“I tossici in comunità e non in cella”. L’idea di Delmastro che spiazza di Valentina Stella Il Dubbio, 14 marzo 2023 La proposta del sottosegretario di Fratelli d’Italia convince (quasi) tutti i partiti. Ma la Lega si smarca. “Tossicomani in comunità: così svuotiamo le carceri”: in una intervista al Messaggero il sottosegretario alla giustizia di Fratelli D’Italia, Andrea Delmastro delle Vedove, ha spiegato la sua proposta per combattere il sovraffollamento penitenziario. Come ricorda il parlamentare, secondo i dati di febbraio a fronte di una capienza di 51.285 posti, i detenuti sono 5.6319. E allora che fare? “Dobbiamo comprendere che per un tossicodipendente che ha commesso reati legati all’approvvigionamento economico per procurarsi la droga - ha spiegato nell’intervista - il fine rieducativo della pena non sta nel fatto che conosca a memoria la Costituzione o abbia partecipato ad un ottimo corso di ceramica. La priorità per loro è la disintossicazione. Per questo sto lavorando ad un provvedimento che immagina di coinvolgere il terzo settore, quelle comunità chiuse in stile Muccioli (San Patrignano ndr), per costruire un percorso alternativo alla detenzione”. Il giudice con la sentenza potrà affidarli alle comunità: “Così svuotiamo le celle, facciamo risparmiare lo Stato e diamo loro un’altra possibilità”, spiega Delmastro. “Se poi impieghi 8 mesi a disintossicarti, per il tempo restante la comunità ti aiuterà a formarti e a trovare lavoro” però attenzione perché “se commetti un reato e torni in carcere da tossicodipendente dopo aver scontrato la pena in una struttura di questo tipo, devi affrontare l’iter normale”. Come è stata accolta l’idea tra le altre forze politiche? Per l’onorevole Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione “quando Delmastro, al di là del linguaggio, parla di questioni concrete dice cose anche condivisibili”. Piena convergenza anche da parte del partito di Berlusconi, come spiega il senatore Pierantonio Zanettin: “Noi come FI e come garantisti in generale siamo sempre d’accordo a misure alternative al carcere. Spesso il carcere non ottiene lo scopo rieducativo prefissato dalla Costituzione. Quindi siamo assolutamente favorevoli alla proposta del sottosegretario Delmastro. Vedremo poi praticamente come si potrà attuare la sua proposta ma non essendo noi manettari e amanti del carcere appoggiamo l’iniziativa”. Da segnalare i distinguo della Lega, tramite l’onorevole Jacopo Morrone: “Sono riflessioni da approfondire e su cui confrontarsi, sia quella che riguarda i detenuti tossicodipendenti sia quella che riguarda il sovraffollamento, problemi che necessariamente non sono interconnessi. A parte che non tutti gli istituti sono sovraffollati alla stessa maniera, credo che non sia solo con la riduzione dei detenuti o la depenalizzazione di certi reati che si risolve il problema del sovraffollamento ma con una pianificazione e una riorganizzazione concreta dell’edilizia penitenziaria. Così anche per quanto riguarda i detenuti tossicodipendenti c’è caso e caso. Certamente dobbiamo tenere in considerazione chi ha commesso reati non gravi, mostra una volontà concreta di disintossicarsi e di reinserirsi nella società. Ma c’è anche una gran parte che non dà le medesime garanzie. Il nostro obiettivo rimane quello di diminuire e contrastare quei fenomeni criminosi che turbano e spaventano i cittadini e che stanno trasformando certe aree cittadine in luoghi invivibili”. Giudizio in chiaro scuro quello di Valentina D’Orso e Ada Lopreiato, le due capogruppo M5S nelle commissioni Giustizia: “Concordiamo sulla necessità che per i detenuti tossicodipendenti vengano previste strutture e percorsi ad hoc che ne favoriscano la disintossicazione prima di tutto, anche in considerazione del fatto che si tratta dei detenuti più problematici da gestire in carcere. Ma pensiamo che non sia questo il governo che possa dare soluzioni adeguate e concrete, visto che nella sua prima legge di Bilancio, invece di investire, ha imposto un forte taglio all’Amministrazione Penitenziaria. Il piano esposto da Delmastro richiede risorse vere, e non poche. In assenza di fondi aggiuntivi, sono solo annunci e favole”. Proposta bocciata dalla senatrice Anna Rossomando, responsabile giustizia Pd: “Intanto informiamo il sottosegretario Delmastro che la riforma Cartabia già oggi prevede la possibilità per il giudice di disporre la detenzione domiciliare invece del carcere, a maggior ragione in presenza di percorsi di recupero. In ogni caso non può passare il principio di affrontare la tossicodipendenza con la disintossicazione coatta. Oltreché sbagliato il principio, sarebbero percorsi destinati al fallimento. C’è invece bisogno di investire ulteriormente in percorsi di recupero personalizzati, prevedendo anche, ma non esclusivamente, l’ingresso in comunità”. Contrario anche Riccardo Magi, neo segretario nazionale e deputato di +Europa: “L’intenzione politica di Delmastro è basata su una visione distorta della realtà e degli effetti del Testo unico sugli Stupefacenti. Il consumo di sostanze negli ultimi decenni è cambiato sensibilmente rispetto all’immaginario da disperazione da strada che ne ha Delmastro. La qualifica di tossicodipendente che viene usata nel sistema penitenziario mette insieme situazioni molto diverse e il lavoro che le comunità aperte fanno oggi con risultati è basato principalmente su trattamenti brevi. In ogni caso il problema del sovraffollamento si può affrontare davvero con efficacia solo con la depenalizzazione che eviti ad esempio di finire in carcere per fatti di lieve entità come abbiamo provato a fare nella scorsa legislatura e riproveremo in questa”. Pure per Luana Zanella, capogruppo di AvS alla Camera, “spostare i detenuti tossicodipendenti da un carcere ad una comunità chiusa, stile Muccioli, come lo stesso sottosegretario Delmastro sostiene, può alleviare il sovraffollamento dei penitenziari ma è soprattutto una misura di giustizia nei loro confronti. L’iniziativa del Governo, in particolare del ministro Nordio, andrebbe accompagnata da un ulteriore passo in avanti: la rivisitazione profonda della legge sulle droghe e il suo approccio repressivo, negli anni rivelatosi del tutto inefficace”. Plauso invece da parte del Partito Radicale: “Ci voleva il sottosegretario Delmastro - dicono Maurizio Turco e Irene Testa - perché una proposta ultradecennale di buon senso del Partito Radicale trovasse attenzione in ambito governativo. Infatti, non c’è dubbio che i tossicodipendenti non debbano stare in carcere, così come non dovrebbero starci i malati psichiatrici”. Per Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino, “se fosse vero, sarebbe una svolta!”. “Le parole del sottosegretario sono benedette e illuminate, noi lo diciamo da anni e credo che siamo stati anche noi a far maturare questa proposta dato che ne abbiamo parlato in un recente convegno proprio sulle misure alternative”, commenta Massimo Barra, fondatore di Villa Maraini. “Il piano di Delmastro su carceri e dipendenze può funzionare, ma va corretto” di Enrico Cicchetti Il Foglio, 14 marzo 2023 Parla il Garante dei detenuti. Spostare i tossicodipendenti dalle celle alle comunità, come propone il sottosegretario, è una “proposta con una sua dignità”, dice Mauro Palma. Ma “non bisogna confondere i problemi socio sanitari con quelli penali ed è importante differenziare tra reati. Il bianco o nero non funziona mai”. Per i detenuti con problemi di tossicodipendenza, ha detto il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro al Messaggero, “sto lavorando a un provvedimento che immagina di coinvolgere il terzo settore, quelle comunità chiuse in stile Muccioli, per costruire un percorso alternativo alla detenzione”. L’idea è quella di provare a risolvere l’annosa questione dell’affollamento svuotando le carceri di quel 30 per cento circa di detenuti tossicodipendenti e appoggiandosi a strutture private. Il testo “è in stesura”, sostiene Delmastro, ma non è ancora possibile definire un cronoprogramma perché prima bisogna confrontarsi con gli attori in campo. “E’ un percorso da condividere con il terzo settore per comprendere appieno la capienza strutturale. E con le Regioni che hanno la delega alla Sanità e dovranno certificare le cooperative e controllarne la gestione. Con loro e con la magistratura di sorveglianza aprirò un tavolo di dialogo”. Come funzionerebbe, in breve? “Il giudice già in sentenza può sostituire i giorni di carcere indicati con un numero uguale presso una comunità protetta”, ha spiegato il sottosegretario. “Cioè se vieni condannato a due anni puoi scontarli tutti lì. Se poi impieghi 8 mesi a disintossicarti, per il tempo restante la comunità ti aiuterà a formarti e a trovare lavoro”. Ma attenzione, avverte, “la comunità sarà controllata 24 ore su 24, se scappi hai bruciato la tua seconda possibilità e sarai perseguito per il reato di evasione. E lo stato, come un buon padre di famiglia, non potrà più fidarsi. Su questo non transigo. Vede sono un giurista basico, incarno l’uomo medio. Ma è una posizione che rivendico perché è questa che ci fa prendere voti”. “Come garante sono abituato a misurarmi con proposte di politica penitenziaria, non con proposte pensate per ‘prendere voti’. Mi sembra strano che un sottosegretario, che ha una funzione governativa, parli da esponente di partito”, ribatte il garante dei detenuti Mauro Palma, sentito dal Foglio. “Se questa è la base della discussione decideranno gli elettori e le forze politiche. Ma sono sicuro - scherza Palma - che sia come sempre colpa della stampa: è il giornalista che ha riportato male”. Al di là delle punzecchiature, nel merito del provvedimento il garante si dice possibilista - “la proposta ha una sua dignità”, ammette. E con i dovuti distinguo e alcune necessarie correzioni può funzionare. “In linea generale - sostiene Palma - non bisogna mai confondere i problemi socio sanitari con quelli penali. Mi lascia perplesso pensare a strutture ibride. Ma l’idea di fondo, il principio che muove l’azione del ministero va nella giusta direzione”. Che poi sarebbe quella di provare a svuotare le stipatissime prigioni italiane (dove il tasso di affollamento ufficiale generale è pari al 109,2 per cento, e tuttavia è inferiore a quello reale vista la mancata considerazione dei posti letto inutilizzabili). Però c’è un nodo che, secondo Palma, va sciolto: “Sarebbe bene evitare discorsi assolutistici: le situazioni dei detenuti con problemi di tossicodipendenze sono molto diverse, mentre Delmastro non sembra fare nessuna differenza. Ci sono persone in carcere per ciò che il comma 5 dell’articolo 73 del testo unico sulla droga definisce ‘spaccio di lieve entità’. Per loro va ripensato completamente il percorso, tirandoli fuori dal carcere. Poi ci sono detenuti con dipendenze colpevoli di ‘piccolo spaccio’: per loro la comunità andrebbe molto bene, purché abbia una connotazione di presa in carico e non sia chiusa e dura. Poi ci sono detenuti con storie di dipendenza, spaccio e altri reati, per i quali serve un dialogo tra comunità e struttura penitenziaria, che è tuttavia inevitabile”. Insomma, le parole chiave per Palma sono differenziare e personalizzare il più possibile. Lo stesso discorso, dice, vale poi anche per le comunità di recupero che sono un insieme variegato. “Ce ne sono a maggiore o minore intensità ed è giusto che esista questa scalettatura: il bianco o nero non funziona mai”. Il sottosegretario fa bene invece, dice Palma, a pensare a un patto con le regioni. L’enfasi sul ruolo dei territori è importante. Basti pensare a un esempio che viene dalla cronaca recente: il 7 marzo, all’interno della Casa Circondariale di Rebibbia Femminile, a Roma, è morta una detenuta con gravi problemi di tossicodipendenze. “Si tratta di una persona che era stata dentro una ventina di volte, che entrava e usciva di galera. Dovremmo chiederci che cosa ha fatto per lei il territorio e se anche i servizi sanitari interni all’istituto non avrebbero potuto aprire un dialogo migliore. E dovremmo chiederci che cosa poteva fare il carcere per una persona come lei”. Luigi Pagano: “Un progetto ambizioso, serve la collaborazione di Regioni e volontariato” di Valentina Errante Il Messaggero, 14 marzo 2023 “Se davvero si riuscisse a realizzare questo progetto sarebbe un successo per tutti”. Per Luigi Pagano, direttore a Pianosa negli anni di piombo, al vertice per 16 anni della Casa circondariale milanese di San Vittore, poi a capo di tutti i penitenziari del Nord-Ovest e infine numero due del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, incarico con il quale ha chiuso la sua carriera, è stato anche un pioniere nella gestione delle tossicodipendenze in carcere. E non ha dubbi sull’efficacia del progetto che ieri il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro ha annunciato, prospettando di risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri, destinando i tossicodipendenti in centri di recupero anziché in cella. Le leggi prevedono percorsi di questo tipo e lei molti anni fa ha tentato di realizzare, in piccola scala, alcuni programmi di questo tipo... “Secondo la legge, un tossicodipendente in qualunque fase del processo può chiedere di essere ammesso in comunità per disintossicarsi. Anche chi abbia una pena definitiva, fino a sei anni, con l’affidamento in prova. A meno che non ci siano rischi di pericolosità. A Milano, già nei primi anni 90, insieme alla Regione e al Tribunale avevamo messo in atto un progetto di questo tipo. Un presidio della Asl affiancava il giudice monocratico e per i tossicodipendenti si cercava di bypassare il carcere. Certo c’è il rischio che si scelga la comunità per evitare il carcere. A San Vittore abbiamo creato anche “La Nave”, che è un intero reparto che ospita detenuti con problemi di droga e di fatto si prende cura di detenuti-pazienti. È stato realizzato vent’anni fa in collaborazione con il Servizio psicoterapeutico della Asl. I detenuti che vogliano entrarvi devono rispettare alcune regole anche di confronto e colloquio”. Ma qual è il problema, perché, se la legge lo prevede, non è applicata? “Il problema è che non si riesce a trovare la risposta. Non ci sono le strutture. Ma le difficoltà sono anche economiche. Non so fare un calcolo esatto ma realizzare davvero questa rivoluzione prevedrebbe l’investimento di Ingenti risorse. I detenuti tossicodipendenti sono circa il 30 per cento della popolazione carceraria. Quindi una cifra cospicua. Però è una questione di volontà politica e se il Sottosegretario lo ha annunciato significa che ci saranno investimenti per realizzare questo progetto, facendo accordi, anche con la Regione e con il Terzo settore, sarebbe una grande vittoria per lo Stato”. Perché dice che i costi aumenterebbero, anche un detenuto ha un costo... “Se aumentano i servizi e il numero di detenuti ospiti i costi di gestione diventano molto alti. È inevitabile, e non credo che si possa stanziare la stessa cifra che al momento viene impiegata per un detenuto. Più aumenti il numero dei detenuti ospiti più la somma diventa inadeguata. Dovrebbe essere un progetto che vede insieme la sanità, i servizi pubblici o privati, con comunità omologate che devono dare garanzie, ma nel progetto dovrebbe essere coinvolto anche il mondo del volontariato”. Sarebbe anche una vittoria dal punto di vista del recupero e del reinserimento. Non soltanto come soluzione per risolvere il problema del sovraffollamento... “Certo, è chiaro che decide il giudice e deve essere sempre il magistrato a sondare quale comunità sia adatta, il fatto di evitare il carcere in prima battuta è una cosa positiva, perché il carcere stigmatizza. Non so quanto una comunità possa essere trasformata in un istituto di pena. Con una sorveglianza costante. Ma questo poi è un dettaglio” Quali ostacoli avete incontrato negli anni Novanta, quando avete messo in atto un progetto simile? “In alcuni casi si verificava anche il problema della pena, che spesso era minore rispetto al tempo di permanenza