Nordio vuole ridurre il carcere preventivo ma FdI frena: “Sono idee personali” di Francesco Olivo La Stampa, 13 marzo 2023 La riforma parte in salita: il ministro vuole che a decidere sulle misure cautelari sia il voto di un collegio di tre membri. Forza Italia e Azione lo appoggiano, ma Fratelli d’Italia teme uno scontro con i magistrati. Giovedì le mozioni in Aula. Lo schema è sempre quello: da una parte Carlo Nordio, con la sua agenda garantista. Dall’altra Fratelli d’Italia, con dichiarati spiriti securitari. Il governo Meloni sa che c’è una rogna in arrivo: la riforma della Giustizia. Il ministro ci sta lavorando, per una volta, senza i riflettori puntati, temendo che anche questa volta Fratelli d’Italia, in teoria il suo partito, ne voglia limitare l’azione. Sulla scrivania di via Arenula tra i vari dossier, ce n’è uno delicato: quello sulla carcerazione preventiva. Nordio ritiene di avere un via libera (generico) di Giorgia Meloni sul mettere dei limiti alle misure cautelari, avendolo indicato nel cronoprogramma, ma da via della Scrofa arriva subito la frenata: “Per il momento sono sue idee”, dice uno dei massimi dirigenti. Il partito della premier d’altronde aveva dato indicazioni di votare “No” al quesito referendario del giugno scorso sul tema. Il timore dei meloniani è riaprire una guerra con la magistratura, facendo tornare il dibattito all’epoca berlusconiana. La riforma partirà a maggio attraverso dei decreti legge, “che avranno procedura d’urgenza”, dice il ministro. Si comincerà con le modifiche alle norme sull’abuso d’ufficio e il traffico di influenze. Ma l’ambizione del Guardasigilli è intervenire su uno dei suoi cavalli di battaglia: arginare l’abuso del ricorso alla carcerazione preventiva. Nordio ne ha parlato spesso in saggi e conferenze, l’ultima, tenuta a Londra, è stata raccontata dal Foglio: “Abbiamo sempre avuto una visione carcerocentrica della sanzione penale”. Dalla teoria, molto nota, il ministro vorrebbe passare alla pratica: nella sua idea di riforma a decidere sulla detenzione preventiva dovrà essere non più un giudice monocatrico, ma un collegio, formato probabilmente da tre componenti, che si esprimano a maggioranza. L’idea assomiglia molto alle proposte di legge che Forza Italia ha fatto nella scorsa legislatura, riproposte in quella attuale, che i berlusconiani vogliono mettere in calendario quanto prima: via il giudice monocratico e richieste di custodia cautelare molto più circoscritte e motivate di quanto succeda ora. “Se il ministro vorrà portare avanti questo progetto noi non possiamo che applaudire”, dice Pietro Pittalis, deputato di Forza Italia e primo firmatario della proposta di legge. Il sospetto degli azzurri, infatti, è che, come già accaduto nei decreti rave e in parte in quello migranti, Nordio si faccia trascinare in quello che viene definito il “populismo giudiziario”: nuovi reati, innalzamento delle pene e creazione di “reati universali”. FdI è molto più prudente: “Non è il momento di esprimersi su questi temi”, dice Ciro Maschio, presidente della Commissione giustizia. Il primo appuntamento per vedere le posizioni dei partiti sarà già questa settimana, giovedì infatti si presenteranno delle mozioni sulla giustizia. “Noi ne presenteremo una a sostegno di queste idee del ministro, vediamo se il governo ci darà parere favorevole”, dice Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione. Quella del Terzo Polo è una stampella, ma anche una sfida a Nordio: vediamo se sei coerente con le tue idee. Anna Rossomando, vicepresidente del Senato del Pd, si fida poco: “Sul fronte annunci dal ministro Nordio in questi mesi abbiamo avuto un ampio campionario. Poi però in Parlamento abbiamo visto solo il decreto rave e la misura sul rientro in carcere di centinaia di semiliberi. Si parla tanto di contrasto al panpenalismo, salvo poi andare esattamente nella direzione opposta”. Ci sono poi altri temi che andranno affrontati, il più delicato è la separazione delle carriere. Poi ci sono le intercettazioni: l’idea del ministro è assegnare un budget di spesa a ogni singola procura per evitare quelli che vengono ritenuti sprechi. Anche qui si ripropone lo schema: Forza Italia e Terzo Polo pressano, la Lega nicchia e Fratelli d’Italia frena. Della questione si sta occupando la Commissione affari costituzionali, guidata dal forzista, Nazario Pagano. FdI vuole portarla in quella Giustizia, presieduta dal meloniano Maschio. La richiesta è al vaglio del presidente della Camera Lorenzo Fontana. Un altro sintomo delle tensioni nella maggioranza. Delmastro: “Il giudice potrà affidare i tossicodipendenti alle comunità, così svuotiamo le celle” di Francesco Malfetano Il Messaggero, 13 marzo 2023 Il sottosegretario alla Giustizia: “Così facciamo risparmiare lo Stato e diamo loro un’altra possibilità”. Risolvere il sovraffollamento carcerario italiano spostando i detenuti tossicodipendenti, in strutture private a loro dedicate. È questa l’idea lanciata dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. Un’iniziativa “condivisa” dal governo e, soprattutto dal ministro Carlo Nordio, che nasce dall’intenzione “sempre rivendicata da Giorgia Meloni di raggiungere non solo la certezza della pena ma anche un’offerta di maggiori garanzie ai cittadini”. Sottosegretario Delmastro, qual è la situazione delle carceri italiane? Come pensa di affrontarla? “Le carceri italiane sono ampiamente sovraffollate. Secondo gli ultimi dati - risalenti a febbraio - a fronte di una capienza regolare di 51.285, i detenuti sono 56.319. E di questi, stando alla relazione annuale al Parlamento, il 30% sono tossicodipendenti. Vale a dire che il sovraffollamento carcerario è risolvibile solo affrontando il problema delle dipendenze. Se poi si aggiunge che la legge di riferimento attuale è il Dpr del 1990 in cui si indica che i tossicodipendenti dovrebbero stare in istituti idonei per programmi terapeutici e di riabilitazione, è chiaro che il sistema non funziona. Quella era l’epoca in cui si riteneva che lo Stato potesse fare tutto, e quindi si immaginarono strutture apposite che non sono mai state create. Intanto con diverse riforme abbiamo perso la sanità penitenziaria e quindi, per attivare quel tipo di strutture bisognerebbe attingere ai sanitari regionali. E oggi già siamo in difficoltà per i detenuti psichiatrici”. Quindi? “Serve un cambio di prospettiva. Dobbiamo comprendere che per un tossicodipendente che ha commesso reati legati all’approvvigionamento economico per procurarsi la droga, il fine rieducativo della pena non sta nel fatto che conosca a memoria la Costituzione o abbia partecipato ad un ottimo corso di ceramica. La priorità per loro è la disintossicazione. Per questo sto lavorando ad un provvedimento che immagina di coinvolgere il terzo settore, quelle comunità chiuse in stile Muccioli (San Patrignano ndr), per costruire un percorso alternativo alla detenzione”. Cioè? Comunità e non in cella? “Con dei paletti. Ma voglio precisare prima che si tratta di una misura che permetterebbe una vittoria a tutto campo: per il detenuto, per il terzo settore e per lo Stato. Il primo può disintossicarsi in una struttura sicura e meno nociva di un carcere sovraffollato. Il secondo ne guadagna per indotto e investimenti. Il terzo invece si prende meglio cura dei cittadini e risolve il problema del sovraffollamento. E poi risparmia. Oggi la media del costo di un detenuto è 137 euro al giorno. Per un tossicodipendente, che in genere presenta difficoltà maggiori, è superiore. Con il provvedimento invece credo che si potrebbe spendere una cifra molto inferiore”. Come funzionerebbe? “Il giudice già in sentenza può sostituire i giorni di carcere indicati con un numero uguale presso una comunità protetta. Cioè se vieni condannato a due anni puoi scontarli tutti lì. Se poi impieghi 8 mesi a disintossicarti, per il tempo restante la comunità ti aiuterà a formarti e a trovare lavoro”. I paletti? “Sarebbe una possibilità secca, non reiterata. Se commetti un reato e torni in carcere da tossicodipendente dopo aver scontato la pena in una struttura di questo tipo, devi affrontare l’iter normale”. E in caso di evasione? “La comunità sarà controllata 24 ore su 24, se scappi hai bruciato la tua seconda possibilità e sarai perseguito per il reato di evasione. E lo Stato, come un buon padre di famiglia, non potrà più fidarsi. Su questo non transigo. Vede sono un giurista basico, incarno l’uomo medio. Ma è una posizione che rivendico perché è questa che ci fa prendere voti. È la classe media che tiene in piedi l’Italia”. A che punto è questa iniziativa? Ne ha parlato con Meloni? “Sto limando i dettagli ma c’è totale condivisione. Il ministro Nordio è d’accordo perché il testo va incontro alla sua cultura liberale. Però è un percorso da condividere con il terzo settore per comprendere appieno la capienza strutturale. E con le Regioni che hanno la delega alla Sanità e dovranno certificare le cooperative e controllarne la gestione. Con loro e con la magistratura di sorveglianza aprirò un tavolo di dialogo”. Oggi non ci sarebbero i posti però. Le strutture private-convenzionate sono circa 800, con disponibilità in calo. “Non è un aspetto che mi spaventa. Qualunque cooperativa, in presenza di accordi ben definiti con lo Stato, avrà l’interesse ad affittare o acquistare un immobile per mettersi al servizio. L’Italia, in provincia o poco fuori dalle città, è piena di strutture industriali o ex turistiche da riconvertire”. Un dispositivo esiste già, la custodia attenuata, ma se ne fa un ricorso minimo: su 635 posti ne sono impegnati solo 340. “Ci si fa poco ricorso perché c’è poca cultura in questo senso. Ma soprattutto sono così poche che se un detenuto accetta di risiedervi deve allontanarsi molto dalla rete familiare. Mentre con il nostro meccanismo in moto, immagino che più o meno accanto a ogni istituto penitenziario può nascere una struttura. E poi il padiglione della custodia attenuata è all’interno di un circuito carcerario che diciamo spesso essere nocivo. Per cui noi proviamo anche a tirartene fuori”. I tempi? Nordio dice che arriveranno ddl entro maggio. “Vediamo. Il testo è in stesura e bisogna confrontarsi con gli attori in campo. Non è importante se lo realizziamo entro due o tre mesi, ma è una traccia del nostro governo che vogliamo lasciare”. E cosa cambierà ora? “Interverremo per conferire un abbrivio liberale alla giustizia immaginando di liberare le energie della Pa dalla paura della firma”. Abuso d’ufficio e traffico di influenze? “L’intervento si concentrerà su quelle norme che non consentono di sapere, a un politico o un dirigente, quali sono i confini esatti dell’illecito”. Ci sono distanze tra lei e il ministro. Ad esempio sulla modifica o l’abolizione dell’abuso d’ufficio. “Siamo in piena armonia. C’è un dialogo costante e nei prossimi giorni definiremo i dettagli”. Nordio pare determinato a modificare le norme per la carcerazione preventiva. Lei? “La fotografia è condivisa. C’è n’è un uso statisticamente smodato e il tentativo è di offrire maggiori garanzie all’imputato e all’indagato. Come detto dallo stesso ministro Nordio anche per il tramite di una collegialità di decisioni sulla libertà personale”. Sui reati? Per la custodia Nordio propone di differenziare i reati, ad esempio quelli legati a spaccio e tossicodipendenza. “Non mi risulta. Magari ne discuteremo in futuro, ma in questo momento sul punto sono concentrato sul testo che le ho illustrato”. Conflitti tra reclusi e con gli agenti: si può ricomporre tutto. E sono gli Usa a dare l’esempio di Sergio Genovesi* e Michele Passione** Il Dubbio, 13 marzo 2023 Si chiama “Prison of peace”: il progetto realizza la “Mediazione inframuraria” e dagli Stati Uniti si è esteso in Europa, Italia inclusa. Il tasso di recidiva dei condannati americani coinvolti? Zero! Il capolavoro è vedere i detenuti acquisire le tecniche dei formatori. Susan Russo, chi era costei? Nessuno mai ricorderà la storia di una giovane donna americana che venne condannata all’ergastolo per l’assassinio del marito, per un delitto che siamo abituati ad etichettare come efferato, tanto da meritare la dura pena a vita. L’omicidio del marito, commesso da Susan in complicità con il suo “boyfriend” per ottenere l’indennizzo di una polizza vita da un milione di dollari, fu consumato nell’abitazione familiare e nella stanza a fianco di quella nella quale dormivano i due piccoli figli della coppia. Era l’anno 1994 e da quel momento Susan rimase ad espiare la pena nella Valley State Prison for Women di Chowchilla (California), fino alla sua morte, sopravvenuta nel settembre 2022. Eppure noi vogliamo ricordare Susan per il merito della iniziativa assunta con ostinazione nel 2007, dopo 13 anni di carcerazione; l’iniziativa di scrivere centinaia di lettere a mediatori dello Stato della California per attirare l’attenzione sul ricorrente dato della conflittualità delle relazioni tra le detenute e con i componenti dello staff interno, tutte caratterizzate dalla violenza e dall’incapacità di convivere. Il suo grido di aiuto, a denuncia della propria esperienza e della maturata autoconsapevolezza, non ricevette una sola risposta per due lunghi anni. Solo nel 2009 due mediatori, Laurel Kaufer e Douglas E. Noll, si decisero a darle ascolto. In particolare Noll, avvocato, mediatore, peacemaker e trainer, tanto da dichiarare “I’m many things to many people”, dopo molti incontri e approfondimenti arriverà a definire un metodo di mediazione dei conflitti violenti, strutturando un percorso di formazione a più livelli, basato solo sullo sviluppo delle capacità empatiche fondamentali, esistenti in tutte le persone, anche nei carcerati. Nacquero così le prime sperimentazioni, giusto nell’istituto penitenziario di Susan, e andò affinandosi il metodo-programma “Prison of peace Usa”: era l’anno 2010. Venne esteso nel tempo prima a cinque e poi a numerose altre carceri, arrivando a dotarsi di una équipe di quasi 500 operatori: ad oggi risultano avervi partecipato su base volontaria oltre 15.000 detenuti, che una volta rimessi in libertà hanno consentito di verificare il clamoroso risultato di zero recidive. Schematicamente, il work progress definito in manuali di teoria e di metodologia pratica parte da un primo circolo (cerchio della pace) nel quale il conduttore e i facilitatori professionali sviluppano la capacità di ascolto e di gestione dei gruppi di dialogo dei detenuti. Nel secondo livello il peace making, ovvero il pacificatore formato nel primo livello, lavora sui temi della comunicazione efficace, dell’abilità di problem solving e della responsabilità morale. Nel terzo livello si affronta la capacità di mediazione per la risoluzione dei conflitti, arrivando a formare la figura del mediatore. Lo sviluppo successivo è quello della formazione del mentore, che affianca e supporta i nuovi studenti in tutti i livelli, per approdare infine al trainer, che è formatore e promotore della cultura di “Prison of peace”. In buona sostanza dalla riduzione dei conflitti personali si passa alla abilità di utilizzo (peacemaking) e via via al rafforzamento delle capacità, diventando punti di riferimento per la sostenibilità (sistema che si autoalimenta), per il migliore impiego delle risorse e per l’obiettivo della sicurezza, fino al riscatto, basato sull’ascolto e sul riconoscimento degli altri. Lo schema ellittico vede l’evoluzione degli stessi detenuti portati al livello dei loro formatori professionali, ed è affascinante constatare la riuscita di una simile osmosi, che vede lo studente divenire insegnante, impiegando utilmente i tempi anche morti della coercizione carceraria. I successi conseguiti hanno valicato l’oceano e nel 2016 è nata “Prison of peace Greece”, che grazie allo straordinario lavoro di Dimitra Gavrill ha introdotto il programma in 12 istituti, conseguendo risultati così positivi da attirare l’attenzione del Consiglio d’Europa, che ha appunto nominato Gavrill direttrice del programma europeo. Una volta tanto e fortunatamente l’Italia ha anticipato le buone propensioni europee, per merito di una “piccola ma grande” associazione, attiva da anni soprattutto presso la Casa circondariale di Mantova, ove ha operato sul fronte dell’inserimento lavorativo e sull’individuazione del percorso rieducativo: la Libra Ets. Dopo una ricerca di tecnici e l’incontro formativo con l’ottima Gavrill, si è deciso