Nordio-Fratelli d’Italia, intesa su carceri e droga. Ma la Lega non ci sta di Errico Novi Il Dubbio, 15 marzo 2023 Schema saltato sulla giustizia: ora il guardasigilli e il partito di Giorgia Meloni trovano una sintesi con l’idea di assegnare alle comunità, anziché alle carceri, i condannati con tossicodipendenze. “Non possiamo trattarli come i mafiosi”, dice il ministro. Ostellari, il sottosegretario salviniano: “No a un liberi tutti, niente alibi per chi delinque”. È il tema dei temi: il carcere. Non perché gli altri dossier della giustizia non abbiano peso, ma perché il carcere è stato fin dall’inizio il punto di frizione più acuto fra Carlo Nordio e la sua maggioranza. Nell’intervento pronunciato un paio di settimane fa alla London School of Economics, il guardasigilli ha detto: “I detenuti non sono tutti uguali” e “la detenzione di un tossicodipendente non può essere assimilata a quella di un rapinatore a mano armata di o di un mafioso”. Di fatto, un prologo dell’intervista alla Stampa con cui lunedì scorso il sottosegretario di FdI Andrea Delmastro ha rilanciato il progetto di assegnare alle comunità di recupero i condannati con problemi di droga, in modo da ridurre drasticamente il sovraffollamento. E insomma, al ministero della Giustizia Nordio e Fratelli d’Italia sono alleati su una soluzione che può seriamente ridurre la sofferenza nelle carceri. Trovano un punto d’incontro sulla questione che, in teoria, più li allontana. E lasciano la Lega isolata. Perché l’altro sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, prima fila del Carroccio, la pensa in modo completamente diverso rispetto a Delmastro: “Non si può arrivare a un “liberi tutti”, dice, alla “logica per cui se sei assuntore di sostanze non sconti la condanna che ti meriti”. Sarebbe “pericoloso”, per Ostellari, perché “chi sbaglia deve poter rimediare, e curarsi se necessario, ma senza alibi”. Un no netto, chiaro. Che può aprire un problema nuovo nella maggioranza. Ma che rivela una volta di più l’interesse della Lega a smarcarsi, e ad assumere le vesti della forza più intransigente, più di Fratelli d’Italia. Calcolo elettorale? Di sicuro è una scelta identitaria. Certo, il partito di Matteo Salvini punta a recuperare gli spazi perduti a destra a vantaggio di Giorgia Meloni. Ma ciò che conta è come la frattura Delmastro-Ostellari sull’assegnazione dei tossicodipendenti alle comunità anziché alle carceri rappresenti una svolta politica da ogni punto di vista. Conferma la ridefinizione di Fratelli d’Italia come partito di destra che vuole assumersi la responsabilità di essere anche un grande partito conservatore di governo. Con la rinuncia a posizioni dettate dalla ricerca del consenso più che dalle esigenze concrete. Mentre la Lega fa pesare di più la volontà di “contrastare quei fenomeni criminosi che spaventano i cittadini”, come dice il deputato salviniano Jacopo Morrone. Nordio a Londra è stato chiaro: i condannati con tossicodipendenze “meritano un trattamento differenziato”, basato sulla “rieducazione”, sul “reinserimento nel mondo del lavoro” e affrancato dalla “visione carcerocentrica della risposta penale”. Ed è notevole come tale concetto, che si potrebbe considerare quasi un’esclusiva di Nordio rispetto a buona parte della maggioranza, riesca ora a mettere d’accordo il guardasigilli con Fratelli d’Italia. Secondo il ministro della Giustizia va interrotto un circolo vizioso che parte del costo degli stupefacenti: “Pochissimi possono spendere 3-400 euro al giorno per procurarseli, altri spacciano a loro volta o rubano per poterli comprare”. C’è insomma una gran parte della popolazione carceraria che “ruota attorno all’assunzione delle sostanze”, e se si riuscisse a incidere “non solo con la pena ma anche con la rieducazione psicofisica del tossicodipendente, si ridurrebbe il problema in radice”. Argomenti seri. Che però, come si è visto, non entusiasmano affatto Ostellari. Al quale peraltro compete una parte della delega al settore penitenziario, sdoppiata fra lui e Delmastro. Il sottosegretario leghista ha una netta predilezione per la via alternativa del lavoro in cella: “L’80% dei detenuti, dopo aver scontato la pena guardando il soffitto, torna a delinquere. Chi ha imparato un lavoro, nel 98% dei casi esce dai circuiti criminali. Ripartiamo da qui per trasformare le carceri in luoghi di rieducazione e di cura, nel pieno rispetto del dettato costituzionale”. È la visione appartenuta ad Alfonso Bonafede. La condivide anche l’altro leghista, Morrone segretario della commissione Giustizia di Montecitorio: ribadisce alle agenzie le posizioni già espresse sul Dubbio, in particolare la preferenza per la “pianificazione e la riorganizzazione dell’edilizia penitenziaria”, visto che, dichiara, il sovraffollamento “non si risolve solo con la riduzione dei detenuti o la depenalizzazione di certi reati”. Sembra un’idea debole. Innanzitutto perché più costosa. Morrone peraltro raffredda l’ipotesi Nordio-Delmastro anche col richiamo a quelle norme già in vigore che consentono di “espiare la pena fuori dal carcere” per i condannati con tossicodipendenze “autori di reati di minore gravità”. Discorso condiviso da una voce un po’ a sé stante tra i forzisti, Maurizio Gasparri: il senatore ex An evoca a propria volta le norme che già oggi prevedono di poter “scontare la pena agli arresti domiciliari presso una comunità” per condanne fino a 6 anni. Gasparri riconosce d’altronde che il punto è “sostenere le comunità terapeutiche: se non si moltiplicano i luoghi qualificati, ci sarà poco da fare”. Ma in realtà è proprio questa la sostanza del progetto esposto da Delmastro, e sul quale gli uffici di Nordio sono già al lavoro: pianificare con le Regioni un rafforzamento delle strutture di recupero. Oltre a estendere, sul piano del diritto penale, il ricorso alla disintossicazione come alternativa al carcere. Ai sindacati, la soluzione Nordio-Delmastro piace. Il Consipe, per esempio, ne parla come di una “questione di civiltà”. Decongestionare i penitenziari senza una vera e propria depenalizzazione o un ritorno alla mai attuata riforma Orlando: sarà un controsenso, ma sul piano politico è una sintesi efficace. Si vedrà. Di certo il vecchio schema con Nordio da una parte e FdI e Lega dall’altra è saltato. Dipendenze e carcere, disintossicare non è l’unica soluzione di Marco Perduca Il Manifesto, 15 marzo 2023 L’uso di sostanze è considerato una “malattia”. Portavoce dell’alleggerimento della popolazione carceraria “malata” è il sottosegretario alla giustizia Delmastro. L’ultima frontiera del governo più a destra della storia repubblicana sono i “tossicodipendenti” in carcere. Portavoce dell’alleggerimento della popolazione carceraria “malata” è il sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. Il Testo Unico sulle droghe 309/90 prevede regimi speciali (articoli dal 90 al 96) di esecuzione della pena per i soggetti “tossicodipendenti”: uno di decarcerizzazione, con sospensione della pena e affidamento in casi particolari, l’altro di regime detentivo speciale. Se i percorsi sono abbastanza chiari, ancorché in disuso, resta problematico stabilire chi qualifichi i “tossicodipendenti”. Ai fini dell’applicazione delle norme non occorre la “cronica intossicazione” perché chi ne soffre, essendo non imputabile, non viene assoggettato a pena e, se ritenuto pericoloso, viene sottoposto a misure di sicurezza. In aggiunta alla mancanza di una definizione di “tossicodipendenza”, la Legge parla anche di alcoldipendenza. Il che, essendo i dati del ministero quantitativi e non qualitativi, crea ulteriori problemi (anche) di tipo statistico. Il primo comma dall’art. 95 della 309/90 definisce a chi è rivolto il regime speciale senza approfondire di chi si parli: “La pena detentiva nei confronti di persona condannata per reati commessi in relazione al proprio stato di tossicodipendente deve essere scontata in istituti idonei per lo svolgimento di programmi terapeutici e socio-riabilitativi”. Al 28 febbraio scorso, la popolazione detenuta in Italia contava 56.319 persone a fronte di una capienza regolamentare (assai dubbia) di 51.285 letti. Secondo i dati ufficiali, analizzati nei Libri Bianchi sulla legge sulla droga prodotti dalla società civile, circa il 30% di chi è ristretto è in carcere per violazioni della 309/90 o reati “droga-correlati”. Le statistiche del Ministero dicono che poco più del 20% dei detenuti sono “tossicodipendenti”. Nella stragrande maggioranza dei casi le carceri ereditano la segnalazione dalle Asl o dai SerD. Recentemente il Dipartimento per le Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio ha pubblicato un documento intitolato “Carcere e Droga” in cui si ricorda che la presenza di persone tossicodipendenti e/o alcoldipendenti in carcere per aver commesso reati di varia natura “comporta da sempre notevoli problemi per la loro gestione in ambienti problematici di per sé e per la complessità che la cura di tale stato di malattia comporta”. Se però si esclude la “cronica intossicazione” chi sono, e di cosa sono malati, questi “malati”? In buona o cattiva fede, si fa un uso improprio, o datato, di termini su cui la letteratura scientifica, prima ancora che la criminologia, continua a interrogarsi. Il Dipartimento offre spunti per approfondire la conoscenza necessaria ad affrontare l’argomento perché “le persone tossicodipendenti o alcoldipendenti che sono in carcere”, non sempre con sentenza definitiva, “sono recluse per vari motivi ma non in quanto tossicodipendenti”. Indipendentemente da chi è al Governo l’uso di sostanze di per sé viene considerato un abuso, un pericolo per la salute personale e pubblica. Una “malattia”. La Legge 309/90 prevede la possibilità di accedere a cure in relazione alla presenza reale di uno stato di tossicodipendenza o alcoldipendenza. Per il sottosegretario Delmastro il luogo più appropriato per ricevere queste terapie sono le comunità chiuse “come quella di San Patrignano”. Ora, se è vero che la SanPa del 2023 non è quella di 40 anni fa, resta il problema, o il dubbio, che chi abbia un rapporto problematico con le sostanze lecite e illecite possa trarre particolare giovamento nel ricorrere a terapie più o meno scientificamente validate in uno stato di privazione della libertà. Chi stabilisce che la “disintossicazione” sia la cura più adatta per chi ha un rapporto problematico con le sostanze? L’esperienza svizzera segnala che è possibile convivere con questa “dipendenza” puntando sulla qualità della sostanza e la sicurezza e salubrità dei luoghi di uso. La legge contiene già quanto necessario per far uscire dal circuito detentivo, perché non applicarla? Vista questa lodevole attenzione del Governo, perché non prevedere serie politiche di riduzione del danno? Ma soprattutto perché dedicarsi agli effetti di una legge senza aprire un dibattito sulla penalizzazione di condotte che non creano vittime? Se il problema è il sovraffollamento la soluzione è sicuramente altrove. Educare, non punire. Le Comunità non sono carceri forumterzosettore.it, 15 marzo 2023 Bene l’aumento delle misure alternative, ma le comunità non si trasformino in carceri private. Il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca) ribadisce la necessità di facilitare percorsi alternativi per l’uscita dal carcere, in particolare per le persone con problemi di dipendenza. Ma le comunità non vanno pensate come surrogati degli istituti di pena né come carceri private. “Da sempre crediamo all’inutilità della detenzione per le persone con dipendenze come dimostrano le numerose accoglienze nelle nostre strutture e nei progetti di misure alternative territoriali. È un lavoro che facciamo da anni. Ma le comunità non devono diventare delle carceri private, la detenzione non è lo strumento per facilitare la cura e il percorso di riabilitazione. A livello normativo sono già previsti dei percorsi alternativi, poco utilizzati e non sufficientemente sostenuti a livello economico e culturale. Il Cnca e una buona parte della società civile c’è ed è disponibile a ragionare su un’idea di superamento che sia inserita in una logica di sistema basta sulla scelta e la responsabilità della persona” afferma Caterina Pozzi, presidente del Cnca. “Non è pensabile tornare ad un modello di comunità di alcune esperienze degli anni 80, che oggi come allora non trovano assoluto riscontro nella realtà e nei bisogni delle persone che incontriamo. Accogliamo oltre 4.000 ospiti nelle nostre comunità che sono aperte sul territorio, lavorano per l’inserimento sociale e accompagnano le persone nei propri percorsi di responsabilità, recupero e scelta consapevole. Queste realtà non possono trasformarsi in luoghi di puro contenimento. Rivendichiamo con forza la professionalità e la motivazione etica e di impegno sociale degli operatori che lavorano nei nostri servizi; si tratta di professionisti che hanno scelto un lavoro di accompagnamento e cura e che non possono mai fare le veci della polizia penitenziaria”, aggiunge Pozzi. Il Cnca è oggi la principale rete di cura delle dipendenze nel terzo settore con circa 300 realtà presenti in tutta Italia e 4000 persone prese in carico ogni anno; “La nostra storia quarantennale di lavoro sul campo parla di percorsi terapeutici, di scelta, di condivisione. Noi lavoriamo costruendo percorsi di autonomia con le persone, facciamo in modo che entrino, quando necessario, in rapporto con il reato commesso e con la pena ispirato ad una cultura di giustizia riparativa su cui le nostre comunità stanno già lavorando da anni. Per noi il carcere è sempre l’estrema ratio, soprattutto per chi ha un problema di dipendenza. Siamo convinti che i percorsi di accompagnamento e le misure alternative debbano essere implementati, ma rifiutiamo in maniera forte di trasformare le comunità in luoghi di puro contenimento. Educare, non punire è da sempre il nostro slogan”, aggiunge Riccardo De Facci, consigliere nazionale del Cnca con delega alle dipendenze. Comunicato del Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca) “Fornire il taser agli agenti della Penitenziaria contro i detenuti psichiatrici e autolesionisti” di Marco Zavagli Il Fatto Quotidiano, 15 marzo 2023 La surreale proposta del deputato di FdI. Poiché il “trattamento sanitario obbligatorio di fatto non avviene nelle case circondariali”, Mauro Malaguti chiede al ministro Nordio “se non si ritenga indispensabile dotare ogni capoturno, per ogni turno di vigilanza della polizia penitenziaria, di taser da utilizzare nei casi più pericolosi in cui detenuti violenti, o affetti da problemi psichici, aggrediscano gli agenti o altri detenuti o tendano all’autolesionismo”. Utilizzare il taser, la pistola elettrica, contro i detenuti affetti da problemi psichici e autolesionisti. Lo chiede il deputato di Fratelli d’Italia Mauro Malaguti, che in un’interrogazione al ministro della Giustizia lancia la sua personale soluzione contro le aggressioni subite dagli agenti di Polizia penitenziaria. Fresco di visita alla casa circondariale di Ferrara - assieme al sottosegretario in quota Lega, il senatore Andrea Ostellari - Malaguti si proclama portatore di istanze emerse dai colloqui con i sindacati. E sottolinea il pericolo per l’incolumità degli agenti: “Sempre più spesso e in maniera sempre più aggressiva alcuni detenuti ricorrono alla violenza verso il personale di custodia al fine di ottenere vantaggi e benefici non dovuti; vi sono anche detenuti, affetti da problemi psichici, che a volte ricorrono alla violenza contro altri detenuti e contro sé stessi. I sindacati lamentano in particolare, oltre alla grave carenza di organici che costringe gli operatori a continui e snervanti straordinari, la mancanza di precisi protocolli operativi che li tutelino da denunce ricattatorie da parte dei reclusi stessi, e di strumenti di difesa dalle continue aggressioni; se infatti i detenuti più violenti possono trovare anche in carcere oggetti utilizzabili per ferire anche gravemente gli agenti, questi ultimi sono totalmente sprovvisti di qualsiasi strumento di difesa”, si legge nell’interrogazione. Da qui l’esigenza per gli agenti di custodia di “misure per riportare l’ordine all’interno del carcere”. E, dal momento che il “trattamento sanitario obbligatorio di fatto non avviene nelle case circondariali”, Malaguti chiede a Carlo Nordio “se non si intenda istituire nuovi e precisi protocolli di intervento per gli agenti di Polizia penitenziaria che li tutelino da eventuali denunce per maltrattamenti inesistenti e autolesionismo dei detenuti”. E, soprattutto, chiede “se non si ritenga indispensabile dotare ogni capoturno, per ogni turno di vigilanza della polizia penitenziaria, di taser da utilizzare nei casi più pericolosi in cui detenuti violenti, o affetti da problemi psichici, aggrediscano gli agenti o alti detenuti o tendano all’autolesionismo”. A Malaguti replica da Ferrara la consigliera comunale del Pd Ilaria Baraldi: “Una richiesta che fa accapponare la pelle”. La dem