L’emergere del paradigma penitenziario del “carcere duro” di Roberto Cornelli sistemapenale.it, 16 marzo 2023 Il carcere duro, lungi dal rimanere confinato in situazioni eccezionali, è sempre più visto come il “carcere vero”, quello che non cede alle illusioni rieducative di soggetti irrimediabilmente delinquenti. Questo è un nodo decisivo: il 41 bis (insieme al 4 bis sul divieto di concessione di benefici penitenziari per chi si è macchiato di alcuni delitti) fuoriesce dai binari per cui era stato pensato perché è diventato un vero e proprio paradigma penitenziario. Lasciamo pure che la Costituzione continui a indicare la finalità rieducativa delle pene (ma c’è già chi vuole intervenire proprio su questo articolo, stravolgendone il senso), l’importante è ribadire di tanto in tanto che il carcere è e deve rimanere innanzitutto sofferenza, privazione e segregazione, come se in assenza di carcere duro l’intero sistema penale perdesse di senso e di effettività. Una breve riflessione sull’applicazione del 41bis ad Alfredo Cospito. In “Force de loi” Jaques Derrida usa parole nette sulla polizia come emblema dello Stato. Dice testualmente: “La polizia è lo Stato, non si può a rigore attaccarla senza dichiarare guerra all’ordine della res publica”. Se si pensa che siano frasi ad effetto di un filosofo un po’ ermetico, ma tra i più geniali del Novecento, suggerisco di guardare alle motivazioni con cui la Corte di Cassazione nello scorso luglio si è discostata dalla precedente qualificazione come strage comune (art. 422 c.p.) del reato commesso nella notte tra il 2 e il 3 giugno del 2006. Pur avendo prodotto solo limitati danni alle cose per caso fortuito, il delitto - vale a dire il collocamento di due ordigni ad elevato potenziale esplosivo nei pressi di uno degli ingressi della Scuola Allievi Carabinieri di Fossano, programmandone la deflagrazione in successione con tecnica del richiamo, per massimizzare gli effetti letali del gesto violento - è di strage politica (285 c.p.) perché gli autori intendevano offendere non cittadini comuni, ma la personalità dello Stato individuata “nei simbolici rappresentanti delle forze dell’ordine, articolazione importante dei pubblici poteri, corpo adibito precipuamente a tutelare la sicurezza dello Stato”. Buona parte del dibattito attorno alla vicenda giudiziaria di Alfredo Cospito, uno degli autori della strage, mi sembra che ometta questa sintetica ricostruzione dell’iter processuale, che invece ritengo rivesta una certa rilevanza rispetto all’applicazione e alla mancata revoca del cd “carcere duro”. Per apprezzarne il peso, tuttavia, bisogna andare oltre le parole che motivano gli atti, solitamente costrette nei presupposti che li legittimano, per cogliere quali siano le tendenze culturali, spesso implicite, che animano la discussione pubblica e, al fondo, le scelte istituzionali. Il 41 bis è stato introdotto in un periodo emergenziale ma, una volta entrato nell’ordinamento, come molte altre scelte emergenziali, è stato interessato da un processo di normalizzazione come regime detentivo speciale ma non eccezionale. Carcere duro è un’espressione che vuole indicare la rigidità delle regole penitenziarie applicabili a chi vi è sottoposto, ma che al contempo dà l’idea, confermando un’opinione che si è diffusa da tempo (da che si parla di umanizzazione della condizione detentiva), che il resto del carcere, quello “non duro”, non sia più quello di una volta, vale a dire un luogo terrificante che, proprio in quanto incuteva paura tanto a chi è dentro quanto a chi è fuori, creava un effetto di deterrenza e dunque di prevenzione della criminalità. Come se il carcere di una volta (che in gran parte è ancora quello attuale) avesse dimostrato chissà quale efficacia! E come se il carcere di oggi non fosse ancora un luogo di sofferenza. Circa un secolo di ricerca scientifica ha mostrato tutte le falle di questo modo d’intendere la pena, ma in epoca di paure e di rabbie sociali l’investimento simbolico in un carcere che dismetta i panni del buonismo si fa ancora più deciso. Si potrebbe dimostrare facilmente come la condizione detentiva per la stragrande maggioranza delle persone ristrette nelle sezioni comuni sia ancora come una volta. Se è vero che il carcere dovrebbe essere il luogo in cui stimolare un ripensamento critico rispetto ai reati commessi, chiunque abbia passato un po’ di tempo tra quelle mura sa bene che avviene perlopiù l’esatto contrario: si passa il tempo senza lavorare, senza studiare, senza svolgere alcun tipo di attività (“a oziare”, come si dice da quelle parti) e le uniche parole che si scambiano sono quelle con compagni di cella o di sezione rispetto a quanto sia ingiusto il mondo (della giustizia penale, prima di tutto). Il più delle volte in carcere ci si consolida nei propri vissuti e propositi delinquenziali e proprio la rigidità delle quattro mura ne è la causa: gli stimoli, gli incontri e le esperienze che dovrebbero aiutare a creare nuove immagini di sé sono rari e sfilacciati. Queste considerazioni sembrano solo di buon senso ma in realtà sono l’esito di un sapere ormai consolidato anche tra gli operatori penitenziari e del terzo settore che, risalendo la corrente, aprono spazi di confronto e opportunità di lavoro. Non sono, tuttavia, argomenti buoni per la politica (non tutta) e per l’opinione pubblica (quasi tutta): si parla di carcere e persino di chi ci lavora, come la polizia penitenziaria, solo quando succede qualcosa di grave. Per il resto, lo slogan “buttare via la chiave” valido per i detenuti si fa presto logos per le stesse carceri: vanno il più possibile rimosse dall’agenda mediatica e politica come corpi estranei alla città. Il carcere duro, lungi dal rimanere confinato in situazioni eccezionali, è sempre più visto come il “carcere vero”, quello che non cede alle illusioni rieducative di soggetti irrimediabilmente delinquenti. Questo è un nodo decisivo: il 41 bis (insieme al 4 bis sul divieto di concessione di benefici penitenziari per chi si è macchiato di alcuni delitti) fuoriesce dai binari per cui era stato pensato perché è diventato un vero e proprio paradigma penitenziario. Lasciamo pure che la Costituzione continui a indicare la finalità rieducativa delle pene (ma c’è già chi vuole intervenire proprio su questo articolo, stravolgendone il senso), l’importante è ribadire di tanto in tanto che il carcere è e deve rimanere innanzitutto sofferenza, privazione e segregazione, come se in assenza di carcere duro l’intero sistema penale perdesse di senso e di effettività. Proprio in quanto paradigma penitenziario, il 41 bis ha potuto divenire sempre meno eccezionale; proprio in quanto paradigma penitenziario le sue modalità esecutive che ledono diritti fondamentali tendono ad arricchirsi di prescrizioni e regole rimesse discrezionalmente all’amministrazione penitenziaria; proprio in quanto paradigma penitenziario, ci si guarda bene dal riformarne la disciplina per renderlo più stringente nei presupposti, nelle finalità e nelle modalità applicative. Il “carcere duro” è visto come essenziale per fronteggiare fenomeni criminali la cui rilevanza viene certificata dall’allarme che suscitano, dato che il solo carcere non basta più. Date queste premesse, collocare due ordigni davanti alla Scuola Allievi dei Carabinieri è un fatto grave che deve trovare una risposta forte da parte dello Stato. In prima battuta questa risposta è sembrata al contrario molto debole e quasi irriverente: i tribunali di merito non sono stati disposti a riconoscere la natura politica di attentato alla sicurezza nazionale del fatto commesso, qualificandolo invece come strage comune, con le attenuanti dell’aver prodotto solo danni alle cose. Serviva dare un segnale che indicasse che quel gesto criminale non è stato un fatto qualsiasi, ma un attacco all’ordine della res publica. L’applicazione del 41 bis è stato certamente un segnale forte circa l’attualità del pericolo anarco-insurrezionalista. Dopo qualche mese, la Cassazione ha certificato la gravità del gesto di Cospito, qualificandolo come strage politica. La risposta giudiziaria che ci si aspettava fin dall’inizio è così finalmente arrivata. La domanda a questo punto è: che senso ha mantenere il 41 bis per Alfredo Cospito? Si risponderà che il provvedimento che lo dispone ha motivazioni specifiche che rendono ancora attuale l’esigenza del “carcere duro” e che le decisioni, tanto quelle ministeriali quanto quelle giudiziarie, non hanno nulla a che vedere con la ricostruzione che ho proposto circa la necessità che lo Stato, in una qualche forma, sancisca la gravità di quanto accaduto. Forse è così. Ma forse dobbiamo anche prendere atto di qualcosa che chi si occupa della giustizia penale sa bene, vale a dire che le pronunce giudiziarie, e a maggior ragione i decreti ministeriali di applicazione del 41 bis, non si producono in un ambiente asettico. C’è una “politicità” delle attività legate alla giurisdizione e alle decisioni amministrative che non significa arbitrarietà e neppure politicizzazione: “dire il diritto” rimane un’attività strettamente connessa con il governo di una società, le cui urgenze, priorità e preoccupazioni vengono filtrate o, per meglio dire, addomesticate dal linguaggio del Diritto e dei diritti. Senza nulla togliere alla gravità del gesto di Cospito ormai sancita dalla Cassazione dello scorso luglio (2022) - secondo cui, ricordiamolo, non si è trattato di un atto dimostrativo ma di un vero e proprio attentato che mirava a massimizzare il numero di morti - mi pare che sia urgente tornare a un’interpretazione restrittiva dei presupposti del 41 bis rispetto alla vicenda di Cospito: non è troppo tardi e sarebbe bene farlo prima che siano gli organismi sovranazionali a intervenire d’urgenza per indicarci una strada che appare già oggi percorribile. Sembrano maturi i tempi anche perché lo stesso 41 bis venga ridiscusso dopo quasi quarant’anni dalla sua introduzione nel 1986, dopo trent’anni dall’inserimento (in via provvisoria) del secondo comma a seguito delle stragi di via Capaci e di via D’Amelio del 1992 e dopo vent’anni dalla sua stabilizzazione nell’ordinamento giuridico. Avendo bene in mente di evitare che il “carcere duro” diventi (o torni a essere) il paradigma carcerario del XXI secolo. Comitato nazionale per la bioetica: “Il detenuto va curato anche se non vuole” di Filoreto D’Agostino Il Fatto Quotidiano, 16 marzo 2023 Il ministero della Giustizia ha chiesto al Comitato nazionale per la bioetica un parere sul problema generale dei trattamenti sanitari applicabili al detenuto che protesta con il digiuno o altre simili metodiche (come nel caso Cospito). Dal relativo testo si apprende che il Comitato si è espresso così: i medici non sono esonerati dal praticare al detenuto tutti i trattamenti utili per salvargli la vita nel caso di imminente pericolo e quando non sia possibile accertare la volontà attuale del paziente. A questa conclusione il Comitato è pervenuto con una votazione a maggioranza, dopo che su alcune premesse aveva raggiunto l’unanimità: in particolare sul fatto che la persona detenuta ha, alla pari di ogni altra, il diritto di esprimere consenso o dissenso informato alle terapie praticabili ed è legittimata a redigere le Disposizioni anticipate di trattamento (Dat). Si è cioè affermata la piena applicabilità ai detenuti della legge 219/2017 recante norme su consenso informato e Dat. La motivazione resa dal Comitato sul dovere positivo del medico di usare gli strumenti terapeutici utili si fonda sul principio proclamato nella sentenza Cedu 8.12.22, secondo il quale le autorità penitenziarie non possono contemplare passivamente il decesso del detenuto. Quel precetto giuridico, peraltro, si ricollega alla decisione Cedu 29.04.22 secondo cui “l’articolo 2 della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo non può essere interpretato nel senso che esso tuteli anche il diritto di morire, ovvero come facoltà dell’individuo di autodeterminarsi alla morte”. Suffraga questa conclusione la legislazione italiana. La norma applicabile è l’articolo 4, c. 5, legge 219/2017 che autorizza il medico a disattendere in tutto o in parte le Dat “qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente”. Il profilo fondamentale è come valutare tali palesi incongruenze. L’interpretazione seguita dal Comitato implica che una Dat condizionata a un atto dell’amministrazione (del tipo: “Non voglio alcun trattamento se non mi concedono gli arresti domiciliari”) è del tutto incongrua perché tra la mancata terapia e la concessione di un beneficio carcerario non sussiste alcun legame di causalità e perché la volontà del detenuto non si è formata liberamente (tesi da me adombrata sul Fatto nell’articolo dello scorso 18 febbraio relativamente alla cessione di organi per ridurre la pena), ma in funzione di qualcosa che non è nella sua disponibilità. Affidare la propria vita alla volontà di un soggetto esterno può lambire l’illecito come avviene nei ricatti amorosi (“Se non stai con me mi uccido”) e si risolve in condizione meramente potestativa (nulla ex art. 1355 c.c.). Va considerato poi l’articolo 580 c.p. che punisce l’istigazione o l’aiuto al suicidio. Le autorità carcerarie, ove si limitino a contemplare passivamente la morte del detenuto, potrebbero ben essere incriminate per averlo aiutato a morire. L’aiuto, specifica la norma incriminatrice, può essere dato “in qualsiasi modo”. Quindi anche con la mera omissione perché anche questa risponde al canone della causalità adeguata. Il diritto alla vita difeso dal Comitato per la bioetica, infine, è consustanziale alla persona e ne condivide il profilo della dignità quale valore posto alla base della nostra Carta fondamentale. La dignità della persona, benché non dichiarata come supervalore primario (diversamente dalla Grundgesetz germanica), emerge come sintesi dei principi recati negli articoli 2, 3 e 4 della Costituzione, anche in quanto espressione primaria della nozione di lavoro sul quale l’articolo 1 Cost. fonda la nostra Repubblica democratica. Tale disposizione acquista, tramite la dignità umana espressa nel lavoro, caratteri d’integralità che ne completano la valenza di norma principio. Giorgio Mulè (FI): “In carcere solo chi è pericoloso. I tossici lo sono per se stessi...” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 16 marzo 2023 Onorevole Mule, è d’accordo con la proposta del ministero della Giustizia di far uscire i tossicodipendenti dal carcere per farli accogliere in comunità? Guardi, domenica scorsa ero alla comunità Incontro di don Pierino ad Amelia, in provincia di Terni. Ci vado spesso per vedere da vicino i percorsi che i tossicodipendenti, anche detenuti, intraprendono nella comunità. Giusto giusto domenica ho parlato a lungo con un ragazzo che sta lì da sei mesi e che solo grazie al fatto di stare là si sta salvando da tragedie alle quali andrebbe incontro se fosse fuori o in carcere. La comunità è un elisir dal punto di vista psicologico, perché attraverso un percorso che può durare anche oltre la pena da espiare riattiva e rimette in sesto una persona. La comunità ti dà la possibilità di imparare un lavoro e spesso ti inserisce anche nel mondo del lavoro. Quindi non solo ben venga la proposta, ma bisogna fare in fretta. Quali possono essere i rischi se venisse preso tale provvedimento? Non ne vedo, il caso di evasione dalla comunità Incontro è praticamente zero e soprattutto il tasso di successo di detenuti che passano dalla comunità è altissimo, cioè non hanno recidive e non tornano a fare uso di sostanze. Da questo punto di vista le comunità rappresentano esattamente il principio costituzionale che lo Stato ha di rieducare il detenuto. Quali comunità sarebbe adatte ad accogliere questo tipo di detenuti? Qualsiasi istituto la cui sicurezza è certificata e che consente di rieducare e superare l’esperienza del carcere fine a se stessa è il benvenuto. Perché significa raggiungere lo scopo che tutti vogliamo raggiungere, e cioè che chi esce dal carcere non ne esca peggiore o uguale a come ci è entrato, ma migliore. In carcere ci deve stare chi è davvero pericoloso per gli altri, mentre i tossicodipendenti spesso sono pericolosi per se stessi e per le loro famiglie. La comunità è una equipe multidisciplinare con terapeuti, psicologi, psichiatri, nutrizionisti che aiutano il detenuto. È un mondo a sé, non ci sono detenuti lasciati soli. La proposta è arrivata assieme a quelle di Nordio sulla giustizia, su quali aspetti Forza Italia punta maggiormente in vista della riforma? I punti fondanti per Forza Italia sono diversi. In primis quelli che riguardano l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione in primo grado, poi le intercettazioni, che bisogna rendere segrete non fino a quando non ne viene a conoscenza l’indagato ma fino a quando non c’è il rinvio a giudizio e che non bisogna nemmeno trascrivere quando due persone parlano di una terza. Poi la collegialità anche in sede di emissione di misure cautelari, e l’abuso d’ufficio, che nella mia visione va abrogato e non riformato, perché la situazione è intollerabile. Una lista della spesa piuttosto lunga… Il tempo della lista della spesa è finito. Ce l’abbiamo chiara, ora bisogna andare al supermercato, passare alla cassa e fare le riforme. Non c’è più tempo da perdere. Walter Verini (PD): “Solo proclami: l’idea è ridurre le comunità a luoghi di detenzione” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 16 marzo 2023 Senatore Verini, da via Arenula arriva la proposta di spostare nelle comunità di recupero i tossicodipendenti