di replicare il modello con sperimentazioni all’interno delle carceri di Mantova e Cremona. E così è nata nell’anno 2021 “Prison of peace Italy”, che sta programmando la concretizzazione del progetto in almeno altre 10 carceri italiane entro il 2024. La presentazione dell’iniziativa è stata fatta a Mantova grazie all’attiva collaborazione degli avvocati della Camera penale della Lombardia Orientale, e verrà trasferita nei prossimi giorni a Bergamo, a Brescia e a Cremona, presso le relative Sezioni della stessa Camera penale. Tra l’altro, l’esperienza qui descritta, e introdotta anche in Lombardia, trova oggi una possibilità di ulteriore sviluppo con l’intervento operato dal decreto legislativo 150/2022, che all’articolo 78 prevede una modifica dell’articolo 13 o.p., con l’indicazione secondo la quale “nei confronti dei condannati e degli internati è favorito il ricorso a programmi di giustizia riparativa”. Favorire l’incontro, abbassando il livello dello scontro. Viviamo, sai che novità, una stagione incerta: basta guardare la legge di Bilancio per rendersene conto. Tra gli spaventosi tagli ai fondi del settore e la non rassicurante linea politica di continuità da parte del nuovo governo (e del nuovo Parlamento) brilla tuttavia la fiammella della giustizia riparativa. Visto che non è ancora spenta e che i supporti dall’esterno divengono almeno integrativi se non fondamentali, accogliamo “Prison of peace” con sincero entusiasmo. Non sarebbe il caso di ricordare l’art. 27 della Costituzione e la differenza che può passare tra la pena e riscatto; lo è in questa occasione e su questo giornale perché Il Dubbio ha sempre saputo tenere alta la bandiera su queste tematiche. È il caso cioè di aver sempre ben presenti le esigenze del contratto sociale, in modo da sforzarci senza remore di dare la stessa dignità a tutti i cittadini in una prospettiva positiva di umanità e di rieducazione. Ed è il caso di rinnovare l’impegno contro la bestialità ambientale e la disumanità permanente, anche con questo strumento. Grazie dunque a Susan Russo, a Laurel Kaufer e a Douglas E. Noll! Ed oggi grazie all’Associazione Libra Ets, che si trova a Mantova in strada Gambarara 19: il suo presidente Angelo Puccia, come gli altri collaboratori, in particolare Giorgio Bonfanti, possono essere raggiunti allo 0376-1591511, pronti a programmare la realizzazione del progetto di “Prison of peace” sull’intero territorio italiano e comunque a divulgarne l’esperienza. *Avvocato del Foro di Mantova **Avvocato del Foro di Firenze L’educazione sociale dei detenuti: il recupero attraverso lo sport di Flavia Santilli buonenotizie.it, 13 marzo 2023 Recupero, reinserimento ed educazione sociale sono le parole chiave dell’offerta di Sport e Salute all’interno delle carceri. Il progetto chiamato “Sport di Tutti - Carceri” mette a disposizione dei penitenziari la pratica dell’attività fisica come strumento e opportunità di rieducazione, attraverso il quale il reintegro dei detenuti in società dovrebbe avvenire nel migliore dei modi. La cooperazione con gli enti del terzo settore deve essere fondamentale in questa delicata manovra sociale. Il Ministero della Giustizia afferma che: “La pratica sportiva all’interno degli istituti penitenziari svolge un significativo ruolo volto a promuovere la valorizzazione della corporeità e l’abbattimento delle tensioni indotte dalla detenzione, favorendo al tempo stesso forme di aggregazione sociale e di positivi modelli relazionali di sostegno ad un futuro percorso di reinserimento”. Una postilla che riassume effettivamente il tema che Sport e Salute ha voluto portare all’attenzione delle istituzioni. Praticare sport in detenzione - Non si fa distinzione tra detenuti minorenni, adulti o della terza età, maschi o femmine, in minima o massima sicurezza. Lo sport è considerato un diritto umano da parte dell’Unesco al quale tutti devono avere accesso. L’attività fisica in ambito detentivo preserva la salute della persona: la sedentarietà è una delle peggiori nemiche in carcere. Per questo la proposta dell’OMS è quella di garantire l’accessibilità alla pratica sportiva in tutti i penitenziari. Aiutare il corpo a rimanere attivo oltre che prevenire l’insorgere di malattie mentali e ridurre sensibilmente il numero di assistiti nelle carceri italiane è l’obiettivo delle istituzioni che operano sul campo. In ultima analisi ci si è chiesto perché non basta fornire attrezzatura, campi e palestre agli istituti penali per il sostegno alla pratica sportiva. “Sport di Tutti” vuole costruire un vero e proprio ponte tra dentro e fuori il carcere. Il diritto allo sport per l’educazione sociale del detenuto - Il ponte tra dentro e fuori è composto da tasselli di educazione sociale. La pratica sportiva può fornire tutti i tasselli giusti ai detenuti che hanno la volontà di reintegrarsi in una società che va avanti senza di loro. Sport e Salute può rendere lo sport un’arma molto potente. Sì lo sport è integrazione, ma tra il dire e il fare c’è in mezzo un mare di modelli di intervento sociale che non hanno raccolto molto sostegno da parte del Governo. Grazie ai primi 3 milioni stanziati dai ministeri finalmente si avrà un cambio di rotta. Secondo una mappatura degli istituti analizzati prima di presentare il progetto, meno del 50% delle carceri garantiscono agli ospiti un accesso settimanale all’attività sportiva, rifiutando lo sport come diritto dei detenuti. Sport e Salute vuole partire da questo dato per allargare la rete di competenze dedicate al tema dello sport nelle carceri. La norma emanata sul tema del recupero dei detenuti attraverso lo sport prevede lo svolgimento di un lavoro di concerto tra figure competenti in ambito educativo, sociale, sportivo, di detenzione e di assistenza sociale. Il coinvolgimento degli enti del terzo settore - Gli istituti penali si occupano del recupero dei detenuti e della preparazione al mondo esterno; ma va seguito un modello più vasto che coinvolga gli enti del terzo settore. La reintegrazione sociale non può avvenire dentro un carcere. Si sono esposti in prima persona Sport e Salute, il Centro Sportivo Italiano e l’ente di promozione UISP al fine di promuovere l’iniziativa. Da luogo di punizione ad opportunità di recupero e riscatto, la detenzione deve diventare un percorso di assistenza a coloro che stanno scontando i propri errori. Dunque l’obiettivo di chi si è esposto per la causa è quello di fornire un servizio alla comunità e incentivare uno stile di vita corretto tra tutte le fasce sociali della popolazione: questo comprende i detenuti che per antonomasia rappresentano gli emarginati. Ancora una volta la parola chiave sarà collaborazione, si parla di associazionismo sportivo di base. Il progetto Sport di Tutti vuole coinvolgere nel tema dal valore sociale inestimabile chiunque possa preservare, accompagnare e sostenere il percorso rieducativo di un soggetto fragile: chi è esposto a rischio di emarginazione, devianza, esclusione, povertà e criminalità. Particolare attenzione si porrà infatti agli istituti di detenzione minorile, dove più che mai, per il futuro dei reclusi, è bene spendere tempo e risorse in un percorso educativo volto a intraprendere la giusta strada nel mondo reale. Nell’incontro fra vittima e autore del reato, la scintilla per ritrovare il senso di comunità di Mitja Gialuz* Il Dubbio, 13 marzo 2023 Il metro più efficace per valutare la portata di una riforma è quello che si potrebbe definire della proiezione retrospettiva. In quest’ottica, merita chiedersi cosa si ricorderà fra trent’anni della cosiddetta riforma Cartabia. Secondo me, non vi è alcun dubbio: l’aspetto più innovativo e dirompente, sul piano culturale, è l’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa. Certo, il successo dell’innovazione dipenderà in larga parte dagli investimenti che si metteranno in campo - a tutti i livelli, statale e periferico - per l’istituzione dei centri e per la creazione e formazione di una figura del tutto inedita, quale quella del mediatore in materia penale. Ma se ci si concentra sull’impianto normativo, mi pare inequivocabile che esso segni un vero e proprio cambio di paradigma nell’affrontare i temi della penalità. Il punto di partenza dell’approccio adottato dal decreto legislativo n. 150/2022 è che la giustizia penale attraversa una crisi profonda. Non si tratta soltanto di una crisi di inefficienza - ossia di incapacità di raggiungere gli obiettivi che la Costituzione le assegna con un’allocazione ragionevole di risorse -, ma di qualcosa di molto più radicale, che ha a che fare con l’essenza stessa della giustizia ordinaria. Nella società complessa nella quale viviamo, il modello di giustizia punitiva perfezionato negli ultimi due secoli non è più in grado - da solo - di realizzare il fine più alto che la Costituzione le assegna, ossia promuovere la coesione sociale, suturando le ferite aperte dalla commissione del reato attraverso la celebrazione di un processo giusto e l’eventuale applicazione della sanzione. D’altronde, la cronaca giudiziaria lo conferma quotidianamente; e le esplosioni di rabbia a seguito della lettura del dispositivo di Rigopiano e, prima, di Firenze (in relazione alla vicenda di Viareggio) sono lì a dimostrarlo plasticamente. D’altronde, è da più di quarant’anni che si parla di declino di un sistema penale, che, in quanto disumano e inefficace, non è in grado di generare giustizia. Sino alla riforma Cartabia si era cercato di migliorarlo e riformarlo solo dall’interno. La novità del d.lgs. 150 è che si affianca alla prospettiva correttiva interna tradizionale un paradigma completamente nuovo. Allo schema concettuale sul quale si fonda la penalità contemporanea, che ruota intorno ai tre poli del reato/accertamento della responsabilità/ sanzione (schema plasticamente cristallizzato in quel capolavoro che è l’art. 27 Cost.), si sostituisce un paradigma fondato sulla triade conflitto/programma di giustizia riparativa/esito riparativo. Un paradigma che, con l’attenzione all’incontro, alla visione del volto dell’altro (secondo la lezione di Lévinas) e all’ascolto reciproco, tende a promuovere “il riconoscimento della vittima del reato e la responsabilizzazione della persona indicata come autore dell’offesa attraverso la visione del volto dell’atro. e la ricostituzione dei legami con la comunità” (art. 43, comma 2, d.lgs. 150). Il tema più delicato che il legislatore ha dovuto affrontare è quello dell’innesto del nuovo paradigma e della relazione tra due mondi che corrispondono a orizzonti di senso e a linguaggi radicalmente diversi. Ebbene, lo sforzo del delegato è stato quello di far coesistere e dialogare i due paradigmi, secondo un sistema fondato su una logica binaria. Per i reati meno gravi (ossia quelli perseguibili a querela), la giustizia riparativa può configurarsi come vera e propria alternativa alla giustizia ordinaria: l’esito riparativo conduce infatti alla non proposizione della querela o alla sua remissione, espressa o tacita (secondo quanto previsto dal nuovo art. 152, comma 3, c.p.). è naturale infatti che il raggiungimento di un accordo riparativo determini il venir meno della volontà di punizione da parte della vittima, ossia della volontà di attivare la giustizia contenziosa. Per i reati più seri, la giustizia riparativa si colloca invece in una posizione di complementarità e di sinergia rispetto a quella contenziosa. Può svilupparsi parallela a quella ordinaria - con garanzie ferree di impermeabilità del procedimento penale rispetto a quanto dichiarato nella conca della mediazione - e l’esito riparativo potrà rilevare tendenzialmente ai fini della commisurazione della pena. In questa dinamica di fondo, il sistema prevede naturalmente la priorità della giustizia ordinaria. Per un verso, l’inizio di un programma di giustizia riparativa dovrà essere autorizzato dall’autorità giudiziaria procedente (questo il senso della norma-cerniera dell’art. 129-bis c.p.p.); per altro verso, l’autorizzazione non potrà essere concessa quando lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa comporti un pericolo concreto per l’accertamento dei fatti (art. 129-bis, comma 4, c.p.p.). Ed è proprio questa clausola generale a salvaguardare la stessa funzione cognitiva del procedimento penale, desumibile da plurime norme costituzionali (artt. 25, 27, comma 2, 111, 112 Cost.). Con questi pesi e contrappesi, non mi pare siano fondate le preoccupazioni di chi ritiene che la giustizia riparativa potrà contaminare quella ordinaria producendo un abbassamento delle garanzie per l’imputato. Al contrario, se ci crederanno i magistrati e gli avvocati, e se verranno formati dei mediatori preparati, essa potrà dare un contributo fondamentale per raggiungere quegli obiettivi che - come si è detto - la sola giustizia punitiva non riesce a raggiungere. Può essere, insomma, il dispositivo capace di dare attuazione a due delle promesse fondative della nostra democrazia. Da un lato, quella costitutiva dell’”essere in relazione” contenuta nell’art. 2 Cost., posto che la giustizia riparativa è geneticamente orientata alla riaffermazione della centralità delle persone coinvolte nel conflitto generato dal reato. Dall’altro lato, quella “concreta utopia” dell’art. 3 Cost., dal momento che la giustizia riparativa può assumere una funzione liberante e tradursi in strumento per rimuovere gli ostacoli allo sviluppo della persona (tanto della persona indicata come autore dell’offesa, quanto della vittima), che derivano dalla commissione del reato. Una sfida culturale che può essere appassionante e feconda, a patto di armarsi di grande onestà intellettuale. I nemici principali della giustizia riparativa rischiano di essere proprio i giuristi, troppo abituati a guardare il mondo esclusivamente attraverso i loro occhiali. *Ordinario di Diritto processuale penale Università di Genova Così Mandela liberò anche gli oppressori dal loro stesso odio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 marzo 2023 La prima forma di giustizia riparativa si realizza in Sudafrica tra il 1994 e il 2002, con l’invenzione e l’effettiva attuazione di un’idea di giustizia diversa: riconoscere e perdonare. Nel film “La parte degli angeli” di Ken Loach, ambientato in Scozia, c’è un giovane ragazzo, Robbie, con il passato da teppista, che riduce su una sedia a rotelle un suo coetaneo per un diverbio stradale. A Robbie non viene inflitta la punizione carceraria, ma un percorso in comunità basato su lavori socialmente utili, che inizia dopo un toccante incontro con la madre della vittima, la quale in presenza di funzionari della giustizia e dei servizi sociali lo apostrofa disperata: “Vedi come hai ridotto mio figlio? Ti rendi conto?”