ricorda che gli agenti di polizia penitenziaria hanno già un’arma di ordinanza, la quale però “non può essere introdotta nelle sezioni delle carceri per ragioni di sicurezza”. E che il taser “è per legge un’arma a tutti gli effetti, dichiarata dall’Onu uno strumento di tortura nel 2007. Si potrebbe sorvolare”, ironizza la consigliera, “sulla gaffe di richiamare anche solo incidentalmente alla memoria pratiche antiche, come l’elettrochoc - per fortuna espulse nel frattempo dalla pratica clinica - se non fosse che la nostalgia di Fdi per il passato stia dando esempi quotidiani sempre più allarmanti”. Una legge per i bimbi detenuti con le madri di Paolo Siani e Samuele Ciambriello La Repubblica, 15 marzo 2023 Il testo per tutelare i minori reclusi in cella con le mamme è fermo in Parlamento. In commissione Giustizia della Camera è stata rimandata la procedura d’urgenza per la votazione in aula della proposta di legge per evitare il carcere ai bambini fino ai 6 anni che insieme alle madri sono costretti a vivere in regime di detenzione, piuttosto che in strutture protette. La proposta di legge a mia prima firma fu presentata al Parlamento, durante la scorsa legislatura, e approvata il 30 maggio 2022, pochi mesi fa, con 241 voti favorevoli e soltanto 7 contrari. Quindi quasi all’unanimità. Ora rischia di decadere per sempre. In Campania c’è una delle case a custodia attenuata con madri e bambini (Icam), in provincia di Avellino, dove attualmente ci sono dieci detenute madri con undici figli e nel corso della scorsa legislatura la commissione bicamerale infanzia si recò in visita presso la struttura proprio per rendersi conto delle condizioni delle mamme e dei bambini, questi ultimi innocenti, reclusi. Il gruppo Fratelli d’Italia che pure aveva votato quella proposta di legge, anche se non compatti, ha presentato degli emendamenti in commissione Giustizia che stravolgono completamente il senso di quella legge. Gli emendamenti in sostanza tolgono al giudice la discrezionalità sui singoli casi e introducono degli automatismi che privano le madri detenute che sono recidive della possibilità di accedere con i loro bambini alle case famiglie. È evidentemente un grave passo indietro come ha dichiarato l’onorevole Zan in commissione. Noi ci rivolgiamo alla politica e in particolare a quei parlamentari che nella scorsa legislatura approvarono quella legge, con grande senso di responsabilità e che oggi siedono ancora in Parlamento, affinché sia garantito il supremo interesse del minore, affinché senza essere snaturata la legge possa essere approvata in fretta così come è. È necessaria una legge che tuteli quei bambini innocenti che oggi sono rinchiusi in un carcere con le loro mamme. La psicologia infatti ci avverte che esiste la “sindrome da prigionia”: per cui i bambini detenuti possono sviluppare difficoltà nel gestire le emozioni, e senso di inadeguatezza, di sfiducia, di inferiorità, che si accompagnano a un tardivo progresso linguistico e motorio, causato dalla ripetitività dei gesti, dalla ristrettezza degli spazi di gioco, dalla mancanza di stimoli. Vogliamo tutelare quei bambini che sono costretti a vivere i primi anni della loro vita, quelli decisivi per il loro sviluppo psicofisico in un carcere. La proposta di legge, piuttosto avanzata rispetto agli altri Paesi europei, offre uno strumento giuridico per dimostrare che il Parlamento vuole lottare per tutti gli innocenti, iniziando proprio dai bambini. i bambini hanno il diritto di essere allevati dalla propria madre, in un ambiente che può offrire una positiva preparazione alla vita adulta. Vi chiediamo di non rendere vano un lavoro lungo e difficile, durato oltre due anni. E di dare una speranza a questi bambini, così duramente segnati Evitiamo il paradosso che mentre lo Stato cerca di rieducare la mamma condanna un bambino innocente a vivere in un carcere. Si tratta di una questione di civiltà. Caso Cospito, il Comitato Nazionale per la Bioetica travisa la Corte europea dei diritti umani di Sofia Ciuffoletti Il Manifesto, 15 marzo 2023 Il Comitato Nazionale per la Bioetica, circa la risposta al quesito del governo sul caso Cospito, così sunteggia il parere di maggioranza: “Nel caso di imminente pericolo di vita, quando non si è in grado di accertare la volontà attuale del detenuto, il medico non è esonerato dal porre in essere tutti quegli interventi atti a salvargli la vita”. A sostegno di tale tesi è posto un dictum della recente sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani (Cedu), Yakovlyev c. Ucraina: “Né le autorità penitenziarie, né i medici potranno limitarsi a contemplare passivamente la morte del detenuto che digiuna”. Vale la pena ricontestualizzare il dictum della Corte nell’ambito della giurisprudenza in tema di alimentazione forzata in caso di sciopero del cibo (Gandhi stesso parla di ‘fasting’, rifiutando il termine ‘hunger strike’). Il prolungato rifiuto del cibo in carcere pone in diretto contrasto i due principi cardine del sistema convenzionale di tutela dei diritti: il diritto alla vita (art. 2) e il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (art. 3). La Corte, infatti, ha osservato che quando un detenuto protrae uno sciopero dell’alimentazione, ciò può inevitabilmente portare a un conflitto tra il diritto all’integrità fisica dell’individuo (art.3) e l’obbligo positivo di tutela dell’integrità e della vita, in capo allo stato contraente ai sensi dell’articolo 2. Proprio nella decisione Yakovlyev, la Corte ricostruisce queste due dimensioni e la citazione utilizzata nella decisione di maggioranza fa riferimento all’imputabilità alle autorità pubbliche del deterioramento delle condizioni di salute di un detenuto, direttamente causato dal suo rifiuto di accettare l’alimentazione forzata. La Corte afferma che tale deterioramento non può essere automaticamente ritenuto imputabile alle autorità. Tuttavia, la Corte, “condividendo i principi espressi dall’Associazione Medica Mondiale”, considera che l’amministrazione penitenziaria non possa essere totalmente esonerata dai propri obblighi positivi, “limitandosi a contemplare passivamente la morte del detenuto che digiuna”. La Corte, qui, non si riferisce a interventi di alimentazione forzata, ma cita in maniera espressa gli obblighi di informazione continua e, in casi specifici, il dovere di accertare le reali ragioni della protesta del detenuto e “se tali ragioni non sono puramente capricciose ma, al contrario, denunciano una grave cattiva gestione medica, le autorità competenti devono dimostrare la dovuta diligenza avviando immediatamente le trattative con lo scioperante al fine di trovare un accordo adeguato, fatte salve, ovviamente, le restrizioni che le legittime esigenze di detenzione possono imporre”. Nella sentenza Yakovlyev, la Corte EDU discute la pratica dell’alimentazione forzata, delle sue ragioni e delle modalità con cui è stata somministrata e conclude per la violazione dell’art. 3, considerando, fra l’altro, che “l’unica risposta allo sciopero della fame dei detenuti è stata l’alimentazione forzata. La Corte non può quindi escludere che, come sostenuto dal ricorrente, la sua alimentazione forzata fosse in realtà finalizzata a reprimere le proteste nel carcere di Zamkova”. Sembra dunque ribaltata la logica che viene posta a fondamento della posizione maggioritaria del Cnb, per cui le DAT sarebbero incongrue e dunque inapplicabili “ove siano subordinate all’ottenimento di beni o alla realizzazione di comportamenti altrui”. La Cedu ci ricorda come, al contrario, sia la stessa pratica dell’alimentazione forzata a essere convenzionalmente illegittima e a costituire una violazione dell’articolo 3 quando la reale finalità delle autorità non sia tanto “salvare la vita” alla persona detenuta, quanto reprimere una protesta attraverso una lesione grave dell’autodeterminazione come fondamento non solo della dignità umana, ma anche di un concetto ampio di salute. Intercettazioni e carcerazione preventiva: il piano di Nordio per riformare la giustizia di William Zanellato Il Giornale, 15 marzo 2023 Il Guardasigilli spiega i principi cardine della riforma: segretezza degli atti di indagine, riforma delle intercettazioni e stretta sulla carcerazione preventiva. Il governo di centrodestra, gran parte della fiducia dei suoi elettori, se la gioca sul campo della giustizia. Il premier Giorgia Meloni, a braccetto con il Guardasigilli Carlo Nordio, è pronto a mettere in agenda una “rivoluzione copernicana” per la giustizia italiana. Il ministro Nordio, in un lungo colloquio con Il Foglio, passa in rassegna tutti i punti di questa riforma in senso liberale e garantista. Il dossier sul tavolo del ministero della Giustizia è molto ambizioso: il primo obiettivo dell’esecutivo è portare entro la fine di maggio un solido pacchetto di riforme in consiglio dei ministri. Una riforma garantista - La bussola della “rivoluzione” Nordio rimane sempre la stessa: il garantismo. Un’arma per sconfiggere, o almeno attenuare politicamente, le sensibilità giustizialiste onnipresenti in Italia. “Garantismo - esordisce Nordio - significa due cose: enfatizzazione della presunzione di innocenza e certezza della pena”. Il problema è chi non segue questi due principi cardine del diritto: “Non è garantista chi vulnera la presunzione di innocenza, per esempio con un eccesso di carcerazione preventiva, con un eccesso di intercettazioni, con un eccesso di indagini non necessarie”. Da qui, i primi passi della riforma Nordio: modificare la carcerazione preventiva, scardinare il sistema di “pubblica gogna” condito dall’abuso di intercettazioni e mettere mano sull’eccesso di indagini non strettamente necessarie. La segretezza degli atti - L’ex pm veneto coglie subito il punto della questione e lo fa con un esempio: “L’informazione di garanzia inviata a un personaggio pubblico occupa la prima pagina dei giornali. La sentenza di assoluzione, finisce nelle ultime con un trafiletto”. Un sistema tanto vero quanto sbagliato. La ricetta del ministro Nordio parte da un presupposto: “Ho intenzione - dice il ministro - di proporre un progetto, che dice che gli atti non sono più segreti quando il destinatario ne viene a conoscenza, aggiungendo che gli atti debbano restare segreti fino alla disclosure finale”. Una misura che, se approvata, da un lato renderebbe le intercettazioni segrete fino a che non vi è almeno una richiesta di rinvio a giudizio e dall’altro, metterebbe la parola fine a quel processo di “gogna pubblica” a cui spesso l’indagato deve assistere. “La mia idea - sottolinea Nordio - è che la segretezza degli atti debba essere considerata anche nell’interesse dell’indagato”. In sostanza, evidenzia il Guardasigilli veneto, l’atto rimane segreto, non solo fino a quando l’imputato ne viene a conoscenza, ma “finché non viene fatta la richiesta di rinvio a giudizio o comunque non finisce l’indagine”. L'uso delle intercettazioni - Tutto ciò avrà sicuramente un forte impatto sull’uso, o meglio abuso, delle intercettazioni e delle loro pubblicazioni a mezzo stampa. “Gli atti di indagini rimarrebbero segreti e cambierebbe il fatto che all’interno di un’indagine non sarebbe più possibile inserire aspetti che non hanno niente a che vedere con l’inchiesta”. Da qui una norma necessaria che metta alcuni paletti sulle intercettazioni da usare e quelle da scartare, perché irrilevanti per l’indagine.”La mia idea - preannuncia il ministro -è quella che si possano trascrivere solo quelle in cui il reato è un atto”. Un modo, se non altro, per limitare la loro pubblicazione: “Qui in ballo vi è una questione di razionalità, di spesa: trovo irragionevole che spendiamo 200 milioni di euro all’anno per le intercettazioni quando poi ci mancano le cose essenziali”. Ma la questione, oltre ad essere economica, è di principio. Nordio, senza grandi giri di parole, la mette in questi termini:”Quando due persone parlano di una terza l’intercettazione non sarà consentita”. L'abuso d'ufficio - Archiviato il nodo intercettazioni, il ministro Nordio torna sul tema del reato dell’abuso di ufficio. La cosiddetta “paura della firma”, questione spesso sollevata dal Guardasigilli, deve essere estirpata dalla macchina burocratica del nostro Paese. Carlo Nordio ne è convinto: “Se abolissimo il reato dell’abuso d’ufficio, il 99 percento dei sindaci ci farebbe un monumento”. I sindaci, e qui torniamo sempre al sistema di “gogna pubblica”, non temono il reato in sé ma “temono il processo mediatico”. Riformare questo reato, oltre ad essere legittimo, è evidentemente necessario. La carcerazione preventiva - Come necessario è mettere mano all’abuso della carcerazione preventiva. Il treno della riforma targata Nordio viaggia spedito verso una “svolta vera” su una questione che ammette essere “cruciale”. “Le richieste di custodia cautelare - riassume perfettamente il titolare di Via Arenula - salvo i casi di fragranza, dovranno essere rivolte non più al gip ma a un organo collegiale, quello che oggi è il tribunale del Riesame, ciò il tribunale distrettuale”. Secondo il principio banale, ma non per questo scontato, che “sei occhi vedono meglio di due”. La scommessa del ministro Nordio contro l’Italia dello sputtanamento di Claudio Cerasa Il Foglio, 15 marzo 2023 “Le indagini? Segrete fino al dibattimento: anche le intercettazioni. La carcerazione preventiva? Cambiamo tutto. E su Bergamo…”. Come si passa dalle parole ai fatti sulla giustizia? Un colloquio con il Guardasigilli. Il punto in fondo è semplice. Come si passa dalle parole ai fatti? Come può una sana battaglia garantista diventare qualcosa di concreto? E cosa vuol dire provare a sfidare il pensiero unico giustizialista con un atto politico di governo? Abbiamo passato un’ora con il ministro della Giustizia Carlo Nordio nel suo ufficio, a Roma, al primo piano di Via Arenula, per provare a trovare qualche risposta alle nostre domande. Abbiamo sfidato il ministro a passare dalle parole ai fatti su molti temi, dalla carcerazione preventiva alle intercettazioni, dalla riservatezza delle indagini all’abuso d’ufficio, e il ministro, con schiettezza, ha accettato di dialogare con noi a tutto campo. La nostra conversazione con Nordio parte da una dichiarazione di intenti, utile a definire la cornice entro la quale, nel giro di poche settimane, il governo si andrà a muovere, con l’obiettivo di portare entro la fine di maggio un solido pacchetto di riforme in Consiglio dei ministri, e la dichiarazione di intenti è questa: quando si parla di pensiero unico giustizialista, contro cui combattere politicamente, cosa si intende? “Partiamo - dice Nordio - dal presupposto che il garantismo consiste nel non lasciare impunito il colpevole e non condannare l’innocente. Garantismo significa due cose: enfatizzazione della presunzione di innocenza e certezza della pena. Quindi chi non è garantista? Non è garantista chi vulnera la presunzione di innocenza, per esempio con un eccesso di carcerazione preventiva, con un eccesso di intercettazioni, con un eccesso di indagini non necessarie, perché anche quelle sono pene afflittive, e con un uso tendenzioso del processo mediatico. Non è garantista, poi, chi non è sensibile al fatto che il reo, una volta condannato, deve espiare la pena. E vale la pena ricordarlo sempre: la funzione della pena è la rieducazione del reo e l’affermazione dello stato, perché nel momento in cui lo stato minaccia una sanzione nei confronti di chi ha commesso un reato, se questa non viene applicata una volta, lo stato perde credibilità. E questo è criminogeno, perché allora i cittadini tendono a farsi giustizia da sé”. Il ministro Nordio, poi, fa un passo in avanti nel suo ragionamento e ci aiuta a inquadrare un tema che su questo giornale un grande giurista come Giovanni Fiandaca ha messo a fuoco con una formula efficace: la giustizia riparatoria. Una giustizia che prevede la presenza, in simultanea, di un circo mediatico-giudiziario che fa tutto il possibile affinché vi sia una sentenza mediatica che prescinda dalla sentenza reale. Chiediamo al ministro come si affronta questo fenomeno e il ministro ci offre qualche spunto interessante. “In teoria - dice Nordio - la soluzione ideale sarebbe quella di dare alla fine delle indagini lo stesso risalto che si è dato all’inizio. Ma sappiamo che questo è meramente teorico. L’informazione di garanzia inviata a un personaggio importante occupa la prima pagina dei giornali. La sentenza di assoluzione, salvo casi rari, finisce nelle ultime con un trafiletto. Questo è un tema che riguarda la deontologia e la sensibilità dei giornalisti, ma non è ovviamente qualcosa che si può normare. Viceversa, ciò su cui si può intervenire è la rapidità del processo: più il processo è lungo e più si dilatano i tempi tra l’impatto mediatico dell’inizio dell’indagine e la fine. E si può intervenire anche su un altro fronte: la diffusione di notizie riservate durante l’indagine”. Nordio fa una pausa e offre un’informazione importante. “Ho intenzione di