attualmente in carcere: è d’accordo? Quando si parla di intervenire sulle carceri per ridurre il sovraffollamento e rispettare i principi di recupero e umanità previsti dalla Costituzione il Pd c’è e ci sarà. La consideriamo una vera emergenza del paese. Ma diffido molto dei proclami a cui ci ha abituato questo ministro, che mentre lancia effluvi di interviste, progetti e proposte, molti dei quali non faranno un passo, al tempo stesso è lo stesso che accetta che vengano drasticamente ridotte le videotelefonate nelle carceri tornando ai livelli pre covid ed è lo stesso che ha fatto tornare a dormire in carcere centinaia di detenuti che godevano della semilibertà e che durante il covid lavoravano all’esterno ma non tornavano a dormire in carcere. Con cinismo e crudeltà hanno rifiutato qualsiasi nostra proposta di prorogare quelle norme. Non pensa che su questo punto specifico ci possa però essere un dialogo con l’opposizione, a partire dal Pd? Fermo restando la nostra diffidenza, visto che si tratta soltanto di un annuncio, nel merito l’impressione è che si voglia trasferire il concetto di detenzione invece che in carcere in un altro luogo chiuso. È del tutto evidente che migliaia di tossicodipendenti in carcere non ci debbono stare, ma l’impressione è che il Ministero pensi solo alla parte coattiva e non al principio terapeutico e sociale della pena alternativa al carcere. Cosa non la convince dei percorsi che i detenuti tossicodipendenti potrebbero intraprendere nelle comunità? Queste persone hanno bisogno di percorsi alternativi che non siano solo detentivi, seppure in comunità, ma terapeutici, relazionali e lavorativi molto personalizzati. C’è bisogno di una forte sinergia tra Giustizia, Sanità, Lavoro, Regioni. L’idea di toglierli dal carcere e rinchiuderli da un’altra parte di per sé ha questo limite, per quello che è stato l’annuncio fatto. Poi certo ne discuteremo quando Nordio vero in Parlamento a parlarne. E a questo proposito vorrei dire che sarebbe coerente anche ragionare sul tema della legalizzazione della cannabis. Noi siamo contro le dipendenze, ma queste destre non siano ipocrite: la cannabis non è legale, ma è liberalizzata perché si trova ad ogni angolo di strada. E a controllare il traffico sono mafie e criminalità organizzata. Una legalizzazione potrebbe contribuire in modo serio a tagliare profitti illeciti alle mafie e a ridurre anche il numero di ragazzi dentro le carceri. Ci sono comunità di recupero che garantiscono questi percorsi, no? In teoria sì, ma parliamo di migliaia di persone e vogliamo fare in modo che non sia una modalità per dire “togliamoli da lì, mettiamoli da un’altra parte e buttiamo la chiave”. Se mandiamo migliaia di persone nelle attuali comunità, che conducono un’attività di straordinario valore, siamo sicuri che queste reggerebbero? È uscito un comunicato del Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza che ribadisce la necessità di pensare pene alternative al carcere per i tossicodipendenti ma anche che le comunità non vanno pensate come surrogati delle carceri o come carceri private. Son d’accordo con Caterina Pozzi, presidente del Cnca, quando dice che il messaggio che deve passare è “Educare, non punire”. Il medico di Cospito: “Ha un deficit al sistema nervoso periferico” Il Dubbio, 16 marzo 2023 Andrea Crosignani ha visitato Cospito all’ospedale San Paolo, constatando un problema di salute dovuto alla perdurante carenza di vitamine per lo sciopero della fame. Alfredo Cospito soffre di un “evidente deficit del sistema nervoso periferico” che si manifesta con la difficoltà a camminare. Lo riferisce il suo medico di fiducia, Andrea Crosignani, che l’ha visitato all’ospedale San Paolo. Un problema che, spiega il medico al legale dell’anarchico in un audio ascoltato dall’AGI, è dovuto alla perdurante carenza di vitamine per lo sciopero della fame. Il medico ha spiegato a Cospito che i deficit neurologici periferici sono causati da una carenza di vitamine e che “l’unico modo per evitarli è assumere degli integratori”. L’anarchico gli ha risposto “che ci penserà e decidere nei prossimi giorni il da farsi”. Il peso di Cospito è sceso ancora, ora è 67,9 kg, stando a quanto riferisce il medico che parla di “condizioni di denutrizione peggiorate”. “A livello mentale e di umore, la situazione è positiva - prosegue Crosignani. L’atteggiamento è determinato ed è preoccupato di non subire danni irreversibili. Ha ricevuto una serie di informazioni per cercare di limitare i deficit che cominciano a essere ben evidenti a livello del sistema nervoso periferico. In particolare, c’è un deficit di flessione del piede destro sulla gamba che è ancora più marcato e condiziona una camminata steppante, si dice, perché non riesce a essere fatta un’adeguata flessione del piede. Questo fa sì che per lui in questo momento camminare sia diventato una fatica”. “Il restante esame obbiettivo neurologico è negativo” precisa il medico. I ì valori di sodio e potassio non sono preoccupanti “probabilmente anche per l’assunzione di orzo che contiene potassio” anche se Cospito ha detto che ha intenzione di non prenderlo più perché gli provoca fastidi addominali. A livello cardiologico non ci sono situazioni di immediato allarme ed è “sotto monitoraggio continuo” così come “l’inizio di acidosi metabolica” non genera al momento preoccupazioni. Intercettazioni segrete “finché durano le indagini”. Giustizia, svolta di Nordio di Michela Allegri Il Messaggero, 16 marzo 2023 Il ministro delinea le norme in arrivo “L’onorabilità dell’indagato va difesa”. Una stretta sulle intercettazioni, sul reato di abuso d’ufficio e sul processo d’appello, ma anche più garanzie per gli indagati, con gli atti che resteranno segreti fino alla richiesta di rinvio a giudizio. Sono alcuni dei punti chiave del piano sulla Giustizia su cui è al lavoro il ministro Carlo Nordio. La tempistica è serrata: il governo conta di portare in Consiglio dei ministri la riforma della Giustizia entro fine maggio. I contenuti sono stati anticipati dal ministro in un’intervista a Il Foglio. Uno dei temi che stanno più a cuore a Nordio è la tutela dell’indagato: “Ho intenzione di proporre un progetto per integrare il codice di procedura penale, che dice che gli atti non sono più segreti quando il destinatario ne viene a conoscenza, aggiungendo che gli atti debbano restare segreti quantomeno fino alla disclosure finale, o all’inizio del dibattimento pubblico”. Significa che l’indagato sarebbe l’unico a sapere di essere sotto inchiesta e che, prima della richiesta di rinvio a giudizio, le intercettazioni non potrebbero essere diffuse: “La mia idea è che la segretezza degli atti debba essere considerata nell’interesse dell’onorabilità dell’indagato”, ha sottolineato il ministro. Attualmente, invece, gli atti rimangono segreti solo fino a quando l’imputato ne viene a conoscenza. Un’altra novità riguarderà il processo di appello. Il progetto è quello di eliminare l’appello in caso di assoluzione in primo grado: “Mi dovete spiegare come puoi condannare una persona quando un giudice precedente ha giudicato l’indagato non colpevole”, ha sottolineato il Guardasigilli. In caso di errori nella sentenza di proscioglimento, secondo il ministro, è meglio rifare il processo, come succede nei paesi anglosassoni. Poi c’è il tema delle intercettazioni. Il Governo è al lavoro per trovare una norma che consenta di mettere paletti “sui dialoghi realmente significativi per l’indagine”, spiega Nordio, che propone di trascrivere solamente le conversazioni in cui un reato è in atto, o si parla della sua preparazione. Per il Guardasigilli attualmente c’è un abuso di questo strumento, che deve essere limitato, con l’esclusione di reati di mafia o terrorismo, o di reati satellite da individuare. L’idea, inoltre, è di mettere a disposizione di ogni ufficio giudiziario un budget per le intercettazioni che non deve essere superato. Attualmente si spendono circa 200 milioni di euro l’anno. E ancora: quando due persone parlano di una terza, l’intercettazione non dovrebbe essere consentita. Si lavora anche per modificare le norme sulla carcerazione preventiva. Ecco la proposta: le richieste di custodia cautelare, salvo i casi di flagranza, dovranno essere rivolte non più al gip, ma a un organo collegiale che potrebbe essere simile a quello che oggi è il tribunale del Riesame. Un progetto sempre nell’ottica di una maggiore garanzia e tutela per gli indagati: l’idea è che non sia più un solo magistrato a decidere se disporre o meno il carcere nella fase delle indagini. E ancora: si lavora anche per rivedere la compatibilità di alcuni reati e di alcune condizioni, come la tossicodipendenza, con la reclusione, come sottolineato anche dal sottosegretario Andrea Delmastro in un’intervista al Messaggero. Un altro grande tema è quello dell’abuso d’ufficio, un reato che causa immobilismo nella pubblica amministrazione per il timore, da parte di sindaci e dirigenti pubblici, di finire sotto inchiesta. Il ministro sostiene che sia necessario riformarlo, anche perché attualmente porta a una condanna solo nel 2% dei casi. E poi c’è la prescrizione: per il Guardasigilli deve essere riportata alla funzione originaria di estinzione del reato, quindi nell’ambito del diritto sostanziale e non di quello processuale. Nordio propone anche di farla decorrere non da quando il reato è commesso ma dal momento in cui il reato viene scoperto. “Riforme garantiste, via libera a Nordio”. Stavolta fanno sul serio? di Errico Novi Il Dubbio, 16 marzo 2023 Sì della Camera alla mozione unitaria del centrodestra. Nel piano anche inappellabilità delle assoluzioni e limiti alle misure cautelari. Ok pure al testo di Costa. L’occasione è quasi casuale: l’appendice all’esame del mini-ddl con cui Nordio ha corretto in un paio di punti la riforma penale di Cartabia. Ieri sera l’Aula di Montecitorio approva il provvedimento del guardasigilli. Stamattina è tornato a riunirsi per esaminare le mozioni collegate. Occasione casuale ma colta al volo. Dai garantisti della maggioranza, che mettono a punto un paio di documenti impeccabili. Tanto da ottenere la convergenza dell’intero centrodestra su un testo unitario, che mantiene gran parte dei documenti di partenza, firmati da Forza Italia e Noi moderati. Nella mozione finale c’è tutto. O quasi. Non si evoca la separazione delle carriere per esempio. Ma nello stesso tempo la maggioranza dà, con i propri voti nell’aula di Montecitorio, via libera anche alla mozione del Terzo polo, messa a punto dal vicesegretario di Azione Enrico Costa, e lì la separazione compare. Viene richiamato, sul carcere, il progetto Nordio-Delmastro di assegnare i detenuti con tossicodipendenze alle comunità di recupero, “con il coinvolgimento del terzo settore”, anziché alle celle sovraffollate delle carceri. C’è un ampio capitolo dedicato alle intercettazioni e in parte anticipato dall’intervista del guardasigilli ieri sul Foglio. Come interpretare? Casualità? Fuochi d’artificio estemporanei, accesi per l’occasione ma destinati a bagnarsi nell’oblio della contingenza politica? Da ieri, la prospettiva di una giustizia prudente, a fari spenti, remissiva, è un po’ più complicato. Intanto, per la genesi della mozione unitaria. L’iniziativa parte come detto da Forza Italia, con Tommaso Calderone e Pietro Pittalis, e da Noi moderati, con Alessandro Colucci e il capogruppo Maurizio Lupi: le due piattaforme garantiste erano pronte da lunedì. Poi tra martedì si è deciso di arrivare alla sintesi. Imposta, di fatto, dallo spirito d’iniziativa di centristi e azzurri. E benedetta da Carlo Nordio, appunto, con le dichiarazioni su “ascolti” da riformare e inappellabilità delle assoluzioni, rilasciate, in anticipo, al quotidiano di Claudio Cerasa. La mozione unitaria è bilanciata con qualche residuale concessione securitaria, ad esempio alla richiesta, innanzitutto della capogruppo leghista in commissione Giustizia Ingrid Bisa, di tornare a un contrasto anche del “piccolo spaccio”. Ma nella sostanza, si tratta di un documento che è una piattaforma liberal-garantista seria, completa, ampia, puntuale al punto da renderne imbarazzante l’abbandono. Vanno segnalate le parole della capogruppo in commissione del partito di Giorgia Meloni, Carolina Varchi: in Aula, l’avvocata siciliana parla di “unica mozione a sostegno della riforma penale annunciata dal ministro Nordio”. Il che intanto sembra certificare che quel progetto non è una mera proiezione entusiastica del guardasigilli ma un impegno della coalizione. “Abbiamo un’idea molto chiara di ciò che è necessario”, aggiunge Varchi, che cita le “giuste garanzie per indagati e imputati” e la “certezza dell’esecuzione della pena dopo la condanna definitiva”. Slogan ben noto. Il partito della premier si espone in modo diretto, pur con le consuete puntualizzazioni sulla detenzione, che non conoscerà “i provvedimenti svuotacarceri in passato adottati dalla sinistra” e si baserà anche su “rimpatrio degli stranieri” e “investimenti nell’edilizia penitenziaria”. Nella nota diffusa alle agenzie, la rappresentante di FdI non cita l’affido dei tossicodipendenti alle comunità, ma nell’intervento in Aula cita apertamente le “misure alternative”. E sia nel comunicato che dal vivo, si sofferma pure lei in modo dettagliato sulle intercettazioni. C’è insomma un’aria nuova. Impegni scritti, formalmente approvati col voto di 179 deputati er con il no di 108 parlamentari d’opposizione. Del documento di ieri, potranno approfittare a breve innanzitutto i forzisti, che di fatto vedono premiata la loro ostinazione sul garantismo. Ma raccoglierà i suoi dividendi pure Enrico Costa, che ottiene appunto il via libera anche sulla mozione da lui presentata a nome del Terzo polo. Un documento con impegni che, come per la separazione delle carriere, non ricorrono in fotocopia nel testo del centrodestra. È il responsabile Giustizia del partito di Calenda l’unico a ottenere parere favorevole del governo - rappresentato dal viceministro Francesco Paolo Sisto - e via libera dell’Aula su una riforma che riguardi anche i trojan. È Costa a richiamare il “fascicolo di valutazione del magistrato”, inserito nella riforma Cartabia del Csm come norma delegata, ma che andrà appunto reso concreto nei decreti legislativi di Nordio. E poi è dal Terzo polo che si reclama il “monitoraggio sulle conferenze stampa dei magistrati”, “la non pubblicabilità delle ordinanze di custodia cautelare”. Alla fine Costa dirà: “Abbiamo proposto temi chiari e liberali e siamo stati premiati”. Ad essere premiata è la saldatura garantista fra maggioranza e centristi. Con qualche apertura persino nel Pd, che ottiene il via libera del centrodestra a parti della propria mozione, e nell’Alleanza Verdi Sinistra, con il deputato Devid Dori, ex 5S, che a propria volta incassa il sì su alcune delle proprie proposte. Sarà proprio Dori a notare che nel testo della maggioranza “si è passati dall’abrogazione di abuso d’ufficio e traffico d’influenze a una più cauta proposta di riforma”. È un punto che può unire tutti: Nordio e la sua maggioranza, il Terzo polo, la sinistra e gli stessi dem. Tutti tranne i pentastellati. E infatti la combattiva Valentina D’Orso, capogruppo Giustizia del Movimento, parla di “manifesto dell’impunità”. Pronuncia un intervento appassionato e feroce, che arriva a difendere il blocca-prescrizione di Bonafede come modello di tutela per le vittime dei reati. Invece il ritorno alla “prescrizione sostanziale in tutti i gradi di giudizio” è uno dei cardini del documento di maggioranza. È un punto destinato a tradursi in riforma parlamentare a breve, grazie al testo già depositato da Costa sempre a Montecitorio. Giustizia, il vorrei ma non posso della maggioranza di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 16 marzo 2023 Alla Camera approvata una mozione omnibus sulle riforme al codice penale dopo estenuanti trattative tra i partiti di destra, si associa il “terzo polo” che però fa più uno su separazione delle carriere e abuso d’ufficio. Al ministro della giustizia, e soprattutto alla sua maggioranza, dichiarazioni e interviste non bastano più - ieri una lunghissima di Nordio al conciliante Foglio. Non riuscendo a passare ai fatti, provano con gli impegni solenni di in una mozione parlamentare, approvata ieri alla camera. Conta poco anche quella, atto di indirizzo, eppure è stata sudata. Si discuteva infatti un testo presentato dal gruppo più piccolo della coalizione di governo, i centristi di Lupi. Gli altri partiti, volendo dare dimostrazione di unità, hanno litigato per ore sulle virgole fino al momento di depositare la mozione comune e oltre. Hanno ottenuto un rinvio, poi il testo è arrivato e dagli 8 impegni di Lupi era passato ai 19 dei capigruppo. Uniti, c’è spazio per tutti. Il tono un po’ da farsa lo dà subito il primo impegno per il governo: “Monitorare l’applicazione dei principi costituzionali”. Difficile non essere d’accordo, tanto più che non è richiesta una gran fatica: non si tratta di applicare ma solo di “monitorare”. Eppure pareva troppo anche questo e così una mano prudente ha aggiunto, a penna, all’ultimo istante, “per quanto di competenza” in stile fratelli Capone. Poi le questioni concrete. O almeno i titoli, perché le distanze tra Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia impediscono di dire come affrontare le questioni che, solennemente, si propongono. “Rendere effettivo il principio di non colpevolezza, adottare le opportune iniziative in materia di misure cautelari, rendere effettiva la ragionevole durata dei processi, tutelare i diritti dei