Celle zeppe ai livelli pre Covid: si va verso un nuovo disastro? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 marzo 2023 Si è esaurito l’effetto delle misure per ridurre la popolazione carceraria durante la pandemia. Una volta ripristinato il sistema “pre covid”, il sovraffollamento è riemerso con tutte le conseguenze che comporta. Le statistiche di riepilogo semestrale pubblicate alla fine del mese di febbraio dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), parlano chiaro: il numero di detenuti in Italia è tornato a crescere in maniera consistente per tutto il corso del 2022. Come si evince da uno studio pubblicato sul sito del Garante della Regione Lazio Stefano Anatasìa, in termini relativi il numero degli ingressi in carcere dalla libertà nel secondo semestre 2022 ha fatto registrare un tasso del + 5,1% in Italia. Il maggiore incremento delle persone presenti in carcere, in termini relativi, nell’intero Paese ha riguardato soprattutto i detenuti con pene definitive. Infatti, le persone che devono scontare pene superiori ai cinque anni sono aumentate nel 2022 del 5% mentre il numero di chi deve scontare pene inferiori a tale soglia è cresciuto del 9%. Le presenze di detenuti in attesa di giudizio sono rimaste stabili e si sono ridotte (del 9%) quelle delle persone con condanne non definitive. Ma i dati su ogni regione, carcere per carcere, chiariscono meglio la situazione critica. Prendiamo ad esempio il Lazio. Le dinamiche risultano più intense sia per quanto riguarda i detenuti con pene superiori ai cinque anni che sono cresciuti del 6%, sia per coloro che devono scontare condanne di minore entità che hanno fatto registrare un tasso di crescita del 12%. Sono anche cresciute le presenze delle persone in attesa di giudizio, del 12%, mentre sono diminuiti i numeri dei condannati non definitivi (del 5%). Passando a valutare le presenze dei detenuti in base alla pena residua e prestando particolare attenzione a coloro ai quali mancano meno di due anni da scontare nei 14 istituti penitenziari del Lazio, il garante Anastasìa sottolinea il fatto che la significativa riduzione che si è realizzata nel giugno del 2020, in virtù di alcune misure di decongestionamento messe in atto a causa della pandemia, è durata soltanto pochi mesi. Nel 2022 il numero di persone che, almeno in parte, potrebbero avere accesso a misure alternative e a programmi di reinserimento nei mesi immediatamente precedenti la fine del periodo detentivo ha superato la soglia delle 1.700 unità e costituisce il 29% dell’intera popolazione detenuta presente nella regione. Di fatto si sta lentamente ma costantemente acutizzando la situazione di grave criticità che contraddistingue la condizione di vita delle persone detenute negli istituti penitenziari dell’intero Paese. Complessivamente i detenuti presenti in Italia a fine febbraio sono 56.319 e sono 16 su 20 le regioni in cui il tasso di affollamento supera la soglia del 100%. Tra queste 10 presentano valori superiori al 110%. Nel Lazio, il tasso complessivo calcolato sulla capienza “regolamentare” risulta superiore alla media nazionale e si attesta al 112,7%. La situazione è comunque decisamente più critica se si valutano questi dati in relazione ai posti effettivamente disponibili. Infatti il tasso reale di affollamento è pari al 124% e sono 10 su 14 gli Istituti dove i detenuti presenti sono in numero superiore al 100% dei posti disponibili. Ma crescono anche nuovamente i bambini dietro le sbarre. È cresciuto da 17 a 24 in Italia il numero di bambini, figli di detenute, presenti al seguito delle loro madri. Nell’istituto penitenziario Germana Stefanini di Roma Rebibbia sono presenti due bambini, mentre il mese scorso ve n’era uno solo. Ricordiamo che la detenzione è già di per sé una condizione problematica e drammatica per le persone che la vivono, sia per ciò che possono subire nelle carceri, a livello mentale e fisico, sia per le gravi difficoltà di reinserimento nella società una volta usciti, che spesso portano a recidive. Il sovraffollamento in questo senso forza i detenuti a condividere uno spazio più ristretto, aggravandone ulteriormente la qualità della vita. In questo senso, il comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti ha dichiara che ogni detenuto deve avere a disposizione uno spazio vitale di almeno 4 metri quadri. Lo scorso aprile, il comitato stesso ha infatti lanciato una raccomandazione verso gli Stati membri: ovvero quello di affrontare il problema con determinazione, fissando un numero massimo di detenuti da accogliere in ogni istituto penitenziario, da rispettare scupolosamente. Ha esortato quindi i governi a collaborare con legislatori, giudici, pubblici ministeri e dirigenti carcerari per affrontare il sovraffollamento penitenziario con un’azione concertata. Ma per ora l’attuale governo ancora presta attenzione al sistema penitenziario. In compenso, dopo due anni e mezzo in cui circa 700 detenuti semiliberi - a fronte delle normative per l’emergenza Covid - hanno potuto non far rientro in carcere la notte, dal 31 dicembre scorso, sono tornati nuovamente negli istituti. Il rischio di ritornare indietro, è oramai concreto. Eppure la pandemia, nella sua immane tragedia, è stato anche motivo per fare passi in avanti. Basti pensare all’utilizzo delle videochiamate, il rispetto quindi del diritto all’affettività, l’allargamento delle misure straordinarie come la semilibertà. Il parlamento riporterà il dibattito sul sistema penitenziario, oppure si attende la prossima emergenza? Sull’ergastolo ostativo arriva l’ok del Consiglio d’Europa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 marzo 2023 Ma prende tempo sull’efficacia della legge. Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa è soddisfatto dai passi in avanti compiuti dall’Italia con la riforma dell’ergastolo ostativo, che in precedenza non consentiva ai condannati per i reati (soprattutto di stampo mafioso) che rientrano nell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, di poter usufruire di benefici come la liberazione condizionale se non collaborano con la giustizia, anche quando altri elementi ne provano la riabilitazione. Ma nel contempo, visto che tale riforma è entrata in vigore da poco, precisa che ciò ancora non consente una valutazione sulla vera efficacia. Il Consiglio d’Europa, ricordiamo, si occupa di verificare il rispetto delle sentenze della Corte Europea dei diritti umani (Cedu) di Strasburgo. Ha preso tale decisione dopo aver verificato la documentazione che il Governo italiano ha inviato in settimana. Il riferimento è alla sentenza della Cedu emessa il 13 giugno 2019, resa nel caso “Viola contro Italia”, la quale ha stabilito in modo tranciante che l’ergastolo ostativo viola il divieto di trattamenti degradanti e inumani e il generale rispetto della dignità umana. Secondo la Corte europea, cui il Viola aveva denunciato la violazione dell’art. 3 (divieto di trattamenti umani e degradanti) e dell’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione europea dei diritti umani, per un verso, il difetto della collaborazione non può sempre essere collegato a una scelta libera e volontaria, per altro verso, la collaborazione non sempre riflette un vero cambiamento o una effettiva dissociazione dall’ambiente criminale. In sostanza i giudici di Strasburgo avevano evidenziato che il rifiuto di collaborare del detenuto non è necessariamente legato alla continua adesione al disegno criminale e, d’altra parte, potrebbero aversi collaborazioni per semplice “opportunismo” non legate a una vera dissociazione dall’organizzazione mafiosa, per cui non può operarsi un’automatica equiparazione tra assenza di collaborazione e permanere della pericolosità sociale. Su queste premesse la Corte europea aveva concluso che “l’assenza di collaborazione con la giustizia determina una presunzione inconfutabile di pericolosità sociale” che ha per effetto di privare il detenuto di qualsiasi prospettiva di liberazione in contrasto con la funzione di risocializzazione della pena, che consente all’individuo di rivedere criticamente il suo percorso criminale e di ricostruire la sua personalità, e con il rispetto della dignità umana che si trova al centro del sistema messo in atto dalla Convenzione. Come sappiamo, dopo è arrivata la sentenza della Consulta che ha fatto cadere l’ostatività per il permesso premio. Ancora dopo, ha rinviato la decisione sull’ostatività alla liberazione condizionale, lanciando la palla al parlamento affinché varasse una riforma. Il governo Meloni, appena insediato, ha varato la riforma tramite decreto urgente. Nato nel 1992 dopo la strage di Capaci e inasprito rispetto a quello ideato da Giovanni Falcone (non precludeva i benefici per in non collaboratori), tale ergastolo è stato cancellato dall’attuale governo: ha sostituito la preclusione assoluta di pericolosità - un marchio a vita - con una preclusione relativa. A tale risultato si è arrivati non per le trame oscure, presunte trattative, ma per il grande lavoro dei magistrati di sorveglianza che hanno sollevato la questione alla Cassazione e alla Corte Costituzionale. Così come la condanna da parte della Cedu è avvenuta grazie al ricorso dell’ergastolano Marcello Viola, assistito dagli avvocati Antonella Mascia, Valerio Onida e Barbara Randazzo; con tanto di un testo, in qualità di “amici curiae”, elaborato da un gruppo di professori dal calibro di Davide Galliani, Andrea Pugiotto, Gluaco Giostra, Vittorio Manes, Emilio Santoro, Sergio D’Elia di Nessuno tocchi Caino, Patrizio Gonnella di Antigone, il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma e garanti come Stefano Anastasia e Franco Corleone. Ora il consiglio d’Europa valuta positivamente la riforma, perché seguirebbe le indicazioni della sentenza Cedu. Ma per una decisione definitiva, ha chiesto a Roma di fornire - entro il 30 settembre - informazioni sul funzionamento concreto ed esempi di ordinanze che hanno concesso i benefici agli ergastolani. Di fatto, è stato salutato con favore questa riforma che però - secondo diversi giuristi - ha reso quasi impossibile accedere soprattutto alla liberazione condizionale richiedendo troppe condizioni, come ad esempio la prova diabolica che riguarda non solo l’inesistenza dei legami con la mafia, ma anche l’impossibilità di ricostruirli. Il Consiglio dei ministri, salutando con favore questa riforma, deducendo che finalmente la riforma dell’articolo 4bis ha introdotto la possibilità per i detenuti che non collaborano con la giustizia di essere ammessi alla liberazione condizionale, rimane in attesa dell’efficacia. Di fatto, nonostante i numerosi paletti, al di là della propaganda, il Governo Meloni ha messo un punto fermo: l’ergastolo ostativo, per come lo abbiamo conosciuto negli ultimi 30 anni, ad oggi non esiste più. Lo sciopero della fame di Cospito: “Mi hanno detto che resto mezzo scemo se non mangio” di Viola Giannoli La Repubblica, 11 marzo 2023 Il racconto dell’anarchico all’avvocato della difesa su alcune frasi che gli sarebbero state rivolte all’ospedale San Paolo di Milano. Il legale: “Vogliono spaventarlo e rifiutano la visita di una specialista”. “Mi hanno detto che resto mezzo scemo sulla sedia a rotelle con il lecca lecca in bocca”. Alfredo Cospito si sfoga così con il suo legale, Flavio Rossi Albertini, riferendogli alcune frasi che gli sarebbero state dette nell’ospedale San Paolo di Milano, dove è attualmente ricoverato nelle stanze-celle del 41 bis. E dove è stata rifiutata la visita di un secondo medico specialistico di fiducia della difesa, la dottoressa Barbara Cigardi, perché “altrimenti verrebbe meno il 41 bis”. “È stazionario” - In visita nel reparto sono andati oggi il direttore del carcere, il direttore sanitario dell’ospedale e il garante dei detenuti, Mauro Palma, che ha riferito di condizioni di salute “stazionarie” a suo avviso. Non è noto chi avrebbe pronunciate queste parole, l’avvocato esclude comunque che sia stato il garante. “Alfredo riferisce che gli hanno fatto dichiarazioni sibilline - dice il difensore - e che lo vogliono spaventare avvisandolo che il cuore può cedere all’improvviso lasciandolo in quella condizione. Lui non sa quanto vogliono spaventarlo e quanto di vero ci sia. Teme l’alimentazione forzata”. Un’ipotesi rafforzata, nelle stanze di via Arenula, dal parere positivo, seppur puramente consultivo, della maggioranza dei componenti del Comitato nazionale di bioetica. “Ci impediscono il diritto alla salute” - Non è l’unico allarme lanciato dal legale: “Ci impediscono il diritto alla salute, secondo loro un solo medico deve provvedere alle necessità di cure di un detenuto al 142esimo giorno di digiuno”, afferma Rossi Albertini, rendendo nota una comunicazione del direttore del carcere di Opera con la quale ha respinto la richiesta avanzata dalla difesa di fare accedere nella struttura protetta dell’ospedale San Paolo un medico per sottoporre a visita specialistica il detenuto. Il no a ulteriori esami specialistici - Il direttore di Opera afferma che “Cospito è sottoposto a visite mediche da parte di sanitario di fiducia e, quindi, il suo diritto è già stato soddisfatto. Pertanto, tenuto conto del fatto che il detenuto è sottoposto al regime di cui all’art 41 bis, per recidere ogni contatto con il mondo anarchico, non si ritiene di dover ammettere ulteriore sanitario, al fine di non pregiudicare la ratio del provvedimento”. Nella sua ultima visita il medico di parte, Andrea Crosignani, aveva suggerito ulteriori esami specialistici per monitorare le condizioni di Cospito e in particolare la mobilità ridotta di un piede. Censurati i telegrammi - Negli ultimi giorni, riferisce il difensore, anche “grande censura anche sui telegrammi, quattro bloccati in due giorni”. Detenuto suicida a Regina Coeli: continua la strage silenziosa di cui non frega niente a nessuno di Francesca Sabella Il Riformista, 11 marzo 2023 Carcere di Regina Coeli, Roma. Ha preso un lenzuolo, l’ha annodato alle sbarre della cella