proporre un progetto per integrare il codice di procedura penale, che dice che gli atti non sono più segreti quando il destinatario ne viene a conoscenza, aggiungendo che gli atti debbano restare segreti quantomeno fino alla disclosure finale o all’inizio del dibattimento pubblico”. Significa che, in questo nuovo contesto, l’indagato saprebbe di essere indagato lui e solo lui, e che le intercettazioni non potrebbero essere diffuse fino a che non vi è, almeno, una richiesta di rinvio a giudizio? “È così. Oggi la segretezza degli atti è considerata a tutela dell’integrità dei dati. La mia idea è che la segretezza degli atti debba essere considerata anche nell’interesse dell’onorabilità dell’indagato. Quindi aumentando, dilatando il bene giuridico protetto, che non è più quello soltanto della garanzia della segretezza dell’indagine, ma anche dell’onorabilità dell’imputato. In sostanza l’atto rimane segreto, non solo fino a quando l’imputato ne viene a conoscenza, ma finché non viene fatta la richiesta di rinvio a giudizio o comunque non finisce l’indagine”. Tutto questo, chiediamo a Nordio, che tipo di impatto può avere sul futuro delle intercettazioni? “Cambierebbe qualcosa solo a livello di pubblicazione: gli atti di indagine rimarrebbero segreti, come detto, fino alla richiesta di un rinvio a giudizio. E cambierebbe anche il fatto che all’interno di un’indagine non sarebbe più possibile inserire aspetti che non hanno niente a che vedere con l’inchiesta. Occorrerà trovare una norma, e ci lavoreremo, in cui si disponga che si mettono dei paletti sui dialoghi o le situazioni realmente significativi ed essenziali per l’indagine. Per esempio, la mia idea è quella che si possano trascrivere solo quelle in cui il reato è in atto. Reato in atto significa anche che in quel momento c’è la prova non solo del reato che viene commesso al telefono, ma anche, per esempio, di una programmazione idonea in modo non equivoco a commettere un reato. Questa norma però deve essere formulata in modo così tassativo da non lasciare più al pubblico ministero la discrezionalità. Fermo restando che alla fine queste intercettazioni, proprio perché hanno un’efficacia processuale, finiranno comunque per essere note”. Nordio fa una pausa e arriva, sul tema, all’ultimo punto: limitare alcune intercettazioni. Il ministro ricorda ancora, “per la millesima e una volta”, che in ballo non vi sono questioni legate al terrorismo o alla mafia, “potremmo anche dire che non si toccano alcuni reati satellite estremamente gravi da individuare”. In ballo, dice Nordio, c’è qualcosa che riguarda la cultura giuridica del paese, e quel qualcosa Nordio lo spiega con queste parole: “Qui, in ballo, vi è anche una questione di razionalità, di spesa: ogni ufficio giudiziario non ha solo un budget, ma ha una sua dotazione fissa di personale, di materiale informatico, insomma un tot di cancellieri, di segretari, di macchine da scrivere, di magistrati. L’unica cosa che è assolutamente opinabile e che sfugge a qualsiasi controllo è la spesa per le intercettazioni. Per cui noi ci troviamo nella irragionevole situazione che per comprare un computer devi fare un lungo percorso che non sempre ha un buon esito, e poi ti trovi che quello stesso magistrato, che non riesce ad avere un computer, con la firma invece autorizza una spesa di decine di migliaia di euro. Allora, proposta: esattamente per i reati in cui è possibile l’intercettazione, ogni ufficio giudiziario ha un budget, come ha un budget per segretari o cancellieri, e viene prefissato secondo la compatibilità finanziaria del ministero che alla fine poi è quello che paga. Anche perché trovo irragionevole che spendiamo 200 milioni di euro all’anno per le intercettazioni quando poi ci mancano delle cose essenziali. Quindi ogni procura sa che deve gestire il suo budget per le intercettazioni, come sa anche che deve gestire il suo tempo”. Dopo di che, dice Nordio, la questione, prima ancora che economica, è di principio: “Senza eccezioni, posso dire che la linea è questa: quando due persone parlano di una terza, l’intercettazione non sarà consentita. Non deve proprio essere trascritta. Per quel che riguarda le due persone che parlano, beh, il limite è quello dell’intimità individuale. Non esiste al mondo la possibilità che una conversazione intima possa avere una influenza nell’indagine. Naturalmente poi i giudici e i magistrati non sono dei notai, per cui ci sarà sempre una certa discrezionalità, ma quando tu cominci a mettere dei paletti stai facendo qualcosa di razionale: aiuti chi segue le indagini a concentrarsi più sulle prove che sugli applausi”. Superato lo scoglio intercettazioni, il ministro arriva a toccare un tema già anticipato nei giorni scorsi sul Foglio: in che modo si può cambiare la carcerazione preventiva, combattendo gli abusi che hanno trasformato il carcere preventivo in una forma di afflizione molto spesso del tutto gratuita. Nordio annuisce, ammette che “la questione è cruciale” e sostiene di voler intervenire “con una svolta vera”. “Le richieste di custodia cautelare, salvo i casi di flagranza, dovranno essere rivolte non più al gip ma a un organo collegiale che potrebbe essere, e secondo me dovrebbe essere, quello che oggi è il tribunale del Riesame, cioè il tribunale distrettuale. Motivi? Avere una garanzia maggiore di tutela degli indagati: sei occhi vedono meglio di due. Poi fare tutto il possibile per evitare che accada quello che succede oggi, considerando che circa la metà delle persone arrestate in via cautelare viene poi rimessa fuori dalle carceri dal tribunale della Libertà. È una misura di civiltà. Ed è una misura sulla quale agiremo con forza”. Chiediamo poi a Nordio se pensa sia possibile, a proposito di pene, eliminare l’appello per l’assoluzione in primo grado, e il ministro, senza paura, dice “assolutamente sì”. E lo spiega con un ragionamento interessante. In Italia, dice Nordio, vi è il principio che l’imputato è condannato se risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio e per questo “mi dovete spiegare come puoi condannare una persona quando un giudice precedente ha giudicato l’indagato non colpevole”. Naturalmente, aggiunge il ministro, “possiamo anche ammettere che la sentenza di proscioglimento possa essere sbagliata perché sono stati commessi degli errori, perché non sono state prese in considerazione delle prove o addirittura perché sono emerse nuove prove, ma in quel caso allora è meglio che il processo sia rifatto, come fanno gli anglosassoni nei pochi casi in cui lo ammettono”. Davvero, chiediamo ancora a Nordio, il governo ha intenzione di rivedere la compatibilità di alcuni reati, come la tossicodipendenza per esempio, con il carcere? “Applicare la reclusione in un sistema penale integrato e moderno significa che la reclusione è l’unità di misura della pena che viene inflitta dal magistrato. Questa può essere, ed è già, convertibile in pene alternative per i reati più piccoli: potrebbe essere un domani per i reati connessi allo spaccio di stupefacenti. Ho visto con soddisfazione che il sottosegretario Delmastro ha detto - ma ne avevamo già parlato prima - che i reati connessi alla tossicodipendenza non sono i reati di mafia e quindi potrebbero avere un trattamento eventualmente differenziato. Bene, giusto”. Differenziato? In che senso? Il ministro aggiunge una postilla al suo ragionamento. “Se ci sono comunità idonee dobbiamo approfittarne. Quanto agli spazi, per esempio, una caserma dismessa, per configurazione logistica, assomiglia molto a un carcere, con pochi soldi la puoi ristrutturare invece di costruire nuove carceri. Hanno grandi spazi per quello che è essenziale per il recupero di tossicodipendenti: il lavoro e lo sport. Faccio un esempio: il tossicodipendente recuperato è un non recidivo. L’abbattimento della recidiva è un tema decisivo anche per la sicurezza delle nostre città. Se ne occupa molto - e bene - anche l’ex ministra Paola Severino…”. A proposito di legge Severino. Nordio è stato uno dei promotori del referendum che ambiva a modificare una parte della legge Severino, quella che rende incompatibile un ruolo in un ufficio pubblico con una condanna di primo o di secondo grado. È possibile dire che il governo agirà in questa direzione? “Tutte le norme possono essere riviste, persino quelle costituzionali. Sulla legge Severino non vi è stata omogeneità di intenti, come si è visto nel referendum. Io stesso ho patrocinato una mozione, ed è perfetto che in democrazia si arrivi a un compromesso. Quello che io ho sempre trovato iniquo nella Severino è stata l’applicazione retroattiva, perché anche se non è una norma penale, ha comunque un carattere afflittivo. Io credo comunque che prima o poi questa vada, non dico abrogata, ma rimodulata”. Un’altra questione importante dell’agenda Nordio riguarda uno dei reati più odiati dai sindaci: l’abuso d’ufficio. L’abuso di abuso d’ufficio, per così dire, ha contribuito ad alimentare un sistema all’interno del quale l’immobilismo, sempre di più, è diventato l’unica forma di legalità consentita. Nordio dice che “se noi abolissimo il reato dell’abuso d’ufficio, il 99 per cento dei sindaci e degli amministratori comunali ci farebbe un monumento” e dice che la situazione è “diventata intollerabile”. “I sindaci - dice - non temono la condanna, che non interviene quasi mai, abbiamo il due per cento di condanne per questo reato, ma temono il processo mediatico: l’iscrizione nel registro degli indagati, l’invio dell’informazione di garanzia e la diffusione della notizia per la quale il sindaco viene delegittimato non solo dai nemici, ma anche dagli amici. Addirittura qualche volta è stata impedita la candidatura di un determinato personaggio perché pendeva un processo: vi rendete conto? Aggiungo che c’è una cosa di cui nessuno parla, ma che riguarda gli stessi magistrati. L’unico reato per il quale oggi molti magistrati vengono denunciati e quindi iscritti nel registro degli indagati è proprio il reato di abuso d’ufficio. O almeno per la grandissima parte, per abuso o rifiuto di atti d’ufficio. Lo dico da magistrato: c’è un progressivo aumento di denunce fatte da cittadini che, non essendo soddisfatti della sentenza, dicono ‘ma il magistrato non ha guardato gli atti’. Esiste una norma, secondo me errata, all’interno del Csm che impone di notificare al Consiglio superiore della magistratura i casi in cui un magistrato viene iscritto nel registro degli indagati. E questo è un vulnus per il magistrato, perché il fatto che sia iscritto nel registro degli indagati per un reato, che poi in genere è sempre questo, può compromettere il suo percorso. Mai come in questo caso, credo, sarebbe possibile costruire una grande battaglia di civiltà. Coerente, pragmatica e trasversale”. Il governo interverrà anche sulla prescrizione? Nordio dice, senza titubanza: “Sì”. “La prescrizione - è il suo ragionamento - sarà riportata alla sua funzione originaria di estinzione del reato, quindi nell’ambito del diritto sostanziale e non di quello processuale. Non voglio entrare nei dettagli, ma ci sarà. Personalmente, farei decorrere la prescrizione non da quando il reato è commesso ma dal momento in cui il reato viene scoperto. Dobbiamo ancora lavorare per arrivare a un testo condiviso, ma la direzione è quella e la prescrizione non sarà più come quella di oggi. E non sarà più come oggi anche un’altra norma su cui credo sia importante scommettere”. Quale? “La disciplina degli ignoti”. Ovvero? “Se a lei rubano un telefonino, in tutti i paesi del mondo lei va a fare una denuncia e se il colpevole non viene trovato gli atti restano alla polizia giudiziaria, cioè in caserma. In Italia, invece, si impone che la denuncia venga mandata alla procura della Repubblica che forma già un fascicolo che si chiama fascicolo contro ignoti e si prescrive che nel momento in cui si prende atto che non è stato trovato il colpevole si deve comunque archiviare il caso. E a farlo però deve essere il gip, a cui finisce il fascicolo. Tutto questo, potete immaginare, non ha valore dal punto di vista dell’impatto mediatico. Ha un valore sull’efficienza dei processi. E penso che la disciplina degli ignoti vada cambiata: mantenendola solo per i reati importanti”. Arrivati a questo punto della conversazione non possiamo non chiedere a Nordio conto di una contraddizione presente in questo governo. Nordio, notiamo, ha sempre considerato sbagliato aumentare le pene. Eppure questo governo in due occasioni, in pochi mesi, ha scelto di seguire questa logica. Prima con i rave, oggi con gli scafisti. “Io resto della mia idea. Aumentare le pene non credo abbia un effetto deterrente. Penso, per esempio, a casi come l’omicidio stradale. Avevo detto già in passato che aumentare le pene per avere un effetto deterrente sarebbe stato sbagliato. Molto semplicemente, perché quel modello non funziona. E resto dell’idea che la giustizia deve dare un segnale non di maggiore severità, ma di maggiore efficienza. Ma riconosco che in alcuni casi un aumento delle pene possa contenere un messaggio politico. Di fermezza. E il caso degli scafisti penso possa andare in quella direzione. Dopo di che, so dove vuole andare a parare direttore, è ovvio che il Nordio editorialista non potrà mai essere uguale al Nordio ministro. Ma fidatevi: non vi deluderemo”. Provochiamo ancora il ministro: c’è qualcosa che il Nordio ministro considera non negoziabile rispetto ai pensieri espressi in passato dal Nordio editorialista? “È chiaro che prima di esercitare questa carica ci sono stati dei colloqui sia ovviamente con l’onorevole Meloni sia con i responsabili del partito sui programmi. Ed è chiaro che se i programmi fossero stati diversi rispetto a ciò che il Nordio editorialista pensava non ci sarebbe mai stato un Nordio ministro. Naturalmente, come in tutte le cose, la politica necessita anche di compromessi. Detto questo, non mi viene in mente alcun tema sul quale il Nordio editorialista potrebbe dire al Nordio ministro di non sentirsi a casa in questo governo. Nessuno, zero”. Le riforme di questo governo, sulla giustizia, sono di destra o di sinistra? “Credo siano trasversali, di buon senso. Ricordo un libro scritto con Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano, in cui anche egli sosteneva la necessità di ‘prevedere in presenza di una richiesta di ordinanza di custodia cautelare che la decisione venga presa da un organo collegiale’. In senso generale, credo che sul tema del garantismo vi sia un grande equivoco. Io mi sono sempre stupito che la sinistra avesse assunto in questi ultimi trent’anni proprio queste posizioni giustizialiste. Perché, per tradizione la sinistra sta dalla parte del più debole. E il più debole quando c’è un processo è sempre l’imputato. Che sia ricco o che sia povero”. E allora, chiediamo ancora a Nordio, in che cosa si differenzia un giustizialista di destra da uno di sinistra? “Io credo che la cultura di sinistra giustizialista sia divenuta tale durante Tangentopoli, per una questione di pura opportunità politica. Con Tangentopoli è riuscita a eliminare l’avversario storico, la Democrazia cristiana, che non era mai riuscita a eliminare dal punto di vista politico, e anche negli anni successivi ha usato questa strategia per demonizzare i propri avversari”. E il giustizialismo di destra? Il principio della cultura giustizialista di destra, dice Nordio, è che “la pena abbia una efficacia deterrente, intimidatoria”. Io invece, dice ancora il ministro, “considero la pena come necessaria per l’affermazione dello stato. Una volta che lo stato la afferma, la deve applicare, perché sennò perde autorevolezza”. Alla fine della nostra lunga chiacchierata chiediamo al ministro cosa ne pensi di casi come quello di Bergamo in cui la giustizia, dal nostro punto di vista, sembra essere interessata più alla volontà di rispondere al dolore che alla volontà di cercare delle prove. Una giustizia che va in questa direzione, dice Nordio, rischia di “alterare quella che è la funzione della legge penale”. Il codice Vassalli, ricorda il ministro, è stato introdotto facendo leva su un’idea: “Il giudice non giudica i fenomeni, giudica i fatti e le persone. Deve soltanto accertare se c’è un reato, se è stato commesso e se è stato commesso con dolo, colpa, preterintenzione, o semplicemente per caso fortuito. Questo è il compito del giudice. Aggiungo che quando il giudice vuole trasformarsi in storico, storico della politica, storico della medicina, storico di chicchessia, fallisce, perché non ha né la preparazione né gli strumenti per dare dei giudizi di questo tipo. E quindi, ripeto, è una alterazione della funzione della legge penale”. Eppure, la domanda risulta evidente a questo punto: un magistrato che tende a occuparsi più di fenomeni che di reati come può essere disincentivato ad andare in quella direzione? Un modo, secondo Nordio, c’è: “È quello della valutazione di professionalità del magistrato, cosa che fino ad ora non è mai stata fatta, perché non si