. A quel punto Robbie ha una reazione a sua volta disperata, piange, si mette la mano tra i capelli, trema. Robbie si è reso conto del male che ha fatto. Ken Loach ha centrato il suo film su una fase importante della “giustizia riparativa”. In quel caso, riguardante ragazzi e ragazze adolescenti. In Italia, tale istituto, attraverso la riforma Cartabia, da nicchia potrebbe diventare sempre più esteso anche nel contesto degli adulti. Ma la prima forma di giustizia riparativa l’abbiamo avuta in Sudafrica tra il 1994 e il 2002, quando il Paese “inventò” e sperimentò un’idea di giustizia diversa. Di tipo ‘riparativo’. “Sapevo che l’oppressore è schiavo quanto l’oppresso, perché chi priva gli altri della libertà è prigioniero dell’odio, è chiuso dietro le sbarre del pregiudizio e della ristrettezza mentale. L’oppressore e l’oppresso sono entrambi derubati della propria umanità. Da quando sono uscito dal carcere è stata questa la mia missione: affrancare gli oppressi e gli oppressori”: con queste parole Nelson Mandela concluse la propria autobiografia scritta durante quasi tre decenni di prigionia e pubblicata nel 1994. E fu di parola, nonostante la brutale carcerazione che aveva subito. Ricordiamo che la politica dell’Apartheid fu perfezionata nel 1951 con la costituzione dei bantustan, chiamati formalmente homelands (“patrie”), territori destinati ai diversi gruppi bantu, che così erano separati sia dalla comunità bianca al potere, sia tra loro. Fu una politica di segregazione razziale, politica statale globale sostenuta da leggi, inerente tutti gli aspetti della società e tesa a garantire l’assoluto predominio della minoranza bianca. Gli oppositori dell’apartheid sono stati perseguiti penalmente e il governo ha inasprito la propria politica di repressione fino a trasformare il Sudafrica in uno stato di polizia. Con la segregazione ci sono stati duri anni di soprusi e intolleranze. Solo nel novembre del 1993 viene raggiunto un accordo che mette fine all’apartheid, e nel 1994 si tengono le prime elezioni politiche in cui votano gli appartenenti a tutte le razze. Vince Nelson Mandela, primo presidente di colore del Sudafrica dopo ventisette anni di reclusione. Due anni dopo, nel maggio 1996, viene varata la nuova Costituzione del Sudafrica. Mandela, però, sapeva che per ricostruire il futuro sulle basi del passato, si doveva prima fare pace con il passato stesso. La riconciliazione in Sudafrica è stata un processo storico, e soprattutto una lezione sui diritti umani per l’intera umanità. Venne così istituita la Commissione per la verità e la riconciliazione in cui gli aguzzini dovevano confrontarsi con le vittime, guardarle negli occhi e ascoltare le atrocità subite. Diventò quindi un tribunale in cui i carnefici (non solo gli aguzzini del regime, ma anche quanti, nella lotta antisegregazionista, si erano macchiati di delitti) erano chiamati a dare testimonianza piena, di fronte alle vittime, dei loro atti, inclusi i più aberranti. In cambio potevano ottenere, in una seconda fase, l’amnistia per quanto avevano confessato. Un tribunale che non condannava, ma assolveva dopo il confronto: la presa di coscienza di quanto hanno fatto i colpevoli ha avuto più valore di qualsiasi altro tipo di punizione per entrambe le parti. Non è stato un percorso facile, l’accertamento della verità, l’ammissione delle colpe, il perdono, l’amnistia: dal rapporto della Commissione del 1998 consegnato a Mandela, emergono 21.800 terribili testimonianze rese da vittime e familiari, 1.163 i persecutori amnistiati. Non è stato facile, ma grazie al processo di riconciliazione, la strada verso la pace è stata macchiata di molto meno sangue di quanto fosse lecito attendersi dopo una storia di atroce razzismo e di feroce crudeltà. Al di là dell’aver evitato il bagno di sangue e aver interrotto la spirale perversa dei regolamenti di conti, la Commissione ha segnato uno spartiacque soprattutto nella cultura giuridica internazionale. Non è un caso che nel 2015 l’Onu ha adottato gli standard minimi di tutela in materia di trattamento penitenziario dei detenuti, le “Mandela Rules”, in onore appunto di Nelson Mandela. E non è un caso che alla seconda pagina del documento approvato, compare anche la “giustizia riparativa”. Riconoscimento e riconciliazione. Dal cardinal Martini all’idea di Cartabia di Marta Cartabia* Il Dubbio, 13 marzo 2023 Riportiamo di seguito un estratto da “Un’altra storia inizia qui. La giustizia come ricomposizione”, libro pubblicato nel 2020 per Bompiani da Marta Cartabia e Adolfo Ceretti. Vedere, visitare E così, infine, il percorso imprevedibile dei ensieri coraggiosi e lungimiranti di Carlo Maria Martini - descritti dall’amico Adolfo Ceretti in questo volume in modo raffinatissimo - ha raggiunto anche me. Quel pensiero profondo e innovativo sulla giustizia, sul male, sulla colpa, sulla pena, sul carcere, sulla riconciliazione mi ha raggiunta ora, anche se, inevitabilmente, mi ha lambita sin dagli anni della sua presenza a Milano: quelli sono anche gli anni dei miei studi giuridici e dei miei primi passi nella carriera accademica nel capoluogo lombardo, ma in quella fase i miei interessi erano rivolti altrove, professionalmente concentrati su altri rami del diritto. Non è sufficiente essere esposti a riflessioni profonde per esserne perturbati; occorre che il terreno sia preparato perché una parola, un’idea, un pensiero, pur sublimi, si radichino e si accendano in chi ascolta. Eper comprendere una riflessione sulla realtà dei delitti e delle pene “bisogna aver visto”, come osservava Piero Calamandrei in un celebre intervento sulla situazione del carcere pubblicato sulla rivista Il Ponte nel 1949 (Calamandrei, 1949). Anche per Carlo Maria Martini è iniziato così, dall’aver visto. Anzi: dall’aver visitato. Noto studioso e biblista, uomo di pensiero e di riflessione, Martini inizia la sua attività pastorale come arcivescovo di Milano scegliendo come luogo di elezione proprio il carcere di San Vittore, per il risuonare in lui di quel versetto del capitolo 25 del Vangelo secondo Matteo che tante volte ha ripetuto nei suoi scritti e nei suoi interventi: “Ero in carcere e mi avete visitato. “Venendo a Milano, ho voluto iniziare la visita pastorale alla città e alla Diocesi cominciando proprio dal carcere di San Vittore, quale segno emblematico delle contraddizioni e delle sofferenze della società. Mi urgevano e mi urgono dentro le parole di Gesù: “Ero in carcere e mi avete visitato” (cfr. Matteo 25, 43) (Martini, 2003, pp. 5 e 132). L’azione del visitare nel pensiero di Carlo Maria Martini ha una valenza umana e religiosa profondissima: lungi dalla formalità dell’atto di cortesia che talvolta il linguaggio comune evoca, descrive un rapporto coinvolgente, come quello biblico di Dio che visita il suo popolo: Il termine “visitare” va compreso naturalmente nel suo profondo e ricco significato bibl`ico: Dio “visita” il suo popolo perché lo vuole incontrare, vuole stare con lui e condividerne la vita, vuole provvedere ai suoi bisogni e soccorrerlo nell’angoscia, vuole liberarlo dalla prigionia (Martini, 2003, pp. 68-69). Similmente: Visitare i carcerati vuol dire prendersi cura di loro, recarsi nella casa dei prigionieri, intrattenersi con loro per amicizia, offrire ad essi un possibile servizio, liberarli (Martini, 2003, p. 126). È singolare notare che il verbo utilizzato dalla versione greca di Mt 25,36 e Mt 25,43, in corrispondenza del verbo latino visitare, è episkeptomai, verbo che, nella sua gamma semantica, include il “vedere con attenzione”. Da questa parola deriva il termine con cui ancora oggi si indica chi presiede una comunità cristiana: il munus episcopale del vescovo racchiude in sé, come suggerisce il verbo greco, le azioni di andare a vedere, visitare, ma anche aiutare i più deboli provvedendo ai loro bisogni. È di grande suggestione pensare che l’arcivescovo di Milano abbia iniziato la visita pastorale della città immedesimandosi fino in fondo con quel compito che sin dal nome che lo designa evoca, quasi letteralmente, l’atto di visitare piegandosi su chi soffre di più. È l’esperienza del carcere, ripetutamente e regolarmente visitato, la sorgente del suo pensiero così carico di idee nuove tanto nella sua dimensione teologica e biblica quanto in quella civile e sociale. È dal vedere che sorge l’idea. Idea viene dal greco idéin, che pure significa vedere. Quando ci si lascia coinvolgere dall’esperienza di ciò “che abbiamo udito, veduto, contemplato e toccato”, scrive Jean Vanier, sorgono le grandi domande. Sono soprattutto le “esperienze paradossali” di un “mondo sottosopra” a destare le domande e “le idee vengono quando ci si mette in ricerca, si fanno le domande” (Vanier, 2015, pp. 9-24). Di qui la potenza creativa e innovativa del conoscere visitando. Si parva licet, anche noi giudici costituzionali, di recente, abbiamo visto, grazie a una encomiabile e inedita iniziativa della Corte costituzionale che ha preso avvio con una visita al carcere di Rebibbia il 4 ottobre 2018. Il viaggio della Corte costituzionale nelle carceri italiane (Corte costituzionale, 2018) ci ha portati in numerosi istituti di detenzione, dove abbiamo incontrato le persone ristrette, la Polizia penitenziaria, i direttori, gli educatori, i volontari. Abbiamo osservato i luoghi, abbiamo condiviso tempo ed esperienze, abbiamo dialogato e molto ascoltato. A chi scrive, il 15 ottobre 2018, è capitato di oltrepassare per la prima volta quella soglia del carcere di San Vittore che tante volte fu varcata dal cardinale Martini negli anni del suo episcopato. E così, avendo visto, è ora possibile rileggere con una consapevolezza accresciuta le parole e i pensieri di Carlo Maria Martini che, precorrendo i tempi con lungimiranza profetica, anticipava riflessioni che oggi incominciano a trovare accoglienza - benché ancora timida e incerta - nel dibattito pubblico sul carcere, sul senso della pena, sulle esigenze di sicurezza della società. Ciò che si scopre visitando il carcere è la consapevolezza che dietro le mura che recludono vive un mondo paradossale, un mondo sottosopra, per riprendere le espressioni di Jean Vanier; dove, per fermare la violenza, si deve compiere un atto di forza; dove, per tutelare i diritti, si debbono limitare i diritti; dove, per assicurare la libertà, si deve restringere la libertà; dove, per proteggere i deboli e gli indifesi, si devono rendere deboli e indifesi gli aggressori e i violenti. Il carcere è una realtà drammatica che costringe a fare verità è lo specchio rovesciato di una società, lo spazio dove emergono tutte le contraddizioni e le sofferenze di una società malata (Martini, 2003, p. 80). In seguito al primo incontro della Corte a San Vittore, è nato un rapporto con tante persone che abitano e animano quell’istituzione. Un gruppo di detenuti ha dato vita a un’iniziativa che è stata chiamata Costituzione viva: in questo ambito, detenuti provenienti da ogni dove si trovano a riflettere con regolarità sui valori fondativi della nostra convivenza civile, guidati da alcuni docenti. Allo stesso scopo, a cadenza annuale, il 15 ottobre si ripropone la visita di un giudice della Corte costituzionale. Una nuova storia ha preso avvio e così il vedere è divenuto un visitare, certo senza quella pregnanza biblica e salvifica alla quale Martini si riferiva, ma, più semplicemente e laicamente, come azione iterativa del vedere, del frequentare, che muove l’esigenza di tornare a vedere e a vedersi, ancora e ancora. In questo senso il carcere è una di quelle realtà che attende di essere visitata, per quella inspiegabile potenza dei rapporti che ivi si instaurano, che costringono a parlarsi con verità. Il dramma del carcere non tollera formalità e finzioni, non sopporta discorsi di circostanza o richiami superficiali a buoni sentimenti. Visitare un carcere è una esperienza esigente: chiede una partecipazione integrale, di tutta la persona, con la sua professionalità e la sua umanità. Il carcere è un luogo dove accade che a ogni visita le domande che si destano sono assai più numerose e complesse delle risposte che si possono offrire. Significativo è che nel docufilm che racconta il viaggio in Italia della Corte costituzionale uno dei giudici, a un certo punto della sua visita, afferma: “Sento la drammaticità delle vostre domande e l’inevitabile inadeguatezza delle mie risposte”. È dal senso di inadeguatezza rispetto ai problemi visti e dal lasciarsi inquietare dall’impatto con un frammento di realtà sconosciuta, contraddittoria e spiazzante che nascono nuovi interrogativi e di lì, forse, nuove idee: dopo gli incontri con i detenuti o in occasione degli scambi epistolari con loro, emerge ogni volta la domanda: è umano ciò che stanno vivendo? È efficace per un’adeguata tutela della giustizia? Serve davvero alla riabilitazione e al recupero dei detenuti? Cosa ci guadagna e cosa ci perde la società da un sistema del genere? (Martini, 2003, pp. 10 e 80). La genesi dei “pensieri alti” di Martini - per attingere ancora una volta ad alcune felici espressioni di Adolfo Ceretti - si radica dunque nella sua azione, oltre che nel suo pensiero. Perciò, tra i moltissimi insegnamenti innovativi del cardinale, che hanno generato molti cambiamenti in Italia e altrove e che molto ancora potrebbero generare di fronte alla bruciante “domanda di giustizia” (Martini-Zagrebelsky, 2003) del nostro tempo, vorrei anzitutto insistere sul metodo che traspare dagli scritti che abbiamo la fortuna di poter leggere e meditare. I contributi di Carlo Maria Martini in materia di giustizia penale, oggi meritevolmente raccolti nel volume “Non è giustizia” (Martini, 2003), sono ricchi e numerosi e si contraddistinguono per la complessità della sua riflessione: mai esclusivamente giuridica, anche se mai priva di precisi riferimenti all’ordinamento vigente; mai meramente pragmatica, anche se contraddistinta da una conoscenza di prima mano di tante situazioni personali e istituzionali; mai esclusivamente teologica, anche se profondamente intrisa e pervasa dalla “Parola”, come Martini amava ripetere. In ogni caso, dal punto di vista metodologico, il suo apporto al problema della giustizia non si esaurisce mai in una dimensione puramente intellettuale o speculativa. Del resto, il problema non può essere affrontato in chiave teorico-speculativa: Martini lo afferma chiaramente nel suo dialogo con Gustavo Zagrebelsky, nell’edizione conclusiva della Cattedra dei non credenti del 29 maggio 2002, pubblicata in un prezioso volumetto dal titolo. La domanda di giustizia. Invero è proprio Gustavo Zagrebelsky ad aprire le sue riflessioni con la constatazione che “giustizia” è un concetto inafferrabile, ineffabile, inattingibile sul piano concettuale (Martini-Zagrebelsky, 2003, p. 4), anche se continuano a sovrabbondare gli studi che si 67 interrogano intorno a esso, a testimonianza del bruciante bisogno e della “fame e sete di giustizia” che attraversano tutte le vite umane, personali e Collettive (Martini-Zagrebelsky, 2003, p. 12). Ogni tentativo di accostarsi al tema sul piano meramente speculativo è infecondo e destinato a fallire, perché la giustizia non è tanto un’idea che si colloca fuori di noi, ma “un’esigenza che postula un’esperienza personale: l’esperienza, per l’appunto, della giustizia o, meglio, dell’aspirazione alla giustizia che nasce dall’esperienza dell’ingiustizia e dal dolore che ne deriva” (Martini-Zagrebelsky, 2003, p. 16). Oliviero Mazza: “Attenti però: presunzione d’innocenza e riparazione non sono conciliabili” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 marzo 2023 Per il professor Oliviero Mazza, ordinario di Diritto processuale penale presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, “nel corso del processo, la giustizia riparativa, in tutte le sue forme, è ontologicamente incompatibile con il rispetto della presunzione d’innocenza”. Vediamo perché. Uno degli aspetti a cui teneva maggiormente l’ex guardasigilli Cartabia rispetto alla riforma del processo era la parte sulla giustizia riparativa. Lei ritiene che culturalmente sia un passo importante? La giustizia riparativa rappresenta indubbiamente una rivoluzione del paradigma punitivo che, però, è connotata da una forte caratterizzazione morale, antitetica rispetto alla visione liberale e democratica della giustizia penale nella quale mi riconosco. La laicità del diritto penale è una conquista di civiltà giuridica che va difesa quale argine rispetto alle derive autoritarie storicamente determinate dalla sovrapposizione fra Stato etico e pretesa punitiva. Nella sua declinazione pratica, la giustizia riparativa rischia di portare con sé due ulteriori conseguenze non proprio auspicabili: la privatizzazione del processo penale, trasformato in luogo di mera composizione dei conflitti interindividuali, e la monetizzazione della responsabilità, a sua volta foriera di disparità di trattamento fondate sulle condizioni economiche degli imputati, in patente violazione dell’articolo 3 Cost. Il trend è già oggi ben delineato in tutti i casi di procedibilità a querela del reato, per non parlare del ruolo improprio assunto dalla costituzione di parte civile. Dal punto di vista giuridico quindi lei rileva delle criticità? Nel corso del processo, la giustizia ripartiva, in tutte le sue forme, è ontologicamente incompatibile con il rispetto della presunzione d’innocenza che impone addirittura il ribaltamento dei ruoli, per cui l’imputato va considerato non colpevole e la vittima va presunta non tale o comunque non vittima dell’azione dell’imputato. La situazione è aggravata dal fatto che il pericoloso innesto della giustizia riparativa nel processo penale avviene per scelta d’ufficio del giudice o del pubblico ministero (art. 129-bis co. 1 c.p.p.), ossia ad opera di soggetti istituzionalmente tenuti a rispettare la presunzione d’innocenza. Sia pure nell’ottica penitenziale e perdonistica, la giustizia riparativa sarà una forma di pesantissima coazione sulla libertà morale dell’imputato e della difesa. La norma prevede che “in ogni caso, la mancata effettuazione