necessario nella comunità. Trovo comunque che l’attenzione ai tossicodipendenti, alle persone e al problema del sovraffollamento sia molto importante. Il primo problema e anche il primo obiettivo, per un tossicodipendente, sono inevitabilmente la disintossicazione. Penso che il governo troverà la strada per attuare questo progetto, che è comunque molto ambizioso”. “La proposta va nella direzione giusta, ma le situazioni non sono tutte uguali” di Flavia Amabile La Stampa, 14 marzo 2023 Parla Massimo Barra, fondatore di Villa Maraini, agenzia della Croce Rossa sulle dipendenze: “Un’idea che va nella direzione giusta ma bisogna fare attenzione per evitare che le comunità si trasformino in lager”. Massimo Barra è il fondatore di Villa Maraini, l’agenzia della Croce Rossa che si occupa di tossicodipendenze. Dal 1979 ha creato il progetto carcere con attività per i detenuti, conosce abbastanza la materia da intuire anche i rischi legati al progetto del governo di far uscire i tossicodipendenti dalle carceri. “Avendo combattuto per almeno 30 anni proprio perché i tossicodipendenti non vadano in carcere, mi sembra che sia un progetto che va nella direzione giusta. Punizione e terapia sono incompatibili, non possono essere realizzati nello stesso posto. Lo abbiamo sempre detto, siamo fra i pochi che offrono ai tossicomani delle alternative al carcere. Però le buone intenzioni non bastano”. Cos’altro serve? “Conoscendo la burocrazia italiana - e soprattutto romana - temo che ci saranno tanti paletti e ostacoli che renderanno difficile realizzare davvero quest’idea. Temo molto anche l’ignoranza di chi si occupa di materie con cui non ha dimestichezza. Parlare solo di comunità terapeutica è riduttivo, i tossicodipendenti hanno bisogno anche di centri antidroga”. Le comunità non sono il luogo più adatto per il recupero di un tossicodipendente detenuto? “Nelle comunità la terapia assomiglia a un vestito uguale per tutti, a qualcuno va stretto ad altri largo, è difficile che sia davvero efficace. Chi sa poco di droga non si rende conto che si rischia di mandare persone in comunità terapeutica per non lasciarle in galera. Può capitare che la comunità funzioni e quindi si crei un effetto positivo se il soggetto da recuperare è motivato. Ma se non lo è, c’è il rischio che si faccia espellere perché la comunità deve mantenere la sua ortodossia. O si rischia che venga costretto ad uniformarsi. In questo caso la comunità diventerebbe un lager, come San Patrignano all’inizio. Non è così che deve funzionare il recupero. È la terapia che deve adattarsi al tossicomane non il contrario. E serve la continuità terapeutica, un’attività lunga, una cosa seria che va fatta da gente competente”. Il governo sa che non basteranno le strutture esistenti ed è convinto che gli operatori prenderanno in affitto o acquisteranno nuove sedi. Le sembra realistico? “La terapia non è una questione logistica. Dire che basti acquistare una casa e metterci dentro chiunque è una dimostrazione di imperizia e di ignoranza su questo argomento. Servono hub in grado di offrire una serie di terapie commisurate alle esigenze delle persone. Servono professionisti impegnati nel rispetto del malato. Il malato va rispettato, non punito come un peccatore”. I numeri sono chiari: con una legge del genere addio sovraffollamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 marzo 2023 I reclusi con problemi di droga (prevalgono crack e cocaina) sono 15mila: quasi il 30% del totale. Dall’ultima relazione al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia, emerge che alla data del 31 dicembre 2021, nelle carceri erano presenti 15.244 detenuti tossicodipendenti, corrispondenti al 28% dell’intera popolazione penitenziaria. Il dato è quindi oggettivo: se venissero raggiunti da una misura di comunità, non si avrebbe alcun problema di sovraffollamento nelle carceri italiane. Per comprende ancora meglio il fenomeno, è interessante riportare i dati relativi alla “classe sociale” di appartenenza. La condizione occupazionale (prima della detenzione) è stata comunicata per 12.645 persone tossicodipendenti che rappresentano l’80% dell’utenza in carico ai servizi per le dipendenze; percentuali nettamente inferiori si osservano per la popolazione femminile (52%) mentre, per le altre categorie di utenza, le percentuali si attestano tra il 72% e il 77%. La maggior parte di persone tossicodipendenti era disoccupata, con percentuali più elevate nella popolazione femminile (60,4%); un’occupazione stabile è stata indicata in ugual percentuale tra la nuova utenza (21,6%) e tra quella già nota (21,7%) e aumenta al 24% tra gli uomini e le persone nazionalità italiana. L’occupazione occasionale è maggiormente diffusa tra i detenuti di nazionalità straniera (21%) e valori minimi si osservano per il contingente di genere femminile (10%). Le condizioni di inabilità al lavoro o di ritirati dal lavoro, e l’occupazione come casalingo/ a e studente/ ssa sono riferite con percentuali inferiori al 5%. L’analisi sulla sostanza d’uso primaria rilevata sulla quasi totalità delle persone detenute con problemi di tossicodipendenza (15.851, sebbene con una certa variabilità tra le diverse categorie di utenza) indica che la metà dell’utenza ristretta in carcere è assistita per uso primario di cocaina o crack, senza differenze rilevanti tra nuovi utenti e utenti già noti ai servizi e tra detenuti di nazionalità italiana e straniera. Relativamente all’uso di oppioidi, oltre il 50% delle detenute ne riferisce l’uso primario, a fronte del 32,7% della popolazione maschile. Quest’ultima sostanza rappresenta la seconda tipologia di sostanza primaria maggiormente diffusa tra l’utenza, con percentuali più elevate tra gli assistiti già noti ai servizi (37,2% vs. 27,6% nuovi utenti) e tra i detenuti di nazionalità italiana (35,1% vs. 28,7% stranieri). L’uso primario di cannabis è riferito dal 13,5% della nuova utenza e dal 10% dei detenuti di genere maschile e di nazionalità straniera. Sempre dall’ultima relazione al Parlamento, emerge che l’uso primario di cocaina e crack tra i detenuti tossicodipendenti coinvolge quasi 7.000 persone che rappresentano la metà dei soggetti detenuti per i quali è stata rilevata la sostanza d’uso primario. Ad eccezione del Friuli Venezia Giulia, nelle altre regioni e province autonome, le percentuali di utenti che hanno riferito l’uso primario di tale sostanza varia da un minimo del 30,6% in Liguria ad un massimo del 64,5% in Lombardia. All’Italia nord-occidentale va attribuito il primato dell’uso di cocaina/crack quale sostanza primaria (57,9%) tra i detenuti tossicodipendenti, e a seguire le aree dell’Italia meridionale (50,0%) e centrale (47,0%). Ritorniamo ai dati di incidenza sul sovraffollamento. Secondo lo studio riportato sul libro bianco sulle droghe promosso dalla Società della Ragione, Antigone e altre realtà associative che denunciano l’attuale legge sulle droghe, nel corso degli anni - dopo alcune parentesi - si è verificato gradualmente un aumento dei detenuti tossicodipendenti in carcere. Dopo che la legge Fini Giovanardi è decaduta grazie alla sentenza della Consulta del 2014, nel giro di cinque anni i detenuti presenti sono scesi del 23,2%, dai 67.961 del 2010 ai 52.164 del 2015 (-15.797). Dal 2016, però, il trend si è nuovamente invertito, fino a superare, al 31 dicembre 2019, per la prima volta dal 2013, quota 60mila detenuti. Poi è arrivato il Covid e il forzato decongestionamento delle carceri, netto nel 2020, meno nel 2021, coi detenuti presenti che tornano a salire. Emerge in maniera chiara la passività del legislatore rispetto al problema del sovraffollamento carcerario: nulla è stato fatto se non quando la Cedu (sentenza Torreggiani), la Consulta o la pandemia hanno imposto un cambio di rotta. Aumentano quindi sia detenuti per la legge sulla droga (+ 1%) sia i tossicodipendenti presenti (+ 1.096; + 7,7%). Quest’ultima, una percentuale decisamente in crescita. I dati sono chiari, così com’è altrettanto chiaro che il carcere non è un posto idoneo alla cura di chi è tossicodipendente. Punizione e trattamento non sono compatibili. La proposta lanciata dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro che è volta a spostare i detenuti tossicodipendenti in comunità protette, è una soluzione che va nella direzione giusta. Poi ci sarebbe la legge sulla droga che andrebbe riformata, ma questa è un’altra grande storia. La via per galere più leggere è una sola: meno manette di Tiziana Maiolo Il Riformista, 14 marzo 2023 Il sottosegretario propone di spostare i detenuti tossicodipendenti, che sono il 30%, in strutture adeguate al piano terapeutico, cioè dritti dritti a S. Patrignano. Militarizzare le comunità non è la soluzione. Il tema vero è arrestare di meno. E il ministro Nordio ha un’idea che potrebbe aiutare. La stagione delle riforme sulla giustizia non è ancora cominciata. Si dovrebbe partire dalle regole del processo, come vorrebbe il ministro Carlo Nordio e come pensa si dovrebbe la stessa premier Giorgia Meloni, che si è più volte dichiarata “garantista” prima della sentenza e rigorosa nell’applicazione della pena, dopo. Il problema del carcere è però lì come una montagna, dopo gli 84 suicidi del 2022, con l’estate tragica in cui ogni giorno se ne registrava uno da sommare a quelli del giorno prima. Pare dunque che si partirà proprio di lì. Il che vuol dire affrontare la questione giustizia dalla sua parte terminale, lasciando immutati, almeno per ora, i motivi e i metodi con cui si arriva alla privazione della libertà. È il vecchio errore di quella parte della sinistra, quella degli “anti”, antimafia, antiterrorismo, anticorruzione. Quella che ha una visione guerriera del pubblico ministero, visto non come uno che indaga sul singolo reato, ma come colui che la storia ha investito del ruolo salvifico di lottare contro i fenomeni criminali. Poi, dopo che si sono riempite le carceri di colpevoli e innocenti senza distinzione, solo allora si può cominciare e riconoscere le persone, non per rivalutare i loro diritti ma solo per dare assistenza al povero carcerato. Come se non fosse stato privato della libertà spesso senza processo o troppe volte da estraneo al reato contestato. Dicono che il sottosegretario Andrea Delmastro, che è un pragmatico, si sia allarmato nel vedere i dati dell’affollamento carcerario dello scorso febbraio: 56.319 su una capienza di 51.285, che è quanto i nostri istituti di pena potrebbero contenere. E quando si è reso conto del fatto che il 30% dei prigionieri è fatto di tossicodipendenti, o comunque di persone accusate o condannate per reati attinenti al mondo della droga, ha pensato di partire da lì. In realtà, volendo, ci sarebbe molto lavoro da fare per i giudici di sorveglianza, che potrebbero applicare di più e meglio il principio della sospensione dell’esecuzione della pena, per consentire a chi abbia una dipendenza di avviare un percorso terapeutico, oppure come accade con i minori, procedere all’affidamento in prova o alla detenzione domiciliare. Il sottosegretario Delmastro pare però non discostarsi troppo dalla necessità delle manette, anche in caso di imputazione o condanna per lievi reati contro il patrimonio. Però una cosa l’ha capita bene, che bisogna sfoltire un po’ le carceri, anche perché non occorre essere i campioni del calcolo matematico per constatare che dal 31 dicembre del 2021 alla stessa data del 2022 abbiamo nelle carceri italiane ben 2000 detenuti in più. Così, rispolverando antichi provvedimenti legislativi che risalgono al 1990 e che prevedevano per i tossicodipendenti la detenzione in strutture apposite a adeguate allo sviluppo del piano terapeutico, propone, in un’intervista al Messaggero, lo spostamento di questa tipologia di detenuti direttamente all’interno di Comunità del tipo di quella di San Patrignano. Da un’istituzione totale all’altra, quindi. Con l’aiuto delle Regioni e del terzo settore. E con “tanti paletti”, dice il sottosegretario, senza forse rendersi conto del fatto che il paletto numero uno, quello della sicurezza, rischia di rendere l’iniziativa poco praticabile. Perché quando si entra in comunità, almeno nel primo periodo, è inarrestabile la voglia di scappare. I terapeuti lo sanno e lo mettono in conto. Ma un discorso è sorvegliare, un altro è avere la polizia alle porte, in servizio permanente effettivo. Le misure alternative al carcere si basano su rapporti di fiducia, militarizzare le comunità terapeutiche dà la sensazione non solo di spostare il problema da un luogo all’altro, ma anche di danneggiare gli altri ospiti della comunità, quelli non detenuti, che vedrebbero menomata la propria libera scelta. Un conto è stare in un luogo chiuso, altro conto è che gli ingressi siano sorvegliati da persone in divisa. Così torniamo sempre al punto di partenza. Perché il cuore del problema non è quello di migliorare le condizioni di detenzione (il che comunque sarebbe già un bel passo in avanti), ma quello di arrestare di meno. Si potrebbe fingere, per esempio, di essere sempre in balia di un temibile nemico esterno, mettiamo un virus molto contagioso che sconsiglia gli assembramenti nei luoghi pubblici al chiuso. Dare aria alla pena, potrebbe essere un buon titolo per il prossimo provvedimento del governo sulla giustizia. Nei suoi discorsi, l’ultimo alla “London School of Economics”, il ministro Nordio ha tenuto fede ai propri principi e ha assunto l’impegno di una prossima riforma che ridurrebbe sicuramente la popolazione carceraria. Perché riguarda la custodia cautelare e la riduzione “della possibilità che una persona venga incarcerata prima del processo, salvi i casi di flagranza”. La decisione non spetterebbe più al solo gip ma a un pool di sei giudici. Che dovrebbero ponderare bene la decisione e ricordare che la custodia cautelare in carcere dovrebbe essere l’ultima delle soluzioni. A maggior ragione per chi deve intraprendere un piano terapeutico. Senza la polizia sull’uscio. “Rimpatrieremo i detenuti romeni e albanesi, ci sono già accordi bilaterali” di Luca Sablone Il Giornale, 14 marzo 2023 Il sottosegretario Delmastro: “Presto faremo una circolare perché possano essere tradotti nelle galere dei Paesi di provenienza anche senza il loro consenso”. La crisi che sta colpendo le carceri del nostro Paese merita di essere affrontata tempestivamente per evitare il collasso. Il governo è determinato nell’intervenire a stretto giro attraverso un progetto in grado di unire strutture, Terzo settore e Stato. Nelle ultime ore Andrea Delmastro ha fatto notare che il sovraffollamento potrebbe essere risolvibile prendendo di petto anche il problema delle tossicodipendenze. Non solo: al vaglio c’è un’opzione per agire sui rimpatri dei detenuti stranieri dove vi è l’ostacolo del previo consenso. Il piano del governo sulle carceri - Il sottosegretario alla Giustizia, parlando con i giornalisti al termine della visitata effettuata al carcere genovese di Marassi, ha posto l’attenzione sul fatto che grazie ai trattati bilaterali si può già procedere in questa direzione con Romania e Albania. “Faremo una circolare perché tutti i detenuti albanesi e romeni possano essere tradotti nella galere dei Paesi di provenienza senza il previo consenso”, ha annunciato. A tal proposito si sta lavorando anche con altri Paesi, sempre con l’intento di ottenere la possibilità del trasferimento del detenuto senza il previo consenso. Grazie alla sinergia con la Scuola superiore della magistratura si potrà avere “una formazione specifica”. Inoltre Delmastro, in riferimento alla presenza dei 15mila detenuti stranieri nelle galere italiane che costano 137 euro al giorno, ha preso una posizione chiarissima: “In ogni caso hanno rotto il patto di cittadinanza e non devono più pesare sulle tasche dei contribuenti italiani”. L’ipotesi per i tossicodipendenti - Il sottosegretario alla Giustizia ha sottolineato la necessità di partorire un’alternativa al carcere per quanto riguarda lo stato di tossicodipendenza, considerando che le carceri italiane hanno circa il 