è mai potuto o voluto valutare la capacità del magistrato in funzione dei risultati che ottiene”. Noi, dice Nordio, non vogliamo arrivare a livelli come quelli presenti nell’ordinamento anglosassone, ma vogliamo promuovere un principio di cui il Csm dovrebbe fare tesoro: fare una statistica di quante indagini sono state portate a compimento, quanto tempo sono durate. Oggi questo non succede. E “penso che una giustizia seria sia quella che si dota di strumenti utili per non aver paura di giudicare non solo gli altri ma anche se stessa. La rivoluzione culturale, quando si parla di garantismo, in fondo passa anche da qui. Vedrete, non vi deluderemo”. Processo penale, il caso degli arresti senza querela di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 15 marzo 2023 La Camera approva il disegno di legge Nordio sulla procedibilità d'ufficio. Una correzione che crea un nuovo problema. In quaranta giorni, assai meno del tempo medio in cui il parlamento converte i decreti legge, la camera ha approvato ieri pomeriggio, in prima lettura, il disegno di legge sulla procedibilità di ufficio. Nessun voto contrario, solo l’astensione delle opposizioni. All’inizio dell’anno sembrava dovesse venir giù il paese per un presunto “baco” nella riforma Cartabia denunciato da alcune toghe eccellenti e qualche giornale. Il fatto che nella riforma fosse stata allargata la procedibilità a querela per alcuni reati, parte della strategia per ridurre i tempi dei processi, fu presentato come un liberi tutti in favore di pericolosi criminali. Poi, dopo aver bruciato sul rogo mediatico la riforma Cartabia, il disegno di legge del ministro Nordio è intervenuto su problemi precedenti, ultra trentennali. Infatti il provvedimento approvato ieri introduce una correzione generale al codice penale: quando viene contestata l’aggravante del metodo mafioso o di terrorismo, qualsiasi reato anche procedibile a querela diventa procedibile di ufficio, cioè il magistrato non deve aspettare la denuncia della vittima. Fin qui tutti d’accordo. I problemi nascono agli articoli successivi di questa legge. Perché per tentare di risolvere un altro problema, il fatto cioè che nei reati procedibili a querela se la vittima non è presente e non denuncia subito non è possibile procedere all’arresto preventivo del presunto colpevole, gli uffici legislativi del ministero sono entrati in un ginepraio. La soluzione più semplice sarebbe stata quella di stabilire la procedibilità d’ufficio per tutti i reati per i quali è previsto l’arresto in flagranza di reato. Ma sono tantissimi, dal furto al sequestro semplice, e questo avrebbe vanificato l’effetto della riforma che, riducendo l’area di intervento dello stato ai casi in cui c’è un interesse pubblico diretto da tutelare, punta a ridurre il peso del penale e i tempi dei processi. Riduzione alla quale sono legati i fondi del Pnrr. Ecco dunque la soluzione immaginata da Nordio, criticata da tutti i giuristi ascoltati in commissione e ieri in aula dalle opposizioni. Le forze dell’ordine dovranno procedere all’arresto obbligatorio in flagranza, anche in assenza di querela, ma entro 48 ore devono rintracciare la vittima e questa deve sporgere denuncia. Altrimenti il fermato viene rimesso in libertà. Il rischio, ma si potrebbe dire la certezza, è che ci saranno una serie di arresti per vicende destinate a cadere nel giro di 48 ore, detenzioni illegittime senza neanche l’apertura di un fascicolo. Detenzioni persino prolungate, visto che nella gran parte dei casi la convalida dell’arresto avviene prima delle 48 ore, mentre adesso si aspetterà che scada il termine per la eventuale querela. In definitiva un mezzo pasticcio. Approvato dalla camera con 156 voti a favore e 107 astenuti, passa al senato. Nessun rimedio invece per il disastro prodotto dalla stessa maggioranza nella legge di bilancio. Gli emendamenti per ripristinare le sanzioni penali a chi truffa sul reddito di cittadinanza, cancellate per sbaglio, sono stati respinti. “Ce ne occuperemo noi, ma altrove”, la promessa del governo. Modena. In piazza per chiedere verità sulle morti in carcere di Monica Cillerai lindipendente.online, 15 marzo 2023 Centinaia di persone hanno manifestato domenica per ricordare le nove morti avvenute nel carcere Sant’Anna di Modena, l’8 marzo 2020. Quella che fu, per la piazza, una “strage di Stato”, e che in effetti - proprio come molte stragi della storia repubblicana - ha visto l’indagine giudiziaria che avrebbe dovuto fare luce sui fatti prematuramente archiviata. Un corteo che è stato anche contro le condizioni carcerarie e in favore della lotta contro il 41-bis portata avanti da Alfredo Cospito, detenuto anarchico al carcere duro in sciopero della fame da più di 4 mesi. Tanti gli interventi, gli slogan, le canzoni, la musica; tanta la rabbia di chi chiede giustizia per morti che rischiano di venire dimenticate. Nonostante l’ingente schieramento delle forze dell’ordine, più di 400 persone hanno attraversato le strade della città fermandosi a fare un lungo saluto ai detenuti del carcere modenese, con interventi e musica. Fuori dal carcere è stata anche installata una cella delle dimensioni previste per i sottoposti al regime del 41-bis, dove poter entrare per capire sulla propria pelle cosa significhi vivere il carcere duro. Pochissimi metri quadri per camminare, assenza quasi totale di luce. “Questa è tortura di Stato”, dicono i manifestanti. “Siamo scesi in piazza per pretendere verità e giustizia sulle morti in carcere, per denunciare le condizioni delle carceri, per l’abolizione dell’ergastolo e del 41-bis e per fermare la repressione nei confronti del dissenso e delle lotte sociali”. Molte le istanze del corteo dove erano presenti anche associazioni antifasciste modenesi, collettivi anarchici, sindacati di base (SI Cobas). I morti nelle carceri del 2020 - Notte tra il 7 e l’8 marzo 2020, nel pieno della prima ondata pandemica. Giuseppe Conte firma il decreto che chiude tutto, in Lombardia così come in 14 province del centro-nord, compresa Modena. Obbligo di evitare ogni spostamento, invito a non uscire di casa e al distanziamento sociale: inizia il lockdown. Dentro le celle, così come gli italiani a casa, i detenuti assistono al flusso televisivo che invita perentoriamente a mantenere le distanze e indossare le mascherine. Il terrore del contagio è alle stelle. Fuori la direttiva è stare a metri di distanza fisica. Nelle carceri italiane, dove il sovraffollamento è la normalità da anni, le misure preventive alla diffusione del virus non esistono. Anzi, aumenta la repressione contro i detenuti. Bloccano anche i colloqui, una dei pochi spazi di socialità possibili, proprio l’8 marzo 2020. Nelle carceri si diffonde il terrore del contagio e la paura per i cari che si trovano fuori, amplificata dall’impossibilità di vederli. Negli istituti penitenziari di tutta Italia scoppiano le proteste più forti degli ultimi decenni. Tra il 7 e il 10 marzo, in moltissime carceri italiane si alzano voci di dissenso che finiscono in rivolta. Tre detenuti muoiono a Rieti, e uno a Bologna. Poi, il caso più grave: Modena. A Modena i detenuti erano 546, i posti ufficiali 369. Il 7 marzo il primo contagio. Esplode la rabbia. Il carcere è messo sottosopra, una grande parte viene resa inagibile. E lì, i primi morti. Gli altri decessi, i giorni successivi. Alla fine dei quattro giorni di sommossa il conto totale è di 13 cadaveri. Per la giustizia è stata tutta colpa del metadone. Per associazioni, detenuti e famigliari, la dinamica sarebbe ancora da indagare. Si chiede risposta sulle omissioni di soccorso, sulle violenze, sulle mancate cautele. Su vari dei corpi dei morti infatti ci sono escoriazioni, ecchimosi, ematomi. Mancano denti. Costole incrinate, fratture. Due giorni dopo muore anche Salvatore Piscitelli, trasferito nel carcere di Ascoli Piceno in seguito alle rivolte. Tutti, secondo la procura, morti per overdose, per aver ingerito troppi farmaci rubati dall’infermeria. A giugno del 2021 viene diffuso in video dei pestaggi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Poi si parla delle spedizioni punitive testimoniate da molti dei detenuti trasferiti. Botte, vessazioni, minacce. Abusi di vario tipo usati come metodo repressivo diffuso. Una vendetta dello stato, e un invito a tacere su ciò che era successo. Si riapre il dibattito, ma solo per poco. Il 16 giugno 2021 l’indagine sulle morti di Modena viene archiviata. In due pagine e mezzo il giudice sancisce l’assenza di responsabilità del personale penitenziario e medico della struttura. Resta l’indagine contro i detenuti, indagati per devastazione e saccheggio. Per i morti, cala il silenzio. I loro parenti domenica erano a Modena per chiedere verità e giustizia, la verità ufficiale non può accontentarli. Non ci crede Najet Ben Salah che suo marito sia morto di overdose nel carcere di Modena. È sicura che lo abbiano ucciso durante la rivolta. “Qualunque cosa sia successa a mio figlio, la considero responsabilità dello stato italiano”. dice la madre di un altro dei ragazzi morti al Sant’Anna. In Tunisia la procura ha avviato un’indagine per sospetto omicidio, per la morte di alcuni suoi concittadini durante le rivolte. Ma in Italia, per i morti di Modena, l’indagine è chiusa. Nel 2022 sono 84 le persone che si sono tolte la vita nelle carceri italiane, il numero più alto da quando vengono registrati questi dati, nel 2000. Un suicidio ogni 5 giorni. Il sovraffollamento è alle stelle, la mancanza di speranza che porta alla disperazione altissima. Sempre più numerosi i processi aperti per tortura e lesioni a carico di agenti della polizia penitenziaria, accusati di sevizie contro i detenuti a Ferrara, San Gimignano, Torino, Palermo, Milano, Melfi, Santa Maria Capua Vetere, Pavia, Monza, Ivrea. Un sistema di violenze diffuso, di fronte al quale la retorica delle poche mele marce non regge più. Il 41 bis e la condanna a morte per Alfredo Cospito - “Fuori Alfredo dal 41 bis! Fuori tutti dal 41 bis!”. Presente a Modena questa domenica anche la questione di Alfredo Cospito e la lotta che porta avanti il detenuto contro il 41-bis e l’ergastolo ostativo. Cospito è in sciopero della fame contro la sua detenzione al carcere duro dal 20 ottobre scorso. Il regime duro del 41-bis prevede regole durissime, finite nel mirino anche di istituzioni internazionali. La Corte Europea per i Diritti Umani (Cedu) ha stabilito che è in contrasto con tre articoli della Convenzione. Nel 2003 Amnesty International ha stabilito che il 41-bis equivale a un trattamento del prigioniero “crudele, inumano e degradante”. Celle minuscole, censura della posta, impossibilità di leggere e scrivere ciò che si desidera; ore di socialità ridotte al minimo, colloqui coi famigliari praticamente inesistenti. Le condizioni fisiche di Cospito sono sempre più critiche, e il rifiuto prima della classe dirigente e poi della Cassazione di declassarlo dal 41-bis ne ha di fatto sancito la condanna a morte. Cospito continua nel suo sciopero della fame, e continuano le iniziative in tutta Italia in sua solidarietà. “Quando sentimmo dei morti di Modena, nessuno credette alla storia delle overdosi. Perché intorno a noi vedevamo cos’era la repressione”, dice Nicoletta Dosio alla manifestazione di domenica. Lei era in carcere nei mesi successivi per la lotta No Tav. Alfredo Cospito è condannato per strage, e rischia l’ergastolo in 41-bis per degli ordigni che esplosero di notte non uccidendo né ferendo nessuno. Mentre delle 13 morti nelle carceri italiane del 2020, di quelle morti di stato, così come delle continue morti nel Mediterraneo, non se ne parla già più. Vigevano (Pv). Primo morto di Covid in carcere, inchiesta archiviata di Antonio Anastasi quotidianodelsud.it, 15 marzo 2023 Niente responsabilità del carcere per il decesso. Il Gip del Tribunale di Pavia Maria Cristina Lapi ha archiviato il procedimento a carico della direttrice del carcere di Voghera, Stefania Mussio, nei cui confronti era stato aperto un procedimento per omissioni d’atti d’ufficio in seguito alla denuncia dei familiari di Antonio Ribecco, presunto referente in Umbria della cosca Trapasso di San Leonardo di Cutro, morto il 9 aprile 2020 all’ospedale San Carlo di Milano dopo aver contratto il Coronavirus nel penitenziario. Ribecco fu la prima vittima del Covid in carcere. Il procedimento è stato archiviato nonostante l’opposizione dei legali dei familiari della vittima, gli avvocati Giuseppe Alfì e Garetano Figoli, alla richiesta di archiviazione che era stata avanzata dalla pm Valentina Terrile. Gli avvocati evidenziavano, tra l’altro, come dalla relazione del consulente del pm si evinca che “effettivamente può dirsi che vi sia stata negligenza da parte dei sanitari del carcere che fino al 14 marzo non hanno pensato che i sintomi presentati da Antonio Ribecco fossero dovuti al Covid 17”. E nonostante la direttrice del carcere avesse imposto, come emerge dalle testimonianze di alcuni agenti sentiti nell’ambito di indagini difensive, che all’interno del penitenziario “ci si doveva comportare come se fuori non stesse accadendo nulla”. Lo stesso gip nel suo provvedimento fa riferimento a indagini difensive da cui viene fuori che, secondo le testimonianze di alcuni agenti, Mussio aveva imposto al personale di non indossare mascherine per non creare allarmismi tra i detenuti. Con conseguenti assembramenti negli spazi comuni dove si gioca a carte e si fuma. Ribecco era detenuto dal 12 dicembre 2019 dopo essere stato arrestato nell’ambito dell’operazione Infectio, scaturita da un’inchiesta condotta dalle Dda di Catanzaro e di Perugia. Contrasse il Covid-19 nel carcere dove, essendo risultato infetto e ricoverato anche il cappellano, gli ospiti avevano insistito nel chiedere guanti, mascherine e tamponi. Temendo il peggio, Ribecco (ristretto in una cella con altre tre persone) aveva scritto ai familiari, con i quali aveva intrattenuto l’ultimo colloquio il 15 febbraio, una lettera in cui spiegava come veniva gestita l’emergenza. Sebbene avesse lamentato dolori e malessere sin dai primi giorni di marzo, fu sottoposto a visita medica soltanto il 13 dello stesso mese ma il dottore accertò lo stato febbrile, trattato con una Tachiprina, e non individuò i sintomi del Covid, al quale risultò positivo il giorno dopo. Il gip precisa che si era nella “primissima” fase del Covid e “non esistevano terapie ad hoc” né “linee guida pubblicate ai sensi di legge” e “perfino gli esperti erano in difficoltà e spesso in contrasto tra loro nell’individuazione di un rimedio efficace contro il virus”. Ribecco, spiega sempre il gip, si ammalò pochi giorni dopo il cosiddetto “paziente 1” di Codogno, che segnò l’inizio della pandemia. “Il caos e l’incertezza che per settimane hanno regnato anche nel mondo della scienza e degli esperti - scrive il gip - consentono di escludere qualsiasi profilo di colpa in capo alla struttura carceraria per la gestione della malattia di Ribecco”. Nonostante la “negligenza” dei medici di cui si parla nella relazione del consulente del pm, lo stesso consulente stabilisce che non è possibile affermare che l’individuazione precoce della malattia avrebbe scongiurato l’esito infausto. Il consulente della difesa, invece, asserisce che la diagnosi corretta avrebbe portato ad una terapia adeguata. La conclusione del gip è che “non si può parlare di terapia adeguata perché nel periodo in cui sono avvenuti i fatti non era stata individuata nessuna terapia ad hoc”. Non ci stanno i legali dei familiari della vittima, che hanno chiesto alla Procura di Bergamo di poter acquisire gli atti del procedimento che vede indagati, tra gli altri, l’ex premier Conte e l’ex ministro della Salute Speranza per la gestione della pandemia. Una richiesta finalizzata ad “acquisire elementi - spiega l’avvocato Alfì al Quotidiano - per un’eventuale richiesta di riapertura delle indagini su eventuali responsabilità, oltre che della direzione del carcere, anche della gestione governativa e del personale sanitario per la mancata adozione di cautele che potrebbero aver determinato l’evento morte”. Milano. Consigliere di +Europa visitò Cospito nel carcere di Opera: “Ecco cosa ha detto” di Francesca Musacchio Il Tempo, 15 marzo 2023 Ma così viola il 41 bis. Le visite in carcere da parte dei politici ad Alfredo Cospito ancora al centro della polemica: nel mirino finisce il consigliere della regione Lombardia, Michele Usuelli, che nel mese di febbraio è andato a fare visita all’anarchico detenuto al 41 bis nel carcere di Opera. Dopo l’incontro, il consigliere avrebbe rilasciato alcune dichiarazioni alla stampa riportando il pensiero di Cospito e che non sono sfuggite al deputato Pino Bicchielli, vicepresidente del gruppo Noi moderati. La vicenda è al centro di una interrogazione scritta al ministro della Giustizia, presentata dallo stesso Bicchielli, che si interroga sulla possibilità che, anche involontariamente, tali modalità possano esporre al rischio di vanificare le finalità del 