formando un cappio e se l’è stretto intorno al collo. Ha stretto forte, fortissimo fino a morire. Si è tolto la vita così un detenuto di trentadue anni, è morto da solo, una mattina di metà marzo nel penitenziario romano. Era stato condannato per aver appiccato un incendio nel quale perse la vita un pensionato. Era solo un assassino, diranno i più. No. Era un detenuto e questo vuol dire che era sotto la diretta responsabilità dello Stato. E si è impiccato. Quando ha deciso di suicidarsi Marco (nome di fantasia) era solo nella sua cella. Gli agenti della Polizia Penitenziaria si sono accorti che si era impiccato durante la conta dei detenuti, hanno cercato di salvarlo e quando l’hanno liberato dal lenzuolo che gli impediva di respirare, Marco era ancora vivo. Quando sono arrivati i soccorsi respirava ancora, poi la morte. Marco era in attesa di essere trasferito in altro Istituto, non ci arriverà mai. È il decimo suicidio in carcere dall’inizio di quest’anno, mentre nel 2022 sono stati 84 i ristretti che hanno deciso di togliersi la vita dietro le sbarre. Stando ai dati raccolti, il numero dei casi di detenuti che si tolgono la vita in carcere è quasi raddoppiato nel giro di 10 anni: prima del 2012, i casi erano in media 44 all’anno. Nel 2022, 59 persone su 85 - il 59% dei casi - si sono tolte la vita entro sei mesi dall’ingresso in carcere. Dieci persone si sono tolte la vita a 24 ore dall’inizio della reclusione. Una vita insopportabile, insopportabile a tal punto da preferire la morte. È una strage silenziosa, che passa in sordina, che non arriva ai liberi, alla gente che vive fuori da quei luoghi infernali. E non importa alla politica. “Sconforta che le autorità politiche, penitenziarie ministeriali e regionali, pur in presenza di inquietanti eventi critici, non assumano adeguati e urgenti provvedimenti - ha commentato Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria - Chiedo al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, un netto cambio di passo sulle politiche penitenziarie del Paese - ha aggiunto il leader del Sappe - È necessario prevedere un nuovo modello custodiale. Ne abbiamo parlato in un recente incontro con il sottosegretario alla Giustizia Delmastro che ci è sembrato particolarmente sensibile. A lui abbiamo ribadito che tutti i giorni i poliziotti penitenziari devono fare i conti con le criticità e le problematiche che rendono sempre più difficoltoso lavorare nella prima linea delle sezioni delle detentive delle carceri, per adulti e minori - ha concluso - Occorrono nuove assunzioni nel Corpo di Polizia Penitenziaria, corsi di formazione e aggiornamento professionale, nuovi strumenti come il taser, kit anti-aggressione, guanti antitaglio, telecamere portatili, promessi da mesi, ma di cui non c’è traccia alcuna in periferia. Confidiamo dunque che ora si vedano finalmente fatti concreti”. Il passaggio sui metodi repressivi non manca mai. Ma forse il problema andrebbe guardato e affrontato da un’altra prospettiva: il carcere così com’è uccide e non rieduca. Quante altre vite devono spegnersi dietro le sbarre prima di capirlo? Marco Pannella avrebbe detto: “Il crimine più grande è stare con le mani in mano”. Nordio riprova a partire con la riforma della giustizia. L’asse con il Terzo polo di Francesco Verderami Corriere della Sera, 11 marzo 2023 Nel mirino del Guardasigilli ci sono soprattutto l’abuso d’ufficio e il traffico di influenze. Il Guardasigilli ha smesso di parlare ma non di scrivere. E ha inviato alla premier i provvedimenti sulla giustizia da varare per i prossimi mesi. L’obiettivo di Carlo Nordio è ristabilire le priorità che si era dato quando è entrato al ministero. Priorità che nei primi mesi sono state stravolte da questioni “emergenziali”: tra le norme sui rave party, l’ergastolo ostativo e il caso Cospito, è saltato il timing sui progetti di riforma con cui si era presentato al Parlamento. E siccome vuole recuperare sulla tabella di marcia, ha illustrato a Giorgia Meloni i progetti che vorrebbe licenziare in Consiglio dei ministri per poi sottoporli all’esame delle Camere. In agenda ha inserito l’abuso d’ufficio (che mira sempre a cancellare), il traffico d’influenze (che intende quantomeno cambiare) e la custodia cautelare (che vuole assolutamente modificare). “Le norme sono in fase di elaborazione”, ha assicurato a un dirigente del Terzo polo, con cui ha discusso come se fosse un alleato più che un avversario. Forse perché l’ostilità il Guardasigilli ce l’ha in casa. In ogni caso perché sulle riforme della giustizia il partito di Calenda ha manifestato in più occasioni un atteggiamento di aperta collaborazione, sospesa nei giorni della polemica per il “caso Delmastro-Donzelli”. Superata quella fase, i rapporti sono ripresi. Anche se il dialogo tra Palazzo Chigi e i vertici della forza riformista in realtà non si è mai interrotto. E spazia su molti altri temi: dalla politica internazionale a quella energetica. Fino alla difesa e addirittura all’immigrazione. Raccontano infatti che la presidente del Consiglio abbia apprezzato l’atteggiamento del Terzo polo verso il governo dopo la tragedia di Cutro. E in particolare il discorso tenuto al Senato da Matteo Renzi: l’ex premier - nonostante abbia criticato la gestione del naufragio e la relazione presentata dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi - è parso costruire “un ponte” verso l’esecutivo. Dall’altro lato della barricata, Azione e Italia Viva mostrano “interesse” verso la parte del decreto sull’immigrazione - appena varato dal governo - che si occupa della gestione dei flussi. In effetti quelle norme rappresentano una vera novità, per quanto Meloni non le abbia enfatizzate. Ma il fatto che il provvedimento preveda l’ingresso di forza lavoro straniera in Italia, e che la quota di migranti a cui concedere il visto possa essere aumentata all’occorrenza attraverso un semplice Dpcm, non testimonia solo l’accentramento della materia a palazzo Chigi. È il segno di una svolta per un gabinetto di destra-centro. Fa capire come palazzo Chigi stia lentamente modificando la sua rotta “sovranista”. Accredita con un ulteriore indizio quel progetto europeo che il lungo colloquio fuori protocollo di Meloni con il premier olandese ha reso ancor più manifesto. Specie se fosse vero che Mark Rutte starebbe pensando di succedere a Charles Michel alla presidenza del Consiglio dell’Ue. E visto che le dinamiche politiche a Bruxelles ormai si sovrappongo a quelle di Roma, i segnali nel Palazzo della capitale italiana fanno capire che esistono chiari punti di contatto tra la leader del partito di maggioranza e la forza di opposizione: “Da entrambe le parti ne siamo consapevoli”, spiega un esponente del Terzo polo tendenza Calenda. Al momento non è dato sapere cosa accadrà, perché - sostiene un forzista di governo - “il tema non è ancora in agenda. Ma ci entrerà”. È solo questione di tempo, “questo è il tempo delle donne”, commenta sibillino Renzi senza esporsi. Ma di rimbalzo, rappresentanti dell’esecutivo non nascondono che i rapporti alla linea di confine tra maggioranza e opposizione “saranno importanti quando inevitabilmente arriveranno i momenti di fibrillazione”. Cioè a cavallo delle Europee, “prima durante e dopo” il voto del 2024 che darà il fixing dei rapporti di forza nel Paese, per effetto del sistema elettorale proporzionale. Per allora è previsto un ulteriore (e sostanziale) mutamento della geografia politica nazionale. Nell’attesa, la quotidianità parlamentare intensifica i momenti di confronto. Al punto che non si capisce se siano più i terzopolisti ansiosi di veder arrivare presto alle Camere le riforme di Nordio rispetto agli alleati di Meloni. E ad alcuni suoi compagni di partito. Lo strano caso del dottor Nordio e del signor ministro di Stefano Cappellini La Repubblica, 11 marzo 2023 Come si cambia per governare, come si cambia per non morire. Succede spesso che l’esperienza di governo trasformi le persone. C’è una Giorgia Meloni prima di Palazzo Chigi, che nella sua autobiografia annoverava Vladimir Putin tra i modelli, e c’è una Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, strenua avversaria di Putin. C’è un Giuseppe Conte presidente del Consiglio, che apre le porte all’amministrazione Trump affinché indaghi nel nostro Paese sul Russiagate, e c’è un Conte non più presidente che parla del ruolo degli Usa nel mondo e pare Oliviero Diliberto. Prendete il caso di Carlo Nordio, ministro della Giustizia, ex pm, editorialista per molti anni al Messaggero prima di accettare la candidatura per Fratelli d’Italia alle ultime elezioni politiche. Nel dibattito pubblico la figura di Nordio è legata a nobili battaglie garantiste: contro l’abuso della carcerazione preventiva, contro la pubblicazione indiscriminata delle intercettazioni e soprattutto contro il panpenalismo, cioè la tendenza ad affrontare ogni genere di problema o emergenza producendo nuove leggi e nuove fattispecie di reato. Sul tema Nordio è sempre stato categorico: “Più numerose sono le leggi dello Stato, più lo Stato si corrompe”, scriveva sul Messaggero il 18 marzo 2015. Concetto ribadito ogni qual volta gli è capitato di scriverne o di parlarne in pubblico, spesso citando l’amato Tacito, come nel caso del manifesto di giustizia consegnato al Foglio nel dicembre scorso, dopo essersi già insediato al ministero: “La causa principale della paralisi risiede nelle nostre leggi: troppo numerose per essere conosciute e troppo contraddittorie per essere applicate. Con la sua inconfondibile icastica concisione Tacito scolpì questa verità: corruptissima repubblica, pluirimae leges”. Nordio ha sempre deplorato la tendenza della politica italiana a mettere una toppa ingolfando il codice penale, al punto che il 4 giugno 2022, pochi mesi prima di diventare ministro, scriveva: “Si pensa nel più perfetto stile manettaro che solo la galera può costituire un efficace deterrente al crimine”. Non solo, se si volesse incrociare l’allergia di Nordio per la produzione di nuove leggi con il tema dei migranti bisognerebbe citare anche quanto sosteneva l’8 luglio 2019: “Di fronte a piccole imbarcazioni stracariche di disperati è inutile dire che la pacchia è finita quando tutti sanno che, con o senza l’intervento della magistratura, la soluzione non può che essere quella umanitaria”. Nordio era anche un fiero avversario dell’ergastolo ostativo, che esclude dai principali benefici penitenziari gli autori di reati più gravi. Poi a Nordio è successo di diventare ministro e improvvisamente è diventato un altro uomo. Passano pochi giorni dall’insediamento del governo e Meloni conferma l’ergastolo ostativo senza che Nordio faccia bi o faccia ba. Quindi, sull’onda dell’indignazione per un fatto di cronaca, il governo vara il famigerato decreto anti-rave con pene severissime, una fattispecie di reato a cavallo tra una legge anti-capelloni e un borborigmo di pensionato reazionario al parco, un complesso di norme che al Nordio editorialista avrebbe prodotto un attacco di itterizia. Infine, ieri, l’apoteosi del cambiamento. Tocca a Nordio stesso, in conferenza stampa, illustrare alcuni punti chiave della nuova legge anti scafisti, che introduce un nuovo reato in conseguenza di traffico di migranti, con altre pene severissime, un pacchetto di misure sceriffe e velleitarie che al Nordio di un tempo avrebbero prodotto eruzioni cutanee su tutto il corpo e che per giunta Meloni, a dare il colpo di grazia al ministro di Giustizia, scusate il gioco, dichiara di voler applicare “su tutto il globo terracqueo”. Praticamente Nordio, da garantista a 24 carati, corre il rischio di diventare la procura di Trani dello scafismo mondiale. Ora, però, per tutelare la salute e l’autostima del ministro, l’obiettivo principale è nascondergli un altro suo scritto autografo, del maggio 2016, quello nel quale il Guardasigilli scriveva: “Se si vuole eliminare il rischio di interpretazioni estrose o creative il rimedio è molto semplice: scrivere le leggi in modo chiaro, come insegnava Zeleuco, legislatore della Locride, che aveva imposto al proponente di una nuova legge di farlo con una corda al collo, cosicché in caso di rigetto fosse subito impiccato”. I “Nordio file” che cambiano la giustizia italiana di Claudio Cerasa Il Foglio, 11 marzo 2023 Ecco i 12 minuti audio inediti del ministro a Londra: limiti alla carcerazione preventiva, ripensare la detenzione per le tossicodipendenze e altro. Una riforma garantista. E possibile. Oltre Cutro c’è di più? Forse sì. Il Foglio ha ricevuto un audio inedito, e formidabile, che riporta alcune parole importanti consegnate qualche giorno fa dal ministro della Giustizia Carlo Nordio a un evento organizzato da alcuni studenti della Lse a Londra. Le parole di Nordio non riguardano, come è capitato spesso in queste settimane, solo elementi di teoria, di buona narrazione garantista, che spesso poi si scontrano con la realtà dei fatti come successo giovedì a Cutro, dove Nordio, per l’ennesima volta, come ricordato ieri sulla Stampa da Mattia Feltri, ha fatto l’opposto di quello che aveva promesso, ovverosia dare il suo avallo all’aumento delle pene per governare un fatto di grande rilevanza mediatica (dai rave agli scafisti). Le parole, stavolta, riguardano qualcosa di concreto e in particolare una notizia destinata a far discutere, fuori e dentro la maggioranza. L’audio dura dodici minuti e al centro del pensiero di Nordio c’è una novità sorprendente che il governo potrebbe mettere in campo alla fine di aprile sfidando le pulsioni securitarie della destra giustizialista che animano la maggioranza guidata da Giorgia Meloni. Il tema riguarda le carceri. Dice Nordio che è arrivato il momento di “limitare la carcerazione preventiva” e, in particolare, di “limitare al massimo le possibilità che una persona venga incarcerata prima di essere processata e condannata”. Ora, confida Nordio, il governo è pronto a individuare una novità “per limitare la possibilità che una persona venga incarcerata prima del processo, salvo