soggetti indagati…”. Nordio ci sta lavorando, lo dice dal mattino in cui si fermò con i giornalisti dopo il giuramento al Quirinale e ieri al Foglio ha detto che ha bisogno di un altro paio di mesi. Per preparare un disegno di legge che vuol portare al Consiglio dei ministri. Ma non potrà essere uno solo e infatti nella mozione ci sono tante altre cose. Sulle intercettazioni ben tre “impegni”: il primo generico, evitarne l’abuso, il secondo radicale, vietare la pubblicazione, anche parziale, del contenuto, il terzo di nuovo generico, assicurarne l’utilizzo come mezzo di ricerca della prova aspettando però le conclusioni dell’indagine conoscitiva che si sta svolgendo in commissione al senato. Fuori dalla mozione, Nordio annuncia programmi anche più vasti: impedire la pubblicazione di qualsiasi atto, non solo il contenuto delle intercettazioni, fino alla richiesta di rinvio a giudizio. Sulla prescrizione l’impegno è quello di cancellare il farraginoso compromesso raggiunto da Cartabia per tornare alla prescrizione sostanziale, idea in teoria persino condivisibile ma che rischia di produrre nuovo caos e che difficilmente FdI riuscirà a sostenere. Sull’abuso d’ufficio, reato che per Nordio andrebbe semplicemente cancellato, la mozione si ferma a chiedere una più prudente “riforma”, stesso dicasi della legge Severino e del traffico di influenze. Chiusa la parentesi “garantista”, spazio agli evergreen securitari del partito di Meloni: slogan contro baby gang e truffatori di anziani, ma anche il dramma del carcere declinato come un problema di detenuti stranieri da espellere o tossici da smaltire nelle comunità. A questa mozione sono arrivati anche i voti dei renzian-calendiani, per i quali Nordio vale per quel che dice e non per quel che fa. E alla fine la mozione di Azione-Italia viva, presentata dal deputato Costa, ha preso anche più voti a favore rispetto a quella della maggioranza (186 contro 179). Malgrado, o forse proprio perché, stabilisca impegni assai più concreti: separazione delle carriere, abrogazione dell’abuso d’ufficio, inappellabilità delle assoluzioni da parte del pm e competenza collegiale sulla custodia cautelare. La maggioranza queste cose le vota, ma proporle ancora non può. Stretta alle intercettazioni, limiti alle misure cautelari e bavaglio ancora più stretto alla cronaca di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 16 marzo 2023 Ecco le riforme che uniscono destre e renziani. Nelle mozioni sul processo penale del centrodestra e di Azione-Italia viva - approvate dalla Camera col parere favorevole dell’esecutivo - c’è il manifesto della maggioranza in tema di giustizia, che nei prossimi mesi il ministro Carlo Nordio proverà a trasformare in legge. Separazione delle carriere, divieto di pubblicazione dei nastri, niente misure cautelari per ladri e spacciatori, ritorno alla prescrizione no limits, ispettori ministeriali contro i procuratori che “parlano troppo”: ecco cosa troveremo nei provvedimenti allo studio del governo. Stretta sulle intercettazioni, limiti alle misure cautelari per il rischio di reiterazione del reato, ritorno della prescrizione dopo il primo grado, abrogazione dell’abuso d’ufficio, inappellabilità delle sentenze di assoluzione, bavaglio ancora più stretto alla cronaca. Nelle mozioni sul processo penale del centrodestra e di Azione-Italia viva - approvate dalla Camera col parere favorevole dell’esecutivo - c’è il manifesto della maggioranza in tema di giustizia, che nei prossimi mesi il ministro Carlo Nordio proverà a trasformare in legge. A partire dalla separazione delle carriere: la vecchia ossessione berlusconiana compare in cima al documento centrista a prima firma di Enrico Costa, il “falco anti-pm” del partito di Carlo Calenda, che “impegna il governo a sostenere l’iter di approvazione di una riforma costituzionale” sul tema, magari proprio la sua. “Inibire la pubblicazione di intercettazioni” - Ovviamente si parla di riforma delle intercettazioni, il refrain dei primi mesi di Nordio al ministero: nella mozione unitaria dei partiti di governo (firmata dai capigruppo Maurizio Lupi, Tommaso Foti, Riccardo Molinari e Alessandro Cattaneo) si incoraggiano “iniziative normative per evitarne l’abuso” e “inibire la pubblicazione, anche parziale, del contenuto”. Sulla stessa linea quella di Costa, che chiede di limitare la diffusione delle conversazioni “soprattutto se riguardano terzi non indagati e vengono estrapolate dal contesto generale”. Nonché di “rafforzare il controllo sull’impiego dei trojan”, i virus-registratori installati negli smartphone che necessitano, scrive, “di una rigorosa disciplina ad hoc” (che però esiste già: lo strumento può essere utilizzato solo per indagare su reati molto gravi e con limiti molto stringenti). Il tutto mentre il comandante del Ros dei Carabinieri, Pasquale Angelosanto, audito in Commissione Difesa chiede di “potenziare la tecnologia per le intercettazioni, che sono fondamentali”. Niente misure cautelari per ladri e spacciatori - La maggioranza poi prova a far rientrare dalla finestra uno dei quesiti dei referendum radical-leghisti del giugno 2022, bocciati dagli elettori con un’affluenza misera: la mozione del centrodestra infatti impegna Nordio “ad adottare le opportune iniziative in materia di misure cautelari personali (…) incidendo sui presupposti per la loro applicazione e, nello specifico, su quello previsto dall’articolo 274, comma 1, lettera c) del codice di procedura penale”. Di cosa si tratta? Di quella norma che consente di applicare le misure cautelari per il rischio di reiterazione di reati simili a quello per cui si procede: cioè la motivazione usata dai giudici nel 90% dei casi. Il referendum-flop voleva abolirla, rendendo di fatto impossibile disporre la custodia in carcere o ai domiciliari per tutta una serie di reati: quelli dei colletti bianchi (corruzione, concussione, turbativa d’asta), ma anche lo spaccio di stupefacenti, i furti, le estorsioni. Ora il centrodestra e il suo ministro vogliono riprovarci con una legge. Non solo: nella mozione di renziani e calendiani si chiede che qualsiasi misura cautelare debba essere disposta da un collegio di tre giudici, e non più da un solo gip. Alla faccia della velocizzazione della giustizia. Ritorno alla prescrizione no limits - In entrambi i documenti, inoltre, si riprende il contenuto di un ordine del giorno di Costa approvato a dicembre con i voti di tutta la maggioranza, e “benedetto” anche dalla premier Giorgia Meloni: quello che chiede di cancellare il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, introdotto nel 2019 dalla legge Spazzacorrotti. Sia la mozione dei centristi che quella del centrodestra chiedono infatti “il ripristino della disciplina della prescrizione sostanziale in tutti i gradi di giudizio”, abrogando quindi sia la Bonafede sia il meccanismo dell’improcedibilità introdotto dalla riforma penale Cartabia (per cui, a regime, il processo “morirà” dopo due anni in Appello e un anno in Cassazione), che non ha ancora prodotto i suoi effetti, visto che si applica solo ai procedimenti per reati commessi dal 1° gennaio 2020. Abuso d’ufficio e inappellabilità assoluzioni - C’è spazio anche per la riforma dell’abuso d’ufficio, un’altra delle intenzioni espresse da Nordio: su questo tema il centrodestra e il sedicente terzo polo confermano di non essere del tutto allineati, perché mentre Costa chiede “l’abrogazione” della fattispecie (già riformata nel 2020 in modo da ridurne l’applicazione), Lupi, Molinari, Cattaneo e Foti si limitano a incoraggiare una nuova riforma, ancora più restrittiva. L’asse invece è ferreo nel chiedere “l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte del pubblico ministero”: anche questo è un vecchio pallino di Berlusconi, ritirato fuori nella scorsa campagna elettorale. Eppure la legge Pecorella approvata nel 2006, che aveva previsto proprio il divieto per l’accusa di impugnare le assoluzioni, era stata dichiarata incostituzionale per violazione del principio di eguaglianza. Inoltre - anche se con formulazioni diverse - entrambe le mozioni chiedono di riformare la legge Severino abrogando la sospensione degli amministratori locali condannati in via non definitiva: un altro contenuto dei referendum bocciati. Bavaglio, arrivano gli ispettori - Infine, la mozione Costa insiste per rendere ancora più difficile il lavoro dei cronisti giudiziari, già azzoppato dal decreto Cartabia sulla “presunzione d’innocenza” (qui l’approfondimento del fattoquotidiano.it). Da un lato chiede di impedire la pubblicazione letterale, finora consentita, delle ordinanze che applicano le misure cautelari: “Noi abbiamo detto che le intercettazioni non devono essere pubblicate, ma dall’altra parte consentiamo la pubblicazione letterale delle ordinanze di custodia cautelare. Così alcuni magistrati buttano tutta quella mole di informazioni dentro un’ordinanza di trecento pagine, che viene pubblicata come fosse un libro, un colpo di cannone contro la presunzione d’innocenza”, ha attaccato in Aula il deputato di Azione. Che poi impegna il governo a inviare gli ispettori ministeriali in tutta Italia per verificare che i procuratori non autorizzino troppe conferenze e comunicati stampa in violazione del decreto Cartabia: nel testo si chiede un “monitoraggio da parte dell’Ispettorato generale del Ministero della giustizia circa gli atti motivati dei procuratori della Repubblica in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico che giustifica l’autorizzazione a conferenze stampa e comunicati degli organi inquirenti”. Caso Cospito, Donzelli assolto dal Gran Giurì: “Non ha leso onorabilità dei deputati dem” di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 16 marzo 2023 Per la commissione speciale il deputato di Fdi non ha leso l’onorabilità dei colleghi Serracchiani, Lai e Orlando, quando li ha accusati di sostenere la battaglia contro il 41bis dell’anarchico. Nella relazione si spiega come il meloniano abbia messo a verbale di essere convinto che gli esponenti del Pd erano interessati alla salute e alle condizioni di detenzione di Cospito. Le affermazioni fatte in Aula da Giovanni Donzelli nei confronti di Debora Serracchiani, Andrea Orlando, Walter Verini e Silvio Lai, erano “aspre” ma non “lesive” dell’onorabilità dei parlamentari del Pd. Questo perché il deputato di Fdi ha messo a verbale che non intendeva accusare i dem di appoggiare la battaglia dell’anarchico Alfredo Cospito contro il 41bis, quando sono andati a trovarlo in carcere. È per questo motivo che il Gran Giurì d’onore della Camera ha “assolto” il parlamentare di Fratelli d’Italia. È quello che emerge dalla relazione della Commissione speciale letta a Montecitorio da Sergio Costa, presidente dell’organo chiamato a dirimere il caso scoppiato dopo l’intervento di Donzelli in aula il 31 gennaio scorso. Il caso Cospito - Erano le giornate in cui si intensificarono gli attacchi degli anarchici a sostegno di Cospito, detenuto al 41 bis e in sciopero della fame contro il carcere duro, quando l’esponente di Fdi era intervenuto nel dibattito sulla formazione della commissione Antimafia. Il parlamentare meloniano aveva riportato in aula il testo di alcuni dialoghi in carcere tra l’anarchico ed esponenti della criminalità organizzata, poi aveva aggiunto: “Il 12 gennaio 2023, mentre parlava con i mafiosi Cospito incontrava anche i parlamentari Serracchiani, Verini, Lai e Orlando, che andavano a incoraggiarlo nella battaglia! Allora voglio sapere se questa sinistra sta dalla parte dello Stato o dei terroristi con la mafia”. È su queste parole che si è concentrato il Giurì e non sulle fonti delle notizie che il deputato di Fdi ha riferito a Montecitorio. Come è noto, infatti, l’intervento di Donzelli riportava informazioni contenute in una relazione del Gom della Polizia penitenziaria, inviata dal Dipartimento amministrazione penitenziaria. Notizie che il deputato di Fdi aveva avuto dal collega Andrea Delmastro, sottosegretario di Fdi alla Giustizia e suo coniquilino. Per questi fatti Delmastro è indagato dalla procura di Roma. Cosa ha detto Donzelli al Gran Giurì - Diversa la vicenda di Donzelli, che audito dal Giurì ha detto essenzialmente che non intendeva accusare i deputati del Pd di appoggiare la battaglia di Cospito contro il 41bis: ecco perché la commissione speciale lo ha assolto. “Nel corso dell’audizione, Donzelli ha evidenziato come i deputati Serracchiani, Lai e Orlando fossero sicuramente interessati alla salute e alle condizioni di detenzione del Cospito ma che a suo avviso il contesto precedente e successivo alla visita abbia potuto avere, anche indirettamente, l’effetto dell’incoraggiamento sul Cospito. La commissione ha preso atto che, secondo quanto affermato in audizione, le parole utilizzate nel suo intervento in Aula, seppure con toni che appaiono politicamente aspri, intendevano essere testimonianza di una preoccupazione riguardo ad eventuali effetti indiretti su un affievolimento dell’istituto di cui all’articolo 41 bis nei confronti del Cospito pertanto non lesive dell’onorabilità dei deputati Lai, Serracchiani e Orlando”, si legge nella relazione. Un passaggio che provoca la reazione del Pd: Donzelli, attaccano in tanti, si è rimangiato con il Giurì le parole che ha detto in Aula. E per la capogruppo Serracchiani il deputato di Fdi “ha fatto marcia indietro su tutta la linea ed ha detto di essere consapevole che con le sue parole la nostra onorabilità era stata lesa”. Per il deputato Lai: “Il Giuri d’onore riconosce piena legittimità visita fatta in carcere per valutare le condizioni di salute del detenuto Cospito. Donzelli ha dovuto modificare posizione e ritrattare quanto detto in Aula per evitare di venir accusato di aver offeso l’onorabilità dei deputati Pd”. Il contenuto della relazione - Diversa ovviamente la reazione dai banchi del centrodestra, dove “l’assoluzione” di Donzelli è stata festeggiata con applausi e abbracci. “La relazione conclusiva del giurì mette fine ad un’inutile polemica alimentata dal Pd”, ha detto il capogruppo Tommaso Foti, dopo che Costa ha finito di leggere la lunga relazione, approvata all’unanimità. “Il deputato Donzelli, nell’illustrare alla commissione di indagine quale fosse l’intendimento alla base del proprio intervento in Assemblea, ha rilevato come la battaglia a cui si riferiva fosse quella del Cospito rispetto all’applicazione a lui della misura di cui all’articolo 41-bis, ritenendo tuttavia che dal punto di vista politico, a suo giudizio, se avesse avuto esito positivo questa battaglia e fosse stata tolta per motivi di salute la misura di cui all’articolo 41-bis al Cospito questo avrebbe potuto avere come conseguenza indiretta un possibile affievolimento delle posizioni a favore del mantenimento dell’istituto del 41-bis per tutti i condannati interessati dalla misura”, si legge nel documento. Il parlamentare di Fdi, tra l’altro, ha detto al Gran Giurì che “nel suo intendimento, andare a trovare una persona in carcere di per sé non può in alcun modo essere considerato un incoraggiamento a una battaglia, ma rappresenta un gesto doveroso se compiuto per verificare le condizioni di salute. Peraltro, ribadendo come si tratti di una legittima scelta politica”, Donzelli, scrive ancora la commissione, “ha argomentato come, a suo avviso, nel caso in cui all’uscita del carcere, oltre a richiamare le condizioni di salute e le condizioni carcerarie, si esprimono opinioni che anche involontariamente possono apparire non distanti da quella che è ufficialmente la battaglia della persona appena visitata, questo possa condurre a ritenere ciò alla stregua di un incoraggiamento”. La ricostruzione della visita dei dem - La commissione speciale ha anche chiarito quali fossero i retroscena della visita dei parlamentari dem a Cospito. “È stato precisato nel corso delle audizioni che la decisione di effettuare la visita è stata assunta il giorno prima anche a seguito dell’appello pubblicato il 7 gennaio 2023 su organi di stampa sottoscritto da numerosi giuristi. La delegazione ha appreso che il gruppo di socialità del Cospito era da poco cambiato e nessuno era a conoscenza degli altri tre detenuti che si trovavano nell’area riservata a coloro cui è applicata la misura di cui all’articolo 41 bis”, si legge nella relazione: il riferimento è per i boss di camorra, ‘ndrangheta e Cosa nostra, Francesco Di Maio, Pino Cammarata e Pietro Rampulla, detenuti nelle celle vicine a quelle di Cospito. “So che siete venuti per me, ma prima dovete parlare con loro”, ha detto l’anarchico ai deputati dem. Dalle audizioni di questi ultimi, ricostruisce la commissione, “emerge che il Cospito ha argomentato in merito al suo stato di salute e alle sue valutazioni in ordine all’applicazione dell’articolo 41 bis alla sua persona e a tutti i detenuti interessati alla misura”. I parlamentari dem “hanno riferito alla commissione di essersi sostanzialmente limitati ad ascoltare quanto rappresentato dal Cospito”. Nella relazione si sottolinea inoltre come “nel corso dell’istruttoria è stato possibile verificare che i deputati Serracchiani e Lai non hanno mai richiesto con dichiarazioni pubbliche la revoca nei confronti del Cospito della misura. Per quanto attiene al deputato Orlando sono stati invece rilevati taluni elementi fattuali di riscontro, avendo egli esplicitamente richiamato l’appello sottoscritto da giuristi e intellettuali in cui si chiedeva la revoca dell’applicazione dell’articolo 41 bis al Cospito e avendo egli espresso le proprie perplessità tramite social media”. Ingiusta detenzione, l’On. Fina (PD): “Risposta