del programma, l’interruzione dello stesso o il mancato raggiungimento di un esito riparativo non producono effetti sfavorevoli nei confronti della persona indicata come autore dell’offesa”. Pensa che il giudice possa invece essere condizionato dall’insuccesso dell’opzione riparativa? Nessuna cautela legislativa impedirà al giudice di addossare per intero all’imputato il costo del fallimento della mediazione, tanto in termini di pena quanto di trattamento processuale, senza nemmeno dover motivare esplicitamente al riguardo. Il solo dilemma della mediazione finirà per incidere negativamente sulla posizione dell’accusato, con buona pace, come detto, della presunzione d’innocenza e del diritto di difesa. Questa norma trasforma il processo sbilanciandolo tutto sulle pretese delle vittime? La giustizia riparativa si fonda sulla inversione della presunzione d’innocenza e vi si accede “soltanto… nell’interesse della vittima” (art. 43 co. 2 d.lgs. n. 150 del 2022). Siamo dinnanzi a un sistema dichiaratamente vittimocentrico che presuppone la colpevolezza dell’imputato. Avendo ben chiara questa situazione, appare inammissibile e incostituzionale qualunque intersezione fra processo di cognizione e giustizia riparativa. Le conseguenze sistematiche sul modello processuale saranno dirompenti. Secondo lei come andrebbe ripensata la norma? Punto fermo irrinunciabile deve essere la netta separazione fra giustizia riparativa e processo penale. La prima dovrebbe essere collocata nella sua sede naturale, ossia nella fase esecutiva della pena quando i ruoli di vittima e colpevole sono definiti dal giudicato, ma se proprio la si volesse svolgere in parallelo al processo, dovrebbe essere un fiume carsico invisibile all’autorità giudiziaria e pronto ad emergere solo nel caso di esito positivo. Temo, però, che una perfetta segregazione dei piani sia concretamente impossibile e certamente non garantita dall’attuale quadro normativo, che si compone di norme tecnicamente rivedibili, come quella che sancisce l’inutilizzabilità processuale della documentazione, ossia dei verbali, della mediazione, ma che non impedisce alla vittima o allo stesso imputato di riferire al giudice quanto avvenuto a quel tavolo. Occorre poi ripensare, attraverso una seria e ampia discussione finora del tutto assente, il concetto stesso di giustizia riparativa in rapporto al valore, per me irrinunciabile, della laicità del diritto penale e alle degenerazioni della privatizzazione e della monetizzazione della giustizia penale. Giustizia non è vendetta ma rispetto delle regole dello Stato di Diritto di Valentina Angela Stella penaledp.it, 13 marzo 2023 Cosa hanno in comune, ad esempio, i processi Ciontoli, Viareggio, Mottola, Rigopiano? Che se un giudice si azzarda a derubricare, prescrivere o assolvere, contro di lui si scatenano le aggressioni verbali da parte dei parenti delle vittime e di qualche politico. Ripercorriamo brevemente queste vicende. Per la morte di Marco Vannini, nel primo processo di appello, la Corte derubricò da omicidio volontario a colpa cosciente il reato con cui venne condannato Antonio Ciontoli. La Cassazione, nel caso della strage di Viareggio, dichiarò l’estinzione di alcuni reati per intervenuta prescrizione. Qualche mese fa la Corte di Assise di Cassino ha assolto la famiglia Mottola per l’omicidio di Serena Mollicone. A fine febbraio di quest’anno un G.U.P. del Tribunale di Pescara ha assolto 25 dei 30 imputati e comminato altre cinque lievi condanne: era il 18 gennaio 2017 e una slavina si abbattè sull’Albergo Rigopiano Gran Sasso Resort. Una tragedia immensa in cui persero la vita 29 persone. Alla lettura della sentenza in aula si è scatenato un putiferio: abbiamo sentito i parenti e gli amici delle vittime urlare, rivolti al G.U.P., “bastardo” “devi morire” “venduto” “fai schifo” “non finisce qui”, e anche di peggio. E il magistrato è stato costretto a lasciare l’aula scortato. La stessa epifania di dolore e rabbia l’abbiamo vista manifestarsi negli altri casi. Tutto questo, ci chiediamo, è normale in un’aula di giustizia? Contemporaneamente, in questo ultimo caso, è arrivato anche un tweet del Ministro Matteo Salvini: “29 morti, nessun colpevole (o quasi). Questa non è ‘giustizia’, questa è una vergogna”. Ebbe ragione il professore Glauco Giostra quando, durante un convegno, fece la seguente riflessione: “Avete fatto caso che ‘giustizia è fatta’ è esclamazione riservata soltanto alle sentenze di condanna?”. Perché dunque prevale questo sentimento? Molto spesso il frutto avvelenato di questa visione distorta del processo è rappresentato dalle aspettative create dalle procure nei familiari delle vittime, aspettative che poi si trasformano in “verità assoluta” sulla gran parte dei giornali e in televisione. Se poi quelle aspettative non trovano alcun riconoscimento in una sentenza, ecco lo scandalo, con il giudice trasformato in bersaglio sul quale scagliarsi perché giustizia deve significare solo condanna. Se c’è una vittima innocente, occorre individuare un colpevole. Altrimenti il sistema giustizia ha fallito. Un’idea, questa - come ha scritto il Presidente dell’Unione delle camere penali, Gian Domenico Caiazza nella sua lettera aperta al Ministro Salvini -, “spaventosa perché presuppone che l’assoluzione dell’imputato sia il naufragio della giustizia, la condanna il suo trionfo e che il buon giudice sia colui che assevera incondizionatamente l’ipotesi d’accusa”. Di chi sono le responsabilità di questa distorta visione del processo penale? Innanzitutto di alcuni magistrati requirenti troppo zelanti che amano dare eccessiva enfasi alle loro indagini, dentro e fuori l’Aula. Pensiamo solo al fatto che nel caso di Rigopiano, il 24 novembre scorso, dopo oltre due anni di processo, per la prima volta furono fatti tutti i nomi delle vittime e, addirittura, mostrati anche i loro volti. È stato il sostituto procuratore durante la sua requisitoria a colmare la lacuna, causata dalla formula processuale del rito abbreviato, durante il quale si saltano alcuni passaggi e non viene ricostruita l’intera vicenda, lasciandola quindi alle conclusioni dell’accusa. “Il dolore che tutti hanno provato di fronte a questa tragedia è stato il motore di questo ufficio, e a questo dolore vogliamo dare una risposta”: ha detto la magistrata. Pur nel massimo rispetto verso la sofferenza indicibile di chi ha perso una madre, un figlio, una sorella ma è davvero questa la ragione che deve spingere un pubblico ministero a chiedere delle condanne? Tra i numerosi parenti delle 29 vittime c’è stata commozione durante quel momento e anche qualche lacrima, “è come se ci fossimo riappropriati del processo, ci ha molto colpito il gesto non scontato del pm, ci ha fatto piacere in qualche modo”, hanno detto alcuni familiari. Tuttavia i corresponsabili siamo noi giornalisti che raccontiamo le vicende giudiziarie la maggior parte delle volte sposando solo le tesi dell’accusa. Una ricerca condotta qualche anno fa dall’Osservatorio Informazione Giudiziaria dell’Unione Camere Penali, in collaborazione con il dipartimento di statistica dell’Università di Bologna, ha rilevato, analizzando gli articoli di cronaca giudiziaria, “acquiescenza pregiudiziale alle tesi dell’accusa, inadeguato distacco dal ‘potere’ giudiziario, a volte ideologicamente - quanto acriticamente - considerato un ‘contropotere’ del male assoluto, ‘la politica’”. Il contenuto degli articoli, poi, “è fondato essenzialmente su fonti di carattere accusatorio (circa il 70% degli articoli non riporta la difesa quale fonte di informazione), e comunque larga parte del contenuto è, ancora una volta, modellato sulle tesi d’accusa, siano esse oggetto di apprezzamento e consenso o di mera esposizione”. Inoltre, oltre il 60% delle notizie riguardava l’arresto e le indagini preliminari, solo l’11% la sentenza. Tornando all’oggi, quel gesto del pm di Rigopiano e la conseguente reazione solidale di chi era in aula quel giorno hanno avuto ampia eco sui giornali e in tv. Ma al contraddittorio tra le parti è stata data la stessa risonanza mediatica? Non in questo caso, e no negli altri casi sopra citati. Quello che conta è mandare in onda la pornografia del dolore, oramai divenuto l’unico modo per fare cronaca giudiziaria in questo Paese. L’informazione giudiziaria è parziale, appiattita sulle tesi dei pubblici ministeri e manca della partecipazione al pubblico della fase principale dell’iter giudiziario: il processo, durante il quale, grazie al contraddittorio delle parti, emerge la prova. Chi un po’ frequenta i palazzi di giustizia sa benissimo che la calca dei giornalisti c’è solo casomai il primo giorno del processo, o tutt’al più quando depone l’imputato e il giorno della sentenza. Ma come si può spiegare all’opinione pubblica una sentenza se non si è seguito il dibattimento? Più che scrivere di esami e controesami, la stampa sente maggiormente il bisogno, ad esempio, di riprendere gli imputati in aula, carpire emozioni, gesti, offrire al pubblico la loro presenza nelle gabbie. A dividersi la responsabilità con magistrati star e giornalisti embedded delle Procure ci sono anche politici e rappresentanti istituzionali che senza conoscere minimamente gli atti di un processo lanciano strali contro i magistrati che fanno solo il loro lavoro, prendendo a volte decisioni scomode e coraggiose. Il paradosso è che proprio queste figure, attraverso questi giudizi tranchant, negano le regole di quello Stato di Diritto che proprio loro dovrebbero rappresentare in quel momento. Chi paga il conto di tutto questo? Appunto quel povero G.U.P. di Pescara e altri giudici come lui. Più è alta la mediaticizzazione di un processo nella sua fase di indagine, più viene cristallizzata sui media la versione dell’Accusa che si trasforma erroneamente in verità assoluta, più le macchine comunicative di certi politici cavalcano l’onda populista e più il magistrato che decide che ha ragione la difesa viene crocifisso. Come ha detto il procuratore capo di Pescara, Giuseppe Bellelli, benché sconfitto nel processo: “La sentenza merita rispetto, così come rispetto è dovuto al giudice ed alla funzione dallo stesso esercitata, fermo restando il diritto di critica. Le aggressioni verbali in aula dopo la lettura della sentenza non possono essere tollerate, così come non è accettabile il dileggio del magistrato da chiunque posto in essere”. Per il procuratore, “il giudice, nella solitudine della camera di consiglio, decide in piena indipendenza, senza dover assecondare le aspettative della opinione pubblica, attenendosi solo alla legge ed alle risultanze processuali”. Sotteso alla insofferenza verso le sentenze di assoluzione c’è uno dei tre grandi mali che affligge il nostro sistema giudiziario. Insieme a giustizialismo e panpenalismo troviamo il vittimo-centrismo. Lo descrive bene Daniele Giglioli in ‘Critica della Vittima’ (figure nottetempo): “La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. Non agisce, patisce. Nella vittima si articolano mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa, desiderio di avere e desiderio di essere. Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che abbiamo subito, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto. È tempo però di superare questo paradigma paralizzante, e ridisegnare i tracciati di una prassi, di un’azione del soggetto nel mondo: in credito di futuro, non di passato”. “Abbiamo cominciato a soffrirne molto - mi disse il professor Ennio Amodio in una intervista al Dubbio - quando si è sviluppata la politica penale del Movimento Cinque Stelle e della Lega. Nel mio libro ‘A furor di popolo’ ho cercato di individuare la trama di questo nuovo pensiero populista che abbandona i principi dell’Illuminismo e predica una penalità sempre più severa, che sgorga appunto dalla sete di vendetta delle vittime e scavalca il potere dei giudici. Si dubita persino che i giudici siano in grado di interpretare il desiderio di applicazione della pena che arriva dalle vittime. Quindi si cerca di circoscrivere l’intervento discrezionale del giudice, considerandolo come lassista, un atteggiamento che un sistema non si dovrebbe permettere, in quanto la sanzione penale deve essere sempre dura e inflessibile”. Si tratta di una componente quasi connaturata alla fisionomia e al sentire degli individui. Non a caso l’antecedente storico del diritto è la vendetta. È giunto il momento di lavorare per un cambiamento culturale, di cui dobbiamo farci carico anche noi giornalisti nello spiegare esattamente cosa sia il processo penale, ossia un insieme di regole, a volte incomprensibili, ma che reggono laicamente il nostro sistema giudiziario. Giustizia malata: manca personale e il giudice diventa centralinista di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 13 marzo 2023 La presidente del Tribunale di Sorveglianza: “Rispondo io al telefono”. Uffici vecchie impianti fuorilegge, a breve il trasferimento nei container, all’interno di una caserma. “Dei 27 cancellieri previsti dalla pianta organica ne abbiamo in realtà solo 14. Tra mille cose da fare, alcune urgenti, non riescono a rispondere anche al telefono. Li capisco, ma gli avvocati si lamentavano. Allora ho detto: un giorno a settimana lo faccio io”. E così la presidente del tribunale di sorveglianza di Bologna, Manuela Mirandola, ha scritto un provvedimento organizzativo con cui “dispone che la dottoressa Mirandola sarà disponibile a rispondere al telefono il mercoledì dalle ore 11,30 alle 12,30 a causa della rilevante scopertura di organico”. Ed è diventata la prima giudice-centralinista d’Italia. “Non volevo pubblicità, ma dare un segnale”, racconta appena finito il primo turno da centralinista. Prima telefonata da un’avvocata che chiedeva informazioni sull’istanza per un cliente: “Gliele ho fornite, poi le ho ricordato che avrebbe potuto averle usando l’applicativo informatico”. Oltre che centralinista, alla bisogna Mirandola funge anche da capoufficio, organizzando i piani ferie degli impiegati, l’acquisto dei toner e le comunicazioni all’Inps. E da postina, smistando mail e raccomandate (ne arrivano centinaia ogni giorno) quando i cancellieri non ce la fanno. È accaduto sotto Natale: l’unico non in ferie si è ammalato e l’ufficio era scoperto. “Certi giorni ho la sensazione di essere abbandonata”, dice. Dopo mille denunce al ministero sulla “grave situazione che comporta l’oggettiva impossibilità di svolgere i servizi”, ha deciso di arrangiarsi. “Non sono un manager, non posso fare assunzioni”, spiegava a chi gli chiedeva conto della sua decisione. Può solo trasformarsi in centralinista. Gli avvocati hanno gradito. Qualche collega ha storto il naso. Ma l’Associazione nazionale magistrati le ha espresso “solidarietà e vicinanza”. I giudici di sorveglianza svolgono una negletta ma preziosa funzione sull’esecuzione delle condanne, in un sistema costituzionale orientato alla rieducazione. “Anche alcuni colleghi ci considerano giudici di serie B - sospira Mirandola. Gli altri fanno il lavoro nobile, noi i buttafuori dei detenuti”. In Italia ci si accorge di loro solo quando scoppiano casi da prima pagina (terroristi, boss mafiosi) o lo scarcerato torna a uccidere. Mirandola si era occupata delle istanze del capomafia Totò Riina, poco prima che morisse. Al tribunale di Bologna arrivano 20 mila istanze l’anno da tutta l’Emilia Romagna, che si aggiungono alle 11 mila di arretrato. Attualmente ci sono circa 7 mila istanze non ancora iscritte nel protocollo. Chissà quando saranno trattate. Capita che i giudici riescano a occuparsi di una pratica quando il condannato ha già finito di scontare la pena. Altro che digitalizzazione: è un flusso di carte incontenibile per i 14 cancellieri e i 5 magistrati (dovrebbero essere 27 e 9). Per la verità la presidente aveva disposto un turno-centralino anche per un direttore amministrativo, ma i sindacati sono insorti contro il demansionamento. “Allora ho ritirato la disposizione per lui. Paradosso nel paradosso. Io, invece, ho confermato il mio autodemansionamento”. L’emergenza giustizia a Bologna è questa. Mancano gli impiegati, i funzionari, gli autisti, i cancellieri. I tassi di scopertura, peraltro rispetto a piante organiche sottodimensionate, spaziano tra il 25% e il 50%. Il ministero ha promesso nuove assunzioni. Per mandare i fascicoli da un ufficio all’altro o in Cassazione c’è solo un’auto. Se la dividono, talvolta