41 bis rispetto alle comunicazioni con l’esterno. Il consigliere, riporta Bicchielli nell’interrogazione, “dopo aver incontrato Cospito ha affermato pubblicamente che egli “non sta facendo una battaglia pro domo sua, ma una battaglia di sistema. L’obiettivo finale è quello di guadagnare una maggiore civiltà a questo Paese”. E riguardo alle proteste e alle manifestazioni violente che da mesi gli anarchici stanno portando avanti per appoggiare la protesta di Cospito, Usuelli avrebbe riferito agli organi di informazione, sempre stando all’interrogazione presentata da Bicchielli, che “Il signor Cospito non dice di approvare questi gesti violenti, ma in lui prevale l’anarchico rispetto a quello che sta conducendo un’azione non violenta. Quindi lui dice da anarchico “io non sono nessuno per dire agli altri cosa dovrebbero fare”. Ma nella risposta del ministro Carlo Nordio emerge qualcosa in più su quella visita. Il consigliere lombardo si sarebbe intrattenuto a colloquio con Cospito per circa venti minuti. Durante l’incontro, però, Usuelli sarebbe stato richiamato più volte dal direttore dell’istituto perché gli argomenti trattati esulavano da quelli permessi dall’articolo 67 dell’Ordinamento penitenziario. Ma non solo. A fine visita, Usuelli avrebbe chiesto di poter regalare al detenuto un cappello tradizionale afghano, usato anche dai mujaheddin. La richiesta è stata respinta sempre a causa delle limitazioni previste dal regime detentivo speciale al quale Cospito è sottoposto. Le risultanze sulla visita di Usuelli, fa sapere il Ministro, sono state inviate al Dap come di consueto. Quindi il meccanismo di verifica delle visite da parte delle autorità funziona. E qui Nordio si ferma, specificando che sulle “eventuali e successive esternazioni alla stampa del contenuto dei colloqui intercorsi, esulano dalla sfera di intervento del Ministero”. Intanto, l’anarchico prosegue lo sciopero della fame per protestare contro il 41 bis e continua anche la sua battaglia giudiziaria. Ieri ha partecipato in video collegamento dal carcere di Milano all’udienza del Tribunale del riesame di Perugia per la richiesta di revoca delle misure cautelari a carico dello stesso Cospito e di altri cinque anarchici, indagati a vario titolo per istigazione a delinquere, anche aggravata dalle finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico, in relazione alla pubblicazione di alcuni articoli sulla rivista “Vetriolo”. Durante l’udienza l’anarchico ha letto un lungo memoriale nel quale ha ribadito di non volere diventare un martire ma che la sua è una battaglia “contro la repressione della libertà”. Nel frattempo, l’avvocato Flavio Rossi Albertini, legale di Cospito, ha fatto sapere che “è imminente il deposito di un ricorso alla Corte europea per i diritti dell’uomo contro il 41 bis”. Ivrea (To). Il presidente Avp Michelizza: “Facciamo open day tra aziende, Comuni e detenuti” di Andrea Scutellà La Sentinella del Canavese, 15 marzo 2023 L’ex Garante propone anche di estendere il servizio civile ai ristretti e di ripristinare lo sportello sulla giustizia riparativa in Comune. Open day nelle carceri, apertura del servizio civile ai detenuti e ripristino dello sportello sulla giustizia riparativa. Sono proposte concrete quelle di Armando Michelizza, presidente dell’Avp Tino Beiletti, l’associazione dei volontari che agisce nel penitenziario di Ivrea, e primo garante comunale dei detenuti a Ivrea dal 2012 al 2018. Crede che a livello comunale si possa fare qualcosa per il carcere? “Sicuramente si potrebbe riaprire lo sportello sulla giustizia riparativa, che è stato avviato nel 2015-2016 e poi non ha fatto molti passi in avanti. Attualmente mi risulta mi risulta che non siano attive molte convenzioni per la messa alla prova. Si tratta di dare un’alternativa alla detenzione mediante attività di restituzione alla comunità e credo sia importante”. Che cos’è la giustizia riparativa? “Significa vivere la pena in termini più rieducativi. Il grosso dramma, in carcere, è l’ozio. È un messaggio distruttivo, sottintende: non sappiamo cosa farcene di voi. Invece io ti propongo altre strade, altre vie. Il grosso male di sistema penale è la scarsa proposta. Inoltre, non dovrebbe riguardare l’unico obiettivo di evitare la carcerazione, ma anche persone che sono dentro e per le quali si cerca di riavviare percorso di mediazione che può riguardare anche l’incontro con le vittime. Ma non solo. C’è un problema di riparazione verso i famigliari, del condannato, anch’esse vittime del reato. Bisognerebbe fare una grande azione di formazione che dovrebbe coinvolgere gli agenti di polizia penitenziaria, le figure che hanno più contatto con la persona detenuta”. Cosa fa l’Avp in carcere? “Siamo una trentina di volontari, con i detenuti facciamo la rivista L’alba, poi l’attività principale è il colloquio con le persone. Da lì comprendiamo i bisogni, diamo anche un sostegno economico limitatissimo, 10 euro al mese, per chi non ha nulla, oppure distribuiamo indumenti, materiale per l’igiene personale. Abbiamo dovuto sospendere purtroppo in questo momento un’attività molto interessante di protesi odontoiatriche, perché si incontrano sorrisi senza denti, troppi, in carcere. Poi facciamo corsi di hobbistica, lavori di piccola falegnameria e attività di tutoraggio per chi frequenta la scuola. Abbiamo in comodato da Caritas un alloggio per persone che vanno in permesso e non hanno un’abitazione. Siamo anche in contatto con l’ufficio anagrafe per documenti e residenze”. Come si fa a migliorare il rapporto tra carcere e città? “Abbiamo suggerito alla direzione del carcere di superare una sorta di scarsa immagine di se stesso che mi pare il carcere abbia. Facciamo degli open day: invitiamo i sindaci, le associazioni datoriali e il volontariato a un incontro. Tra i detenuti ci sono professionalità precedentemente acquisite che non vengono censite. Poi un mio sogno personale: ci sono in carcere persone in fascia di età prevista dal servizio civile volontario, che però non possono partecipare. Perché non pensare per chi è nella fase finale della pena un servizio volontario a favore della comunità? Un periodo che serva a costruire buone relazioni per quando esci” Roma. Valentina Calderone è la nuova Garante comunale dei detenuti Corriere della Sera, 15 marzo 2023 Eletta con 25 preferenze su 43 dall'assemblea capitolina. Calderone, di area Pd, è stata assistente di Luigi Manconi e succede a Gabriella Stramaccioni. Valentina Calderone è la nuova Garante dei detenuti di Roma Capitale. È stata eletta dall'assemblea capitolina con 25 voti alla quarta votazione, nonostante già la terza fosse sufficiente raggiungere la maggioranza assoluta dei voti dei consiglieri (pari a 25) e non più dei due terzi. Succede a Gabriella Stramaccioni che era in proroga da maggio scorso. Dal 2003, anno di istituzione di questo ruolo, la nomina era effettuata in via diretta dal Sindaco. Ora, invece, per la prima volta, l'elezione è stata votata dal consiglio comunale, così come prevede il nuovo Regolamento approvato a settembre. Calderone, di area Pd, ex assistente di Luigi Manconi, è laureata in Economia e da anni lavora per l'associazione “A Buon Diritto” di cui è direttrice. Per l'associazione si occupa principalmente di questioni relative agli abusi commessi in situazioni di privazione della libertà, di carcere e di immigrazione. Assieme a Manconi è autrice di “Quando hanno aperto la cella” (Il Saggiatore 2011), che partendo da Giuseppe Pinelli analizza le vicende processuali di chi è morto quando si trovava sotto tutela dello Stato. “Quello del Garante - ha commentato la nomina la presidente dell'Assemblea capitolina, Svetlana Celli - è un ruolo delicato e fondamentale a supporto della nostra amministrazione in tema di diritti umani, sociali e civili. Una figura istituzionale che permette di costruire e rafforzare il rapporto con le persone private della libertà, di comprendere dinamiche e problematiche soprattutto in questo particolare momento storico e di raccogliere sollecitazioni per migliorare le condizioni di vita all'interno delle carceri romane. Perché l'obiettivo primario è sempre quello della tutela della dignità della persona e il suo reinserimento all'interno della società”. Volterra (Pi). Nuove aule per il carcere ricavate da quattro cortili dei passeggi di Ilenia Pistolesi La Nazione, 15 marzo 2023 Le classi ospiteranno gli studenti-detenuti dell’alberghiero, dell’agrario e del liceo artistico. La direttrice del Maschio: “È stato realizzato un progetto davvero straordinario”. La scuola come valvola di mutazione per il riscatto sociale dietro le sbarre. Al Maschio di Volterra, dove sono 110 gli studenti a fronte di una popolazione carceraria di 180 galeotti, i tre corsi superiori, costole degli istituti Niccolini e Carducci, che qui hanno trovato un limen costruttivo e fertile, avranno a disposizione un polo scolastico nuovo di zecca con 8 aule, grazie in primis al contributo della Fondazione Crv con 100 mila euro e altrettante risorse piovute dal Dap. Ieri, la presentazione delle nuove aule per l’alberghiero (41 gli iscritti in carcere), l’agrario (23 iscritti su quattro classi) e il liceo artistico, che conta 27 studenti detenuti su quattro classi. Le aule sono state ricavate nell’ala del Maschio che, in passato, ospitava i quattro cortili da passeggio durante gli Anni di Piombo. Spazi mai utilizzati e che ora, ripuliti dalla muffa degli anni, diventano vere e proprie stanze in cui far lezione. Fino a ora, in carcere si studiava in spazi alla meglio arrangiati, fra perimetri ristretti e la biblioteca. “La scuola è il perno attorno cui ruota ogni progetto. Abbiamo avuto detenuti non scolarizzati che sono riusciti anche a laurearsi - spiega la direttrice del carcere Maria Grazia Giampiccolo - quello che abbiamo realizzato, in una Fortezza antica e meravigliosa ma con pochi spazi liberi, è un progetto straordinario, un obiettivo che cercavo di traguardare da tempo. E ho trovato compagni di viaggio importanti, a partire dalla Fondazione Crv. La scuola non è solo possibilità di crescita per il detenuto, ma anche creazione di nuovi posti di lavoro per docenti e per i detenuti stessi”. “Per Volterra, il carcere è anche un motore economico - aggiunge il presidente Crv Roberto Pepi - è lavoro, è occupazione, è ricchezza che si riversa sul territorio. E le nuove aule si inquadrano in un’ottica di sviluppo socio-economico, che è la mission della Fondazione”. Per la dirigente scolastica del liceo Carducci Nadia Tani “la soddisfazione di aver aperto una succursale in carcere dell’artistico è enorme, perché abbiamo studenti motivati che proseguono poi gli studi universitari in materie umanistiche. Abbiamo realizzato mostre con i lavori dei detenuti e i laboratori sono incentrati, soprattutto nel triennio, su arte, moda e costume, creando così un unicum con la sartoria carceraria”. “Il carcere è un luogo vitale - puntualizza la dirigente del Niccolini - la scuola è un vero ascensore sociale, possibilità di riscatto umano e sociale. Basti vedere il percorso degli studenti dell’alberghiero e le chance professionali che per loro si spalancano”. “Volterra un modello di come deve essere un carcere - sono le parole dell’assessora all’istruzione Viola Luti - e la città è una comunità che accoglie i detenuti. I vari indirizzi presenti consentono modalità diverse, dal lavoro al settore artistico. È così che un carcere dovrebbe funzionare, partendo proprio dalla scuola”. Brescia. Il pizzaiolo che insegna la sua arte ai detenuti di Canton Mombello bresciatoday.it, 15 marzo 2023 Ciro Di Maio, titolare di una nota pizzeria bresciana, sta insegnando l'arte della pizza ai detenuti del carcere: “Mancano lavoratori, diamogli una possibilità”. Due giorni alla settimana Ciro Di Maio oltrepassa le sbarre del carcere cittadino di Canton Mombello per consentire ai detenuti di riscattarsi attraverso il lavoro. Come? Insegnando l'arte della pizza a coloro che stanno scontando una pena per reati minori. Un corso professionale, della durata di 40 ore, per dare la possibilità ai carcerati di imparare un mestiere e poter inserirsi nelle società una volta tornati in libertà. Il pizzaiolo classe 1990 è cresciuto in un comune del Napoletano, dove la Camorra sembra essere l’unica via per arrivare a fine mese. Proprio per non essere inghiottito dalla criminalità, nel 2015, ha lasciato la terra natale ed è approdato a Brescia per lavorare in un locale di una nota catena di ristorazione. In pochi anni è diventato il titolare della pizzeria “San Ciro” di via Sorbanella, a due passi dal cinema Oz. Oggi si considera un privilegiato e, dopo aver superato le difficoltà connesse alla pandemia e ai successivi rincari delle materie prime, ha deciso di donare a chi è meno fortunato la possibilità di trovarsi un lavoro. “Li aiuto a trovare lavoro” - “Un ragazzo che finisce in carcere, magari per reati minori, poi ha una difficoltà enorme nel reinserirsi nel mondo lavorativo - spiega Di Maio -. Lo so per esperienza personale: ho visto molti amici finire male. Per questo ho deciso di impegnarmi in prima persona per aiutarli. In questo momento storico, tra l’altro, c’è una richiesta sempre maggiore di pizzaioli e di persone che si vogliano impegnare nell’ambiente della ristorazione. Abbiamo pensato di proporre un corso di questo tipo proprio per garantire in modo quasi automatico l’assunzione alle persone che seguiranno il corso”. Il progetto - ideato nel 2019 in collaborazione con la garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Brescia Luisa Ravagnani e sostenuto dalla direttrice del carcere Francesca Paola Lucrezi - è decollato a fine febbraio, terminata l’emergenza e le restrizioni Covid. Tantissime le adesioni: “i detenuti che hanno chiesto di partecipare sono stati molti di più rispetto ai posti disponibili”, ha fatto sapere la direttrice di Canton Mombello. A loro Ciro Di Maio impartirà lezioni di teoria e pratica per realizzare la pizza perfetta: dal ruolo del sale alla temperatura dei forni, passando per i segreti dell’impasto e quelli legati al pomodoro. Sette i detenuti, tutti accusati di reati minori, che attualmente stanno partecipando al corso professionale. Ma in futuro potrebbero essere molti di più. L'appello ai colleghi. L’obiettivo del 33enne, napoletano di origine ma bresciano d’adozione, è infatti quello di creare una sorta di consorzio di pizzaioli che, come lui, vogliano dare una possibilità a chi ha sbagliato e contemporaneamente ricoprire quei posti che sono ancora vacanti. “Lancio un appello ai miei colleghi che lavorano nella ristorazione - chiosa Di Maio -. Vorrei fondare un’associazione di persone che vogliano aiutare gli ex detenuti a reinserirsi con una nuova professionalità. In questo periodo nel quale mancano lavoratori è un modello positivo per tutti”. Il pizzaiolo non è nuovo ad iniziative benefiche. Qualche tempo fa, si era dedicato alla formazione anche nel Rione Sanità di Napoli, una zona che a lui ricorda la via dove è cresciuto a Frattamaggiore. Napoli. Troppa violenza in tv e sui social, da anni mancano narrazioni opposte di Antonio Mattone Il Mattino, 15 marzo 2023 Davanti alla violenza e al sangue che continua a scorrere per le strade di Napoli, e che vede abbassare l’età dei protagonisti e delle vittime di fatti di sangue, sembra prevalere un senso di assuefazione e di ineluttabilità: poche reazioni, un timido indignarsi e alla fine nessuna scossa degna di merito. Avvenimenti che vengono derubricati ad uno dei tanti affanni che vive la città, come il traffico o il problema dei trasporti pubblici, e dopo qualche giorno non se ne parla più. Eppure la ferocia ha raggiunto livelli inaccettabili. L’accoltellamento di un ragazzino di 12 anni da parte di un suo coetaneo, solo per miracolo non è finito in modo tragico, mentre l’aggressore e i suoi genitori hanno minimizzato l’accaduto, parlando di una banale lite. La presenza femminile sulla scena delle zuffe rappresenta da un po’ di tempo una allarmante novità. Ne è un esempio il furioso “strascino” di cui è stata vittima l’altra sera una quattordicenne, da parte di una banda di ragazzine, per un messaggio di troppo al fidanzatino conteso. Ma alla violenza minorile si aggiunge quella che, per mano della camorra, coinvolge giovanissimi che diventano boss quando ancora sono in erba, bruciando tutte le tappe della carriera criminale. Colpisce il ferimento del diciannovenne di Pianura, già considerato capo di un clan alla sua giovane età. Il ragazzo era stato raggiunto da alcuni colpi di pistola mesi fa, mentre recentemente avevano sparato contro le finestre della sua abitazione. Tuttavia, questi gravi episodi non l’avevano fatto desistere dalla ambizione alla scalata criminale. Forse si considerava un immortale come Ciro, il personaggio di Gomorra, un sopravvissuto per “vocazione”. Credo che una grande responsabilità di questa degenerazione sia imputabile anche alle serie televisive, ai film e ai canali social che