Nordio non soddisfacente” abruzzoweb.it, 16 marzo 2023 “Lo scorso 15 dicembre ho sottoscritto con i colleghi senatori Cucchi, De Cristofaro e Magni un’interrogazione a risposta scritta rivolta al ministro Carlo Nordio sul tema dell’indennizzo per ingiusta detenzione e in particolare sul caso di Giulio Petrilli. La risposta non è stata affatto soddisfacente”. Così in una nota Michele Fina, senatore del Partito Democratico. Fina prosegue: “Non è la prima volta che mi occupo del caso, già in passato ho avuto modo di porre in evidenza la portata della norma sull’ingiusta detenzione e dei principi di umanità e giustizia che è chiamata a tutelare. Il pieno rispetto dell’art. 24 della Costituzione e delle determinazioni più volte assunte in sede europea esigono una grande attenzione da parte delle Istituzioni affinché la norma sia sempre più aderente ai principi per cui il legislatore ha ritenuto di colmare la distanza tra rispetto della legge e riparazione dell’errore. La risposta del Ministro Nordio ribadisce come le frequentazioni delle vittime di errore giudiziario configurerebbero una condotta definibile colposa che non consente dunque il riconoscimento al risarcimento. Un punto molto discusso e controverso, più volte evocato dal Ministero come esimente per gli organi inquirenti nella configurazione dell’errore giudiziario”. “La vittima dell’ingiusta detenzione, in questo modo, resta priva del diritto di vedersi riconosciuto il risarcimento: una condizione difficile da accettare che rischia di vedere inapplicata la norma e i suoi principi ispiratori. C’è ancora molta strada da fare per rendere pienamente accolti i principi di umanità e giustizia nell’ordinamento, sempre contemperati alla doverosa necessità di evitare che lo Stato possa soccombere di fronte a rivendicazioni inaccettabili di chi non ne merita il riconoscimento”. “Il mio impegno, come già espresso più volte, resta quello di lavorare nelle Istituzioni per una piena e equilibrata applicazione dell’art. 314 affinché chi davvero ne merita i benefici, come Giulio Petrilli, possa sentire vicino lo Stato e la Repubblica”, conclude Fina. Salta la norma arresta-stalker: il legislatore non conosce le menti dei persecutori di Maurizio Montanari* Il Fatto Quotidiano, 16 marzo 2023 È una pessima notizia la bocciatura da parte della maggioranza dell’emendamento, presentato da Stefania Ascari, che intendeva intervenire sull’articolo 384 del codice di procedura penale. Tale emendamento voleva estendere il ‘fermo di indiziato di delitto’ a chi fosse ‘gravemente indiziato di atti persecutori’. L’articolo 384 dunque continuerà a prevedere lo stato di fermo giudiziario in casi di flagranza di delitto o di pericolo di fuga, ma non nei confronti dei persecutori di donne, i cosiddetti ‘stalker’. Il legislatore non sa, o non vuole sapere, che la reiterazione dell’atto persecutorio da parte dei picchiatori di donne è ciò che maggiormente anima e sostiene le loro menti, non certo la fuga. Questi individui, che clinicamente si definiscono ‘perversi’, non solo non hanno la minima intenzione di far perdere le loro tracce dopo il reato ma, al contrario, si preoccupano di lasciarne di ben visibili e riconoscibili dalla vittima, piantando nel terreno attorno alla malcapitata segnali di presenza utili a mantenere quel delirante stato di ‘padronanza’ che sovente anima le loro menti. Come ho più volte motivato individui di questo tipo si sostengono sul desiderio di imporre un dominio fisico o piscologico sulla vittima prescelta, relegandola a stato di oggetto controllabile e non alienabile. Per questo il loro essere il più possibile vicini alla vittima è essenziale. Il legislatore non sa che lo stalker, passando il suo tempo nell’escogitare metodi sempre più raffinati di controllo e persecuzione, non pensa certo a scappare, perché non tollera la lontananza dalla vittima, ma attende che la situazione muti per potersi manifestare in maniera incombente, reiterando il messaggio ‘ovunque tu vada, sei e resti cosa mia’. Il controllo dunque non avviene solo con la presenza fisica, ma alternando sapienti assenze ad un uso violento dei messaggi via social. Ricordo un caso di una donna portata sull’orlo della pazzia dal convivente che, obbligato dalla legge a lasciare la casa dopo averla massacrata di botte, parcheggiò la sua auto per oltre un anno in ogni luogo nel quale la vittima si recava. Dunque manifestava la sua presenza ‘padronale’ senza mai alzare un dito e senza mai farsi vedere, continuando nottetempo con falsi profili Facebook. Ma lei sapeva che lui era in giro, impunito e libero, motivo per il quale entrò in uno stato depressivo. Avere invece la certezza che, in casi di acclarata persecuzione, il carnefice è in stato di fermo, sottoposto ai vincoli della legge, ha un effetto liberatorio per le vittime che sovente sono vittime del paradosso di un carnefice non riconosciuto tale. In questi casi, quando la zona opaca tra vittima ed aggressore non è stata rischiarata dalla legge, ella arriva ad interiorizzare la presenza del suo persecutore che si tramuta in ossessione, un incubo che abitale sue notti sempre più farmacologizzate. Un ostaggio condannato a sobbalzare ad ogni angolo quando scorge una auto del colore del suo ex aguzzino, o un uomo che indossa un abito della medesima foggia. Questo stato di paura e sudditanza, spesso incrementata dal fatto che il persecutore ha nel paese o nella città un nome più ‘pesante’ e dunque ritenuto maggiormente credibile, è ciò che mantiene la vittima in uno stato di costante angoscia ed isolamento. E questo lo stalker ‘raffinato’ lo sa bene e sapientemente usa tutti mezzi che gli sono possibili per estendere all’infinito la sua longa manus affinché la vittima, ovunque essa sia, abbia ben chiaro che lui è nelle vicinanze, dietro l’angolo, all’altro capo della cornetta o dietro un falso profilo Facebook. Lo stalker non ha paura della legge, questo il legislatore lo deve avere ben chiaro. Non la teme perché, in barba al principio di realtà, la avverte come un inutile ostacolo che si frappone tra lui e il suo illimitato desiderio di possesso. L’attesa del processo, le minacce della prigione, spesso non sono altro che un lungo spazio temporale del quale egli approfitta per consolidare lo stato di assedio verso un anima che ritiene essere sua proprietà. L’estensione dello stato di fermo in casi di accertata persecuzione ridurrebbe il suo raggio di azione, contribuendo ad allentare la gabbia psicologica nella quale la donna si viene a trovare lei malgrado. *Psicoanalista Maltrattamenti, misura cautelare personale per rischio di reiterazione se l’imputato non contiene gli impulsi di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2023 Il sacrificio della libertà personale può fondarsi sull’evidente mancanza di controllo dell’imputato che reitera minacce. Sì agli arresti domiciliari per la condotta tenuta anche dopo il periodo cautelare dall’imputato di maltrattamenti che continua a profferire minacce e afferma di non temere il carcere. Questo comportamento, secondo i giudici, conferma l’incapacità dell’uomo di resistere agli impulsi. E dato atto di plurimi indizi di vessazioni morali e fisiche nei confronti dell’ex compagna non si può ritenere eccessivamente restrittiva la misura che incide sulla libertà personale dell’imputato. La Corte di cassazione con la sentenza n. 11149/2023 ha quindi respinto i motivi di ricorso che pretendevano una rivalutazione degli elementi di colpevolezza già scrutinati in fase di merito. Ma soprattutto, i giudici di legittimità fanno notare la contraddittorietà del ricorso dove prima afferma che i due legati dalla relazione non fossero mai stati conviventi. Ovviamente al fine di escludere la configurabilità del reato di maltrattamenti. Mentre poi lo stesso ricorso fa rilevare il comportamento della donna che aveva ripreso più volte la convivenza con l’uomo, ciò al fine inverso di dimostrare che non si era creato nella vittima alcuno stato di soggezione. Lo stesso ricorso usa altre circostanze per escludere le violenze fisiche e morali denunciate dalla donna, il ritiro da parte sua di una precedente querela contro l’imputato o i mancati accessi al pronto soccorso in concomitanza con i fatti denunciati. La Corte fa al contrario notare che tali comportamenti della donna potrebbero invece essere proprio la prova della sua soggezione di vittima. Modena. Muore in carcere al S. Anna un detenuto di 33 anni di Carlo Gregori Gazzetta di Modena, 16 marzo 2023 Tragedia al Sant’Anna: ieri il giovane carcerato era stato colto da violente convulsioni Portato in infermeria è deceduto. La Procura dispone un’autopsia per chiarire le cause. Si chiamava Yussef Missbah, 33 anni, marocchino. Era recluso nel carcere di Sant’Anna. È morto ieri nel primo pomeriggio in preda a convulsioni. È possibile che all’origine della morte ci sia un attacco di cuore. La Medicina legale, su disposizione della Procura, dovrà accertare la causa de decesso. Per Sant’Anna è la seconda tragedia in poco tempo. Il 20 febbraio era deceduto un 40enne italiano. Terni. Suicidio nel carcere sul tavolo del ministro della Giustizia, autopsia per la verità di Marta Rosati umbria24.it, 16 marzo 2023 Detenuto siciliano unico in isolamento dopo una rissa: poche ore prima di impiccarsi, la chiamata ai familiari coi segni sul volto. Una rissa con alcuni detenuti campani, a uno dei quali era stato scoperto un pacco contenente un cellulare, poi l’estremo gesto, qualche ora dopo, all’interno della propria cella nel carcere di Terni. Questa la cronaca di quanto avvenuto il 29 gennaio scorso, ultimo giorno di vita di Fabio Gloria, detenuto palermitano che stava scontando una condanna definitiva nel carcere umbro per il reato di estorsione; nell’ottobre 2022 gli erano stati inflitti in primo grado altri 12 anni per associazione mafiosa ed è in seguito a quest’ultima condanna che era stato trasferito dal Pagliarelli di Palermo all’istituto umbro. Il caso, sarebbe finito in un fascicolo della procura ternana ma ora anche sul tavolo del ministro della Giustizia Carlo Nordio. L’interrogazione porta la firma della deputata di Fratelli d’Italia Maria Carolina Varchi che, appreso come sia stata disposta l’autopsia sul corpo del detenuto per confermare o meno l’ipotesi del suicidio, sottolinea come, a questa versione i parenti non hanno mai creduto. “Secondo le ricostruzioni - scrive la Meloniana - all’interno del carcere si era verificata una rissa fra un gruppo di detenuti campani e Gloria sarebbe intervenuto in difesa di uno di loro, ma solo il palermitano sarebbe finito in isolamento; il pomeriggio in cui è stato trovato il corpo, gli era stato concesso di fare una videochiamata con i familiari che avevano notato gli evidenti segni delle ferite al volto riportate durante la colluttazione, ma Gloria sarebbe stato di umore tranquillo e nulla avrebbe lasciato presagire il terribile gesto; nonostante l’intervento degli agenti che hanno tentato di rianimarlo, il detenuto siciliano ha perso la vita per le conseguenze dell’impiccagione nella sua cella”. Con l’interrogazione, si chiede di sapere dal ministro Nordio informazioni dettagliate in merito ai fatti del gennaio scorso e, più in generale, se vi siano notizie di ulteriori suicidi nel carcere di Terni e di elevata conflittualità tra uno o più gruppi di detenuti. Torino. Questionario ai giovani carcerati per studiare il fenomeno delle baby gang di Massimo Massenzio Corriere Torino, 16 marzo 2023 Al Lorusso e Cutugno è stata condotta una ricerca attraverso un questionario anonimo somministrato a 149 ragazzi detenuti. La presenza nel carcere di giovani adulti, fra i 18 e i 25 anni, a Torino, è maggiore rispetto a tutti gli altri istituti di dimensioni paragonabili in Italia. La “fotografia” della popolazione giovanile del carcere sarà utilizzata dalla polizia municipale e dalla Città di Torino per studiare e prevenire i fenomeni della devianza, a cominciare dalle cosiddette baby gang. La Città, attraverso un questionario anonimo somministrato all’interno del progetto Icarus, ha chiesto a ragazzi fra i 18 e i 30 anni di raccontare la propria esperienza sulle aggregazioni giovanili spontanee e violente. “Vogliamo osservare l’impatto delle attività di prevenzione e la ricerca sulla popolazione carceraria ci ha permesso di capire come si stanno orientando le devianze dei giovani”, spiega Gianfranco Tedesco, responsabile del reparto investigazioni tecnologiche della polizia locale. Che si occupa dell’analisi dei dati con il coordinamento del comandante Roberto Mangiardi e dell’assessora alle politiche per la sicurezza Giovanna Pentenero: “Sapere che quasi la metà (48,99%) dei detenuti sotto i 25 anni già lavorava prima di entrare in carcere ci indica quanto sia necessario presidiare il mondo di chi lavora e orientare la prevenzione in questa direzione”. Inoltre, attraverso una piattaforma tecnologica che aggregherà dati anonimi provenienti da fonti diverse (polizia locale, ufficio orientamento scolastico, garante detenuti), sarà possibile monitorare l’andamento della criminalità giovanile nei singoli quartieri e ottenere una “mappatura della prevenzione”. Torino. Giovani-adulti in cella, 200 senza lavoro di Massimo Massenzio Corriere Torino, 16 marzo 2023 Università e Garante hanno verificato la loro condizione. C’è chi ha chiesto corsi di formazione, i tempi sono lunghi Reclusi al Lorusso e Cutugno, hanno tra 18 e 25 anni. Solo il 21% pensa al diploma. Il reinserimento nella società sembra un miraggio: i ragazzi in carcere hanno lo stesso trattamento di un delinquente abituale e tra il 69% di persone che tornano a commettere reati ci sono anche gli under 25. Giovani dentro e fuori. È il titolo della ricerca sulla popo- lazione giovanile all’interno della casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino condotta dall’ufficio del Garante delle persone private della libertà e della “Clinica legale” dell’università. Ma è anche la contrapposizione che vivono quasi 200 ragazzi detenuti, resa ancora più stridente dalle criticità che affliggono una struttura che appare sempre più inadeguata. Il carcere rispecchia i fenomeni sociali, ma spesso li anticipa e per questo i dati del questionario anonimo suonano come un allarme. E permettono di avviare prevenzione e sostegno. La ricerca si è concentrata sui detenuti fra i 18 e i 25 anni che, a Torino, sono molti di più rispetto agli altri istituti. Giovani dentro e fuori. È il titolo della ricerca sulla popolazione giovanile all’interno della casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino condotta dall’ufficio del garante delle persone private della libertà e della “Clinica legale” dell’università. Ma è anche la contrapposizione quotidiana che vivono quasi 200 ragazzi detenuti, resa ancora più stridente dalle criticità che affliggono una struttura che appare sempre più inadeguata. Il carcere rispecchia i fenomeni sociali, ma spesso li anticipa e per questo i dati raccolti attraverso un questionario anonimo devono suonare come un campanello d’allarme. E permettere di avviare subito un’attività di prevenzione e di sostegno, nelle periferie e anche in centro. La ricerca si è concentrata sui “giovani adulti”, detenuti fra i 18 e i 25 anni che, a Torino, sono molti di più rispetto agli altri istituti. Quasi la metà dei ragazzi (45,63%) ha un’età compresa tra i 24 e i 25 anni e il 74,5% sono stranieri. Spesso entrati in Italia come minori non accompagnati, senza permesso di soggiorno (74,5 %) e il 43,14% proviene da Barriera di Milano. “Il caso che più ci ha colpito è stato quello di un ragazzo che non vedeva l’ora di parlare con qualcuno - raccontano gli studenti coinvolti nella ricerca -. Ci ha detto di aver spedito la domandina per i corsi di formazione diverse volte senza risultati, fino a perdere la speranza. Tutto all’interno del carcere è lento e macchinoso”. Il 44% degli intervistati sostiene infatti di non essere inserito in nessun tipo di percorso, solo il 21% ha avviato o proseguito gli studi e il 45% dichiara di non svolgere colloqui con operatori penitenziari. La vita nell’istituto torinese è difficile anche perché le sezioni detentive riservate ai giovani sono praticamente inesistenti e il 44,7% dei ragazzi detenuti condivide la cella con ultratrentenni. “Le attenzioni verso questi giovani ci sembrano scarse - ribadisce la garante delle persone private della libertà, Monica Cristina Gallo -. Manca soprattutto personale formato e gli educatori di strada potrebbero essere un supporto importante. Il giovane detenuto è un ragazzo apparentemente forte quando è in gruppo, ma fragile quando si trova da solo. La detenzione potrebbe quindi essere un’occasione per intraprendere un percorso trattamentale, ma viene sprecata”. Il reinserimento nella società sembra un miraggio: “Il carcere attuale non assolve alla funzione di recupero, i ragazzi hanno lo stesso trattamento di un delinquente abituale. Fra il 69% di persone che tornano a commettere reati ci sono anche gli under 25. La detenzione non è una risposta efficace per le baby gang: il nostro sistema prevede soluzioni alternative, favorisce l’incontro con la vittima, strumenti che permettono di ricomporre le fratture sociali” Raccontare il “dentro” è lo scopo della ricerca, intervenire sul “fuori” è l’obiettivo delle istituzioni. Anche perché, come ammette Cosima Buccoliero, direttrice del Lorusso e Cutugno, “senza strumenti sufficienti, paralizzato dall’emergenza quotidiana, il carcere può solo provare a ripartire dal suo mandato, mettendo al centro la persona”. Torino. Burdese: “Non