casi di flagranza”. Nordio, in sostanza, anticipa che il governo interverrà sulle attuali norme che regolano la carcerazione preventiva e lo dice senza girarci attorno: “La presunzione di innocenza si affievolisce quando il reato diventa flagrante, ma quando il reato non è in flagranza la limitazione della presunzione di innocenza va limitata al massimo”. Nordio, poi, sul tema insiste ancora, e aggiunge: “Noi, in Italia, abbiamo sempre avuto una visione carcerocentrica della sanzione penale, cioè abbiamo sempre ragionato sul tema con in testa le manette e le sbarre”. È giunto il momento di ammettere, dice ancora Nordio, che “i detenuti non sono tutti uguali, così come i reati non sono tutti uguali. Esistono, ovviamente, “alcuni reati estremamente gravi per cui le sanzioni sono fondamentali” mentre per altri reati, come quelli legati “alla tossicodipendenza”, rispetto al tema della permanenza in carcere, bisogna agire per “differenziare”. Il succo del ragionamento del ministro non si limita però alla definizione delle pene alternative, ma passa da un’ambizione diversa: la trasformazione del nostro ordinamento. Nell’audio di Nordio non è presente nel dettaglio la riforma che verrà presentata ma se si vanno a porre alcune domande circostanziate a chi conosce il ministro e conosce i dossier presenti sul tavolo di Via Arenula, si arriva alla ciccia. E la ciccia è questa: se andrà in porto la riforma che ha in mente Nordio, e che ha avallato anche Giorgia Meloni, a scegliere se dare l’ok alle richieste di arresto formulate dai pubblici ministeri non sarà più solo un giudice ma “un pool di sei giudici che dovranno essere in maggioranza per validare una carcerazione preventiva”. “In Italia - dice ancora Nordio nell’audio - abbiamo vissuto per anni in una situazione in cui è stato tanto facile entrare in prigione prima di un processo ed è stato altrettanto facile uscire dopo quando si è colpevoli conclamati. È arrivato il momento di concentrarci sull’esecuzione della pena, cruciale, ma di non calpestare più la presunzione di innocenza durante le indagini”. Se davvero il governo avrà il coraggio, sulle carceri, di sfidare l’agenda Salvini, non si potrà che elogiare Nordio. Ma nell’elogiare le intenzioni del ministro non si può non notare che almeno finora il ministro Nordio, per così dire, ha agito, dai rave a Cutro, muovendosi in una direzione che il Nordio non ministro non avrebbe fatto fatica a definire giustizialista, securitaria e pericolosamente incline alla declinazione tossica del populismo penale. L’importanza della mediazione penale di Maddalena Ermotti Lepori L’Osservatore, 11 marzo 2023 Se la funzione punitiva della giustizia è una costante nella storia della civiltà giuridica occidentale, mutano invece i metodi utilizzati per “sorvegliare e punire”. La storia del diritto penale è contrassegnata da un lento processo di umanizzazione delle pene, e dal progressivo abbandono delle forme più crudeli di repressione: almeno in Europa sono state da tempo abbandonate le pene corporali e infamanti. Alla fine di questo percorso vi è appunto la giustizia riparativa. La società ha certo il dovere di difendere efficacemente i cittadini dalle aggressioni criminose, oltre che di prevenire futuri crimini, ma è più lungimirante investire nella capacità del reo di tornare a scegliere il bene, piuttosto che basarsi sul solo fattore della forza e della deterrenza. Inoltre, durante e dopo il carcere (a volte necessario per proteggere la società), occorre reintegrare chi ha sbagliato: “ero in carcere e siete venuti a visitarmi” (Mt 25,36). Umanizzazione del diritto penale. Il diritto penale seguiva in passato una logica retributiva (derivata dalla legge veterotestamentaria “occhio per occhio, dente per dente”), che compensava il male, il delitto, con un altro male, la pena: comunque un progresso rispetto a quando un delitto richiedeva la vendetta da parte del clan leso, il che originava una serie di vendette che di generazione in generazione insanguinano la comunità. In seguito la pena è stata vista in una logica preventiva, come deterrente al reato. Si è poi messo l’accento sull’aspetto rieducativo della pena, che mira al reinserimento sociale del reo. Infine, ecco la “giustizia riparativa”, che coesiste e si affianca al tradizionale paradigma della giustizia punitiva e che intende rispondere non tanto alla domanda “chi merita di essere punito? In base a quale reato?” ma piuttosto a “cosa può essere fatto per riparare i torti?”. Essa considera il reato non tanto come violazione della legge, ma come condotta che ha offeso qualcuno: coinvolge dunque vittime, colpevoli e la comunità tutta nella ricerca di strumenti che promuovano la riparazione del danno cagionato dal delitto e la riconciliazione tra autore e vittima. È così restituita dignità alle vittime, quando il loro ruolo nel processo era marginale, il diritto al risarcimento del danno spesso insoddisfatto, e completamente trascurata la dimensione emozionale dell’offesa: anche dopo la condanna del reo, gli interrogativi più dolorosi (“perché mi hai fatto questo?” e “perché proprio a me?”) restavano senza una risposta, e talvolta permaneva un risentimento non solo verso il reo ma anche verso il sistema giudiziario. Definizione di giustizia riparativa - In Europa la giustizia riparativa non è più allo stato pionieristico, e il Consiglio d’Europa incoraggia gli Stati membri a sviluppare e utilizzarla nell’ambito dei rispettivi sistemi di giustizia penale. È intesa come “ogni processo che consente alle persone che subiscono pregiudizio a seguito di un reato e a quelle responsabili di tale pregiudizio, se vi acconsentono liberamente, di partecipare attivamente alla risoluzione delle questioni derivanti dall’illecito, attraverso l’aiuto di un soggetto terzo e imparziale”. Essa persegue diversi obiettivi: in primis, l’offerta di un vero riconoscimento alla vittima, che può così riuscire a recuperare il controllo sulla propria vita e sulle proprie emozioni, e gradualmente superare quei sentimenti di vendetta, di rancore, di sfiducia che la paralizzano. Ma anche la riparazione del danno nella sua dimensione non solo economica ma anche psicologica ed emozionale, che può portare anche a insicurezza collettiva. Poi, la autoresponsabilizzazione del reo che, messo a confronto con la sofferenza causata, può rinunciare a quei meccanismi di difesa che lo inducono a autogiustificarsi, e invece riconosce la propria responsabilità e la necessità della riparazione. Infine il coinvolgimento della comunità nel processo di riparazione e più in generale il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo. La giustizia riparativa si può attivare con diversi modelli, ma il suo principale strumento, almeno in Europa, è dato dalla mediazione penale. La mediazione penale - È un percorso, volontario, in cui la vittima e il reo (direttamente o attraverso mezzi indiretti) si impegnano in una discussione sul reato e sul suo impatto, facilitata da mediatori imparziali e formati che assistono le parti nel raggiungimento di un accordo che soddisfi i bisogni di tutte le parti e fornisca una soluzione al conflitto. La mediazione può svolgersi prima della sentenza, e allora di solito gli accordi vengono presi in considerazione nel processo, ma può essere utilizzata anche durante la detenzione del condannato e diventare parte del suo processo di riabilitazione. Le condizioni affinché la mediazione sia possibile non riguardano il tipo di reato o la gravità dello stesso: occorre invece che l’autore si assuma la responsabilità per il danno commesso, che i fatti siano chiari per tutte le parti coinvolte e che sia vittima sia autore abbiano la volontà di partecipare al percorso, entrambi sentendosi al sicuro nel percorso stesso. In Svizzera - La mediazione penale è prevista dalla Legge federale di diritto processuale penale minorile entrata in vigore il 1° gennaio 2011, secondo la quale l’autorità prescinde dal procedimento penale se si è svolta con successo una mediazione che ha portato a un accordo di riparazione tra autore e vittima. È l’autorità competente che può, ottenuto il consenso delle parti e dei loro rappresentanti legali, incaricare della mediazione una persona qualificata e autonoma, alfine di trovare una soluzione negoziata liberamente tra le persone coinvolte. In altri Paesi, per contro, la mediazione è un diritto delle parti, ed è prevista anche per i reati compiuti da adulti (come aveva proposto il Consiglio federale, poi sconfessato dal Parlamento). In questi anni, la maggioranza dei Cantoni si è avvalsa della mediazione per i minorenni con risultati in generale buoni, sia in termini di minore recidiva, sia di miglior ascolto delle vittime: si parla in Svizzera di circa 1200 persone che annualmente escono da un tale percorso con un sentimento di soddisfazione, considerando che è stata fatta giustizia. Non così in Ticino, dove la mediazione non è stata praticamente attivata. Più diffusa è la conciliazione (che permette di evitare la presentazione della querela o di giungere al ritiro della stessa): manca però l’aspetto educativo fortemente presente nella mediazione penale, come pure l’empowerment della vittima, e la rigenerazione dei legami sociali. Auspico dunque che anche qui venga promossa la mediazione penale per i minorenni, e si rifletta sulle modalità di promuovere la giustizia riparativa in generale, come chiesto da una mozione interpartitica di cui sono la prima firmataria. Inchieste Bergamo e Crotone, le domande inevase di Sabino Cassese Corriere della Sera, 11 marzo 2023 Questi problemi possono anche avere risvolti di natura penalistica, ma sono fondamentalmente problemi di gestione dello Stato, che interventi delle procure non potranno certamente risolvere. La procura di Bergamo raccoglie “criticità” anche per valutazioni “scientifiche, epidemiologiche, di sanità pubblica, sociologiche, amministrative”. Altrettanto si avvia a fare quella di Crotone. Intanto è iniziato lo stillicidio di frasi intercettate che si rovesciano sull’opinione pubblica, suscitando aspettative di verità e desideri di giustizia. Le due procure toccano così due dei maggiori problemi della società italiana, la pandemia e l’immigrazione, due problemi che hanno suscitato la giusta commozione degli italiani e colpiscono simmetricamente le due parti della politica italiana, il centro-sinistra e il centro-destra. Possiamo aspettarci che nei prossimi cinque o dieci anni l’opinione pubblica sarà alimentata dalle opposte opinioni su queste iniziative, con conseguente discredito per tutta la classe politica e amministrativa italiana. Già molte domande sono state affacciate: i problemi oggetto dell’indagine delle procure appartengono alla categoria del diritto penale o a quella della scienza dell’organizzazione? Si lamentano inefficienze, improvvisazione, impreparazione, mancanza di coordinamento, oppure veri e propri crimini? L’attenzione deve essere posta piuttosto sui rimedi o sulle sanzioni? Serve più correggere o più colpire? È meglio evitare che vi siano altre morti o cercare capri espiatori? I nostri problemi vanno considerati isolatamente o comparativamente, visto che l’Italia è stata, nel 2020 al 3º posto, per scendere nel 2021 al 53º posto per tasso di mortalità? Le due procure, hanno le conoscenze e le capacità per svolgere queste attività? Infine, gli accusati sono stati informati “riservatamente”, come richiede la Costituzione? Chi osserva attentamente l’amministrazione sanitaria sa che la pandemia non ho fatto altro che accentuare un aspetto negativo del nostro Servizio sanitario nazionale. Un problema di salute pubblica collettiva si è improvvisamente scaricato sui presidi sanitari producendo la diffusione del contagio, per la nota carenza delle strutture periferiche della sanità, la cosiddetta sanità territoriale. A questo si sono aggiunte impreparazione, indecisione, valutazioni errate, scoordinamento tra centro e periferia, suggerimenti scientifici espressi da troppe voci. Ma un problema di quelle dimensioni si presentava per la prima volta e la sanità italiana non è la sola che ha subito conseguenze di quel tipo. Chi osserva attentamente le amministrazioni sa che l’istituzione della Guardia costiera, tanto attivamente promossa da Francesco Cossiga quand’era presidente della Repubblica, non è riuscita ad assorbire tutte le competenze relative alle coste; che quindi sono rimasti dualismi, assenti nel modello americano, in particolare tra Guardia di finanza e Guardia costiera, probabilmente all’origine di quanto è accaduto. Questi problemi possono anche avere risvolti di natura penalistica, ma sono fondamentalmente problemi di gestione dello Stato, che interventi delle procure non potranno certamente risolvere. Non basta, quindi, dire che non è compito delle procure ergersi a guardiani delle virtù collettive. Occorre anche che intervengano il Parlamento, la pubblica amministrazione, l’opinione pubblica. Il Parlamento deve definire meglio ciò che ha rilevanza penale e delimitare meglio le fattispecie penali perché il “panpenalismo”, i reati omissivi impropri e un legislatore disattento, sono la causa prima dell’intervento di organi non attrezzati per affrontare il futuro, ma solo per giudicare il passato. La pubblica amministrazione deve, a sua volta, come ha già proposto l’ex ministro dell’interno Minniti, il 4 marzo scorso in un’intervista a Il Foglio, avviare un’inchiesta amministrativa per valutare in che modo hanno funzionato i rapporti tra il Ministero della salute e le strutture sanitarie regionali, per misurare le debolezze della sanità territoriale, per valutare la necessità di una migliore preparazione dell’estrema periferia del Servizio sanitario nazionale, in una parola per imparare la lezione che si trae da quanto è accaduto. L’opinione pubblica e i media, infine, devono fare attenzione ai difetti strutturali di un Servizio sanitario nazionale, per tanti versi eccellente, ma che ha un tallone d’Achille, già indicato, proprio l’anno precedente