30% di detenuti legati a reati di droga. Non a caso ha parlato di una “rivoluzione” che andrebbe impostata con il terzo settore: l’ipotesi sul tavolo è quella di far scontare la pena, ovviamente entro certi limiti, nelle comunità di cura chiuse e protette “per dare a tutti la possibilità di rieducarsi”. Dunque la soluzione alla questione sovraffollamento potrebbe consistere pure nello spostamento dei detenuti tossicodipendenti nelle strutture private a loro dedicate. La proposta di Delmastro nasce dall’urgenza di cambiare prospettiva e si basa su un principio da comprendere: la priorità assoluta è la disintossicazione. “Per un tossicodipendente che ha commesso reati legati all’approvvigionamento economico per procurarsi la droga, il fine rieducativo della pena non sta nel fatto che conosca a memoria la Costituzione o abbia partecipato ad un ottimo corso di ceramica”, ha annotato. Già 10 suicidi e 25 morti tra i detenuti da inizio anno redattoresociale.it, 14 marzo 2023 Di Giacomo (Spp): “Si abbassa l’età dei detenuti suicidi. I più fragili sono i giovani, i tossicodipendenti e gli stranieri”. “In meno di due mesi e mezzo sono già 10 i suicidi di detenuti in carcere per 25 morti in totale di cui, per almeno una dozzina di casi, ci sono ancora da accertare le cause. Qualcuno ha dimenticato troppo presto o volutamente “rimosso” che nello scorso anno sono state 84 le persone che si sono tolte la vita all’interno di un istituto penitenziario italiano: numero record da quando si registra il dato (dal 2000)”. Lo afferma il segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria Aldo Di Giacomo. “I suicidi più recenti a Regina Coeli-Milano e in precedenza San Vittore Milano (detenuti di 31 e 21 anni) aggravano due tendenze manifestate nel 2022: si abbassa l’età dei detenuti suicidi (la media è over 40 con numerosi over 30) e il 40% dei decessi sono extracomunitari a riprova che i giovani, insieme ai tossicodipendenti e a quanti hanno problemi psichici e con essi i giovani stranieri sono i più fragili e vulnerabili. Purtroppo - dice Di Giacomo - in tutto lo scorso anno abbiamo ascoltato solo impegni politici e dichiarazioni di vecchi e nuovi parlamentari ed esponenti di governo senza passare dalle parole di commozione (in qualche caso anche sincera) o generiche e di circostanza, quasi sempre le stesse, ai fatti. Sino al punto di produrre una sorta di assuefazione e ridurre il suicidio in cella a poche righe in pagina di cronaca locale perché non fa più notizia. Con il nuovo anno ci aspettiamo che i buoni propositi per stoppare la “mattanza di Stato”, di quello Stato che ha in custodia vite umane e dovrebbe quindi garantirle, non facciano la fine di quelli del 2022. Anche gli annunci per la costruzione di nuovi padiglioni lasciano il tempo che trovano mentre il ministro Nordio sta pensando al recupero di vecchie caserme, idea non nuova che richiede comunque soldi e tempi non brevi di realizzazione”. “Questa mattanza silenziosa deve finire con misure e azioni concreti perché lo Stato ha in carico la vita dei detenuti e ne risponde - prosegue Di Giacomo. Si ascoltino le proposte del sindacato di polizia penitenziaria che quotidianamente si misura con l’emergenza suicidi e si metta mano alla manovra di bilancio rimediando al taglio di spesa imposto all’Amministrazione penitenziaria e al personale come primo segnale concreto di volontà di affrontare le numerose emergenze del carcere”. Dap-Cassa Ammende, formazione professionale detenuti gnewsonline.it, 14 marzo 2023 Al via 17 progetti di formazione professionale certificata e per tirocini lavorativi: coinvolgeranno 316 detenuti, per un investimento complessivo di quasi 800mila euro. Sono stati deliberati nei giorni scorsi dal Consiglio di amministrazione di Cassa delle Ammende, nell’ambito di un Piano per la formazione professionale certificata e per l’ampliamento delle opportunità di lavoro professionalizzante avviato insieme al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. I corsi approvati - tutti certificati - riguardano le qualifiche professionali di sarto, elettricista, operatore di impianti termoidraulici, cuoco, operatore di accoglienza museale, operatore edile, pizzaiolo, operatore di panificazione e produzione pasta, operatore di pulizie industriali e grandi ambienti, ceramista, pasticciere, tappezziere e operatore per archiviazione e digitalizzazione documenti. La scelta della tipologia di corsi da realizzare è stata effettuata direttamente dagli istituti penitenziari sulla base di indagini di mercato effettuate sul territorio di riferimento, al fine di incrementare nuovi laboratori e opifici o valorizzare quelli esistenti. L’iniziativa si pone in linea di continuità con il Programma nazionale 2022-2024 per l’inclusione sociale delle persone in esecuzione penale, promosso dalla Cassa e per il quale è stato previsto uno stanziamento complessivo di 20 milioni di euro. L’azione di sistema prevede la copertura su tutto il territorio nazionale di interventi per migliorare le condizioni di detenzione e favorire il reinserimento socio-lavorativo delle persone in esecuzione penale, al fine di ridurre la recidiva e migliorare la sicurezza e la coesione sociale. Processo penale, al via l’esame del correttivo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 marzo 2023 È partita alla Camera la discussione sul disegno di legge di modifica della riforma del processo penale. Riforma che entrata in vigore il 30 dicembre è stata subito bersagliata da polemiche e contestazioni. tanto da avere spinto il Governo a intervenire, seppure non con l’urgenza di un disegno legge. In particolare, l’intervento corregge punti cruciali sul versante delle nuove condizioni procedibilità che hanno fatto diventare necessaria la querela per alcuni reati. Dove a non convincere c’è stata la sottovalutazione della forza intimidatrice delle organizzazioni criminali, soprattutto in alcuni contesti del Paese. Così, il disegno di legge reintroduce la procedibilità d’ufficio in tutti quei casi in cui a essere contestata è l’aggravante mafiosa o di terrorismo. Per quanto riguarda invece l’arresto obbligatorio in flagranza di reato, la proposta di legge lo prevede per i reati procedibili a querela, anche se quest’ultima non è stata ancora presentata; necessaria però la sua presentazione entro le 48 ore dall’arresto, nel caso in cui la vittima non risulta subito reperibile. Scaduto questo termine e se la persona offesa dichiara di rinunciare o rimette la querela, l’arrestato viene rimesso subito in libertà. Grazie a un emendamento approvato in commissione Giustizia, quando l’arresto obbligatorio è effettuato in flagranza di reato, ma manca ancora la querela della persona offesa, a venire sospeso è anche il giudizio direttissimo. Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria che hanno proceduto all’arresto sono tenuti, comunque, ad effettuare tempestivamente ogni utile ricerca della persona offesa. Nel caso in cui la persona offesa è presente o rintracciata, la querela può essere proposta anche in forma semplificata. Per il delitto di lesione personale la procedibilità d’ufficio è reintrodotta se commesso commessi da persona sottoposta a una misura di prevenzione personale. Forza Italia con Nordio: “Limiti al carcere preventivo”. Le ambiguità di FdI di Ermes Antonucci Il Foglio, 14 marzo 2023 “Il ricorso alla custodia cautelare deve rappresentare l’extrema ratio”, dice al Foglio Pietro Pittalis, vicepresidente della commissione Giustizia alla Camera (FI), commentando le parole di Nordio. Il partito di Meloni resta avvolto nelle contraddizioni. Forza Italia dice “sì” ai propositi di riforma della giustizia espressi dal Guardasigilli Carlo Nordio alla Lse a Londa e rivelati sabato scorso sul Foglio, in particolare l’obiettivo di limitare la carcerazione preventiva. “Mi ha fatto piacere leggere le dichiarazioni di Nordio perché noi di Forza Italia abbiamo anticipato con una nostra proposta di legge quanto il ministro ha auspicato”, ci dice Pietro Pittalis, deputato di Fi e vicepresidente della commissione Giustizia alla Camera. In effetti, Pittalis è il firmatario di un progetto di legge che va proprio nella direzione indicata da Nordio: “Limitare al massimo le possibilità che una persona venga incarcerata prima di essere processata e condannata, salvo casi di flagranza”. La proposta di Fi intende affermare il principio secondo cui il ricorso alla custodia cautelare debba rappresentare l’extrema ratio, in primo luogo imponendo ai giudici di accogliere le richieste dei pm evidenziando in concreto il carattere della “specificità” e di “oggettività” degli elementi a supporto dell’istanza cautelare. “Nel corso degli anni - afferma Pittalis - abbiamo visto molti magistrati, ovviamente non tutti, affidarsi a mere formule di stile per sostenere genericamente la sussistenza dei presupposti che legittimano la limitazione preventiva della libertà personale, cioè il pericolo di inquinamento delle prove, il pericolo di fuga e il pericolo di reiterazione del reato. Il progetto di legge intende rendere la valutazione del giudice più stringente e fondata su condotte ed elementi concreti in capo alla persona indagata o imputata”. La proposta di legge di Pittalis prevede anche un altro punto auspicato da Nordio, cioè che a esprimersi sulle richieste di arresto dei pm non sia più un solo giudice ma un “pool” di giudici: “Le misure cautelari, incidendo su un bene fondamentale quale la libertà delle persone, devono essere assunte da un giudice collegiale - dichiara il deputato di Fi - Anche su questo ci troviamo in perfetta sintonia con la posizione di Nordio. Trovo assolutamente pertinente anche il riferimento alla flagranza del reato: abbiamo assistito a misure cautelari applicate anche a distanza di due o tre anni dalla commissione dei fatti. Ciò è assurdo, soprattutto quando parliamo di fatti che non destano particolare allarme sociale”. Sul tema della limitazione della carcerazione preventiva, Fratelli d’Italia si mostra molto più cauta e reagisce alle parole di Nordio con il solito refrain: “Sono idee personali”. Diversa la posizione di Pittalis: “È chiaro che Nordio non parla da ex magistrato ma da ministro della Repubblica italiana. Sui temi della giustizia c’è un preciso impegno di tutte le forze della maggioranza per riforme che ripristino lo stato di diritto e che superino la stagione dell’oscurantismo manettaro dei Cinque stelle. Nordio fa sintesi del percorso della maggioranza”. Del resto, fino a poco tempo fa Fdi sembrava pensarla proprio come Nordio e gli alleati azzurri. Nell’ottobre 2018, alcuni tra i principali esponenti del partito di Meloni, come Edmondo Cirielli, Francesco Lollobrigida e Ciro Maschio (oggi presidente della commissione Giustizia alla Camera) presentarono una proposta di legge che mirava proprio a “rafforzare i presupposti per l’applicazione delle misure cautelari”, richiedendo in particolare valutazioni più approfondite da parte dei giudici: “A causa della superficialità nella valutazione dei presupposti - premetteva infatti la proposta - troppo spesso la magistratura cade in una sorta di automatismo nell’applicazione della custodia cautelare, tralasciando di riflettere adeguatamente sulla possibilità di applicare, nei casi specifici, altre misure restrittive meno lesive della libertà personale”. Lo scorso ottobre, il deputato di FdI Cirielli (divenuto nel frattempo anche viceministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale) ha depositato nuovamente la stessa proposta di legge. Evidentemente, però, alla linea garantista (almeno nella fase delle indagini) Meloni ora preferisce la linea securitaria, al solo fine di rassicurare il proprio elettorato. E pazienza se, come sottolinea la proposta di Cirielli, le carceri italiane siano “colme di persone ingiustamente detenute”. Nordio cerca di portare a casa la riforma della giustizia. Divisioni sul carcere preventivo di Pierpaolo La Rosa Il Tempo, 14 marzo 2023 Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, è al lavoro sulla riforma della giustizia. Si tratta di un altro fronte aperto, di uno dei cantieri che vedono impegnato l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni. Del resto, sin dal suo insediamento, anche nella fase di illustrazione alle Camere delle linee programmatiche del suo dicastero, il Guardasigilli ha ripetuto in tutte le salse l’intenzione di riformare un sistema che, a suo dire, così non va, tra inefficienze, storture e costi sempre più insopportabili, a danno della collettività, con inevitabili e pesanti ricadute in termini di Prodotto interno lordo. Progetti, come ribadito in più occasioni dal diretto interessato, da varare con il dialogo e con l’ascolto di tutte le componenti che fanno parte del sistema giustizia. Sono tre, in particolare, i versanti su cui si è concentrata l’attenzione di Nordio: la carcerazione preventiva, l’abuso d’ufficio ed il traffico di influenze illecite. Per quanto concerne il primo punto, l’obiettivo del responsabile del ministero di via Arenula è quello di porre un vero e proprio freno, un limite, all’abuso dell’utilizzo dello strumento della custodia cautelare. Il disegno che ha in mente l’esponente dell’esecutivo prevede che a decidere sulle misure relative alla detenzione preventiva ci debba essere un collegio, composto presumibilmente da tre membri, impegnato a formulare un giudizio adottato a maggioranza, e non più una sola persona, rappresentata dal giudice monocratico. A sostegno di Nordio c’è Forza Italia, ma anche quel Terzo polo, che da sempre è estremamente sensibile sull’argomento. Chi potrebbe, invece, mettere più di qualche bastone tra le ruote ad un simile intervento è Fratelli d’Italia, il partito di cui Nordio è in qualche modo espressione. Il timore che serpeggia, infatti, in diversi esponenti di FdI, è quello di ridare slancio allo scontro tra politica e magistratura. Quello scontro che ha caratterizzato, con momenti anche di feroce contrapposizione, la vita istituzionale italiana dal 1994 in poi. Gli altri due temi, delicati, su cui il ministro della Giustizia vuole lanciare un segnale importante sono l’abuso d’ufficio, con l’auspicio di eliminarlo una volta per tutte, ed il traffico di influenze illecite, con il fine di cambiarlo in profondità. Sullo sfondo, poi, c’è la separazione delle carriere tra magistratura giudicante e requirente, che richiede una modifica di carattere costituzionale, e che è un altro storico cavallo di battaglia di Nordio. Propositi decisamente ambiziosi, dunque, su cui la maggioranza di centrodestra è chiamata ad una prova, non semplice, all’insegna della sintesi e della compattezza. Oltre ai dubbi sollevati da alcuni rappresentanti di Fratelli d’Italia, c’è da segnalare l’atteggiamento della Lega, che è in una posizione di attesa. Qualche indicazione, sul terreno della giustizia, dalle forze politiche della coalizione di governo, potrà arrivare già dalle prossime ore. In Aula, a Montecitorio, proseguirà l’esame del disegno di legge, presentato dal Guardasigilli in persona, recante norme in materia di procedibilità d’ufficio e di arresto in flagranza, e delle tre mozioni, depositate rispettivamente da Forza Italia, dalla Lega e da Noi moderati, concernenti iniziative di competenza in materia di processo penale in relazione al rispetto dei principi costituzionali. Mozioni che impegnano l’esecutivo ad adottare interventi normativi volti, guarda caso, a disciplinare e riformare la custodia cautelare, i reati di abuso d’ufficio e di traffico di influenze illecite, e pure le intercettazioni, “onde evitarne l’abuso”. Riforma custodia cautelare, Ocf: “Pieno sostegno a Nordio” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 marzo 2023 “Un paese moderno e civile non può detenere nelle sue carceri circa un terzo di persone in attesa di giudizio perché a quel punto la misura custodiale esorbita dalla sua funzione e diviene una anticipazione di pena, senza però sapere come andrà il processo”. Lo scrive in una nota l’Organismo congressuale