fortezze arroccate ma luoghi di relazione” di Massimo Massenzio Corriere Torino, 16 marzo 2023 Cesare Burdese, architetto torinese impegnato dal 1986 su temi di edilizia penitenziaria, è stato l’autore del progetto di riorganizzazione del Ferrante Aporti nel 2001 e ha fatto parte della commissione ministeriale che ha dettato le linee guida per la progettazione della prossima riqualificazione dell’intero complesso dell’istituto penale minorile e degli uffici giudiziari. Un intervento finanziato grazie al fondo nazionale complementare al Pnrr che costerà oltre 25 milioni di euro. In un momento in cui si parla di misure alternative alla detenzione non le sembra che investire una somma del genere su una sola struttura sia una contraddizione? “Non ho titolo e non voglio discutere le scelte ministeriali riguardo alle destinazioni e agli importi degli investimenti. È evidente, però, che alcune parti del complesso, e in particolare la sezione detentiva di origine ottocentesca e quella risalente al ventennio fascista, sono state costruite in epoche in cui dominava il principio dell’afflittività della pena. Forse una riflessione più approfondita avrebbe potuto portare a investimenti edilizi alternativi, come le strutture di comunità”. Le linee guida vanno verso un’umanizzazione del Ferrante Aporti. È così? “Sì, perché configurano spazi dove c’è maggiore attenzione ai problemi psicologici e relazionali dei giovani detenuti, ma anche degli operatori e dei visitatori occasionali. I luoghi non sono più concepiti esclusivamente come celle o stanze delimitate da un perimetro ed è stata configurata la possibilità per i ragazzi di trascorrere la giornata impegnati in attività e in ambienti diversi”. Le opere dovranno intervenire proprio sulla qualità degli ambienti, sulla “connessione” con l’esterno e dovranno essere completate entro il 2026. È ancora possibile? “Rispettare la scadenza è pura fantasia. Per il resto sono state tracciate soluzioni che puntano a migliorare la qualità dell’ambiente prendendo in considerazione diversi elementi. Dalla luce al colore, passando per il verde, il rumore e gli spazi per la socialità. Un edificio carcerario contemporaneo deve essere luogo di relazioni, non una fortezza arroccata e circondata da muri. Le previsioni progettuali puntano proprio a mettere in relazione il “dentro” con il “fuori” anche attraverso “aperture” che non compromettono in alcun modo la sicurezza del carcere, ma che invece offrono al quartiere spazi utilizzabili dai cittadini. Ovviamente nelle parti non detentive ma riservate agli uffici pubblici”. Ristrutturare il Ferrante Aporti sarà un’impresa difficile? “Ci sono alcune criticità che impongono scelte obbligate. Però l’intervento permetterà di raggiungere gli obiettivi di efficientamento energetico e un necessario adeguamento normativo della struttura. Nella parte ottocentesca, oggi inutilizzata, ci saranno le sezioni per detenuti semiliberi, a sicurezza attenuata e spazi per gli incontri familiari. Inoltre verrà rivisto l’edificio del Centro di prima accoglienza. Staremo a vedere come i progettisti recepiranno queste indicazioni”. Viterbo. L’Asl entra in carcere per parlare ai detenuti: “Partecipate a screening contro l’epatite C” viterbotoday.it, 16 marzo 2023 Ieri mattina, nella casa circondariale Mammagialla di Viterbo, si è svolto un incontro sul tema della prevenzione tra i professionisti della Asl e la popolazione detenuta. All’incontro, realizzato nell’ambito del piano aziendale dell’equità e ideato dal tavolo paritetico per la tutela della salute delle persone detenute, ha partecipato tra gli altri il direttore generale facente funzioni della Asl Viterbo, Antonella Proietti, il direttore della casa circondariale, Anna Maria Dello Preite, i direttori dei dipartimenti di Cure primarie e di Prevenzione, Giuseppe Cimarello e Augusto Quercia, gli specialisti e gli operatori che si occupano di prevenzione e delle malattie infettive, i rappresentanti della polizia penitenziaria. “L’iniziativa - riporta la Asl - che si è svolta per sensibilizzare la popolazione detenuta ad aderire al programma di screening per la diagnosi precoce dell’epatite C (Hcv), che a breve avrà inizio a Mammagialla, è stata anche un’utile occasione per presentare i principali interventi di prevenzione che potranno essere attivati nei prossimi mesi sempre nella casa circondariale viterbese. Tra questi, le diverse campagne di vaccinazione in corso alla Asl e il programma di screening del tumore del colon retto. I detenuti hanno partecipato all’incontro in maniera attiva e propositiva, invitando l’azienda sanitaria a replicare quanto prima iniziative simili sulle azioni e sui progetti che maggiormente possono rispondere adeguatamente al bisogno di salute da loro rilevato”. “La prevenzione - commenta Antonella Proietti - trova il suo compimento e il raggiungimento degli obiettivi di salute che si prefigge nella partecipazione attiva e nella condivisione del messaggio e delle informazioni ricevute. Da questo punto di vista l’incontro è stato per tutti noi professionisti sanitari un motivo di soddisfazione, avendo percepito la grande attenzione alle tematiche che abbiamo proposto e la volontà da parte dei detenuti presenti di farsi promotori del messaggio, essi stessi, anche con coloro che non hanno potuto partecipare. Nell’ambito delle strategie del tavolo paritetico, accogliendo le proposte che ci sono state fatte, potenzieremo questa linea di attività programmando degli incontri periodici e degli interventi educativi su temi di salute che incontreranno il maggiore interesse della popolazione detenuta della Tuscia”. “I programmi di prevenzione costituiscono - aggiunge la direttrice della casa circondariale di Viterbo, Anna Maria Dello Preite - parte integrante del diritto alla salute e questo incontro, in particolare, costituisce l’esempio di come anche in carcere sia possibile fare prevenzione ed educare al rispetto e alla cura del proprio corpo. La manifestazione, che ha visto il coinvolgimento diretto di una rappresentanza di detenuti, fa parte di un progetto più ampio che vuole mettere al centro i percorsi di prevenzione, di diagnosi e di cura a favore della popolazione detenuta nella consapevolezza che il diritto alla salute costituisce uno degli elementi essenziali del trattamento rieducativo, strettamente collegato al divieto di trattamenti inumani o degradanti sancito dalla nostra carta costituzionale”. Palermo. Al via al Pagliarelli progetto pilota per l’alfabetizzazione emozionale dei detenuti palermotoday.it, 16 marzo 2023 Un percorso riabilitativo per il recupero dei detenuti attraverso incontri settimanali con operatori sociali e specialisti per stimolare l’alfabetizzazione emozionale di chi vive tra le sbarre. È stato presentato oggi nel carcere Pagliarelli di Palermo il progetto pilota promosso dal Movimento per la Gentilezza, presieduto da Natalia Re che prevede incontri settimanali con operatori sociali, psicologi e specialisti per favorire il percorso di riabilitazione e di reinserimento nella società dei detenuti. “Il carcere è un pezzo di città - spiega Pino Apprendi - dove sono ristretti uomini e donne, per scontare una pena o in attesa di giudizio. Inizieremo dei percorsi di collaborazione per parlare di Gentilezza con i detenuti delle carceri siciliane”. “Ringrazio Maria Luisa Malato, direttore della casa circondariale del Pagliarelli, e Pino Apprendi, responsabile dell’Osservatorio delle carceri Antigone - dice Natalia Re - per aver sposato questo progetto che vuole sensibilizzare l’opinione pubblica sul fatto che chi vive la realtà carceraria non è una persona senza identità, senza legami, senza una personalità ed una sensibilità. Il carcere non dovrebbe mai rappresentare una gabbia ma un luogo di riabilitazione, recupero, in cui il detenuto deve avere la possibilità di maturare una coscienza ed una consapevolezza su quelle che sono state le cause che lo hanno condotto in quel luogo. Mi auguro che arrivi anche un segnale forte dal ministero perché vogliamo che questi incontri vengano istituzionalizzato in quanto parte integrante del percorso di recupero”. Savona. La diocesi promuove un corso di formazione per volontari in carcere osservatoreromano.va, 16 marzo 2023 Un’iniziativa di formazione per sensibilizzare la comunità ai problemi e alle difficoltà del mondo del carcere, dei detenuti e delle loro famiglie: si chiama “Ultimi” il progetto voluto dalla diocesi di Savona-Noli per andare “oltre le mura” promuovendo la conoscenza dell’attuale realtà carceraria del territorio e per formare nuovi volontari disponibili a visitare i carcerati sul territorio ligure e a essere vicini alle difficoltà che incontrano gli ex detenuti e le loro famiglie. Il corso di formazione di primo livello di volontariato penitenziario e recupero sociale è stato lanciato, anche online, sul sito diocesano www.chiesasavona.it e affronterà diversi temi: il significato e l’evoluzione della pena; l’esecuzione penale interna ed esterna al carcere; la “messa alla prova”, il volontariato penitenziario e il servizio di inclusione sociale. Un corso di secondo livello - nel quale saranno trattati i temi della progettazione in carcere, mediazione penale e giustizia riparativa - sarà organizzato successivamente. Le lezioni si svolgeranno presso il seminario vescovile di Savona e la partecipazione sarà gratuita. Napoli. Il progetto di Krzysztof Zanussi per un film con i detenuti di Secondigliano ansa.it, 16 marzo 2023 Scriveranno una sceneggiatura sull’affettività in carcere. È la nuova sfida del regista polacco Krzysztof Zanussi, 83 anni, al lavoro con lo scrittore Rocco Familiari e Marta Bifano in un laboratorio con i detenuti impegnati a riscrivere il dramma teatrale “L’odore”, per un lungometraggio con la regia di Paolo Colangeli e il contributo della Film Commission Regione Campania. Tutto nasce proprio dal lavoro teatrale di Familiari diretto da Zanussi con Bifano e allestito l’anno scorso all’interno dell’istituto, un dramma sul tema della separazione affettiva. Al laboratorio che ne è seguito partecipano anche il protagonista Blas Roca Rey con la sceneggiatrice Francesca Pedrazza Gorlero. Oltre a riscrivere il testo, traducendolo in una sceneggiatura, i detenuti eseguono anche scene salienti della storia. Il docu-film, coprodotto da Loups Garoux Produzioni, Media Mediterranea ed Arti Magiche, sarà destinato alla diffusione in scuole e università ma anche su piattaforme. “Il carcere di Secondigliano - spiega Marta Bifano - è una struttura circondariale modello diretta da una donna illuminata, Giulia Russo, coadiuvata nella sua attività da un’equipe di ferro. Il teatro, i laboratori che sosteniamo nei vari istituti circondariali, sono oggi strumenti decisivi per rieducare i reclusi e per restituire loro una dignità di persona”. Al centro del dibattito c’è l’affettività negata nelle carceri italiane. Trentuno paesi europei autorizzano con varie procedure le visite affettive dei detenuti, ricorda infatti Pedrazza Gorlero. In Germania e Svezia ci sono miniappartamenti dove il detenuto è autorizzato a vivere per alcuni giorni con la famiglia. Avviene anche in Spagna. “La nostra iniziativa - spiega Colangeli - vuole farsi ambasciatrice culturale di questa importante azione civile per l’emancipazione del concetto di detenzione”. “Ora con la guerra che si avvicina anche all’Italia dal punto di vista economico, la visione di una vita soft finisce, si ritorna a una drammaticità dell’esistenza, e questo cambierà il pubblico”, dice Zanussi. “Sono molto vecchio e ho scritto molte storie e finché posso voglio continuare a lavorare per raccontare il senso profondo del dramma e del mistero delle nostre esistenze”. Quella catena di abusi sui migranti che l’Italia respinge di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 marzo 2023 In nome della difesa dei confini nazionali, il nostro Paese continua ad applicare i respingimenti dei migranti non solo via mare, ma anche via terra, come al confine italo sloveno. Quest’ultima è una pratica dichiarata illegittima da una ordinanza del tribunale di Roma del 2021, ma a fine 2022 il Viminale l’ha ripristinata tramite una direttiva e ciò ha ricreato una evidente violazione dei diritti umani a causa di un effetto a catena: dall’Italia alla Slovenia, che a sua volta rimanda migranti e richiedenti asilo in Bosnia ed Erzegovina e li sottopone al rischio di violenze e abusi. Stessa dinamica - come denunciato da una inchiesta di Lighthouse Reports - si ripresenta nei respingimenti dai porti adriatici verso la Grecia attraverso traghetti privati dove i migranti sarebbero trattenuti con forza e in pessime condizioni. Al livello europeo, le pratiche del respingimento dei migranti si traducono in violazioni dei diritti umani. Ci viene in aiuto il recente report dal titolo “Picchiati, puniti e respinti alle frontiere dell’Europa”, elaborato dal network inter-europeo Protecting rights at borders (Prab), che affronta anche la questione dell’Italia, capitolo redatto in collaborazione con l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), Diaconia Valdese e il Danish Refugee Council. I dati raccolti dai partner del Prab documentano come sono stati “accolti” migliaia di migranti alle porte dell’Ue con un diniego di accesso alle procedure di asilo, arresto o detenzione arbitrari, abusi fisici o maltrattamenti, furto o distruzione di proprietà. Persone provenienti da Afghanistan, Siria e Pakistan hanno riferito di essere state più frequentemente vittime di respingimenti e nel 12% degli incidenti registrati sono stati coinvolti bambini. Questi dati sono purtroppo solo la punta dell’iceberg. Ma veniamo al nostro Paese. Da questo rapporto emergono diversi respingimenti, sia via terra che dai porti del mediterraneo. Quelli dall’Italia alla Libia sono proseguiti nel 2022 in collaborazione tra i due governi e grazie al recente rinnovo del Memorandum Italia-Libia. Il nostro Paese continua inoltre a sostenere la Tunisia nelle attività di pattugliamento delle frontiere e nella lotta al traffico di migranti. Per contrastare il forte aumento degli arrivi dalle coste tunisine, il governo italiano ha accelerato le procedure per favorire i rimpatri di cittadini tunisini. Ma veniamo al punto più grave. Nel corso del 2022 sono stati registrati anche respingimenti dall’Italia verso Grecia e Albania. Attraverso le attività di monitoraggio svolte dall’Asgi e dalle organizzazioni della Rete dei Porti dell’Adriatico, sono state raccolte testimonianze di respingimenti e riammissioni dai porti adriatici verso Grecia e Albania, dove sono coinvolti non solo i richiedenti asilo, ma anche i minori non accompagnati. Le testimonianze documentano trattamenti disumani, come la confisca e la distruzione di effetti personali, la svestizione forzata e l’esposizione a temperature estreme. Questa prassi italiana è stata recentemente denunciata anche da Amnesty International. Che lo fa riferendosi a una inchiesta condotta da Lighthouse Reports, la quale ha messo in luce come l’Italia porti avanti respingimenti illegali verso la Grecia, impiegando traghetti privati, dove le persone vengono trattenute contro la propria volontà e in pessime condizioni. Tra le persone respinte ci sarebbero anche minori. L’indagine, attraverso testimonianze e documentazione fotografica e video, ha mostrato persone trattenute sottocoperta su traghetti passeggeri, chiuse in limitati spazi metallici, vecchi bagni inutilizzati e aree destinate al deposito di bagagli, a volte ammanettate a sbarre di ferro, durante viaggi che possono durare anche più di un giorno dall’Italia verso la Grecia. Quanto denunciato è stato confermato anche da alcuni membri degli equipaggi delle navi coinvolte, che hanno testimoniato circa il trattenimento delle persone migranti in luoghi definiti “prigioni”, e il loro rimpatrio in Grecia. Le riammissioni tra Italia e Grecia sarebbero rese possibili da un accordo bilaterale tra i due Paesi, in vigore dal 1999 seppur mai ratificato dal Parlamento italiano. Eppure, già nel 2014, a Corte europea dei diritti umani aveva condannato l’Italia per i respingimenti coatti e illegittimi verso la Grecia, con la sentenza relativa al caso “Sharifi e altri”. Nello specifico, l’Italia era stata condannata per la violazione del divieto di espulsioni collettive (articolo 4 protocollo 4 alla Convenzione europea dei diritti umani), del diritto a un ricorso effettivo contro l’espulsione collettiva e l’esposizione a trattamenti inumani e degradanti (articolo 13 in combinato disposto con l’articolo 3 della Convenzione e con l’articolo 4 protocollo 4), e per il divieto di trattamenti inumani o degradanti (articolo 3 della Convenzione). In seguito alla sentenza era stata aperta una procedura di supervisione, volta a monitorare l’adozione delle misure necessarie a porre fine alle prassi illegittime: una misura che il Governo italiano aveva chiesto di interrompere, sollecitando in tal senso il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, e adducendo per tale richiesta il compimento delle misure previste per l’interruzione delle prassi condannate. La supervisione non era stata bloccata, alla luce di criticità evidenziate da diverse organizzazioni. Amnesty International era intervenuta sul caso evidenziando gravi criticità nei sistemi di asilo greci e italiani, tra cui la mancanza di accesso alle procedure di determinazione dell’asilo, il ricorso inappropriato e spesso illegittimo alla detenzione, condizioni di accoglienza inadeguate e l’incapacità di prendere in considerazione le particolari esigenze di gruppi