alla pandemia, da ben due rapporti, uno nazionale e uno europeo. Questo noi dobbiamo ai morti nelle strutture sanitarie di Bergamo, questo noi dobbiamo ai morti nel mare di Crotone, non vendette, ma piuttosto la promessa che non si ripeteranno. “Spatuzza ha ucciso mio fratello don Pino Puglisi, ma è pentito: giusto che esca” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 11 marzo 2023 Intervista a Franco Puglisi. “L’ho incontrato dopo una lettera in cui chiedeva perdono. Ho subito capito che era un uomo cambiato”. “Quando mi sono trovato davanti a Gaspare Spatuzza, ho subito capito che era un uomo profondamente cambiato”. Franco Puglisi, il fratello di don Pino, il parroco di San Gaetano ucciso dalla mafia nel 1993, ricorda ancora con emozione quel giorno di qualche anno fa. Adesso, Spatuzza è tornato in libertà - anche se è una libertà condizionale - dopo 26 anni trascorsi fra carcere e domiciliari: così ha deciso il tribunale di sorveglianza di Roma. Come nacque quell’incontro con il collaboratore di giustizia che ha confessato di aver partecipato alle stragi del 1992-1993 e poi anche al delitto di suo fratello? “Spatuzza ci aveva scritto una lettera dai toni accorati. Raccontava la sua storia, ripercorreva i momenti dell’omicidio. E poi, soprattutto, rievocava cosa accadde in carcere. Dopo la condanna all’ergastolo per il delitto di mio fratello, chiese di andare in isolamento: “Una scelta che mi consentirà di intraprendere un cammino di ricerca dell’uomo”, scriveva. “Un cammino molto difficoltoso - proseguiva - l’ho sempre rappresentato come un esodo verso la terra promessa”“. Come vi arrivò quella lettera? “A consegnarla fu don Vincenzo Russo, cappellano del carcere di Sollicciano, a Firenze, venne lui a Palermo”. Decise subito di incontrare Spatuzza? “All’inizio, ero perplesso, titubante, ma ero curioso di conoscere questa persona che scriveva di aver fatto un percorso di pentimento rispetto al passato da mafioso. Accettai di vederlo dopo alcuni mesi di riflessione. Non era facile per me, conoscendo tutte le malefatte di cui era accusato”. L’incontro si tenne in Toscana, al di fuori delle strutture penitenziarie. Cosa conserva di quei momenti? “Restammo insieme un’intera giornata, insieme ad altre persone. Era diverso da come appariva nelle immagini delle televisioni e dei giornali. Era commosso, mi sembrava davvero addolorato per quello che aveva fatto. Capivo che le sue parole erano espressione di una macerazione interna aiutata dal cappello del carcere dov’era rinchiuso. Più volte richiamava i brani della Bibbia. Diceva che la lettura del Vangelo lo aveva trasformato. Non ho avuto l’impressione si trattasse di un’impostura”. Cosa le disse? “Ci sono parole di quel giorno che terrò solo per me. Posso però dire che erano le parole di un uomo che aveva fatto una profonda riflessione: per dieci anni era stato in isolamento, al carcere duro. Credo che solo lui sia davvero pentito dei crimini che ha commesso, perché la sua scelta non è avvenuta per convenienza, pochi istanti dopo l’arresto, come accaduto in tanti altri casi. È stata una scelta molto ponderata”. Cosa le ha risposto quando le ha chiesto di essere perdonato? “Gli ho detto: “Se sei veramente pentito il Signore ti ha perdonato, chi sono io per non fare altrettanto? Dopo mi sono sentito sollevato da un peso interiore e più sereno, in pace con me stesso”. La storia di Spatuzza, che 11 anni dopo l’arresto ha svelato il grande depistaggio attorno alla strage di via D’Amelio, dice che anche nei mafiosi irriducibili può aprirsi una breccia... “È così, anche se credo si debba avere una certa predisposizione dentro, alla riflessione, all’analisi interiore”. Pensa che una breccia potrebbe aprirsi anche in Messina Denaro? “Chissà, in linea teorica, è possibile che anche lui si penta. Ma ho più di un dubbio”. Cos’è rimasta dell’eredità di don Pino Puglisi? “La periferia di Brancaccio ha bisogno ancora di tante cose, come diceva mio fratello all’inizio degli anni Novanta, sollecitando a una presenza più attenta delle istituzioni. Di sicuro, un lavoro importante continuano a svolgerlo i volontari del Centro Padre nostro, che fanno fatti e non parole”. Che effetto le fa sapere che oggi Spatuzza è libero? “Nessuna emozione: né caldo, né freddo, sono indifferente a questa notizia. Se non avessi passato con lui una giornata intera forse non sarebbe stato lo stesso, e non so se lo incontrerei nuovamente. Ma gli auguro di rifarsi una vita, se ciò è possibile. Adesso nei suoi confronti non ho alcun rancore”. Roma. Suicidio a Regina Coeli, Anastasìa: “Va superato l’isolamento anti-Covid” consiglio.regione.lazio.it, 11 marzo 2023 Per il Garante delle persone detenute della Regione Lazio, Anastasìa, è anche necessario rivedere l’organizzazione della settima sezione del carcere romano. “Secondo suicidio nelle carceri del Lazio dall’inizio dell’anno. Ancora una volta a Regina Coeli, di nuovo in settima sezione, sempre in isolamento. Fatti salvi tutti gli accertamenti che la Procura della Repubblica riterrà di dover disporre, quelle ricorrenze non possono non interrogare: sulle criticità dell’istituto romano, su quella sezione in particolare, sul regime di isolamento Covid che ancora viene applicato ai detenuti in ingresso o in uscita dalle carceri regionali”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, dopo aver appreso che un detenuto si è tolto la vita nel carcere romano di via della Lungara. “Chiederò al Presidente Rocca - prosegue Anastasìa - di rivedere la normativa anti-Covid che, a questo punto, suscita più rischi che benefici. Ma va anche ripensata anche l’organizzazione e la gestione di quella settima sezione in cui sono ospitati tutti gli arrestati e i detenuti a qualsiasi titolo incompatibili con altri e in cui, conseguentemente, non si riesce a garantire neanche il numero di ore d’aria tassativamente previste dalla legge. Sono stato in quella sezione martedì 28 febbraio per dei colloqui con i detenuti e mercoledì scorso per una visita generale, prima che vi fosse portato in isolamento il detenuto che oggi è stato trovato impiccato alle sbarre della finestra della sua stanza. Riferirò alla direttrice del carcere - conclude Anastasìa - i problemi che ho riscontrato, ma posso anticipare che il regime di quella sezione va radicalmente ripensato”. Ivrea (To). Ilaria Cucchi in visita al carcere senza preavviso: “Condizione pietosa” di Liborio La Mattina giornalelavoce.it, 11 marzo 2023 Ilaria Cucchi a Ivrea per la “due-giorni” organizzata dall’Osservatorio per il Terzo Settore in collaborazione con l’Associazione Antigone, non poteva non far visita al carcere finito in questi anni più volte agli onori delle cronache per decine di abusi ai danni detenuti e per quella cella “liscia” denominata “Acquario” in cui venivano deputati e presi a manganellate fino allo sfinimento. Nessun preavviso, come il suo ruolo di parlamentare gli consente. S’è presentata davanti ai cancelli poco dopo pranzo e ne è uscita con le lacrime agli occhi. La prima cosa che ha appreso dentro a quelle mura è stata la sospensione delle pubblicazioni del giornale on-line “La Fenice”, forse per le prese di posizione su Cospito. “Succede da due settimane, per questioni burocratiche. La decisione è stata presa dalla nuova direttrice Antonella Giordano. Mi impegnerò attraverso il Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziari) per garantire ai detenuti di poter continuare a parlare.”. E poi giù, senza tanti giri di parole, sulla condizione pietosa in cui versa la struttura, sull’assenza di acqua calda nelle celle, su un reparto chiuso per un problema fognario, sulla totale inadeguatezza dei fondi a disposizione, sulla presenza di un solo medico e sulla necessità di avere anche degli specialisti, sulla mancanza delle telecamere e quelle, come si sa, sarebbero state importanti per evitare le “mattanze” o sconsigliare alle menti diaboliche di portarle avanti. “Positivo che ci sia un reparto per i Trans ma occorre fornire anche loro le cure ormonali” ha concluso davanti alle telecamere di noi giornalisti. E sul giornale La Fenice qualche cosa da aggiungere c’è. Molte volte, infatti è stato l’unico mezzo per denunciare le inefficienze di un sistema carcerario che non ha pietà di nessuno. Qui avevamo trovato e rilanciato il racconto di Gianluca Z., un ragazzo di 40 anni affetto dalla “Sindrome di Brugada di 1° grado”, definita anche “aritmia cardiaca”. Era, chissà se lo è ancora, uno degli oltre 240 detenuti. A dicembre aveva scritto una lettera alla redazione riassumendo molto bene il tragico momento che stava vivendo. Incredibile ma vero era dal 7 luglio che il medico gli aveva prenotato una visita cardiologica da eseguirsi con la massima urgenza ma il 7 dicembre la visita non c’era ancora stata... Certi cani, inutile negarlo, godono di molte, ma molte più attenzioni. Il problema della sanità che in carcere non funziona, delle visite che non si riescono a fare perché mancano automezzi e uomini per l’accompagnamento, è stato uno degli argomenti di cui aveva parlato il Garante dei detenuti Raffaele Orso Giacone durante l’annuale relazione al consiglio comunale di Ivrea. È noto a tutti, ma leggere le parole da chi il problema lo vive sulla propria pelle fa davvero un altro effetto. “Nel mese di febbraio 2020 - scrive Gianluca Z. - durante gli accertamenti di preparazione ad un’operazione a cui stavo per essere sottoposto, i medici casualmente hanno scoperto che soffrivo di tale patologia stabilendo - come risulta dai referti - che ne ero affetto da un paio d’anni, però non me ne ero mai reso conto. Il primo sintomo è stato notevole e si è manifestato nel mese di febbraio 2022, quando ho fatto rientro a casa dal lavoro. Quella volta mi hanno ricoverato all’ospedale d’urgenza e ci sono rimasto per due giorni”. Davanti agli occhi Ilaria Cucchi, il film sul fratello Stefano e di quel medico che sorseggiava beatamente il caffè, nei pressi del distributore automatico, mentre gli agenti della polizia penitenziaria picchiavano un detenuto senza troppi patemi d’animo. Tutto scritto nero su bianco nel fascicolo di indagine della Procura di Torino sui pestaggi e le torture avvenute tra l’ottobre del 2015 e il novembre del 2016, a cui si aggiunge un pestaggio del 2021. Torino. Così la cultura libera i carcerati di Maria Teresa Pichetto* La Voce e il Tempo, 11 marzo 2023 “Lorusso e Cotugno”, 25 anni del Polo universitario. Per celebrare i venticinque anni di attività del Polo universitario per studenti detenuti presso il carcere “Lorusso e Cotugno” di Torino si è svolto mercoledì 1° marzo, al Polo del ‘900, un convegno che ha tratto ispirazione dal mio libro “Se la cultura entra in carcere. Dalle riforme Carloalbertine al Polo universitario per studenti detenuti” (Effatà, 2018). L’incontro è stato organizzato dalla Fondazione Vera Nocentini, dal Fondo Alberto e Angelica Musy, dal Club Zonta Torino e dall’Ordine dei giornalisti con lo scopo di far conoscere a un pubblico più ampio una realtà sconosciuta ai più, anche se opera nella realtà torinese da venticinque anni. Gli interventi di Rita Monica Russo, Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria del Piemonte, e di Monica Cristina Gallo, Garante dei diritti delle persone prive della libertà, hanno evidenziato molti dei problemi della realtà carceraria, anche in riferimento a quanto si legge sui giornali sul sovraffollamento, sui troppo numerosi suicidi, i dibattiti sull’utilità del 41 bis. Con questo convegno si è voluto mostrare che esiste anche qualcosa di positivo all’interno del carcere: il numero di ristretti che hanno studiato al Polo in questi venticinque anni, e quello di coloro che si sono laureati con ottimi risultati, la recidiva zero di coloro che qui hanno studiato e hanno scontato la pena, la possibilità di reinserimento sociale che hanno ottenuto attraverso il lavoro, confermano che un ‘altro carcere’ è possibile. L’articolo 27 della nostra Costituzione stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, ma, ripercorrendo la storia delle leggi e dei regolamenti riguardanti i penitenziari dall’Ottocento a oggi, sembrerebbe che quasi mai l’art. 27 sia stato realizzato completamente. Vi è tuttavia almeno un’eccezione: quella del Polo universitario per studenti detenuti. In questa realtà, dove insegno da venticinque anni e dove sono stata per dodici delegata del Rettore, si sono concretizzati, almeno per un piccolo numero di detenuti, gli obiettivi dei padri costituenti. Il Polo è nato da un Protocollo d’intesa firmato il 27 luglio 1998 fra l’Università di Torino, il Tribunale di Sorveglianza, il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria di Torino e la Direzione della Casa circondariale le “Vallette” (ora “Lorusso e Cotugno”) di Torino. Ed è stato il primo e, per molti anni, l’unico in Italia. Fu fondato su iniziativa di alcuni docenti della Facoltà di Scienze politiche (ai quali si unirono poi altri di Giurisprudenza) che negli anni 80-90 si erano recati nelle carceri piemontesi per far sostenere gli esami agli studenti detenuti “politici” legati al terrorismo, ma che avevano buone prospettive di reinserimento nella società. Dopo alcuni seminari svolti insieme a loro, era ben presto emersa l’esigenza che la Facoltà svolgesse un ruolo culturale all’interno dell’universo carcerario, riproducendo nei limiti del possibile l’esperienza originaria dell’insegnamento universitario. Con il Polo universitario si voleva offrire (e si offre tuttora) la possibilità a un certo numero di studenti provenienti dalle carceri di tutta Italia e in possesso di diploma di istruzione secondaria, di iscriversi all’Università di Torino e di scontare la loro pena in un Sezione apposita del carcere, dotata di celle, aperte di giorno, e di spazi per la didattica, per gli incontri con i docenti (tutti volontari) che vi si recano a far lezione, per lo studio e l’uso dei computer. Il progetto del Polo è stato sostenuto fin dagli inizi dalla Compagnia di San Paolo, la quale