forense. L’Avvocatura, ricorda l’Ocf, invoca da tempo una riforma risolutiva in tema di custodia cautelare, che la limiti ai reati più gravi, eliminando così quella che appare l’“anomalia italiana” che vede ristretti un gran numero di indagati o imputati, in attesa di giudizio, rispetto agli altri ordinamenti europei. Ragione per cui “la proposta del Ministro sul punto, di affidare l’adozione dell’ordinanza custodiale ad un Collegio e non al Gip, appare assolutamente condivisibile”. La modifica, prosegue la nota dell’Ocf, “coglierebbe sicuramente nel segno, in quanto la scelta di affidarsi ad un organo collegiale per la decisione è sicuramente la più idonea, sia in considerazione del fatto che si decide della libertà personale degli individui e sia per garantire un giudizio più autonomo e meno condizionato alle richieste dell’accusa”. Intanto sul fronte carcere arriva la proposta del Sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro di mettere tossicomani in comunità protette loro dedicate. L’idea è stata lanciata dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, in un’intervista al Messaggero. Un’iniziativa “condivisa” dal governo, spiega, e soprattutto dal ministro Carlo Nordio, che nasce dall’intenzione “sempre rivendicata da Giorgia Meloni di raggiungere non solo la certezza della pena ma anche un’offerta di maggiori garanzie ai cittadini”. “Sto lavorando ad un provvedimento che immagina di coinvolgere il terzo settore, quelle comunità chiuse in stile Muccioli (San Patrignano ndr), per costruire un percorso alternativo alla detenzione”, ha detto Delmastro. “Le carceri italiane sono ampiamente sovraffollate. Secondo gli ultimi dati - risalenti a febbraio - a fronte di una capienza regolare di 51.285, i detenuti sono 56.319. E di questi, stando alla relazione annuale al Parlamento, il 30% sono tossicodipendenti”, ha ricordato il sottosegretario, osservando che “serve un cambio di prospettiva”. “Sto limando i dettagli ma c’è totale condivisione. Il ministro Nordio è d’accordo”. “Però è un percorso da condividere con il terzo settore - ha aggiunto -. E con le Regioni che hanno la delega alla Sanità e dovranno certificare le cooperative e controllarne la gestione. Con loro e con la magistratura di sorveglianza aprirò un tavolo di dialogo”. “Il nuovo Pd si batta anche per il diritto alla giustizia giusta” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 14 marzo 2023 “La volontà unitaria espressa in assemblea fa ben sperare. Contro le disuguaglianze salario minimo e reddito universale. Sui migranti discontinuità rispetto alla linea dem degli ultimi anni”. Il nuovo Pd “targato” Elly Schlein. Le sfide, gli ostacoli. Il Riformista ne discute con Enza Bruno Bossio, già parlamentare Dem, neoeletta nella Direzione nazionale del Partito democratico. Ribaltando alle primarie il risultato tra gli iscritti, Elly Schlein ha conquistato la segreteria del Pd. Qual è a suo avviso il segno politico di questa scalata? Per la prima volta nella storia del Partito democratico non è stato confermato l’esito congressuale della votazione degli iscritti. Nella giornata delle primarie aperte, il 26 febbraio, abbiamo visto ai gazebo molti di quelli che in questi anni hanno dichiarato di non votare PD. La sfida che ha lanciato la segretaria con l’assemblea di domenica scorsa è quella di non interpretare questa partecipazione come una rivalsa verso il corpo del partito, ma come un processo di integrazione e “contaminazione” tra i militanti e una parte di quel popolo che vuole considerare il Pd la sua nuova casa. Da qui, bisogna convincersi, che diventa ancora più attuale il tema della riforma del partito, così come nel congresso abbiamo proposto con la mozione De Micheli. Esclude il rischio di uscite dal Pd? Rifondare il Pd non sembra comunque essere una strada in discesa per la neo segretaria... L’assemblea di domenica scorsa oltre che proclamare Elly Schlein segretaria, ha eletto presidente del partito Stefano Bonaccini ed ha riconosciuto il diritto di rappresentanza politica in Direzione nazionale alle mozioni dei candidati che non hanno partecipato alle primarie aperte, Cuperlo e De Micheli. È stata una manifestazione di forte volontà unitaria che si è espressa non attraverso la mediazione tra le correnti ma è maturata nel vivo di un confronto tra le posizioni ed i profili politici e culturali diversi che si sono misurati nel congresso. Un fatto che fa ben sperare nella capacità del Pd di saper lavorare per l’affermazione di un riformismo capace di tradurre l’antagonismo sociale in proposta politica di cambiamento. “Non vogliamo più vedere irregolarità sui tesseramenti, abbiamo dei mali da estirpare, non vogliamo più vedere capibastone e cacicchi vari. Su questo dovremo lavorare tanto insieme, ne va della credibilità del Pd, su cui non sono disposta a cedere di un millimetro”. È la “rivoluzione interna” promessa dalla neo segretaria... Una “rivoluzione interna” che nessuno può mettere in discussione. Il tema è come si realizza, e non soltanto si proclama, questo obiettivo. L’unica via è quella di avere non “correnti” ma aree di pensiero politico-culturale, sottoposte anch’esse a regole trasparenti e rigorose e non più strumenti per competere nella conta interna. Solo così si possono depotenziare i vari “cacicchi” ed i pacchetti di tessere e solo così il pluralismo potrà essere declinato senza che alcuno possa mai più riproporre espressioni quali “i miei e i tuoi” riferiti alla fidelizzazione correntizia. Il nuovo Pd e la capacità di fare opposizione ad una destra marcatamente identitaria su temi cruciali come quello della sicurezza. La Calabria, terra che lei conosce molto bene, ha vissuto una tragedia devastante come quella di Cutro. Questo giornale ha titolato: una strage di Stato... Sono stata contraria alla linea che il Partito Democratico ha espresso dal 2017 sui temi dell’immigrazione. E l’ho fatto con atti politici ufficiali, non votando, in parlamento, a favore del decreto “Minniti” e votando sempre contro il rifinanziamento della guardia costiera libica. Queste mie scelte, rivendicate pubblicamente, non nascono da posizionamenti ideologici o da contrapposizioni pregiudiziali. Ne sono convinta da sempre e ahimè la strage di Cutro lo ha fatto esplodere nelle coscienze di tutti. Il comportamento “anti istituzionale” e privo di ogni senso di umanità del governo Meloni ripropone in termini tragicamente attuali il ruolo della sinistra che Elly Schlein ha delineato nel suo discorso all’assemblea nazionale del PD. Considero pertanto un atto importante e interruttivo, della linea politica del PD della fase precedente, la sottoscrizione, da parte della nostra segretaria nazionale, della proposta di legge di iniziativa popolare “Ero Straniero”, per l’abolizione della Bossi-Fini. C’è chi ha letto, tra gli analisti politici più accorti, la vittoria di Schlein come una risposta al bisogno di identità. Identità è sinonimo di testimonianza? Di una purezza che non fa i conti con il governo della complessità? L’identità non è un fattore statico o ideologico, e ancor meno un ritorno al passato. È invece la capacità di essere una forza politica che vive il proprio tempo, e lo ama. Lo ama perché ne conosce i limiti (crisi climatica, distruzione delle risorse) ma anche le potenzialità (economia della conoscenza, dati, reti e connettività). E per affrontare la complessità costruisce nuove categorie capaci di interpretare un mondo che non è più quello del novecento, dove solo il lavoro indica la dignità delle persone, che invece hanno diritto ad una esistenza dignitosa, anche attraverso il diritto al reddito e alla valorizzazione delle competenze. Per questo credo che sia giusto intanto come propone la mozione De Micheli, passare dallo Statuto dei lavoratori allo Statuto dei lavori. Salario minimo e reddito universale: sono questi gli snodi per contrastare le nuove diseguaglianze sociali. Non si è ultimi per condanna divina ma perché il nostro mondo è ancora interpretato secondo una normalità che vede dominante (persino negli algoritmi dell’Intelligenza Artificiale) il modello maschio, bianco, produttivo. Oggi Elly Schlein parla di un partito femminista, non solo e non tanto come tutela di quote, ma come chiave interpretativa del mondo. È stata proprio la lotta femminista degli anni 70 ad insegnarci che non c’è contrapposizione tra diritti sociali e diritti individuali e che per affermare la propria esistenza nella diversità, bisogna puntare sulla liberazione piuttosto che sull’emancipazione. La segretaria è stata molto netta contro l’autonomia differenziata e la proposta di legge Calderoli… Condivido pienamente. L’idea del governo, sempre più di destra e sempre meno di centro, non va solamente nella direzione di accentuare la divisione del Paese tra Nord e Sud, tra aree forti e aree deboli, ma di cancellare l’universalità di diritti primari fondamentali. Bisogna invece eliminare i divari superando la suddivisione in base alla spesa storica, garantendo e finanziando i Livelli Essenziali di Prestazioni (LEP). Non si tratta di affermare nuove autonomie ma piuttosto bisognerebbe tornare indietro affidando, ad esempio, esclusivamente allo Stato e non più alle Regioni la programmazione e la gestione del Servizio Sanitario. Nella sua esperienza parlamentare, lei ha avuto molto a cuore i temi legati ad una giustizia giusta. Come dovrebbe declinarla il nuovo Pd? Il nuovo Pd profilato dalla Schlein nell’assemblea Nazionale mette insieme diritti civili e diritti sociali. Ma se si vuole declinare in maniera coerente questa linea non si può non assumere il tema della giustizia giusta come uno dei diritti fondamentali del cittadino. Prima di tutto affermare il principio del pieno riconoscimento del diritto di ciascuno alla presunzione d’innocenza fino a sentenza passata in giudicato e tutelare la dignità della persona dalla gogna mediatica; riaffermare lo stato di diritto attraverso il rispetto di un effettivo equilibrio tra i poteri dello Stato; garantire la piena e coerente applicazione dei principi costituzionali, anche nella parte dell’art.27 sui trattamenti umanitari e sulla rieducazione della pena. Nel dibattito politico italiano il tema, drammatico, della guerra che da oltre un anno sconvolge l’Ucraina, sembra entrare solo in termini di polemica interna. La grande assente è l’Europa. E il prossimo anno si voterà per il rinnovo del Parlamento europeo. Tutti si dichiarano europeisti, ma come il “nuovo Pd” dovrebbe sostanziare questa “etichetta” in tempi di guerra? Credo sia giusto che insieme alla esigenza degli aiuti militari all’Ucraina per ripristinare la sovranità territoriale di Kiev, ci sia un nuovo protagonismo dell’Unione Europea. Il “nuovo PD” dovrà essere capace di interpretare la propria funzione in un mondo che oggi si presenta attraverso uno schema sempre più multipolare, non più diviso in blocchi militari contrapposti. Stare dalla parte dell’Ucraina e al contempo costruire un percorso di pace e di fine della guerra. Le prossime elezioni europee saranno il banco di prova al fine di contrastare la strategia delle forze conservatrici e sovraniste e costruire nuovi equilibri in una Europa che, con una più forte identità unitaria, possa diventare protagonista attiva nell’alleanza atlantica. Il caso Cospito e le manifestazioni di piazza di Gian Giacomo Migone Il Manifesto, 14 marzo 2023 Se lo schema si ripete: cresce l’opposizione pacifica al governo mentre si sviluppano forme di opposizione violenta che restringono gli spazi democratici. In giorni non lontani, un compatto schieramento istituzionale - dal governo Meloni alla Suprema Corte di Cassazione - ha respinto ogni tentativo di disapplicare il regime di detenzione definito dal 41 bis ad Alfredo Cospito, già debilitato dallo sciopero della fame in atto, con motivazioni di principio soprattutto legate all’autorità dello Stato e meno attinenti alla ratio di quella norma che ha lo scopo specifico di impedire collegamenti criminosi dal carcere. L’argomento tornerà all’ordine del giorno, anche se il ricorso in atto alla Cort europea dei diritti dell’uomo potrebbe attenuarlo. Mi sono tornate in mente le durissime parole con cui Luigi Pintor condannò la così detta linea della fermezza che, escludendo ogni trattativa con i rapitori di Aldo Moro, ne segnò il destino. Egli colse prontamente il senso profondo di quella politica, denunciando il comportamento dello stato, che chiamò “smandrappato e scorreggione” e che si comportava, invece, come se fosse quello prussiano, all’epoca di Federico II. Perché mi sono venute in mente queste parole e sento il bisogno di citarle, malgrado vi sia finalmente giusto motivo per festeggiare a sinistra il profilarsi di un’opposizione più incisiva e più unita al governo? Quella decisione alimenta in misura evidente le iniziative delle forze c.d. anarco-insurrezionaliste che da mesi producono atti di violenza di piazza, con il sicuro effetto di rendere di più difficile attuazione e gestione altre democratiche e pacifiche manifestazioni di cui sentiamo crescente bisogno. Esattamente ciò che è avvenuto nei giorni scorsi, culminando (per ora) nell’esibizione, davanti al liceo classico Carducci di Milano, di uno striscione che ritraeva membri di governo appesi a testa in giù, con un evidente richiamo a Piazzale Loreto, e con la ripetizione di atti di violenza - non è la prima volta, proprio a Torino - contro negozi ed oggetti privati, giustamente condannati da Elly Schlein. Testimoni oculari hanno denunciato, in questa occasione, la passività delle forze dell’ordine presenti (cfr. La Stampa 5.3.23). Esattamente come avvenne su più larga scala, nella prima giornata del fatidico G8 di Genova, quando i violenti in campo, i così detti black bloc furono lasciati liberi di mettere a fuoco e fiamme la città, mentre la repressione violenta da parte dello Stato - anche in questa occasione era appena stato insediato un governo di destra - il giorno successivo fu riservata a manifestanti sicuramente militanti, ma assolutamente pacifici. Ne deriva uno schema politico, con radici nella storia tormentata della nostra Repubblica, che risponde a leggi di rapporto tra causa ed effetto - il cui prodest ciceroniano - senza fare ricorso ad ipotesi cospiratorie, possibili ma, per loro natura, difficilissime da dimostrare. Facciamo attenzione a questa successione di eventi: cresce l’opposizione democratica al governo del Paese; parallelamente si sviluppa una forza organizzata con forme di opposizione violenta, in taluni casi dimostratamente infiltrate; le autorità costituite ne consentono la crescita, talora con un atteggiamento passivo delle forze dell’ordine di fronte ad atti palesi di violenza; in momenti critici salienti, intervengono divieti che incrementano l’aggressività dei violenti e colpiscono libere manifestazioni di opposizione democratica. La violenza, priva di sbocchi, stabilizza e, in parte, rilegittima il potere costituito a spese dell’opposizione democratica. Poiché questo schema di comportamenti si è ripetuto, in forme più o meno tragiche, nel corso degli ultimi cinquant’anni, occorre vigilanza nel difendere lo stato di salute delle istituzioni democratiche, tenendo presente il manifestarsi di un doppio stato - di cui uno gestito in forme incontrollate in parallelo a quello costituzionale - secondo quanto analizzato da Franco De Felice (cfr. Doppia lealtà e doppio Stato, in “Studi Storici”, n.3, 1989) e negli ultimi scritti da Norberto Bobbio (cfr., ad es., La democrazia e il potere invisibile, in “Italian Political Science Review”, vol. 10, issue 2, August 1980, pp.181-203.) e ripreso nell’intervento di Roberto Scarpinato al Senato, in occasione dell’insediamento del governo Meloni. Genova. “Spostare altrove il carcere di Marassi? Non è in programma” di Fabio Canessa genova24.it, 14 marzo 2023 Il sottosegretario Delmastro in visita al penitenziario genovese: “Il problema è il sovraffollamento, interverremo su stranieri e tossicodipendenti”. “Onestamente, per il momento, non è minimamente in programma