem. Med hanno raccolto insieme al gruppo di lavoro internazionale sulle politiche frontaliere tra Tunisia e Italia e sul ruolo assunto dalle autorità marittime - diverse testimonianze relative alle gravi pratiche condotte dalla Guardia Costiera tunisina contro le persone migranti, da considerarsi estremamente pericolose, se non letali, per l’incolumità delle persone a bordo delle imbarcazioni. Per questo, Mem. Med, denuncia che rinnovare gli accordi con la Libia - internazionalmente condannati per le violenze gravissime sulla pelle delle persone migranti - e continuare a riconoscere la Tunisia un Paese terzo “sicuro” - in un contesto dove il governo autoritario dell’attuale presidente erode e criminalizza la libertà di espressione e di protesta e dove imperversa la violenza xenofoba e razzista contro le persone migranti tanto a livello istituzionale che sociale - “sono prassi che dimostrano come i governi europei siano disposti a pagare un prezzo altissimo pur di fermare le persone migranti, che vanno bloccate a qualunque costo umano ed economico”. Il principale snodo geopolitico di queste politiche resta il Mar Mediterraneo e il sud Italia, in particolare la Sicilia e la Sardegna, terre di mezzo, che continuano ad essere punto di non arrivo per le persone in mare. Questa militarizzazione del controllo delle frontiere, com’è detto, crea tante morti. Tanti sono i desaparecidos, e tante le richieste dei famigliari rimaste inevase. Come si legge nel rapporto, davanti a questa guerra in mare, “Où sont nos enfants? Où sont nos frères?” è la principale richiesta che anima le iniziative dei familiari delle persone migranti scomparse nel Mediterraneo, che siano partite da Biserta, da Sfax o da Zarzis. Proprio quest’ultima città tunisina è stata il principale centro di rivendicazione delle famiglie di chi è scomparso nel corso dell’estate e dell’autunno 2022 a seguito della sparizione di 18 persone che erano partite il 21 settembre 2022 verso Lampedusa e che non sono mai arrivate a destinazione. Non solo. La negligenza che ha causato la mancanza di operazioni di ricerca e soccorso adeguate e tempestive si è unita all’inadempienza nell’applicazione di procedure relative alle morti sospette, cioè autorizzando la sepoltura immediata dei corpi ritrovati in mare, senza prelievo del DNA e senza la raccolta di altri dati utili all’identificazione. Da decenni ormai il grido “Dove sono i nostri figli? Dove sono i nostri fratelli?” lanciato dalle madri e sorelle tunisine, algerine, marocchine, senegalesi e provenienti da altri paesi subsahariani, resta inascoltato: all’interno di una gestione emergenziale delle migrazioni, la normalizzazione della morte in frontiera e la riduzione dei e delle missing migrants a dati quantitativi dimostrano inoltre un’indifferenza rispetto al significato di queste morti e alla necessità di denunciarle e di raccontarle. A supportare queste famiglie è Mem. Med, anche dalle accuse di colpevolezza da parte delle istituzioni. Un po’ evocano le parole del ministro Piantedosi quando, all’indomani della strage di Curto dove sono morti moltissimi bambini, ha affermato che “la disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli”. Non sono le navi delle Ong ma l’altezza delle onde a influenzare le partenze dei migranti di Giordana Aragno e Cecilia Trasi Il Domani, 17 marzo 2023 Abbiamo considerato, nel periodo dal 2014 al 2019, gli arrivi via mare registrati in Italia, le stime dei morti, dispersi e degli intercettati dalla Guardia costiera libica; le condizioni atmosferiche al momento della partenza; lo stato di instabilità politica e le condizioni economiche della Libia. Otteniamo un modello che ci indica che la presenza in mare di Ong o altri attori che effettuano attività di soccorso, non influisce in alcun modo sul numero dei migranti che decide di partire. Quest’analisi indica che ciò che influisce di più sul numero delle partenze è l’altezza delle onde: per essere precisi, un metro di onda in più corrisponde al 75 per cento in meno di partenze. Dall’inizio del 2023 sono morte del Mediterraneo 375 persone. Il naufragio di Cutro, avvenuto a soli duecento metri dalle coste italiane, ne ha visto morire più di ottanta, e ancora pochi giorni fa, trenta persone sono morte a ridosso delle coste libiche. Sono tragedie che si sarebbero potute evitare se le autorità competenti avessero garantito un pronto soccorso in mare. Il rimbalzo di responsabilità tra la guardia