se la contendono. “Roma non ci ascolta. A me mancano i geometri per fare le manutenzioni - racconta Oliviero Drigani, presidente della Corte di Appello -. Ormai sono un esperto di burocrazia e manutenzioni, mi sto dimenticando come si fa il giudice. Potrei dirigere le Ferrovie dello Stato”. Gli uffici di Procura generale e Corte di Appello sono a due passi da quello della giudice-centralinista, nel settecentesco palazzo Baciocchi scelto da Marco Bellocchio come location per un film. Un capolavoro palladiano di sale affrescate e scaloni d’onore più adatto a un museo che a processi con decine di imputati ‘ndranghetisti, dove ogni settimana di confiscano patrimoni di decine di milioni di euro. Infatti gli impianti elettrici sono fuorilegge e non tutte le aule hanno i monitor per i processi in videoconferenza. Ora sono arrivati 3 milioni di euro di fondi del Pnrr, per qualche anno gli uffici dovranno a turno traslocare. Forse in una caserma dismessa, dove saranno piazzati dei container. “Siamo un distretto giudiziario sottovalutato - dice la procuratrice generale Lucia Musti. L’ho detto a tutti: qui non possiamo ammalarci. Una collega mi ha presa sul serio. Un giorno è arrivata in udienza reduce da un intervento ai denti, con la bocca semiparalizzata dall’anestesia”. Nei mesi in cui ha gestito il monumentale processo ai mandanti della strage alla stazione del 1980 oltre a quelli di mafia, la Procura generale si è arrangiata con 5 magistrati in organico sui 13 previsti, “senza piangerci addosso”. “Io stessa sono una e trina”, ha detto con amara ironia Musti nella solenne cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario. In attesa che il Csm copra i posti vacanti, oltre a fare da 15 mesi le funzioni del procuratore generale svolge anche quelle di avvocato generale e sostituto procuratore in udienza. “Roma è lontana: lavoriamo con organici ottocenteschi e il Csm ha tempi biblici”, allarga le braccia il presidente Drigani, che denota un certo gusto per l’iperbole. Nel frattempo la presidente Mirandola ha finito il suo primo giorno da centralinista. La ritroviamo a pranzo con Letizia De Maria, collega e segretaria della Anm bolognese. “È un sacrificio - le racconta - ma continuerò a farlo. Mi aiuta a capire le doglianze di cancellieri e avvocati da un punto di vista diverso”. Il populismo giudiziario che scorre nella lingua dei magistrati di Guido Vitiello Il Foglio, 13 marzo 2023 Cinquant’anni fa “baroni rampanti”, oggi, da Bergamo a Crotone, “cavalieri inesistenti”. Con una prosa enfatica e moraleggiante. Come una catena di monti, una dorsale linguistica invisibile attraversa gli uffici giudiziari della penisola da Bergamo a Crotone, congiungendo le parole del procuratore Chiappani, secondo cui è “nostro dovere soddisfare la sete di verità della popolazione” sulla gestione del Covid, all’ordinanza del gip Ciociola sui migranti, quella della “mareggiata pitagorica”, degli “aurighi dei natanti”, delle “vittime di un destino sordo”, dei “disperati viaggi della speranza”. Già, ma di quale bizzarro Appennino si tratta? Il linguista Vittorio Coletti, sul Secolo XIX del 9 marzo, ha tracciato una riga congetturale sulla nostra mappa: tra il populismo facilone del procuratore di Bergamo e l’estro verbale del gip di Crotone - che gli ricorda una versione un po’ aulica della brillantezza da social network - si direbbe che la magistratura stia cominciando a parlare, e soprattutto a pensare, come la gente comune. Per parte mia, non ho dubbi che il trait d’union tra Bergamo e Crotone sia il populismo giudiziario; non credo però che questo passi per l’adozione di un linguaggio schiettamente popolare. Del resto, “soddisfare la sete di verità” è formula nota al lessico della giustizia, e alle sue pagine più buie: nei manuali inquisitoriali del Dodicesimo e Tredicesimo secolo si legge che l’azione giudiziaria deve sitim veritatis restinguere, placare la sete di verità del popolo contro gli eretici, come ha ricordato l’avvocato Iacopo Benevieri, studioso di linguistica giudiziaria e autore di un libro prezioso sulle parole della giurisdizione, Abiura, appena pubblicato da Mimesis. Benevieri ricorda inoltre che solo nell’atto finale della procedura inquisitoriale, ossia la recitazione pubblica della sentenza, la lingua - che fino a quel momento era stata un latino imperscrutabile ed esoterico - diventava il volgare, la stessa del popolo a cui era destinata la predicazione esemplare. Non posso vantare le competenze di Coletti o di Benevieri, ma voglio ugualmente suggerire un’altra possibile guida alla lettura della nostra mappa, un po’ meno recente del linguaggio dei social network ma non così antica come i manuali inquisitoriali. Le frasi dei magistrati di Bergamo e di Crotone, infatti, mi hanno riportato alla memoria echi di un libro di cinquant’anni fa, scritto a quattro mani da Antonio Santoni Rugiu e Milly Mostardini, I P.G. Linguaggio politica educazione nei discorsi dei procuratori generali (Guaraldi, 1973). Gli autori analizzavano i discorsi pronunciati dai procuratori generali in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario per risalire, dal linguaggio usato, alla loro concezione implicita del ruolo del magistrato e del rapporto tra giustizia e società. Il libro, com’è inevitabile, porta tutti i segni del tempo in cui fu scritto: è un atto d’accusa, mosso da sinistra, contro l’immagine ieratica e conservatrice del magistrato come “sacerdote di Temi”, isolato dalla società e dai suoi tumulti. E allora com’è che ritroviamo lì le stesse parole e gli stessi vezzi dei nostri giorni populisti? Ci sono, in quel vecchio libro, gli antenati delle “mareggiate pitagoriche”: magistrati con la passione per il periodare ciceroniano, la punteggiatura teatrale, il linguaggio figurato, il metaforismo barocco, i richiami mitologici, le immagini corrusche da melodramma o da feuilleton, i preziosismi affettati di quello che gli autori chiamano, carduccianamente, “manzonismo degli stenterelli” (che a quel tempo, va detto, erano stenterelli un po’ meno stentati del gip di Crotone). Sono tic linguistici che tradiscono un’idea della funzione giudiziaria “in senso umanistico e di matrice umanistica”, un’idea premoderna e pastorale, da padre predicatore più che da tecnico del diritto. Troviamo anche, nei discorsi analizzati da Santoni Rugiu e Mostardini, occasionali riferimenti al popolo; ma si tratta di un popolo evocato astrattamente in funzione carismatica, o al limite vezzeggiato con un populismo tutto letterario, in uno stile che gli autori riportano al D’Annunzio del periodo tolstoiano. Sembrerebbero storie lontanissime. Quei procuratori appartenevano alla generazione aristocratica e sacerdotale dei “baroni rampanti”, come li ha battezzati lo storico del diritto Michele Luminati applicando brillantemente la trilogia di Italo Calvino all’immagine di sé che la magistratura ha coltivato dal 1945 a oggi. Dopo quella generazione sarebbero arrivati, sull’onda della contestazione, i “visconti dimezzati”, divisi tra l’applicazione della legge e la vocazione alla militanza politica. Ma anche quell’epoca è alle spalle. Da molti anni ormai siamo circondati da “cavalieri inesistenti”: magistrati che si attribuiscono un ruolo sociale esorbitante - sono filosofi, storiografi, taumaturghi, sociologi, giornalisti d’inchiesta - senza averne ben chiari i confini e la legittimità democratica. Nel vuoto dell’armatura fanno così rimbombare la prosa enfatica e moraleggiante dei nonni baroni o si affannano a proclamarsi amis du peuple come i padri visconti, ma si intuisce che sono molto più insicuri della propria funzione. Forse in cuor loro i cavalieri inesistenti sospettano che, se a gonfiarla non ci fosse il soffio continuo del richiamo retorico al popolo, alimentato dal mantice mediatico, la loro armatura si affloscerebbe a terra. “La violenza non cura”: lo slogan della giornata contro la violenza verso il personale sanitario di Chiara Daina La Repubblica, 13 marzo 2023 Una media di circa 1.600 l’anno fra aggressioni e minacce. Le più colpite sono le donne. Oltre un terzo delle violenze ha riguardato infermieri ed educatori professionali. Quello delle aggressioni contro il personale sanitario, all’ordine del giorno come testimoniano anche i casi di cronaca più recenti, è prima di tutto un problema culturale. “La violenza non cura” recita lo slogan della campagna di sensibilizzazione lanciata dal ministero della Salute per la seconda giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nei confronti degli operatori sanitari e sociosanitari che si celebra il 12 marzo. “Aggredirli verbalmente e fisicamente è un reato e un atto di inciviltà che va contro il tuo stesso interesse e quello della collettività” è il messaggio sulle locandine della campagna. “Chi attacca i professionisti e i volontari sanitari attacca il diritto alla salute - sottolinea Rosario Valastro, presidente della Croce rossa italiana. A farne le spese non sono solo i soccorritori ma anche i malati di cui non si sono potuti prendere cura a causa delle violenze psicologiche e fisiche subite. Se si insultano e picchiano gli operatori che si devono occupare della nostra salute tutti saremo più esposti alla mancanza di assistenza”. La Croce rossa italiana dal 2018 porta avanti l’iniziativa “Non sono un bersaglio” con l’allestimento nelle piazze di tutta Italia di tende dove i cittadini si immergono in scenari simulati di aggressioni e distruzioni agli ospedali da campo dell’ente. Più colpite le donne - L’Inail ha calcolato nel triennio 2019-2021 4821 casi di aggressioni e minacce nei confronti del personale sanitario. Una media di circa 1600 l’anno. Le più colpite sono le donne (71% dei casi) e la concentrazione maggiore di episodi si è verificata nella fascia di età 35-49 anni (39%). Oltre un terzo delle violenze ha riguardato infermieri ed educatori professionali. In particolare quelli impegnati nei servizi educativi e riabilitativi di minori, tossicodipendenti, alcolisti, carcerati, disabili, pazienti psichiatrici e anziani. Nel 3% dei casi di infortunio accertati dall’Istituto le vittime sono medici. “Rabbia, sfiducia, stress sul lavoro e abbandono della professione sono le conseguenze - riporta Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi). Secondo lo studio Cease-it svolto da otto università italiane nel 2022, tra gli oltre 5mila infermieri intervistati, il 32,3% riferisce di aver subito violenza la settimana precedente o nei 12 mesi precedenti. Tra questi ultimi circa il 25% riporta un danno fisico o psicologico causato dall’evento stesso, che sull’attività lavorativa nel 41% dei casi ha comportato morale ridotto, nel 33% burnout e nel 15% un’assenza lavorativa. Per prevenire le aggressioni - esorta Mangiacavalli - bisogna intervenire a monte, promuovendo un’informazione sull’uso corretto dei servizi sanitari, senza alimentare aspettative irrealistiche, in particolare in merito al pronto soccorso, che è dedicato solo alla gestione delle urgenze e quindi tutti i pazienti non gravi non dovrebbero rivolgersi a questa struttura evitando lunghe attese fonte di nervosismo e agitazione”. L’Osservatorio - Il ministero della Salute nel 2022 ha istituito l’Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie e sociosanitarie, che lo scorso anno ha registrato 85 atti di violenza contro medici e operatori sanitari, in crescita rispetto ai 60 del 2021. Si tratta di dati sentinella raccolti dalle Regioni (attraverso il Simes, cioè il sistema informativo per il monitoraggio degli errori in sanità), comunque ancora provvisori e incompleti. Anche la Croce rossa ha un osservatorio sulle aggressioni ai propri operatori, messo in piedi nell’ambito della campagna “Non sono un bersaglio”. Dal 2018 ha raccolto 245 segnalazioni, di cui 74 registrate nell’ultimo anno, il 2022, con un aumento del 60,8% rispetto al 2021. “Questo rialzo in parte è dovuto alla maggiore sensibilizzazione dei nostri volontari rispetto all’importanza di denunciare e in parte a un oggettivo incremento degli attacchi dopo il Covid - commenta Valastro. La pandemia ha portato con sé un malessere sociale e uno stato di incertezza economica e lavorativa che si traduce con una perdita di solidarietà e rispetto anche verso la sanità pubblica”. Aggressioni fisiche - Nel 44% dei casi si è trattato di aggressioni fisiche, che hanno comportato danni sia a persone (70%) sia a mezzi di soccorso (14%). “Particolarmente preoccupanti sono i dati relativi alla tipologia dell’aggressore - rileva la Croce rossa nel report sul 2022 -. Nel 20,48% dei casi l’aggressione è avvenuta da parte di un gruppo e, in quasi la metà dei casi (44,18%), l’aggressore era un utente”. Sul sito web dell’ente è disponibile un decalogo rivolto agli operatori sanitari per proteggersi contro il rischio di attacchi. “Io ti curo. Curami anche tu” è, infine, il motto della campagna di sensibilizzazione di Anaao, il sindacato dei medici dirigenti. “Per arginare gli atti di violenza contro medici e infermieri non basta inasprire le pene per gli aggressori. Va risolto il disagio profondo di cui le violenze sono l’effetto e non la causa”: Pierino di Silverio, segretario nazionale di Anaao, fa riferimento al “problema del boarding”, cioè alle lunghe attese dei pazienti in Pronto Soccorso, spesso in barella, per un posto letto in reparto, che determina sovraffollamento e rallentamenti dell’attività di soccorso, e alla “mancanza di figure di accoglienza, come psicologi e assistenti sociali, nella sala di attesa del pronto soccorso per rassicurare utenti e parenti”. Umbria. Chiesta la creazione di una Rems per i detenuti psichiatrici retesole.it, 13 marzo 2023 Appello da parte di Giuseppe Caforio, Garante per le persone sottoposte a misure restrittive: incontro a Spoleto con la presidente Donatella Tesei. Creare al più presto una Rems, ovvero una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza nei confronti dei detenuti psichiatrici. Questo ciò che le istituzioni umbre dovrebbero fare secondo Giuseppe Caforio, garante regionale per le persone sottoposte a misure restrittive. L’Avvocato avrebbe avuto modo di affrontare il tema con la governatrice Donatella Tesei a Spoleto, in occasione della visita effettuata all’interno del carcere insieme all’assessore regionale alla Sanità e alle Politiche sociali, Luca Coletto, e al sottosegretario di Stato alla Giustizia, Andrea Ostellari. A quanto pare, Caforio avrebbe anche chiesto di rafforzare la presenza di medici specialistici, soprattutto di psichiatri. Il giro effettuato all’interno della Casa di Reclusione del Comune umbro avrebbe permesso di avere colloqui diretti con i detenuti, in particolare quelli sottoposti all’alta vigilanza, nonché con i responsabili delle strutture sanitarie delle carceri dove poi si evidenziano le situazioni di maggiore criticità. Importante il fatto che la presidente Tesei abbia ricordato come in Umbria il 65% dei detenuti provenga da altre regioni italiane. Nell’ambito del confronto sull’autonomia differenziata, la stessa Governatrice intenderebbe chiedere interventi economici straordinari per i servizi di assistenza sanitaria nelle case circondariali. Salvo eventuali cambi di programma, il tema delle risorse finanziarie per la sanità dei detenuti dovrebbe essere inserito nel confronto immediato sui Livelli essenziali delle prestazioni, noti anche come Lep, così da risolvere problemi piuttosto annosi nelle carceri. Milano. Carcere di San Vittore, il raid punitivo e le accuse di pedofilia. Indagati 4 detenuti di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 13 marzo 2023 La vittima del feroce pestaggio è un ragazzo di 19 anni: gravi lesioni alla milza e alla mandibola. Era stato minacciato di non raccontare l’aggressione. “Fuori” la febbrile attesa per i risultati delle elezioni politiche, e “dentro”, invece, quattro ore di inferno in una cella del reparto “giovani adulti” del carcere di San Vittore: sono quelle che ha vissuto lo scorso 26 settembre un detenuto diciannovenne, vittima di quattro compagni di cella di un pestaggio talmente violento da fargli perdere la milza, procurargli la frattura parzialmente scomposta della mandibola e causargli lesioni gravissime da 45 giorni di prognosi. Un caso però affrontato in maniera lineare dalla direzione dell’istituto, dai dottori interni e dalla amministrazione penitenziaria che, rilevando incongruenze nelle