trasmettono messaggi e contenuti carichi di violenza, e che fanno dell’aggressività il modello principale con cui affermarsi nella vita. Qualcuno dovrebbe porsi il problema di arginare la diffusione di questi esempi di brutalità, che hanno un costo sociale che forse abbiamo troppo sottovalutato. Quello della violenza giovanile è un fenomeno complesso che ha diverse sfaccettature e che richiede assunzione di grandi responsabilità. Ci sono giovani che per gioco, sfida, rabbia o noia finiscono nel mondo dell’illegalità, e quasi senza rendersene conto vanno incontro ad un destino segnato. A volte basta una sfumatura per tracciare il confine tra la colpa e l’innocenza. E spesso alcol e droga, accessibili sempre più facilmente anche ai ragazzini, spalancano la porta ad una vita dissennata, che per lo più diventa una vita anestetizzata. D’accordo con Gemma Tuccillo che ieri su questo giornale ha parlato di una rete di protezione, tutta da inventare e sostenere. Su questo versante abbiamo assistito in questi anni ad un rimpallo di responsabilità. La scuola dice che è colpa della famiglia, la famiglia accusa la scuola, la scuola e la famiglia colpevolizzano la società, e così via. Ma così tutto resta statico e cristallizzato e non cambia mai nulla. E’ compito delle istituzioni creare questa rete, cominciando a sostenere le associazioni di volontariato, il terzo settore e anche quelle palestre che hanno il merito di togliere i ragazzi dalla strada avvicinandoli allo sport, e che talvolta sono costrette alla chiusura, come è successo recentemente, per non essere in grado di sostenere gli elevati costi di affitto delle strutture, perlopiù comunali. Penso anche alle virtuose esperienze di messa alla prova dei minori, dove all’inizio si presentano ragazzi spavaldi che poi piano piano cominciano a fare e farsi delle domande fino ad intenerirsi nell’incontro con gli immigrati, come avviene a Scampia, quando insieme ai volontari gli portano un panino e un po’ di allegria. Molti invocano più carcere per i minori e soprattutto chiedono l’abbassamento dell’età imputabile. Tuttavia il carcere, questo carcere, non è in grado di educare, ma riesce solo ad esaltare quelle dinamiche negative che rendono scaltri e rapaci. Non è di questo che hanno bisogno i ragazzi caduti nelle maglie della criminalità. Per questi minori che non siamo riusciti ancora a salvare c’è bisogno di percorsi di accompagnamento che necessitano di più personale nei settori dei servizi sociali e della giustizia minorile. Si tratta poi di lavorare per ridare ai bambini la dimensione vera dello stare insieme, che non può essere solo competizione o sopraffazione. E questa è una responsabilità di noi adulti che da genitori, maestri, educatori, abbiamo a lungo disatteso. In questo la scuola ha un suo compito importante, quella scuola che spesso i minori cosiddetti a rischio non frequentano. L’iniziativa intrapresa dal Prefetto Palomba sul monitoraggio delle assenze scolastiche, è di fondamentale importanza. A questa dovrà far seguito una presa in carico degli alunni inadempienti, non sottraendo la famiglia alle proprie responsabilità. Solo con un impegno concreto e collegiale Napoli potrà risvegliarsi da un incantesimo collettivo, non più imprigionata dal demone dell’impotenza e della rassegnazione. Modena. L’uomo senza il reo. Il Teatro dei Venti porta una trilogia shakespeariana nel carcere di Roberta Leo scenecontemporanee.it, 15 marzo 2023 Mettere piede in un carcere, per coloro ai quali non è mai capitata l’occasione di entrarvi, è sempre un’esperienza che lascia il segno. E se questo segno fosse anche un nuovo incontro, come quello con la tragedia di Shakespeare e la storia di Roma, un incontro tra teatro e parola, tra corpo e pensiero, tra uomini del passato e uomini di oggi? È quello che è accaduto il 3 e 4 febbraio presso la Casa Circondariale di Modena dove è andato in scena Giulio Cesare, il primo capitolo della trilogia di Shakespeare prodotta dalla compagnia Teatro dei Venti. Non è, infatti, un caso che, per il biennio 2022-2023, all’interno dei progetti teatrali prodotti dal Teatro dei Venti nella Casa Circondariale di Modena e nella Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia, si sia scelto di mettere in scena la trilogia shakespeariana (a Giulio Cesare seguiranno Amleto e Macbeth). In essa i detenuti si confrontano con le opere del drammaturgo inglese e i processi creativi della compagnia teatrale modenese rileggendo i celebri testi senza spogliarli della loro antica essenza ma donando loro contemporaneità attraverso una dizione meravigliosamente imprecisa, un accento straniero, una fisicità che esplode gradualmente. Il Teatro dei Venti da circa un decennio ‘presidia la fortezza’, ossia, presenziano nella Casa Circondariale Sant’Anna di Modena e costituiscono, ormai, un vero e proprio ‘presidio culturale’. “Cerchiamo sempre di lasciar fuori il ‘reo’ e di lavorare sull’uomo. Non si parla quasi mai durante i laboratori dei reati commessi dai detenuti-attori. Per loro quello è un momento in cui sono lì come uomini, sono semplicemente sé stessi” afferma Stefano Tè, regista e direttore artistico della compagnia quando parla del suo lavoro svolto con i detenuti. La trilogia di Shakespeare e, in particolare il suo primo capitolo Giulio Cesare, diventa così un pretesto per parlare di uomini realmente esistiti che nel bene o nel male hanno segnato la storia; il lavoro teatrale e drammaturgico permette a questi uomini privati della libertà fisica di incontrarne altri (citando ancora la bellezza dell’incontro), ossia, andare in-contro ad un uomo-archetipo messo a nudo ma anche privo di qualsiasi giudizio sulle proprie azioni. Sotto questa lente il teatro non appare forse come una declinazione della funzione rieducativa della pena (per citare Cesare Beccaria)? E i temi universali che hanno reso Shakespeare immortale non sono forse attuali e funzionali per un progetto che include il teatro in carcere? Sebbene gli attori del Carcere di Modena abbiano dato prova di grande studio e bravura (e non manca nemmeno un approccio al professionismo degno di nota), ciò che in loro colpisce maggiormente è il lavoro svolto sul testo (grazie alla drammaturgia di Massimo Don e Stefano Tè) e il modo in cui trasmigrano quest’ultimo sui tratti psicologici dei loro personaggi. Così uomini potenti come Cesare, Bruto, Marco Antonio, Ottaviano si spogliano della loro veste sociale e si mostrano semplicemente con le loro fragilità e debolezze, seminando un terreno fertile per riflessioni sull’uomo e la natura umana, sul tradimento, la ricerca del potere, la vendetta, la paura. La Roma imperiale svela tutte le sue crepe nascoste dal fascino e dalla ricchezza di un’epoca che sembra invincibile ma che invece è destinata a crollare. Ne è un esempio la complessa partitura fisica in cui un ‘coro danzato’ completamente al maschile, sul finire dello spettacolo, combatte schierato nella lunga e stretta pedana open space su cui si svolge l’intera azione. Il teatro diventa, così, uno strumento per dare un respiro, per pensare, educare con dignità. Corpi, voci e suoni (musica dal vivo di Irida Gjergji) senza limiti di tempo e spazio sono gli elementi di un unico spettacolo che riecheggiano nei corridoi del Carcere di Modena, un luogo-non luogo che cela una comunità invisibile, una compagine sociale scandita da regole, orari, attività, e ora d’aria. Droghe. Pugno duro e paternalismo: il brutto déjà vu dell’Italia all’Onu di Susanna Ronconi* Il Riformista, 15 marzo 2023 È un viaggio a ritroso nel tempo quello che l’Italia ha compiuto alla 66esima Sessione della Commissione Stupefacenti delle Nazioni Unite, a Vienna, un brutto déjà vu. Il proibizionismo ideologico del sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Alfredo Mantovano, che ha la delega sulle droghe, è apparso persino più radicale di quello proclamato dall’ONU, che dal 2016, anno dell’Assemblea generale di New York, almeno si è accorto che l’obiettivo di ‘un mondo senza droghe’ è irrealistico e retorico. Mantovano ripristina tutto il vecchio armamentario del ‘consumo zero’, incurante di come 60 anni di politiche globali abbiano prodotto, dati alla mano, non solo insuccessi - nel mondo si consuma, si produce e si vende illegalmente sempre di più - ma danni e sofferenze a persone e comunità: quelle persone e comunità di cui si dice di volersi prendere cura e che invece da sempre ricevono dalle politiche della tolleranza zero esclusione, carcere, stigma, violazione dei diritti. Invertendo l’onere della prova, Mantovano ci assicura che la responsabilità invece è a carico di certi “messaggi fuorvianti, relativi alla presunta innocuità o leggerezza di talune sostanze” che circolerebbero “con troppa insistenza”. “Quelle leggere non esistono, sono tutte uguali”. Il sottosegretario Mantovano rispolvera tutto il vecchio armamentario, incurante dei fallimenti e dei danni causati da 60 anni di war on drugs L’Italia ripresenta al mondo il suo vecchio proibizionismo paternalista, fatto di pugno duro, carcere o, in sostituzione, comunità-carcere, dove il solo obiettivo ammesso di trattamenti e percorsi è l’astinenza. Proprio quella tolleranza zero che guida una ‘guerra alla droga’ le cui vittime a restare sul campo sono sempre e solo le persone che usano droghe. Intanto l’Italia e il mondo sono andate e stanno andando da un’altra parte: cercano modalità più efficaci e a minor rischio di gestire i fenomeni, per esempio regolandoli legalmente invece che regalandoli al mercato nero, come accade per la cannabis in molti paesi del mondo; per esempio lavorando affinché chi consuma lo faccia con meno rischio e con più attenzione alla propria sicurezza, come fa la politica di Riduzione del danno; per esempio decriminalizzando e mitigando l’impatto penale, che destina alla emarginazione e alla sofferenza senza per altro in cambio incidere sulle scelte di consumo. E invece… Il governo italiano ci fa tornare a quel “tutte le droghe sono dannose, non ci sono droghe leggere” che, con la legge Fini Giovanardi poi abrogata, ha affollato le nostre carceri, e all’idea, affermata contro ogni evidenza, che ogni consumo di droghe è destinato alla dipendenza, e che chi usa sceglie la morte e di “non essere più se stesso”. Dunque libertà e responsabilità sarebbero parole fuori dal vocabolario di ogni persona che usa droghe, che - di nuovo! - è un po’ deviante e un po’ malata: e deve finire un po’ in carcere, un po’ in trattamento, più o meno indotto e forzato, verso il ‘consumo zero’ (meglio se in una comunità chiusa e con la regola tipo ‘tre volte e sei’ fuori, cioè non ci occupiamo più di te, come recita una dichiarazione del sottosegretario Delmastro sulle alternative al carcere). Quello che davvero non vorremmo vedere, ma temiamo di vedere, è un’Italia seduta di nuovo sui banchi dell’ONU vicino a Russia, Cina, Iran - che della tolleranza zero e della war on drugs sono i paladini - e non su quelli dell’Unione Europea. Di nuovo, come nel 2009, quando il governo rappresentato da Giovanardi ruppe il fronte europeo e strinse alleanze impresentabili contro la Riduzione del danno. E quello che davvero non vorremmo vedere, e faremo di tutto per non rivedere, è una politica repressiva, inefficace, al limite dello stato etico, e ignorante delle evidenze e delle esperienze. Regolazione sociale e non penale dei fenomeni del consumo, investimento sulle competenze, sulle culture e sui diritti di chi usa, sviluppo e sostegno alle politiche di Riduzione del danno, riforma delle leggi basata sulle evidenze, sperimentazione e valutazione di politiche alternative come la regolazione legale. Per non tornare al 2009, per non uscire dall’Europa. *Responsabile Comitato Scientifico Forum Droghe Ainis: “Destra e sinistra hanno ridotto l’immigrazione a mera questione criminale” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 15 marzo 2023 “Quando si affastella l’ordinamento con troppe normative a rimetterci sono i migranti, che sono soggetti sempre più fragili a livello giuridico”. Parla il costituzionalista Michele Ainis. Professor Ainis, dopo il naufragio di Cutro il governo ha firmato un decreto legge sull’immigrazione, inasprendo, tra le altre cose, le pene per gli scafisti: crede sia la strada giusta per contrastare il fenomeno? Diciamo che la linea di tendenza è quella di un abuso di provvedimenti di fronte alle emergenze, e devo dire che è una linea cavalcata sia da governi di destra che di sinistra. I primi provvedimenti che in qualche modo cominciavano a stringere le maglie sull’immigrazione erano firmati da Martelli, dalla Turco, da Napolitano, e in tempi più recenti nel 2017 c’è stato il decreto Orlando-Minniti, quindi a firma di due esponenti di sinistra, che nega agli immigrati alcune garanzie di cui i cittadini italiani sono dotati. Il filo che collega questi provvedimenti è l’esigenza, che è rimasta tale, di rispondere all’emergenza dell’immigrazione, che è un fenomeno come sappiamo globale a cui certo l’Italia è maggiormente esposta per ragioni geografiche, di rassicurare i cittadini aumentando le pene, serrando la mascella e cercando di tradurre in termini securitari una questione che invece ha a che fare con i diritti degli immigrati. Dunque sta dicendo che la politica dovrebbe proteggere i migranti e non colpevolizzarli? Sul piano generale la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 stabilisce il diritto di ogni persona di uscire dal proprio paese e di rientrarvi che è il diritto di emigrare. La nostra costituzione stabilisce poi il diritto all’asilo per coloro che nel proprio paese non godono delle libertà assicurate dalla costituzione italiana. L’articolo 10 della Carta è stato interpretato tradizionalmente con riferimenti ai diritti civili e politici legati al proprio paese d’origine. Ma le libertà, diceva Casavola, già presidente della Corte costituzionale, è anche quella di non morire di fame. E quindi il termine libertà si può leggere anche con riferimento ai diritti sociali. Dunque secondo me il testo dell’articolo 10 accetta una lettura non restrittiva ma estensiva, anche se certamente poi questo creerebbe problemi enormi perché nessun paese, tantomeno l’Italia, potrebbe essere un ricovero per tutti. Il governo è anche alle prese con una dicotomia tra la Lega, che vorrebbe ripristinare i decreti sicurezza, e Fratelli d’Italia che richiama alla responsabilità dell’Ue: si riuscirà a trovare una quadra? Tutti i governi in Italia sono stati sempre di coalizione, anche i vecchi monocolore Dc erano fatti da accordi tra le correnti della DC e quindi hanno sempre necessitato di mediazione. In questo momento la Meloni si trova stretta tra il Papa e Salvini. Sarà difficile trovare una quadra ma il punto è che il decreto Cutro aumenta le pene per gli scafisti in base a quante persone muoiono con un massimo di trent’anni. Ma questo non è altro che il vecchio giochino di utilizzare la leva del diritto penale, di cui in Italia si fa abuso, tanto che si parla di panpenalismo, per ogni emergenza che accade. Ma il problema della pena è la certezza della stessa, non tanto gonfiare i provvedimenti nel momento in cui vengono presi. Quindi servirebbe meno provvedimenti, ma più specifici? Il punto è che quando si affastella l’ordinamento con una grande quantità di normative, scegliere da petalo a petalo spetta poi al giudice, il quale avrà la massima discrezionalità. Come una specie di supermercato in cui compri del cibo in base a ciò di cui hai voglia quella sera. L’abuso del diritto determina incertezza, sempre a danno dei più deboli. E questo fa sì che gli immigrati siano soggetti sempre più fragili dal punto di vista giuridico e dei loro diritti. Secondo il centrosinistra servirebbe lo Ius soli, o anche lo Ius culturae, per integrare al meglio gli immigrati di seconda o terza generazione: che ne pensa? Sul diritto di cittadinanza agli stranieri ricordo alcune esternazioni di Napolitano di una decina di anni fa. Ci sono centinaia di migliaia di bambini che parlano il dialetto calabrese o veneto e non sono italiani. I loro genitori pagano le tasse in Italia, loro sono nati qui ma ancora non hanno la cittadinanza. E questo stride con il fatto che abbiamo fatto una legge per far votare gli italiani che risiedono da quaranta o cinquanta anni all’estero. Ma certo non tira l’aria per una riforma del diritto di cittadinanza in qualsiasi sua formula. Si parla anche di un decreto flussi per far entrare in Italia decine di migliaia di immigrati: saremo in grado di reggere? Ad oggi è difficile se non impossibile entrare in Italia in maniera regolare. Bisogna superare l’ipocrisia del sistema per cui è un datore di lavoro italiano deve chiamare da fuori qualcuno che venga a lavorare a casa sua o nella sua fabbrichetta ma questo qualcuno stava già in Italia clandestinamente. Sarebbe molto più trasparente dare un permesso temporaneo a chi entra in Italia per cercare lavoro. C’è grande fabbisogno di manodopera nelle campagne e, visto che