finanzia il pagamento della prima rata delle tasse universitarie, l’acquisto dei testi, dei computer e del materiale didattico. Nel 2008 è stato firmato un Protocollo d’intesa con il quale l’Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo si impegna a mettere a disposizione Borse lavoro per gli studenti che in questo modo possono accedere alle misure alternative. Nel 2015 si è unito il Fondo Alberto e Angelica Musy. I tirocini, come ha sottolineato Angelica Musy nel suo intervento al convegno, permettono di completare il percorso di studio, di mettere a frutto le competenze maturate, di poter incidere sulla buona riuscita di percorsi di rientro nella società dopo aver scontato la pena. Se all’inizio le lauree erano soltanto due, Scienze Politiche e Giurisprudenza, ne sono poi state attivate molte nuove, quali Beni culturali, Dams, Scienze motorie, Innovazione sociale, Comunicazione interculturale... e si cerca di favorire l’iscrizione e l’appoggio di un tutor anche per quelle di altre Facoltà. Anche il numero degli iscritti è notevolmente accresciuto (novanta studenti afferiscono al Polo di Torino in varie situazioni detentive), sono quasi cento i laureati, è stato inaugurato a giugno 2022 il Polo universitario anche nel carcere di Alta sicurezza di Saluzzo. Franco Prina, responsabile del Polo di Torino e Presidente della Conferenza nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli universitari penitenziari, ha sottolineato che i Poli in Italia sono ormai una quarantina, tutti nati con la finalità della rieducazione attraverso l’istruzione, anche se ognuno opera con sue proprie modalità. Gli interventi di una studentessa e di due ex-studenti, ormai reinseriti nella società e nel mondo del lavoro, sono stati molto concreti, ma anche significativi, nella descrizione delle loro esperienze personali, il loro percorso di consapevolezza degli errori commessi e di ricupero della loro dignità umana. Ma hanno anche dimostrato quanto il valore della cultura sia occasione di crescita, di evoluzione personale, come sia potente fattore di cambiamento della storia e della vita di ciascuno. *Tra i fondatori e docente del Polo universitario Brescia. Progetto “La biblioteca parlante”, spazi d’incontro tra detenuti e comunità di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 11 marzo 2023 Mettersi in ascolto per riuscire a comprendere. Questa è la richiesta delle persone detenute della casa circondariale Nerio Fischione di Brescia con il progetto “La biblioteca parlante”, un ciclo di incontri con la comunità in partenza il 9 marzo nella biblioteca dell’istituto. “Per loro è importante far passare all’esterno un messaggio: ‘Non siamo mostri e il carcere non è un luogo da abbandonare’”, spiega Luisa Ravagnani, garante delle persone detenute del comune di Brescia e promotrice del progetto nella Casa circondariale. “Il loro obiettivo è parlare con la comunità e spiegare quali sono le cause che portano al carcere, e quali difficoltà incontrano quando cercano di reinserirsi nella società”. Circa 30 persone recluse hanno lavorato a questo progetto, diverse per età - si va dai 24 ai 65 anni - e per paese di origine, un fattore interessante perché “emergono aspetti strettamente culturali riguardo all’impostazione dei discorsi sulla libertà di scelta, sulla verità” sottolinea Ravagnani. Sei mesi per prepararsi agli incontri con la comunità, durante i quali i partecipanti hanno stilato un documento - “Il caffè del giovedì” - contenente le loro riflessioni su alcune parole chiave: conflitto, scelta, responsabilità, verità. “Abbiamo trovato analogie nelle storie di molti e raccolto i pezzi che sono problemi di tutti - spiega Ravagnani - ad esempio l’incapacità di gestire il conflitto e di rendersi conto che le scelte hanno conseguenze di lungo periodo”. La “biblioteca parlante” è un racconto del momento precedente alla commissione del reato, di una storia condivisa, di cui “Il caffè del giovedì” è un canovaccio. Come quando si parla di scelte obbligate: la decisione di delinquere è spesso frutto della percezione di non avere altre possibilità, e che fa dire alle persone detenute “di aver bisogno di una vita prima di poter scegliere”. O il conflitto, generato dall’indecisione nella scelta tra il bene e il male: “disuguaglianza, non sentirsi se stessi, punti di vista, parole da mantenere o situazioni dove ci si lascia andare”, tutte cause possibili di una frattura tra sé stessi e il mondo che, in condizioni di vita sfavorevoli, può portare a scelte sbagliate. A conclusione del documento, alcune riflessioni sulla necessità di conoscere meglio sé stessi tramite il riconoscimento dei propri errori, per passare poi alla riabilitazione: il “cambiamento interiore, che è il primo passo, ma anche quello più importante e impegnativo”, scrivono ancora i detenuti. Questi ragionamenti saranno offerti alla comunità come spunto di riflessione perché, spiega ancora Ravagnani, “vorremmo che ci fosse un’interazione, che si instaurasse un rapporto”. L’iniziativa ha raccolto molte adesioni da parte della cittadinanza: circa 50 persone, alcune delle quali in lista d’attesa. Se il riscontro è positivo “si può pensare a nuovi colloqui per dare a tutti la possibilità di entrare”, prosegue la garante. L’augurio, per le persone detenute di Brescia coinvolte nel progetto, è che “questi stimoli positivi possano fare da esempio per altri detenuti”, che ci sia un ascolto anche da parte delle istituzioni e della comunità per dare spazio “a chi, con i giusti requisiti, dimostra la volontà di fare ordine nella propria vita e riprendere il proprio ruolo coeso con la società”. Armando Punzo: “Il mio teatro è un’utopia concreta” di Mariella Caruso Io Donna - Corriere della Sera, 11 marzo 2023 “Un giorno, da piccolo, ero sul traghetto per Procida (all’epoca la prigione era ancora attiva): un detenuto, ammanettato e sotto scorta, mi ha salutato. Papà mi ha lasciato avvicinare a lui: senza timore, senza pregiudizio”. Forse sta proprio in questo remoto episodio d’infanzia la chiave per capire Armando Punzo, la sua missione. “Credo che mio padre c’entri, però in un altro senso” precisa il regista, interprete e drammaturgo. “Era ottimista, sempre fattivo. Davanti a ogni problema ripeteva: “Si risolve, non ti preoccupare”. In effetti, di problemi Punzo ne ha dovuti affrontare parecchi dal 1988, quando ebbe - primo in Italia - l’intuizione di creare una compagnia fissa nel carcere di Volterra. Ma la perseveranza ha dato i suoi frutti, come dimostrano gli ultimi due successi, il Leone d’oro alla carriera 2023 assegnato dalla Biennale Teatro e la realizzazione di un progetto per cui si è battuto 22 anni: una sala, nella Fortezza Medicea (sede dell’istituto di pena), disegnata ad hoc dall’architetto Mario Cucinella. “Oggi viviamo con una sensazione di impotenza, con la convinzione che ogni rivoluzione sia impossibile. E invece si può fare molto, moltissimo. Esistono utopie concrete. Come sostiene Ernst Bloch in Il principio speranza, l’utopia non è qualcosa di illusorio: è un motore, un nutrimento eccezionale”. Come maturò la sua? Più che di maturazione, parlerei di folgorazione. Dopo qualche esperienza teatrale a Napoli, all’università L’orientale, nell’83 ero arrivato a Volterra con il Gruppo Internazionale L’avventura, che si rifaceva all’avanguardia, a Jerzy Grotowski. Quando si sciolse, decisi di restare e di fondare l’associazione Culturale Carte Blanche. Carte Blanche? Carta bianca a chi? Carta bianca a noi per immaginare, per inventare qualcosa che ancora non esisteva. Era un momento cruciale, dovevo decidere chi essere “da grande”. Un giorno ho alzato gli occhi, ho visto la prigione e mi sono detto: lì potrebbero esserci le persone con cui realizzare la mia aspirazione (collaborare con attori non professionisti) ed esplorare il rapporto fra il luogo più chiuso per definizione, senza prospettive, e il linguaggio del teatro, che è il massimo di apertura e ha nel Dna il potere di ripensare il mondo. Non sarà stato facile... Una battaglia quotidiana, per far accettare il progetto alle istituzioni, ma pure ai detenuti... Adesso, su 180, 85 sono membri della Compagnia della Fortezza, sia come attori sia come realizzatori di costumi e scenografie. E il carcere non rappresenta più “l’ignoto”, è parte integrante della città di Volterra: un posto vivo, pieno di attività, non ci siamo solo noi. Il tema delle case di reclusione in Italia resta irrisolto perché, nella stragrande maggioranza, vengono lasciate a se stesse e alla logica punitiva, senza integrazione con il territorio. Però ormai pare esserci più sensibilità, come dimostra il successo della serie su un istituto di pena minorile Mare fuori.. Non l’ho visto ma, in generale, queste operazioni non mi interessano, sono legate all’intrattenimento. Non ho sentito vicino neppure il film dei fratelli Taviani (Cesare deve morire, premiato a Berlino nel 2012, ndr), che pure parlava di un gruppo teatrale a Rebibbia. Quando ho iniziato, la questione non era: occuparsi benevolmente di persone recluse. Io, venendo da Grotowski, partivo dalla domanda: quanto sono prigioniero io? Quanto siamo prigionieri tutti? Se non affrontiamo un processo di consapevolezza, come spiegava Gurdjeff (filosofo e mistico, ndr), “dormiamo” nella nostra vita, trascinati dal tran tran quotidiano, adeguandoci e non prendendola mai in pugno. Il suo teatro, quindi, non è social-terapeutico, rieducativo... Può offrire risultati anche da quel punto di vista: succede quello che succede a chiunque si avvicini alla cultura con curiosità, disposto a mettersi in discussione. Ma il vero destinatario finale dei nostri spettacoli è il pubblico: sono un artista, mi interessa questo. Però la vicenda di Aniello Arena resta paradigmatica: condannato all’ergastolo, grazie alla recitazione ha iniziato un percorso che l’ha portato a essere protagonista di Reality di Matteo Garrone e alla libertà. Aniello è stato con noi 16 anni e, con la sua storia, mi ha ulteriormente convinto che eravamo sulla buona strada. Ma qual è il metodo di lavoro? Ogni giorno ci vediamo dalle 9 alle 19 (a volte fino alle 21), con due ore di stacco per il pranzo, in una cella che è il nostro teatrino. Da settembre siamo impegnati in un nuovo progetto: il titolo - provvisorio - è Humanities, andrà in scena qui nella Fortezza a luglio. Leggiamo, ragioniamo, ci confrontiamo, cerchiamo di capire che forma dare. Piano piano ci avviciniamo alle prove, arrivano i collaboratori, ci si occupa dei costumi, delle scenografie, realizziamo dei plastici. Ma le conversazioni sono un po’ a 360 gradi: spesso riprendiamo in mano un libro che ci guida dal principio, Il verbo degli uccelli, il poema sufi di Farid aldin ‘Attar. Mostra - in estrema sintesi - che il senso dell’esistenza sta nel viaggio, nell’affrontare le difficoltà evolvendo. Naturae, che il 15 giugno inaugurerà la Biennale La genesi di di Venezia 2023? Naturae è la conclusione di un percorso durato otto anni. Siamo partiti dai testi di Shakespeare con uno sguardo critico: tanto di cappello al drammaturgo, ovvio, ma perché ritenere “straordinario” il fatto che quei personaggi, quegli intrighi sembrino rispecchiarci ancora completamente? Ti chiedi: allora, non si può cambiare? Di qui il nostro Dopo la Tempesta, in cui un capocomico ripensa agli allestimenti del passato e conclude che bisogna togliere dalla scena questo tipo di umanità e immaginarne una diversa. Finiva con lui che si allontana per mano a un bambino. Dieci giorni dopo l’ultima replica, ci siamo chiesti: ma dove stanno andando, i due? È solo una bella trovata? E cosa avete concluso? Ci siamo buttati sui racconti di Borges, un autore che richiede sforzo intellettuale, non adesione “di pancia”. Dopo due anni, ne è emerso Beatitudo. Abbiamo creato questo grande lago nel cortile del carcere... Magnifico! Però poi la stessa domanda: e ora, dove si va? Dopo quattro anni siamo arrivati a Naturae, la valle della permanenza, dove “naturae” sta per le varie parti dell’essere umano che vanno scoperte e attivate per giungere a una felicità permanente. Per un passaggio dall’homo sapiens all’homo felix. La sua “felicità permanente”? Stare dentro questo percorso creativo. Non si tratta della felicità come la intendiamo di solito, che in un attimo arriva e in un attimo se ne va. Siamo sempre giustificati a guardare il peggio: e perché la società ci aggredisce e perché non abbiamo soldi e perché la politica e perché la guerra... Vogliamo fermarci a questo o cercare altro? A furia di guardare il peggio, diventi il peggio e, inevitabilmente, lo riproduci. Se la realtà è terribile, nel teatro non dobbiamo rincorrerla per copiarla: dobbiamo produrre altra realtà, sognare un uomo nuovo. Nessun costo personale in una routine da recluso volontario? Mi ritengo fortunatissimo ad aver incontrato la cultura, il carcere ed essermi prestato a “Un’idea più grande di me” (è il titolo scelto per il libro-conversazione scritto con Rossella Menna per Luca Sossella Editore, ndr), che non finirà con me. Scommettiamo che ha già un altro obiettivo da realizzare. Una tournée in Europa della Compagnia della Fortezza (i maggiori festival ce lo chiedono dal 1992, persino la regina d’olanda ci ha invitati!) tecnicamente è possibile: se siamo in Francia o in Germania, gli attori-detenuti possono rientrare a dormire nel carcere locale, come capita durante le trasferte italiane. La questione è politica. “Non ho ucciso nessuno”. Ecco la verità del giovane Gabriel di Valentina Stella Il Dubbio, 11 marzo 2023 “Gabriel. Non ho ucciso nessuno” (Round Robin Editrice, euro 12) è il titolo del nuovo libro di Fabrizio Berruti, giornalista e autore tv. Gabriel è Gabriel Natale Hjorth, ragazzo di 18 anni, padre italiano e madre americana, condannato insieme all’amico Finnegan Lee Elder per la morte del vice brigadiere Mario Cerciello Rega avvenuta il 26 luglio del 2019. Si tratta di un libro intervista che, per la prima volta, raccoglie la testimonianza diretta di quella notte. A parlare