risposte dei detenuti alle prime domande sull’accaduto, subito hanno riferito e dato gli elementi disponibili alla Procura, la quale con la pm Maria Letizia Mocciaro contesta ora ai quattro detenuti, in un “avviso di conclusione” delle indagini preliminari alla richiesta di processo, i reati di lesioni aggravate e di violenza privata. Secondo quanto ricostruito dall’inchiesta, tutto inizia alle 9 e mezza di sera quando uno dei quattro compagni di cella del detenuto (tutti tra i 20 e i 23 anni) comincia a sfrucugliarlo sulla ragione della sua prigionia e gli impone aggressivamente di raccontare i supposti approcci di natura sessuale compiuti sui fratelli minori, storia che neppure si capisce bene da dove sia saltata fuori visto che il ragazzo era stato arrestato per una rapina. A questo punto, “in segno di disapprovazione” in base a quel rudimentale malinteso “codice” penitenziario non scritto e sopraffattorio nei confronti di detenuti per vicende di natura vagamente sessuale, un secondo compagno di cella comincia a colpire con pugni in faccia la vittima seduta al tavolo; il primo lo afferra alla gola per non farlo gridare; tutti e quattro si accaniscono sullo sventurato colpendolo ripetutamente con calci, pugni, sgabelli di legno e un manico di scopa, fino a costringerlo, alle 2 di notte, a bere urina da un bicchiere. Stravolto dalle violenze, prima che possa chiamare l’agente di turno per chiedere di essere soccorso, la vittima viene minacciata affinché non racconti nulla di quanto davvero accaduto, minimizzi l’aggressione e anzi accrediti la concordata falsa versione di una banale lite con uno dei compagni di cella: fino addirittura a essere costretto a sottoscrivere agli agenti penitenziari una falsa dichiarazione nella quale assicurava di “non avere problemi con loro”. Cioè con i compagni di cella che, dopo averlo picchiato, gli avevano sostanzialmente estorto l’adesione alla falsa versione con la minaccia non soltanto di nuovamente aggredirlo, ma anche di praticare rappresaglie sui suoi familiari, in particolare di “far tagliare la gola” alla madre, della quale il primo compagno di cella si era in precedenza fatto dire nomi e indirizzo. Ivrea. Carcere, certo che ci riguarda! di Simonetta Valenti rossetorri.it, 13 marzo 2023 Una spinta particolarmente utile in questo momento a Ivrea e una due giorni efficace per ripensare la pena e riprendere le attività. Dentro, fuori e oltre il carcere. E’ pieno zeppo l’atrio dello Zac!, ma nessuno si meraviglia la sera di giovedì 9 marzo per l’apertura della iniziativa “Ti riguarda”, organizzata da Officine Terzo Settore con Antigone con il sostegno di Zac!, Fraternità di Lessolo, Libreria Mondadori e Associazione Volontari Penitenziari “Tino Beiletti” di Ivrea. Perché è un bellissimo quartetto quello che prende posto sul palco, di quelli che ti fanno riprendere la speranza che l’unica battaglia persa è quella che non si combatte. Ilaria Cucchi, eletta senatrice indipendente della lista Alleanza Verdi e Sinistra è la sorella di Stefano, ucciso il 22 ottobre 2009 mentre era sottoposto a custodia cautelare. Per l’omicidio la Corte di Cassazione condannerà in via definitiva due carabinieri, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro a dodici anni di reclusione per omicidio preterintenzionale. Fabio Anselmo è avvocato, l’avvocato “dei morti nelle mani dello Stato”. Chi lo ha visto in foto, abbracciato a Ilaria Cucchi dopo la sentenza su Stefano, al fianco della mamma di Federico Aldrovandi, della sorella di Giuseppe Uva o del fratello di Riccardo Magherini, lo riconosce subito. A lui si affida, l’avvocato della famiglia di “Aldro”, Ilaria Cucchi per riuscire a partire dalle foto strazianti del corpo di Stefano per intraprendere una battaglia che durerà anni e durante la quale dovrà proteggere, come possibile, le vite dei suoi genitori. Quelle foto che da sole avrebbero dovuto essere prova sufficiente e che hanno soltanto avviato una battaglia durissima durata anni. Nello Trocchia è un giornalista del Fatto Quotidiano, che si definisce cronista precario dell’informazione e ama raccontare il suo lavoro con una frase del film Fortapasc (la storia di Giancarlo Siani, giornalista ucciso dalla camorra nel 1985): “Giancà, ‘e notizie so’ rotture e cazz’”. Le parole di Trocchia, autore del libro “Pestaggi di stato”, cadono come pietre sul pubblico dell’atrio quando racconta i fatti accaduti nel carcere Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile del 2020 e nel reparto “Nilo” (perché tutti i reparti del carcere hanno nomi di fiumi, ma non c’è “acqua potabile”). 283 agenti di polizia penitenziaria con caschi e manganelli pestano per ore i detenuti. Kento, Francesco Carlo, è un rapper di Reggio Calabria che tiene da anni laboratori di scrittura rap e poesia presso carceri minorili, comunità di recupero e scuole. Le persone al centro del progetto: ripensare la pena - Centrato il momento ed efficaci le modalità di “Ti riguarda”. “Le persone al centro del progetto: ripensare la pena. Dentro, fuori e oltre il carcere” lo scopo dichiarato dell’iniziativa accolta calorosamente allo Zac! “Una serata di parole e musica” - annunciava la locandina, su “condizioni di vita in carcere e violazione diritti umani”. E su queste linee, dopo la presentazione di Francesco Giglio (Officine Terzo Settore) e Francesca (Casetta Rossa di Roma), si sono sviluppati gli interventi di Ilaria Cucchi che, richiamando la sua storica battaglia per la verità sulla morte del fratello Stefano, ha sottolineato quanto sia stato determinante il fatto di non essere stata sola e la sua scelta ora di diventare “la voce del carcere”. Parole dure quelle dell’avvocato Anselmo che si sofferma sulla parola “giustizia” e su come questa sia, come un altro servizio essenziale quale la sanità, sempre meno “uguale per tutti” e sempre più si legga sotto traccia “la legge del più forte”. E il carcere, ricorda l’avvocato, è il prodotto di una giustizia inefficiente, mentre si limita sempre più la libertà di stampa usando la copertura della “privacy”. Questione ripresa da Nello Trocchia che per primo (e da solo, finché non sono uscite le registrazioni video che le documentavano) ha raccontato delle torture nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e dei continui tentativi di rappresaglia giudiziaria che riceve chi svolge attività di inchiesta non gradite ai potenti. E di quanto l’omertà sia generalizzata e non prerogativa di alcune regioni italiane. Strepitoso l’intervento di Kento che racconta le sue esperienze negli istituti di pena minorili e, a proposito degli “scafisti” di cui si parla tanto in questi giorni, cita il ragazzo di 16 anni che ha incontrato, figlio di pescatori e abituato ad andare in barca, anche lui migrante, orgoglioso di essere stato lasciato alla guida del barcone nelle ultime miglia dalla costa italiana (e per questo accusato di essere “trafficante di esseri umani”). Tanti gli interventi dal pubblico - Gli interventi del pubblico hanno richiamato il rapporto della città di Ivrea con il carcere, ricordato la bocciatura avvenuta in questi giorni da parte della maggioranza in Parlamento della proposta di legge “Stop a bambini in carcere con madri detenute” (che avrebbe escluso il carcere per le madri con figli conviventi di età inferiore ai 6 anni, utilizzando altre strutture), chiesto l’opinione dell’avvocato Anselmo sul regime carcerario del 41 bis. Premesso che il 41 bis è senza dubbio tortura e che, nato per fronteggiare l’emergenza delle stragi mafiose degli anni Novanta, è entrato nella normale applicazione giudiziaria (perché “anche la giustizia, come prima la politica, è diventata populista”) - è stata la risposta di Anselmo - pur riconoscendo che non sia applicabile all’anarchico Alfredo Cospito e probabilmente a molti altri dei circa 700 detenuti oggi soggetti a quel regime, “non so ancora dire, però, se il 41 bis sia una misura da abolire”. A chiudere la serata gli scoppiettanti testi rap di Kento. Il secondo giorno di Ti riguarda tra incontri e tavoli di lavoro - Venerdì 10 Kento ha incontrato (e incantato con la sua irruente narrazione) gli studenti del Ciacc di Ivrea, mentre la senatrice Cucchi si è recata a far visita al carcere di Ivrea, dove ha incontrato, insieme alla nuova direttrice e agli operatori, anche alcuni redattori de La Fenice (redazione attualmente sospesa dalla direzione carceraria con pretesti burocratici). Lo stesso giorno al Polo universitario di Ivrea - Officina H, si sono riuniti e confrontati in gruppi di lavoro operatori e volontari del carcere insieme a persone impegnate in attività “Dentro, fuori e oltre il carcere”, che erano poi i titoli dei tre gruppi. Il tema comune è il confronto su idee, proposte e buone prassi che guardano all’attraversamento del carcere da parte della società e al potenziamento delle alternative alla detenzione. Perché, mentre l’articolo 27 della Costituzione prescrive che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, l’allarmante numero di decessi per suicidio, la recidiva altissima, il mancato rispetto dei diritti fondamentali della persona, la scarsa attenzione e i bassi investimenti sugli obiettivi di reinserimento e riabilitazione, mostrano quanto la norma costituzionale sia applicata. “Anime diverse si sono incontrate e confrontate per una battaglia di civiltà”, dirà Francesca (Casetta Rossa) nell’aprire nel pomeriggio la sessione plenaria nella quale i tre gruppi hanno relazionato presentando proposte emerse sia per chi è “dentro il carcere” (formazione del personale, compreso quello giudiziario, detenuti non oggetti di trattamento ma portatori di diritti, apertura e attività verso l’esterno, riconoscimento del diritto all’affettività), sia per chi è o potrebbe essere “fuori dal carcere” (misure alternative e patrocinio legale anche per detenuti stranieri, possibilità di servizio civile volontario per gli ex detenuti, utilizzo dei fondi istituiti per inserimento detenuti e praticamente non utilizzati), sia per andare “oltre il carcere” (incompatibilità tra carcere e minore età e progressivo superamento degli Istituti di Pena Minorili). A conclusione diversi interventi da remoto di Luca Sofri, Ornella Favero e di Luigi Manconi che, partendo “dal caso Cospito e dalla sua eccezionalità che permette di approfondire” quanto il 41bis sia in contraddizione con la norma costituzionale (che punta alla “redimibilità, alla possibilità di cambiamento, mentre il regime ostativo e il 41 bis condannano il detenuto alla fissità”) e sia “esemplare di come una categoria di pena degenera in vendetta”. Un’esperienza molto proficua, questa di Ivrea, dirà in conclusione una delle organizzatrici, che sarà replicata in altre città ed è partita da Ivrea, una realtà di provincia invece che da una metropoli (la prossima sarà probabilmente a Roma), proprio per evidenziare la necessità di rapporto territoriale col carcere e per le recenti vicende giudiziarie che vedono coinvolta la Casa Circondariale eporediese. Centrato il momento ed efficaci le modalità, scrivevamo in apertura a proposito di questa due giorni. Il momento è proprio quello giusto perché, come ha ricordato in un intervento in chiusura Armando Michelizza (storico conoscitore del carcere eporediese ed ex garante comunale dei diritti delle persone private della libertà), era proprio necessaria una spinta per riprendere quel cammino che in questa città è stato fatto nella direzione del “superamento della necessità del carcere” o, quanto meno, della sua relazione con la realtà sociale. Lo conferma la sempre grande partecipazione a incontri su questo tema: da quello con Gherardo Colombo l’estate scorsa a quello dello scorso novembre sulla “giustizia riparativa” con Agnese Moro e Adriana Faranda (al quale solo l’ottusità dell’attuale amministrazione comunale eporediese ha potuto negare il patrocinio della Città), da questa due giorni di “Ti riguarda” al probabile pieno del teatro Giacosa per “Fahrenheit 451”, spettacolo rappresentato da persone detenute a Ivrea, venerdì prossimo, 17 marzo. E lo confermano le attività che, nonostante le modeste dimensioni del territorio e nonostante gli ostacoli spesso posti ad arte, si svolgono in relazione con la Casa Circondariale eporediese. Ma una spinta per “riprendere il cammino” è oggi necessaria perché, se da un lato finalmente la Procura torinese (dopo una serie di richieste di archiviazione del precedente capo della Procura di Ivrea) ha avocato l’indagine sui pestaggi nel carcere eporediese del 2015-2016 (e inquisito 27 agenti e un medico) e la Procura eporediese ha aperto un’altra indagine per violenze perpetrate nel 2021, dall’altro il clima di chiusura di relazioni con l’esterno (avviato dalla nuova direttrice con la sospensione e richieste burocraticamente prive di senso alle redazioni dei giornali dei giornali L’Alba e La Fenice) preoccupa. Che sia dettato da psicosi burocratica da funzionario o da istintivo allineamento ai vertici politici dell’Amministrazione Penitenziaria, questo clima rischia di vanificare anni di lavoro per tenere in relazione la città col suo carcere. Efficaci le modalità perché questa due giorni di “Ti riguarda” è sembrata più produttiva di un convegno consueto, con interventi anche interessanti e chiarificatori, ma con scarso interscambio di esperienze, idee e proposte. E poi, i convegni tradizionali inevitabilmente, si rivolgono agli “addetti ai lavori”, mentre “Ti riguarda” ha effettivamente riguardato anche un po’ la città. Modena. Ieri il corteo per ricordare i morti in carcere di Annalisa Servadei modenatoday.it, 13 marzo 2023 La manifestazione a tre anni dalla tragedia, nessun incidente. I numerosi manifestanti, circa in 400, si sono radunati in piazzale Primo Maggio: da qui il corteo, scortato dalle Forze dell’Ordine, con musica, cori e striscioni si è diretto verso piazza Cittadella, per poi imboccare viale Cialdini e viale Lamarmora per raggiungere il retro del carcere. Qui fermatosi nel piazzale che affaccia sul retro del Sant’Anna, i manifestanti hanno fatto discorsi sull’abolizione del carcere e del 41 bis, hanno ricordato la strage del Sant’Anna avvenuta 3 anni fa e con qualche fumogeno colorato hanno suonato e cantato per gli attuali “ospiti” del carcere per “non farli sentire soli e abbandonati”. Il Corteo ha poi ripreso la via del ritorno attraverso il quartiere Sacca, percorrendo via delle Suore e via Canaletto, qui gli attivisti hanno espresso solidarietà verso i cittadini del quartiere contro il nuovo polo logistico Conad, per poi affrontare il cavalcavia Mazzoni e terminare il tutto davanti alla stazione ferroviaria. Vari i gruppi che hanno partecipato: dal Comitato “Verità per le vittime del carcere”, ad un nutrito gruppo di SICobas, qualche esponente del Guernica, Garc, usi, Potere al Popolo e tanti altri. Presenti tra la folla anche i parenti delle vittime della strage del Sant’Anna che hanno voluto portare la loro testimonianza e il loro ricordo. Numerose anche le Forze dell’Ordine sul campo (dalla Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di Finanza, ma anche squadre del 118 per ogni necessità) che hanno presieduto ogni incrocio sul tragitto del corteo, predisposto la sospensione della circolazione e opportune deviazioni per lo svolgere in sicurezza della manifestazione. Importante il contributo della Polizia Locale per le misure di competenza in ordine alla viabilità ed alla sosta e dei tanti enti che hanno concorso nelle attività preventive. Brescia. L’arte che apre le porte della libertà di Martina Apostoli lavocedelpopolo.it, 13 marzo 2023 Percussioni il lunedì, arte il martedì e fotografia il giovedì. Stanno per iniziare i corsi a carattere formativo rivolti ai detenuti della casa circondariale “Nerio Fischione” e della casa di reclusione di “Verziano”, promossi dall’assessorato alle Politiche giovanili e alle Pari opportunità del Comune di Brescia. L’iniziativa intende rafforzare la fiducia nelle abilità personali, favorire il reinserimento sociale e fornire nuove conoscenze alle persone che stanno scontando una pena detentiva, grazie alla preziosa collaborazione dei tre docenti che svolgeranno i corsi: Luigi Mazzoleni (fotografo), Gaspare Bonafede (musicista) e Franco De Benedetto (insegnante di Storia dell’arte). “Il laboratorio di percussioni e body percussion - ha spiegato Bonafede - torna per la seconda volta perché molto apprezzato dai partecipanti. Il