vulnerabili, come i minori non accompagnati. Come affermato da Amnesty, proprio tali criticità avrebbero portato a espulsioni collettive compiute dalle autorità italiane, e a respingimenti di richiedenti asilo dall’Italia alla Grecia, cosa che avrebbe esposto le persone a un rischio reale di tortura, maltrattamenti e altre gravi violazioni dei diritti. Eppure, a distanza di più otto anni, secondo quanto emerge dall’inchiesta di Lighthouse Reports, pare che il nostro Paese non abbia interrotto tale pratica. Così come, grazie a una direttiva del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, a fine 2022 è stata disposta la riattivazione delle “riammissioni informali attive” a danno dei migranti in arrivo dalla Slovenia, evocandone la presunta legittimità nonostante fossero già state censurate dal Tribunale di Roma a inizio 2021 anche per l’effetto “a catena” verso la Bosnia ed Erzegovina. Parliamo di migranti, per la maggior parte provenienti da Siria, Afghanistan, Iraq, Iran, Pakistan, Bangladesh, i quali compiono la cosiddetta rotta balcanica: rotta costellata da violenze e torture, per poi andare incontro ai respingimenti. La questione diventa ancora più grave quando, tra le persone più vulnerabili, ci sono anche i minorenni. E ciò va in contrasto anche con le garanzie sancite dalla Legge Zampa, quelle appunto sui minori non accompagnati. I respingimenti, violenti o meno, costituiscono una violazione del diritto a chiedere protezione internazionale. Ogni persona ha diritto a una valutazione individuale della propria richiesta di protezione. Gli Stati hanno il diritto di rispettare i propri confini, tuttavia, ciò deve avvenire in conformità con i loro obblighi ai sensi del diritto internazionale dei diritti umani. Resta il fatto che i respingimenti non sono casi isolati; stanno accadendo sistematicamente e sembrerebbe un modo, non solo italiano, per esternalizzare la responsabilità di proteggere le persone. Il risultato è la violazione sistematica dei dritti umani. Traffico di migranti: c’è un “Libyagate” che ignoriamo di Alberto Negri Il Manifesto, 16 marzo 2023 Ecco un trafficante “nostro” interlocutore a Tripoli: è il ministro degli Interni Trabelsi, che ha incontrato Piantedosi. Per Onu, Usa e Amnesty è “tra i peggiori violatori di diritti umani”. In Libia sappiamo chi manovra il traffico di migranti e gestisce i campi di tortura, basta sfogliare “Libyagate”, libro-inchiesta fresco di stampa di Nello Scavo e di un gruppo di giornalisti italiani e stranieri. Basta guardare in casa nostra per saperlo, non c’è bisogno come fa il governo di tirare in ballo i mercenari russi, trincerati in Cirenaica, della Wagner - che ieri secondo l’Ansa, hanno messo una taglia sul ministro della Difesa Crosetto, una mossa killer, tanto incendiaria quanto provocatoria da respingere al mittente. Per capire davvero chi manovra il traffico di migranti, chiediamoci piuttosto chi sono i nostri interlocutori a Tripoli per gestire le migrazioni. Uno di questi è il ministro degli Interni Emad Trabelsi, che il 26 febbraio incontrava a Roma il suo omologo Piantedosi: il 3 marzo Trabelsi è stato brevemente arrestato all’aereoporto di Parigi Charles de Gaulle. Sembra che avesse mezzo milione di euro in contanti, ma soprattutto figurava in una lista di indagati per traffico di migranti, come riportato anche in un’interrogazione parlamentare del deputato di Sinistra italiana Marco Grimaldi. Capo delle milizie di Zintan, Trabelsi era stato nominato a novembre ministro degli Interni dal premier Ddeibah ma il suo nome figura in più di un rapporto internazionale dell’Onu, del dipartimento di stato americano e di Amnesty International come “uno dei peggiori violatori di diritti umani e del diritto umanitario internazionale”. In combutta - leggendo “Libyagate” - anche con il famigerato comandate libico Al Milad, conosciuto con il nome di battaglia di Bija, capo della Guardia costiera di Zawihah, uno dei più spietati contrabbandieri di esseri umani, prima arrestato e poi riabilitato dal governo libico. Ma quella di Tripoli forse è una strategia raffinata: chi meglio di un ex trafficante che fa il ministro per trattare con altri trafficanti? Le ondate incontrollate di migranti dalla Libia sono iniziate con la caduta di Gheddafi nel 2011 voluta da Francia, Usa e Gran Bretagna. I mercenari russi della Wagner, accusata da Roma, allora neppure esisteva. In Tripolitania, poi, non c’è la Wagner ma ci sono le milizie locali e quelle della Turchia che hanno il controllo sulle motovedette della guardia costiera fornite dall’Italia. In Cirenaica i più influenti sono il generale Khalifa Haftar e gli egiziani che qui scaricano migliaia di poveri. Incolpare la Wagner è un modo per giustificare un governo, smentito per altro dai rapporti più recenti dell’intelligence, che ha appena stretto accordi sul petrolio con Tripoli e nulla dice di campi di concentramento e tortura con dentro almeno mezzo milione di persone. Inoltre risulta che la maggioranza degli sbarchi oggi arrivi dalla Tunisia - dalla frontiera “porosa” con la Libia - sull’orlo del fallimento finanziario, dove il presidente Saied giustifica i fallimenti suoi e dei predecessori attaccando i migranti dal Sahel. Forse il nostro governo puntando il dito sulla Wagner intende sollecitare, in contemporanea con la guerra in Ucraina, un intervento dell’Alleanza anche nel Mediterraneo per fermare le rotte migratorie. Un’ipotesi, per altro non tanto priva di fondamento visto che in Italia ci sono 64, costose assai, basi militari Usa e Nato e con mezzi navali e di tracciamento sofisticati. Il ritorno della Russia in Libia con la Wagner nel 2018, chiamata dal generale Khalifa Haftar, è stata una delle conseguenze della fine di Gheddafi nel 2011: Usa e Nato (Italia compresa), insieme all’Europa, hanno lasciato che il Paese cadesse nell’anarchia e senza alcun controllo alle frontiere, con una spaccatura tra Tripolitania e Cirenaica che persiste da anni. Nel 2019 l’offensiva contro Tripoli dell’uomo forte della Cirenaica, il generale Haftar, si è risolta in un fallimento perché il governo Sarraj, dopo avere visto respingere le sue richieste di aiuto militare rivolte a Italia, Usa e Gran Bretagna, è stato sostenuto dalla Turchia di Erdogan, oggi presente con istruttori militari e mercenari. Si è ripetuto lo schema della Siria e dell’Azerbaijan, quando l’Occidente ha lasciato che fosse Erdogan a contrastare Putin e poi a mettersi d’accordo con Mosca per la spartizione delle zone di influenza. La presenza della Wagner in Libia è comunque strategica per i russi, a metà strada tra Siria e Africa subsahariana dove i mercenari di Evgheni Prighozin, l’ambizioso e violento amico di Putin, sono schierati anche in Mali, Repubblica Centrafricana, Sudan e Burkina Faso, con un modello economico predatorio: sicurezza in cambio di petrolio, miniere d’oro e metalli rari. Per Mosca i miliziani possono essere utili a gestire il conflitto in Europa e assicurarsi il supporto degli stati africani anche all’Onu. Ma in Cirenaica la Wagner è arrivata con un accordo tra Mosca, Haftar e il beneplacito del raìs egiziano Al Sisi che ha ottimi rapporti con Mosca e in Libia è alleato con gli Emirati arabi uniti, sotto lo sguardo non disinteressato della Francia. Dopo l’insuccesso dell’offensiva contro Tripoli, i mercenari della Wagner hanno protetto la ritirata delle forze di Haftar ed eretto una serie di postazioni militari nella Sirte, sono rimasti nei siti petroliferi in Cirenaica e in Fezzan con una presenza stimata intorno alle 1.500 unità. In particolare il gruppo Wagner sta lavorando come fa da anni la Russia per riportare al potere il figlio di Gheddafi Seif al-Islam. Ma con i russi è spesso così: c’è un passato che non passa. Migranti. La protezione speciale e la risposta paradossale del governo da Esecutivo di Magistratura democratica Il Manifesto, 16 marzo 2023 Secondo Magistratura democratica il decreto legge del governo in materia di immigrazione va contro i diritti e contro la razionalità. Il decreto-legge n. 20 del 2023 all’articolo 7 abroga il terzo e quarto periodo dell’articolo 19 comma 1.1. del decreto legislativo n. 286 del 1998 (Testo unico sull’immigrazione) che consentiva il riconoscimento della protezione speciale alle persone che in Italia avevano costruito una vita privata e familiare. Norma per la quale, è di tutta evidenza, non sussistono i requisiti della necessità e dell’urgenza previsti dall’articolo 77 della Costituzione. La riforma andrà a colpire persone che in Italia lavorano con contratti regolari, hanno un’abitazione e spesso avevano trasferito qui anche la famiglia. Persone, insomma, ormai parte integrante del sistema sociale del nostro paese. La risposta ai morti di Cutro non è stata una rivisitazione critica della ratio punitiva e respingente che ha governato le politiche migratorie, ma si propone di estromettere queste persone dal sistema legale, impedire loro - nella volontà del Governo - di chiedere un permesso per protezione speciale. La conseguenza immediata potrà essere quella di produrre un esercito di irregolari che non potranno essere allontanati, in mancanza di accordi per il rimpatrio con la maggioranza dei paesi dai quali provengono e che andranno ad alimentare il mercato del lavoro nero e dello sfruttamento o della criminalità, su cui lucrano potentati economici sempre più invadenti, interessati ad abbattere i costi della manodopera (ad esempio nel settore agroalimentare o in quello della logistica). Il diritto fondamentale della tutela della vita privata e/o familiare è previsto dall’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti umani e dall’articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, fonti sovraordinate ai sensi dell’art 10 e 117 della Costituzione alle quali la legge ordinaria non potrà certo derogare. Non sono diritti comprimibili. Sono diritti fondamentali che l’Europa riconosce e di cui stimola la protezione. Non corrisponde al vero, dunque, quanto si legge in alcune dichiarazioni politiche, che la protezione speciale sarebbe contraria alla normativa UE. Quasi tutti i paesi europei, infatti, a fianco delle ipotesi di status di rifugiato e protezione sussidiaria, previsti dalla direttiva UE 2004/83/CE (cd. Direttiva qualifiche), prevedono ipotesi di protezione complementare a tutela dei diritti fondamentali tutelati dalle Carte sovranazionali o dalla propria normativa interna. Tale possibilità è espressamente prevista: dalla c.d. Direttiva rimpatri (n. 2008/115/CE, art 6.4); dall’art. 6, co. 5, lett. c, del Codice frontiere Schengen - regolamento 2016/399; dall’art. 17(2) Regolamento Dublino 2013/604; dagli articoli 19 e 25 del Codice visti - regolamento 810/2009. Ne hanno usufruito, sia pure con modalità diversificate, almeno 20 dei 28 Paesi dell’Unione europea (Austria, Cipro, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Italia, Lituania, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Regno Unito, Romania, Slovacchia, Spagna, Svezia e Ungheria). Altra conseguenza dell’abrogazione introdotta dal decreto emanato ora dal Governo, sarà quella di aumentare enormemente il contenzioso, affidando ai giudici il compito di applicare le norme fondanti il nostro ordinamento giuridico. Anche il fine di scoraggiare gli ingressi “irregolari”, perseguito con l’aumento delle quote di ingresso di chi ha già un’offerta di lavoro in Italia, non centra l’obiettivo. Le quote di ingresso in questi anni non hanno funzionato, non solo perché stabilite in misura infima rispetto alle reali esigenze e perché recanti una procedura di attivazione particolarmente complessa (nonostante le semplificazioni introdotte dall’articolo 2 del decreto-legge n. 20 del 2023) soprattutto da parte di piccoli imprenditori o privati, ma soprattutto perché in pochissimi saranno coloro che chiameranno una persona loro sconosciuta, che vive all’estero e le cui capacità lavorative non avranno la possibilità di sperimentare. Inoltre, storia e realtà hanno dimostrato che i flussi migratori non sono arrestabili, finché non cessano le ragioni politiche ed economiche che spingono le persone a lasciare gli Stati di origine per cercare altrove un luogo in cui sopravvivere. Anche solo immaginare, infine, che il traffico di esseri umani si combatta con l’innalzamento esorbitante delle pene per i c.d. scafisti, è solo un’illusione che alimenta il mito del panpenalismo, al fine di anestetizzare le paure sociali e tacitare le coscienze, individuando un nemico da combattere, anzi da abbattere. La tecnica legislativa, poi, lascia - ancora una volta - molto a desiderare. La previsione penale, infatti, è strutturata con una formula così ampia e indeterminata che pone seri problemi di aderenza ai principi costituzionali, autorizzando interpretazioni che potrebbe estenderne l’applicazione anche a chi interviene per garantire aiuti umanitari. Applicare questa nuova fattispecie di reato a chi “dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato” pone sullo stesso piano condotte profondamente diverse tra loro, con una pena edittale minima elevatissima. Anche l’individuazione del nemico da abbattere con la sanzione penale è frutto di approssimazione. L’esperienza dei processi penali celebrati contro i c.d. scafisti ci insegna, infatti, che chi si assume il rischio di condurre l’imbarcazione che ospita i migranti è di regola una persona altrettanto vulnerabile, alla quale si affida il timone in cambio della gratuità del viaggio o altri modesti vantaggi. Insomma: un povero tra i poveri, non certo il gestore del traffico e neppure un tassello della criminalità organizzata transnazionale che organizza il traffico di esseri umani. Per i timonieri degli scafi la pena prevista dall’articolo 12 del decreto legislativo n. 286 del 1998 è già oggi elevatissima; se, per come è usuale le persone trasportate sono più di 5, la pena prevista va da 5 a 15 anni. Non erano necessari, perciò, né inasprimenti delle pene, né nuove fattispecie di reato che non servono a garantire maggiore sicurezza sociale e non tutelano meglio - neppure indirettamente - la vita delle persone che attraversano il mare cercando una prospettiva dignitosa di futuro. Anche a fronte di sciagure così enormi come la strage di Cutro, non si vuole prendere atto che non c’è alcuna contingente emergenza bensì un fenomeno strutturale che deve essere governato e di fronte al quale l’Europa e l’Italia hanno il dovere di adottare una legislazione utile a fermare quello che si configura come un vero e proprio genocidio, introducendo canali di ingresso legali: visti per ricerca di lavoro, per lavoro, per richiesta di asilo, ecc. L’ingresso regolare, e dunque necessariamente controllato attraverso l’istituzione di canali legali, è l’unico mezzo che esclude la perdita di vite, mette nel nulla i disegni di sfruttamento dei trafficanti di vite umane, e consente all’essere umano che vi accede di vedersi riconoscere il diritto di asilo garantito dalla Costituzione e di coltivare le proprie legittime aspettative di vita e di lavoro. Lavoro minorile nel made in Italy: il lato oscuro dell’industria che non vuoi conoscere di Francesco Girone huffingtonpost.it, 16 marzo 2023 Secondo un rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, il lavoro minorile nell’industria tessile e dell’abbigliamento è ancora un problema mondiale, che coinvolge 170 milioni di bambini in tutto il mondo. In Italia, il lavoro minorile è proibito per legge, ma ci sono ancora casi in cui i minori vengono sfruttati nelle fabbriche tessili. Secondo un rapporto dell’Associazione Italiana dei Tessili e dell’Abbigliamento, la presenza di lavoro minorile nell’industria tessile italiana è diminuita negli ultimi anni, ma rimane ancora un problema in alcune regioni del paese. Tuttavia, ci sono aziende che stanno cercando di prevenire il lavoro minorile nella loro catena di produzione. Alcuni marchi di moda italiani si sono impegnati a garantire che i loro fornitori rispettino le leggi sul lavoro minorile e a monitorare regolarmente la loro catena di approvvigionamento. Alcuni marchi di moda internazionali sono stati oggetto di critiche per la presenza di lavoro minorile nella loro catena di produzione. Per esempio, nel 2022 l’organizzazione non governativa Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto in cui si accusavano alcuni marchi di moda, tra cui H&M e Zara, di sfruttare il lavoro minorile in Bangladesh. Anche in Italia, alcune aziende di moda sono state accusate di utilizzare manodopera minorile nella loro catena di produzione. Nel 2020, un’inchiesta giornalistica ha rivelato la presenza di lavoro minorile in una fabbrica di abbigliamento in Puglia che produceva per diversi marchi di moda. Secondo il reportage, la fabbrica impiegava lavoratori tra i 12 e i 16 anni, in condizioni di lavoro precarie e a basso costo. Le autorità italiane hanno poi multato diverse aziende coinvolte in quella produzione per violazione delle leggi sul lavoro minorile. Tra le aziende coinvolte, secondo quanto riportato dall’Ansa, ci sarebbero state anche alcuni marchi noti del made in Italy. Inoltre, il lavoro minorile nell’industria della moda italiana spesso riguarda anche l’artigianato e la produzione di accessori. Per esempio, nel 2018, l’organizzazione non governativa italiana Terre des Hommes ha pubblicato un rapporto in cui si denunciava la presenza di lavoro minorile nella produzione di accessori di lusso, come borse e cinture. Secondo il rapporto, i bambini venivano impiegati in piccole botteghe artigianali, spesso in condizioni di lavoro pericolose e con salari