uno spostamento del carcere di Marassi né è in previsione”. Così il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, oggi in visita al penitenziario genovese, stronca l’ipotesi di un trasferimento della struttura in un’altra zona, idea caldeggiata in passato anche dalla giunta Bucci per riqualificare il quartiere. Delmastro Delle Vedove, esponente di Fratelli d’Italia e fedelissimo di Giorgia Meloni, ha fatto tappa oggi in Liguria nell’ambito del suo tour tra le carceri italiane. Ad accompagnarlo i vertici locali del partito, tra cui il commissario ligure e deputato Matteo Rosso, il capogruppo in Regione e coordinatore provinciale Stefano Balleari, l’assessore comunale alla Sicurezza Sergio Gambino. Dopo l’incontro a Marassi coi sindacati della polizia penitenziaria la giornata è proseguita a Pontedecimo e quindi a Chiavari, dove il tema caldo è la possibile riapertura del tribunale chiuso dal 2013. “Marassi è un istituto particolarmente complesso che soffre di un particolare sovraffollamento, dato da una presenza particolarmente significativa di detenuti stranieri, ed è un istituto che è diversi circuiti detentivi - ha continuato Delmastro parlando coi giornalisti al termine della visita -. Il problema degli spazi è determinato dal sovraffollamento, dobbiamo contrastare quello. Non vi sono altre soluzioni. Le linee guida sono facili e trovano traccia nella finanziaria: abbiamo messo 84 milioni di euro per nuovi padiglioni di edilizia penitenziaria, ovviamente non qui, ma da qua potranno essere sfollati. A Marassi ci sono 704 detenuti su 550 posti previsti: evidentemente bisogna operare sugli stranieri e sui tossicodipendenti”. Due, quindi, le strade che il Governo intende seguire, a Marassi come negli altri penitenziari italiani. La prima riguarda i rimpatri dei detenuti stranieri: “Abbiamo il tema del previo consenso del detenuto, ma con Romania e Albania si può già fare perché abbiamo fatto trattati bilaterali in questo senso. Faremo partire una circolare perché tutti i detenuti albanesi e romeni possano essere tradotti nelle patrie galere di competenza senza il previo consenso - annuncia Delmastro a Genova -. Stiamo lavorando con molti Paesi stranieri per avere il trasferimento del detenuto senza previo consenso. Abbiamo 15mila detenuti stranieri nelle patrie galere, costano 137 euro al giorno. Chi è in galera straniero in Italia o è dentro per una pluralità di reati e condanne o per un reato gravissimo. In ogni caso ha rotto il patto di cittadinanza e non deve più pesare sulle tasche dei contribuenti”. Più misure alternative? “Assolutamente no”, chiarisce Delmastro, ad eccezione di “una misura alternativa importante alla quale io credo, e cioè quella legata allo stato di tossicodipendenza. Le carceri italiane hanno un 30% di detenuti legati a reati di tossicodipendenza. Credo sia importante immaginare col terzo settore una rivoluzione, cioè che si possa scontare la pena, entro certi limiti edittali, presso le comunità di cura chiuse, protette, stile San Patrignano, per dare a tutti la possibilità di rieducarsi per davvero. Io non sono contro la rieducazione, ma quando mi sento dire che, se faccio un corso da ceramista e rimango tossicodipendente sono rieducato, qualche dubbio ce l’ho. La prima rieducazione è rieducare il tossicodipendente”. E se per Marassi tramonta (almeno per oggi) l’ipotesi di un trasloco, in Liguria un altro problema riguarda il Ponente: “Dobbiamo capire perché Savona come provincia non sia dotata di una struttura penitenziaria, all’epoca chiusa perché fatiscente - ricorda Delmastro -. Su questo c’è l’interesse a cercare di capire se si può lavorarci anche se è un fatto che abbiamo scoperto ed ereditato da poco, ma credo che Savona debba avere, come tutte le altre province d’Italia, la sua struttura penitenziaria”. Il sottosegretario ha ribadito la promessa di assegnare a tutti i 190 penitenziari un direttore entro dicembre e un comandante della polizia penitenziaria entro marzo 2024. Previsto anche un programma straordinario di assunzioni: “Abbiamo 1.479 allievi che stanno terminando il corso adesso, 1.758 che iniziano il corso adesso, 1.500 avranno un corso nel 2023, mille extra assunzioni sono state indicate in questa finanziaria. Stiamo parlando complessivamente di 5-6 mila persone”, ha spiegato Delmastro. Tra le novità anche “la costituzione di gruppi di pronto intervento per sedare le sommosse sul modello francese: quando a dicembre atterreranno 190 direttori per 190 istituti avremo la forza e la capacità di conoscere il detenuto anche nel momento della rivolta e quindi di intervenire, a volte anche anticipatamente, per contenerle. Ci saranno strumenti sanzionatori precisi per i detenuti che aggrediranno le forze dell’ordine. E forniremo loro protocolli operativi”. Confermati gli spiragli sul tribunale di Chiavari: “Non si può con un tratto di penna cancellare quello che hanno fatto gli altri in passato. Chiavari ha un tribunale modernissimo, 14 milioni di euro, che non ha fatto in tempo ad aprire e lo hanno chiuso. Bisogna avere, come si sta facendo in altri territori, la capacità non di ricostruire il tribunale di Chiavari, ma di immaginare il tribunale del Tigullio, allargando la competenza territoriale, facendo un patto coi tribunali limitrofi e gli enti territoriali. Certamente è intenzione di questo governo rivedere l’infausta revisione della geografia giudiziaria per arrivare a una maggiore giustizia di prossimità, come chiede peraltro l’Europa”, ha concluso il sottosegretario. Reggio Calabria. “Il ricordo lascia il segno”, le scuole ricordano le vittime della ndrangheta strill.it, 14 marzo 2023 In preparazione alla giornata nazionale della memoria delle vittime innocenti delle mafie del 21 marzo è stato programmato da Agape, associazione Pesce Rosso e Libera un momento di incontro e di riflessione rivolto soprattutto ai bambini ed a ragazzi delle scuole. Il luogo significativo scelto è Piazza Castello, dove dieci anni fa è stato realizzato uno spazio che attraverso delle opere in legno a forma di fiori che ricordano alcune delle vittime calabresi, tra queste anche bambini che hanno pagato con la vita la ferocia di una criminalità organizzata che non fa sconti a nessuno. Il ricordo lascia il segno è il tema scelto dai promotori dell’incontro per inviare il messaggio che fare memoria ha senso solo se riesce a scuotere le coscienze, se spinge all’impegno quotidiano, ad una mobilitazione di coscienze collettiva per contrastare la cultura della violenza e dell’indifferenza e dela mentalità mafiosa. Un impegno che deve vedere i ragazzi i loro insegnanti protagonisti di questa rivoluzione culturale. L’adesione all’iniziativa che si terrà il 17 marzo alle ore 10,30 di tante scuole è un segno di questa attenzione del mondo scolastico reggino a questo tema, una conferma dello sforzo educativo che stanno producendo attraverso una nuova didattica ed in particolare con l’investimento nella educazione civica che è entrata a pieno titolo nel percorso formativo. Lo spazio, compreso il verde, è stato restaurato dalle associazioni che hanno programmato l’evento, gli interventi sono stati curati da Nazareno Scarfò, Rosi Florio, dal settore cinque della città metropolitana diretto da Nuccio Battaglia e dai giovani volontari di servizio civile di Agape Danilo Avila, Alice Pizzi, Ilaria Spadaro, Eleonora De Blasio. Saranno presenti alla manifestazione, assieme ad autorità civili e religiose, delle rappresentanze di studenti degli istituti comprensivi Galileo Galilei, De Amicis, Lazzarino, delle scuole secondarie Convitto Tommaso Campanella, Istituto Raffaele Piria, ITC Panella-Vallauri, Liceo Classico Campanella, Liceo scientifico Leonardo da Vinci, Istituto Magistrale Tommaso Gullì, Boccioni Fermi L’idea di un elenco di tutte le vittime innocenti delle mafie, nasce con Libera, dal suo presidente don Luigi Ciotti e da una madre, Saveria Antiochia, madre di Roberto, un poliziotto che accompagnò, per amore e per dovere, nel suo ultimo giorno di vita un altro poliziotto. Con gli stessi sentimenti e con senso di responsabilità verso una memoria che non doveva essere retorica celebrazione, ma seme di impegno, Saveria suggerì di raccogliere tutti nomi delle vittime, anche le più sconosciute che ogni 21 marzo vengono letti in tante città del nostro paese. Arezzo. Centro Sportivo Italiano, al via il progetto con il carcere arezzonotizie.it, 14 marzo 2023 Lezioni ai detenuti per svolgere attività sportive come tennis tavolo, fitness e calcio tennis. “Rieduchiamo con lo sport” è il nome del progetto che vede unire le sinergie del carcere di Arezzo con il Centro Sportivo Italiano - Comitato di Arezzo. Sabato 15 aprile ci sarà la prima giornata in cui i detenuti incontreranno gli istruttori del CSI per svolgere attività sportive come tennis tavolo, fitness e calcio tennis. “Un tris di sport a disposizione dei detenuti” - afferma il presidente del CSI di Arezzo, Lorenzo Bernardini. “Nel carcere San Benedetto di Arezzo con educatori e istruttori del nostro comitato per una prima occasione all’insegna dello sport, che si pratica tutti i giorni e in tutti i luoghi. Abbiamo svolto attività con oratori, nelle scuole primarie e per l’infanzia, per le strade e i quartieri della nostra città e adesso in carcere perché crediamo fermamente che lo sport debba essere praticato in ogni dimensione. Grazie all’intesa con la casa circondariale nelle figure del direttore e della dottoressa Papi, per aver creduto nel CSI e nel progetto. Mi auguro che una volta iniziato possa proseguire nel tempo”. “Lo sport riveste un ruolo fondamentale nella “rieducazione” del detenuto insieme al lavoro, l’istruzione ed alla religione, anche se è l’attività che più viene trascurata.” - dice il direttore del carcere di Arezzo, Giuseppe Renna. “Grazie alla collaborazione con il CSI riusciremo a concretizzare questo principio con una giornata dedicata allo sport a cui seguiranno delle attività più strutturate. Infatti, solo attraverso gli interventi del terzo settore e più in generale della parte migliore della società civile è possibile trasformare il carcere in un luogo in cui il ristretto può modificare i suoi comportamenti devianti e, una volta scontata la pena, ritornare ad essere un cittadino a pieno titolo”. Potenza. “Teatro Oltre i Limiti Open” di Compagnia Teatrale Petra porta l’opera lirica nel carcere basilicataturistica.it, 14 marzo 2023 Un workshop per i detenuti a cura della Compagnia L’Albero e di Universa Musica con il Coro Unibas si svolgerà dal 20 al 24 marzo all’interno della Casa Circondariale A. Santoro. In arrivo la seconda tappa dell’azione “Teatro Oltre i Limiti Open”, una serie di appuntamenti organizzati in partenariato con soggetti culturali regionali e nazionali e inseriti nella programmazione della quarta edizione di “Teatro Oltre i Limiti”, la rassegna di promozione del teatro in carcere della Compagnia teatrale Petra con la Casa Circondariale “Antonio Santoro” di Potenza. Dopo l’azione “Artisti in Transito” con i danzatori Manfredi Perego e Annamaria Ajmone e dopo i concerti di Ateneo Musica Basilicata, la Casa Circondariale di Potenza grazie a “Teatro Oltre i Limiti” continua ad aprirsi alla rete culturale locale e nazionale, fornendo opportunità di approfondimento e formazioni intensive nell’ambito del percorso formativo di pratica delle discipline artistiche che porterà i detenuti alla realizzazione di uno spettacolo finale a giugno. Dal 20 al 24 marzo 2023 si terrà un workshop condotto da Alessandra Maltempo e Vania Cauzillo, direttrici artistiche della Compagnia teatrale L’Albero, in collaborazione con l’associazione Universa Musica e il Coro polifonico dell’Università di Basilicata diretto da Paola Guarino, che sarà fruibile ai detenuti che partecipano al laboratorio di teatro e danza in carcere di Petra e ad una rappresentanza del Coro dell’Università degli Studi della Basilicata. Venerdì 24 marzo 2023, ultimo giorno di workshop, dalle ore 15.00 alle 16.00 con ingresso alle 14.30, sarà possibile assistere ad una lezione aperta al pubblico esterno. Per partecipare è necessario inviare, entro e non oltre il 9 marzo 2023, una mail a: progettipetra@gmail.com allegando il proprio documento di identità per i necessari controlli previsti per l’accesso nella Casa Circondariale. Nel corso del workshop della compagnia L’Albero in collaborazione con il Coro Unibas, sarà utilizzato il metodo “Community Opera” per permettere ai detenuti di fare esperienza dell’uso della voce e del linguaggio della musica in funzione drammaturgica, creando narrazioni personali ispirate da un repertorio di composizioni classiche. Testimone d’eccezione del lavoro svolto da Petra nel penitenziario lucano sarà Valeria Ottolenghi, critico teatrale e direttrice artistica della rassegna “Destini incrociati” del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, in vista di una pubblicazione a cura di Ornella Rosato (Theatron 2.0) con il contributo di Alessandro Toppi (La Repubblica). La Compagnia teatrale L’Albero è un collettivo artistico che si occupa professionalmente di formazione e produzione in campo teatrale e di ideazione e realizzazione di progetti nazionali e internazionali di innovazione sociale e culturale. Attraverso il format Community Opera sperimenta la co-creazione con le comunità per la promozione del linguaggio dell’opera su temi quali l’inclusione, l’accessibilità e l’innovazione sociale. Il Coro Unibas è composto in gran parte da dipendenti e docenti dell’Università della Basilicata, oltre che da ex studenti e studenti in corso. Dal 2016 si è costituito in forma associativa autonoma, all’interno dell’associazione Universa Musica, sotto l’egida dell’Università della Basilicata. Presidente delegato dal rettore è dal 2022 il professor Vito Telesca. Dal 2017 il coro è diretto da Paola Guarino, diplomata al conservatorio di Potenza e già attiva come professionista nel campo; la direzione artistica è invece affidata a Dinko Fabris, docente di storia della musica dell’Università della Basilicata. “Teatro Oltre i Limiti” è un’attività di teatro sociale in carcere promossa dalla Compagnia teatrale Petra con la stretta collaborazione della direzione della Casa Circondariale di Potenza, dott.ssa Maria Rosaria Petraccone, del comandante Giovanni Lamarca e dell’area sicurezza e trattamentale del carcere. Da ottobre 2022 e fino a giugno 2023, i detenuti della sezione maschile della Casa Circondariale di Potenza sono impegnati in un percorso formativo di pratica delle discipline teatrali e della danza, attraverso un laboratorio condotto da Antonella Iallorenzi, esperta in teatro sociale, e Mariagrazia Nacci, coreografa e danzatrice. “Teatro Oltre i Limiti” è un progetto prodotto dalla Compagnia teatrale Petra, con il contributo di Otto per Mille Valdese dell’Unione delle Chiese Metodiste e Valdesi e della Fondazione Banco di Napoli, il partenariato della Casa Circondariale di Potenza, il sostegno del Fondo Etico della BCC Basilicata e la collaborazione del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, del Festival Città delle 100 scale di Potenza, dell’Ateneo Musica Basilicata, della Compagnia Teatrale L’Albero, di UniversaMusica e di Multietnica. La direzione artistica è di Antonella Iallorenzi, la direzione tecnica di Angelo Piccinni. La pigrizia del proibizionismo: insegnare è faticoso, punire è facilissimo di Michele Serra La Repubblica, 14 marzo 2023 Ha ragione il sottosegretario Mantovano quando dice che “tutte le droghe fanno male”. Dice il vero. Fanno male gli oppiacei, le anfetamine, la cannabis, la nicotina, il vino, l’amaro anche se dei frati. Fanno male l’abuso di farmaci, gli eccessi alimentari, gli insaccati, le cene grevi, gli strapazzi erotici, l’inattività fisica, il tirar mattina, fa male la vita irregolare, fanno male molti amori e molto spesso, a fare male, è la vita stessa. Ma fa ancora più male vietare per legge questi mali, illudersi di eliminarli ammanettandoli. Tanto è vero che neppure il più ottuso o severo dei legislatori