corso offrirà momenti di aggregazione, promuoverà l’ascolto degli altri, il fare musica insieme e attraverso l’uso di strumenti etnici ognuno potrà esprimersi in modo creativo e libero.” Il corso “Come si legge un’opera d’arte”, al contrario degli altri due, si svolgerà a “Verziano”: analizzerà alcune opere, tecniche e guiderà i partecipanti a elaborare i propri lavori creativi. Il corso di fotografia avrà un approccio di carattere psicologico, come ha precisato Mazzoleni: “Attraverso le immagini, i partecipanti impareranno a capire quali foto attraggono la loro attenzione, ma anche guardare la propria vita attuale, per immaginare il futuro sotto prospettive diverse e iniziare un percorso di cambiamento.” Ciascuna classe prevede un massimo di 15 partecipanti. Ogni corso si terrà una volta alla settimana, per un totale di 16 ore di lezione, scaglionate in 8 incontri. “Numerose le iscrizioni raccolte - ha aggiunto Francesca Lucrezi, direttrice degli istituti penitenziari - e la voglia di mettersi in gioco per conoscere, imparare ed esprimersi”. Migranti. Ogni volta che neghiamo il dolore siamo colpevoli anche noi di Rosella Postorino La Stampa, 13 marzo 2023 Se non si garantiscono diritti a tutti in quanto umani, la dignità diventa negoziabile. Fare accordi con i Paesi di provenienza per evitare le partenze è solo demagogia. Quando ho letto la notizia dell’imbarcazione naufragata a poche centinaia di metri dalla riva di Steccato di Cutro mi è tornato in mente un altro naufragio: quello dei 52 profughi curdi davanti al paese di Torre Melissa, anch’esso nel crotonese. Nel gennaio del 2019 i calabresi furono svegliati di notte dalle urla, accorsero in spiaggia nel vento di tramontana e, formando una catena di solidarietà, riuscirono a salvare 51 persone. Purtroppo stavolta, quattro anni dopo, il miracolo non si è ripetuto. I cittadini che si sono buttati in mare all’alba dello scorso 26 febbraio hanno raccolto, sconvolti, soprattutto cadaveri. C’è un pescatore che da allora continua senza sosta a cercare i dispersi, perché l’ha promesso alle madri. Madri che sono sopravvissute ai figli - niente mi pare più feroce di questo evento contro natura - e che chiedono di riaverne indietro almeno i corpi, seppur senza vita. Il numero dei morti ammonta ormai a 79, 33 sono minori. Un giovane siriano non si perdona la morte del fratello di sei anni. Come se fosse colpa sua. Sarà segnato per sempre da una colpa che non ha: la violenza delle stragi è anche in questo ribaltamento, per il quale chi è vittima si colpevolizza e le responsabilità reali non si riescono ad attribuire. Storie di genitori, di figli e di fratelli: dovremmo ricordarlo, quando usiamo la parola migranti come un’etichetta. Dovremmo ricordare che, dietro il fenomeno collettivo che occupa le pagine di cronaca e un giorno occuperà i libri di Storia, ci sono singole vicende umane. Persone che avevano affetti e desideri e paure, che hanno avuto compleanni e compiti in classe, litigi e rappacificazioni, coperte rimboccate e baci della buonanotte, un destino individuale, insomma, come noi. Dimenticandolo, sottraiamo loro umanità. Così è più facile operare una rimozione. 26.000 morti in dieci anni, 26.000 vicende personali, intrecciate ad altre vicende personali, un groviglio di relazioni, uguali alle nostre - a immaginarle tutte, sembra di impazzire. Basta rimuoverle. Deresponsabilizzarsi. Dire che sono loro, gli imprudenti, se mettono a rischio sé stessi e i figli. Se arricchiscono i trafficanti. Se non accettano la propria condizione e tentano invece di migliorarla, come faremmo noi. Sono imprudenti, al pari delle ragazze iraniane che l’8 marzo hanno ballato a capo scoperto per strada, per esempio, o delle ragazze afghane che si riuniscono in scuole clandestine per studiare, sebbene i talebani glielo abbiano proibito. Sono imprudenti come tutti gli esseri umani, convinti di aver diritto alla dignità semplicemente perché umani. Nel saggio La persona e il sacro Simone Weil scrisse che nessun uomo può dire a un altro “lei non mi interessa” senza commettere una crudeltà e ferire la giustizia. Ci interessano davvero queste persone? Nel 1939, dopo che in diversi Paesi dell’Europa erano state promulgate le leggi razziali, il transatlantico St. Louis salpò da Amburgo con centinaia di ebrei a bordo, in cerca di salvezza oltreoceano. Né Cuba né gli Stati Uniti né il Canada li fecero sbarcare. Non avevano il visto idoneo, il numero di rifugiati ammessi era già stato raggiunto, dovettero tornare indietro. Ci domandiamo come sia stata possibile la più grande tragedia del Novecento, e la risposta è semplice: deresponsabilizzazione, rimozione. Sottrazione di umanità. Davanti alle foto dei peluche affidati alle onde in memoria dei bambini morti in mare, ho pensato a quando Hitler rubò il coniglio rosa di Judith Kerr, all’infanzia violata, tradita. Nessuno oggi dichiarerebbe che esistono vite di serie A e vite di serie B, come accadeva durante il Nazismo, non sto facendo paragoni ingenui. Ma se non si garantiscono diritti a tutti gli esseri umani in quanto umani, ma esclusivamente a chi appartiene a una precisa comunità nazionale, si trasforma la dignità in un valore negoziabile anziché assoluto. E ci si macchia della “colpa metafisica” di cui parlava Karl Jaspers: rimanere inerti di fronte alle ingiustizie, restare vivi mentre altri soccombono. La vita è degna solo se tutti possono vivere degnamente. Concentrarsi sugli scafisti - come se non fossero quasi sempre migranti obbligati a prendere il comando - o assicurare accordi con i Paesi di provenienza per evitare le partenze è demagogia. L’omaggio alle bare da parte del governo non avrebbe resuscitato i naufraghi, per carità, ma noi siamo esseri culturali, ci aggrappiamo ai riti e ai simboli per tentare di dare ordine a ciò che ordine non ha, l’esistenza sulla terra. Nel rito il nostro senso di appartenenza, di condivisione di un medesimo valore, si rinsalda. È probabile che nel quotidiano nessuno di noi abbia portato il lutto per quei morti, ma dalle istituzioni ci si aspetta che, anche soltanto per rispetto formale, i toni restino pubblicamente più sobri. Ho scritto nel mio penultimo romanzo che “la colpa collettiva è informe, la vergogna è un sentimento individuale”. Ogni volta che ci esoneriamo dalle responsabilità, ogni volta che non vogliamo considerare le conseguenze ultime delle nostre azioni e decisioni, ogni volta che operiamo una rimozione, che accettiamo l’ingiustizia, siamo colpevoli. Purtroppo la colpa collettiva svapora - spesso, per paradosso, sono le vittime a vergognarsi. Non riconoscere il dolore altrui come simile al nostro, non provare a lenirlo, ne genera altro. D’altronde, “il dolore è la sola forza che si crei dal nulla”, scrisse Primo Levi. “Basta non vedere, non ascoltare, non fare”. Strage di migranti, perché Roma è obbligata a intervenire fuori dalla zona che le compete? di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 13 marzo 2023 La Convenzione di Amburgo obbliga ad agire ogni Stato interessato da una chiamata di soccorso e a coordinare anche unità navali non nazionali che si trovano nell’area. Deve anche occuparsi dello sbarco delle persone salvate. Poteva l’Italia rifiutarsi di coordinare l’intervento per salvare i migranti nella zona di ricerca e soccorso libica? No, perché in base alla Convenzione Sar di Amburgo del 1979, entrata poi in vigore nel 1985, le zone di ricerca e soccorso non corrispondono necessariamente alle frontiere marittime esistenti. E anzi, in caso di allarme per persone in pericolo in alto mare, ogni Stato chiamato a intervenire - in questa circostanza Italia, Libia e Malta - è obbligato a farlo anche solo coordinando per primo i soccorsi. Perché i migranti sopravvissuti sono stati portati nel nostro Paese, anche se su un’unità navale straniera? Perché, sempre per la stessa Convenzione, “la parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro”. È previsto l’utilizzo di mercantili di passaggio nella zona del soccorso? Sì, secondo le Convenzioni internazionali, compresa la Solas, varata nel 1914 dopo il naufragio del Titanic, “nel caso in cui un’autorità marittima riceva informazioni di un’emergenza in corso in un’area Sar di competenza di un altro Stato, informa immediatamente il Rescue Coordination Center (Rcc) territorialmente competente e estende la notizia dell’emergenza a tutte le unità in transito in quell’area Sar”. Previsto anche “l’impiego di unità Sar - viene specificato -, ma anche con unità militari e/o civili, quali ad esempio le unità mercantili presenti in zona, in adempimento agli obblighi giuridici assunti con la ratifica della Convenzione internazionale”. Da quanto esiste una zona Sar libica e quanto è estesa? Tripoli ha dichiarato una propria zona di ricerca e soccorso all’Organizzazione marittima internazionale di Londra (Imo) il 27 giugno 2018. Ma già l’anno precedente, nonostante la guerra civile in atto, aveva annunciato una propria area di competenza fino a 70 miglia dalla costa, da gestire con unità navali fornite dall’Italia e la collaborazione della Guardia costiera. Qual è la posizione di Malta sui soccorsi in mare fuori dalla sua Sar di competenza? La Valletta non ha aderito agli emendamenti del 2004 sulla Convenzione Sar del 1979, in particolare sulla questione del porto sicuro dove far sbarcare le persone soccorse in mare. Più volte l’isola dei Cavalieri, che ha una zona Sar molto estesa (250 mila chilometri quadrati), si è rifiutata di accogliere, tranne in casi di estrema urgenza, profughi salvati da imbarcazioni di altri Paesi invitandole a sbarcarli nei porti di propria competenza. Soccorrere le persone in mare è un principio di civiltà giuridica e di moralità di Gianfranco Pellegrino Il Domani, 13 marzo 2023 In queste ore, tra un naufragio e l’altro, dovremmo forse fare delle distinzioni che possono sembrarci scomode, ma potrebbero salvare vite, salvare la nostra coscienza e chiarire la qualità morale di questo governo. Bisogna separare la discussione sul soccorso in mare dal dibattito sulla migrazione. La discussione cui stiamo assistendo parte da alcune assunzioni, talora implicite, altre volte esplicite. A destra si assume che i flussi migratori siano facilitati dalla relativa impunità di cui possono godere gli scafisti. Quindi inasprire le pene potrebbe fermare le partenze. In certe parti della sinistra e della destra si pensa che i flussi dipendano dalle condizioni dei paesi di partenza. Quindi, la cooperazione internazionale potrebbe disincentivare la migrazione: questo è il famoso “aiutarli a casa loro”. A sinistra si ritiene che avere canali legali di ingresso potrebbe aiutare molti migranti a sfuggire all’offerta degli scafisti e anche portare a una gestione ragionevole e civile del fenomeno migratorio. Alcuni fanno notare, peraltro, che i numeri della migrazione sono destinati ad aumentare, per influsso del cambiamento climatico. Altri obiettano che le pene agli scafisti sono già previste e che applicarle universalmente non è così facile, perché gli accordi internazionali che sarebbero necessari non ci sono e non sarebbe facile farli con alcuni dei paesi da cui i migranti provengono. Pochi ormai hanno il coraggio di dire che migrare è inevitabile - è un evento permanente nella storia umana. Pochissimi hanno il coraggio di dire che migrare è un diritto e una libertà. L’indipendenza e la priorità delle ragioni morali per il soccorso - Ma quasi nessuno ricorda, mi pare, le ragioni morali a favore del soccorso e la loro indipendenza e priorità. Soccorrere le persone in pericolo è un principio elementare di civiltà giuridica e di moralità. L’omissione di soccorso è un reato nella maggior parte dei sistemi giuridici. Il buon Samaritano non è solo una parabola: è un ideale difficilmente contestabile. Si possono poi fare distinguo, certo. Il soccorso forse non è dovuto quando è troppo oneroso per il soccorritore, anche se è moralmente ammirevole il soccorritore che rischi del suo con generosità. Gli oneri del soccorso forse non dovrebbero gravare sempre sulla stessa parte, e quindi i paesi dell’Europa più esposti dovrebbero venire aiutati da quelli meno esposti. Ma tutto questo non può giustificare chi, di fronte alla vittima in difficoltà, omette il soccorso, per incuria, dolo o altre ragioni. Ma soprattutto: soccorrere è un dovere indipendente e prioritario rispetto a qualsiasi ulteriore decisione sull’accoglienza. Si può pensare che nessuno abbia il diritto di migrare, o che gli stati abbiano il diritto di selezionare i migranti a loro piacimento. Si può ritenere che le migrazioni siano armi improprie che certi paesi usano contro altri. Si può pensare che i migranti, pur accolti, non debbano avere diritti di cittadinanza, o non debbano averli subito. Ma questo che c’entra con la situazione di chi è in pericolo in mare? Lasceremmo annegare un ragazzino incauto che si è spinto troppo al largo? Oppure che è stato spinto oltre la boa da un malvivente? La trappola di confondere soccorso e discussione sulla migrazione - È naturale, dato che si tratta di migranti, parlare di flussi, della legge Bossi-Fini, della lotta agli scafisti. Ma forse c’è una trappola in tutto questo, una trappola in cui la sinistra sta cadendo. Il dovere di soccorrere è basilare e fondamentale, trasversale rispetto alle varie idee sulla legittimità della migrazione o sulla migliore gestione dei flussi migratori. E un governo che non soccorre le persone in mare non è un governo di destra che ha idee non condivisibili sull’immigrazione. È un governo criminale e immorale. Che comincia col non salvare naufraghi e potrebbe benissimo non salvare i suoi concittadini in pericolo. Un governo che non tutela i diritti umani dove potrebbe farlo, cioè nel mare di sua competenza e dove si possono spingere i suoi mezzi, perde qualsiasi legittimità e fuoriesce dalla sfera della normale dialettica politica. Le falle giuridiche del reato contro scafisti e trafficanti voluto da Meloni di Vitalba Azzollini* Il Domani, 13 marzo 2023 “Questo governo andrà a cercare gli scafisti lungo tutto il globo terracqueo” ha detto Giorgia Meloni, definendo il reato universale introdotto dal decreto Cutro. Ma la norma presenta criticità sia sul piano del diritto che su quello della fattibilità. Le sanzioni riguardano anche il caso di trasporto verso altri Stati, ma se morte e lesioni si verificano fuori dall’Italia restano inapplicabili. E per i trafficanti che si trovino in altri paesi l’Italia dovrà chiedere l’estradizione, e non è detto la ottenga. Nel decreto non si cita il protocollo della Convenzione di Palermo sul traffico di migranti, né altra base giuridica che legittimi la giurisdizione italiana. Il decreto presenta comunque criticità rilevanti. “Questo governo andrà a cercare gli scafisti lungo tutto il globo terracqueo”, ha detto Giorgia Meloni nella conferenza stampa che ha fatto seguito al Consiglio dei ministri tenutosi a Cutro. L’affermazione è altisonante, ma bisogna capire cosa significhi sul piano del diritto. Perché non è che uno stato possa decidere di configurare un reato come universale e da quel momento perseguirlo anche fuori dai propri confini. Il reato è quello di “morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina”, con sanzioni che vanno da 10 a 20 anni per lesioni gravi o gravissime a una o più persone; da 15 a 24 anni per morte di una persona; da 20 a 30 anni per la morte di più persone. Destinatario delle sanzioni, in caso di morte o lesioni, è chi “promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello stato, ovvero di altro stato (…), quando il trasporto o l’ingresso sono attuati con modalità tali da esporre le persone a pericolo per la loro vita o per la loro incolumità o sottoponendole a trattamento inumano o degradante”. Poco dopo si precisa ciò che Meloni ha definito come reato universale: “se la condotta è diretta a procurare l’ingresso illegale nel territorio dello stato, il reato è punito secondo la legge italiana anche quando la morte o le lesioni si verificano al di fuori di tale territorio” (art. 8, c. 1). La Convenzione di Palermo. Il Protocollo sul traffico di migranti - In base al principio di territorialità, il diritto penale italiano è applicabile solo entro i limiti dei confini dello stato (art. 6, c. 1, c.p.). Il principio può essere derogato in una serie di casi. Tra gli altri, è “punito secondo la legge