questi sono i fatti, bisognerebbe conciliare la politica con il diritto. Qual è il ruolo dell’Ue in questa vicenda? L’Ue dovrebbe svolgere un ruolo fondamentale perché il problema è generale e quindi andrebbe affrontato insieme. Dopodiché l’Ue ha testimoniato la propria esistenza in vita durante il covid ma per il resto continua a essere un concerto di egoismi nazionali. Basta pensare ai paradisi fiscali che ci sono in Europa, Olanda in primis. E basta pensare allo scaricabarile sui migranti che continuano ad arrivare. Potremmo dire che tra il dover essere e l’essere c’è di mezzo il mare e quelli che in mare ci muoiono. Se a discriminare gli stranieri sono le forze dell’ordine di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 marzo 2023 Basato sulle testimonianze di 522 cittadini di origine straniera, uno studio condotto nell’ambito del Progetto LAW (acronimo che sta per Leverage the Access to Welfare, ed è un progetto di ASGI e del Centro Studi Medì di Genova), rivela che il settore percepito come maggiormente discriminatorio è la ricerca dell’abitazione. A seguire le discriminazioni più frequenti avvengono anche nel rapporto con gli uffici pubblici (33%), sui mezzi di trasporto pubblici (31%), in ambito sanitario (30%) e nel rapporto con i servizi privati (26%) e con le forze di polizia (25%). Dallo studio, condotto dalla ricercatrice Deborah Erminio, emerge anche che il livello di discriminazione non dipende da quanto tempo una persona straniera vive in Italia né dal livello di integrazione della persona, ma dallo sguardo di chi discrimina. Interessante il capitolo sul comportamento discriminatorio delle forze di pubblica sicurezza, le quali sono un elemento nevralgico nella gestione del fenomeno migratorio, visto che a loro spetta il controllo del territorio e che, nell’esercitare questo controllo, possono selezionare le persone in base a criteri di pericolosità e criminalità, concentrando la loro attenzione su alcuni soggetti piuttosto che altri. Nella ricerca di LAW, viene spiegato che entrano in gioco i processi di etichettamento, non solo certe retoriche comuni che i poliziotti condividono con il resto della società e che influenzano inevitabilmente la loro percezione dell’immigrato (il “diverso” che genera insicurezza), ma anche alcuni elementi che afferiscono maggiormente all’operato delle forze dell’ordine. Ad esempio - sottolinea la ricerca - è più probabile che vengano fermati e controllati i maschi adulti, in particolare quelli più giovani (in generale i giovani vengono controllati di più perché vivono gli spazi pubblici della città in maniera diversa, stanno fuori più tardi la sera, sono percepiti come fonte di disturbo e insicurezza in strada, ecc...). Età e nazionalità agiscono come “apparenze scorrette” che orientano i poliziotti a fermare più spesso le persone di una certa nazionalità, come è emerso anche dal questionario: marocchini, tunisini, egiziani, gambiani, ecuadoriani, bangladesi, turchi e albanesi dichiarano più di altri intervistati di venire fermati per strada per il controllo dei documenti. Complessivamente - approfondisce il progetto LAW - vengono fermati più spesso gli africani e gli asiatici, con importanti differenze tra aree di provenienza: sono molto più controllate le persone provenienti dal sud- est asiatico (soprattutto gli uomini), raramente i filippini forse perché corrispondono allo stereotipo dell’immigrato che non crea problemi o dell’immigrato “docile” e dedito al lavoro, che magari non è in regola con i documenti, ma non rientra nello stereotipo del personaggio pericoloso a cui è necessario prestare attenzione. “Non è quindi solo la linea del colore quella che demarca il confine tra chi viene controllato e chi no - si legge nell’interessante capitolo della ricerca -, ma piuttosto un insieme di tratti negativi che definiscono la rappresentazione del potenziale criminale, poiché gli agenti di pattuglia agiscono cercando di massimizzare la probabilità di selezionare, tra i passanti, quelli che potrebbero risultare pericolosi”. In generale gli uomini vengono fermati e controllati più spesso che le donne e subiscono in genere più episodi discriminatori quando si trovano in questi frangenti. Complessivamente, in base al campione scelto dal progetto LAW - non sono molte le persone che entrano in contatto con le forze di polizia: su 350 persone circa che hanno risposto a questa batteria di domande la maggior parte (il 78%) sostiene che i controlli siano veramente rari e nel 13,9% dei casi avvengono qualche volta all’anno. Tuttavia ciò che colpisce ai ricercatori è il sentimento che traspare dalle parole di molti intervistati e la sensazione di una costante discriminazione agita nei loro confronti, indipendentemente dall’avere la cittadinanza estera o dall’aver acquisito la cittadinanza italiana (la variabile cittadinanza non influisce sulla frequenza dei controlli della polizia). Emerge bene dalle parole di alcuni intervistati che hanno risposto alla domanda aperta: “C’è qualche altro modo in cui è stato discriminato o è stato trattato ingiustamente quando ha incontrato le forze di polizia?”. Ecco alcune risposte: “Quando durante un controllo di polizia mi hanno chiesto i documenti e io ancora non ero in possesso, mi hanno portato in commissariato una notte”; “Ci sono quelli che mi hanno trattato abbastanza bene, ma c’erano anche quelli che mi hanno fatto sentire che non valevo niente”; “Sono stata trattata in modo scortese e arrogante”; “Fanno controlli mirati: solo sugli stranieri”; “La polizia è venuta da me alle 11 di sera a chiedere un documento che, secondo loro, mancava nella richiesta del permesso di soggiorno”; “Sono soggetto a pregiudizi e stereotipi”. Ancora altre risposte alla domanda aperta sull’eventuale discriminazione subita dalle forze di polizia: “È evidente che quando hanno a che fare con me hanno un occhio di riguardo in qualsiasi mio gesto, quasi come se potessi essere una minaccia”; “Solo una volta: eravamo quattro amici ad aspettare il nostro treno che era in ritardo, sono arrivati i poliziotti, hanno controllato i nostri documenti. Allo stesso modo, un paio di volte si sono fermati e hanno controllato i documenti”; “Quando ho perso i documenti, sono andato dai carabinieri che giravano per la stazione di Porta Nuova per denunciare, ma non mi hanno ascoltato nemmeno guardandomi. Devo attirare la loro attenzione prima che mi parlino”. Altra questione che emerge è quanto il rapporto con le forze dell’ordine è più complesso del previsto nel senso che vi è una forte distinzione tra vari corpi di polizia deputati al controllo del territorio e gli uffici preposti al rilascio/ rinnovo del permesso di soggiorno. La Questura in particolare emerge come l’ufficio in cui gli intervistati hanno sperimentato maggiori situazioni discriminatorie: “In questura quando rinnovavamo il permesso di soggiorno; i poliziotti sono sempre stati scontrosi e ci davano sempre del tu”; “Quando sono andata in Questura per chiedere informazioni per un visto turistico per mia sorella”; “In Questura un poliziotto ha risposto con arroganza quando avevamo bisogno di una guida o di aiuto per chiedere il permesso di soggiorno”. Insieme all’età e alla provenienza geografica, l’altro elemento centrale è la conoscenza della lingua: la dimostrazione di saper parlare bene italiano diventa garanzia di integrazione, inserimento sociale e non pericolosità, anche se tale binomio è tutt’altro che scontato: “A me non capita quasi mai perché parlo bene l’italiano e mi difendo, ma questo accade molto spesso a persone che sono in Italia da poco tempo o che non conoscono i propri diritti e hanno paura di subire discriminazioni”; “Non mi hanno assistito perché non parlavo bene l’italiano”. Migranti. Il dilemma dei nostri marinai di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 15 marzo 2023 Si torna a parlare delle missioni nel Mediterraneo dei mezzi militari italiani, che non si sono mai interrotte. Negli anni salvati migliaia di migranti e arrestati centinaia di trafficanti. La tragedia di Cutro ha smosso emozioni e attivato strategie, riportando il tema dei migranti in cima alle agende del governo e dell’opposizione. Ne è una visibile conseguenza lo spiegamento di forze nel cuore del Mediterraneo: con navi e vedette di Guardia costiera, Marina e Finanza impegnate a soccorrere migliaia di profughi alla deriva, pur senza riuscire a garantirne sempre la salvezza. L’ultimo naufragio al largo della Libia, accompagnato da nuove polemiche sulla tempistica del nostro ingaggio, ne è dolorosa prova. Di colpo, le missioni di soccorso dei mezzi militari italiani, che non s’erano mai interrotte ma erano state silenziate da opzioni di tattica politica, tornano a essere sovraesposte a uso dei notiziari, come non accadeva da tempo. Non è difficile intuire dietro questa scelta due ragioni, almeno dal punto di vista dell’esecutivo. La prima, esterna: mostrare all’Europa, dove presto andremo a discutere di nuovo di flussi e ricollocamenti, che siamo impegnati con la dovuta umanità e abbiamo diritto a un sostegno non solo parolaio. La seconda, interna: recuperare consenso e spinta, dopo le critiche generate dalla strage del caicco a ridosso delle coste calabresi (in un clima tutt’altro che pacificato, come dimostra la baruffa scoppiata sulla festa con karaoke di Matteo Salvini). C’è poi il fumus di un terzo motivo, assai delicato. E attiene all’onore del Corpo in questo momento più esposto, poiché, almeno sulla carta, sarebbe stato l’unico, con le sue motovedette inaffondabili, a poter uscire dal porto di Crotone per andare a salvare i migranti: la Guardia costiera. E qui è opportuno introdurre una distinzione. È aperta, proprio su quella catena di soccorsi mai messa in moto, un’inchiesta della Procura che in qualche modo ribalta la domanda retorica posta polemicamente da Giorgia Meloni all’opposizione e ai media: si può davvero pensare che da qualcuno sia partito l’ordine di non andarli a salvare? Ovviamente, no. Ma il quesito va rovesciato: come mai nessuno ha dato l’ordine di andarli a salvare? Su questo crinale, che passa attraverso il setaccio giudiziario di ricordi e comunicazioni tra uffici, si decide il caso singolo, sul quale tutto è possibile, naturalmente: persino provvedimenti penosi da infliggere. Tuttavia, quali che siano le decisioni dei magistrati non potranno ledere una storia consolidata. Quella dei nostri marinai. Li abbiamo visti chiedere latte caldo via radio per i bambini dei migranti appena strappati alle onde. Saltare, a rischio della pelle, dalle loro motovedette su agonizzanti carrette del mare per agganciarle con una cima. I giornalisti che dieci anni fa hanno seguito Mare Nostrum lo sanno, sì, chi sono davvero gli uomini e le donne della Guardia costiera. Coloro che ancora oggi assicurano alla terraferma più di metà dei disperati in viaggio nel Mediterraneo verso di noi, “circa sessantamila solo lo scorso anno”, come ha ricordato il comandante generale Nicola Carlone in una accorata lettera ai suoi che si chiude con il motto del Corpo, “omnia vincit animus”, il coraggio vince su tutto. Ce ne vuole parecchio di coraggio per sopportare “questi giorni tristi”, come li definisce l’ammiraglio Carlone. Fino al 2017, la policy era di considerare comunque a rischio un’imbarcazione affollata. Non solo. “Si usciva a prescindere dalla richiesta d’aiuto, una barca priva di requisiti di sicurezza era considerata comunque in distress”, ti dicono i vecchi marinai. Era sovraffollato il caicco del naufragio? Era insicuro? Si poteva presumerlo? “Intanto uscivi”, insistono quei marinai. Linea condivisa dall’Europa, allora. Ma a quel tempo il Corpo era candidato al Nobel per la pace. E non si trattava soltanto di buon cuore, perché stare in mezzo al Mediterraneo con le navi militari portò ai rilevanti risultati di Mare Nostrum (l’operazione italiana varata dopo il naufragio di Lampedusa del 2013 e incomprensibilmente definita “non fortunatissima” nella conferenza stampa del governo a Cutro). L’ammiraglio De Giorgi, allora comandante generale, lo spiegò al Parlamento a metà dicembre 2014, quando la missione era stata appena soppressa perché “costava troppo”: dal 18 ottobre 2013 al 31 ottobre 2014 i suoi marinai avevano salvato 156.362 migranti in 439 interventi di ricerca e soccorso (Search and rescue, Sar); ma avevano anche arrestato 366 scafisti (a proposito della lotta ai trafficanti di uomini) e catturato nove navi madre (quelle che abbandonano in mare aperto i migranti consegnandoli a barche più piccole). Un’operazione Sar, insomma, poteva e può coincidere perfettamente con una di law enforcement , un intervento di salvataggio con uno di pubblica sicurezza. Per chi si propone di colpire quanti commerciano in migranti, questo dovrebbe diventare spunto di riflessione. Che il clima sia poi cambiato, da cinque anni a questa parte, si può desumere anche da elementi esterni, senza avventurarsi in speculazioni politiche. Ciò che prima la Guardia costiera esibiva con fierezza ha cominciato a essere nascosto come una colpa: persino gli interventi di soccorso, messi in ombra per poter dimostrare che il vero traino dei salvataggi in mezzo al mare fossero le Ong (nulla di più falso, perché le organizzazioni non governative incidono per uno scarso 10% sugli sbarchi, il 40% sono arrivi autonomi e il restante 50% deriva proprio da interventi delle nostre navi militari). Persino dal calendario ufficiale i migranti sono spariti. Il trattamento riservato a navi del Corpo quali la Diciotti e la Gregoretti, tenute in stallo per giorni nelle estati del 2018 e 2019 come battelli pirata a causa del loro carico di profughi salvati in mare, ha scavato un solco doloroso. Si possono anestetizzare le coscienze? Si può indurre un riflesso condizionato a causa del quale certi interventi a mare o sono di polizia o non sono? È l’enigma del demonio. La magistratura darà dunque soluzione penale al caso concreto. La questione morale è invece risolta sin da subito. E la risposta sta nei mille salvataggi di domani e dei giorni che verranno: poco conta se oscurati o in mondovisione, sappiamo che ci saranno. Perché questi sono i nostri marinai, eredi di quel comandante Todaro che non abbandonava a mare nemmeno i nemici in guerra. E non ci sarà processo capace di affondarne l’onore. Il loro, no. Migranti. Decreto “Cutro” da oggi al Senato, nel mirino la protezione speciale di Leo Lancari Il Manifesto, 15 marzo 2023 Da oggi si comincerà a capire se la pace raggiunta a Cutro tra la Lega e Fratelli d’Italia sulla protezione speciale è vera o solo fittizia. Approda questa mattina al Senato infatti il decreto varato dal consiglio dei ministri convocato da Giorgia Meloni nella località calabrese teatro della strage costata fino a ieri a 81 migranti. Il testo, che interviene in materia di flussi di ingresso e contrasto all’immigrazione irregolare, sarà assegnato alla commissione Affari costituzionali, relatore il senatore di Fratelli d’Italia Andrea De Priamo, e ci sarà tempo fino alle 17 del 27 marzo per la presentazione degli emendamenti. Da martedì 21 alle 9 è previsto l’avvio delle audizioni. Le opposizioni promettono battaglia ma è più che probabile che la sfida vera si consumerà all’interno della maggioranza e avrà come posta proprio la protezione speciale, con la Lega che punterà a nuove e più dure restrizioni in aggiunta a quelle già inserite nel decreto, restringendo così il riconoscimento dello status di rifugiato solo a chi scappa da guerre e persecuzioni, “Tutto il resto è un di più e può essere cancellato”, ha spiegato due giorni fa il sottosegretario leghista all’Interno Nicola Molteni. Il decreto che arriva oggi a palazzo Madama ha già cancella la possibilità per un richiedente asilo di non essere espulso tenendo conto del grado di integrazione raggiunto nel nostro Paese e, in particolare, “dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale”. Condizioni che, stando agli ultimi dati, riguardano oggi almeno 10 mila persone che rischierebbero di precipitare nell’illegalità una volta scaduto il permesso di soggiorno, E di essere espulsi, a patto che esista un accordo in tal senso tra l’Italia e il paese di origine. Il “di più” di cui parla Molteni sono i motivi sopravvissuti al taglio per cui non si può procedere all’espulsione, e che riguardano ad esempio l’orientamento sessuale e l’identità di genere tra le cause di persecuzione nel Paese di origine. Si sa che il Colle è intervenuto per rendere il meno duro possibile l’intervento del governo e le osservazioni del capo dello Stato sono state accolte da Fratelli d’Italia. Ma ora che il decreto comincia il suo iter parlamentare la partita si riapre, e la Lega farà di tutto per provare a resuscitare i decreti sicurezza varati a suo tempo da Matteo Salvini quando era lui il ministro dell’Interno. Ieri il segretario federale si è mostrato ottimista: buona parte dei decreti sicurezza “sono già ripresi nel decreto presentato a Cutro e altre