molto bassi. Anche in questo caso, alcune aziende stanno cercando di prevenire il lavoro minorile nella produzione di accessori, adottando politiche di responsabilità sociale e monitorando la loro catena di approvvigionamento. Sebbene la presenza di lavoro minorile nell’industria della moda italiana sia ancora un problema, alcune aziende stanno cercando di prevenire questo fenomeno. È importante che i consumatori supportino questi sforzi acquistando prodotti di aziende che rispettano i diritti dei lavoratori e che richiedano trasparenza dalla loro catena di approvvigionamento. In questo modo, si può contribuire a eliminare il lavoro minorile nell’industria della moda e promuovere una produzione etica e sostenibile. Export di armi. Bombe italiane in Yemen, archiviate le accuse ai funzionari italiani di Luca Liverani Avvenire, 16 marzo 2023 La gip Maria Gaspari di Roma decide di non aprire il processo contro Rwm e Uama per la strage nel 2016 di una famiglia yemenita. Però conferma la “violazione del Trattato sul commercio di armi”. Negato l’accesso alla giustizia per le vittime civili yemenite uccise con armi italiane. In particolare, per i familiari delle sei persone massacrate, nell’ottobre del 2016, nel villaggio yemenita di Dei Al-Hajari, bombardato nottetempo da un caccia della coalizione saudita che sganciò bombe prodotte in Sardegna. I numeri di matricola sui resti degli ordigni trovati sul luogo confermarono che si trattava di bombe costruite in Italia dalla Rwm, la cui esportazione subito apparve in evidente violazione della legge 185 del 1990 sull’export bellico a paesi in guerra, oltre che del Trattato internazionale sul commercio delle armi (Att) del 2014. I funzionari dell’Uama, l’autorità presso il ministero degli Esteri che decide sulle richieste di esportazioni delle industrie belliche italiane, diedero il via libera nonostante fossero denunciati da organismi internazionali gli attacchi su civili yemeniti. Ma secondo la gip Maria Gaspari non c’è stato nessun abuso d’ufficio. L’aspetto sorprendente è però che la stessa giudice mette nero su bianco che “a seguito degli interventi dell’Onu e poi del Parlamento Europeo, in considerazione delle interrogazioni parlamentari sul punto e delle denunce delle Omg, l’Uama era quindi certamente consapevole del possibile impiego delle armi vendute dalla Rwm all’Arabia nel conflitto in Yemen a danno di civili, tanto che ha adottato un atteggiamento cauto e prudenziale a partire da maggio 2016”. Nonostante ciò, l’Uama ha “continuato a rilasciare autorizzazioni all’esportazione di armi alla società Rwm anche negli anni successivi, in violazione quantomeno degli artt. 6 e 7 del Trattato sul commercio di armi (ATT) - conferma la gip Gaspari - ratificato dall’Italia nell’aprile 2014, atto giuridico vincolante, da cui discende che uno Stato non deve autorizzare esportazioni di armi se è a conoscenza del loro possibile impiego contro obiettivi civili”. Autorizzazioni all’export che hanno dunque violato, dice la stessa Gip, il trattato internazionale. E, di fatto, anche la legge 185 del 1990, “compresa” dalla ratifica dell’ATT nel 2014. Una condotta apparentemente illegale che però non merita nemmeno di essere analizzata in un dibattimento. Mwatana, Ecchr e Rete italiana pace e disarmo, le tre ong che avevano sporto denuncia e seguito con lo studio legale Gamberini l’iter, annunciano che “continueranno a cercare giustizia per le vittime civili del conflitto - prospettiva che potrebbe anche includere una nuova azione legale - soprattutto alla luce delle prove cruciali raccolte dall’indagine recentemente conclusa”. “Una decisione che chiude le porte della giustizia alle vittime dei troppi attacchi indiscriminati contro i civili yemeniti”, commenta la Rete italiana pace e disarmo che, insieme alle ong yemenita Mwatana e tedesca Ecchr, aveva denunciato la presunta violazione di legge. “I funzionari dell’Autorità nazionale per l’esportazione di armamenti e l’amministratore delegato della Rwm Italia spa - rileva la Rete - non saranno incriminati per il loro ruolo nella fornitura di armi che hanno contribuito agli attacchi aerei illegali nello Yemen. Una decisione presa nonostante le prove schiaccianti, confermate durante le indagini, relative agli attacchi aerei indiscriminati contro i civili yemeniti - potenzialmente equivalenti a crimini di guerra - condotti dal 2015 dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti con bombe prodotte dall’azienda Rwm in Italia”. “Sebbene sia stato chiarito che le loro azioni sono state condotte in violazione del Trattato Att sui trasferimenti di armi, con la consapevolezza che le armi avrebbero potuto essere utilizzate sui civili nello Yemen - sostiene la ong - il gip non ha ritenuto i sospetti perseguibili in quanto non considera dimostrabile che l’azienda abbia tratto profitto dall’abuso di potere”. “Siamo davvero stupiti non solo dalla decisione di archiviare il caso - dice Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne della Rete italiana pace e disarmo - ma soprattutto dalle motivazioni addotte: che senso hanno le norme nazionali e internazionali sull’esportazione di armi, con criteri e procedure chiare, se possono essere ignorate senza conseguenze?”. Sud America. Mafie, fake news e post-verità. I golpe hanno cambiato pelle di Lucia Capuzzi Avvenire, 16 marzo 2023 La modalità dei colpi di Stato in America Latina si adatta al Ventunesimo secolo: smilitarizzati, orientati da forze interne, alimentati dalla disinformazione via social. Il termine affonda le proprie radici nella Francia del XVII secolo quando i coup d’État erano ordini con cui i sovrani esprimevano il proprio potere assoluto nei confronti di leggi ordinarie e tradizione. È stata, però, l’America Latina a far entrare i “golpe” nella contemporaneità e nella ricerca politologica. Oltre che nella memoria civile del nostro tempo. Proprio nel vasto spazio compreso tra il Rio Bravo e la Terra del Fuoco, ora la categoria sta cambiando pelle, come dimostrano i recenti esempi in Perù e Brasile. Golpe 2.0, golpe di nuova generazione, neo-golpe, non c’è una definizione univoca. Di certo, però, il mutamento è in atto dalla fine della Guerra fredda. E, ancora una volta, potrebbero diventare una delle cifre del Ventunesimo secolo globale. “ In realtà, i golpe latinoamericani sono mutati radicalmente nel tempo. Non solo tra Ottocento e Novecento ma anche tra la prima e la seconda metà del secolo scorso”, spiega Maria Rosaria Stabili, storica dell’Università Roma Tre, tra le pioniere degli studi latinoamericani in Italia. Nel periodo immediatamente successivo all’indipendenza dalla Spagna, i Paesi nascenti sono stati dilaniati da continui rivolgimenti guidati da “caudillos” locali, forti sul proprio territorio ma non abbastanza da conquistare il potere centrale. Nel processo di costruzione delle strutture dello Stato-nazione avviatosi nella seconda metà dell’Ottocento e con la professionalizzazione delle forze armate, “esse sono diventate soggetti portatori di progetti di società e Stato da imporre con la forza e difendere con la repressione. Poi con l’irruzione della Guerra fredda nel Continente - prosegue l’accademica - si sono sentite investite dal ruolo di proteggere i rispettivi Paesi non soltanto dai nemici esterni, ma soprattutto da quelli “interni”, in omaggio alla Dottrina della sicurezza nazionale”. Sono stati questi ultimi, anche grazie alla densa produzione letteraria e cinematografica, a plasmare l’immaginario collettivo: alle divise verde oliva e alla loro caccia feroce dei comunisti, reali o presunti. L’ombra di Washington si è allungata sulla regione fino agli albori del nuovo secolo quando, a partire dalle transizioni degli anni Ottanta, i regimi militari hanno ceduto il passo alle democrazie, seppur ancora incerte e fragili. Poi, dall’11 settembre 2001, l’America Latina ha smesso di essere una priorità per trasformarsi, agli occhi degli Usa ma anche, spesso, del resto dell’Occidente, in una sconosciuta. I sussulti a Sud del Rio Bravo, nel frattempo, non sono scomparsi. Dalla sollevazione indigena in Ecuador del 2000 all’assalto ai palazzi delle istituzioni a Brasilia dello scorso gennaio, passando al colpo di Stato contro Jean-Bertrand Aristide ad Haiti nel 2004 e quello nei confronti di Manuel Zelaya in Honduras, rispettivamente nel 2004 e nel 2009, se ne contano almeno dodici. A questi si deve aggiungere, poi, l’impiego sempre più disinvolto dell’impeachment parlamentare per rimuovere i presidenti, come nel caso della brasiliana Dilma Rousseff e del paraguayano Fernando Lugo. Esempi molto diversi fra loro per origine, modalità e risultati. Alcuni si esauriscono in una manciata di ore, altri rappresentano cesure permanenti dell’ordine costituzionale. Il minimo comune denominatore, tuttavia, è la non assimilabilità al passato recente. Si tratta di fenomeni nuovi. E, alcune volte, innovativi. I quali non possono essere letti con le categorie del secolo scorso. Due i tratti distintivi dei “golpe” del Ventunesimo secolo latinoamericano. Primo, i rovesciamenti si smilitarizzano. Le forze armate tornano nelle caserme rinunciando al ruolo di “purificatori” dello Stato e della società. “Gli scontri sono interni all’arena delle istituzioni politiche e mettono in luce in luce la difficoltà del centro di entrare in relazione con le periferie “, sottolinea Massimo De Giuseppe, storico della Università Iulm e esperto di questioni latinoamericane. Alcune volte si tratta di veri e propri cortocircuiti come il maldestro intento dell’ex presidente peruviano Pedro Castillo di “licenziare” il Parlamento, lo scorso 7 dicembre. “ È sufficiente comparare la mossa di Castillo con quella analoga compiuta da Fujimori nel 1992 per coglierne l’inconsistenza. Quest’ultima rientra nei golpe classici, sostenuti e promossi dall’esercito. Il sussulto di Castillo nasce e muore all’interno dello scontro tra i diversi poteri costituiti “, aggiunge l’esperto. Nella regione, la difficoltà di trovare il baricentro dell’architettura istituzionale, lo scollamento tra popolo ed élite e, di conseguenza, la scarsa legittimazione delle amministrazioni nazionali e provinciali emergono in modo particolarmente drammatico. Sono questioni, però, che con accenti differenti caratterizzano la politica dell’attuale millennio ad ogni latitudine. Al contempo, ovunque, in America Latina si assiste a una de-istituzionalizzazione della violenza. Lo Stato non ha più un ruolo di primo piano nella repressione illegittima. Ad esercitarla sono una molteplicità di organizzazioni criminali che, certo, hanno mantenuto un legame stretto con la politica, i rapporti di forza sono, però, invertiti, tanto che, in alcuni casi, come in Messico, si parla di cattura di pezzi di istituzioni da parte delle mafie. Secondo, i colpi di Stato nascono da dinamiche interne, il ruolo di Washington - tranne forse che per alcuni aspetti, nelle vicende haitiana e honduregna e nella prima sommossa contro Hugo Chávez - è marginale. “Se, durante la Guerra fredda, erano le grandi potenze ad influenzare, in modo più o meno deciso, i Paesi “satelliti”, ora le pressioni sembrano venire da reti sotterranee di tipo transnazionale”, prosegue De Giuseppe. Il quasi simultaneo irrompere sulla scena politica di Donald Trump, Jair Bolsonaro, Viktor Orbán, Nigel Farage o Marine Le Pen sarebbe l’effetto di questi movimenti che trovano nella Rete e nei social i loro canali di collegamento, irradiazione e mobilitazione. Fino alle inquietanti somiglianze tra l’attacco a Capitol Hill e quello alla piazza dei Tre poteri di Brasilia a due anni di distanza. In questo caso, l’elemento “virtuale” è stato determinante. La folla bolsonarista che ha razziato le sedi di presidenza, Parlamento e Corte Suprema ha trascorso gli ultimi anni in una bolla di propaganda, fake- news e manipolazione. La post-verità è stata così potente da far tentare loro una battaglia persa in partenza. “L’assalto ai palazzi delle istituzioni brasiliane, in realtà, è stata un’azione di destabilizzazione meramente simbolica - sottolinea Stabili -. L’esito politico era secondario rispetto alla dimensione comunicativa”. Un “fakegolpe”, quasi. L’esempio più emblematico, forse, di una nuova generazione di rivolgimenti politici di cui l’America Latina può di nuovo diventare laboratorio globale. Dalla regione potrebbe, però, arrivare anche l’antidoto per neutralizzarle. Il crescente protagonismo dei movimenti popolari che, oltre la retorica, si fanno carico delle istanze degli esclusi dal sistema e l’irrompere di nuove sensibilità portate avanti dal mondo giovanile, in primis quella ambientale, offrono contenuti concreti in tempi di “politica 2.0”. La Colombia ha bisogno di una giustizia riparativa al femminile di Elena Marisol Brandolini Il Domani, 16 marzo 2023 Figlia di un leader assassinato mentre era candidato alle elezioni, presidente della commissione Pari Opportunità e senatrice nella coalizione che ha portato Gustavo Petro alla guida della Colombia, María José Pizarro è una delle figure più interessanti della nuova America Latina. “Per superare la violenza bisogna consolidare una pace totale. Una riparazione con un approccio femminile: risarcire la società colombiana nel suo insieme, ammettendo che le donne sono state colpite in modo particolare”. María José Pizarro è un’artista plastica e una politica colombiana. Nata a Bogotá, è figlia del fondatore e leader del Movimento 19 aprile (M-19), Carlos Pizarro Leongómez, assassinato nel 1990 durante la campagna elettorale per le presidenziali in cui era candidato. Parlamentare alla Camera dei deputati tra il 2018 e 2022, è oggi senatora per il Pacto Histórico, la coalizione che l’estate scorsa ha portato Gustavo Petro (anche lui ex guerrigliero dell’M-19) alla presidenza del paese e Francia Márquez alla vicepresidenza. Attivista per la pace, la memoria storica e i diritti delle donne, Pizarro è presidente della Commissione parlamentare di Pari Opportunità ed è una dei negoziatori di pace del governo nel dialogo con l’Ejército de Liberación Nacional (Eln). Parliamo con lei dell’arrivo della sinistra al governo e della sua accoglienza nella società colombiana, dell’agenda delle donne al centro del dibattito politico, del nuovo ministero di Pari Opportunità, delle donne artefici del cambiamento in sud America, del conflitto armato in Colombia con le donne vittime principali e della “pace totale”. Per la prima volta la sinistra è al governo: come sta reagendo la società colombiana? Quella colombiana è una società polarizzata, è come se ci fossero due nazioni, una che accompagna questo processo di cambiamento e l’altra che gli si oppone. In questo primo semestre proporrremo un pacchetto di riforme sociali e abbiamo convocato la società civile perché lo sostenga con una mobilitazione non solo di piazza ma in tutti gli spazi della vita quotidiana. Lei è senatora per il Pacto Histório, prima era deputata alla Camera: è cambiato il dibattito parlamentare con Petro presidente? Moltissimo, perché prima come forze progressiste eravamo un’infima minoranza. Poi siamo riusciti ad avanzare in quella coalizione di movimenti progressisti che ci ha portato a cambiare completamente la composizione del Congresso e ora siamo la forza politica maggioritaria. Oggi abbiamo una compagine di governo molto più solida, la composizione del Congresso è molto più democratica e ciò implica un maggior dibattito sulle riforme. Sappiamo che ciò che proponiamo non sarà approvato per intero, ma questo è il risultato di un dibattito democratico nel Congresso, mentre prima c’era solo l’imposizione di una forza maggioritaria sulle altre. Lei è presidente della Commissione parlamentare di Pari Opportunità, qual è l’agenda del neonato ministero di Eguaglianza? Innanzitutto, per la prima volta nel Congresso la discussione sull’agenda delle donne è divenuta prioritaria. Francia Márquez ha l’enorme responsabilità di costruire la struttura del ministero di Eguaglianza per superare molteplici diseguaglianze, non solo basate sul genere, ma anche quelle etniche, tra popolazioni e tra territori. È un mandato molto ampio quello che riceve la vicepresidente, con il quale speriamo di superare l’emergenza relativa alle violenze di genere e ai femminicidi. L’agenda delle donne è molto presente in tutti gli ambiti sociali del paese. Questo è un risultato importante, dovuto non solo all’arrivo del governo progressista, ma anche all’approdo delle donne al Congresso e agli spazi di decisione. Ciò ha implicato una sinergia tra diverse voci femminili che si è rivelata potente. Il ministero dell’Eguaglianza si basa sul principio dell’intersezionalità: che significa? Oggi abbiamo i principali ministeri, delle Miniere ed Energia, dell’Ambiente e dell’Eguaglianza, guidati da donne. Generare una cooperazione tra queste tematiche sarà una grande opportunità. Ciò che noi dobbiamo fare dal parlamento, è costruire un’agenda che sia sinergica in materia di costruzione della pace, di superamento delle diseguaglianze e di lotta contro il cambio climatico. L’intersezionalità è avere una visione ampia che permetta alle donne di esprimersi su tutti i temi che affliggono la società per generare trasformazioni valide per tutti. È passato un anno dalla sentenza della Corte costituzionale colombiana che depenalizza l’aborto fino alla 14ma settimana... Grazie alla lotta delle organizzazioni delle donne e delle femministe abbiamo ottenuto la depenalizzazione dell’aborto. Purtroppo, però, il Congresso non è apparso pronto ad affrontare la sua regolamentazione. Nonostante la sentenza della