sono familiari e amici, ma è soprattutto Gabriel, chiuso tra le sbarre in attesa di una possibile condanna definitiva in Cassazione (mercoledì prossimo ci sarà l’udienza), che ricostruisce le ore precedenti e successive all’omicidio del carabiniere. L’autore, grazie alle testimonianze raccolte, descrive quella terribile notte e le ore che l’hanno preceduta come il “il classico momento sliding doors”. Il giovane, che era venuto in Italia per trascorrere le vacanze con i nonni a Fregene, si è trovato dinanzi a più di un bivio in quei giorni e quella notte condivisa all’ultimo con Elder: una notte di divertimento e di svago diventa una notte di morte, dove a rimetterci la vita è stato un carabiniere che stava facendo il suo lavoro, durante una operazione definita dai giudici di Appello “sicuramente anomala”. Ma anche le famiglie dei due giovani improvvisamente vedono la loro vita sconvolta. Una prima condanna all’ergastolo e poi in appello una riduzione a 24 e 22 anni. A pugnare Cerciello Rega è stato Elder, Gabriel ripete: io “non ho ucciso nessuno”. Lo ha scritto anche in una lettera indirizzata alla vedova che chiude il libro di Berruti: “Non sono perfetto, ma non sono un killer. Signora, mi dispiace moltissimo per il suo dolore, ma se mi guarda negli occhi, senza voglia di vendetta cieca, e ha ascoltato con il cuore la logica dei fatti e le prove, come può accettare che io sia qui? Questa è una ingiustizia, anche se non piango in aula, davanti alle telecamere o sotto i flash dei giornalisti”. Il ragazzo, come si ricorda nel libro, “non sapeva che l’altro ragazzo fosse armato e non si è reso conto di quello che stava succedendo tra Elder e Cerciello”. In più non aveva capito di aver davanti dei carabinieri, perché non mostrarono loro il tesserino (“l’esibizione dei tesserini rimane affidata solo alle dichiarazioni del Varriale con il dubbio di un intervallo temporale insufficiente per prelevare i documenti, mostrarli a distanza e poi riporli per procedere al contatto fisico” si legge nella sentenza di appello). Secondo Berruti, invece, che ha ascoltato tutte le udienze su Radio Radicale, “si è avuta la netta impressione che Gabriel si trovi nella condizione di dover combattere contro una presunzione di colpevolezza, anziché poter affrontare il processo con la presunzione di innocenza a cui tutti hanno diritto nelle aule di giustizia”. A condividere il senso di ingiustizia, ci sono i familiari di Gabriel - la mamma Heidi, il papà Fabrizio, lo zio, i nonni - che si raccontano senza filtri a Berruti. “Nella mia testa questo non è giusto - scrive Heidi - perché è innocente. Non ci si abitua mai. Sono una mamma”. Mentre per il padre Fabrizio “i processi non sono stati rispettosi delle ragioni, delle evidenze, delle prove portate dalla difesa”. Giornalismo. Le querele-bavaglio sono una vergogna per la democrazia di Walter Verini Il Domani, 11 marzo 2023 Sono molti i paesi nei quali la libertà di stampa è minacciata, colpita e il diritto all’informazione non è garantito. Sono innanzitutto dittature, regimi autoritari, autocrazie, “democrature”, dove sempre più spesso giornali, radio e tv, siti online vengono chiusi, i giornalisti minacciati, incarcerati. A volte uccisi. Nelle democrazie non siamo certamente a questi livelli. E tuttavia anche nei sistemi democratici, anche nel nostro paese ci sono fatti e segnali che non possono e non debbono essere sottovalutati. La crisi dell’editoria è pesante. Colpisce innanzitutto le piccole aziende editoriali, i giornali locali, ma anche le grandi aziende editoriali, che fanno capo del resto - più o meno tutte - a gruppi economico-finanziari, gruppi industriali. E il Risiko di vendite, trattative, boatos, che ridisegna nuove geografie del potere editoriale, oltre a non essere rassicurante per la piena autonomia dell’informazione, lascia intravvedere un aumento di rischi legati alla precarizzazione della professione e alla tutela dell’occupazione. Questi rischi aumentano in modo esponenziale per organi e testate locali, per tantissimi giornalisti - giovani, freelance - minando alla radice la libertà del loro lavoro, a partire da quello del giornalismo d’inchiesta, e il diritto dei cittadini ad essere informati. Per questo occorre intervenire. Raccogliere appelli e allarmi che, per esempio, anche il recente congresso della Federazione nazionale ha rilanciato. Altre vicende generano inquietudine e minano la libertà di stampa. Iniziative giudiziarie - Alcune discutibili iniziative della magistratura (la perquisizione a Domani è l’ultima in ordine di tempo) minacciano la tutela della riservatezza delle fonti. Permangono iniziative giudiziarie contro giornali e giornalisti da parte di personalità del governo, a partire dalla presidente del Consiglio. O di esponenti politici nei confronti di trasmissioni d’inchiesta, Report su tutte. Sono sempre più frequenti gli attacchi, anche fisici, nei confronti di videomaker, giornalisti, troupe, durante manifestazioni che quasi sempre hanno connotati estremistici di destra o No-vax nel recente passato e anche, nei giorni scorsi, durante iniziative di frange “anarchiche”. Ed è sempre troppo alto il numero dei giornalisti costretti a vivere sotto scorta perché minacciati dalle mafie, dalla criminalità organizzata, da ambienti neonazisti (come Paolo Berizzi). Ed è in aumento il fenomeno delle querele temerarie, a scopo intimidatorio. Colpiscono per di più giornalisti investigativi, giornalisti d’inchiesta. E lo scopo è solo quello, chiarissimo, sintetizzato con il termine “querele-bavaglio”. È anche per questi motivi che come Pd abbiamo rilanciato iniziative legislative su questi temi. A inizio legislatura abbiamo ripresentato in Senato una proposta di legge (Verini, Mirabelli, Rossomando, Bazoli) che cancella innanzitutto il carcere per i giornalisti, retaggio del Codice Rocco, vergogna di un sistema democratico. E poi introduce paletti e deterrenze per combattere il fenomeno delle querele temerarie. A questa si è aggiunta nei giorni scorsi un’altra importante iniziativa (Martella, Verini ed altri), ancora più incisiva ed organica. Alla Camera sono state annunciate iniziative analoghe da esponenti del Pd come Chiara Gribaudo. Anche da destra, nei giorni scorsi, sono arrivate proposte come quella di FdI, che a una prima lettura appaiono rappresentare una sorta di “minimo sindacale” contro il carcere. A incoraggiare la necessità di non perdere ulteriore tempo, di non ripetere i cincischiamenti e - di fatto - gli ostruzionismi del passato, sono arrivate le parole chiare e forti del presidente Mattarella e quelle del presidente dell’Agcom. Presidio di libertà - Le proposte di legge contengono, naturalmente, anche diverse modalità di tutela del cittadino effettivamente minacciato, diffamato, offeso nella sua reputazione da articoli, titolazioni, campagne di stampa. Anche queste sono frequenti: macchine del fango, manganelli mediatici, ma anche più banale diffamazione effettivamente compiuta a mezzo stampa. Ed è giusto che, insieme, vengano tutelati il diritto di un cittadino a non essere diffamato e quello della libertà di informazione e del diritto di cronaca. È una battaglia che continueremo a combattere, auspicando che l’impegno parlamentare si sintonizzi con mobilitazioni e iniziative nel paese, nelle redazioni. Fnsi e Ordine dei giornalisti, associazioni come Articolo 21, Ossigeno e Liberainformazione si battono da anni, ogni giorno, per questi obiettivi. Il cui raggiungimento rappresenterebbe non un successo di categoria, ma un presidio costituzionale di libertà e democrazia. Salute. Boom di psicofarmaci tra gli adolescenti di Caterina Stamin La Stampa, 11 marzo 2023 Facili da trovare su Internet, sono in fortissimo aumento e al di fuori del controllo dei medici: c’è chi li usa contro l’ansia, chi come droga e chi per migliorare le prestazioni a scuola. Basta scavare nel cassetto del nonno, nell’armadietto delle medicine dei genitori o fare una veloce ricerca su Google. C’è anche chi poi si scomoda un po’ di più e si rivolge al farmacista, con o senza ricetta. Tra i giovani è aumentato il consumo di psicofarmaci: trovarli è semplice e giustificarne l’uso improprio ancora di più. Ma buttarsi tra le braccia della chimica non è quasi mai la soluzione. A sottolinearlo è Giuseppe Maina, professore ordinario di Psichiatria all’Università di Torino e direttore dell’unità complessa di psichiatria dell’ospedale San Luigi Gonzaga di Orbassano. Specialista in disturbi depressivi, riconosce come mai come in questi anni sia aumentata la non solo la “prescrizione da parte di specialisti di psicofarmaci”, ma anche l’abuso al di fuori delle indicazioni mediche. Complice, ovviamente, la pandemia. “La prima cosa che spinge i giovani a fare uso di psicofarmaci è la falsa credenza che risolvano i conflitti, ma è sbagliato: servono a curare dei disturbi, i problemi esistenziali non si annullano con i farmaci”. Il secondo punto, aggiunge l’esperto, “è che con lo psicofarmaco oramai si cerca una droga a buon prezzo, c’è la tendenza ad assumerli per lo sballo. Poi, ma in minoranza, a volte i giovani li prendono per tentare di migliorare le prestazioni scolastiche o sportive: cercano degli eccitanti, ma è un consumo improprio e sbagliato”. La facilità a reperirli non aiuta. “È possibile - prosegue Maina - che i giovani abbiano questi farmaci perché magari li trovano in casa. Nei casi più raffinati, temo che qualcuno li trovi in vendita su internet. I farmacisti non dovrebbero darli senza ricetta e sono abbastanza attenti, ma chi lo sa”. I rischi di assumere farmaci fuori dal contesto medico sono “effetti collaterali al fegato o ai reni - sottolinea Maina -. Alcuni farmaci possono ridurre molto le capacità di reagire e di avere i riflessi pronti, quindi si rischia alla guida dell’auto, per esempio”. In questo quadro allarmante giocano un ruolo centrale e moltiplicatore i social. “Per molti sono la fonte di informazione e comunicazione prevalente”, evidenzia Maina, che riconosce però anche l’aspetto positivo: possono aiutare a sdoganare tabù e a far crescere nei ragazzi la consapevolezza che si può far qualcosa per i propri disturbi. “È bene che si parli di depressione, come di qualsiasi altro disturbo. Ma bisogna sperare che passino informazioni corrette e la scuola potrebbe essere il luogo più giusto dove parlarne”. Immigrazione clandestina, nel decreto legge nuovo reato in caso di morte o lesioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 marzo 2023 Il decreto legge prevede pene da un minimo di 10 ad un massimo di 30 anni di reclusione. Più veloce l’espulsione a seguito di condanna; si snellisce la procedura per il nulla osta al lavoro subordinato. Il Consiglio dei Ministri riunitosi il 9 marzo 2023, presso l’Aula consiliare del comune di Cutro (Crotone) ha approvato un decreto-legge che introduce il nuovo reato di “morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina”, che prevede pene molto gravi: da 10 a 20 anni per lesioni gravi o gravissime a una o più persone; da 15 a 24 anni per morte di una persona; da 20 a 30 anni per la morte di più persone. Il Dl - “Disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare” - è stato proposto del Presidente Giorgia Meloni e dai Ministri dell’interno, Matteo Piantedosi, della giustizia, Carlo Nordio, del lavoro e delle politiche sociali, Marina Calderone, degli affari esteri e della cooperazione internazionale, Antonio Tajani, dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, Francesco Lollobrigida e per la protezione civile e le politiche del mare Nello Musumeci. La conferenza stampa che ne è seguita si è svolta in un clima teso con Giorgia Meloni contestata sulla ricostruzione degli eventi del naufragio del 26 febbraio scorso, incalzata dalle domande dei giornalisti sul perché non siano uscite le motovedette della Guardia costiera. “Qualcuno pensa davvero che il governo o le istituzioni italiane non hanno fatto qualcosa che avrebbero potuto fare?”, chiede la premier. “No”, rispondono i giornalisti. E per Meloni “questo è già un passo avanti”. Ma gli inviati e i corrispondenti locali continuano a non essere soddisfatti dalle risposte della Meloni, che fa confusione sui tempi dell’intervento e sulle miglia di distanza del barcone dalla costa. Le nuove norme, si legge nel comunicato di Palazzo Chigi, “rafforzano gli strumenti di contrasto ai flussi migratori illegali e all’azione delle reti criminali che operano la tratta di esseri umani, semplificano le procedure per l’accesso, attraverso canali legali, dei migranti qualificati”. Si tratta del secondo reato introdotto dal Governo in carica con un decreto legge nel giro di 6 mesi. Il primo, introduceva invece il reato specifico di organizzazione e partecipazione ai rave party, punibile con pene fino a sei anni di reclusione, inserendo nel codice penale l’articolo 434-bis. Espulsioni - Ma il Dl prevede anche altre misure illustrate dalla nota del Governo. Si elimina per esempio la necessità di convalida del giudice di pace per l’esecuzione dei decreti di espulsione disposti a seguito di condanna. Flussi - Cambiano anche le modalità di programmazione dei flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri. Le quote di stranieri da ammettere in Italia per lavoro subordinato saranno definite, non più solo per un anno ma per un triennio (2023-2025), con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, previo parere - tra l’altro - delle Commissioni parlamentari competenti. In via preferenziale, le quote saranno assegnate ai lavoratori di Stati che promuovo per i propri cittadini campagne mediatiche sui rischi per l’incolumità personale derivanti dall’inserimento in traffici migratori irregolari. Titoli di ingresso - Previste anche modifiche alle norme sui titoli di ingresso e di soggiorno per lavoro subordinato di cittadini stranieri. Si semplifica l’avvio del rapporto di lavoro degli stranieri con aziende italiane e si accelera la procedura di rilascio del nulla osta al lavoro subordinato, anche