costiera italiana, quella libica e Frontex lascia un vuoto che si trasforma in condanna quando si è a bordo di una barca in condizioni fatiscenti. Questa non è la prima volta che la politica si ritrova a dover gestire l’emergenza delle morti in mare di chi cerca di raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo. E non è la prima volta che il governo promuove politiche che non aggravano il fenomeno invece di alleviarlo. Il governo Meloni, come altri recenti, punta il dito verso i trafficanti e gli scafisti e pensa bene di “andare a cercarli lungo tutto il globo terraqueo”. Ritorna anche l’idea che le navi delle Ong in mare favoriscano la partenza di migranti, è l’effetto pull factor. Commentando la relazione 2022 dei Servizi Segreti, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Mantovano si spinge a dichiarare il pull factor (cioè l’incentivo alle partenze) “un fatto oggettivo”. Ma è davvero così? E bloccare il soccorso in mare serve a fermare le partenze e le morti dei migranti? Cosa spinge a partire - A guardare bene, si capiscono due cose: è molto difficile affermare una relazione causa-effetto tra la presenza di Sar (search and rescue, ndr) e la partenza dei migranti; e che la Sar ci sia oppure no, importa poco per spingere i migranti a partire. Infatti, abbiamo condotto uno studio sulla rotta del Mediterraneo che parte dalla Libia e arriva in Sicilia - la più mortale per i migranti che arrivano in Europa per vie irregolari. Abbiamo considerato, nel periodo dal 2014 al 2019, gli arrivi via mare registrati in Italia, le stime dei morti, dispersi e degli intercettati dalla Guardia costiera libica; le condizioni atmosferiche al momento della partenza; lo stato di instabilità politica e le condizioni economiche della Libia. Infine, abbiamo tenuto conto degli accordi tra Italia e Libia, dei decreti sicurezza durante il governo Conte I e Conte II, e delle missioni in mare che si sono susseguite in quel tratto del Mediterraneo a partire da Mare Nostrum. A questo punto otteniamo un modello che ci indica che la presenza in mare di Ong o altri attori che effettuano attività di soccorso, non influisce in alcun modo sul numero dei migranti che decide di partire. Bensì, quest’analisi indica che ciò che influisce di più sul numero delle partenze è l’altezza delle onde: per essere precisi, un metro di onda in più corrisponde al 75 per cento in meno di partenze. Infatti, semplicemente osservando le partenze e il livello delle onde, si registra un numero più alto di partenze nei mesi caldi quando il mare è più calmo e un numero più basso quando il mare è mosso. Tuttavia, la presenza in mare di Ong e altri attori che svolgono attività di Sar è fondamentale per prevenire le morti di chi si imbarca dall’altra parte del Mediterraneo. Infatti, per stimare il rischio di morte durante la traversata via mare possiamo misurare il numero delle morti registrate ogni 1.000 partenze. L’intuizione è che in periodi di Sar intensa il rischio sia basso mentre in periodi di Sar scarsa o assente il rischio sia alto. Dati alla mano, nei periodi in cui gli attori che fanno soccorso in mare sono presenti in numeri minori o sono assenti, il rischio di morte per i migranti aumenta notevolmente. I vari decreti sicurezza che criminalizzano le attività di soccorso in mare e le accuse di agire come pull factor verso gli operatori di Ong sono frutto di ignoranza sul tema o malafede. E chi impedisce il soccorso in mare, oltre a infrangere norme di diritto internazionale, si macchia (consapevolmente) le mani della morte di persone innocenti. Il famoso pull factor delle Ong che agiscono come magneti per la migrazione è, in definitiva, un’invenzione. D’altro canto, l’Europa rappresenta una prospettiva di vita libera da persecuzioni, violenze e povertà estrema. Semmai è l’Europa a rappresentare un pull factor per le persone che decidono di imbarcarsi, certo non le Ong. Il 3 ottobre 2013 un naufragio portò via la vita di 368 persone al largo di Lampedusa e all’epoca si disse “mai più”. Sono passati dieci anni ma la retorica e la mancanza di visione sul tema della migrazione rimangono identiche. Fino ad oggi, le varie politiche di restrizione attuate nei confronti degli attori che operano attività di Sar non sono mai state fondate su dati e studi che ne evidenziassero l’efficacia. Per andare oltre la strumentalizzazione del tema da parte della classe politica serve un approccio analitico - e serve umanità.