italiana il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero” un reato per il quale “disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana” (art. 7, c. 1, n. 5 c.p.). Dunque, la legge e la giurisdizione penale italiana possono valere anche per reati compiuti fuori dal territorio italiano, non da cittadini italiani e non a danno di cittadini italiani, ove ciò sia contemplato da una convenzione. La convenzione internazionale che potrebbe consentire alle autorità italiane di perseguire anche oltre confine i reati di cui al decreto Cutro è la Convenzione Onu contro la Criminalità organizzata transnazionale (United nations convention against Transnational Organized Crime, Untoc), nota pure come Convenzione di Palermo, entrata in vigore nel 2003. Uno dei tre protocolli di cui essa consta riguarda “il traffico di migranti via terra, mare e aria”. La Convenzione, ratificata dall’Italia nel 2006 (l. n. 146), riconosce la giurisdizione dello stato parte quando uno dei gravi reati da essa previsti (art. 5, par. 1) sia compiuto al di fuori del territorio di tale stato, ma “al fine di commettere un grave reato nel suo territorio” (art. 15, c. 2, lett. c). Questa disposizione, che definisce una condizione precisa per la perseguibilità dei reati contemplati, potrebbe costituire la base giuridica della giurisdizione extraterritoriale dello stato italiano sancita dal decreto Cutro. Ma, come vedremo, si pongono una serie di problemi. La giurisprudenza sul reato universale - Non è la prima occasione in cui si ammette la possibilità dello stato italiano di esercitare giurisdizione extraterritoriale, in applicazione della Convenzione di Palermo. Ciò è avvenuto già ad opera della giurisprudenza. Nel 2021, la Corte di Cassazione ha riconosciuto che sussiste la giurisdizione dello stato italiano “per un “reato grave”“ previsto dalla Convenzione di Palermo, “commesso dallo straniero in “alto mare” nell’ambito del traffico transnazionale di migranti”, qualora ne derivino “effetti sul territorio italiano” (Cass. pen., sez. I, sent. 2 luglio 2021, n. 31652). Tuttavia, in altri casi la Corte aveva espresso una posizione opposta. Ad esempio, nel 2020 (Cass. pen., sez. I, sent. 17 giugno 2020, n. 19762), in un caso di traffico internazionale di armi, i giudici avevano escluso che la giurisdizione penale italiana potesse fondarsi sulla citata norma del codice penale e sulla Convenzione di Palermo, in mancanza di una norma nazionale che ne prevedesse espressamente l’estensione oltre i confini territoriali. Ciò che ora il governo sembra aver fatto con il decreto Cutro. I problemi giuridici - Nel nuovo decreto non si fa alcun richiamo alla Convenzione di Palermo, né ad altra base giuridica che legittimerebbe la giurisdizione universale dello stato italiano. E ciò, oltre a denotare sciatteria normativa, è una grave carenza: il governo ha costruito un edificio giuridico senza mostrarne le fondamenta, affinché ne sia verificabile la tenuta. Ma anche qualora la Convenzione fosse stata richiamata, il decreto avrebbe comunque presentato criticità rilevanti sul piano del diritto. Innanzitutto, la norma legittima la giurisdizione italiana per un reato commesso fuori dall’Italia in relazione all’entrata illegale, anche solo potenziale, di stranieri nel territorio dello stato. Questa norma, fissando un chiaro collegamento con l’Italia, sembra conforme alla Convezione di Palermo, che prevede la giurisdizione di uno stato membro per un reato che, se pur “commesso al di fuori del suo territorio”, tuttavia sia finalizzato a “commettere un grave reato sul suo territorio”. Ma come potrà l’Italia dimostrare, ad esempio, che un’imbarcazione che naviga in acque internazionali con migranti a bordo sia diretta proprio in Italia? La disposizione non lo precisa, quindi manca un elemento essenziale per la configurabilità della fattispecie concreta, peraltro in violazione del principio di tassatività della norma penale. E non è tutto: le sanzioni previste possono riguardare anche il caso in cui il reato sia commesso fuori dal territorio nazionale, da cittadini stranieri, e la nave non sia diretta in Italia, bensì “in altro stato”. Questa disposizione si pone al di fuori della Convenzione di Palermo: lo stato italiano non può sanzionare reati che non presentino un collegamento con l’Italia, come visto. Tant’è che poco dopo si dice che, se il reato si consuma fuori dal territorio nazionale, l’Italia possa esercitare la propria giurisdizione solo se “la condotta è diretta a procurare l’ingresso illegale nel territorio” italiano. Ma allora le sanzioni previste per reati verificatisi fuori dall’Italia relativamente a migranti diretti in altri paesi restano mera teoria. Insomma, il governo le ha messe per iscritto, ma esse sono inapplicabili. I problemi di perseguibilità concreta - Sul piano concreto si pongono problemi ulteriori. Tralasciamo il fatto che un inasprimento delle sanzioni per reati derivanti dal traffico di migranti, come per altri reati, non significa necessariamente maggiore deterrenza, come in Italia - dove non si fanno verifiche ex post dell’efficacia di norme e sanzioni - si tende a ritenere, reputando che la realtà si conformi in automatico agli auspici dei legislatori. La nuova norma riguarda tutta la catena di soggetti coinvolti in un traffico di migranti - chi “promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto” - ma per poter perseguire quelli che si trovino in altri paesi l’Italia dovrebbe comunque chiederne l’estradizione, e non è detto che la ottenga. Anche ciò induce a dubitare che quello previsto dal governo possa definirsi un vero e proprio reato universale - alla stregua dei crimini di guerra o contro l’umanità - come detto in conferenza stampa, cioè perseguibile ovunque senza condizioni. Un conto è intercettare gli scafisti a bordo di un’imbarcazione malmessa. Altro contro è, invece, perseguire i trafficanti, al riparo in paesi che non sempre brillano per democrazia. Dunque, il concetto di globo terraqueo controllato dall’Italia grazie al nuovo reato universale, oltre a presentare falle sul piano del diritto, è impraticabile su quello di fatto. Ma questo Giorgia Meloni non lo dice. O, forse, nemmeno lo sa. *Giurista Che cosa sta succedendo in Israele? Perché e chi protesta contro la “riforma” di Netanyahu di Davide Frattini Corriere della Sera, 13 marzo 2023 I giudici e il riassetto voluto dal nuovo governo di destra. Oltre 200mila in piazza nelle città del Paese. Sette giorni dopo l’insediamento alla fine dell’anno scorso il governo di estrema destra ha presentato quella che considera una “riforma” necessaria del sistema. La faccia davanti alle telecamere e le idee che ci stanno dietro le ha messe Yariv Levin, nominato ministro della Giustizia da Benjamin Netanyahu proprio per implementare il progetto che punta a ridimensionare il ruolo della Corte Suprema, dei giudici e dei magistrati. Di fatto sottoponendoli alla maggioranza del momento, a questa maggioranza in questo momento. Per l’opposizione il blitz punta a trasformare il Paese in un regime autocratico, il primo ministro ribadisce di voler rafforzare la democrazia. Quale è il sistema attuale? Israele non ha una costituzione, negli anni sono state approvate dal parlamento tredici “leggi di base” che si ispirano alle indicazioni della Dichiarazione di Indipendenza: si concentrano soprattutto sui rapporti tra i poteri dello Stato, sulla protezione dei diritti civili e delle minoranze. La Corte Suprema ha il potere di bloccare e rinviare alla Knesset una norma che contraddica queste leggi o sulla base della “clausola di ragionevolezza” applicata a decisioni amministrative: i giudici l’hanno applicata un mese fa nel caso di Aryeh Deri, leader del partito Shas, nominato ministro da Netanyahu nonostante avesse patteggiato una condanna per evasione fiscale in cambio della promessa di ritirarsi dalla vita pubblica. Perché il governo spinge per questa “riforma”? La destra - e in parte l’opposizione - è convinta che in questi anni la Corte Suprema abbia abusato dei suoi poteri, intervenendo troppo e in troppe questioni. Il ruolo dell’Alta Corte infastidisce soprattutto i leader dei coloni che vedono nei giudici un ostacolo ai piani di annessione della Cisgiordania, i territori arabi catturati nella guerra del 1967 e che dovrebbero costituire un futuro Stato palestinese. Gli analisti spiegano che l’iperattivismo dei giudici è stato un fenomeno tra gli anni Novanta e Duemila e che da allora sono stati molto più cauti (e con posizioni conservatrici). Quali sono gli elementi principali del disegno di legge? Il governo vuole introdurre la possibilità di sovrascrivere una decisione della Corte con un voto del parlamento a maggioranza minima (61 su 120 deputati), in questo modo qualunque intervento dei giudici diventerebbe inefficace. Netanyahu ripete che il processo contro di lui per corruzione è un golpe per rimuoverlo, così vuole anche stabilire che le nomine e le promozioni dei giudici vengano decise dall’esecutivo. In passato - fanno notare i commentatori - è stato tra i più decisi difensori dell’indipendenza della magistratura. La convivenza tra laici e religiosi - I partiti ultraortodossi puntano a ridimensionare la Corte Suprema perché si è opposta in nome dell’uguaglianza tra i cittadini all’esenzione degli studenti delle yeshiva, le scuole rabbiniche, dal servizio militare obbligatorio per i giovani. Una delle prime mosse del governo è stata anche il tentativo di abbattere la legge anti-discriminazione: un tassista, un proprietario di albergo, un medico potrebbero decidere di rifiutare l’assistenza o l’ospitalità per ragioni di sensibilità religiosa, mettendo in pericolo i diritti di donne, cittadini arabi, omosessuali. Chi partecipa alle proteste? - Le manifestazioni vanno avanti da dieci settimane e sono diventate le più grandi nella Storia del Paese. Ormai in strada scendono anche conservatori moderati che hanno votato il Likud di Netanyahu, religiosi. Assieme alla comunità Lgbtq+ (preoccupata dalle frange oltranziste e dichiaratamente omofobe nella coalizione), alle donne, ai movimenti favorevoli a un accordo con i palestinesi. L’avanguardia è guidata dai riservisti dell’aviazione e delle forze speciali: sono considerati l’élite e minacciano di rifiutare la chiamata in servizio. La spaccatura coinvolge quindi le forze armante e i generali sono preoccupati che i Paesi o le organizzazioni nemiche possano approfittare di questo indebolimento. Le violenze in Cisgiordania sono quotidiane - i palestinesi uccisi quasi 80 dall’inizio dell’anno - e gli attacchi contro gli israeliani hanno causato 14 vittime. Le paure per l’economia - Netanyahu ha ottenuto un master dalla Sloan School dell’Mit a Boston e si considera il creatore della start up nation o almeno delle condizioni finanziarie che l’hanno favorita. Anche gli avversari gli riconoscono il merito di aver costruito in questi quindici anni totali al vertice un’economia che continua a correre anche quando il mondo rallenta. Questo lascito traballa a causa del piano giustizia: i banchieri, i fondatori seriali di aziende hi tech, gli investitori internazionali temono che uno sbilanciamento tra i poteri, le crepe nella certezza del diritto, spingano alla fuga dei capitali. Quali sono i possibili sbocchi alla crisi? Il presidente Herzog ha già annunciato un paio di volte in diretta nazionale di aver approntato un compromesso e promette che la soluzione sia vicina. L’opposizione guidata da Yair Lapid e Benny Gantz (entrambi molto lontani dall’essere gli “anarchici insurrezionalisti” bollati dalla destra) chiede però che qualunque negoziato inizi solo dopo che il governo avrà fermato il processo per votare le norme. Invece gli uomini di Netanyahu stanno accelerando in commissione e in parlamento: sperano di far approvare i punti principali entro la fine del mese, prima delle festività ebraiche per la Pasqua. Iran. Oltre 100 arresti per le studentesse avvelenate. Il regime: “Legami con gruppi ostili” La Stampa, 13 marzo 2023 Dalla fine di novembre centinaia di ragazze hanno sofferto di svenimenti e nausea. Fonti Usa: “Il regime mente, è un diversivo per distrarre da proteste e crisi”. Il ministero dell’Interno iraniano ha annunciato che più di 100 persone sono state identificate, arrestate e indagate per i recenti casi di avvelenamento di studenti, in particolare studentesse, nelle province di Teheran, Qom, Zanjan, Khuzestan, Hamedan, Fars, Gilan, West Azarbaijan, East Azarbaijan, Kordestan e Khorasan Razavi. Nei vari episodi, iniziati lo scorso novembre, le studentesse hanno sofferto di svenimenti, nausea, senso di soffocamento e altri sintomi dopo aver riferito di odori “sgradevoli” nei locali della scuola, e alcune sono anche finite in ospedale. “Le prime indagini mostrano che un certo numero di queste persone, per malizia o avventurismo e con l’obiettivo di chiudere le aule e influenzati dal clima psicologico creato, hanno adottato misure come l’uso di sostanze innocue e maleodoranti - si legge nel comunicato del comunicato del ministero -. Tra gli arrestati ci sono individui che hanno avuto motivi ostili, cercato di creare paura e orrore tra persone e studenti, chiudere scuole e creare pessimismo nei confronti del potere islamico”. Il ministero dell’Interno ha poi concluso dicendo che “sono in corso indagini per trovare possibili legami con organizzazioni terroristiche e che il numero di episodi di avvelenamento è diminuito negli ultimi giorni”. Secondo un’analisi fatta dall’agenzia di stampa americana specializzata nel Medio oriente The Media Line, diverse fonti interne all’Iran ed esperti iraniani suggeriscono che gli avvelenamenti ai danni di ragazze nelle scuole in Iran siano stati invece compiuti, se non per conto del governo di Teheran, con la sua complicità per distrarre l’opinione pubblica dalle proteste nelle piazze contro il regime. Dare la colpa a “un pugno di estremisti talebani” che le autorità possono combattere, sarebbe in realtà una scorciatoia per “esonerare da ogni responsabilità il sistema islamico nel suo complesso”. Confermata condanna a morte dissidente svedese-iraniano - La Corte Suprema iraniana ha confermato la condanna a morte del dissidente svedese-iraniano Habib Farajollah Chaab per “aver formato, gestito e guidato il gruppo ribelle Harakat al-Nidal”. L’uomo, scomparso due anni fa mentre si trovava in Turchia e messo sotto processo nella Repubblica islamica, è stato accusato anche di “aver concepito ed eseguito numerose operazioni terroristiche nella provincia di Khuzestan”. Georgia. Saakashvili: “Sono in fin di vita”. E ai manifestanti dice: “Siate pronti a mobilitarvi” La Repubblica, 13 marzo 2023 L’ex presidente della Georgia Mikheil Saakashvili ha detto a Sky News di essere “vicino alla morte” nell’ospedale in cui è stato trasferito dal carcere. L’ex leader sostiene di essere stato avvelenato in prigione, tesi negata dall’attuale governo georgiano, secondo cui le condizioni di salute di Saakashvili sarebbero dovute al fatto che non si è nutrito a sufficienza. “Inizialmente pesavo 120 chilogrammi, ora ne ho 64, se scendo sotto ai 60 i medici prevedono insufficienze multiorgano”, ha detto Saakashvili alla domanda su quanto fosse vicino alla morte. A Sky News è stato negato l’accesso all’ospedale, Il canale ha però trasmesso le domande a Saakashvili tramite il suo avvocato e ha ricevuto le risposte scritte a mano. Per quanto riguarda la sua salute, l’ex presidente georgiano ha detto di essere “sempre a letto. Le mie ossa si stanno disintegrando e mi danno un dolore lancinante”. Il suo avvocato Shalva Khachapuridze ha detto che le condizioni del suo cliente peggiorano ogni giorno. “È una scena orribile”, ha detto Khachapuridze a Sky News. “Sembra un prigioniero in un campo di concentramento nella Germania nazista”. Nell’intervista, Saakashvili ha inviato un messaggio alle migliaia di manifestanti che sono scesi in piazza per protestare contro le proposte di nuove leggi criticate come filo-russe: “Restate molto vigili, siate pronti a mobilitarvi con breve preavviso, a causa dello stato d’animo vendicativo del regime degli oligarchi”, ha scritto. Il governo ha ora ritirato il controverso disegno di legge sugli agenti stranieri, ma l’Occidente osserva da vicino ciò che accade a Saakashvili, per comprendere se l’orizzonte politico del Paese guardi alla Russia o al contrario all’Europa.