si sognerebbe di proibire il vino, le sigarette, i cibi grassi, gli zuccheri, l’abuso di farmaci, solo perché “fanno male”. I comportamenti sani si possono solo suggerire, magari sulla base di qualche informazione scientifica attendibile e di una buona politica scolastica; ma imporli per legge equivale a trattare i cittadini da bambini (come fanno le dittature) e a ingrassare il mercato nero ad ogni nuova proibizione. Quando si dice che la virtù non si può imporre per decreto non lo si dice perché si è favorevoli al vizio. Ma perché si considera che lo Stato non debba illudere se stesso, e i cittadini, che il vizio sia estirpabile con un così banale espediente, un “no!” gridato come quello che si grida al cane o al gatto quando si avvicinano all’arrosto. L’educazione, l’amor proprio, la disciplina, la continenza, il senso della misura non sono cose che si impongono, sono cose che si insegnano. Per questo il proibizionismo ha effetti catastrofici: perché è pigro. Insegnare è faticoso, punire è facilissimo. L’immigrato reso criminale di Michele Ainis La Repubblica, 14 marzo 2023 Ogni tragedia dovrebbe impartirci una lezione. Quella di Cutro (79 vittime, fra cui 24 bambini) rinnova viceversa i cattivi insegnamenti del passato. Con il decreto legge n. 20 del 10 marzo - l’ennesima stretta sull’immigrazione. Crimmigration, la definisce Judith Resnik, docente all’università di Yale: la criminalizzazione dell’immigrato irregolare. Una storia punteggiata da interventi normativi sempre più fitti, e giocoforza più confusi, che lascia gli immigrati alla mercé di chi dovrà applicarli. Tanto che interrogando sul termine “straniero” Normattiva (la banca dati dello Stato che contiene le norme in vigore) vengono fuori 1.044 risultati; e 305 digitando “immigrazione”. Ma il timbro di tutto questo concerto normativo è univoco, ed è un timbro repressivo. Le prove? Si leggono nella Gazzetta ufficiale. La legge Martelli del 1990 e la Turco-Napolitano del 1998 usavano già il bastone, benché quest’ultima garantisse agli stranieri “i diritti fondamentali della persona umana”. Poi, nel 2002, entra in vigore la legge Bossi-Fini, che immediatamente diventa la seconda causa d’arresti in città, dopo il furto ma prima dei reati legati al traffico di droga o alle rapine. Quella legge - unica in Europa - brevetta infatti il reato di immigrazione clandestina; commina l’arresto per chi dia lavoro a un extracomunitario irregolare; e per sovrapprezzo impone agli stranieri l’obbligo di lasciare le proprie impronte digitali negli uffici di polizia. Succede pure agli italiani, ma solo quando varcano i cancelli d’un penitenziario; quindi da allora in poi il nostro Stato considera ogni straniero un criminale. Successivamente, nel 2008, il governo Berlusconi vara il primo “pacchetto sicurezza”, che introduce l’aggravante della clandestinità: se a rubarmi dentro casa è un clandestino, il suo furto vale doppio, merita un doppio castigo. Nel 2009 la legge Maroni aggiunge il reato di clandestinità. Nel 2010 la Consulta fa saltare l’aggravante, giacché quest’ultima punisce la qualità della persona, non la gravità del fatto, trasformando i reati dei clandestini in altrettanti delitti d’autore. Nel 2011 la Corte di giustizia dell’Unione europea boccia anche il reato di clandestinità. E, nondimeno, nel 2017, si elimina la possibilità per l’immigrato di ricorrere in appello contro la sentenza che neghi l’asilo. E c’è infine quest’ultimo decreto, che introduce un ultimo reato: “morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina” (pena massima 30 anni). Domanda: ma perché, forse in passato gli scafisti ricevevano sul petto una medaglia? No, la loro condotta era già punita dal codice penale. Però occorre gonfiare i muscoli, anche a costo di gonfiare come un dirigibile l’ordinamento giuridico italiano, dove già s’addensano 35 mila fattispecie di reato. L’unica semplificazione che il governo Meloni ha in mente d’imbastire consiste in un tratto di gomma sulla “protezione speciale”, che s’aggiunge alla protezione internazionale (riconosciuta ai rifugiati dalla Convenzione di Ginevra del 1951) e a quella sussidiaria (per chi rischi la morte o la tortura rientrando nel proprio Paese). Ne hanno diritto gli stranieri in gravi condizioni di salute, le vittime di violenze e sfruttamento, o quanti erano perseguitati in patria per ragioni sessuali, razziali, religiose. O meglio, ne avevano diritto, giacché il decreto n. 20 opera già una sforbiciata. Ma a breve - ci promettono - il governo sostituirà alle forbici una scure. Si dirà: niente di nuovo, anche il fascismo additava lo straniero come un nemico potenziale, tenendolo in perenne stato d’incertezza sulla permanenza nel nostro territorio. Sennonché la Costituzione antifascista reca una norma di tutt’altro stampo, dove risuona la xenia, il rito sacro dell’ospitalità in uso presso i Greci, al tempo in cui la democrazia fu battezzata. Dice l’articolo 10: lo straniero privato delle libertà nel suo Paese “ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Ma sta di fatto che la legge generale sul diritto d’asilo, a 75 anni di distanza, non è mai uscita dal libro dei desideri costituzionali. Ecco, se proprio il governo vuole aggiungere altre norme al castello delle troppe già esistenti, farebbe meglio a scrivere l’unica legge che non c’è. Migranti. Parte dalle Eolie la campagna anti “schiavo”: così si imparano i diritti di Giuseppe Bonaccorsi Il Dubbio, 14 marzo 2023 In Sicilia due incontri formativi contro lo sfruttamento dei lavoratori stagionali. Parte nuovamente dall’arcipelago delle Eolie la battaglia delle associazioni contro il lavoro stagionale in nero. Dopo il manifesto provocatorio contro i soprusi di una classe di imprenditori senza scrupoli, affisso il primo maggio dell’anno scorso a Lipari, l’associazione ‘Il Magazzino di Mutuo Soccorso’, col supporto del sindacato Usb delle isole, rilancia la campagna contro lo sfruttamento stagionale e promuove un nuovo manifesto già affisso in tutte le strade del centro turistico gettonato, dal titolo: “Mai più schiavo, la prossima stagione non farti sfruttare - corso rapido di autodifesa”. L’iniziativa prevede due incontri “formativi” che si terranno nella sagrestia della Chiesa delle Anime del Purgatorio per informare soprattutto i giovani in cerca di lavoro su come difendersi davanti a operatori disposti soltanto ad offrire un contratto a tempo senza regole per tutto la durata della stagione vacanziera, senza ferie, permessi e con un arco di impegno illimitato. Sabato 4 marzo in un incontro si è parlato di contratto di lavoro (tipologie e regole principali); come si legge una busta paga, cosa sono i contributi e a cosa servono. Si è parlato anche di Tfr, disoccupazione, malattia, ferie e permessi. Alla riunione hanno partecipato molti giovani isolani interessati alla stagione estiva e anche alcuni imprenditori. Ne è scaturito un dibattuto molto interessante che ha spinto gli organizzatori a insistere coi gli appuntamenti. Sabato 18 marzo, invece, esperti del settore parleranno dei contratti più diffusi per gli stagionali, di strumenti per la tutela dei lavoratori, di Servizi Caf e Patronato e di accesso al portale Inps. Si tratta di una iniziativa che ha già sollevato un polverone di polemiche, bollata come una provocazione dagli imprenditori del settore che avevano controbattuto sulla regolarità dei contratti, prendendo solo le distanze da alcuni imprenditori non in regola, senza mai, però, proporre soluzioni idonee e risolutive per la corretta assunzione dei tantissimi giovani alle prime armi che a ogni estate si presentano nelle isole. L’estate era trascorsa senza troppi cambiamenti, con i soliti contratti in nero e i pochi controlli delle istituzioni deputate alle verifiche. Adesso la nuova iniziativa mira a mettere sul banco degli imputati non soltanto alcuni gestori non in regola, che ogni anno approfittano della mancanza di lavoro per assumere in nero il personale, ma soprattutto l’attenzione delle istituzioni che vuoi già per le troppe lacune della normativa, non riescono ad incidere a dovere su una piaga che affligge l’intero Belpaese, ma che diventa molto evidente e preoccupante laddove il lavoro equo e legale, alternativo a quello stagionale, manca quasi del tutto. Ed è forse proprio a causa di questa mancata regolamentazione di un settore nevralgico per la nostra economia se oggi in Italia non si riescono a trovare 50mila lavoratori nel settore turistico, un campanello d’allarme che dovrebbe spingere il governo a mettere mano a questa materia. “L’iniziativa è un atto dovuto - spiega il responsabile del “Magazzino di Mutuo Soccorso”, Paolo Arena -. Dovevamo assolutamente procedere nella nostra lotta al precariato e così, d’accordo con l’Usb, abbiamo organizzato questi corsi che sono tenuti da due esperti dell’Unione sindacale di base che verranno sull’isola da Palermo e Reggio Calabria. Vogliamo insistere sul problema, soprattutto per dare un po’ di coraggio e di supporto a chi anche questa estate si ritroverà in situazioni non certo edificanti e dignitose e fuori dalla normativa. La nutrita presenza di giovani al primo incontro ci fa capire che siamo sulla strada giusta. Alla fine di questo percorso studieremo altre iniziative e non escludiamo che questi corsi possano diventare periodici”. Il manifesto affisso il primo maggio dell’anno scorso ha avuto una eco a livello nazionale con numerose iniziative simili che si sono svolte in molte località non soltanto della Sicilia, ma dell’Italia intera. Dalle Eolie, quindi, parte un nuovo messaggio rivolto alle istituzioni che, alla luce delle recenti disposizioni governative sulla direttiva Bolkestein, assume un connotato diverso ed è volto a spingere il governo non a blindare e a difendere solo una categoria di esercenti di un settore che ha un giro d’affari da 2 miliardi, ma corrisponde allo Stato solo 100 milioni di tasse, ma soprattutto a cercare una volta per tutte di disciplinare un settore lavorativo, quello vacanziero, che dia finalmente garanzie e tutele a migliaia e migliaia di lavoratori stagionali che periodicamente vedono violato il loro diritto ad avere un lavoro equo e dignitoso. Trafficanti e migranti, perché il decreto flussi non ferma le partenze di Domenico Affinito e Milena Gabanelli Corriere della Sera, 14 marzo 2023 L’immigrazione è un fatto strutturale, e l’Italia non può sfuggire al proprio destino geografico perché è il Paese di primo approdo. Per gestire il fenomeno e fermare i trafficanti di esseri umani - si va ripetendo da tempo - la strada è una sola: canali di ingresso regolari. Un messaggio che la premier Giorgia Meloni ribadisce con enfasi giovedì 9 marzo a Cutro. Ma cosa vuol dire canali di ingresso regolari? Lo spiega al Senato il 16 novembre 2022 lo stesso ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che dice esattamente questo: “L’idea è di creare percorsi di ingresso legale in favore di quei Paesi terzi che garantiscano concretamente la loro collaborazione e la prevenzione delle partenze e soprattutto nell’attuazione dei rimpatri. Si tratta di (…) rivedere gli attuali meccanismi (…) per i cosiddetti decreti flussi, inserendo uno strumento premiale per i Paesi più impegnati nella lotta all’immigrazione illegale, con l’obiettivo di contrastare il traffico dei migranti e, al contempo, rafforzare i canali di ingresso legale”. Lo annuncia, ma non lo fa, e ancora oggi è lettera morta. Vediamo perché. Cos’è il decreto flussi - Le quote massime di stranieri extra Ue da ammettere regolarmente in Italia vengono stabilite annualmente con un provvedimento del Presidente del Consiglio conosciuto come “decreto flussi”. Lo prevede il Testo unico dell’immigrazione del 1998 (art. 3, comma 4), poi modificato dalla legge Bossi-Fini del 2002. Di fatto ogni anno viene quantificata la manodopera che serve e gli immigrati che vogliono arrivare regolarmente in Italia devono già avere un contratto di lavoro in tasca. L’ultimo “decreto flussi” viene approvato lo scorso 29 dicembre ed entrerà in vigore il 27 marzo. La quota per il 2023 è di 82.705 immigrati. I numeri sono ripartiti tra 44 mila stagionali e 38.705 non stagionali. È il numero più alto degli ultimi 10 anni, ma 24.105 devono arrivare da una lista di 33 Paesi, 14 dei quali con gli arrivi dai barconi non c’entrano nulla: Albania, Bosnia, Corea del Sud, El Salvador, Georgia, Giappone, Guatemala, Kosovo, Mauritius, Montenegro, Perù, Macedonia, Serbia e Ucraina. Solo 6.000 gli ingressi previsti per i lavoratori subordinati non stagionali per i Paesi “con i quali nel corso dell’anno 2023 entrino in vigore accordi di cooperazione in materia migratoria”. Con un passaggio in più. Ecco come funziona il meccanismo. Come funziona - Il datore di lavoro che vuole assumere un immigrato deve prima di tutto verificare presso un Centro per l’impiego che non vi sia un lavoratore già disponibile in Italia, una formalità che il governo Meloni ha trasformato in un obbligo. Se dopo 15 giorni non c’è risposta, o se il lavoratore segnalato non va bene, occorre depositare domanda con i dati anagrafici dell’immigrato da assumere allo Sportello unico per l’immigrazione. La Prefettura si prende fino a 30 giorni per il rilascio del nulla osta, dopo avere controllato che la richiesta sia dentro le quote. A questo punto viene attivata la Rappresentanza diplomatica italiana nel Paese di origine dell’immigrato per il rilascio del visto. La procedura, che richiede almeno altri 20 giorni, prevede che il lavoratore sia nel suo Paese di origine. Ora, quale datore di lavoro assume una persona che non ha mai visto e senza nemmeno sapere quando potrà arrivare? È evidente che si tratta di un irregolare già in Italia: e il “decreto flussi” così concepito è solo una regolarizzazione mascherata. L’immigrato deve tornare al suo Paese per ritirare il visto e poi ripresentarsi, con una perdita di tempo di almeno due mesi. In sostanza è sempre la stessa finzione che va avanti da 20 anni, con l’aggiunta di una burocrazia ancor più complessa, oltre ad essere inefficace poiché non incide minimamente sulle partenze. Occorre quindi fare quello che viene annunciato da anni: coinvolgere i Paesi di origine affinché abbiano interesse a combattere l’illegalità. Ruoli e norme sbagliati - Torniamo al ministro Piantedosi: perché annuncia un decreto e poi di fatto rinnova sempre lo stesso senza modificare una virgola? La risposta è nella sua posizione debole, cioè quella di ministro tecnico in un governo politico, in un ruolo che è politico per eccellenza, e di solito espressione del partito di maggioranza. In sostanza per andare in Parlamento a dire “cambiamo la Bossi-Fini” ci vuole quel peso politico che Piantedosi non ha. Il tema è spinoso, e la tragedia di Cutro costringe la Presidente del Consiglio Meloni ad assumerne la guida. Il decreto varato nel paese calabro prevede pene severissime per gli scafisti. Per punirli però bisogna prenderli, e all’orizzonte non c’è un’equivalente della missione Sophia che fino al 2019 faceva anche questo. Si parla ancora di permessi legali, si invitano i Paesi di partenza a fermare i criminali del mare, ma la bozza non cambia la sostanza della “Bossi-Fini”. Come dovrebbe essere - Un vero “decreto flussi” deve cambiare impostazione. Nel 2022 su 105.140 sbarchi, più della metà dei migranti arriva da tre Paesi: 20.542 dall’Egitto, 18.148 dalla Tunisia e 14.982 dal Bangladesh. Gli accordi vanno fatti proprio con quei Paesi dove c’è il maggior numero di partenze. Ma cosa si intende per accordi? Prendiamo i Paesi del nord Africa, dove c’è una forte crisi economica: per quale ragione i governi dovrebbero impedire ai loro giovani che non hanno lavoro di partire? Solo in cambio di una contropartita. Concedendo per esempio alla Tunisia 20.000 ingressi legali con la condizione che si riprenda automaticamente l’emigrante illegale in più, a prescindere dal luogo da dove è partito. E le liste di chi avrà un visto le deve fare il governo tunisino presso i nostri consolati e ambasciate, in base alle esigenze