per esigenze di carattere stagionale. Programmi di formazione - Ingressi fuori quota per stranieri che hanno superato, nel Paese di origine, i corsi di formazione riconosciuti dall’Italia, che saranno promossi dal Ministero del lavoro. Durata del permesso di soggiorno rinnovato - I rinnovi del permesso di soggiorno rilasciato per lavoro a tempo indeterminato, per lavoro autonomo o per ricongiungimento familiare avranno durata massima di tre anni, anziché due come oggi. Priorità alle aziende/lavoratori agricoli - Si stabilisce che i datori di lavoro che hanno fatto domanda per l’assegnazione di lavoratori agricoli e non sono risultati assegnatari abbiano la priorità rispetto ai nuovi richiedenti. Contrasto alle agromafie - Al fine di proteggere il mercato nazionale dalla criminalità agroalimentare, il personale dell’Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari, inquadrato nell’area delle elevate professionalità e nell’area funzionari, ha la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria; il restante personale inquadrato nell’area assistenti e nell’area operatori è agente di polizia giudiziaria. Centri per migranti - Si introducono norme per il commissariamento della gestione dei centri governativi per l’accoglienza o il trattenimento degli stranieri, e comunque per farne proseguire il funzionamento. Si prevede la facoltà, in sede di individuazione, acquisizione o ampliamento dei centri di permanenza per i rimpatri (CPR), di derogare al codice dei contratti pubblici, consentendo una maggiore speditezza nello svolgimento delle procedure. L’efficacia della deroga è limitata fino al 31 dicembre 2025. È fatto, comunque, salvo il rispetto delle disposizioni del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione. Protezione speciale - Si definisce meglio la protezione speciale per evitare interpretazioni che portano a un suo allargamento improprio. Con norma transitoria si prevede che la nuova disciplina operi dall’entrata in vigore del decreto-legge. Migranti. Il dl non ferma gli sbarchi ma la stretta sui diritti rischia di creare “nuovi clandestini” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 11 marzo 2023 Più di 50 approdi a Lampedusa in 24 ore. Per l’avvocato ed esperto di diritto d’asilo Vassallo Paleologo “si è scelto ancora una volta di affrontare il tema migratorio con gli strumenti del controllo e della repressione”. Il decreto Cutro non ferma gli sbarchi. In ventiquattro ore nella sola Lampedusa sono arrivate cinquanta imbarcazioni, mentre tutto il Mediterraneo pullula di profughi in difficoltà che chiedono aiuto. Ieri, tra Calabria e Sicilia, sono state impegnate in operazioni di soccorso ben otto mezzi della Guardia costiera e le navi della Marina militare Diciotti e Sirio tornate finalmente a svolgere servizio di salvataggio in mare. La sola Diciotti è riuscita infatti a mettere al sicuro ben 480 persone in difficoltà. È questo il quadro a due giorni dal Cdm calabrese. Un giorno cupo, in cui si registra anche il recupero del corpo della 73esima vittima accertate di Cutro: è un bambino dell’età approssimativa di 5 anni, morto a pochi metri dalla costa. Hanno avuto per fortuna una sorte diversa i 42 migranti che nella notte tra il 9 e il 10 marzo sono finiti in mare a largo di Lampedusa: anche il loro barchino è affondato ma sono stati tratti tutti in salvo da un peschereccio tunisino e dagli uomini della Guardia costiera. Per fermare un esodo del genere non basterà un decreto come quello licenziato deu giorni fa dal governo. Una serie di norme con cui “si è scelto ancora una volta di affrontare il tema migratorio con gli strumenti del controllo e della repressione”, spiega Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato esperto di diritto d’asilo, convinto che la caccia agli scafisti sbandierata dall’esecutivo sia solo “una dichiarazione propagandistica”. Non nel merito ma nel metodo. Provare a smantellare la rete dei trafficanti è legittimo “ma presupporrebbe accordi con i Paesi dai quali questi trafficanti provengono e in cui vivono tranquillamente”, spiega l’avvocato, che prova ad analizzare i punti più vulnerabili del decreto. “Un conto è fare accordi con alcuni governi per bloccare le partenze, un altro stringere alleanze per contrastare organizzazioni criminali che in alcuni paesi operano indisturbate”, dice Vassallo Paleologo, perplesso anche sulla possibilità italiana di esercitare una giurisdizione in Paesi “che non riconoscono nemmeno l’estradizione verso l’Italia, come nel caso di Egitto e Sudan”. Ma uno dei punti più delicati del nuovo pacchetto di norme, secondo l’avvocato, riguarda l’intenzione di limitare, “se non abolire, la protezione umanitaria”, un tipo di tutela che, “secondo una giurisprudenza italiana consolidata, è applicazione dell’articolo 10 della Costituzione, che prevede una formula più ampia di protezione anche per chi tecnicamente non avrebbe diritto all’asilo”. L’elenco delle criticità, però, non si esaurirebbe qui. Tra le novità varate dal governo a Cutro c’è anche “l’eliminazione della necessità di convalida da parte del giudice di pace per l’esecuzione dei decreti di espulsione disposti a seguito di condanna”, si legge nel comunicato riepilogativo di Palazzo Chigi. “La riduzione delle garanzie procedurali sul terreno dei ricorsi contro decisioni negative rischia di trasformare in irregolari persone che avrebbero avuto diritto a rimanere in Italia quantomeno fino alla fine del procedimento. Rendere più veloci le espulsioni non serve a nulla”, spiega ancora Fulvio Vassallo Paleologo, convinto che una contrazione dei diritti produca solo clandestinità. Del resto, questo provvedimento non fa altro che inserirsi all’interno di un percorso molto lungo iniziato “col decreto Minniti- Orlando del 2017 che prevedeva il taglio dell’Appello per i ricorsi contro diniego dello status di rifugiato”. Da questo punto di vista, “Meloni e Salvini non hanno inventato nulla”. Ma rendere più veloci le espulsioni “non serve a nulla”, insiste l’avvocato. “Per rendere efficaci le espulsioni bisogna ottenere la collaborazione dei Paesi d’origine, non con di quelli di transito. Per essere chiari, la Libia non accetterebbe mai di farsi carico di un sudanese o un nigeriano espulso dall’Italia. È un problema ben noto in tutti i Paesi europei”, aggiunge Vassallo Paleologo. E intanto, mentre scriviamo, Oltre mille persone sono in pericolo al largo delle coste della Calabria. Tre motovedette della Guardia costiera stanno intervenendo per prestare soccorso. Perché un’altra Cutro non si ripeta più. Migranti. La stretta del governo sulla “protezione speciale” di Paolo Decrestina Corriere della Sera, 11 marzo 2023 Che cos’è? Chi sono i 10 mila migranti che l’hanno ottenuta e perché ora si vuole ridurla? È la terza forma di richiesta di asilo in Italia dopo lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria. L’ha istituita il decreto Salvini del 2018 ed è stata “allargata” da Lamorgese nel 2020. Ora l’esecutivo ha deciso una nuova stretta. Una stretta sulla concessione della “protezione speciale”. Tra le misure varate dal governo nel nuovo decreto sull’immigrazione compare anche una revisione di questa forma di accoglienza: l’obiettivo - spiega il governo - è “abolirla” per sostituirla con misure in linea con la normativa europea. Una scelta che va nella direzione intrapresa nel 2018 dal primo decreto Salvini che già all’articolo 1 cancellava il permesso di soggiorno per motivi umanitari per rimpiazzarlo con la formula della “protezione speciale”. Ma di cosa si tratta? Chi può chiederla e quanti ne hanno beneficiato? Come si ottiene la protezione internazionale in Italia? Fino al 2018 in Italia la protezione internazionale poteva essere riconosciuta al richiedente asilo in 3 casi: per chi otteneva lo status di rifugiato, per la protezione sussidiaria e per la protezione umanitaria. Questa terza forma è stata cancellata nel 2018 con il primo decreto sicurezza dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. Quel provvedimento aveva abolito la protezione umanitaria offerta a chi non riceveva lo status di rifugiato né la protezione sussidiaria ma che al contempo non poteva essere allontanato dall’Italia. Il testo però, all’articolo 1, prevedeva la nascita di una nuova formula, la protezione speciale appunto: in questo caso i criteri per ottenerla erano molto restrittivi (per esempio una malattia o una calamità nel Paese di origine). Che cosa cambia con il ministro Lamorgese? Nel 2020, il governo Conte II con la ministra Luciana Lamorgese aveva nuovamente allargato le maglie della protezione speciale, consentendo a specifiche Commissioni territoriali e ai magistrati di riconoscere una forma di protezione più aderente al caso specifico della persona. Da quel momento viene insomma rilasciato un permesso di soggiorno al richiedente asilo che non possiede le caratteristiche per ottenere la protezione internazionale ma che, per la Commissione Territoriale è un soggetto “a rischio”. Questa normativa è quella tuttora in vigore e su cui interviene il nuovo decreto annunciato dal governo dopo il consiglio dei ministri a Cutro. Quali sono i requisiti per ottenere la protezione speciale? La protezione speciale interviene per difendere il migrante dall’espulsione o dal respingimento verso un Paese ostile, in cui rischia di essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di orientamento sessuale, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche e di condizioni personali e sociali. Inoltre si tiene conto anche delle situazioni nelle quali il cittadino straniero debba essere estradato verso uno Stato nel quale ci sia il timore che possa incorrere in trattamenti inumani, tortura o violazioni dei diritti umani. Quanti hanno ottenuto questo tipo di protezione? Nel 2022 sono stati 10.865 i beneficiari di protezione speciale, il numero più alto tra le tre tipologie di protezione (come detto status di rifugiato e protezione sussidiaria). Le domande accolte per questa tipologia sono salite del 5% rispetto all’anno precedente. Secondo i dati dell’ultimo rapporto del Cir, il Consiglio italiano per i rifugiati, nel 2022 sono state esaminate in Italia 52.625 richieste di protezione internazionale e i rifiuti sono stati il 53% (27.385). Ha ricevuto la protezione speciale il 21% dei richiedenti (10.865), lo status di rifugiato il 12% (6.161), la protezione sussidiaria il 13% (6.770). Immigrazione clandestina, il problema non sono gli “scafisti” di Gian Domenico Caiazza* Il Sole 24 Ore, 11 marzo 2023 Gli organizzatori di questi indegni e lucrosi traffici si guardano bene, come dovrebbe d’altronde essere chiaro o almeno facilmente intuibile, anche solo dal mettere un piede su quei barconi della disperazione. A chi abbia seriamente voglia di capire bene chi siano davvero i c.d. “scafisti”, suggerisco di leggere una inchiesta molto utile e documentata, pubblicata lo scorso ottobre e realizzata da Arci Porco Rosso e Alarm Phone con la collaborazione di Borderline Sicilia e Borderline Europe. Nella comune vulgata sul fenomeno migranti, la figura dello scafista - cioè colui che guida il barcone carico di poveri sventurati e lo porta a destinazione- si sovrappone e si confonde con quella del trafficante di esseri umani. In realtà gli organizzatori di questi indegni e lucrosi traffici si guardano bene, come dovrebbe d’altronde essere chiaro o almeno facilmente intuibile, anche solo dal mettere un piede su quei barconi della disperazione. Ed è altrettanto ovvio che i membri di quelle associazioni criminali che mettono in mare i barconi, stipati all’inverosimile, guidandoli nel primo tratto del percorso, si guardano bene a loro volta dal condividere con i “clienti” i rischi altissimi della traversata. I veri, unici “scafisti” che meriterebbero di essere individuati e severamente puniti sono proprio costoro, che imbarcano esseri umani ben oltre ogni ragionevole capienza e “scortano” i barconi fino a varcare i limiti delle acque territoriali del Paese di partenza (Libia, Turchia, eccetera), per poi tornarsene bellamente a casa, sui loro potenti motoscafi, abbandonando quei disperati al loro incerto destino. Ma è chiaro che questi criminali, al pari degli armatori, cioè dei reclutatori dei migranti, noi in Italia non li abbiamo mai visti, né mai li vedremo, nemmeno in fotografia. Se ne stanno comodamente a casa loro, a contare i pacchi di banconote che lucrano sulla pelle di donne e uomini disperati. Dunque, questo nostro digrignare i denti, che già si annuncia con i soliti squilli tromba (“la stretta sugli scafisti”, “pene più severe per gli scafisti”, “nuovi reati contro gli scafisti”), serve giusto giusto per poter scrivere questi titoli sui giornali all’indomani dell’ennesima tragedia, mentre a quei criminali non fa nemmeno il solletico. La documentata ricerca di cui vi dicevo ci aiuta a capire meglio, allora, chi siano gli “scafisti” che affrontano il viaggio, timonando i barconi fino a destinazione, e finendo spesso nelle mani dell’autorità giudiziaria italiana. Negli ultimi dieci anni sono stati fermati/arrestati/ indagati/ processati oltre 2500 “scafisti”. Posto che costoro non sono soliti indossare il cappellino da capitano, essi vengono normalmente individuati -con approssimazione facilmente intuibile- dalle dichiarazioni degli stessi migranti (e dei superstiti, quando accadono naufragi), che dicono “guidava Tizio”. Ora, nella grandissima parte dei casi “Tizio” -ammesso che fosse davvero lui a timonare- è un migrante come gli altri, che per le più varie ragioni (ed essendo capace di guidare un natante) si è dichiarato disposto ad accettare l’incarico della associazione criminale di condurre il barcone. Generalmente, è facile immaginare che questo accada per ottenere uno sconto sul costo del viaggio; o altrimenti, sono disperati disposti a rischiare la vita (ed il carcere in Italia) per guadagnare qualcosa. Per questi scafisti, cioè quelli che finiscono nelle nostre mani e che vengono spesso individuati con