parti potranno essere riprese durante il lavoro parlamentare”, ha detto anticipando fatto quanto potrebbe accadere a partire da oggi. Per il deputato di +Europa Riccardo Magi “il governo ha una lettura del fenomeno migratorio schizofrenico, astratto, fatto di cose che dovrebbero avvenire ma non avvengono, e quotidianamente mette in campo dei diversivi come la Wagner, i pull factor, la protezione speciale o altre fesserie del genere”. Un giudizio negativo che Magi estende anche al decreto Cutro nel quale, spiega, il governo “non ha fatto nulla per rafforzare i canali legali perché ribadisce il meccanismo astratto della Bossi-Fini dove una persona dovrebbe chiamare dal suo Paese di origine qualcuno che non conosce. È una finzione e lo sappiamo tutti”, Critico anche il senatore del Terzo Polo Ivan Scalfarotto che parla di provvedimento puramente propagandistico e completamente inidoneo a gestire la questione” immigrazione. Stati Uniti. In carcere soprattutto per droga e piccoli furti: il 20% dei detenuti mondiali è qui di Josephine Carinci ilsussidiario.net, 15 marzo 2023 Il 20% dei detenuti a livello mondiale è negli Stati Uniti, nonostante il Paese abbia solo il 4% della popolazione. Persone nere e donne prese di mira. “Nel 1967 mio padre, Muhammad Ali, fu condannato a cinque anni di carcere per essersi rifiutato di combattere nella guerra del Vietnam. A quel tempo, c’erano circa 200.000 persone dietro le sbarre negli Stati Uniti. Ora le nostre carceri e carceri traboccano di quasi 2 milioni”: comincia così l’articolo di Khaliah Ali, figlia del pugile, su Usa Today. Khaliah è un’attivista dedica a questioni come la fame dei bambini, l’istruzione, il benessere degli animali e l’ingiustizia ambientale. Gli Stati Uniti il 4% della popolazione mondiale eppure a loro è attribuito il 20% dei detenuti. La gente di colore è la più presa di mira: i neri sono incarcerati circa cinque volte in più dei bianchi. Inoltre, secondo un rapporto allarmante dell’Aspen Institute, gli Stati Uniti imprigionano una percentuale maggiore della loro popolazione nera “rispetto al Sud Africa al culmine dell’apartheid”. Eppure non sono solo le persone di colore quelle con un alto tasso di incarcerazione ma anche le donne. Molte hanno storie di abusi e malattie mentali e la maggior parte sta scontando una pena per crimini non violenti. Più persone sono incarcerate per droga ora rispetto al totale in prigione nel 1980, spiega ancora l’articolo di Khaliah Ali. “La polizia locale imprigiona ogni anno quasi tante persone per droga rispetto a tutti i “crimini violenti” messi insieme” si legge sul giornale. In caso di marijuana, quasi il 90% degli arresti è solo per possesso. Non solo droga. Negli Stati Uniti si viene incarcerati spesso per motivi futili. Willie Simmons ha trascorso gli ultimi quattro decenni in una prigione dell’Alabama per aver rubato 9 dollari, Curtis Wilkerson è stato condannato all’ergastolo in una prigione della California per aver rubato un paio di calzettoni bianchi, Sharnalle Mitchell è stata ammanettata davanti ai suoi figli di 1 e 4 anni e condannata a due mesi di carcere per contrassegni di parcheggio non pagati. “A Rikers Island a New York City, incarcerare qualcuno ora costa $ 556.539 a persona all’anno. Sono oltre $ 1.500 al giorno. Sarebbe molto più economico ospitare qualcuno al Ritz Carlton a Central Park South”, spiega Khaliah Ali. La figlia del pugile espone poi una riflessione: “La domanda che il mio coautore Jason Flom e io ci poniamo più spesso quando viaggiamo per il paese predicando per la riforma del buon senso è: “Siamo solo persone normali. Come potremmo mai io e i miei amici fare la differenza?”. E parlando del padre, spiega: “Anche se mio padre è stato condannato a cinque anni di prigione, sorprenderebbero molti sapere che non ha mai passato una notte dietro le sbarre. Tom Krattenmaker, un modesto, autodefinitosi “umile, piccolo impiegato”, convinse il giudice della Corte Suprema John Harlan che forse Muhammad Ali era davvero un obiettore di coscienza poiché la sua religione gli impediva di combattere in qualsiasi guerra non dichiarata da Dio stesso. Ciò convinse il giudice Harlan a ribaltare la sua opinione, il che indusse la corte a cambiare il suo voto 5-3 contro mio padre in 8-0 a suo favore”. Medio Oriente. “Io filopalestinese? No, è Israele che viola il diritto internazionale” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 15 marzo 2023 Intervista a Francesca Albanese, Special Rapporteur dell’Onu: “Una potenza occupante invoca il diritto alla difesa contro il popolo che tiene sotto occupazione da 56 anni: è un ossimoro. E poi sono gli israeliani ad aver favorito la creazione di Hamas”. Una intervista che squarcia il velo di silenzi omertosi e compiacenti sulla sistematica violazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati da parte d’Israele. A parlare è Francesca Albanese, Special Rapporteur dell’Onu sulla situazione dei diritti umani nei Territori occupati. Albanese è anche Research Fellow all’International Institute of Social Studies of Erasmus University Rotterdam. Delle tematiche che sono al centro delle documentate denunce della Special Rapporteur dell’Onu, non c’è traccia alcuna nelle parole del ministro degli Esteri Antonio Tajani in questi giorni in missione in Israele e a Ramallah. Per il titolare della Farnesina la tragedia palestinese semplicemente non esiste. se non in termini di generica riproposizione di un indefinibile impegno per rilanciare un inesistente processo di pace, o, comunque, non è tale da poter perturbare il “roseo” futuro nelle relazioni Italia-Israele. Da più parti, e non solo quella palestinese, si denuncia il regime di apartheid che Israele avrebbe instaurato... La situazione nel territorio palestinese - invito a usare il singolare per preservare l’importanza dell’unità territoriale della Palestina, o ciò che ne resta - è estremamente complessa, volatile e violenta. È il frutto dell’incancrenirsi di un’occupazione che da quasi 56 anni opprime un intero popolo con mezzi sempre più sofisticati, in violazione dei trattati internazionali e nell’impunità più totale. A Gaza, due milioni di persone vivono sotto assedio e spesso sotto attacco militare di Israele. In Cisgiordania, alla presenza dei militari israeliani si aggiunge quella di 750 mila coloni e per garantire la loro sicurezza i diritti fondamentali dei palestinesi sono violati sistematicamente. Gerusalemme è illegalmente considerata ‘annessa’ allo stato di Israele contro la stessa Carta dell’Onu. Le risorse del territorio occupato sono utilizzate a beneficio esclusivo di Israele, non esistono diritti civili e politici perché non c’è attività politica che non sia passata al vaglio o che non venga soppressa da Israele e, spesso, anche dalle autorità palestinesi. Persino esporre in pubblico la bandiera palestinese è proibito perché, nella logica dell’occupante e del colonizzatore, l’identità nazionale palestinese è una minaccia per quella di Israele. Questo regime è incontrovertibilmente apartheid: adesso la comunità internazionale comincia a prenderne consapevolezza, anche se i paesi occidentali fanno fatica anche solo a considerare l’utilizzo del termine nei confronti dello stato di Israele. Io sostengo che il crimine di apartheid costituisca un elemento analitico necessario ma non sufficiente, giacché chiede l’uguaglianza, ma non mette in discussione la mancanza di sovranità di Israele sul territorio che occupa dal 1967. Chiedere uguaglianza tra coloni e palestinesi, tra occupanti e occupati, non ha senso dal punto di vista legale. Come definirebbe quindi ciò che accade? Il concetto che a mio parere meglio si adatta alla situazione è quello di colonialismo d’insediamento (settler-colonialism). Un termine che descrive il controllo da parte di un popolo su di un altro a mezzo di presenza fisica del colonizzatore, con intento acquisitivo, segregante e repressivo. È quello che è successo in Algeria, in Sudafrica, in Canada, negli Stati Uniti e in Australia, con il trasferimento massiccio di coloni europei e la sottomissione delle popolazioni indigene locali. Ed è quello che sta succedendo in Cisgiordania e a Gerusalemme Est: si cacciano i palestinesi per sostituirli con una minoranza di israeliani, spesso originari dell’America o dell’Europa, che arrivano con la missione ideologico-colonizzatrice di ‘riprendersi la terra che Dio ha promesso loro.’ Anche Gaza rientra in questa logica come riserva, parte del territorio dove ammassare e rinchiudere i nativi sgraditi, invisi al colonizzatore. La legalità internazionale s’invera nelle risoluzioni Onu, nel diritto internazionale, nel diritto umanitario, nelle delibere assunte dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, nella Convenzione di Ginevra sulla guerra. Cosa ne è della legalità internazionale in Palestina? La giustizia in merito alla Palestina è più vicina agli interessi geopolitici degli Stati occidentali, ma questo deve cambiare e bisogna ri-orientarla verso il diritto internazionale. Non può esserci pace senza libertà e pieno godimento dei diritti e delle libertà fondamentali di tutti e tutte. Israele e i suoi sostenitori in Italia la accusano di essere parziale, “filopalestinese”, e di non avere l’equilibro necessario per ricoprire l’importante incarico che assolve... Il mio ruolo mi impone di condurre inchieste in modo imparziale ed indipendente, e di relazionare in modo onesto e trasparente sul contenuto delle mie osservazioni alla luce del diritto internazionale; ed è quello che faccio. Israele è potenza occupante nel territorio palestinese dal 1967 e opera marcatamente al di fuori di ciò che è permesso dal diritto internazionale. Non è un caso che il mio mandato, creato nel 1993, mi obblighi a relazionare sulle violazioni del diritto internazionale commesse da Israele. Ciò nonostante, io ho chiarito dal principio del mio mandato che intendo esaminare le violazioni commesse da chiunque nel territorio palestinese occupato, incluso le autorità palestinesi. La questione della mia presunta parzialità ha altra matrice... Quale? Le campagne diffamatorie contro il mio mandato sono solo l’esempio più recente di una campagna globale guidata da Israele e dai suoi sostenitori, con l’obiettivo di distrarre la comunità internazionale dai potenziali crimini di guerra e crimini contro l’umanità che Israele commette ogni giorno e per cui è sotto inchiesta dalla Corte Penale Internazionale. Citando il mio collega Nils Melzer, il precedente Relatore Speciale sulla tortura, “Se un governo si rifiuta di impegnarsi in un dialogo costruttivo e viola ripetutamente i suoi obblighi in modo grave, allora c’è un punto in cui devo rendermi impopolare e mobilitare il pubblico. Qualsiasi altra cosa mi renderebbe un traditore del mio mandato”. Nel giustificare le azioni condotte in Cisgiordania e a Gaza, Israele invoca il diritto di difesa dalla minaccia terroristica... Israele è la potenza occupante - in quanto tale, è ossimorico che invochi il diritto all’autodifesa ‘in bianco’ contro il popolo che sta tenendo sotto occupazione da quasi 56 anni. Vorrei ricordare inoltre che la creazione di gruppi ritenuti terroristici, Hamas in primis, è stata sostenuta da Israele stesso - Hamas, per l’appunto, è stato aiutato a crescere e ad inserirsi nella scena politica palestinese da Israele, per contrastare una forza politica (guidata da forze laiche) in grado di unire tutto il popolo palestinese, volutamente frammentato da Israele. Tale unità rappresentava una minaccia per Israele, che invece ha sempre mirato a rompere e prevenire una simile realtà politica, elemento fondante del diritto all’autodeterminazione. Inoltre, dal 22 novembre 1967, quando il Consiglio di Sicurezza ha ordinato l’immediato ritiro delle forze di occupazione israeliane dal territorio palestinese, in quanto tale occupazione non ha ragion d’essere. Tale ordine, incessantemente rinnovato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu (ultima risoluzione: 2234 del 2016), viene continuamente ignorato da Israele, che rafforza la sua stretta sul territorio palestinese ostentando, ancora una volta, la lettura apologetica di una guerra difensiva, presupponendo equivalenti interessi, poteri e mezzi da entrambe le parti. Sul piano umano, cosa l’ha più colpita nell’esperienza che sta conducendo? Mi colpisce l’ignoranza dei fatti fondanti della questione israelo-palestinese, l’uso arbitrario della legge internazionale e, ancora di più, la mancanza di empatia con il popolo palestinese. Ma mi colpisce anche la solidarietà di tanti nei confronti del mio mandato. Io credo nella forza delle leggi, nella potenza della ragione umana, e spero che tutto questo sinergicamente funzioni prima o poi. Iran. Le ragazze continuano a danzare, si ribella un quartiere di Teheran di Francesca Paci La Stampa, 15 marzo 2023 Dopo l’arresto di cinque ragazze si moltiplicano i video di sfida a Ekbetan, alla periferia della capitale, in migliaia scendono in strada. La paura non funziona più. Dopo averle braccate per quasi una settimana, le autorità iraniane hanno scovato e arrestato le ragazze protagoniste del video diffuso l’8 marzo scorso in cui danzavano senza foulard sulle note di “Calm Down” per le strade di Ekbetan Town. Ma la paura non funziona più e la risposta alla confessione estorta alle cinque prigioniere costrette a velarsi da capo a piedi per scoraggiare tutte le altre è, ormai da ore, un fiorire di trailer musicali analoghi in analoghe strade del Paese che i social network moltiplicano in modo virale. Ballo ergo sum. Ekbetan Town non è un qualsiasi sobborgo urbano cresciuto rapidamente in altezza con i soliti blocchi abitativi modulari. Il quartiere alla periferia ovest di Teheran, dove in questi giorni la polizia religiosa ha mostrato di volersi vendicare con particolare ostinazione, è la fertile terra del rapper Raz, della musica underground e della rock band “127”, dei murales firmati Karan Reshad in arte “A1one”, uno che dopo il 2009 ha rinnovato in chiave anti-regime la tradizione dei graffiti contro l’America d’epoca khomeinista, e del più grande festival Charshanbe Suri della regione. È qui, dove grava il progetto governativo di sostituire il nome di origine persiana Ekbetan con uno puramente islamico, che sei mesi fa, all’indomani dell’assassinio di Mahsa Amini, le ragazze hanno cominciato a scendere in strada coordinandosi al telefono con le compagne della capitale per dare spontaneamente vita alla rivoluzione delle donne, Jin, Jian, Azadi. “È tutto molto più importante di un balletto, è una forma di disobbedienza civile ad ampio raggio lanciata dall’epicentro della rivoluzione, è un simbolo” spiega Bahram, un farmacista quarantenne che abita a mezzora di macchina da Ekbetan Town e che ieri sera era proprio lì, mentre le forze dell’ordine circondavano l’area in cui la folla, approfittando della cerimonia del fuoco, aveva dato alle fiamme un enorme ritratto della Guida Suprema l’Ayatollah Ali Khamenei, urlando: “Khamenei senza radici, la nostra rivoluzione non finirà”. Sono giorni importanti per l’Iran che si appresta a celebrare lo Chaharshanbe Suri, la festa tradizionale con cui, accendendo falò in strada e danzandovi intorno, si annuncia l’arrivo di Nowruz, il Capodanno persiano. In queste ore, con il Paese scosso dalla più grande mobilitazione popolare dai tempi di Komehini, la preoccupazione degli ayatollah è massima. Tanto che, rispondendo alla mobilitazione di tre giorni convocata dagli attivisti contro l’avvelenamento di almeno cinquemila studentesse, la polizia religiosa ha minacciato dieci giorni di carcere e la confisca dell’automobile a chiunque disturbi “l’ordine pubblico e la calma durante il Chaharshanbe Suri”. Anche stavolta, con spietato automatismo, il regime è ricorso al pugno di ferro con cui finora ha fronteggiato qualsiasi forma di protesta, dalle primissime donne deluse dalla rivoluzione del 1979 fino all’Onda Verde del 2009, l’idealismo bruciato con la sconfitta riformista da cui, inaspettatamente, è risorta la generazione più giovane. Da sei mesi, sotto lo sguardo intermittente del mondo, si consuma in Iran un corpo a corpo esiziale tra la teocrazia sciita e i suoi figli, affiancati ormai regolarmente dalle sorelle e dai fratelli maggiori, dai genitori, dai nonni più conservatori con la rabbia dei fedeli traditi dal sistema nel nome di Dio. Teheran, Mashhad, Qazvin, Malayer, Isfhan, Shiraz, Karaj, Baneh, Zanjan, Oshnavich, Ekbatan Town. “Se la Repubblica islamica è messa così male da aver bisogno di Lukashenka, abbiamo ancora più motivi per andare avanti, la fine di questo regime disperato e in bancarotta è vicina” ragiona l’universitaria Nashin commentando la visita del dittatore bielorusso al presidente iraniano Ebrahim Raisi, che già collabora attivamente con la Russia di Putin. Poi allega al messaggio una serie di video con le ragazze che bruciano l’hijab ripetendo “morte alla dittatura” e l’emoji di ballerina. La paura non funziona più.