richieste dal nostro mercato del lavoro, e dopo avere fatto un corso di lingua e un po’ di formazione. Passaggi cruciali per predisporre all’integrazione. Su questi presupposti i Paesi hanno tutto l’interesse a collaborare, perché si troveranno meno disoccupati in casa e potranno poi contare sulle rimesse dei loro giovani che lavoreranno con contratti regolari, e non sottopagati e in nero. Banca Mondiale rende noto quanto ha incassato l’India dai suoi migranti nel 2022: 100 miliardi di dollari. Sono i soldi spediti a migliaia di famiglie delle zone più povere del Paese, e che consentono di mandare i figli a scuola e avere una migliore assistenza sanitaria. Questo avviene proprio perché negli ultimi anni l’India ha fatto accordi con quei Paesi dove gli stipendi sono più alti: Singapore, Stati Uniti, Gran Bretagna. Infatti, verso i Paesi del Golfo, che pure attrae manovalanza, ma pagano peggio, i flussi dall’India sono in calo. I lavoratori che mancano - Intervenire in questa direzione è urgente per due ragioni. Primo: 9.470 sbarchi nel mese di febbraio non li abbiamo avuti nemmeno nel 2016, l’anno più terribile con 181.436 arrivi. Secondo: siamo il Paese europeo con il maggior calo demografico e non riusciamo a rimpiazzare nemmeno chi va in pensione. Dal rapporto annuale della fondazione Moressa l’Italia ha bisogno di 534 mila lavoratori subordinati non stagionali, e di questi almeno 80 mila stranieri per coprire quei lavori che gli italiani non svolgono più. L’ultimo decreto flussi ne copre meno della metà: le quote messe a disposizione per i lavoratori subordinati sono 30.105 sui 38.705 non stagionali, gli altri 1.600 sono autonomi e 7.000 permessi convertiti. Nella promessa della Meloni c’è l’intenzione di aumentare i numeri, ma attraverso il solito meccanismo che di fatto regolarizza chi è già sul territorio italiano, dopo averlo rimandato al suo Paese a prendere il visto. I settori con il maggiore fabbisogno sono il commercio e turismo (54,3%), mentre a livello territoriale le necessità riguardano soprattutto al Nord-Ovest (34,0%) e Nord-Est (26,4%). Cosa serve allora? Una nuova una legge quadro, fatta di accordi bilaterali con i Paesi di provenienza, e dentro a un piano europeo di aiuti economici per la gestione dei flussi. Bruxelles si è già espressa a favore. Val la pena di ricordare che perfino l’Ungheria (che non ne vuol sapere di prendersi migranti) nel 2017 mise 30 milioni per fermare gli arrivi nel sud della Libia. E la Libia è anche il Paese dove prospera, a un passo dalle nostre coste, la più fitta, estesa e organizzata rete di tratta dei migranti. Attenzione: cambiando la Bossi Fini in Libia non verrebbe rimpatriato nessuno perché dalla Tripolitania, e Cirenaica non partono cittadini libici, ma migranti tunisini, egiziani, eritrei ecc. È quindi compito degli Stati stroncare con una gestione legale quella criminale. Migranti. Stragi annunciate, la trama di morte ai confini d’Europa di Alessandro Corso* Il Manifesto, 14 marzo 2023 Protezione dei confini esterni e lotta ai trafficanti di migranti. Ecco la risposta del presidente del Consiglio Giorgia Meloni alla strage di Cutro. È con la lotta ai responsabili che andrà risolto il pesante fardello dell’immigrazione clandestina. A Cutro si identificano ancora i cadaveri. Alcuni corpi sono ormai difficilmente riconoscibili. Nel mentre, chi ha scampato la morte resta segregato, in detenzione. La fortuna di essersi salvati non vale il pass per la legalità. Per i vivi ci sarà tempo. Bisogna pensare a chi è morto. Ci si inchina di fronte alla tragedia. Palloncini colorati, lettere d’ affetto, dolci croci improvvisate. Si piange, ci si dispera, si chiede giustizia. I resti del naufragio abitano le coste di Cutro. Scarpe, pantaloni, giacche, salvagenti, giocattoli. Le telecamere si soffermano sui resti dei bambini. C’erano erano bambini tra i morti, si dice a voce bassa. Bisogna essere bambino per suscitare un po’ più di compassione. L’empatia, scrive la filosofa Nussbaum, è la capacità di sapersi mettere nei panni altrui, di sentire ciò che si potrebbe provare al loro posto. Tale viaggio verso l’altro è solo immaginario. Ma immaginare non è tempo perso. Immaginare è atto creativo che apre le porte verso la possibilità di qualcosa di nuovo, di diverso. È la condizione del cambiamento. Per cambiare ciò che sarà, occorre però ricordare quel che è stato. La strage di Cutro è strage annunciata. Il suo esserci è il risultato di un modus operandi e di un atteggiamento verso le politiche di frontiera che è ormai in atto da decenni. Risale a dieci anni prima, il 3 ottobre del 2013, la più famosa strage nel Mediterraneo, quella che ha dato ulteriore risonanza mediatica a Lampedusa, facendola diventare il più grande palcoscenico dello spettacolo del confine. Il confine è diventato ormai da tanti anni luogo privilegiato dello spettacolo che le politiche internazionali hanno messo in atto. È un teatro, un grande teatro nel quale però, a differenza di quel che il termine vorrebbe suggerire, ogni scena viene vissuta sulla pelle di chi lo abita. Un Truman Show che vale solo dalla prospettiva di chi ha la fortuna di poterne stare fuori, ed è il caso storico e contingenziale, non il merito individuale, a determinare spettatori e attori. Per chi ci sta dentro, tutto appare molto vivido, forte e chiaro. Per chi opera come medico ed è stato esposto alle ferite da torture di un giovane che è arrivato dalla Libia e ha visto una sorella massacrata di botte, è evidente che tutto ciò che sta accadendo ai confini d’Europa è solo una grande assurdità. Per chi è stato migrante e dopo anni di attesa ha avuto la fortuna di poter lavorare come mediatore culturale, la vista quotidiana di compagni che soffrono ciò che si è vissuto sulla propria pelle, non fa dormire la notte. Gli incubi dei soprusi e delle percosse tornano alla mente ogni volta. Incubi che visitano anche la gente che questi li ha incontrati, che ha sentito gli odori del gasolio sui corpi nudi, a volte dovendone recuperare i resti dopo giorni in mare, putrefatti, irriconoscibili, sbiancati. Il puzzo di quegli incontri è rimasto dentro e non va più via. Così lo descrive l’ex custode del cimitero di Lampedusa Vincenzo Lombardo, uno dei primi testimoni di migranti morti in mare e recuperati sulle coste di Lampedusa. Il presente di Cutro affonda le sue radici in un passato lontano. Vincenzo parla del 1996 e dei primi morti che Lampedusa si ritrovò ad ospitare prima ancora che l’isola - che fino a pochi decenni prima non compariva su molte cartine geografiche italiane - divenisse fulcro del discorso migratorio internazionale. Oggi Cutro piange i morti e chiede che ciò che si è verificato non accada più. Richieste antiche di chi abita ai margini d’Europa e vede quel che resta dell’umanità scomparirgli d’innanzi. Le risposte che arrivano dalle istituzioni danno una colpa a chi è partito, insultando la memoria storica di paesi dell’Africa e del Medio Oriente che vertono a fasi alterne in uno stato di privazione della libertà di espressione di parola, di pensiero, di orientamento sessuale, e forse più banalmente - ma questo è il punto cruciale - di movimento libero. I migranti irregolari hanno avuto negata tale libertà. Mentre lo Stato italiano insieme all’Europa si accinge a dichiarare la sua ennesima battaglia contro gli illegali per proteggere i propri confini, la tela incolore del nostro futuro si è già macchiata di rosso. Il sangue di chi verrà sulle nostre rive a chiedere giustizia è già stato versato prima ancora che una strage si consumi. La storia dell’immigrazione ai confini d’Europa ci avverte che altra morte verrà a farci visita, se non tra le nostre coste, certamente tra le trame della nostra coscienza. *Docente e ricercatore associato presso l’Università di Oxford Migranti. Altri soldi alla Libia e teoria del complotto russo: ecco la politica del governo di Luca Gambardella Il Foglio, 14 marzo 2023 Il buco nero dei finanziamenti alla Guardia costiera di Tripoli e le accuse di Crosetto alla Russia, che sarebbe responsabile delle partenze dalla Cirenaica. Prigozhin replica, gli dà del “cretino”. Dopo Cutro, per Meloni è un disastro. Prima ancora dell’alba di sabato scorso, mentre un barcone con 47 migranti andava alla deriva a circa 100 miglia a nord di Bengasi, la centrale operativa del Comando generale delle Capitanerie di porto di Roma - l’acronimo è Mrcc - tentava di mettersi in contatto con Tripoli. Verosimilmente, il numero di telefono digitato dalla Guardia costiera italiana riportava all’utenza di un anonimo appartamento situato da qualche parte a Piazza dei Martiri, nella capitale libica. È da questo pseudo comando centrale allestito alla buona che gli agenti libici hanno negato in via arbitraria la loro disponibilità a intervenire per portare in salvo i naufraghi, asserendo di non avere a disposizione abbastanza mezzi. Poi, in serata, il mare grosso ha ucciso 30 persone, lasciando a tre cargo privati l’onere di soccorrere i 17 superstiti. Nonostante i 57 milioni di euro spesi dalla Commissione Ue attraverso il ministero dell’Interno italiano, soggetto attuatore del finanziamento, la Guardia costiera libica non dispone ancora di un comando centrale. Non è un dettaglio per un paese che, dal 2018, si è dotato di una zona Sar riconosciuta dall’Europa e dall’Imo, l’Organizzazione marittima internazionale. Lo scorso novembre la Commissione aveva ammesso che il centro di comando a Tripoli non era ancora operativo. Impossibile allora attendersi un reale coordinamento con i libici nella sorveglianza del Mediterraneo. D’altra parte, l’aiuto italiano ed europeo alla Libia per la fornitura di motovedette non è mai mancato. Né mancherà in futuro, secondo quanto annunciato da Ana Pisonero, portavoce della Commissione Ue: “Non posso dare annunci rispetto alle tempistiche, ma c’è necessità di rafforzare la capacità libica, perché non sempre hanno i mezzi”. Il mese scorso, ai cantieri navali di Adria, il ministro dell’Esteri Antonio Tajani ha consegnato alla sua omologa libica Najla el Mangoush la prima di altre tre motovedette classe 300. La commessa da 8 milioni di euro rientra nel progetto europeo Support to Integrated Border and Migration Management in Libya (Sibmmil) del 2017 ed è solo una parte di un pacchetto di aiuti più ampio. Secondo i dati ottenuti da Irpi Media, per il triennio 2019-2022 oltre all’acquisto di 20 imbarcazioni per i salvataggi in mare, sono stati stanziati oltre 10 milioni di euro per l’acquisto di mezzi terrestri e per addestrare la Guardia costiera libica. Il governo italiano ha deciso di mantenere il riserbo su come siano stati spesi altri 8 milioni. Il monitoraggio dei finanziamenti è reso complesso anche dal fatto che sono diversi gli enti pubblici che appaltano le forniture ai libici - l’agenzia del ministero dell’Economia Invitalia, la Guardia di Finanza, la Polizia e la Marina militare - e che non è semplice risalire ai contenuti delle voci di spesa nei bandi. Già in difficoltà per i finanziamenti alla Libia e per le accuse rivolte dopo la strage di Cutro, Palazzo Chigi non ha rilasciato commenti dopo il naufragio di sabato scorso. Sebbene il barcone si trovasse in acque Sar libiche, che sono pur sempre acque internazionali, il mancato intervento di Tripoli imponeva quello di Malta o dell’Italia. Nessuno del governo ha spiegato per quale motivo le motovedette della Guardia costiera non siano intervenute. Per uscire da una situazione di difficoltà, il governo continua a citare vecchi rapporti d’intelligence. Dopo avere lanciato l’allarme la settimana scorsa con un report che parlava di oltre 700 mila persone pronte a partire dalla Libia - cifra smentita anche dal portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, Flavio Di Giacomo - il governo stavolta ha deciso di ritirare fuori un altro rapporto dei servizi del luglio 2022 che accusava i mercenari russi della Wagner di favorire le partenze dei migranti dalla Cirenaica. Dopo il capogruppo di Fratelli d’Italia al Senato, Massimiliano Romeo, anche il ministro della Difesa Guido Crosetto ha parlato di “una strategia chiara di guerra ibrida della divisione Wagner”. La tesi non è mai stata provata e il calo degli arrivi di persone di nazionalità siriana ed egiziana negli ultimi mesi - dati del Viminale - lascia intendere che le partenze dalla Cirenaica siano diminuite e non aumentate. In serata, con un audio sul suo canale Telegram, il capo della Wagner, Yevgeny Prigozhin, ha replicato Crosetto definendolo “uno stupido” che “dovrebbe guardare meno in altre direzioni e occuparsi dei suoi problemi, che probabilmente non è riuscito a risolvere. Noi non siamo al corrente di ciò che sta succedendo con la crisi migratoria, non ce ne occupiamo, abbiamo un sacco di problemi nostri di cui occuparci”. Nell’imbarazzo comunicativo è incappata anche l’Ue. Peter Stano, portavoce della Commissione, ha provato a spiegare perché sabato scorso non sia intervenuta Irini, la missione aeronavale che ha fra i suoi compiti anche quello di smantellare le reti del traffico di esseri umani. “Irini non opera nelle acque libiche, dove le operazioni di ricerca e soccorso sono autorizzate solo per le imbarcazioni libiche”, ha detto. Ai cronisti che gli facevano notare che il barcone si trovava in acque internazionali, il portavoce ha glissato: “Chiedete alla missione”. Il rimpallo di responsabilità maschera lo stesso dilemma che affligge Roma e Bruxelles su come liberarsi delle accuse di omissioni e compiacenze nelle tragedie in mare: incolpare gli alleati libici foraggiati per anni oppure, in alternativa, autoaccusarsi. Migranti. Nella Libia spaccata in due non c’è volontà di prestare soccorso di Stefano Mauro Il Manifesto, 14 marzo 2023 Da un lato il governo di Tripoli e dall’altro l’”uomo forte” Haftar, sostenuti rispettivamente da turchi e russi. I migranti nel mezzo. Il diplomatico senegalese Abdoulaye Bathily, da ottobre a capo della Missione di sostegno Onu in Libia (Unsmil), ha annunciato al Consiglio di sicurezza del 27 febbraio, l’avvio di un’iniziativa che dovrebbe consentire “lo svolgimento delle elezioni presidenziali e legislative entro il 2023”. Il diplomatico ha provocato le ire degli attori politici libici deplorando “l’incapacità del parlamento” - diviso in due camere rivali - di “mettersi d’accordo” sull’organizzazione di queste elezioni, inizialmente previste per dicembre 2021 e rinviate a tempo indeterminato a causa delle continue divergenze tra i due schieramenti: il primo con sede a Tripoli e l’altro a Sirte. Dalla caduta del regime di Muammar Gheddafi nel 2011, la Libia è stata lacerata dalle divisioni tra l’ovest e l’est alimentate da interessi stranieri. Tripoli e il nord ovest del paese sono controllati dal Governo di unità nazionale (Gnu), attualmente guidato del primo ministro Abdul Hamid Dbeibah - riconosciuto dall’Onu e dall’Unione Africana - che beneficia del sostegno logistico e militare della Turchia di Erdogan. L’est e vaste zone della Libia centrale e meridionale sono sotto l’autorità della Camera dei Rappresentanti, che nel marzo 2022 ha creato un governo parallelo con Fathi Bashagha come primo ministro. Ma in realtà il vero uomo forte dell’est rimane il generale Khalifa Haftar, sostenuto a livello militare ed economico dalla Russia, dall’Egitto e dagli Emirati Arabi Uniti. Divisioni che creano una situazione di precarietà riguardo ai soccorsi marittimi come avvenuto nel naufragio di questo sabato, in cui risultano dispersi ancora 30 migranti. Un nuovo trend è che sempre più imbarcazioni partono da territori sotto il controllo di Haftar nell’est della Libia, senza alcuna possibilità di “monitoraggio e recupero” da parte della guardia costiera libica che si trova sotto il controllo occidentale del Gnu. A prescindere dai luoghi di partenza - oltre 700mila migranti presenti nel paese secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) - rimane la denuncia di numerose ong, Human Rights Watch in primis, riguardo a “comportamenti irresponsabili o di totale negligenza