Corte, il diritto all’aborto non è una realtà nei servizi sanitari del paese, le donne non possono accedervi in modo libero e sicuro. Perciò dobbiamo approfittare di questo anniversario, perché si regolamenti la depenalizzazione dell’aborto, perché le donne possano accedere, in modo libero e senza barriere, a un diritto che un anno fa la Corte ha garantito. Un recente rapporto di Amnesty International denuncia le violenze sulle donne delle forze dell’ordine durante l’estallido social... È un rapporto importantissimo perché conferma quanto avevamo sostenuto come donne: ossia che, nei centri di detenzione, le donne sono state abusate sessualmente, subendo differenti tipi di violenza di genere da parte delle forze dell’ordine, da toccamenti a molestie verbali, da molestie psicologiche ad abusi sessuali. Che questo sia stato riconosciuto, dà un mandato chiaro per generare all’interno delle forze militari una cultura che le converta in una forza per la pace, piuttosto che per la guerra, com’è sempre stato. Nel caso delle forze di polizia, è necessaria una formazione sulla violenza di genere, ma anche una presa di coscienza sul fatto che l’integrità delle donne dev’essere protetta pure nel quadro delle mobilitazioni. Che i corpi delle donne non possono essere utilizzati per disincentivare la protesta sociale che è un diritto costituzionale. Perché in sud America il cambio è guidato dalle donne, dal collettivo Lgtbi e dalle comunità indigene? Perché sono i collettivi più esclusi. Le donne sono state discriminate, le donne indigene, contadine, le donne nere, trans, sono collettivi da sempre esclusi e dimenticati, nel senso che non sono esistite politiche per superare le diseguaglianze. In qualche modo si assiste ora a un risveglio collettivo delle donne del sud America che esigono di avere un ruolo centrale nella trasformazione, reclamano processi progressisti con volto di donna. Oggi, per la prima volta, c’è una vicepresidente afro-colombiana, ci sono diverse leadership femminili, le donne sono presenti nei processi di negoziazione, e questo è un fatto irreversibile. Abbiamo preteso che la pace non si negozi solo tra gli uomini che hanno fatto la guerra, perché noi abbiamo molto da dire sulla costruzione della pace. Lei è una dei negoziatori di pace del governo nel dialogo con l’Ejército de Liberación Nacional. Che cos’è la paz total di Petro? La pace totale non è solo il negoziato con l’Eln, l’ultima guerriglia con un’origine politica. Ma implica anche la ricerca di un avvicinamento con altre strutture armate, con i dissidenti delle Farc che tornarono alla guerriglia o non aderirono agli accordi di pace col governo nazionale, con strutture di origine paramilitare. Si sono costruite distinte modalità in funzione dell’origine e le caratteristiche dei gruppi. C’è una legge di Sottomissione collettiva alla giustizia che sta per arrivare in discussione al Congresso, secondo cui anche i gruppi che non hanno un’origine politica possono aderire a un modello di sottomissione collettiva. Ci sono altre strutture armate, che noi definiamo bande pluricriminali o di grande impatto, presenti soprattutto nelle grandi città del paese e con un’alta partecipazione di giovani, per cui si stanno definendo modalità di avvicinamento affinché possano sottomettersi alla giustizia. Ossia, non è un cessate il fuoco bilaterale, ma un cessate il fuoco multilaterale. Per garantire la vita e avanzare nella concretizzazione di un processo di pace completa nel nostro paese, per cui la violenza non si ricicli traducendosi in violenza sempre più degradata. Si tratta, infine, di cambiare la lotta contro le droghe. Fino a che non si cambi questo modello, non potremo difendere la conservazione ambientale, fermare la deforestazione, né superare la violenza in cui sono immerse la società colombiana e, con le multinazionali del narcotraffico, i paesi di transito come il Messico o quelli del centro America. Né affrontare in modo efficace il flagello che angustia le società europee e Nordamericane come paesi consumatori di cocaina. La Commissione sulla Verità colombiana ha concluso i lavori segnalando i decenni di guerra che ha vissuto il paese... È una realtà che le donne denunciano da tempo, soprattutto le organizzazioni delle donne vittime del conflitto. Ci sono stati diversi rapporti sul conflitto armato colombiano, delle donne, del Centro Nazionale di Memoria Storica e ora c’è la relazione della Commissione sulla Verità. Per superare la violenza bisogna, da una parte, consolidare una pace totale. E, dall’altra, va operata una riparazione con un approccio femminile: bisogna cioè risarcire le donne, risarcire la società colombiana nel suo insieme, ammettendo però che le donne sono state colpite in modo molto peculiare. Riconoscendo le metodologie di resistenza, di memoria, di costruzione della pace e del dialogo che le donne hanno sviluppato e che oggi sono patrimonio della società colombiana e dell’umanità. Quanto è pesato sulla sua formazione essere la figlia del leader del Movimento 19 aprile? Moltissimo, non solo la sua figura, ma il gruppo di donne e uomini, mia madre... In termini ideologici, nel raccogliere una bandiera, essere coerenti con quegli ideali. E oggi nel materializzare un governo che è il frutto di quel movimento: la proposta progressista che è arrivata al potere in Colombia è la proposta dell’M-19, che va consolidandosi nel paese da 50-60 anni. Noi siamo una generazione distinta, siamo i figli e le figlie di quelli che hanno lottato. Raccogliamo quelle bandiere con uno sguardo nuovo, alla luce del nostro tempo. È un grande orgoglio, un grande onore. Mio padre morì facendo la pace e non la guerra e oggi ho la responsabilità di concludere il compito per cui lui fu assassinato. Zarifa Ghafari: “La Nato in Afghanistan per 20 anni a recitare slogan nei compound” di Francesca Mannocchi La Stampa, 16 marzo 2023 L’ex sindaca: “L’Occidente non ha mai capito nulla del mio Paese. Era qui contro Al Qaeda, non per noi”. “Sui diritti: “Ottenere un po’ di libertà per le donne serve a rabbonire chi chiede conto delle spese militari”. Zarifa Ghafari è nata a Kabul nel 1994. É la più grande di otto figli. Da bambina ha studiato un anno nelle scuole clandestine sotto il primo Emirato Islamico, dopo l’invasione del 2001 il padre - che era un soldato - è stato trasferito a Paktia, una roccaforte talebana ai confini col Pakistan. Quando un attacco suicida contro la scuola l’ha quasi uccisa i suoi genitori le hanno imposto di tornare alle scuole nascoste, una volta tornata a Kabul, anni dopo, la sua famiglia le ha permesso di studiare all’estero. Si è laureata in Economia in India, e poi è tornata a casa per contribuire allo sviluppo del suo Paese. Giovanissima, fa domanda per la posizione di sindaco a Wardak, la città natale di suo padre. Supera i risultati di tutti i candidati uomini, ma impiega nove mesi ad assumere l’incarico, per le proteste della comunità, che non accettava una donna nel ruolo di sindaco. Era il 2018 e lei aveva 25 anni. Suo padre, comandante veterano delle forze speciali sotto il governo precedente, è stato assassinato nel 2020. Zarifa è sopravvissuta a tre attentati. Quando i taleban conquistano Kabul, nell’estate del 2021, Zarifa Ghafari fa di tutto per mettere in salvo la sua famiglia. Viene evacuata anche lei a Dusseldorf, insieme al fidanzato Bashir Mohammadi. Mesi dopo, decide di tornare nell’Afghanistan dei taleban per una missione con la sua organizzazione umanitaria, vuole capire come aiutare ancora la sua gente e scopre la “zona crepuscolare dei taleban”. La povertà da un lato, la sicurezza dall’altra. Da quando il regime ha inasprito le politiche non è più tornata nel suo Paese. Zarifa Ghafari ha scelto di raccontare la sua vita in un libro, Zarifa, La battaglia di una donna in un mondo di uomini, pubblicato in Italia da Solferino. Abbiamo dialogato con lei al telefono, ci ha risposto dalla sua casa in Germania. Partirei dal suo esilio, Zarifa, cosa significa questa parola per lei? “Naturalmente sono riconoscente per la vita che sto conducendo, vivo in un Paese sicuro, ho il mio libro, un film racconta la mia storia, ma quando mi guardo intorno, ecco è molto semplice: mi sento un’estranea. Vivere in esilio non significa solo lasciare la propria casa, significa lasciare indietro la parte migliore di te stessa che resta altrove. Non mi sento solo distante dal mio Paese, mi sento spesso distante da un pezzo di me stessa. Potremmo fare un viaggio nelle centinaia migliaia di pagine scritte nel tentativo di definire la parola esilio, ma poi, quando vai al fondo di questa esperienza, è molto semplice: non sei a casa. Non ti senti a casa. Questo è l’esilio”. Lei è nata nel 1994, un pezzo della sua memoria è determinato dal primo Emirato Islamico, e dall’inizio della guerra. Chi era la piccola Zarifa? “Ero molto piccola, ho dei ricordi di una vita in bianco e nero, e i ricordi che mi ha trasmesso mia madre quando sono cresciuta. Mia madre prima dei taleban era un’insegnante, e non ha mai smesso di ricordarmi l’importanza dell’istruzione, ho passato il mio primo anno di scuola nelle scuole clandestine, l’anno dopo è iniziata la guerra. Ricordo la me bambina camminare in strada, dopo le bombe. Mi mandarono a comprare il pane nel forno del quartiere, a cento metri di distanza da me c’era un cadavere. Notai che una mano e un piede erano smembrati un po’ distanti dal corpo. Era di un combattente talebano. Avevo sette anni. Questa è stata l’infanzia”. Nelle prime pagine del libro riesce a condensare la sua biografia e incrociarla alle contraddizioni degli ultimi vent’anni. Parte dall’oggi, da quando è tornata nell’Afghanistan dei taleban e ha visitato il villaggio di Changa. Scrive: “La maggior parte dei servizi, lì, compresa la scuola è opera dei taleban, nel 2001 a Changa non si sarebbero neanche accorti che il regime di Kabul era cambiato se non fosse stato per gli attacchi aerei e i raid notturni iniziati subito dopo. Nessuno si era mai preso la briga di asfaltare le strade, finanziare un mercato, costruire una rete fognaria.... “Il villaggio di Changa è solo uno degli esempi, uno su migliaia, del Paese che la comunità internazionale non ha mai conosciuto, pensando, o meglio volendo credere che l’Afghanistan fosse Kabul. Per vent’anni gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno ripetuto di aver trionfato sui taleban, sbandierando il controllo su Kabul, ma la capitale non è l’Afghanistan, come New York non è l’America”. Cos’è che l’Occidente non ha capito del suo Paese? (Ride a lungo) “L’Occidente non ha capito niente dell’Afghanistan. Dalla storia alla natura, dalle montagne alla gente. Dalla situazione geopolitica alla vita sociale, i nostri usi, costumi, niente. L’Occidente non ha capito perché non ha voluto conoscere, non ha avuto curiosità di capire la complessità del Paese. E anche i pochi che hanno cercato di entrare nelle differenze e nelle contraddizioni afgane, alla fine non se ne sono curati. Nessuno ci ha mai davvero chiesto quali fossero i nostri obiettivi, tutti i cosiddetti alleati erano lì - alla fine dei conti - per curare i loro interessi, non quelli della popolazione locale. Volevano tutelare la loro sicurezza, la loro ricchezza, non la nostra. E con questo non sto dicendo che non abbiano investito denaro, risorse o non abbiano subito perdite. Sto dicendo altro, cioè, che questi sforzi non erano diretti a noi, ma a loro stessi. Erano lì contro Al Qaeda, non per noi. Sono due cose molto diverse. Erano lì contro Osama bin Laden, non per la mia gente. Se non ci fosse stata la tragedia delle Torri Gemelle, avrebbero continuato a non curarsi di noi. Due anni fa era arrivato il momento per la comunità internazionale di occuparsi d’altro, dell’influenza cinese, del regime iraniano e oggi anche della guerra in Ucraina. Se ne sono andati, e a noi restano i taleban”. Le capiterà, di tanto in tanto, di ascoltare le dichiarazioni dei leader occidentali preoccupati per le sorti delle donne costrette a non studiare, né lavorare. Escluse ormai dalla vita pubblica... “Mi capita spesso. Accendo la televisione, le dichiarazioni per l’8 Marzo, oppure il giorno in cui i taleban impongono un nuovo divieto e alcuni leader di fronte alle telecamere si dicono preoccupati del rispetto dei diritti umani in Afghanistan. Provo un sincero disgusto. Non si sono occupati dei diritti umani per vent’anni, non hanno mai compreso i valori che fondano le nostre tradizioni. Non nego, anzi so, quanto fossero corrotte le istituzioni precedenti, quante responsabilità abbiano nel crollo del Paese, ma so che la Nato è stata in Afghanistan per vent’anni a recitare slogan, con diplomatici e funzionari nascosti per anni nei compound e nelle ambasciate, senza vedere, senza capire e certamente senza controllare come venissero spesi i soldi che portavano. Quindi sentirli parlare oggi di diritti umani è ridicolo”. Scrive che l’equilibrio tra progresso delle città e l’arretratezza dei villaggi è sempre stato delicato, e appena gli Stati Uniti hanno cominciato a negoziare con i taleban si inclinò a favore delle campagne. La Kabul che aveva imparato ad amare, scrive, era un miraggio anche se avevate creduto fosse reale. Un’ammissione di grande sincerità. Ci spiega in cosa consisteva il miraggio? “Era un’illusione comune. Gli Occidentali per vent’anni hanno avuto bisogno di qualche prova per anestetizzare le loro opinioni pubbliche. Dovevano rispondere alla domanda: cosa stiamo facendo ancora lì? Continuare a restare in Afghanistan era sostenibile dal loro “pubblico” solo a fronte di qualche conquista, per questo hanno usato le donne. Ottenere un po’ di libertà per le giovani afgane serviva a rabbonire chi chiedeva conto delle spese militari”. La green zone di Kabul era lo specchio di tutto questo: un quartiere che prima era afgano e poi è diventato una zona iper-protetta, fortificata. Quando un afgano provava a entrare lì non si sentiva più a casa, sentiva che quella era diventata l’espressione della corruzione e dell’ipocrisia. Non ricordo nessun ambasciatore, console, funzionario, camminare nel Paese, parlare con la gente... “Provate a immaginare come doveva sentirsi un comune cittadino di fronte a quell’espressione di privilegio quando a quattro, cinque chilometri di distanza si moriva di fame e le persone erano terrorizzate dalla guerra o dagli attentati”. Pensate che un afgano, alla luce di questi ricordi, possa ancora fidarsi della comunità internazionale? Nell’aprile del 2021 ebbe occasione di incontrare il segretario di Stato americano Antony Blinken, era tra le funzionarie del governo invitate all’ambasciata statunitense. Espose a Blinken tutte le sue preoccupazioni per gli accordi di Doha e lui rispose: “Se i taleban non mantengono le promesse in merito all’istruzione delle donne non sosterremo il loro governo”. Cos’ha capito in quel momento? “Che ci avrebbero abbandonato. Ero realista, le parole di Blinken stavano dicendo alla mia gente non solo che se ne stavano andando, ma che il Paese sarebbe inevitabilmente finito in mano talebana. É stato terribile. Vedevo di fronte a me il peggior scenario possibile mentre continuavo a ripetermi che non poteva essere, non poteva accadere davvero. Ma mentre me lo dicevo, era già accaduto”. Per questo dice di aver cominciato a capire perché per gli afgani la pace repressiva possa essere preferibile alla libertà violenta che avevano vissuto per vent’anni? “Noi afgani viviamo in guerra da decenni. La guerra ci ha modellati perché ci siamo abituati a essa e perché abbiamo sperato ogni giorno della nostra vita che finisse. Bene, è finita, ma nel peggiore dei modi possibili. Oggi la gente ha smesso di vedere dozzine di morti al giorno per le strade. C’è una forma di pace che ha un prezzo spaventoso”. Il prezzo della pace e della sicurezza è la mancanza di diritti? “Vede, quando qualcuno ha perso così tanto, ed è così tanto stanco, comincia a pensare che vada bene qualsiasi pace. Perciò molti pensano: non ci sono università per le ragazze, non ci sono scuole per le bambine, non ci sono lavori per le donne. Ok. Ma almeno siamo vivi. Possiamo biasimarli?”. La sua vita è stata esposta alla violenza per anni. Lei è sopravvissuta tre volte, un attentato in città, due tentativi di ucciderla. Il suo corpo porta i segni del tentativo di eliminarla. Ha perso suo padre, vittima di un omicidio. Una delle frasi che più mi hanno colpita del suo libro è “gli attacchi terroristici hanno fatto di me un’afgana”. Cos’è la paura per lei Zarifa? (Esita a lungo, prima di rispondere) “É difficile dire cosa sia la paura quando ti sei abituata a essa. Non vivi più come una persona normale, non parlo solo di me, o della mia famiglia. Tutte le famiglie afgane piangono una perdita. Piangono le vedove, piangono gli orfani. Ti abitui all’odore della paura, che cambia le tue aspettative sul futuro perché lo allontana. Negli anni ho imparato a farmi guidare dal coraggio, ma è difficile lasciare andare via quel terrore che resta stretto da qualche parte, dentro di te”. Vorrei portarla in Italia, per un momento. La scorsa settimana 81 persone sono morte annegate al largo delle nostre coste. La maggioranza arrivava dall’Afghanistan, tra loro c’erano molti bambini. Di chi è la responsabilità di queste morti? “Di ogni singola persona, ogni Stato, ogni istituzione che è stata coinvolta nella vita del mio Paese per vent’anni senza curarsi di come sarebbe finita. Di ogni singolo afgano che per vent’anni ha preferito arricchirsi con i soldi occidentali invece di migliorare il nostro paese. É un fallimento di tutti”.