larghissimi margini di incertezza, è già prevista una pena molto alta dall’art. 12 del Testo Unico Immigrazione. La ipotesi base, infatti, punita fino a cinque anni di reclusione, è del tutto irrealistica. Basta che le persone trasbordate siano più di cinque, cioè la normalità del fenomeno, per far scattare l’ipotesi aggravata, con pena da un minimo di cinque ad un massimo di quindici anni, per il solo fatto di aver timonato il barcone. Se poi c’è naufragio, a maggior ragione come a Cutro dove pare certo che gli scafisti abbiano azzardato una manovra sciaguratamente rischiosa, si contesterà a costoro anche (almeno) l’omicidio colposo plurimo. Dunque, una aspettativa punitiva già altissima, senza alcun bisogno di novità normative. Nel nostro Paese, ogni volta che accade un fatto grave, una sciagura che colpisce la pubblica opinione e che magari interroga anche possibili responsabilità istituzionali, si riesce ad immaginare una sola risposta: la introduzione di nuove figure di reato, o l’innalzamento delle pene previste per i reati già esistenti. È un riflesso puramente populista, da sempre patrimonio comune dei governi di qualsivoglia colore politico, che usano il diritto penale non per raggiungere un seppur minimo e concreto risultato in termini di maggiore sicurezza sociale, ma per lanciare tramite la narrazione mediatica il messaggio di uno Stato che reagisce con implacabile severità. Qualcuno di voi pensa seriamente che il migrante che si rende disponibile a guidare il barcone perché altrimenti non avrebbe il denaro sufficiente per imbarcarsi, o il disperato che non sa come altrimenti guadagnare nella vita, potranno recedere dal loro intento quando verranno a sapere (da chi, poi?), che la pena che sta rischiando non è più di 15, ma di 20 anni? Ma tant’è, inutile parlarne: assisteremo alla consueta liturgia dello “Stato che reagisce con fermezza”, celebrata da telegiornali e testate compiacenti; e saremo tutti più tranquilli. *Presidente Unione delle Camere penali - Post pubblicato su Facebook Migranti. Bonino: “Dal governo misure tardive e disumane, sono la caricatura della linea Salvini” di Giovanna Casadio La Repubblica, 11 marzo 2023 Intervista all’ex ministra degli Esteri: “Ora Conte e i 5Stelle prendano le distanze dai decreti sicurezza gialloverdi. Europa assente? No, la colpa è dei Paesi sovranisti gelosi e miopi”. Emma Bonino, ex ministra degli Esteri ed ex commissaria Ue, il governo a Cutro ha deciso misure sui migranti, dopo la tragedia del naufragio: come le giudica? “Per la precisione il Consiglio dei ministri a Cutro, sul luogo della strage, non ha messo piede. E a Crotone, il governo ha preso misure sui migranti che sono solo uno spot. È stato un gesto tardivo, in cui non c’è traccia di umanità. Né c’è alcuna intenzione di favorire l’immigrazione regolare, che il governo nei momenti di maggiore difficoltà dei giorni scorsi aveva annunciato, seppure in modo contraddittorio. Anzi, se si restringeranno le maglie della protezione speciale, avremo ancora più irregolari nel nostro Paese. È un ritorno caricaturale della linea Salvini”. Ma il decreto varato prevede la caccia senza quartiere agli scafisti. Potrebbe essere una misura efficace? “Nel mondo intero, a sentire le parole della presidente del Consiglio. Le definirei, come hanno fatto autorevoli giuristi, norme-manifesto, peraltro di difficile applicazione e incoerenti con il nostro codice. Nessuno si è mai sognato di assolvere i trafficanti di esseri umani, ma vi sembra che i fenomeni migratori mondiali e le loro conseguenze che arrivano fino alle nostre coste possano essere governati con il codice penale?”. La premier Meloni ritiene strumentale accusare l’esecutivo per il naufragio di Cutro, ma quali sono le responsabilità? “Cosa c’è di strumentale nel chiedere chiarezza su un naufragio in cui hanno perso la vita 73 persone tra cui decine di bambini? Le responsabilità giuridiche le accerterà la magistratura, ma quelle politiche sono sotto i nostri occhi”. Cosa non torna in quelle ore in cui il salvataggio non c’è stato? “Perché la Guardia costiera, che aveva i mezzi adeguati per intervenire, non è mai uscita per cercare quell’imbarcazione della cui presenza si sapeva da ore, così come si sapeva che le condizioni del mare andavano peggiorando? Chi aveva informato la guardia di Finanza? Un gabbiano? E perché alla Guardia costiera non è stato detto nulla? A queste domande va data una risposta”. Nel decreto del governo Meloni sono previsti più flussi regolari, che è anche la linea della proposta di legge ‘Ero straniero’ di cui lei è promotrice... “Sì, prevede che aumentino i flussi, che erano praticamente azzerati negli ultimi anni. Ma saranno comunque insufficienti. Non si vuole affrontare davvero il nodo della Bossi-Fini. Non si vuole creare un meccanismo più elastico che consenta a molte più persone di arrivare in sicurezza e a chi è già qui di regolarizzarsi a determinate condizioni, come chiede il deputato e segretario di +Europa, Riccardo Magi, ripresentando la proposta di legge ‘Ero Straniero’ e cercando di coinvolgere almeno tutta l’opposizione”. Anche Conte e i 5 Stelle dovrebbero essere della partita? “Sì, mostrando di avere evidentemente preso le distanze dai decreti sicurezza del governo giallo-verde, che Conte firmò”. Altri mille migranti arrivati ieri per fortuna sono stati soccorsi. Ma come si affronta il fenomeno migratorio? “Con pragmatismo, senza usarlo come una clava retorica e propagandistica che è quello che abbiamo visto fare negli ultimi anni dall’attuale destra di governo. Con umanità e senso della realtà, cogliendo tutti gli aspetti positivi e i benefici dell’integrazione. Ovvio non è facile, ma non c’è un’altra via”. L’Europa è la grande assente? “Non mi stancherò di ripeterlo: sono i Paesi membri che non hanno voluto e non vogliono assegnare alle istituzioni europee reali capacità e poteri sull’immigrazione e sui confini esterni. La gelosia miope degli Stati più o meno sovranisti, ha fatto sì che i poteri della Commissione siamo residuali e che tutte le proposte di una gestione unitaria dell’immigrazione siano state bocciate o depotenziate dal Consiglio”. Quale dovrebbe essere il primo passo europeo? “Serve una decisione politica: sull’immigrazione bisogna rinunciare al sovranismo e mettere in campo l’europeismo. Pensiamo alla Riforma del regolamento di Dublino, promossa dal Parlamento ma bocciata dagli Stati: che profughi e richiedenti asilo debbano rimanere nel paese di primo approdo è un non senso che genera illegalità e frustrazione. Pensiamo a operazioni tipo Mare nostrum con mezzi e budget adeguati gestite a livello comunitario. Pensiamo a meccanismi europei di ingressi legali per coloro che cercano lavoro”. Congo. Il padre di Attanasio: “Non voglio altri morti, Luca era contrario alla pena capitale” di Federico Berni Corriere della Sera, 11 marzo 2023 Il genitore dell’ambasciatore ucciso in Congo dopo la richiesta di condanna a morte della procura di Kinshasa: “Non ci interessano le vendette. Se davvero è stato un omicidio premeditato bisogna capire chi è il mandante”. “Aggiungere morte a morte non serve a nulla. Se non a portare altro dolore. Noi siamo contrari, Luca sarebbe stato contrario”. È l’unica certezza di Salvatore Attanasio in una vicenda, quella della morte del figlio Luca, l’ambasciatore ucciso in Congo nel febbraio 2021 assieme all’autista Mustapha Milambo e al carabiniere Vittorio Iacovacci, che presenta ancora tanti punti oscuri. A Kinshasa, la Procura ha chiesto la condanna a morte per i sei uomini imputati per l’omicidio del diplomatico. Nella Repubblica Democratica del Congo la pena capitale non viene applicata dal 2003 e la prassi vuole che sia modificata nel carcere a vita. Cosa le suscita questa possibilità? “Siamo contro la pena di morte. Lo dicono la nostra Costituzione, il nostro senso civico, la nostra formazione cattolica. Sono gli stessi principi in cui si identificava nostro figlio. La pena capitale non potrà mai alleviare il dolore della nostra famiglia”. Che cosa vi aspettate dal processo? “Quello che ci interessa non sono le vendette, ma la chiarezza. Il pm, in Congo, ha sostenuto che non si è trattato di un agguato né di un tentativo di rapimento degenerato, come ricostruito inizialmente, ma di una vera e propria esecuzione”. Può esserci il coinvolgimento di altre persone, secondo voi? “Se davvero si è trattato di un omicidio premeditato, allora bisogna capire chi è il mandante, sempre che non ce ne sia più di uno, e non fermarsi soltanto agli esecutori”. Chi avrebbe potuto volere la morte di suo figlio? “Questo non lo sappiamo. Lui lavorava a progetti umanitari, promuoveva la scolarizzazione e percorsi di recupero per bambini svantaggiati, non so se questo abbia potuto dare fastidio a qualcuno”. Come vi tenete aggiornati su un processo che si svolge in un Paese così lontano? “Siamo in contatto con gli avvocati del ministero degli Esteri, che stanno studiando gli atti per comprendere meglio tutti gli aspetti emersi”. Vede responsabilità nella preparazione della spedizione del Programma alimentare mondiale dell’Onu (Pam) in cui il 22 febbraio 2021 è stato ucciso suo figlio? “Il 25 maggio, a Roma, è prevista l’udienza preliminare nei confronti di due dipendenti del Pam (Rocco Leone e Mansour Luguru Rwagaza, organizzatori della spedizione accusati di omicidio colposo, ndr); confido che possano emergere molti aspetti chiarificatori”. Quanto è forte ancora l’emozione per vostro figlio, nella comunità in cui è cresciuto? “Oggi il ricordo di Luca vive con l’associazione “Mama Sofia”, fondata assieme alla moglie (Zakia Seddiki ndr), e agli “Amici di Luca Attanasio”, un altro gruppo nato per promuovere i valori dei suoi progetti umanitari. Fanno incontri con gli studenti. La comunità locale, qui in Lombardia, non lo ha dimenticato. Nel suo liceo gli hanno intitolato la palestra. A Limbiate, il paese dove viviamo noi genitori, dove è cresciuto e con cui non aveva mai reciso il legame, porta il suo nome la villa storica. A Rho hanno apposto una targa nel Giardino dei giusti. Luca non c’è più, la nostra vita è stravolta, ma il suo messaggio vive ancora”. Gran Bretagna. “Carcere e deportazione per i migranti”, la legge nasce già zoppa di Sabrina Provenzani Il Fatto Quotidiano, 11 marzo 2023 Secondo un sondaggio, l’immigrazione illegale è fra le prime preoccupazioni degli elettori Tories, quindi il partito punta sul pugno duro, anche se la norma viola trattati internazionali ed è palesemente discriminatoria. Il nuovo disegno di legge britannico sull’immigrazione, Illegal Immigration Bill, presentato alla Camera dei Comuni il 7 marzo dalla ministra dell’Interno, Suella Braverman, si basa sulla premessa che chiunque tenti di raggiungere le coste britanniche attraversando la Manica su imbarcazioni improvvisate, e gestite da scafisti, è un immigrato illegale. Di conseguenza, il ministro ha mandato di “rimuoverlo quanto prima possibile dal territorio”: è previsto un periodo di detenzione fino a 28 giorni in centri ancora da creare - si parla di requisire e riadattare caserme allo scopo - e poi la deportazione in Rwanda, con cui il governo in questo senso ha un accordo mai implementato per obiezioni legali - o in altro stato terzo. Non solo: ogni richiesta di asilo politico verrebbe considerata inammissibile a prescindere, ed a vita. Ora, i problemi di un approccio cosi evidentemente ideologico sono moltissimi. Il Guardian qui elenca le possibili violazioni del diritto internazionale. È insomma altamente probabile che questa legge da bava alla bocca, anche se approvata da un parlamento dove i Conservatori, malgrado la profonda crisi in cui versano, hanno ancora un’ampia maggioranza ereditata dalle elezioni per 2019, venga fermata in sede di ricorso legale, non solo per le violazioni dei principali trattati internazionali sui diritti umani ma anche per l’evidente e indiscriminato intento discriminatorio, visto che circa la metà degli sbarcati l’anno scorso venivano da paesi in guerra come Siria, Afghanistan, Etiopia, Sudan e quindi hanno, in linea di principio, diritto ad asilo politico. Il governo sostiene che la legge non viola il diritto internazionale, ma lo aveva detto anche per lo schema di deportazione in Rwanda. È quindi lecito pensare ad una manovra principalmente politica; secondo un recentissimo sondaggio, l’immigrazione illegale è fra le prime preoccupazioni degli elettori Tories. Il partito è in grave crisi di consenso a livello nazionale e, se vogliamo credere ai sondaggi, perderà malamente le elezioni del 2024 contro il Labour di Keir Starmer: ha quindi buon gioco ad alzare la posta e, in caso di no dei tribunali, a dare la colpa a fantomatici “avvocati di sinistra’, corti europee o giudici nemici del popolo. Siamo a questo livelli di cinica propaganda? Direi proprio di sì: guardate il degrado della comunicazione della Braverman, che evoca pubblicamente a prospettiva inesistente di una invasione di 100 milioni di persone. Quanto alla fattibilità del piano, ricordiamo che i ‘deportabili in linea di principio’ sono già 160mila, e insomma servirebbe un paese terzo molto grande e ben attrezzato per ospitarli tutti. Malgrado la scarsa fattibilità del progetto, il primo ministro Rishi Sunak approfitta di ogni occasione per mostrarsi inflessibile sull’immigrazione ‘illegale”: oggi è in Francia per siglare, insieme ad altri accordi, un nuovo contratto con i francesi, che da anni ricevono milioni per pattugliare le coste e intercettare i barconi diretti nel Regno Unito dalla Francia. Finora ha evidentemente funzionato malissimo e per il 2023 sono previsti 80mila sbarchi. Ma appunto mostrarsi durissimi verso dei poveracci in fuga da orrori di cui a volte l’occidente è anche complice è una scommessa elettorale che dal punto di vista del partito in rotta vale la pena giocare, invece di dedicare risorse sia all’accoglienza che al contrasto allo sfruttamento dei migranti e delle gang di scafisti che con quello si arricchiscono. Questioni di priorità.