da parte delle forze libiche” o alla necessità di ritirare il comando operativo dei soccorsi alla Libia visto che “le autorità non hanno né la volontà, né le capacità necessarie per svolgere operazioni di soccorso in modo sicuro”. Un’incerta risposta di “disponibilità” per collaborare con il piano di Bathily è arrivata mercoledì da parte di Dbeibah, con la richiesta alle Nazioni unite di “fornire assistenza logistica per organizzare le elezioni”, visto che il suo governo ha un potere limitato e rappresenta un compromesso fra i poteri forti dell’ovest - che includono le milizie islamiste di Tripoli e Misurata - e interessi economici legati a reti di clientelismo tra i vari clan. Il piano non ha convinto il suo avversario politico Bashaga, ma soprattutto la Russia e il maresciallo Haftar che hanno etichettato l’iniziativa dell’Onu “come un tentativo di imporre una volontà internazionale ai libici” e perché vieterebbe “la candidatura di militari e cittadini con doppia nazionalità”, impedendo di fatto ad Haftar (militare con cittadinanza libica e americana) di candidarsi. Nella realtà dei fatti entrambe i contendenti, non avendo legittimità democratica, cercano di mantenere lo status quo delle cose, visto che le loro alleanze politiche sono interessate a ottenere posizioni di potere nel governo e nelle forze di sicurezza, a controllare le finanze pubbliche e le infrastrutture energetiche che rappresentano il 98% delle entrate pubbliche. Se le autorità di Tripoli controllano la compagnia petrolifera nazionale, la National Oil Corporation (Noc) e la Banca centrale, riscuotendo quindi i proventi della produzione di idrocarburi, le forze di Haftar controllano l’intera “mezzaluna del petrolio” nell’est del paese e la maggior parte dei porti petroliferi della Libia. Dopo un lungo periodo di insicurezza e divisioni, i due schieramenti sono giunti, lo scorso luglio, a un accordo con la nomina di Farhat Bengdara come direttore del Noc - che durante la visita della premier Meloni di fine gennaio ha firmato un accordo con Eni da 8 miliardi di dollari - e alla totale ripresa della produzione ed esportazione di petrolio, con un’ormai certa divisione dei guadagni tra i due schieramenti. Migranti. “Qui in Tunisia ho perso tutto, non resta che partire per l’Europa” di Matteo Garavoglia Il Manifesto, 14 marzo 2023 Le voci dei subsahariani dopo l’ondata razzista scatenata dal presidente Saied: “Sono entrati dei tunisini nella mia stanza e mi hanno lanciato pietre dicendomi di andarmene. Ho pensato di tornare in Costa d’Avorio ma lì la situazione è anche peggio”. Gli effetti, dicono le ong tunisine, si vedranno tra mesi. Oggi parlare di Tunisia significa affrontare crisi sistemiche: politiche, economiche e sociali. L’ultima in ordine di tempo riguarda la comunità subsahariana, da anni parte fondamentale del tessuto tunisino e oggi corpo estraneo alle dinamiche interne del piccolo Stato nordafricano, almeno a livello apparente. Il 21 febbraio scorso il presidente della Repubblica Kais Saied ha fatto sapere alle 21mila persone presenti sul territorio nazionale di non essere più le benvenute: “Esiste un piano criminale per cambiare la composizione demografica della Tunisia. La loro presenza è fonte di violenza, crimini e atti inaccettabili, è il momento di mettere la parola fine a tutto questo”, le dichiarazioni del responsabile di Cartagine che hanno portato a un’ondata di attacchi e violenze nei confronti di cittadini che fino al giorno prima lavoravano in maniera regolare o meno, studiavano o aspettavano di partire verso l’Italia per scappare dalla povertà dei propri paesi di origine e dalle aggressioni di stampo razzista, un problema che in Tunisia precede le parole di Saied. Nonostante paesi come Costa d’Avorio, Mali e Guinea abbiano messo a disposizione voli di rimpatrio volontario per gestire le numerose richieste di rientro, gli arrivi a Lampedusa negli ultimi giorni hanno riacceso la parola “emergenza” per descrivere l’aumento delle partenze dalla Tunisia. Aumenti che non si possono descrivere solo a livello di cifre ma che vanno inquadrati nelle esperienze di chi ha vissuto in prima persona le conseguenze degli attacchi xenofobi da parte del presidente, poi successivamente ritirati. Abayomi (nome di fantasia, ndr), 30 anni, viene dalla Costa d’Avorio e per giorni si è recato all’ambasciata del suo paese per richiedere la carta consolare, un documento che a quanto pare offre protezione nel caso venisse fermato per strada dalla polizia. Il passaporto lo ha dimenticato nella sua vecchia casa. “Non ho neanche avuto il momento di pensare. All’improvviso sono entrati dei tunisini nella mia stanza e mi hanno lanciato pietre dicendomi di andarmene. Da un giorno all’altro ho perso tutto. Ho pensato di tornare in Costa d’Avorio ma lì la situazione è anche peggio, devo pensare a mia madre. Sono venuto qui per andare in Europa ed è quello che farò, anche se al momento non posso lavorare”. Per rifare il passaporto Abayomi dovrebbe recarsi in un commissariato e fare denuncia. Il rischio è di venire arrestato una volta dichiarata la propria posizione di irregolarità. Nonostante il governo abbia chiarito le sue posizioni e ritirato le pesanti accuse promosse da Saied, oggi la Tunisia resta un paese particolarmente pericoloso per la maggior parte dei subsahariani. In questi giorni a Lampedusa sono arrivate principalmente persone originarie dell’Africa occidentale, primo segnale dell’insicurezza che offre al momento il piccolo Stato nordafricano ma che non deve stupire. Come sottolinea il Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes), i veri effetti di questa situazione si sapranno nei prossimi mesi o addirittura anni. Il viaggio resta un’opzione estrema i cui rischi sono valutati nel minimo dettaglio: “In questi giorni ho visto molti video di naufragi e di intercettazioni della Guardia costiera. Ogni giorno mi chiedo se partire o meno ma quando vedo i miei amici che mi mandano video dall’Italia, che altro posso fare?”, continua Abayomi. Lo scoppio di questa ennesima crisi migratoria non deve aver fatto felice il governo italiano, da anni (prima del mandato di Giorgia Meloni) impegnato ad avere l’aiuto di Tunisi nella lotta all’immigrazione clandestina. L’ultimo incontro tra i vertici italiani e tunisini risale a gennaio 2023 e, giusto il giorno dopo le dichiarazioni di Saied, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha espresso il suo pieno appoggio al governo di Najla Bouden. Nel frattempo il presidente continua nel suo disegno autoritario per la Tunisia. Congelato il parlamento e sciolto il governo il 25 luglio 2021, cominciato a governare con pieni poteri e organizzato elezioni per il rinnovo del parlamento dove l’unica notizia è stato il tasso di astensione, ha inaugurato ieri la prima plenaria dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo, chiusa da quasi due anni. Eletti presidente e vicepresidente dell’Arp, la novità è stata il divieto di accesso ai giornalisti della stampa tunisina e internazionale. Ucraina. Le difficoltà della Corte penale internazionale nel perseguire i crimini di guerra di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 14 marzo 2023 A poco più di un anno dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, la Corte penale internazionale ha deciso formalmente di incriminare una serie di soldati russi accusati di essere i responsabili di rapimenti di massa e deportazioni di bambini ucraini. Oltre della deportazione dei minori i soldati russi sono accusati anche di aver attaccato deliberatamente le infrastrutture civili come ospedali, cliniche sanitarie, scuole, asili, università e musei. Non è conosciuta l’identità dei soldati russi accusati dei crimini. Il procuratore capo della Corte penale internazionale, Karim Khan, chiederà ai giudici preliminari di approvare i mandati di arresto sulla base delle prove raccolte finora e in caso positivo si tratterebbe delle prime misure cautelari emanate contro membri dell’esercito russo dall’inizio della guerra iniziata il 24 febbraio del 2022. Le difficoltà - Tuttavia, non sarà semplice per la Corte penale internazionale processare i responsabili. Ci sono due ostacoli principali: primo fra tutti il fatto che la Russia (così come l’Ucraina) non aderisce allo statuto della Corte. Non ne fa parte e quindi non consegnerà i suoi soldati ai giudici dell’Aja. In caso di processo e di condanna, per la Russia equivarrebbe ammettere di essersi macchiata di crimini di guerra, accuse che finora sono state sempre respinte. La seconda difficoltà deriva invece dal fatto che la Corte non esegue processi in contumacia e quindi senza la presenza in aula degli imputati, non possono essere celebrati. Le accuse di deportazioni - Accuse di deportazioni sono state formulate da più indagini indipendenti. Il mese scorso un report preliminare, risultato di un’indagine condotta dall’Humanitarian research lab della Yale School of public health, ha denunciato la creazione di un sistema di rieducazione che coinvolge migliaia di minori ucraini. Attraverso una rete di 43 strutture - situate nei territori ucraini occupati e in Siberia - il governo russo starebbe procedendo alla rieducazione politica di almeno 6mila bambini ucraini di età compresa tra 4 mesi e 17 anni. La maggior parte delle famiglie ha pochissime informazioni sullo stato e l’ubicazione dei propri figli, in alcuni casi sottoposti anche a pratiche simili all’addestramento militare, specie nei campi della Crimea occupata e della Cecenia. D’altronde, è stata la stessa commissaria presidenziale russa per i diritti dei bambini, Maria Lvova-Belova, ad ammettere che 350 bambini sono stati adottati da famiglie russe e oltre mille sono in attesa di sistemazione. L’inizio dell’indagine della Cpi - Lo scorso 2 marzo 2022 la Corte penale internazionale ha deciso di aprire un’indagine per crimini di guerra in Ucraina. La decisione è stata presa dal procuratore capo Khan dopo il suo viaggio nei luoghi in cui sono stati perpetrati crimini di guerra di massa come Bucha, frazione a nord di Kiev, dove dopo la liberazione dei soldati ucraini dall’occupazione russa sono state trovate fosse comuni e corpi di civili deceduti per strada con le mani legate dietro la schiena. Per gli ucraini si tratta di esecuzioni a sangue freddo in violazione del diritto internazionale. Nell’ultimo anno Khan si è recato in Ucraina almeno tre volte per discutere con la procura locale su come aiutare gli inquirenti a raccogliere materiale probatorio per poter incriminare i soldati rei di aver commesso crimini di guerra. Diversi stati tra cui Italia, Francia, Regno Unito hanno inviato squadre della polizia scientifica a supporto delle autorità ucraine. Anche il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni unite ha avviato una sua indagine sul territorio. Si cerca di capire quale sia il ruolo dell’amministrazione americana di Joe Biden, divisa sulla possibilità di inviare propri documenti all’Aja per evitare di creare un precedente su un’indagine nei confronti di uno stato che non faccia parte dello statuto. La paura è che anche i soldati americani possano essere perseguiti per i crimini condotti in medio oriente. In totale, la procura generale ucraina ha affermato di aver raccolto prove riguardanti circa 70mila casi di violazioni. Anche diverse Ong europee stanno assistendo le autorità di Kiev, soprattutto per catalogare e conservare il materiale raccolto all’interno degli archivi digitali. Qui, la difficoltà maggiore è prevedere i progressi tecnologici che potrebbero influenzare l’accesso ai documenti in futuro. Giappone. La storia di Iwao Hakamada: da 40 anni nel braccio della morte di Francesca Sabella Il Riformista, 14 marzo 2023 Ha ottantasette anni e ne ha trascorsi quaranta nel braccio della morte in un carcere giapponese. Metà della sua vita in bilico tra il qui e l’aldilà. Senza sapere quanto ancora avrebbe vissuto, senza sapere se mai sarebbe uscito da quel limbo infernale. Ora c’è uno spiraglio, un nuovo processo. Un tribunale giapponese ora ha ordinato un nuovo processo, ha riaperto il caso quasi 60 anni dopo la sua condanna per omicidio. Oggi dopo una breve udienza, gli avvocati di Iwao Hakamada sono usciti dall’Alta Corte di Tokyo con striscioni che chiedevano un nuovo processo, mentre i suoi sostenitori gridavano “Hakamada libero, ora”. “Ho aspettato questo giorno per 57 anni ed è arrivato”, ha detto Hideko, sorella di Hakamada. L’uomo ha trascorso più di quattro decenni nel braccio della morte dopo essere stato condannato alla pena capitale nel 1968 per il quadruplo omicidio del suo capo e di tre membri della sua famiglia. Hakamada ha confessato il crimine dopo settimane di interrogatori in carcere, prima di ritrattare. Da allora ha sostenuto la sua innocenza, ma la sentenza è stata confermata nel 1980. L’ex pugile è stato rilasciato nel 2014 dopo che un tribunale ha ammesso i dubbi sulla sua colpevolezza in base ai test del Dna sugli indumenti insanguinati, la prova chiave nel caso dell’accusa, e ha deciso di offrirgli un nuovo processo. Ma nel 2018, un nuovo colpo di scena: su ricorso dell’accusa, l’Alta Corte di Tokyo ha messo in dubbio l’affidabilità dei test del Dna e ha annullato la decisione del 2014. La Corte Suprema giapponese ha poi ribaltato la decisione alla fine del 2020, impedendo a Hakamada di essere nuovamente processato nel tentativo di ottenere l’assoluzione. I suoi parenti sottolineano le cicatrici psicologiche lasciate da oltre quattro decenni in cella, con il timore quotidiano di essere giustiziato per impiccagione. Negli ultimi anni, le richieste di nuovo processo sono aumentate nell’arcipelago giapponese a causa dei cambiamenti nel sistema giudiziario, tra cui l’implementazione di giurie popolari per i reati gravi e il fatto che i pubblici ministeri devono presentare prove materiali alla difesa. In passato ciò non avveniva, con il risultato che le confessioni venivano utilizzate come prove. Il Giappone è, insieme agli Stati Uniti, uno degli ultimi Paesi industrializzati e democratici a utilizzare ancora la pena capitale, alla quale l’opinione pubblica giapponese è ampiamente favorevole. Oggi, più di due terzi dei paesi al mondo ha abolito la pena capitale per legge o nella pratica. Secondo un rapporto del 2021 di Amnesty International ci sono state 579 esecuzioni in 18 stati, con un aumento del 20 per cento rispetto al 2020. Si tratta del più basso dato registrato nell’ultimo decennio. Nonostante questi passi indietro, il totale delle esecuzioni registrate da Amnesty International nel 2021 è il secondo più basso, dopo quello del 2020, almeno a partire dal 2010. La maggior parte delle esecuzioni note è avvenuta in Cina, Iran, Egitto, Arabia Saudita e Siria - nell’ordine. La Cina rimane il paese dove il boia è più attivo al mondo - ma il reale ricorso alla pena di morte rimane sconosciuto poiché queste informazioni sono classificate come segreto di Stato; per questo motivo le cifre globali riguardo esecuzioni e condanne a morte stilate da Amnesty International escludono le migliaia di persone che l’organizzazione ritiene siano state messe a morte o condannate in Cina. Bielorussia, Giappone e Emirati Arabi Uniti hanno fatto nuovamente ricorso alla pena di morte. Amnesty International non ha registrato esecuzioni in India, Qatar e Taiwan, paesi che avevano messo a morte nel 2020. L’Iran ha messo a morte almeno 314 persone (in aumento da almeno 246 nel 2020), il numero più alto di esecuzioni dal 2017, in contro-tendenza rispetto le diminuzioni annuali registrate da allora. Il numero di esecuzioni registrate in Arabia Saudita è aumentato vertiginosamente, da 27 a 65, con un aumento del 140% percento. Alla fine del 2021, più di due terzi dei paesi del mondo hanno abolito la pena capitale nelle leggi e nella pratica. 108 paesi, la maggior parte degli Stati, avevano abolito la pena capitale per legge per tutti i crimini e 144 paesi avevano abolito la pena di morte per legge o nella pratica. 55 paesi, invece, mantengono la pena capitale.